Corridoio - la Repubblica

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La dolce vita a Hollywood di Riz Ortolani Spettacoli GIUSEPPE VIDETTI Cartoline per un Papa prigioniero La storia AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI e MICHELE SMARGIASSI LISBONA-KIEV S anta Apollonia è la stazione principale. Due binari per convogli suburbani, un treno per Bilbao, una tettoia di ferro e vetro affumicato, aria dall’oceano e dal Tago. Li- sbona se ne sta sospesa fra un passato nostalgico d’im- pero e un futuro internazionale che non verrà più, qualche vezzo li- berty e il rimpianto per la promessa — tradita — di diventare la sor- gente del mitico “Corridoio 5”, l’asse Lisbona-Kiev che doveva uni- re l’Europa dall’Atlantico alle steppe con il miracolo delle grandi opere e dell’alta velocità. E che invece perde le ali e anche pezzi del suo ventre e del suo cuore. Quinto pilastro di un sontuoso progetto di viabilità europea stabilito nelle conferenze di Creta e Helsinki a metà degli anni Novanta, oggi quel corridoio, spesso nominato (so- prattutto a proposito di un suo piccolo tratto, quello tra Torino e Lio- ne) ma mai percorso per intero, rimane sostanzialmente un miste- ro. Nella sua articolazione, nella sua utilità, nelle prospettive. E il mistero comincia proprio dalla testa. Il 21 marzo scorso il go- LUCA RASTELLO verno portoghese ha annunciato l’abbandono di ogni progetto di al- ta velocità. Una decisione accolta con flemma: oplà, il Portogallo non c’è più. Del resto, lo vedremo, anche l’Ucraina non si sa bene do- ve sia andata a finire. Resta in piedi però il sogno di un’Europa unita da una rete di infrastrutture viarie, ma nella forma di una ragnatela di tratti a media percorrenza stesa su tutto il continente e chiamata “Ten-T”. Quanto al Corridoio 5, ridimensionato, viene oggi ribat- tezzato Corridoio Mediterraneo. Lasciamoci dunque alle spalle Santa Apollonia e anche l’ambi- zioso complesso della Stazione del Mare (un solo treno al giorno per Madrid, undici ore, come dire che tanto vale andarci a piedi). Non si va a Madrid, però: rotta a sud. E non in treno, in corriera, fra nuvole- batuffolo, colline, sorgenti africane, mulini (eolici). Sommerso il Portogallo, la penisola iberica torna a sdraiarsi dove l’aveva imma- ginata Strabone, che qui collocò le porte dell’oltretomba: siamo ad Algeciras, di fronte al Marocco, un tiro di lancia da Gibilterra. È qui che la Commissione europea vuole la fonte del Corridoio Mediter- raneo. Palazzine bianche in una conca, un porto dai ritmi frenetici, povertà magrebina, disoccupazione al quaranta per cento. (segue nelle pagine successive) Corridoio Doveva collegare l’Europa da Lisbona a Kiev Per vedere a che punto è ci siamo messi sulle sue tracce Ecco il racconto del viaggio nell’Alta velocità che non c’è LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 MAGGIO 2012 NUMERO 377 CULT La copertina BACCALARIO E MURPHY PAUL Neuroletteratura: così il cervello viene influenzato dai romanzi La recensione ALBERTO ASOR ROSA Quei pappagalli che scherzano sui premi per scrittori All’interno L’intervista SUSANNA NIRENSTEIN Jeet Thayil “La cara Bombay una Narcopolis allegra e freak” L’opera ANGELO FOLETTO Camilleri non c’è e l’allestimento di Mascagni si perde sopra le righe Il libro ALESSANDRO BARICCO Una certa idea di mondo: “La liturgia western secondo Leonard” 5 FOTO GETTYIMAGES

Transcript of Corridoio - la Repubblica

La dolce vitaa Hollywooddi Riz Ortolani

Spettacoli

GIUSEPPE VIDETTI

Cartolineper un Papaprigioniero

La storia

AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANIe MICHELE SMARGIASSI

LISBONA-KIEV

Santa Apollonia è la stazione principale. Due binari perconvogli suburbani, un treno per Bilbao, una tettoia diferro e vetro affumicato, aria dall’oceano e dal Tago. Li-sbona se ne sta sospesa fra un passato nostalgico d’im-

pero e un futuro internazionale che non verrà più, qualche vezzo li-berty e il rimpianto per la promessa — tradita — di diventare la sor-gente del mitico “Corridoio 5”, l’asse Lisbona-Kiev che doveva uni-re l’Europa dall’Atlantico alle steppe con il miracolo delle grandiopere e dell’alta velocità. E che invece perde le ali e anche pezzi delsuo ventre e del suo cuore. Quinto pilastro di un sontuoso progettodi viabilità europea stabilito nelle conferenze di Creta e Helsinki ametà degli anni Novanta, oggi quel corridoio, spesso nominato (so-prattutto a proposito di un suo piccolo tratto, quello tra Torino e Lio-ne) ma mai percorso per intero, rimane sostanzialmente un miste-ro. Nella sua articolazione, nella sua utilità, nelle prospettive.

E il mistero comincia proprio dalla testa. Il 21 marzo scorso il go-

LUCA RASTELLO verno portoghese ha annunciato l’abbandono di ogni progetto di al-ta velocità. Una decisione accolta con flemma: oplà, il Portogallonon c’è più. Del resto, lo vedremo, anche l’Ucraina non si sa bene do-ve sia andata a finire. Resta in piedi però il sogno di un’Europa unitada una rete di infrastrutture viarie, ma nella forma di una ragnateladi tratti a media percorrenza stesa su tutto il continente e chiamata“Ten-T”. Quanto al Corridoio 5, ridimensionato, viene oggi ribat-tezzato Corridoio Mediterraneo.

Lasciamoci dunque alle spalle Santa Apollonia e anche l’ambi-zioso complesso della Stazione del Mare (un solo treno al giorno perMadrid, undici ore, come dire che tanto vale andarci a piedi). Non siva a Madrid, però: rotta a sud. E non in treno, in corriera, fra nuvole-batuffolo, colline, sorgenti africane, mulini (eolici). Sommerso ilPortogallo, la penisola iberica torna a sdraiarsi dove l’aveva imma-ginata Strabone, che qui collocò le porte dell’oltretomba: siamo adAlgeciras, di fronte al Marocco, un tiro di lancia da Gibilterra. È quiche la Commissione europea vuole la fonte del Corridoio Mediter-raneo. Palazzine bianche in una conca, un porto dai ritmi frenetici,povertà magrebina, disoccupazione al quaranta per cento.

(segue nelle pagine successive)

CorridoioDoveva collegare l’Europa da Lisbona a Kiev

Per vedere a che punto è ci siamo messi sulle sue tracce Ecco il racconto del viaggio nell’Alta velocità che non c’è

LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 20MAGGIO 2012

NUMERO 377

CULT

La copertina

BACCALARIO E MURPHY PAUL

Neuroletteratura:così il cervelloviene influenzatodai romanzi

La recensione

ALBERTO ASOR ROSA

Quei pappagalliche scherzanosui premiper scrittori

All’interno

L’intervista

SUSANNA NIRENSTEIN

Jeet Thayil“La cara Bombayuna Narcopolisallegra e freak”

L’opera

ANGELO FOLETTO

Camilleri non c’èe l’allestimentodi Mascagni si perdesopra le righe

Il libro

ALESSANDRO BARICCO

Una certaidea di mondo:“La liturgia westernsecondo Leonard”

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LA DOMENICA■ 28DOMENICA 20 MAGGIO 2012

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La copertinaCorridoio 5

(segue dalla copertina)

migranti marocchini si concentrano aAlgeciras per essere vicini alle famiglie:«Se il lavoro va male torno prima e spen-do meno», racconta Said Muhammad,titolare di un’agenzia di viaggi. Mai sen-tito parlare di alta velocità. Don CarlosFenoy, invece, presidente della Cameradi commercio locale è fra i più convintisostenitori dell’utilità del Corridoio, so-lo che lo intende in una maniera per noiitaliani sorprendente: «Alta velocità perle merci? Lei è matto! Il consumo ener-getico e l’usura dei carri oltre gli 80 chi-lometri orari aumentano esponenzial-mente i costi. E poi treni veloci e nodiinadeguati significano intasamenti nel-l’ultimo chilometro: pensi a una grandeautostrada con piccoli caselli». La Spa-gna del resto sta riducendo drastica-

Lione: niente ci può rallentare, salvo unsuicida che inchioda il treno per due orealle porte della città.

