Corso di mktg agroalimentare uni urbino

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Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” Facoltà di Economia Corso di Marketing agroalimentare Gervasio Antonelli Marketing dei prodotti agroalimentari tipici e di qualità Dispense per gli studenti del corso di Marketing agroalimentare Anno Accademico 2010-2011

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Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” Facoltà di Economia

Corso di

Marketing agroalimentare

Gervasio Antonelli

Marketing dei prodotti agroalimentari tipici e di qualità

Dispense per gli studenti del corso di Marketing agroalimentare

Anno Accademico 2010-2011

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Indice

1. Il concetto di prodotto agroalimentare tipico p. 2

2. La tipicità come elemento di differenziazione dei prodotti

agroalimentari p. 5

3. La regolamentazione dell’Unione Europea per le denominazioni p. 16

di origine (Dop) e le indicazioni geografiche (Igp)

4. Le produzioni Dop e Igp in Italia p. 18

5. L’organizzazione produttiva ed economica p. 21

6. La specificità della domanda di prodotti tipici p. 23

7. Dimensione dell’offerta e strategie di marketing p. 25

8. Modelli competitivi e strategie di sviluppo dei prodotti tipici P. 29

8.1. Tipologie di prodotto e struttura dell’offerta P. 29

8.2. Modelli e strategie di sviluppo p. 32

9. Prodotti tipici e sviluppo locale p. 39

Riferimenti bibliografici p. 41

Appendice

I prodotti tradizionali delle Marche (BUR Marche n. 100 del 5.10.2000) p. 44

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1. Il concetto di prodotto agroalimentare tipico

Il concetto di tipicità del prodotto agroalimentare è caratterizzato, in generale, da una

certa indeterminatezza derivante da uno scarso livello informativo sia dei consumatori

che degli stessi produttori di materie prime agricole e degli altri operatori della filiera. I

consumatori tendono ad associare il concetto di tipicità a valori più disparati (qualità del

prodotto, genuinità, origine geografica, lavorazione tradizionale, espressione di una

tradizione, cultura e storia di un territorio). I produttori spesso dimostrano di non avere

ben chiaro il concetto di tipicità e, soprattutto, come questa accezione possa essere

tradotta in strategie di marketing e di sviluppo dell’impresa (Nomisma, 2001). In realtà,

la tipicità costituisce, anche se solo allo stato potenziale, un importante strumento per la

differenziazione del prodotto basata sulla identificazione dell’immagine dello stesso con

le caratteristiche ambientali, storiche e culturali del territorio di provenienza. Va,

comunque, osservato che questa situazione si traduce in differenziazione effettiva solo se

percepita dal consumatore. In questa prospettiva il marketing ha un ruolo chiave per la

comunicazione al consumatore del valore della tipicità.

Per arrivare all’individuazione degli elementi che qualificano la tipicità dei prodotti

agroalimentari è necessario evidenziare, in primo luogo, che questa emerge dal legame

del prodotto con il territorio di origine sulla base della considerazione che alcune realtà

territoriali possiedono “saperi” consolidati nell’arco degli anni, oltre che risorse umane

e materiali che consentono di realizzare prodotti agroalimentari non massificati. In

questa impostazione, è implicito il fatto che il concetto di territorio di origine viene

assunto nella sua eccezione più ampia, e cioè non solo con riferimento alle variabili

strettamente ambientali (caratteristiche climatiche, podologiche, paesaggistiche, ecc.),

ma anche al know-how accumulato nel tempo circa le tecniche di produzione, nonché

le tradizioni storiche, culturali e istituzionali specifiche. In altri termini, per tipico si

intende tutto ciò che un determinato territorio, nell’accezione appena sopra richiamata,

veicola al prodotto rendendolo “unico” e non riproducibile con le stesse caratteristiche

in altri luoghi. Ciò fa sì che il concetto di tipico non possa essere attribuito

schematicamente a ciò che si produce in una certa area e, quindi, considerarlo semplice

sinonimo di locale. Infatti, per prodotto locale si intende tutto ciò che viene prodotto in

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un determinato luogo, pur senza essere legato alla sua cultura e tradizione (Idda,

Benedetto, Furesi, 2004).

Il concetto di prodotto agroalimentare tipico esclude, quindi, la possibilità che lo stesso

prodotto possa essere rinvenuto con le stesse caratteristiche in altre aree. Infatti, il

significato del termine tipicità implica la definizione di un prodotto contraddistinto da

caratteri unici, ben specifici, identificabili e ripetibili nel tempo. Un prodotto, cioè, che

presenti alcune caratteristiche peculiari, che vanno dalla sua collocazione all’interno della

tradizione e della cultura locale, alla localizzazione geografica dell’area di produzione,

alla qualità della materia prima e alle tecniche di produzione.

Una possibile schematizzazione degli elementi che concorrono alla definizione della

tipicità è riportata in tabella 1. Nel caso riportato, gli elementi che definiscono la tipicità

riguardano le caratteristiche richieste agli input di produzione e alle tecniche di

lavorazione relative alle materie prime agricole da utilizzare, alla fase di trasformazione e

a quella di stagionatura e di conservazione.

Tab. 1. Elementi della tipicità agroalimentare

Fonte: Elaborazione su Nomisma (2001)

Input di produzione Tecniche

Materie prime agricole

Trasformazione

Stagionatura,

conservazione

Razza, varietà, cultivar, tipo

di alimentazione

Salatura, tipo di caglio,

ingredienti

Trattamenti, lavorazioni, operazioni

colturali, modalità di raccolta

Parametri chimico-fisici di gestione,

tecnica di cottura, tecniche di

spremitura

Tempi di stagionatura, modalità di

conservazione

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Ora, dal momento che il carattere distintivo dei prodotti agroalimentari tipici è dato dalle

diverse componenti materiali e immateriali che il territorio veicola nei prodotti stessi,

l’intrecciarsi di questi attributi con un diverso legame con il territorio di riferimento dà

luogo a diversi livelli di tipicità. La stessa normativa dell’Unione Europea sulle

denominazioni di origine (Regolamenti (CEE) n. 2081/92 e n. 2082/92) definisce livelli

crescenti di specificità rispettivamente per Stg (Specialità tradizionale garantita), IGP

(Indicazione geografica protetta)1 e Dop (Denominazione d’origine protetta)

2. Ai prodotti

coperti dal marchio comunitario Dop o Igp si aggiungono, inoltre, quelli che, a vario

titolo, si propongono al consumatore come tipici, in quanto ad essi vengono associati

significati diversi che vanno dal generale attributo della qualità organolettica, all’origine

geografica delimitata, alla lavorazione tradizionale o artigianale, alla storia e alla cultura

locale (Nomisma, 2001).

La questione del livello di tipicità presenta anche aspetti di carattere economico che

investono le stesse opportunità di sviluppo del settore. Ci si riferisce alle capacità

competitive delle imprese e delle filiere, data la presenza di una generale correlazione

positiva tra vincoli previsti dalla normativa in materia e costi di produzione. Inoltre, il

rapporto fra produzione tipica e territorio dà luogo ad un sistema di interazioni e di

relazioni orizzontali e verticali (di filiera) complesse e articolate che investono sia aspetti

socio-economici che istituzionali. Infatti, in questi ultimi anni, il tema dei prodotti tipici

ha trovato ampio spazio nel dibattito più generale relativo allo sviluppo del settore

agroalimentare italiano. Il quadro analitico che emerge evidenzia le potenzialità di

sviluppo del sistema delle produzioni tipiche e lo stretto rapporto tra queste e lo sviluppo

agricolo e territoriale locale. Inoltre, dal momento che la tipicità costituisce un fattore di

differenziazione delle produzioni, questo sviluppo può essere realizzato, a differenza

1 Per Indicazione geografica protetta (Igp) si intende il nome di una regione, di un luogo determinato o, in

casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale

regione, di tale luogo determinato di cui una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica

possa essere attribuita all’origine geografica e la cui trasformazione e/o elaborazione avvengono nell’area

geografica determinata.

2 Per Denominazione di origine protetta (Dop) si intende il nome di una regione, di un luogo determinato o,

in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale

regione, di tale luogo determinato e la cui qualità o le caratteristiche siano dovute essenzialmente o

esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione,

trasformazione ed elaborazione avvengono nell’area geografica delimitata.

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delle produzioni di tipo commodity per le quali la competizione si realizza in termini di

prezzo, attraverso strategie non-price competition.

Dal momento che ciò che qualifica i prodotti agroalimentari tipici è il legame tra prodotto

e territorio di origine nelle sue diverse componenti, le caratteristiche sulle quali far leva

per una differenziazione del prodotto, sia di carattere psicologico che sostanziale, sono

molteplici, anche se tutte riconducibili alle specificità del territorio di cui il prodotto porta

il nome e si realizza. In questa prospettiva, si va dai fattori più strettamente ambientali e

fisici (caratteristiche climatiche, podologiche, ecc.) che conferiscono attraverso la materia

prima agricola qualità chimico-fisica e organolettica al prodotto finale, alle tecniche di

produzione derivanti dalle tradizioni e dal patrimonio tecnologico e istituzionale

accumulato negli anni, sino alla qualità immateriale connessa con l’immagine e le

componenti storiche, culturali e paesaggistiche del territorio stesso. Questi fattori

contribuiscono alla differenziazione del prodotto e a conferire allo stesso caratteristiche

distintive, come risultato dell’interazione di tre componenti proprie del territorio che

entrano in gioco nella realizzazione del prodotto tipico: l’ambiente fisico e il paesaggio;

le risorse umane e la tecnologia; la cultura e le istituzioni (Berni, Begalli, 1998).

Ai fini della valorizzazione delle produzioni tipiche, oltre alle strategia di marketing

messe in atti dalle imprese o dai sistemi di imprese, acquistano un ruolo di primaria

importanza anche le politiche di regolamentazione della qualità e di tutela giuridica delle

produzioni tipiche, quali quelle attuate con i Regolamenti (CEE) n. 2081/92 e n. 2082/92,

istitutivi dei marchi Dop e Igp. La funzione di questi marchi è triplice: tutelare i prodotti

da abusi, imitazioni e usurpazioni; tutelare i consumatori, attraverso la garanzia di

un’informazione affidabile circa i prodotti che acquistano; tutelare le zone rurali, il cui

sistema socio-economico spesso dipende dallo sviluppo di produzioni agroalimentari di

qualità e tipiche (Giacomini, Mancini, Menozzi e Cernicchiaro, 2007).