È qui che inizia la storia a noi più no-ta e controversa. Storia di molte lotte epochi scavi, tutti comunque sul latofrancese: tre tunnel esplorativi parallelial tracciato che dovrebbe collegare St.Jean de Maurienne a Venaus in val Susa.In Italia niente: a Chiomonte si combat-te intorno a uno steccato perché, inmancanza di progetto esecutivo, non sipuò scavare nemmeno un centimetrocubo. Poco sotto St. Jean, all’ingressodel terminal intermodale di Bourgneufla Rochette, capolinea dell’Autostradaferroviaria alpina che porta allo scaloitaliano di Orbassano, alcuni Tir cister-na attendono il carico sui convogli:quattro al giorno. Pochi, e il progettoche aveva suscitato tante speranze alsuo varo sette anni fa è sopravvissuto fi-nora grazie a pesanti sovvenzioni pub-bliche: circa 900 euro per ogni mezzotrasportato, oltre cento milioni di euroin contributi statali. Michel Chaumatte,direttore dell’Afa, però è ottimista: «Ilproblema era la sagomatura delle galle-rie di confine che permetteva solo il tra-sporto di cisterne, ma ora gli ammoder-namenti al Frejus ci permetteranno diportare anche i Tir a sezione quadrataraddoppiando la capacità della linea». Ilavori dovevano finire nel 2007, d’ac-cordo, ma la storia del Corridoio è tuttacosì: i matematici conoscono la legge ri-

mente gli investimenti infrastrutturali:5.400 milioni di euro in meno rispetto al2001 (meno 36 per cento e meno 55,6per cento per il porto di Algeciras). Nonsolo: molta parte dei finanziamenti èdestinata ad alimentare la rete auto-stradale, non le ferrovie. Eppure, nono-stante i tagli, l’alta velocità passeggeri daAlgeciras a Bobadilla (raccordo Tav ver-so Madrid) si farà. E si farà grazie a unasoluzione sorprendente.

Per scoprirla dobbiamo raggiungereRonda attraversando un labirinto di al-ture, forre, aranceti in verticale, voli diaguila calvada, grida d’uccelli (ptuiit!).Un solo binario corre tra i boschi, suogni traliccio un nido di cicogna, su ognialbero il parassita del vischio. Come po-trà una linea ad alta velocità attraversa-re senza danni questa meraviglia? Ra-fael Flores, responsabile del nodo ferro-viario di Ronda, spiega: «Semplice. Perottenere lo scartamento adatto ai treniveloci aggiungiamo una terza rotaia al-l’interno delle due guide sulla linea esi-stente: i treni lenti correranno sullo

scartamento spagnolo, quelli veloci suquello internazionale». Tutto su un so-lo binario? «Certo. Con un buon pianodi movimento gli incroci si fanno nellestazioni». Senza cemento, e senza inve-stimenti colossali. È la scelta del mini-stro per lo Sviluppo Ana Pastor che, ac-cantonando le previsioni a nove zerid’epoca zapateriana, stanzia in tutto1.240 milioni di euro per collegare con il“terzo filo” i porti di Tarragona, Castel-lon, Valencia e Alicante.

Come sull’aereoMa ora, in attesa dell’alta velocità che

verrà, per noi è tempo dell’alta velocitàche già c’è, quella di cui la rete ferrovia-ria spagnola è dotata da oltre quindicianni. Ci imbarchiamo così a Cordoba,su un supertreno che gioca all’aereo tracontrolli da aeroporto (dopo le stragi diAtocha si può capire) e simulazioned’atterraggio (una voce suadente rac-comanda di restare seduti attendendol’arresto completo del convoglio). Finoa Madrid sono 400 chilometri in un qua-si lampo (a prezzi non proprio popola-ri, 68,9 euro in seconda). Quindi “volia-mo” attraverso Barcellona, il confinemediterraneo con la Francia, Perpi-gnan, gli stagni del sud, Montpellier,

LUCA RASTELLO

LISBONAIl Corridoio 5 sarebbe dovuto partire da quiSe solo il Portogallo non avesse appenadetto addio al progetto di alta velocità

ALGECIRASLa nuova stazione di partenza dovrebbespostarsi in Andalusia: ma l’alta velocitàriguarderà i passeggeri, non le merci

CORDOBA-MADRID-BARCELLONA-LIONEIn Spagna l’alta velocità passeggeri esisteda più di quindici anni: è questo l’unico verotratto funzionante del Corridoio 5

LIONE-TORINOÈ il tratto della discordia: qui, in Val Susa,si fronteggiano i No Tav e quelli secondocui “l’Europa sta aspettando solo noi”

In Italia la conosciamo per le proteste in Val Susa,ma la Torino-Lione è solo una parte della linea ferroviariache dovrebbe collegare l’Europa da Lisbona a KievL’abbiamo percorsa tutta. Scoprendo che: Portogalloe Ucraina hanno rinunciato, la Spagna ha scelto i pullman,in Ungheria non ne sanno nulla e in Francia le cicogne...

I fantasmi dell’Alta velocità

FOTO DI VIAGGIO

■ 29DOMENICA 20 MAGGIO 2012

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corsiva di Hofstadter — «Ci vuole sem-pre più tempo del previsto, anche se sitiene conto della legge ricorsiva di Hof-stadter» — gli ingegneri e Bruxelles no.Ma se l’Afa passa dal Frejus, il supertun-nel della Torino-Lione a che serve?Chaumatte: «Diminuendo la pendenzapermette di risparmiare sui costi legatialla trazione». A patto di non andare ve-loci: «Diciamo che l’alta velocità è unvantaggio ma riguarda i passeggeri».Che però, come tutti sanno, sono dimi-nuiti fino a spingere le ferrovie italiane efrancesi a sopprimere il collegamento.Stessa sorte delle merci, per altro: meno30 per cento di traffico nel decennioscorso, con un ritorno ai volumi del1993. Anche i calcoli finanziari stridono:il costo delle opere previsto per il pros-simo decennio sull’intera rete europea“Ten-T” si aggira sui 500 miliardi, laCommissione europea propone unostanziamento di 31,7. Il resto a carico deisingoli stati e della loro capacità di at-trarre investitori privati. Ma se nel de-cennio scorso i miliardi investiti dallaUe sono stati solo otto è quantomenoottimistico pensare che in tempi di crisiBruxelles autorizzi finanziamenti qua-druplicati. E anche se così fosse al Cor-ridoio Mediterraneo (una sola fra le die-ci direttrici prioritarie) spetterebbe almassimo il dieci per cento di quellasomma, poco più di tre miliardi. E vo-lendone stanziare il dieci per cento allaLione-Torino si arriva alla cifra di 300

milioni da spartire tra Italia e Francia afronte di una spesa prevista di 17 miliar-di. Possiamo permettercelo? «In effetti— commenta un esponente di Confin-dustria Piemonte — i vantaggi veri sonosolo sulla prospettiva occupazionale lo-cale e a breve: la Torino-Lione in realtàè un caso Jimby: Just in my backyard!».

Quassù, sui valichi che uniscono laMaurienne alla val Susa, rimbomba an-cora l’eco delle liti e delle battaglie, e loslogan dei No Tav — «Sarà dura» — fron-teggia convinzioni di segno opposto:«L’Europa è pronta, manchiamo solonoi». Il vento disegna un labirinto doveci si può perdere fra voci di rabbia, vio-lenze, ma anche grandi previsioni di-sattese e promesse a lunghissima sca-denza (opere che andranno in eserciziofra il 2030 e il 2050). Ottimismo, mal dimontagna, grida di uccelli. Ptuiit.

L’acqua dei torinesiQuasi con sollievo procediamo oltre,

su piccole, sporche, lente carrozze loca-li, verso le colline e poi la piana torinese.Per imbatterci però in un grosso guaio avalle, dove il tratto nazionale della Lio-ne-Torino, che devia sotto la collinamorenica di Rivoli verso l’interporto diOrbassano per poi riconnettersi allaTav per Milano attraverso la “grondanord”, semplicemente «non si faràmai». Ce lo assicura un ingegnere dellacommissione regionale per la valuta-zione di impatto ambientale: «Il proget-to prevede un interramento a quarantametri di profondità. Il tunnel si infila népiù né meno che nella falda idropotabi-le della città. Attenzione, non in quellairrigua: proprio nell’acqua che va nelle

case dei torinesi. Impensabile e illega-le». Alta velocità da bere, argomento daapprofondire. Non ora, però, non qui.

Veniamo trascinati a più di 300 chilo-metri orari verso Milano, dove ci inta-siamo secondo il modello dello spagno-lo Fenoy, per correre ancora un po’ —poco — fino a Treviglio: attraverseremola pianura padana a passo di tradizione.Stranamente, nel tratto geologicamen-te meno problematico, da Brescia a Pa-dova, l’alta velocità si farà attendere an-cora molto: il progetto è in fase prelimi-nare e Rfi (Rete ferroviaria italiana) ne-ga il proprio contributo, anche se il trat-to padano doveva essere completatoentro il 2010. Dal 2008 è pronto, però, unsegmento di 28 chilometri tra Padova eMestre, ma non fai in tempo ad aprire lafalcata che sei di nuovo in una palude,fra Venezia e Trieste. Qui, per non per-dere i soliti fondi spesi in studi di pro-gettazione, a dicembre 2010 fu presen-tato in fretta e furia un progetto prelimi-nare purchessia: era la “Tav balneare”,che doveva portare bagnanti alle spiag-ge della “grande Jesolo”, poi bucare lefriabili doline del Carso, sfiorare Mon-falcone dove Unicredit intendeva fi-nanziare la triplicazione del porto, su-perare Trieste in galleria ed entrare inSlovenia. Ma poi l’amministratore de-legato di Rfi, Moretti, fece notare che laTav serve le grandi città e non gli jeso-lotti, i sindaci locali documentarono ildisastro ambientale in vista, la città diTrieste rifiutò l’interramento: una Ca-poretto.

Lasciamo così Trieste al suo destino eci imbarchiamo mestamente in corrie-ra verso il porto di Koper e lo snodo di Di-vaca che nessuna ferrovia collegheràmai all’Italia. Perché è qui, sul Quarna-ro, che si apre la ferita mortale all’ideaplatonica di Corridoio. L’ultimo trenodall’Italia verso Lubiana è partito nel di-

cembre 2011. Dispetti, priorità, ripic-che e rappresaglie: fra i litigi italo-slove-ni, le piume nazionaliste che si gonfia-no sul petto del governo ungherese, ladistrazione ucraina in vista degli Euro-pei di calcio, questa diventa ora la storiadel nostro viaggio. Sono in molti oggi apensare che il Corridoio più redditizionon sia sull’asse est-ovest ma su quelloBaltico-Adriatico che unisce il Mediter-raneo alle grandi economie dell’Europacentrale e settentrionale. Il progetto eu-ropeo ne prevede lo sbocco sui nostriporti friulani, veneti e di Ravenna. La ri-chiesta slovena di una bretella che vi ag-ganciasse Koper è stata rigettata su insi-stenza del governo italiano, sotto lapressione del governatore veneto Zaia.Rappresaglia da Lubiana: nessun colle-gamento fra Trieste e i mercati orienta-li. Le merci dirette a est possono usare ilporto di Koper e il nodo di Divaca.

Gli snodi crucialiFacciamo quindi visita ai vagoni ar-

rugginiti di Divaca, scavalchiamo Lu-biana e poi tappa a Maribor prima diinoltrarci fra le colline ungheresi, in undedalo di stradine che portano agli sno-di “cruciali” (in prospettiva Ten-T) diZalalovo e Boba: chioschi persi nel pae-saggio rurale. Anche qui come nel suddella Spagna l’aria appartiene alle cico-gne, le chiome degli alberi alle palle divischio. Anche qui si parla di trasportosu gomma: «La nostra priorità — di-chiara un portavoce del ministero deiTrasporti — non è la ferrovia: i finanzia-menti Ue andranno alle autostrade, inprimo luogo al raccordo anulare dellacapitale e il collegamento fra Miskolc eil confine ucraino». È un’interpretazio-ne legittima: il Corridoio, nelle inten-zioni, è un sistema intermodale che pre-vede grandi investimenti sull’asfalto,con buona pace di chi ama l’argomentodel trasferimento su rotaia. E poi anchequi interessa molto di più il collega-mento con il nord, Austria via Gyor, chenon con noi.

Ma lasciamo anche questo tema alle

analisi logistiche, il nostro compito èsfiorare le facciate elegantementeasburgiche, i caffè e i tram colorati di Mi-skolc, pazientare in coda alla frontieradell’Unione e correre in Ucraina. DopoUzhgorod, la strada si raggomitola fra levalli dei Carpazi, villaggi di legno e fore-ste piene di mostri e leggende. Da qual-che parte ci sarà pure un trenino, ognitanto spunta una stazioncina, si intra-vede un binario, raramente un cavo perla trazione elettrica. Poi il paesaggio siapre alle piane galiziane, ecco le botte-ghe color cannella di Drohobycz e lememorie dello sterminio che ha cancel-lato la civiltà degli shtetl askhenaziti, lacultura chassidica che ha influenzatometà del Novecento letterario europeoe americano. Raggiungiamo una dellecittà più belle d’Europa. Leopoli, fastoimperiale, nido di spie, capitale yiddish.Oggi duecentomila pendolari ogni gior-no e un’elegante stazione. Mancanomeno di 600 chilometri a Kiev, ma perarrivarci ci vogliono 15 ore. Si viaggia dinotte. In terza classe i letti sono inco-lonnati a tre a tre a vista, in cima alla car-rozza c’è una stufa con fuoco a legna eun capovagone dal cappello rigido offreil tè in bicchieri con supporto in metal-lo lavorato (da restituire, purtroppo). Lanotte è un mercato, si può mangiare in-sieme, fare affari, chiacchierare. Comeall’altro capo d’Europa, nessuno ha maisentito parlare di corridoi, e poi c’eranogli stadi da fare e qui non c’è un’Unioneche finanzia, insomma a poco a poco ar-riva il sonno.

Ci si sveglia a Kiev, stupiti, stropiccia-ti: la stazione alterna il moderno allo sti-le imperiale russo, l’orizzonte è abolitoda barriere di torri a trenta piani che di-segnano il futuro cementizio delle me-tropoli europee, ma i treni a motore, an-tiquati e colorati, percorrono tratte i cuisoli nomi bastano a sognare: Chisinau-Pietroburgo, Odessa-Novgorod, Vol-gograd-Danzica. La nostra missione ècompiuta, possiamo tornare indietrodopo 3.200 chilometri percorsi lungoun corridoio che non c’è. Occhi e me-moria ingolfati da frammenti di imma-gini sfiorate più o meno in corsa. Nelleorecchie grida d’uccelli: ptuiit.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

TRIESTEDue anni fa venne presentato il progettodella “Tav balneare”, ma per una volta sindaci e Rfisi sono trovati d’accordo: non se ne farà nulla

DIVACAMolto difficilmente lo snodo ferroviariosloveno verrà mai collegato all’Italia:una ferita mortale per il Corridoio

ZALALOVO E BOBAIl progetto di ferrovia europea li definisce“snodi cruciali”. Al momento sono chioschipersi nella campagna ungherese

LEOPOLI-KIEVUcraina, ultima stazione, ma non certo grazieall’alta velocità: oggi per andare in trenoda Leopoli a Kiev (600 km) ci vogliono 11 ore

L’INCHIESTA SUL SITOSul sito di Repubblica.it, RE le Inchieste, da oggitroverete gli approfondimenti del reportagesul Corridoio 5 di Luca Rastello pubblicato in questepagine. Video, foto e una mappa interattiva del lungoviaggio da Lisbona a Kiev alla ricerca dell’alta velocità

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ono passati vent’anni dall’inaugura-zione del Porto Antico di Genova, perl’Expo del ’92. So che lei ama molto dipiù parlare del futuro che del passato ein genere non le piacciono le celebra-zioni. Ma forse possiamo parlare delfuturo anche rievocando un venten-nale. Il Porto Antico fu una delle ultimegrandi opere a cambiare il cuore di unagrande città italiana. Da allora ha pre-valso, nel migliore dei casi, una speciedi pietoso maquillage.