2. La tipicità come elemento di differenziazione dei prodotti agroalimentari

Il concetto di differenziazione del prodotto si riferisce, in termini generali, alla

disponibilità di beni che presentano caratteristiche intrinseche differenti, ma

caratterizzati da forte somiglianza e da legami di forte sostituibilità. Tuttavia, al di là di

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questa semplice definizione, il problema della differenziazione del prodotto si presenta

assai complesso in quanto investe sia le caratteristiche del prodotto sia il problema dei

segnali atti a far percepire al consumatore la differenza di un prodotto rispetto ad altri

della stessa categoria merceologica. Va sottolineato che ai fini delle strategie di

marketing è proprio quest’ultimo quello che conta maggiormente. Infatti, si può

osservare che, se il prodotto non è differenziato, la struttura di mercato in cui esso si

colloca è quella della concorrenza perfetta. In questa realtà di mercato, le imprese

agiscono in condizioni di price taker e il loro vantaggio competitivo si esprime

solamente nella capacità che hanno di offrire un prodotto a un prezzo inferiore a quello

dei concorrenti. Una situazione, questa, in cui, com’è noto, assumono importanza

fondamentale le dotazioni di risorse, la produttività e l’efficienza produttiva e, quindi, la

capacità, a parità di altre condizioni, di produrre a costi più bassi. Al contrario, la

possibilità di mettere in atto comportamenti di tipo price maker dipende sostanzialmente

dall’ampiezza del mercato, dal grado e dal tipo di differenziazione del prodotto che è

possibile attuare e dalla possibilità/capacità di formulare e mettere in atto appropriate e

efficaci politiche di marketing. In particolare, le realtà produttive agricole più deboli che

non hanno la possibilità di esprimere capacità competitive basate sui prezzi, hanno,

come alternativa, o quella di uscire dal mercato oppure quella di fare leva sulla qualità

come fattore di differenziazione del prodotto e posizionarsi all’interno di nicchie di

mercato che premiano questa strategia; nicchie che, tra l’altro, appaiono in rapida

espansione sia sul mercato interno che su quello internazionale grazie alla crescente

attenzione del consumatore moderno alle problematiche della qualità in un’accezione

che, oltre alle caratteristiche chimico-fisiche ed organolettiche del prodotto investe in

misura crescente aspetti immateriali e simbolici.

La differenziazione del prodotto agricolo e agroalimentare, tuttavia, non è sempre di

facile attuazione e dipende in larga misura dal tipo di produzione e dalla

possibilità/capacità dell’impresa (o di un sistema di imprese) di identificare il prodotto

con un marchio o con altri segni distintivi che possano essere riconosciuti dal

consumatore (per la definizione di marchio e di segni distintivi vedi il Prospetto 1).

In generale, va considerato che la possibilità di differenziare il prodotto è molto ridotta a

livello di azienda agricola, mentre aumenta nelle fasi più a valle della filiera, e cioè a

livello di imprese di trasformazione industriale o di commercializzazione;

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differenziazione che viene attuata attraverso lo sviluppo e la gestione di marche

industriali o, come nel caso delle imprese della distribuzione, di marche commerciali.

I prodotti tipici presentano, come abbiamo visto, alcune caratteristiche che si prestano a

una efficace differenziazione del prodotto anche nelle fasi più a monte della filiera,

utilizzando i segni distintivi del territorio; una differenziazione che, in altre parole, fa leva

su alcune caratteristiche peculiari che sono proprie del concetto di tipicità quali, ad

esempio, la collocazione del prodotto e delle tecniche produttive impiegate per la sua

realizzazione all’interno della tradizione e della cultura locale, la localizzazione

geografica dell’area di produzione, la qualità della materia prima impiegata e le tipicità

dei processi produttivi derivanti da una certa tradizione produttiva locale. Partendo dalle

implicazioni del legame o dei vincoli tra prodotto e territorio in termini di

differenziazione e di specificità, Nomisma (2001) ha sviluppato un approccio che

consente di analizzare sia la tipicità sia il rapporto tra prodotti tipici ed economia e

territorio. Questo approccio individua nella tipicità una componente della differenziazione

del prodotto che è presente, anche se con contenuto diverso, in una vasta gamma di

prodotti. In sostanza, i prodotti tipici costituiscono una categoria molto ampia e

complessa, che presenta elementi di differenziazione diversi secondo l’intensità o della

numerosità di vincoli associati al prodotto: la dimensione geografica del bacino di

approvvigionamento delle materie prime, la localizzazione degli impianti di

trasformazione, stagionatura e conservazione, il contenuto intrinseco delle materie prime,

le tecniche di gestione, ecc. In questo panorama trovano collocazione i prodotti con i

marchi di denominazione di origine istituiti dall’Unione Europea, per i quali, anche in

base ai Regolamenti istituitivi (Regolamenti (CEE) n. 2081/92 e n. 2082/92) si

riconoscono livelli crescenti di tipicità rispettivamente per Stg, Igp e Dop. A queste

categorie, si aggiungono i prodotti in attesa del completamento della procedura di

registrazione per la denominazione Dop o Igp e quelli che a vario titolo si propongono al

consumatore come tipici, quali i prodotti tradizionali, di fattoria, locali, dei parchi/aree

protette, ecc.

La tipicità rappresenta, quindi, una condizione per la differenziazione dei beni

agroalimentari; una condizione che esiste solo allo stato potenziale e che può essere

trasformata in differenziazione effettiva solo se attraverso appropriate ed efficaci

politiche di marketing il consumatore riesca a percepirne il valore. In sostanza, il

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marketing ha la funzione di trasmettere i segnali di valore che, se riconosciuti e percepiti

favorevolmente dal consumatore, portano alla formazione di un premium price.

In questa prospettiva, il problema della differenziazione del prodotto, anche nella mente

del consumatore, richiede, in sostanza, che siano messe in atto politiche di marketing

volte a rimuovere situazioni di asimmetria informativa.

Si può osservare che situazioni di asimmetria informativa sono largamente presenti sui

mercati dei prodotti agroalimentari a causa della grande varietà di offerta di prodotti

apparentemente simili in quanto appartenenti alla stessa categoria merceologica e della

difficoltà per il consumatore di valutarne correttamente le differenze qualitative. Ciò è la

conseguenza della presenza di una molteplicità di requisiti del sistema prodotto-

produttore non direttamente constatabili e valutabili dal consumatore (requisiti

nutrizionali e salutistici, l’efficacia dei sistemi di controllo del processo, l’origine, la

conformità igienica, l’applicazione di specifiche tecnologie, ecc.). In questo caso, a

svolgere la funzione di segnale di valore più efficace è, sostanzialmente, il prezzo e il

consumatore sceglierà il prodotto che a parità di beneficio percepito costi meno. Ciò

riduce la competitività delle imprese che offrono prodotti di più alta qualità, con la

conseguenza che sul mercato si rischia che rimangano soltanto prodotti di qualità

standard (in generale offerti dalle grandi imprese che seguono strategie di leadership di

costo) i cui prezzi riflettono i più bassi costi di produzione derivanti dallo sfruttamento

di alte economie di scala e dalle maggiori possibilità innovative. Le implicazioni della

presenza di asimmetria informativa possono essere analizzate con riferimento al

modello di Akerlof (1970).

Il modello di Akerlof suggerisce che in presenza di asimmetria informativa si ha una

riduzione sia della qualità media dei beni sia della dimensione del mercato. Una

situazione, questa, che può verificarsi in tutti quei mercati ove beni e servizi non sono

omogenei e la qualità dei prodotti offerti è nota solo al venditore, mentre l’acquirente

non ha possibilità di accedere alle informazioni necessarie, oppure per accedere alle

stesse è chiamato a sostenere un costo molto elevato o, comunque, superiore ai benefici

marginali a esso conseguenti. Il modello proposto da Akerlof ha per oggetto il mercato

delle auto usate (in americano, lemons), ma può essere esteso al caso dei prodotti

agroalimentari tipici e di più alta qualità quando il consumatore non ha tutte le

informazioni necessarie per valutare il prodotto. Il consumatore potrebbe anche decidere

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di acquisire maggiori informazioni, ma queste richiedono un costo il cui ammontare

supera il beneficio aggiuntivo. Per cui, per la scelta si affiderà ai segnali di qualità più

direttamente accessibili e meno costosi, quali, ad esempio, il prezzo del prodotto.

Continuiamo, comunque, a seguire l’impostazione del modello di Akerlof, con

riferimento alle auto usate.

Poiché per definizione le auto usate sono indistinguibili, nel modello di Akerlof si

evidenzia come il prezzo che si stabilirà sul mercato in equilibrio, se un equilibrio esiste,

dovrà essere unico e rifletterà la qualità media delle auto scambiate. Il consumatore che

domanda di acquistare un’auto usata potrà, quindi, avere un’idea sulla sua qualità

osservando il prezzo; il prezzo è, quindi, l’unico strumento informativo. Tuttavia, se

questo riflette soltanto la qualità media, può avviarsi un meccanismo di selezione

avversa. In sostanza, se il prezzo non compensa i venditori delle auto di migliore

qualità, questi si ritireranno dal mercato e il prezzo si ridurrà. Questa riduzione, d’altra

parte, segnalerà agli acquirenti un peggioramento di qualità e il prezzo che questi sono

disposti a pagare diminuirà provocando un ulteriore abbassamento della qualità. Un

processo, questo, che potrà andare avanti fino a quando sul mercato non siano offerte

solo auto usate di peggiore qualità. Ovviamente, nel modello di Akerlof i proprietari

delle auto di migliore qualità hanno interesse a segnalare il buono stato delle loro auto,

ad esempio, attraverso certificati di garanzia. Più in generale, quello dei segnali è uno

dei mezzi con cui si cerca di superare i problemi delle selezione avversa.

Le implicazioni del modello di Akerlof possono essere viste con riferimento ai prodotti

agroalimentari, i quali, anche quando appartengono alla stessa categoria merceologica,

spesso non sono omogenei in termini qualitativi e il consumatore non dispone delle

informazioni per valutare il differenziale qualitativo tra loro esistente e sarà portato a

scegliere il prodotto che ha un prezzo più basso. Ne consegue che il prodotto di più

elevata qualità (e anche più costoso) o resterà invenduto oppure dovrà essere venduto ad

un prezzo uguale a quello dei prodotti standard. Il livello di questo prezzo, non è,

tuttavia, come abbiamo detto, sufficiente a compensare i produttori dei più alti costi di

produzione. Questo processo determinerà una riduzione dell’offerta dei prodotti di più

alta qualità, sino a portare, nel più lungo periodo, alla scomparsa sul mercato di questa

categoria di prodotti a vantaggio dei soli prodotti di qualità standard.

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Il problema connesso con la presenza di asimmetria informativa può anche essere

schematizzato attraverso una rappresentazione grafica in cui sono riportati i costi di

produzione (medi e marginali) di due imprese che producono, ad esempio,

rispettivamente, olio extravergine di oliva di qualità standard e olio extravergine di oliva

di qualità più elevata e il prezzo di mercato dei prodotti standard e quello che sarebbe

necessario per remunerare i produttori che offrono prodotti di più alta qualità (premium

price) (figura 1). Per consentire ai produttori che offrono olio di oliva di più elevata

qualità di coprire i costi di produzione occorrerebbe, come si vede, che il prezzo fosse

superiore al prezzo di mercato dei prodotti standard e, cioè, almeno pari a P*. Il

consumatore, anche se interessato ad acquistare un prodotto di più alta qualità, si

presume che acquisterà il prodotto più caro solo se sarà in grado di percepirne il

differenziale qualitativo. Altrimenti, il suo comportamento razionale lo porterà ad

acquistare il prodotto che ha un prezzo più basso. Pertanto, per il produttore di olio

extravergine di oliva di più elevata qualità il problema è quello di riuscire a “comunicare”

al consumatore le caratteristiche qualitative (organolettiche, nutrizionali e immateriali)

che differenziano il suo prodotto da quello standard. In sostanza, si tratta di mettere in

atto una strategia che consenta di differenziare il prodotto non solo sul piano sostanziale,

ma anche nella percezione del consumatore (vedi prospetto 2).