Fra due anni ci sarà l’Expo di Mila-no e nessun milanese, compreso me,si aspetta che cambi in meglio la vitadella città, come fece il Porto Antico aGenova. Senza fare altre polemiche,quale fu l’idea guida di quel progetto?

«Senza polemiche, ricordo soltanto ifatti. Il motto dell’intera impresa fu una

frase in genovese, che presentammoperfino nel progetto alla commissioneinternazionale, con traduzione a lato.La frase era: Chì nù se straggia nìnte.Qui non si spreca nulla. E infattivent’anni dopo non si è buttato nulla.Tutto è rimasto, ha continuato a viveree a popolarsi di gente, sempre di più.L’Expo fu una formidabile occasione,perché c’erano finalmente i soldi perrisolvere un grande problema di Geno-va, la decadenza del vecchio porto, cherimaneva il cuore cittadino. Un cuoreormai molto malandato. Ma da geno-vesi inorridivamo all’idea di usare queisoldi per costruire soltanto una colos-sale e costosa vetrina internazionale,da smantellare il giorno dopo, come èavvenuto dappertutto dopo l’Expo».

In tempi di crisi della politica e di an-tipolitica montante, anche sotto le in-segne del suo amico Beppe Grillo, valela pena di ricordare che quel progettofu possibile grazie alle personalità illu-minate del sindaco Fulvio Cerofolini,ex partigiano e sindacalista, e del suovice, Giorgio Doria, il “marchese ros-

so” diseredato dalla famiglia per l’im-pegno in politica, padre del nuovo sin-daco Marco Doria. Non è così?

«Assolutamente sì. Fu un progettocollettivo, io mi limitai a fare il geome-tra della situazione. L’opera prese al-cuni anni e collaborai bene con varisindaci, Cerofolini, Campart, Merlo.Ma tutto nacque con Cerofolini e Gior-gio Doria, i migliori politici nei quali unarchitetto potesse imbattersi, onesti,moderni, colti. Giorgio Doria prese l’i-niziativa di consultare per primo Fer-nard Braudel, il grande storico del Me-diterraneo, andammo insieme e fu unincontro decisivo. In qualche modoparadossale. Sembrava conosceremeglio il carattere della città lui che noidue genovesi. E Doria era perfino di-scendente di un doge».

Venezia e Genova, miracoli della ci-viltà mediterranea, Braudel le avevastudiate per una vita. Come influenzòil suo lavoro di “geometra”?

«Mi convinse appunto a fare il geo-metra. Il miracolo urbano, l’utopia fe-lice di Genova e di Venezia consistono

LA DOMENICA■ 30DOMENICA 20 MAGGIO 2012

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La Potsdamerplatz a Berlino, a Roma il quartiere dell’Auditorium,la Columbia a New York. E il Porto Antico della sua Genova inauguratoesattamente vent’anni fa. L’architetto chiamato a ripopolarele zone morte delle metropoli spiega perché “è tempo di ricominciare dalle piccole cose”

L’attualitàExpo

CURZIO MALTESE

GENOVAAqualcuno piace pensare che un porto è il luogo dove finisce la cittàe comincia il mondo. Ai genovesi il porto antico ha regalato, nonostantetutte le loro diffidenze, la possibilità di vedere la città dal mare, fino avent’anni fa esercizio possibile solo dalla nave, e un mondo di turisti cheaffollano i moli. Quattro milioni e settantamila solo nel 2011, dicono i datinelle carte di Ariel Dello Strologo, giovane presidente della Porto Anticospa, la società pubblica che gestisce l’area, con l’acquario a fare da trainocon il suo milione e centomila biglietti staccati, incalzato però da 1,8 mi-lioni di presenze tra le attività commerciali, di relax e tempo libero. E invent’anni, il totale diventa una sfilata di zeri. «Difficile dire quanti, se solol’acquario ha fatto contare 26 milioni di ingressi e almeno sei milioni laCittà dei bambini» precisa Dello Strologo. «Ma il grande miracolo di Ren-zo Piano è stato, abbattute le barriere doganali che separavano i vicoli dal-le banchine, quello di costruire la vera piazza di Genova, che per i nove de-cimi è vissuta e animata proprio dagli abitanti che convivono con i turisti,i congressisti, i visitatori dei musei, i partecipanti a concerti e grandi even-ti, i diportisti nautici. Così come la vera vittoria è stata quella, oltre a realiz-zare un’area che ha ingrandito lo spazio cittadino, di far uscire progressi-vamente movimento dal porto antico al centro storico e alla città antica».

I vent’anni del porto antico, infatti, coincidono con quelli di palazzo Du-cale, sede della Repubblica genovese affacciata su piazza De Ferrari che fi-no a trent’anni fa nel salone del Maggior consiglio — dove una volta si riu-nivano i quattrocento nobili genovesi che detenevano il potere e sceglie-vano il doge — ospitava l’aula principale del tribunale. Quello stesso salo-ne nel luglio del 2001 ha fatto da scenario alle riunioni dei leader del G8,mentre il palazzo ha ospitato dal ’92 a oggi centoventi grandi mostre, di cuil’ultima, “Van Gogh e il viaggio di Gauguin”, chiusa il primo maggio, si èpiazzata tra le cinque più visitate al mondo, con 346mila visitatori. Ed è in-negabile che senza quella rinascita iniziata vent’anni fa Genova non avreb-be visto gli investimenti pre-G8 che hanno permesso il recupero dei pa-lazzi dei Rolli e di via San Lorenzo per il 2001, né l’investitura a capitale eu-ropea della cultura nel 2004.

È una domenica di festa questa del 20 maggio, con spettacoli ed eventiovunque nei 117mila metri quadrati del porto antico, così come a palazzoDucale. In attesa che il porto antico dopo aver conquistato l’adiacente Dar-sena con il Galata Museo del mare, concluda la sua sfida con la realizza-zione dell’altra piazza sul mare, quella di ponte Parodi, a ridosso della sta-zione Marittima dove attraccano le navi da crociera. Qui, al posto dei silosgranari abbattuti ormai da tempo, gli spazi ludici e commerciali ideati nel2000 dall’olandese Ben Van Berkel prevedono i tetti “verdi” di un prato sulmare. Si spera di vederli per il 2016.

Il miracolo della piazzaappoggiata sul mare

DONATELLA ALFONSO

Renzo Piano.

PROGETTISopra, uno schizzo di Renzo Piano per il Bigo,il simbolo del Porto Antico. Sotto, due disegnidell’architetto per il waterfront genoveseNella foto grande, l’area del porto vecchio di Genovanel 1989, durante i lavori di ristrutturazione

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all’essenza nel genio con cui sono uti-lizzati spazi minimi. Dal mio studioverso Arenzano fino a Nervi, Genova èuna striscia cittadina di ventidue chi-lometri, stretta fra alte montagne e unmare profondo. Lo sfogo e la ricom-pensa di tanta angustia, fisica, politicaed economica, è sempre stato il porto,l’apertura al mondo. In quegli anniperò la città aveva voltato le spalle almare, il vecchio porto era diventatouna specie di ghetto. Bisognava riapri-re quella porta, quella piazza, l’unicavera piazza di Genova. Vede, i miei ri-cordi più belli da bambino erano diquando mio padre mi portava per ma-no la domenica a passeggiare al porto.Da decenni nessuno lo faceva più,nemmeno io coi miei figli».

Se l’obiettivo era di riportare padrie figli per mano nel porto antico, è sta-to raggiunto alla grande. Non solo frai genovesi. Milioni di bambini ora co-noscono il porto antico e l’acquario.

«Sì, ed è una grande gioia. Qualcunodice anche che l’acquario ha avuto fintroppo successo e in un certo senso so-no d’accordo. Da genovese mi piace-

rebbe che i turisti non si fermassero al-l’acquario e dintorni, ma salissero pervisitare uno dei centri storici più bellidel mondo».

Uno dei motivi per cui Piano pas-serà alla storia è questa capacità di po-polare zone morte delle città. Il centroPompidou, il porto di Genova, Pot-sdamerplatz a Berlino, il quartieredell’Auditorium a Roma. Esiste un se-greto da rivelare ai giovani architetti?

«Ai ragazzi che vengono a bottega dame, a Genova o a Parigi, dico sempre distare molto attenti a come si cominciaun progetto. Io disegno per prima unapiazza, sempre. Il vuoto, prima del pie-no. Italo Calvino, che ho avuto la fortu-na di conoscere bene, scriveva cheogni città ha un luogo felice e sono fe-lici i luoghi dove i cittadini vanno vo-lentieri».

La piazza è la grande invenzione ur-banistica e politica degli italiani. NelSettecento venivano chiamati gli ar-chitetti italiani per costruirle in tuttaEuropa, da San Pietroburgo a Sali-sburgo. È ancora così, almeno per lei?

«Sì, mi chiamano in giro per il mon-

do anche per questo. Prenda il proget-to della nuova sede della ColumbiaUniversity a New York. Nasce tutto in-torno a una piazza e credo sia questauna delle principali ragioni per cuil’hanno scelto».

A Genova la piazza del porto anticoè piuttosto singolare, una piazza amare, come la splendida piazza del-l’Unità a Trieste.

«Una piazza fra due città, la Genovadi pietra dei palazzi del centro e la Ge-nova d’acqua del porto. Una potenteed eterna, di marmo, l’altra mobile,con una toponomastica che cambiaogni giorno, anzi quasi ogni ora, con lenavi alte come palazzi che vanno evengono. Nel mare che si muove an-che di notte, non sta fermo mai, comecanta Paolo Conte. Un altro elementoimportante era creare un luogo inter-nazionale, nel solco della tradizionecittadina. Genova è una città interna-zionale per vocazione e necessità. Hafatto del meticciato, la propria forza. Èda secoli multietnica, si direbbe oggi.Se prendi i pittori genovesi del quindi-cesimo secolo, trovi in ogni ritratto di

famiglia un nero, un orientale. La fac-ciata della chiesa di San Lorenzo è fat-ta con pezzi presi da tutto il mondo.Nei mercati cittadini trovavi sapori eodori di ogni angolo della terra».

Negli anni del progetto del porto an-tico, un suo amico, Fabrizio De Andrè,inventava con Creuza de ma la worldmusic, mescolando le sonorità del Me-diterraneo, intorno alla riscoperta del-la lingua genovese. Oggi la via che co-steggia l’acquario porta il suo nome.

«Gli sarebbe piaciuta, è una via cheporta al mare, dove finiscono tutte lestorie dei genovesi. Fabrizio è stato unfratello per trentacinque anni e unodei primi a cui ho parlato del progetto.Il fatto curioso è che io cercavo da ar-chitetto di fare il poeta e lui, poeta ve-ro, invece mi incalzava molto sugliaspetti pratici. De Andrè era coltissi-mo, curiosissimo della tecnica, sem-pre aperto al nuovo. Ricordo che già al-lora parlava di sostenibilità, un con-cetto sconosciuto all’epoca. L’intui-zione di incrociare le tradizioni musi-cali del mondo era in anticipo divent’anni sulle mode e in un’Italia do-

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Come si trasforma una cittàve l’immigrazione straniera ancoraquasi non esisteva».

Oggi le città italiane sono sempremeno vivibili, divise in ghetti per ric-chi e per poveri. Per non parlare delloscempio dei nostri porti. È possibileinvertire la tendenza?

«È paradossale, ma quando vado ingiro per il mondo, da Los Angeles aSeul, tutti citano come modello le cittàitaliane, il nostro stile, il vivere appun-to in piazza, in strada. Noi invece negliultimi anni abbiamo pensato di imita-re mediocri modelli stranieri, immagi-nando d’inseguire chissà quale straor-dinaria modernità. Sono molte le coseda fare, ma l’errore è pensare solo agrandi opere, utili magari alla politicaspettacolo, ma non alla vita di tutti igiorni. Bisognerebbe invece comin-ciare dal piccolo, dalle piste ciclabili,dai giardini, dai mille minimi inter-venti per ricucire il tessuto urbano, apartire dalla periferia fino al cuore del-le città. E naturalmente bandire le au-tomobili dai centri cittadini. Riacqui-stare insomma uno sguardo più lungo.La politica di questi vent’anni ha inse-guito il consenso giorno per giorno,ma alla fine lo sta perdendo tutto in-sieme. Mi auguro che chi arriverà ab-bia imparato la lezione».

CITTÀ DEL VATICANO

i sfogliava, è bello pensare, all’ora dell’Angelus serale, alla lucedelle candele, compiuti gli atti del governo pontificale. Con at-tenzione, curiosità, con malinconia forse, il papa guardava infigura il mondo che non poteva più vedere di persona, luoghivicini e lontani, popoli familiari ed esotici, metropoli e villaggi.Forse il camerlengo glieli poggiava sulla scrivania, perché era-no pesantissimi, quegli album spessi, dalle rilegature imbotti-te o scolpite, perfino in metallo sbalzato. E Pio IX era un papaanziano, ottantenne, affaticato dalla storia. «Prigioniero in Va-ticano», si era dichiarato tale lui stesso, nel 1870, sdegnatoostaggio dell’«assurdità, o astuzia, o ludibrio» dei piemontesiusurpatori e delle loro ipocrite “Guarentigie”. Non era un’esa-gerazione polemica: da quel palazzo papa Mastai non uscì più,se non in un feretro, nel 1878. Primo pontefice infallibile, maanche primo papa-re spodestato, derubato del potere tempo-

rale, esule volontario dall’urbe e dall’orbe. Non li aveva richiesti lui. Quegli album cominciarono ad ar-

rivargli spontaneamente subito dopo la presa di Porta Pia, datutto il mondo. L’affetto commosso e indignato della Cristia-nità verso il pontefice maltrattato si scatenava in una valangadi lettere, omaggi, piccoli e grandi doni. E tantissime fotografie.Era un’arte giovane, nel 1870, la fotografia, appena trent’annidi vita. Frutto della modernità, teologicamente un po’ sospet-to: al suo apparire, i tradizionalisti gridarono allo scandalo del-la superbia umana che «osa duplicare la Creazione». Un gio-cattolo maleducato e pericoloso, ci si potevano fabbricare im-maginette licenziose, nella Roma risorgimentale circolavanofotomontaggi politici beffardi e osceni fatti diffondere, si so-spettò, da Cavour stesso.

Ma la Chiesa, dal concilio di Nicea in poi, ha sempre saputomaneggiare le immagini, e capì presto che la potenza dellamacchinetta capace di copiare il mondo poteva giovare alla fe-de. Gregorio XVI si era fatto dagherrotipare già nel 1845, da unpadre gesuita divenuto fotografo (sempre un passo avanti, i ge-

suiti). I missionari, precoci etnografi visuali, partivano armatidi fotocamere. E la diffidenza iniziale svoltò in entusiasmo: seil giovane Mastai aveva scritto un trattatello sulla camera ob-scura, il suo successore al Soglio Leone XIII scrisse addiritturaun sonetto latino in lode della fotografia: “O mira virtus ingenii,novumque monstrum!”.

Ed ecco: la cristianità, commossa al pensiero del papa reclu-so, fece ricorso proprio alla fotografia per restituirgli la vista sulmondo. Come se si fossero passati la voce, vescovi indiani e fra-ti amazzonici, preti americani e suorine etiopi confezionaronocon amore album di fotografie, scattate in proprio o ordinate agrandi studi (Bourne, Beato), svenandosi per farli sontuosi, e lispedirono al pontefice, perché i suoi occhi si riaprissero e la suasolitudine si consolasse.