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Figura 1. Prezzo di mercato, premium price e costi di produzione di due prodotti (ad

esempio, oli extravergine di oliva) non omogenei in termini qualitativi

CM

Cm

P

CM

Quantità

Quantità

OLIO EXTRA VERGINE DI OLIVA DI PIÚ ALTA QUALITA’

P*

P

(mercato)

OLIO EXTRA VERGINE DI OLIVA

DI QUALITA’ STANDARD

CM = Costo Medio

Cm = Costo Marginale

P = Prezzo del prodotto di qualità standard

P*

= Premium price

Cm

Cm

CM

Quantità

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PROSPETTO 1

Marchi collettivi e segni distintivi come strumenti di differenziazione dell’offerta

agroalimentare e di comunicazione al consumatore

Il marchio

Il marchio rappresenta uno strumento per distinguere i prodotti e servizi sul mercato e

un mezzo di comunicazione con il consumatore. In tal senso il marchio diventa uno

strumento decisivo nella strategia commerciale dell’azienda, a tal punto da

rappresentare una parte consistente del suo stesso valore. Si possono individuare

differenti tipologie di marchio, in riferimento all’oggetto e al contenuto. In riferimento

alla titolarità e alle funzioni, una distinzione importante è tra marchio individuale e

marchio collettivo. Una distinzione, questa, molto importante ai fini delle

problematiche connesse con i prodotti tipici.

Marchio collettivo

Ai fini delle problematiche connesse con i prodotti tipici, un ruolo importante viene

assolto proprio dal marchio collettivo come strumento di comunicazione e di garanzia

(Albisinni, Carretta, 2003). Si tratta di un marchio richiesto da soggetti, individuali o

collettivi, che ha la funzione di garantire la natura, la qualità, l’origine di determinati

prodotti o servizi. Può essere utilizzato da più persone che si assoggettano

all’osservanza di determinati standard di qualità e ai relativi controlli stabiliti da un

regolamento. I marchi collettivi sono soggetti a una disciplina specifica, che si

differenzia da quella dei marchi individuali sia sotto il profilo dei soggetti cui è

consentita la titolarità, sia sotto quello dei presupposti ai quali è legato il

riconoscimento, sia, infine, quanto attiene alla disciplina applicativa e agli strumenti

utilizzati. Il tratto che caratterizza la disciplina del marchio collettivo e la distingue da

quello individuale è il fenomeno della dissociazione fra titolarità del segno distintivo e

suo uso, nel senso che il soggetto che richiede ed ottiene la registrazione non coincide

con l’utilizzatore del medesimo. In Italia, la legislazione sui marchi è stata oggetto di

revisione nel 1992 con il d.lgs. 480/1992 che recepisce la direttiva comunitaria

89/104/CEE. Questa normativa, a differenza di quella precedente che assegnava al

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marchio collettivo la funzione tipica del marchio d’impresa (cioè di permettere

l’identificazione di prodotti e servizi provenienti dalle imprese utilizzatrici, senza alcun

profilo o con profili secondari di garanzia di qualità del prodotto), enfatizza il legame

tra il segno e la garanzia della sua conformità alle regole d’uso, circa la natura, qualità e

origine, che il titolare è tenuto a fornire.

La classificazione dei marchi collettivi nel settore agroalimentare

I marchi collettivi nel settore agroalimentare sono riconducibili a due tipologie

principali:

marchio collettivo geografico o territoriale, indicante la provenienza da determinate

aree geografiche (es. “Patata tipica di Siracusa” del Consorzio della Patata tipica di

Siracusa, Nettarine di Romagna Igp, marchi consortili strettamente legati ai

riconoscimenti comunitari Dop/Igp, ecc);

marchio collettivo di qualità, se il disciplinare attiene a caratteristiche del processo di

produzione o del prodotto in relazione all’impiego di determinate materie prime o loro

combinazioni.

Queste due tipologie di marchi collettivi possono essere, a loro volta, sotto classificate

sulla base di:

- i prodotti coperti dall’uso del marchio: il marchio è unisettoriale o di prodotto, se

interessa prodotti di un unico genere (AB Carni, Certa Naturale, Eletta, ecc.), mentre è

ad ombrello se coinvolge prodotti di genere diverso (ad esempio, marchi di qualità ad

ombrello che raggruppano diverse categorie di prodotti accomunati dalle tecniche di

produzione biologica, il marchio QC Qualità Controllata dell’Emilia Romagna, Qualità

certificata Veneto, ecc.);

- la titolarità: il marchio collettivo è pubblico se il titolare è un ente pubblico mentre è

privato quando il titolare è un soggetto privato, generalmente nella forma giuridica di

consorzio o di un’associazione.

I segni distintivi

Il termine marchio viene spesso utilizzato per definire le denominazioni di origine

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protetta (Dop) e le indicazioni geografiche protette (Igp). In realtà, nel caso delle

produzioni Dop e Igp si deve parlare, più propriamente, di segni distintivi. Come i

marchi collettivi, anche i segni distintivi possono essere geografici o di qualità, a

seconda che il riferimento sia riconducibile all’area di provenienza o alle tecniche

produttive.

I segni distintivi, pur rispondendo in termini funzionali alla medesima esigenza di

differenziazione assolta dai marchi, presentano alcune importanti differenze sul piano

giuridico rispetto al marchio collettivo. In particolare, i segni distintivi costituiscono un

patrimonio collettivo indisponibile. Infatti, l’utilizzo dei segni distintivi geografici è

riservato solo a coloro che rientrano nella zona d’origine, laddove lo strumento

“marchio collettivo” non po’ riservare ai concessionari del marchio l’uso esclusivo del

riferimento geografico che può essere utilizzato anche da terzi, seppure affiancato da

altra denominazione, onde rispettare la riserva di legge. I segni distintivi geografici

sono le denominazioni di origine protetta (Dop) e le indicazioni geografiche protette

(Igp), mentre sono segni distintivi di qualità le attestazioni di conformità alle

disposizioni in materia di produzione biologica (Giacomini, Mancini, Menozzi e

Cernicchiaro, 20007, pp. 9-18)

PROSPETTO 2

Asimmetria informativa e mercato dell’olio extravergine di oliva di alta qualità

Uno dei problemi fondamentali che caratterizza il mercato dei prodotti agroalimentari è

costituito dalla difficoltà che incontra il consumatore a percepire la differenza

qualitativa dei diversi prodotti presenti sul mercato e, pertanto, di riuscire a orientarsi

nelle scelte utilizzando come criterio la qualità. Il caso che qui presentiamo è riferito,

specificatamente, all’olio extravergine di oliva, ma può essere facilmente generalizzato

ad altri prodotti agroalimentari, quando sul mercato si verifica una situazione in cui a

fianco a un’offerta standardizzata, si collocano prodotti tipici o altri prodotti cosiddetti

specialità Woods i cui prezzi sono anche molto più alti dei primi.

Il problema qui richiamato è riconducibile a quello più generale della presenza di

asimmetria informativa. Questo, nel settore dell’olio extravergine di oliva ma, in

generale, in tutti gli ambiti agroalimentari, si configura come una situazione in cui il

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consumatore non possiede le informazioni necessarie per identificare e quantificare le

proprietà qualitative dei diversi prodotti che si offrono alla scelta. Egli potrebbe

decidere di approfondire la conoscenza svolgendo un’attività di ricerca di ulteriori

informazioni sulla qualità del prodotto, ma ciò richiede un determinato costo che il

consumatore sarà propenso a sostenere solo se comporterà un beneficio marginale

almeno uguale al costo aggiuntivo. In alternativa, il consumatore si affiderà ai segnali di

qualità più direttamente accessibili (e anche meno costosi) quali, ad esempio, il prezzo,

ma anche la notorietà della marca. Ne consegue che il prodotto che ha un più alto

prezzo, anche se di più elevata qualità, è destinato a restare invenduto oppure, per

trovare acquirenti, il produttore dovrà accettare un prezzo più basso, anche questo non è

sufficiente a coprire i costi di produzione.

Con riferimento al settore specifico dell’olio extravergine di oliva si nota, ad esempio,

che sugli scaffali dei supermercati, accanto a bottiglie di olio extravergine di oliva il cui

prezzo varia dai 3 ai 5 euro, si trovano anche bottiglie di olio extravergine di oliva i cui

prezzi sono nettamente superi. Si tratta di oli che sotto la stessa categoria (olio

extravergine di oliva), presentono caratteristiche qualitative specifiche che il

consumatore può valutare solo sulla base del prezzo, essendo gli altri requisiti della

qualità non direttamente (né facilmente) constatabili e valutabili. In sostanza, il prodotto

che ha prezzi più elevati, anche se è stato realizzato da una filiera interamente orientata

alla qualità, ossia determinata da processi produttivi che richiedono particolari

attenzioni alle condizioni pedoclimatiche del terreno, alla scelta delle varietà adottate, al

tipo di coltivazione, alle modalità di raccolta, alla tipologia di impianti di spremitura, al

tipo di lavorazione adottata, alle tecniche di conservazione e al confezionamento, ecc.,

rischia di restare invendute a causa della mancanza di segnali che consentano al

consumatore di percepire la differenza qualitativa rispetto al prodotto meno caro;

percezione che, tra l’altro, come abbiamo sottolineato, è necessaria per ottenere da parte

del consumatore la disponibilità a pagare un prezzo più elevato (premium price),

rispetto a quello dei prodotti concorrenti. Ovviamente, poiché i comportamenti

necessari per realizzare un prodotto di più elevata qualità comportano anche più alti

costi di produzione rispetto ai concorrenti che offrono prodotti di qualità standard,

l’acquisizione di un premium price è una condizione necessaria per disporre di

un’offerta che abbia requisiti di qualità più elevati.

Page 17: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

16

3. La regolamentazione dell’Unione Europea per le denominazioni di origine (Dop)

e le indicazioni geografiche (Igp)

La produzione dei prodotti tipici presenta alcune caratteristiche specifiche che derivano

dalla struttura organizzativa della produzione e dai requisiti richiesti al processo

produttivo. Alla tipicità, infatti, si associano effetti e condizionamenti di natura tecnica,

organizzativa ed economica, previsti dalla normativa in materia e dal disciplinare di

produzione al quale i prodotti sono chiamati a conformarsi.

Per i prodotti a marchio di Denominazione di origine protetta (Dop) o di Indicazione

geografica protetta (Igp), ai sensi del Regolamento (CEE) n. 2081/92, è richiesta la

conformità ai requisiti fissati nel disciplinare depositato in sede comunitaria e

l’accertamento di tale conformità da parte di un organismo a ciò legalmente riconosciuto.

Il Regolamento (CEE) n. 2081/92 che concerne la protezione delle denominazioni

d’origine (Dop) e delle indicazioni geografiche (Igp) (successivamente abrogato dal

Regolamento (CE) n. 510/06), stabilisce, ai sensi dell’art. 2, che si intende per

denominazione di origine protetta (Dop) “il nome di una regione, di un luogo determinato

o in casi eccezionali di un Paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare:

- originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale Paese e

- la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente

all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali e umani e la cui produzione,

trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica delimitata”.

La normativa prevede che vi sia uno stretto legame tra il prodotto e l’area di origine.