Cinquemila album per duecentomila immagini, una raccol-ta immensa, si sono accumulati per decenni, poi hanno ripo-sato per un secolo nei meandri del Vaticano. Gli archivisti pon-tifici non sapevano bene che fare di questo materiale spurio, nélibro né dipinto né gioiello: crearono un fondo apposito, gli “In-

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La storiaNoi siamo qui

LMICHELE SMARGIASSI

Vescovi indiani e frati amazzonici, preti americani e suore etiopiNel corso dell’Ottocento inviavanoai pontefici

“prigionieri in Vaticano”immagini dei luoghi e dei popoli evangelizzati

Raccolte in cinquemila fantastici albumora tornano alla luce in un prezioso volume

Quei mondi visti solo in fotografia

BRASILA sinistra le rovine di una chiesa brasilianaIn alto la costruzione del Cristo Re a Rio

LA PICCOLA CHIESAUna chiesetta a San Nicholas (Dakota del Sud, 1908). A sinistra zuavi pontifici (1875)

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Dalla Breccia di Porta Pia (1870) ai Patti Lateranensi (1929) — in reazione alla Presadi Roma e alla perdita dello Stato pontificio — la vita dei papi si svolse entro le mu-ra vaticane. I contatti con l’esterno furono affidati ai canali diplomatici. Benedet-

to XV (1914-1922) e Pio XI (1922-1939) erano stati al servizio diplomatico della Santa Sedeprima di essere eletti papi. Anche Pio XII (1939-1958) fu a lungo nunzio in Germania pri-ma di diventare Segretario di Stato.

Un così lungo periodo di “autoreclusione” contrasta con la straordinaria mobilità diGiovanni Paolo II (1978-2005) che visitò 128 paesi, senza contare le visite alle parrocchieromane. Paolo VI (1963-1978) era stato il primo a varcare i confini del Vaticano, per recar-si in Terra Santa, India, New York (Nazioni Unite), Uganda, Asia Orientale e Australia. Eanche l’attuale pontefice è un grande viaggiatore! Insomma, in poco più di un secolo il pa-pato ha svolto la sua alta funzione con lunghi periodi di autoreclusione ma anche con unamobilità quasi continua. Anche nel Medioevo e nel Rinascimento numerosissimi papihanno dovuto intraprendere viaggi, ma per motivi essenzialmente politici. L’incontro

storico di Stefano II con Pipino a Quierzy, in Francia (754), pose fine alla dominazione lon-gobarda e diede vita al Patrimonio di S. Pietro. Alessandro III peregrinò per quindici anni,in Italia e in Francia, prima di essere riconosciuto papa legittimo dall’imperatore Barba-rossa (1177). All’inizio del Duecento, Innocenzo III inaugura un’alternanza residenzialeche sa già di villeggiatura: estate fuori Roma, inverno a Roma. I romani chiamarono allo-ra il Laterano “il palazzo d’inverno”. Nel Duecento i papi vissero sessant’anni fuori dallacapitale. Sei papi non vi entrarono nemmeno. Nel 1530 Clemente VII incorona a BolognaCarlo V imperatore. Frequente fu la mobilità “forzata”. Gregorio VII morì a Salerno dovesi era rifugiato (1085). Anche Pio VI morì prigioniero, a Valence (1799), e Pio VII visse in re-sidenza coatta a Fontainebleau (1812). Soltanto dall’inizio del Trecento in poi il papatoconobbe una quasi ininterrotta fissità residenziale. Dopo il lungo soggiorno ad Avignone(1308-1377) — che non fu “cattività” — i papi decisero di risiedere in Vaticano, ossia nonpiù al Laterano come nel millennio precedente. Ed anche come residenza estiva preferi-rono, dal tardo Cinquecento in poi, un palazzo romano, il Quirinale.

Quando i capi della cristianità non viaggiavanoAGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI

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dirizzi papali”. Da qui, og-gi, gli album del ponteficeprigioniero tornano allaluce. Oltre sette anni di la-voro sono stati necessari aSandra Phillips, studiosa diSan Francisco, esperta di fo-tografia documentaria, peridentificarli, studiarli e descri-verli uno per uno, e pubblicar-ne il meglio in un volume editodal Vaticano in inglese, The Pa-pal Collection of Photographs inthe Vaticam Library.

Eccoli: gli album della cattivitàoccupano una lunga schiera discaffali nel deposito della Biblioteca Apostolica Vaticana, doveil viceprefetto Ambrogio M. Piazzoni mi conduce e dove la cu-ratrice del dipartimento delle stampe Barbara Jatta e l’archivi-

sta Anna Maria Voltan mi permettono con caute-la di aprire le rilegature imponenti, di sfogliare lepagine decorate all’acquerello con amore certo-

sino, le veline croccanti, e l’interminabile sequenza dibrune stampe all’albumina. Il papa è prigioniero, ma l’evange-lizzazione continua: questo gridano le immagini genuflessema orgogliose di chiesette di legno nel Minnesota, i ritratti diselvaggi cingalesi convertiti alla vera fede, i paesaggi di selveamazzoniche e vette himalayane dove forse per la prima voltarisuonava la Parola del Dio cristiano. Ogni album ha un mes-

saggio: documento dei progressi della fede, ma anche denun-cia politica delle persecuzioni (negli album degli uniati ucrai-ni, o degli armeni), reportageda guerre e terremoti come ex-vo-toa impetrare una benedizione, un’intercessione del Santo Pa-dre per la sofferenza umana. Ma molti album nacquero sem-plicemente, dice Sandra Phillips, ancora affascinata da questeimmagini dopo tanti anni di studio, «dal desiderio di far sape-re al papa chiuso in Vaticano com’erano le montagne del Cile ole rovine dell’antica Cartagine, come si vestiva la gente in Cinao come si pregava a Goa, immagini che riuscirono a stabilire unincredibile dialogo tra quelle persone semplici e quell’osserva-tore lontano e imponente».

Questa è la vera meraviglia di una collezione che nessuno haprogettato, che si è creata da sé, per corale devozione di un pia-neta intero: traccia di un evento unico nella storia, durato po-chi decenni, quando la cristianità mise in posa se stessa e ilmondo per offrirsi al papa. E attraverso di lui, per mostrarsi aDio: per restituire, in fotografia, il Creato al Creatore.

I CONVERTITIAlcuni novelli fedeli cattolici nell’isola di Formosa. L’anno è il 1887

LA CROCEIl luogo su cui sorgerà la nuova chiesadi Staten Island, New York, 1838

I VOLTIIn basso al centro suore africane tra i lebbrosi (Etiopia, 1923)Sovrapposta, a destra, un’immaginetta dell’arcivescovo di Calcutta (1887)e a sinistra una piccola nativa americana della diocesi di Baker City (Oregon)

L’OSPEDALE DA CAMPOEretto dai Cavalieri di Malta (1878) e fotografato da Gioacchino Altobelli

IL CRISTO REUn prete accanto alle ditadel Cristo Re di Rio (1930)

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SpettacoliColonne sonore

Mezzo secolo fa compose le musiche de “Il sorpasso”mentre “More” di “Mondo cane” gli apriva le portedi Hollywood. Adorato da Tarantino e dai Chemical Brothers,a ottantuno anni Riz Ortolani raccogliei suoi successi in un cofanetto.E accettadi ricordare con “Repubblica” l’Italia della Dolce Vitae l’America di Ella Fitzgerald e Quincy Jones

1. CON KATYNARiz Ortolanicon la moglie KatynaRanieri in saladi registrazione

2. PUPI AVATIMa quando arrivanole ragazze? di PupiAvati con le musichedi Ortolani (2005)

6. SAMMY CAHNLa dedica del compositorea Riz e Katynail 25 aprile 1991

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3. MONDO CANELa locandina del filmMondo cane (1962):è sua la celebrecolonna sonora

4. IN CONCERTONel 2005 dirigele sue “musicheda film” al Teatrodell’Opera di Roma

5. DINO RISIIl mitico Sorpasso(1962) di Dino Risicompie 50 anniMusiche di Ortolani

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“Quando dissi di noa Kubrick e Sinatra”