Per indicazione geografica di origine (Igp) si intende “il nome di una regione, di un luogo

determinato o in casi eccezionali di un Paese che serve a designare un prodotto agricolo o

alimentare:

- originario di tale regione, di tale luogo determinato odi tale Paese e

- di cui una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica possa essere

attribuita alla regione geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione

avvengono nell’area geografica determinata”.

Page 18: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

17

La differenza tra Igp e Dop consiste nel fatto che mentre per l’Igp è sufficiente che una

sola fase della produzione sia strettamente legata all’ambiente geografico (per quanto

debba comunque essere un prodotto originato nella regione di cui porta il nome e deve

avere una reputazione che possa essere attribuito alla sua origine geografica), la Dop si

applica a produzioni il cui intero ciclo produttivo, dalla produzione della materia prima al

prodotto finito, è localizzato all’interno di un’area geografica ben delimitata e non è

riproducibile al di fuori della stessa.

Un’altra caratteristica prevista dal Regolamento riguarda il disciplinare. L’articolo 4 del

Regolamento (CEE) 2091/92 prevede che “per beneficiare di una Dop o di una Igp, i

prodotti devono essere conformi ad un disciplinare”; cioè la denominazione o indicazione

deve sottostare ad una serie di requisiti previsti dal regolamento stesso. In particolare, è

richiesto che il disciplinare deve comprendere almeno i seguenti elementi:

a) il nome del prodotto agricolo o alimentare con la denominazione d’origine o

l’indicazione geografica;

b) la descrizione del prodotto mediante indicazione delle materie prime e delle principali

caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche e/o organolettiche;

c) la delimitazione della zona geografica;

d) gli elementi che comprovano che il prodotto agricolo o alimentare è originario della

zona geografica (Dop o Igp);

e) la descrizione del metodo di trasformazione, lavorazione, conservazione o

stagionatura;

f) gli elementi che comprovano i legami con l’ambiente geografico o con l’origine

geografica;

g) i riferimenti relativi alle strutture di controllo da parte di un organismo legalmente

autorizzato;

h) gli elementi specifici all’etichettatura connessi con la dicitura Dop o Igp o le diciture

tradizionali nazionali equivalenti;

i) le eventuali condizioni da rispettare in forza di disposizioni comunitarie e/o nazionali.

Inoltre, l’articolo 10, introduce un sistema di controllo e di verifica di conformità dei

prodotti Dop e Igp, realizzato da appositi organismi legalmente riconosciuti.

In sostanza, in base al Regolamento (CEE) n. 2081/92, il produttore ha il diritto di

contrassegnare con il marchio Dop (o Igp) il proprio prodotto, se questo presenta i

Page 19: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

18

requisiti previsti dal disciplinare e se il possesso di tali requisiti è stato accertato

dall’organismo di controllo abilitato. Insieme al marchio Dop (o Igp), il produttore può

usare comunque anche il marchio aziendale, per differenziare il proprio prodotto rispetto

ad altri concorrenti con lo stesso marchio Dop (o Igp) e, in aggiunta, il logo comunitario

introdotto dal Regolamento (CEE) n. 1726/98.

I diversi produttori che offrono prodotti con lo stesso marchio Dop (o Igp) possono

riunirsi in un Consorzio e registrare, a nome dello stesso, un marchio collettivo di

proprietà del Consorzio medesimo. Come si vede, a disposizione dei produttori esiste una

vasta gamma di strumenti che possono essere utilizzati per veicolare al consumatore

finale i segnali del valore della tipicità, ma anche per differenziare il proprio prodotto da

altri aventi la stessa denominazione d’origine. Infatti, come viene fatto osservare

(Capelli, 2001), sul mercato possono trovarsi a convivere prodotti riuniti sotto la stessa

Dop (o Igp); alcuni di questi dispongono della sola Dop (o Igp), perché unicamente

certificati dall’organismo abilitato, mentre gli altri possono aggiungere alla Dop (o Igp)

anche il marchio del Consorzio di tutela. Quest’ultimo viene applicato sul prodotto che,

oltre ad avere i requisiti per fregiarsi della Dop (o Igp), rispetta anche le prescrizioni

imposte dal Consorzio. Ciò sta ad indicare che anche tra i prodotti aventi la stessa

denominazione d’origine può determinarsi una differenziazione sulla base dei segni del

valore trasmessi dai diversi marchi che si possono affiancare al marchio Dop (o Igp) e,

quindi, una concorrenza fra i diversi produttori. Una differenziazione che, tuttavia, può

determinare anche uno svantaggio per il consumatore finale chiamato a sostenere costi

aggiuntivi per sviluppare una più approfondita conoscenza degli elementi di specificità

del prodotto (De Rosa, Turri, 2000).

4. Le produzioni DOP e IGP in Italia

Secondo i dati Ismea (2006), ad aprile 2006 le denominazioni registrate nei paesi

dell’Unione Europea erano 709, di cui 413 rappresentate da Dop e 296 da Igp. A livello

di singoli paesi, l’Italia, con un totale di 155 denominazioni, rappresenta il paese leader,

per numero di denominazioni registrate, a livello europeo, seguito dalla Francia (147),

Page 20: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

19

dalla Spagna (96) e dal Portogallo (93). Agli ultimi posti della graduatoria si collocano il

Belgio, la Danimarca, l’Irlanda e la Svezia, con poche unità di prodotti registrati.

L’analsi per comparto merceologico evidenzia che il numero maggiore di denominazioni

riguarda il settore degli ortofrutticoli e cereali (23,1% del totale) e quello dei formaggi

(21,9%). Alti comparti importanti sono quello delle carni fresche (14,1%), degli oli e

grassi (13,3%) e dei prodotti a base di carne (10,9%).

Per quanto riguarda specificatamente l’Italia, i 155 riconoscimenti sono rappresentati da

105 Dop e 50 Igp. In questo quadro, i prodotti ortofrutticoli sono i più rappresentati (47

riconoscimenti) e sono seguiti dagli oli di oliva (37), dai formaggi (31) e dai prodotti a

base di carne (28). A questi si aggiungono 3 prodotti della panetteria, pasticceria,

confetteria e biscotteria, 2 aceti balsamici, 2 zafferani, 2 carni fresche, un miele, la ricotta

romana e l’essenza di bergamotto.

Per quanto riguarda la localizzazione territoriale degli areali di produzione, l’Emilia

Romagna, con 25 denominazioni registrate, rappresenta la regione con il maggiore

numero di prodotti Dop e Igp. Seguono, nella classifica, il Veneto (21), la Lombardia e la

Toscana, rispettivamente a quota 20 e 19. Agli ultimi posti della graduatoria si collocano

regioni quali il Molise (4), il Friuli V.G. (4), la Basilicata (3) e la Liguria (2).

Nella regione Marche il comparto è rappresentato da 8 prodotti, di cui 4 con marchio Dop

e 4 registrati con marchio Igp. In particolare, le denominazioni registrate in ambito

regionale alla data odierna sono:

- Vitellone bianco dell’Appennino Centrale (Igp) Reg. CE n. 134 del 20.01.98

(GUCE L. 15 del 21.01.98)

- Casciotta d’Urbino (Dop) Reg. CE n. 1107 del 12.06.96 (GUCE L. 148 del

21.06.96)

- Cartoceto (Dop) Reg. CE n. 1897 del 29.10.04 (GUCE L. 328 del 30.10.04)

- Lenticchia di Castelluccio di Norcia (Igp) Reg. CE n. 1065 del 12.06.97 (GUCE

L. 156 del 13.03.97)

- Oliva Ascolana del Piceno (Igp) Reg. CE n. 1855 del 14.11.05 (GUCE L. 297 del

15.11 05)

- Mortadella Bologna (Igp) Reg. CE n. 1549 del 17.07.98 (GUCE L. 202 del

17.07.98)

Page 21: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

20

- Prosciutto di Carpegna (Dop) Reg. CE n. 1263 del 01.07.96 (GUCE L. 163 del

02.07.96)

- Salamini italiani alla cacciatora (Dop) Reg. CE n. 1778 del 07.09.01 (GUCE L.

240 del 08.09.01)

L’analisi dell’Ismea fornisce un quadro molto dettagliato anche per quanto riguarda la

dimensione economica del comparto. A tale proposito si evidenzia che, nel corso del

2004, le produzioni Dop e Igp hanno totalizzato un valore alla produzione superiore a 4,4

miliardi di euro e un fatturato al consumo di circa 7,7 miliardi (Ismea, 2006, p. 44). Va,

comunque, osservato che sul piano della dimensione economica il settore si presenta

un’alta concentrazione sia a livello territoriale che a livello comparti produttivi. Infatti, si

può osservare che il 61,8% del fatturato è realizzato da produzioni localizzate nelle

regioni del Nord, il 30,0% nelle regioni del Centro e solo l’8,2% da produzioni delle Isole

e del Sud. Inoltre, l’analsi condotta dall’Ismea evidenza che ben l’88,1% del fatturato alla

produzione è riconducibile alle produzioni ottenute in 6 Regioni (Emilia Romagna,

Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Trentino Alto Adige e Sardegna). È anche il

caso di osservare che il 65% circa del valore alla produzione è realizzato da quattro

prodotti: i formaggi Parmigiano Reggiano e Grana Padano e i prosciutti di Parma e di

San Daniele.

Questi dati evidenziano che il settore è composto da alcune realtà di grande rilievo

produttivo ed economico e da una miriade di realtà che hanno bassissimi volumi di

offerta. Inoltre, risulta che spesso, ai riconoscimenti non si associano modifiche di rilievo

nelle forme organizzative e commerciali delle imprese e lo sviluppo, anche sul piano

organizzativo per la valorizzazione del prodotto e di marketing, dei Consorzi di tutela.

Ovviamente, anche da questo angolo visuale, la realtà si presenta molto variegata.

Tuttavia, fatte alcune importanti eccezioni, si assiste ancora da parte delle imprese e dei

Consorzi di tutela a una scarsa attenzione alle problematiche connesse al valore della

tipicità come strumento di differenziazione del prodotto e, quindi, alla necessità di

formulare adeguate e efficaci politiche di marketing.

Infine, va osservato, che prodotti a marchio Dop e Igp costituiscono solo una

componente, seppure la più importante, del paniere delle tipiche. Ai prodotti

contraddistinti con questi due marchi, si aggiungono le Specialità tradizionali garantite. I

prodotti registrati con questo marchio sono, a livello comunitario, 15. Si tratta, in

Page 22: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

21

particolare di birre e prodotti della panetteria, pasticceria, confetteria e biscotteria. Per

quanto riguarda i paesi, il Belgio è quello che ha il maggior numero di registrazioni (5),

seguito dalla Finlandia e dalla Spagna, rispettivamente con 3 prodotti registrati.

Un ampio potenziale di riserva per i prodotti Dop e Igp è costituito dai prodotti cosiddetti

tradizionali che, in Italia, sono riportati negli elenchi predisposti a livello provinciale e

regionale secondo quanto stabilito dal Dl. n. 173 del 30 aprile 1998.

Nel quadro di questa normativa sono stati complessivamente riconosciuti 2.188 prodotti a

livello nazionale. Il contributo delle singole regioni al paniere nazionali costituito dai

prodotti tradizionali evidenzia il ruolo di primaria importanza della Toscana (con 302

prodotti, pari al 13,8% del totale nazionale), del Veneto (205 prodotti, pari al 9,4% del

totale nazionale) e della Lombardia (201 prodotti, pari al 9,2% del totale nazionale).