GIUSEPPE VIDETTI

7. ROBERT MITCHUMAnche la colonnasonora de Lo sbarcodi Anzio (1968) portala firma di Ortolani

8. GLORIA SWANSONLa dedica del 1968:“A Riz e Katyna,vi abbracciocon affetto, Gloria”

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ARANOVA (Fiumicino)harles Feldman, il manager di John Wayne, gli propose di fare l’attore e di restare a Hollywood. Gli piaceva quell’aria severa earistocratica, i capelli lunghi che incorniciavano il bel viso da maudit con la sigaretta incollata alle labbra. Riz Ortolani la prese

a ridere. Lui le immagini le traduceva in musica. Ci ride sopra ancora oggi il maestro, ottantuno anni appena compiuti, schi-vo come sempre, mille progetti per la testa, un po’ restio ad abbandonarsi ai ricordi. Anche se sono esaltanti. Anche se mez-

zo secolo fa aveva il mondo fra le mani. Nel 1962 compose le musiche per il film Mondo cane, che sono nell’albo d’oro del-le colonne sonore; il tema, More, è un evergreen della storia del pop che lo ha trasformato in un compositore cult, ado-

rato da Tarantino e dai Chemical Brothers (il regista danese Nicolas Winding Refn ha voluto la sua Oh My Lovenel filmDrive, a Cannes l’anno scorso). «La mia fortuna è stata avere uno stile internazionale, più americano che italiano»,

dice Ortolani. È nello studio della villa sospesa tra il Tirreno e la campagna romana, dove vive con sua moglie, lacantante Katyna Ranieri, tra un’infinità di foto d’epoca e gli spartiti dei più recenti progetti: la sua prima opera-

musical andata in scena nel 2007, Il principe della gioventù, ispirata alla Congiura dei Pazzi, e frammenti di unmonumentale progetto su Rossini che sta prendendo forma. «Arrangiavo pensando a Gillespie e Stan Kenton,

ma avevo una rigorosa formazione classica, altrimenti non ce l’avrei fatta a domare orchestre prestigiose co-me la Berliner Philharmoniker. Non mi è mai piaciuto fare la figura dell’italianito. C’è ancora chi si presenta

con il salame, la pizza e il fiasco di vino, un cliché che io detesto». Per celebrare l’anno magico la Cam-Sugar ha appena pubblicato un cofanetto con quattro cd intitolato

Il mondo di Riz Ortolani. Ci sono dentro le sue più geniali intuizioni per il cinema — quel jazz audace e pro-gressivo che sottolinea le scene più belle de Il sorpasso — e i grandi interpreti alle prese con le sue memo-

rabili canzoni: non solo More, cantata da Aretha Franklin, Andy Williams, Nat King Cole, Katyna Ranieri einterpretata da Errol Garner e Dizzy Gillespie, ma anche temi ripresi da Benny Goodman, Julie London

e Placido Domingo. L’anno d’oro, a Hollywood, fu il 1964. More fu nominata all’Oscar; Katyna Ranieri la cantò alla 36esi-

ma edizione degli Academy Award. «Non vinsi, ma fu una serata memorabile. Già da mesi l’Americacantava More. Sammy Davis Jr. si inginocchiò davanti a Katyna alla fine dell’esibizione». L’Oscar non

c’è, ma il Grammy è in bella vista tra i cinque David di Donatello che ha avuto per l’intensa collabora-zione con Pupi Avati. «La sera in cui Riz fu premiato ero al tavolo con Tony Bennett, Ella Fitzgerald, Sa-

rah Vaughan e Leopold Stokowski», racconta Katyna Ranieri, ottantacinue anni, donna dinamica edi grande temperamento. È ancora esuberante, con i capelli rossi e il caffetano blu elettrico che la fasembrare un’imperatrice. All’epoca di Moreera la sensazione italiana in America, una cantante cherichiamava al Cocoanut Grove le più grandi star di Hollywood. «Di quella sera conservo una foto conCount Basie», aggiunge il maestro. «L’anno dopo vinsi il Golden Globe con Forget Domani, dalla co-lonna sonora de La Rolls Royce gialla, che poi fu ripresa da Sinatra». La seconda nomination all’O-scar arrivò nel 1971 con Till Love Touches Your Life, che aveva scritto per La valle dei comanches, unsuccesso personale di Shirley Bassey. «Dopo Mondo cane, componevo anche dodici colonne so-nore all’anno», ricorda. «Katyna era già una star in America, fu lei a lanciare Moreal Johnny CarsonShow: sette incisioni in una sola settimana — oltre mille in tutto — e sette milioni di esecuzioni ra-diofoniche al 2007, un record a cui i Beatles di Yesterday sono arrivati solo quest’anno. Il pr di Si-natra, un certo Jim Mahoney, mi propose di diventare l’arrangiatore di The Voice. Dissi di no perpaura di non essere all’altezza, ma confesso che se avessi potuto fare quel lavoro in Italia avrei ac-cettato la sfida; non vedevo l’ora di tornare a casa. Subito dopo Mondo cane arrivò Il sorpasso…Era l’Italia della Dolce Vita, eravamo dei cavallini rampanti», esclama il maestro quasi a giustifi-carsi per quella volta che mise alla porta Quincy Jones. «Ero rientrato da Londra dove avevo lavo-rato alla colonna sonora de La settima alba (1964). Non aspettavo visite. Mi citofona il portiere:“Ci sono due signori che le vogliono parlare. Uno dei due, quello di colore, dice di essere il diret-tore artistico e l’altro il presidente della Mercury”. In breve, mi propongono di incidere per l’eti-chetta. Gli faccio capire che non sono interessato. Accompagnandoli alla porta, chiedo a quellodi colore: Posso sapere il suo nome?. E lui: Quincy Jones. Resto di stucco. Che gaffe. Dissi di no an-che a Stanley Kubrick. Ricevetti una sua lettera scritta a mano su un foglio a quadretti. Mi chie-deva se ero interessato a scrivere le musiche per 2001: Odissea nello spazio. Mi parve talmente po-co professionale… non risposi. Sbagliai perché ero stato viziato dall’America; di solito erano gliagenti che facevano delle proposte in maniera molto formale. Pensi che quella lettera neanchel’ho conservata».

Al cinema Ortolani arrivò per passione, dopo una formazione classica al conservatorio. «So-no nato a Pesaro e ho studiato musica perché mio padre me lo impose», racconta. «Era impiega-

to alle Poste ma suonava di tutto, dal contrabbasso al trombone. Arrivai nella capitale negli anni’50 feci un concorso al Teatro dell’Opera e lo vinsi, ma non avevo fatto il militare e non ebbi il po-

sto». Lavorò come arrangiatore per l’Orchestra della Rai diretta da Armando Trovajoli, poi perLuttazzi-Kramer. Riz e Katyna s’incontrarono da Trovajoli. Meglio, si scontrarono. «Lei aveva

avuto un grande successo con La canzone da due soldi a Sanremo 1954 e fu scritturata dalla RcaVictor per fare l’lp La ragazza di piazza di Spagna con l’orchestra di Armando, di cui ero arran-

giatore. Per l’occasione scrissi un’introduzione dodecafonica, un po’ alla Gillespie. Quando Katy-na venne alle prove sbottò: “Ma chi è questo matto?”. Non voleva saperne di lavorare con me».