Tuttavia, assumono un ruolo di rilevo anche le Marche. Quest’ultima regione, con 93

prodotti (4,3% dell’intero paniere nazionale), si colloca al 10° posto nella graduatoria

nazionale. L’elenco dei prodotti tradizionali delle Marche è riportato in Appendice.

Le principali tipologie merceologiche rappresentate a livello nazionale sono, nell’ordine,

quelle dei prodotti vegetali (577 prodotti, pari al 26,4% del totale), dei prodotti da forno

(573 prodotti, pari al 26,2% del totale), delle carni fresche e preparate (444 prodotti, pari

al 20,3% del totale) e dei formaggi (377 prodotti, pari al 17,2%).

5. L’organizzazione produttiva ed economica

Il quadro economico e giuridico ora delineato trova riferimento operativo in un modello

organizzativo ed economico le cui peculiarità costituiscono una base importante e

significativa per mettere a punto una strategia di sviluppo e di valorizzazione delle

produzioni tipiche. Gli obiettivi di questa strategia trovano presupposto nelle maggiori

opportunità che si offrono a questi prodotti in termini di spazi e margini economici

derivanti dalla crescente dimensione del mercato e dal potenziale di bisogni latenti e/o

reali sul piano della qualità e della differenziazione del prodotto. In quest’ottica, si

avverte la necessità di una maggiore attenzione agli aspetti organizzativi del settore che

hanno più dirette implicazioni sulle possibilità di attuare strategie di marketing volte a

cogliere le potenzialità/opportunità derivanti, appunto, dall’evoluzione della domanda.

Page 23: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

22

Un primo elemento che merita attenzione, in una logica di promozione e di

valorizzazione dei prodotti tipici, riguarda la particolarità del modello economico e

organizzativo della filiera. Questo si configura come un sistema di relazioni tra i diversi

soggetti protagonisti: le imprese agricole, le imprese di trasformazione, il Consorzio di

tutela, le imprese di distribuzione e il consumatore. Il modello ha un punto di riferimento

importante nel Consorzio di tutela che assolve, innanzitutto, al ruolo di garante della

conformità del prodotto finale ad alcune caratteristiche della tipicità che vengono

veicolate al cliente/consumatore attraverso l’immagine del marchio collettivo. Tuttavia,

oltre alla funzione di vigilanza e di tutela del marchio collettivo, il Consorzio svolge

normalmente anche funzioni di assistenza tecnica, di promozione e di valorizzazione del

prodotto.

Un siffatto modello organizzativo presenta indubbie potenzialità sul piano della

possibilità di mettere a punto e realizzare una strategia di sviluppo che abbia come

riferimento la domanda e, quindi, le aspettative reali e latenti dei consumatori. In

sostanza, si tratta di impostare appropriate politiche di marketing indirizzate,

innanzitutto, a elevare il livello di conoscenza e di informazione del consumatore, ma

anche a creare una percezione favorevole della qualità che permetta la formazione di un

premium price.

In altre parole, a differenza di un sistema aziendale di marketing, dove tutte le leve di

marketing-mix sono gestite unitariamente dalle singole imprese, nell’organizzazione

produttiva dei prodotti tipici queste si ripartiscono tra il Consorzio e le singole aziende

associate, secondo soluzioni che variano da caso a caso. Un assetto tipo di questa

ripartizione prevede che il Consorzio svolga le funzioni di tutela, vigilanza e promozione,

mentre le singole imprese manovrino le leve del prezzo e decidano sulla collocazione del

prodotto.

Ovviamente, il modo in cui si ripartiscono le funzioni concernenti la gestione delle leve

operative di marketing tra questi due attori non individua un modello unico e stabile nel

tempo. Le soluzioni che da questo punto di vista possono configurarsi sono diverse e le

loro modalità variano a seconda che il fulcro della gestione commerciale e di marketing

tenda a concentrarsi nel Consorzio di tutela o presso le singole imprese. Nel primo caso,

le imprese delegano quasi interamente il compito della gestione della funzione

commerciale e di marketing al Consorzio, concentrando le proprie risorse e competenze

Page 24: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

23

sulla produzione e sul prodotto. Una situazione, questa, in cui il marchio collettivo svolge

un ruolo fondamentale nel rapporto con il cliente/consumatore, mentre le singole imprese

rinunciano ad avere una propria identità specifica e riconosciuta dal consumatore. Nel

secondo, le imprese sviluppano un proprio marchio aziendale, che affianca quello

collettivo, con l’obiettivo di differenziare la propria offerta da quella delle altre imprese

appartenenti allo stesso Consorzio. In questo caso, il marchio collettivo e il marchio

aziendale coesistono e si rapportano al consumatore con funzioni diverse: il primo,

principalmente, come garanzia di origine del prodotto; il secondo, come rispondenza del

prodotto agli standard qualitativi. Un comportamento che tende a caratterizzare non solo

le imprese di maggiori dimensioni, ma anche le imprese più piccole che nelle loro

strategie mirano a obiettivi di crescita.

Tuttavia, una condizione necessaria affinché l’impresa possa percorrere con successo

questa strada è che essa possieda capacità distributive, eventualmente associate a

iniziative di trade marketing. Infatti, lo sviluppo di un proprio marchio aziendale trova

ragione principalmente nell’esigenza dell’impresa di stabilire e/o di consolidare rapporti

commerciali con la grande distribuzione organizzata.

6. La specificità della domanda di prodotti tipici

Dal lato della domanda, il comparto delle produzioni tipiche si caratterizza,

principalmente, per una forte concentrazione territoriale dei consumi. Questa

concentrazione, che è legata a tradizioni radicate nei modelli di consumo locali, ha

implicazioni anche per quanto riguarda la percezione del valore intrinseco del prodotto da

parte del consumatore. Infatti, come si può osservare, è stato fatto osservare (Gandolfi,

1992), l’apprezzamento del valore di questi prodotti si riduce con l’aumentare della

distanza culturale tra la zona di origine e il mercato di sbocco finale. In sostanza, la

specificità, da elemento di forza sul mercato di origine, può diventare un elemento di

debolezza quando ci si allontana da questo con l’obiettivo di conquistare segmenti di

consumatori su nuovi mercati.

Peraltro, l’innovazione di prodotto non può costituire una leva della strategia

competitiva, a meno di incorrere nel rischio di de-ticipizzare l’offerta. In questa

Page 25: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

24

situazione, un fattore critico di successo è costituito da interventi che privilegiano

l’adozione di tecnologie innovative che consentano lo sviluppo di innovazioni

incrementali volte a migliorare le prestazioni del prodotto in termini di “qualità bio-

nutrizionale e organolettica” e lo sviluppo di strategie di marketing volte ad accrescere il

valore percepito dal consumatore attraverso politiche di comunicazione e di distribuzione

commerciale adeguatamente mirate.

La specificità dei prodotti tipici, se da un lato può essere vista come un punto di forza

anche per le piccole imprese, in quanto il forte legame del prodotto con il territorio

rappresenta un vantaggio competitivo anche nei confronti delle grandi imprese che

realizzano economie di scala, dall’altro questa condizione non sembra sufficiente per

consentire all’impresa di competere efficacemente sul mercato nazionale e

internazionale. La realizzazione di politiche di sviluppo del mercato, nell’accezione

proposta da Ansoff (1965), appare, quindi, una condizione necessaria per la

valorizzazione dei prodotti tipici, soprattutto quando ci si trova di fronte a produzioni ad

alto volume di offerta. Un obiettivo, tuttavia, non facile da perseguire, anche a causa

delle particolari caratteristiche di questi prodotti. In primo luogo vi è il fatto che i prodotti

tipici, a motivo dei loro elevati standard qualitativi, devono essere offerti a prezzi

relativamente più alti rispetto a prodotti che presentano caratteristiche d’uso comparabili.

Inoltre, la loro differenza qualitativa deriva, tra l’altro, dalle particolarità dell’ambiente di

produzione che li caratterizza non solo sul piano delle proprietà organolettiche, ma anche

su quello dei valori simbolici.

Ora, in assenza di efficaci politiche di comunicazione, questi fattori risultano

difficilmente percepibili da un consumatore estraneo alla realtà del territorio di origine.

Le difficoltà che incontrano i produttori nel comunicare l’immagine del prodotto quando

tentano di collocarlo su mercati diversi dalla ristretta area del mercato regionale sono

ampiamente note. Su questi mercati, la stessa immagine di qualità, che trova riscontro

nelle proprietà della tipicità, genuinità e sicurezza che caratterizzano questi prodotti, non

costituisce una condizione sufficiente per assicurare un vantaggio competitivo stabile e

duraturo, né un segnale di maggiore qualità e prestazioni del prodotto che possa essere

facilmente percepito dal consumatore. In altre parole, dal momento che la percezione

dell’immagine di questi prodotti varia fortemente a seconda della dimensione geografica

Page 26: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

25

del mercato, il marketing è destinato ad assolvere a un ruolo di massima importanza per

la loro valorizzazione, in particolare quando si tenta di allargare l’area di consumo.

D’altra parte, questa strada appare obbligata per i prodotti ad alto volume di offerta se

non si vuole incorrere nel rischio che questi “cadano nell’instabilità e nella

sottovalutazione dei prezzi” (Cantarelli, 1999). Situazione, peraltro, già largamente

sperimentata da molti prodotti tipici del nostro paese a causa della scarsa organizzazione

e delle modesta capacità di condurre iniziative di marketing (Antonelli, 2000).

7. Dimensione dell’offerta e strategie di marketing

Il problema delle strategie di marketing è strettamente legato al volume di produzione.

In generale, quando il volume di produzione è basso, come nel caso della totalità dei

prodotti tipici delle Marche, ma anche della maggioranza dei prodotti tipici italiani, il

riferimento delle imprese è costituito in massima parte dal mercato locale. Questa

situazione può derivare dalla presenza di vincoli nelle possibilità innovative dei processi

produttivi e nella disponibilità di materie prime a livello locale che non consentono di

espandere il volume di produzione, anche in presenza di un potenziale aumento della

domanda. Inoltre, essa può derivare dal fatto che le imprese, in prevalenza di piccola e

piccolissima dimensione, non disponendo delle risorse e delle competenze necessarie per

affrontare nuovi mercati, mirano al mantenimento delle posizioni occupate, senza

obiettivi di crescita. In questi casi, l’offerta viene rivolta prevalentemente al

soddisfacimento di esigenze di consumo radicate nella cultura locale alle quali si

aggiungono quelle di nuovi segmenti di consumatori occasionali che si rapportano al

prodotto prevalentemente attraverso i valori e l’immagine del territorio (turisti e

visitatori, acquisti per corrispondenza o tramite Internet, ecc.).

A questa prima situazione si affianca quella in cui il volume di produzione complessivo

eccede la domanda espressa dal mercato locale e, pertanto, diventa necessario cercare

Page 27: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

26

nuovi mercati di sbocco al fine di evitare prezzi instabili e decrescenti e, come

conseguenza inevitabile, una riduzione del livello dello standard qualitativo3.

Ora, come abbiamo già richiamato, in una logica di mercato più vasto viene

inevitabilmente a modificarsi anche la prospettiva della percezione del valore intrinseco

del prodotto: si riduce la componente legata alla specificità del territorio, mentre trova

maggiore spazio il concetto di qualità intesa come denominazione di origine, genuinità,

tradizione, proprietà nutrizionali e organolettiche.

Ovviamente, ciò dipende anche dalle caratteristiche del mercato al quale ci si rivolge. In

ogni caso, la possibilità/necessità di politiche di sviluppo del mercato richiede la capacità

di sviluppare efficaci azioni promozionali per comunicare i valori e l’immagine del

prodotto a segmenti di consumatori con esigenze che non possono essere adeguatamente

soddisfatte dai prodotti di massa.

Questa distinzione dei prodotti in base al volume di offerta lascia intendere che, quando

questo è basso, la produzione non incontra particolari difficoltà di sbocco sui mercati. In

questo caso i mercati sono, in genere, meno instabili e i prezzi più favorevoli (Cantarelli,

1999). Ciò non significa che per le imprese non esistano i problemi della costante verifica

del rapporto con il mercato, del posizionamento del prodotto, dell’evoluzione della

struttura dei consumi, dei comportamenti dei consumatori, dell’appropriatezza dei canali

distributivi utilizzati, della percezione della qualità e dell’efficacia delle politiche di

comunicazione. Anzi, tutto ciò appare una condizione necessaria per realizzare un

vantaggio competitivo stabile e duraturo. Tuttavia, l’identificazione dei prodotti tipici con

il territorio, da un punto di vista storico e geografico, ne determina la qualità e fa sì che

quest’ultima possa essere meglio percepita sia dal consumatore locale che dal visitatore

turistico. In sostanza, si tratta di una situazione in cui i prodotti tipici hanno la possibilità

di conseguire un premium price in quanto il consumatore è in grado di riconoscerli come

prodotti che possiedono livelli qualitativi più elevati.

Si può anche osservare che il legame tra prodotto tipico e territorio permette di realizzare

economie di scala nell’ambito delle politiche di marketing. Infatti, iniziative di

promozione del territorio, attraverso interventi di marketing territoriale, e di

valorizzazione dei prodotti tipici locali possono essere sviluppate, in modo parallelo, con

importanti effetti sinergici. Inoltre, molto spesso, le stesse azioni di marketing finalizzate 3 Va osservato che, ancora oggi, in molti casi questa tendenza viene contrastata attraverso la messa a punto di interventi

pubblici che prevedono il ritiro dell’offerta per mantenere alto il livello dei prezzi.

Page 28: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

27

alla promozione dei prodotti tipici, vengono attuate con il concorso finanziario degli enti

locali attraverso la realizzazione di fiere, feste gastronomiche e altri tipi di manifestazioni

locali che incentivano anche lo sviluppo di flussi turistici. A queste iniziative si

affiancano le attività di promozione, condotte direttamente dalle imprese o dal Consorzio,

attraverso forme che non richiedono elevati investimenti finanziari quali la cartellonistica

stradale, la pubblicità presso i punti vendita, i messaggi sulla stampa locale, la diffusione

di cataloghi, ecc. Si può anche osservare che l’imprenditore ha una buona conoscenza del

mercato locale rispetto al quale è in grado di valutare con un relativo grado di precisione i

rischi e le potenzialità. In questo quadro, le relazioni con i clienti/consumatori assumono

in genere la forma di rapporti stabili e, più spesso, a carattere interpersonale.

Al contrario, quando il volume di offerta è elevato, lo sviluppo di strategie di espansione

del mercato, oltre i confini dell’ambito locale, espone i prodotti tipici a una crescente

pressione competitiva da parte dei prodotti di massa offerti dalle grandi imprese. In un

mercato più ampio, e, ancor più, sul mercato internazionale, i segnali della tipicità, legati

alla cultura, alla storia e alle caratteristiche dell’ambiente di un determinato territorio

arrivano molto sfumati. Inoltre, la posizione dei prodotti tipici, su questi mercati, è

indubbiamente più debole sul piano della concorrenza basata sui prezzi, ove le strategie

competitive delle grandi imprese, che realizzano economie di scala e che dispongono

delle risorse e delle competenze necessarie per attuare efficaci politiche di marketing,

riscuotono, senza dubbio, maggiori successi. Ciò non significa che non esistano, sul

mercato nazionale e internazionale, potenzialità da sviluppare.

Tuttavia, la realizzazione di questo potenziale, senza ricorrere a strategie competitive

basate sui prezzi, peraltro non congeniali alla piccola impresa, né, a maggior ragione, alle

produzioni tipiche, a motivo dei loro elevati standard qualitativi, richiede

necessariamente ingenti investimenti per la gestione delle componenti di un marketing

mix che faccia leva, in particolare, sulle diverse componenti della politica di

comunicazione (pubblicità, promozione delle vendite, pubbliche relazioni,

sponsorizzazioni, comunicazione personale, ecc.). L’importanza che viene assegnata a

queste attività nelle strategie di esportazione dei prodotti agro-alimentari trova, tra l’altro,

riscontro in alcune esperienze internazionali. Un esempio che viene spesso richiamato in

tal senso è quello della Sopexa, la società di marketing e comunicazione che cura, a

livello internazionale, la promozione dei prodotti e delle marche alimentari francesi.

Page 29: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

28

Anche se il settore dei prodotti tipici appare molto differenziato al suo interno, il fatto che

esso sia composto, in prevalenza, da realtà aziendali di piccola e piccolissima dimensione

fa sì che nel complesso risulti svantaggiato di fronte alla prospettiva di affrontare il

mercato estero e, molto spesso, anche il mercato nazionale. In realtà, c’è da osservare che

l’azione promozionale necessaria per operare su questi mercati non è sempre compatibile

con i vincoli organizzativi e finanziari di queste realtà produttive. Tra l’altro, in molti

casi, le imprese appaiono inadeguate non solo per far fronte ai problemi della

programmazione e della gestione delle attività comunicazionali (specie pubblicitarie), ma

anche per corrispondere efficacemente a una serie di condizioni che sono spesso

indispensabili per operare su questi mercati. Ci riferiamo, in particolare, alla conoscenza

del mercato e delle preferenze dei consumatori, alla capacità di adattare la propria offerta

alle esigenze del cliente/consumatore (standardizzazione della qualità, packaging,

regolarità delle consegne, ecc.), alla possibilità di effettuare investimenti relazionali per

creare rapporti stabili e di lungo periodo con i clienti/consumatori esteri, alla possibilità

di assicurare una presenza continuativa sul mercato senza limitarsi, come spesso accade,

ad apparizioni saltuarie e occasionali determinate dalle condizioni dell’offerta. Un fattore

che in questa prospettiva condiziona di frequente l’azione delle piccole imprese risiede

nella difficoltà che spesso esse incontrano a far corrispondere la loro offerta con le

esigenze della grande distribuzione organizzata che, come è noto, si esprimono in termini

di qualità (pezzatura, confezionamento), quantità (lotti minimi) e logistica (modalità di

conferimento del prodotto, tempi, servizi, ecc.).

Per le piccole imprese, una possibile alternativa a un approccio al mercato basato su

politiche di penetrazione e di sviluppo, è quella costituita dalla subfornitura, sia nei

confronti di imprese di maggiori dimensioni, che possiedono un marchio già affermato e

che attuano efficaci politiche di marketing, che nei confronti della grande distribuzione,

per la fornitura di prodotti con marchio commerciale. La subfornitura presenta,

indubbiamente, una serie di vantaggi quali quello di ridurre i costi di

commercializzazione e i rischi di mercato a breve termine, di confrontarsi con una

domanda sicura e tendenzialmente stabile, di concentrare le proprie risorse e competenze

sulla produzione e sul prodotto. Una opzione che, tuttavia, non è del tutto priva di rischi

per l’impresa. Tra questi, c’è quello che l’impresa perda un proprio rapporto interattivo

Page 30: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

29

con il mercato e quello, costantemente presente, che essa possa essere sostituita da parte

del cliente industriale e/o distributore (Grandinetti, 1989).

Ora, anche se il marchio di denominazione di origine permette sicuramente alle imprese

di realizzare un vantaggio monopolistico, le argomentazioni esposte lasciano intendere

che, in assenza di efficaci politiche di marketing che consentano di trasmettere i segnali

di valore, i margini per la valorizzazione delle produzioni tipiche rimangono limitati. In

altri termini, il ruolo dei Consorzi appare indispensabile per accrescere e comunicare i

segnali di valore della tipicità. Infatti, se si escludono le poche imprese di maggiori

dimensioni, che dispongono delle risorse necessarie per sviluppare un’efficace politica di

marchio, la maggioranza di esse non presenta molte alternative rispetto alla possibilità di

entrare in rapporti di subfornitura. D’altra parte, anche ammesso che alcune imprese del

Consorzio siano in grado di sviluppare propri marchi aziendali, esiste il rischio che

questi, se non sono efficacemente gestiti e se la loro immagine non è costantemente

valorizzata attraverso la messa in atto di appropriate politiche di comunicazione, non

siano riconosciuti dal consumatore, in quanto i segnali di valore dei prodotti tipici

tendono a essere trasmessi soprattutto dal marchio collettivo. Quindi, una strada

difficilmente eludibile per un percorso di sviluppo e di valorizzazione dei prodotti tipici

appare condizionata dalla capacità dei Consorzi di proporsi, essi stessi, come protagonisti

nella gestione dell’immagine del marchio collettivo. In quest’ottica, per il Consorzio non

riveste importanza solo l’efficacia della proposta di marketing-mix, ma anche la sua

capacità di gestire un sistema di relazioni cooperative per dare forza ed efficacia alla

propria azione di marketing. Una prospettiva che oggi trova, tra l’altro, possibilità e

opportunità concrete nella crescente diffusione ed evoluzione delle nuove tecnologie

dell’informazione e presupposto nello sviluppo, anche teorico, di approcci che si

richiamano al marketing relazionale e che enfatizzano le problematiche connesse con la

gestione del sistema di relazioni esistenti tra i diversi attori protagonisti della filiera.

8. Modelli competitivi e strategie di sviluppo dei prodotti tipici

8.1. Tipologie di prodotto e struttura dell’offerta

Page 31: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

30

La struttura dell’offerta dei prodotti tipici si caratterizza, come sopra sottolineato, per la

presenza di poche grandi imprese che operano a fianco di numerosissime piccole e

piccolissime imprese, spesso a conduzione familiare. Infatti, il paniere dei prodotti tipici

attualmente disponibili sul mercato presenta una forte concentrazione di natura bipolare:

da una parte un numero limitato di prodotti che rappresentano un’alta quota della Plv

agricola, alto volume di offerta, ampia dimensione geografica dei mercati di sbocco e

possibilità di esportazione, dall’altra una percentuale molto alta di prodotti che, al

contrario, attivano una quota assai limitata della Plv agricola, bassi volumi di offerta e

mercati di vendita prevalentemente locali.

Figura 2. La mappa strategica dei prodotti tipici

Fonte: Adattato da Nomisma (2001).

Accesso a Materie prime

(bacino approvvigionamento ampio)

Area

trasformazione

ristretta

Area trasformazione

ampia

Mortadella Bologna

Grana Padano

Gorgonzola

Pecorino Romano

Vitellone Bianco

dell’Appennino

Centrale

A

Bresaola della Valtellina

Speck dell’Alto Adige

Prosciutto di Parma

Parmigiano Reggiano

Prosciutto di Carpegna

B

Giacimento delle nicchie:

Casciotta d’Urbino

Lenticchie di

Castelluccio di Norcia

Olio Cartoceto

Olive Ascolane del Piceno

D

Limitazione Materie prime

(bacino approvvigionamento ristretto)

Prodotti

alimentari locali

C

Page 32: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

31

A definire la tipologia di prodotto e i modelli di filiera concorrono anche i diversi livelli

della tipicità, così come precedentemente definiti. In questo ambito, assumendo come

base il modello proposto da Nomisma (2001), che identifica i gruppi strategici di

prodotto in base all’ampiezza dell’area di approvvigionamento delle materie prime e

all’area geografica per la trasformazione, è possibile definire una mappa strategica che

include anche i prodotti tipici delle Marche (figura 2).

Come si vede in figura 2, un primo gruppo (A) identifica i prodotti che associano a

un’ampia area di approvvigionamento delle materie prime un’ampia area geografica per

la localizzazione delle imprese di trasformazione. Ad esempio, appartengono a questo

primo gruppo prodotti tipici quali il Grana Padano, il Pecorino Romano, il Gorgonzola, la

Mortadella Bologna e il Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale. Queste realtà sono

caratterizzate da elevati volumi di offerta e da elevate dimensioni di scala. Un secondo

gruppo (B) identifica i prodotti che associano a un ampio bacino di approvvigionamento

delle materie prime una forte delimitazione dell’area di trasformazione. La presenza di

bacini ampi di approvvigionamento consente di far conseguire dimensioni di scala

elevate. Un terzo gruppo (C) è quello dei prodotti agro-alimentari locali, caratterizzato da

delimitazioni geografiche intermedie, provinciali o parti di queste, sia per quanto

riguarda l’area di approvvigionamento delle materie prime che la trasformazione. La

dimensione del mercato geografico di sbocco è prevalentemente costituita dal mercato

locale e regionale e le possibilità di economie di scala si riducono notevolmente a causa

dei vincoli posti dal bacino di approvvigionamento. In questa categoria rientrano gran

parte dei prodotti tipici caseari e della salumeria. Un quarto gruppo (D), denominato

“giacimento delle nicchie”, identifica quei prodotti le cui caratteristiche, legate

all’ambiente, appaiono nettamente distintive in quanto espressione di una chiara

delimitazione dell’area di provenienza delle materie prime e della localizzazione della

trasformazione. Si tratta di prodotti normalmente a basso volume di offerta, i quali

possono presentare situazioni in cui la domanda ecceda la capacità produttiva derivante

dalla disponibilità di materia prima. Ciò determina dimensioni di scala molto ridotte che,

tradotte in termini di valore della produzione, possono andare da poche decine di milioni

di lire a qualche miliardo di lire. In quest’ultima tipologia trovano collocazione, salvo

rare eccezioni, tutti i prodotti con denominazione d’origine Dop e Igp delle Marche.

Page 33: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

32

I diversi gruppi determinano problematiche ed esigenze molto diverse per quanto

riguarda le filiere e le imprese. Se consideriamo i primi due gruppi, le rispettive imprese

presentano chiaramente una più vasta gamma di possibilità di percorsi da attuare nelle

loro strategie, anche in termini di crescita, facendo affidamento sulle opportunità offerte

dall’ampliamento della dimensione economica e geografica del mercato. Queste stesse

possibilità appaiono notevolmente ridotte per le imprese e le filiere che si collocano

nell’ambito degli altri due gruppi strategici, a causa delle limitate capacità produttive del

bacino di approvvigionamento delle materie prime.

In realtà, queste possibili opzioni trovano forti limitazioni anche nei vincoli imposti dalla

dimensione delle imprese. Per le imprese di piccole dimensioni, le strategie possibili

vengono definite dalla presenza di molteplici vincoli. Questi comprendono gli assetti

specifici organizzativi, ma anche la disponibilità delle risorse finanziarie e umane. Questi

vincoli comportano un percorso evolutivo che spesso segue linee definite dalla

tradizione, dalle competenze specifiche dell’imprenditore e dai processi di

apprendimento.

Tuttavia, non si può negare la presenza di una visione strategica, propria

dell’imprenditore, che porta a definire, anche per queste realtà, prospettive di sviluppo

dell’impresa. In quest’ottica, sembra utile prospettare, anche per le imprese che operano

nella filiera dei prodotti tipici, strategie che tengano conto della loro tipologia, in

particolare sotto l’aspetto dimensionale e delle specifiche tipologie di prodotto e di

filiera. In sostanza, si può riscontrare un rapporto tra peculiarità economica dei modelli di

tipicità e strategie di crescita e consolidamento.

8.2. Modelli e strategie di sviluppo

I comportamenti delle imprese delle diverse tipologie di prodotto rappresentate in figura

2, possono essere studiati facendo riferimento ad alcuni degli schemi proposti dalla

letteratura economico-aziendale.

In questo quadro, un primo ambito di riferimento per imprese di prodotti tipici chiamate a

sviluppare una strategia competitiva che nel lungo periodo sia sostenibile è costituito

dallo schema di analisi di Porter (1985). Com’è noto, l’autore individua le fonti del

vantaggio competitivo in due fattori: il valore creato; i costi di produzione. Tuttavia,

Page 34: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

33

questi fattori, per costituire capacità distintive delle imprese devono essere riconosciuti

(percepiti) dal mercato e dalla clientela. La strategia competitiva comporta, altresì, che

l’impresa definisca la natura e l’ampiezza del mercato (ambito competitivo).

Le strategie competitive di base illustrano le diverse opzioni combinando l’ambito di

mercato (ampio/circoscritto) con le fonti del vantaggio competitivo (tabella 1). In termini

ultraschematici, una strategia di differenziazione implica che l’impresa sia in grado di

offrire un valore che i consumatori percepiscono superiore a quello dei concorrenti,

sostenendo un extra costo inferiore a quello che avrebbero dovuto sostenere questi ultimi;

la leadership di costo è una strategia che mira a realizzare un’offerta con costi inferiori ai

concorrenti a parità di valore. Si può osservare, che mentre una strategia di leadership di

costo si configura come un prerogativa esclusiva delle grandi imprese agroalimentari in

grado di realizzare economia di scala, la strategia di differenziazione appare realizzabile

anche dalle piccole imprese, nella misura in cui riescono a differenziare la propria offerta

sulla base della qualità. Queste ultime, tuttavia, sembrano in grado di esprimere meglio le

proprie capacità distintive operando soprattutto su un mercato più circoscritto, inteso

anche in termini di dimensione geografica (focalizzazione e differenziazione).

I diversi gruppi di prodotti tipici individuati nella figura 2 possono trovare collocazione

nelle diverse opzioni strategiche qui richiamate a seconda delle dimensioni di scala e

delle dimensioni geografiche dei mercati di sbocco. In particolare, le imprese del gruppo

(D), in maggioranza di piccole e medie dimensioni e senza prospettiva di crescita

dimensionale, appaiono in condizioni di ottenere un vantaggio competitivo solo se

riescono a individuare una nicchia di mercato circoscritta e su questa valorizzare la

propria produzione. Ciò richiede che la strategia deve, comunque, essere associata

all’offerta di un beneficio superiore per il consumatore e percepito come tale dallo stesso.

Una prospettiva che appare possibile sulla base della valorizzazione della qualità

chimico-fisica e organolettica del prodotto e sulla qualità simbolica legata alle specificità

socio-culturali e ambientali del territorio di origine.

Page 35: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

34

Tab.1. Le strategie competitive di base di Porter

Vantaggi competitivi

Più bassi costi Differenziazione

Ambito

competitivo

Target ampio

Leadership di costo

Differenziazione

Target

circoscritto

Focalizzazione e costi

Focalizzazione e

differenziazione

Fonte: Porter (1985)

Un secondo ambito di analisi, utile per individuare i percorsi di sviluppo delle imprese e

delle filiere dei prodotti tipici, è quello illustrato da Ansoff (1965) utilizzando una

matrice prodotto-mercato.

In questo caso, la matrice delle strategie di sviluppo individua quattro possibili percorsi

risultanti dalla combinazione di scelte che riguardano il mercato, classificato in base alle

dimensioni attuali, ovvero a quella allargata a nuovi mercati, i prodotti, distinguendo

quelli già presenti sul mercato, con i quali l’impresa qualifica la propria offerta, da quelli

che possono caratterizzare l’offerta in termini innovativi. La tabella 2 sintetizza le quattro

possibili opzioni. L’impresa, mantenendo inalterato il proprio portafoglio prodotti, può

optare per un allargamento della sua presenza sul mercato attuale (penetrazione del

mercato) oppure per la conquista di nuovi mercati (sviluppo del mercato). In alternativa,

sviluppando nuovi prodotti, può o rafforzare la propria presenza sul mercato nel quale già

opera (sviluppo del prodotto), oppure agire su nuovi mercati (diversificazione).

Page 36: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

35

Tab.2. Le strategie generiche di sviluppo

Prodotti

Mercati

Attuali

Nuovi

Attuali

Penetrazione del mercato

Sviluppo del prodotto

Nuovi

Sviluppo del mercato

Diversificazione

Fonte: Ansoff (1965)

Per quanto riguarda, in particolare, i prodotti con denominazione d’origine Dop e Igp, in

quanto legati a un disciplinare di produzione sostanzialmente stabile nel tempo, le

possibili opzioni sono quelle indicate nella colonna di sinistra rappresentate

rispettivamente dalle strategie denominate penetrazione del mercato e sviluppo del

mercato. In presenza di un ambiente competitivo dinamico, l’opzione più realistica,

almeno nel lungo periodo, appare, tuttavia, quella dello sviluppo del mercato. Questa

strategia, che comporta un cambiamento anche della base competitiva, con l’investimento

delle risorse per sviluppare le necessarie iniziative di marketing, si presenta, tuttavia,

valida in particolare per le realtà caratterizzate da un alto volume di offerta.

Un terzo e ultimo ambito d’analisi, utile ai fini del dibattito sulle opzioni strategiche delle

filiere e delle imprese agro-alimentari che producono prodotti tipici, è quello

rappresentato dagli approcci che si richiamano alle strategie di sviluppo qualitativo3.

Questo approccio si presenta particolarmente interessante per uno sviluppo dell’analisi

delle produzioni tipiche in tutte quelle situazioni in cui la “non crescita” rappresenta una

scelta volontaria dell’imprenditore. Infatti, in particolare per i gruppi strategici di cui

sopra ai punti (C) e (D), i vincoli alla crescita derivano, non solo da scelte

dell’imprenditore o da mancanza di risorse interne, ma anche da vincoli derivanti dalla

delimitazione geografica del bacino di offerta di materie prime che non consente

3 Per un’analisi, vedi Marchini (1998)

Page 37: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

36

l’attivazione di strategie di sviluppo delle imprese oltre i limiti della capacità produttiva

disponibile all’interno dello stesso.

La figura 3 consente di focalizzare l’attenzione sulle strategie di sviluppo qualitativo.

Come viene evidenziato nella figura, queste strategie enfatizzano, da una parte,

l’importanza dell’innovazione sia tecnologica che organizzativa, richiamando, a tale

scopo, il ruolo esercitato dallo sviluppo di relazioni cooperative con altre imprese,

dall’altra, il ruolo delle azioni volte a sviluppare caratteristiche di unicità e di più alta

qualità del prodotto. Nel quadro dei prodotti tipici, tale approccio suggerisce come

possibile soluzione, anche quella di garantire la sopravvivenza dell’impresa. Ciò richiede,

comunque, un nuovo atteggiamento culturale come condizione necessaria per accettare

un potenziale cambiamento in un qualsiasi aspetto del governo dell’impresa, in luogo

dell’esigenza espressa da altri approcci che enfatizzano l’importanza strategica degli

investimenti di capitale.

Page 38: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

37

Figure 3. Le strategie di sviluppo qualitativo

Fonte: Elaborazione su Marchini (1998).

Altrettanto importante è il fattore costo. Come è stato fatto osservare (Nomisma, 2001), i

costi di produzione aumentano con il numero dei vincoli che concorrono a determinare il

livello di tipicità. In particolare, si può evidenziare una relazione positiva tra la qualità e

il numero dei vincoli esterni stabiliti dal disciplinare di produzione (utilizzo di tecniche di

lotta integrata, vincoli nella densità di impianto delle colture, divieto di impiego di

determinati mangimi o mezzi tecnici, obbligo di effettuare le operazioni di raccolta e di

selezione delle materie prime manualmente, età minima richiesta per la macellazione dei

suini, impiego di sistemi tradizionali di lavorazione, vincoli concernenti l’ubicazione

degli impianti, prescrizione di metodi specifici di produzione, conservazione o

stagionatura, ecc.) e il costo di produzione.

Innovazione Rafforzamento

Specializzazione

Sviluppo di caratteristiche di unicità e di

più alta qualità

Relazioni

cooperative

con altre

imprese

Alleanze strategiche o accordi di

collaborazione

Strategie

Tecnologica

Page 39: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

38

Le possibili soluzioni sono, ovviamente, particolarmente complesse e non si prestano a

facili schematizzazioni. Infatti, le strategie necessarie investono sia problematiche

connesse con le imprese e le filiere che quelle relative al territorio inteso come sistema di

relazioni economiche, sociali e istituzionali. Da questo punto di vista, una soluzione da

ricercare nel quadro delle implicazioni dell’analisi relative alle strategie di sviluppo

qualitativo è sicuramente quella che fa leva sulla ricerca di accordi cooperativi (network

di imprese, alleanze strategiche, sistemi di relazioni orizzontali e verticali, ecc.). Una

soluzione, questa, che, anche se necessaria, non appare comunque sufficiente, soprattutto

se si tiene conto del fatto che i prodotti tipici esprimono un sistema locale di produzione

che travalica gli aspetti più prettamente agricoli e alimentari, per abbracciare anche

ambiti socio-economici, istituzionali, culturali e ambientali. In altri termini, lo sviluppo

del settore dei prodotti tipici implica la messa in atto di un sistema di relazioni coordinate

e sinergiche che hanno come riferimento, oltre alle imprese produttrici, le diverse

componenti del sistema territoriale.

In tale contesto, assumono un rilievo particolare i diversi interventi mirati all’attuazione

di appropriate politiche di marketing orientate al consumatore che abbiano come soggetti

protagonisti le imprese, i Consorzi di tutela e le istituzioni. Iniziative tese a creare e/o

accrescere un valore differenziale del prodotto che il consumatore sia in grado di

percepire e di riconoscere all’interno del quadro più generale dell’offerta. In altri termini,

indipendentemente dalla strategia di sviluppo attuata, anche per le imprese del settore dei

prodotti tipici, appare ineludibile la necessità di ricercare un continuo rapporto di

interfaccia con il mercato e, quindi, di confrontarsi con le attese dei consumatori. In

questa prospettiva, la competitività delle imprese e dei sistemi territoriali appare sempre

più definita dalla capacità di valorizzare il potenziale di domanda latente, trasformandola,

attraverso appropriate strategie di marketing, in domanda reale e in comportamenti

d’acquisto coerenti. Inoltre, questa strategia richiede anche la gestione di relazioni interne

al Consorzio e al sistema territoriale che siano in grado di accrescere il valore per il

consumatore. Un siffatto network, nel caso specifico dei prodotti tipici presenta ancora

numerosi elementi di debolezza a causa della scarsa attenzione alle problematiche

connesse con le strategie di filiera e di sistema e, soprattutto, della bassa propensione dei

diversi attori dei sistemi agroalimentari e territoriali a sviluppare strategie unitarie e

cooperative.

Page 40: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

39

9. Prodotti tipici e sviluppo locale

Un ultimo cenno, quando si prendono in esame le problematiche economiche dei prodotti

tipici, merita essere fatto riguardo alla problematica del ruolo che queste produzioni

possono assolvere per lo sviluppo del territorio. Questa tematica è stata introdotta dal

documento dell’Unione Europea su “Il futuro del mondo rurale”, del 29 luglio 1988. Il

documento in questione assegnava all’agricoltura ruoli diversi a seconda della diversa

realtà territoriale. In particolare, esso evidenziava come nelle realtà agricole deboli,

l’iniziativa comunitaria doveva puntare allo sviluppo non solo del settore agricolo, ma a

quello dell'intero mondo rurale. Questa posizione ha trovato conferma nel documento

conclusivo della Conferenza tenuta nel novembre del 1996 a Cork (in Irlanda), dove gli

Stati membri dell’Unione Europea hanno deciso di fare dello sviluppo rurale il “secondo

pilastro” della Politica Agricola Comunitaria (PAC). Secondo questa impostazione, le

problematiche connesse con lo sviluppo del settore agroalimentare vengono ricondotte

all’interno di un unico processo di sviluppo del territorio basato sulla dimensione

qualitativa. In questo processo, l’agricoltura è chiamata a garantire non solo la semplice

produzione alimentare, ma anche una serie di servizi dai quali derivano esternalità

positive in favore dell’intera collettività. In sostanza, l’agricoltura, in tali contesti, assume

un significato ben diverso da quello tradizionale, divenendo un’attività multifunzionale.

Questa impostazione ha trovato ulteriore sviluppo nel quadro delle proposte avanzate da

Agenda 2000 e un quadro applicativo nel Regolamento (CEE) n. 1257/99, recante

disposizioni per il Fondo europeo di orientamento e garanzia a sostegno dello sviluppo

rurale. In altre parole, la visione delle specifiche realtà territoriali, per le quali è possibile

definire un modello che assegni all’agricoltura un preciso ruolo a garanzia dello sviluppo

locale e del benessere di una determinata collettività, appare legata alle prospettive di

affermazione di un’agricoltura di qualità. Come è noto, si tratta di un’impostazione, che

riflette le esigenze di sviluppo di molte realtà dell’agricoltura italiana. Il modello di

sviluppo locale proposto ha, in questo caso, un elemento qualificante in un progetto

strategico di valorizzazione complessiva del territorio che fa leva sull’agricoltura di

qualità, sulle produzioni tipiche e biologiche, ma anche su quelle attività extra-agricole

più direttamente connesse con il territorio e le sue tradizioni, secondo una logica di

Page 41: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

40

sviluppo endogeno. In questo quadro, si collocano anche le attività di altri settori, legate

comunque al ruolo economico dei prodotti tipici, quali il turismo e l’agriturismo.

Tutto ciò rappresenta una scelta strategica estremamente importante, in base alla quale è

possibile definire un preciso ruolo dell’agricoltura e, più in generale, dell’agroalimentare,

basato sulla mobilitazione di un patrimonio di relazioni e di risorse (umane, tecnologiche,

culturali, istituzionali, ambientali e paesaggistiche) di grande entità, nel quadro di un

processo di sviluppo complessivo che sappia conciliare gli obiettivi economici delle

imprese private con la salvaguardia e la gestione dell’ambiente e delle risorse rurali per il

benessere collettivo.

Page 42: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

41

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Page 45: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

44

APPENDICE

I prodotti tradizionali delle Marche (BUR Marche n. 100 del 5.10.2000)

Bevande analcoliche, distillati e liquori

Sapa

Vino cotto - vì cotto - vì cuot

Visner - vino di visciole

Carni (e frattaglie) fresche e loro preparazione

Barbaglia

Budellino di agnello o capretto crudo

Cappone rustico o nostrale

Ciarimbolo - buzzico - ciambudeo

Ciauscolo – ciabuscolo - ciavuscolo

Cicoli - ciccioli - sgrisciuli

Coppa di testa - tortella

Gallo ruspante

Lonza - capocollo - scalmarita

Lonzino - capolombo

Mazzafegato - salsiccia matta

Miaccio - miaggio - migliaccio

Pancetta arrotolata

Porchetta

Prosciutto aromatizzato del Montefeltro

Prosciutto delle Marche

Salame di soprassato o sopressato

Salame lardellato

Salsiccia di fegato

Salsiccia

Spalletta

Tacchino bronzato rustico o nostrano galnacc – dindo

Formaggi

Cacio in forma di limone

Caciotta

Caprino

Casecc

Formaggio di fossa

Pecorino

Pecorino in botte

Raviggiolo

Ricotta

Slattato

Page 46: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

45

Prodotti vegetali allo stato naturale o trasformati

Bacche di biancospino in sciroppo

Carciofo monteluponese o scarciofrno

Carciofo violetto precoce di Jesi

Cavolfiore “precoce di Jesi”

Cavolfiore “tardivo di Jesi”

Cicerchia

Cipolla di suasa

Composta di castagne

Cotognata

Farro “triticum dicoccum”

Germogli di pungitopo sollt’olio

Germogli di tamaro sott'olio

Germogli di vitalba sott'olio

Marmellata di more

Marrone del Montefeltro

Oliva tenera ascolana del piceno

Olive nere marinate

Orzo mondo tostato macinato

Tartufo bianco

Tartufo nero estivo o scorzone

Tartufo nero pregiato

Visciolata

Visciole e amarene di Cantiano

Visciole essiccate

Condimenti

Salsa di olive

Paste fresche e prodotti della panetteria, della biscotteria, della pasticceria e della

confetteria

Anicetti

Biscotti di mosto

Bostrengo

Calcione di Treia

Cavallucci

Chichiripieno o chichì

Ciambella frastaliata - ciammella strozzosa

Ciambelle all'anice o anicini

Ciambellone

Crescia – crescia brusca – spianata - cacciannanzi

Cresciolina

Crostata al torrone

Crostoli del Montefeltro

Fiocchetti – frappe

Fristingo - fristingu - frestinghe

Frittelle di polenta

Frustenga

Page 47: Corso di mktg agroalimentare uni urbino

46

Funghetto di offida

Lonza di fico - lonzino di fico - lonzetta di fico - salame di fico

Maccheroncini di campofilone - cappellini di campofilone

Maiorchino – marocchino

Miaccio – miaggio - migliaccio

Lonzino di fico

Pan nociato

Pane a lievitazione naturale

Pane di chiaserna

Pane di pasqua di Borgopace

Pizza con le noci

Pizza di pasqua o crescia di pasqua

Pizza o crescia di pasqua al formaggio

Screscia sotto la cenere - torta coi ovi serpe

Torrone di fichi - panetto di fichi

Torta di granoturco in graticola

Ungaracci