È un piacere sentirli raccontare la loro storia e mezzo secolo di musica. Lei lo chiama Principe,oppure Piccolo Cigno Pesarese. Lui arrossisce ricordando i primi approcci amorosi, le nozze in

Messico, poiché lei era reduce da un precedente matrimonio, e quelle in Italia, dopo l’annulla-mento, il 31 agosto del 1964 (l’unica figlia, Rizia, è nata nel 1966). Katyna: «Mai una scenata di gelo-

sia. Se il Piccolo Cigno mi ha tradito non me ne sono accorta, è stato bravissimo. Mi faceva stranetelefonate ma non si dichiarava. Un giorno lo aggredii. Facemmo un giro in automobile, la mia, e a

un certo punto misi il freno a mano e lo freddai: Lei cosa si aspetta da me? Mi rispose, con la sigaret-ta in bocca: “Lei mi interessa, vorrei conoscerla”». Riz: «Ostia, ragazzi, ero molto educato». Katyna:

«Risposi: Allora conosciamoci! Facemmo una passeggiata di notte a piazza San Pietro deserta. Quel-la sera scattò la scintilla. Era il luglio del 1954. Abbiamo vissuto nel mondo. Veniva tutta Hollywood ad

ascoltarmi al Cocoanut Grove». Riz: «Ricordi Hitchcock? Diventò tutto rosso». Katyna: «Arrivò in ca-merino con Barbara Rush. Gli diedi la mano, lui la baciò e diventò rosso come un gambero. Peter Lorre,

che al cinema faceva sempre il cattivo, era uomo di una dolcezza infinita. Mi trattava come una bambi-na». Riz: «Alla serata in tuo onore c’erano tutti, da Cobina Wright a John Wayne. Louella Parsons ed Hed-

da Hopper, le pettegole di Hollywood, in prima fila. Oscar Levant, protagonista del celebre biopic su Ger-shwin, che allora era semiparalizzato, stava tutto solo in un angolo. C’era anche un pianista che suonava i

successi su un pianoforte verticale. Mi avvicinai e gli feci i complimenti. Lui disse: Son tutte musiche mie. EraHarry Warren (1893-1981), l’autore di That’s Amore, Boulevard of Broken Dreamse Lullaby of Broadway. L’A-

merica è un paradiso per i musicisti. Ho avuto l’onore di lavorare con De Sica, Terence Young, Lizzani, EdwardDmytryk e Robert Siodmak, quello della Scala a chiocciola, il maestro di Hitchcock. Feci le musiche del suo ulti-

mo film, Kampf um Rom (1968), quando era tornato in Germania. Lo tempestai di domande sulla Hollywood de-gli anni ’40. Ho un’altra storia buffa da raccontarle. La Paramount aveva scelto Nino Rota e me, rispettivamente per

il film di Zeffirelli e per Il padrino di Coppola. Accadde che Rota ebbe un litigio con Zeffirelli e non ne volle più sapere;a lui toccò Il padrino e a me Fratello sole, Sorella luna. Così sfumò un’altra occasione per l’Oscar».

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MAESTROA destra, Riz Ortolanidirige l’Orchestra Sinfonicadel Teatro Comunaledi Bologna in una scenadel film di Pupi AvatiMa quando arrivanole ragazze? (2005)Alla tromba, l’attoreClaudio SantamariaNella foto grande al centro,Ortolani al pianofortea Roma negli anni Cinquanta

9. MONICA VITTICon l’attrice nel 1973alla proiezionedi Teresa la Ladradi Carlo Di Palma

11. AFRICA ADDIOIl disco tratto dal filmAfrica Addio del 1966con le musichedi Riz Ortolani

12. THE SPYWITH A COLD NOSEMusiche di Ortolanianche nell’albumtratto dal film del ’66

10. VITTORIO DE SICANel 1967 Ortolanicon De Sica, registadi Sette volte donna:sua la colonna sonora

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13.“MORE”Gli spartiti del temaintitolato Moredalla colonna sonoradi Mondo cane

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Si chiamano Path: per un massimodi 150 amici. PlayUp: per amanti dello sport

Pair: esclusivamente per due personePerché proprio ora che Mark Zuckerberg vale 103 miliardi

di dollari grazie ai suoi 901 miliardi di utenti, sul web si fa stradala tendenza opposta. Quella per cui meno siamo e meglio stiamo

NEW YORK

Ci vorrebbe un amico: ma uno davvero di nu-mero. Contrordine compagni di web: il socialnetwork è sempre meno social e comunquesempre più network. I nuovi Facebook si

chiamano Pair, Yammer, Path, FamilyLeaf, PlayUp. Lanuova tendenza è chiudersi: piccolo è bello e più piccolo èil gruppo più bello è. Il social network di Mark Zuckerbergcresce a dismisura? Un sito e un’applicazione che si chia-ma Pair va nella direzione opposta. Amici? Due. Il terzo è giàdi troppo. Nemmeno un incomodo: è lo stesso software,studiato per la coppia, che non lo sopporta. Sì, l’onnipre-sente Facebook potrà pure farsi bello dall’alto dei suo 901miliardi di utenti — e soprattutto dei suoi 103 miliardi di va-lutazione acquisita dopo la strombazzatissima ma nonproprio fortunata discesa in Borsa di venerdi. Ma se il socialnetwork impera è invece il private network la nuova ten-denza. Non solo sociale: ma perfino finanziaria. È infatti quiche potrebbero nascondersi quei margini di profitto cosìdifficili da individuare in un’impresa web: come la corposapresenza, in questo settore, di un allevatore di nuove im-prese come Y Combinator sta lì a dimostrare. E infatti: qualè la manna che ogni operatore vorrebbe invocare sul pro-prio sito? La pubblicità. E qual è la difficoltà maggiore chegli investitori pubblicitari trovano sul web? Mirare gli spotper tararli sul pubblico da raggiungere. E quale taratura mi-gliore, allora, di quella offerta da un network sempre piùpiccolo. E magari specializzato: il private network degliamanti di sport (PlayUp), il private network per la singolaimpresa (Yammer), il private network di famiglia (Family-Leaf). In fondo la stessa Facebook nacque otto anni fa neldormitorio di Harvard: pensata originariamente come ne-towrk della sola università.

Funziona? Ma sì che funziona. Path, per esempio, dise-gna per i suoi utenti un “percorso”, come suggerisce ap-punto la parola inglese, che non può sconfinare in un grup-po di più di 150 persone. L’idea è venuta a un certo Dave Mo-rin, che guarda caso militava proprio nella squadra diZuckerberg. «Facebook ha fatto diventare la socializzazio-ne su Internet normale» dice adesso al New York Times ilgiovane milionario, miracolato anche lui dalla moltiplica-zione del valore delle sue azioni del social network: «Ades-so abbiamo l’opportunità di ritornare a una socializzazio-ne più intima». Sempre via web, ovviamente. La parola ri-torno non è usata a caso. L’ormai avvenuto superamentodel limite delle relazioni che possiamo gestire — miracoloreso possibile appunto dalla tecnologia — fa temere al pa-leontologo Ian Tattersall una «seconda evoluzione» del-l’uomo: dovuta proprio alla necessità di adattarsi cultural-mente alla pressione imposta dalla stessa tecnologia. L’al-larme dell’evoluzionista del Museo di storia naturale diNew York ha più di un fondamento scientifico. L’antropo-logo inglese Robin Dunbar ha provato con una serie di stu-di che l’uomo non sarebbe in grado di gestire più di 150 re-lazioni. E proprio dopo essersi imbattuto nello studio del“numero di Dunbar” — come la scoperta è stata battezza-

Community attraverso cui i dipendentidi un’azienda si scambiano informazionie formano gruppi di lavoro riducendo gli incontriÈ un network chiuso: l’accesso è consentitosolo a chi si identifica con il dominio aziendale

YAMMER

NextNon solo Facebook

ANGELO AQUARO ta dagli scienziati — all’ex uomo di Facebook è scattata l’ideadi un network chiuso. Addirittura battezzata dalla benedi-zione dello scienziato stesso. Il buon David ha infatti preso iltelefono e dalla sua casetta laggiù in California ha chiamatoil professore di Oxford: mi spiega come funziona questa sto-ria? E quello gli ha risposto illustrandogli la teoria dei cerchiconcentrici. Il limite totale degli amici è dunque di 150, 50 èil limite di quelli fidati, 15 degli amici buoni e 5 dei cosiddet-ti migliori amici. Così quando ha lanciato Path, due anni fa,mister Morin s’è prima fermato alla cerchia dei fidati: impo-nendo un limite di 50 partecipanti. Poi però ha alzato la bar-ra alla fatidica quota 150: ed è stato boom. Oggi Path ha unmilione di iscritti che hanno una media di 40 amici ciascu-no. La media degli amici di ciascun utente di Facebook, se-condo una ricerca del Pew Research Center, è invece di 245.

Naturalmente non è solo una questione di numeri. Con-ta, eccome, chi c’è nel gruppo. Family Leaf, per esempio, usatutto un altro approccio. Wesley Zaho e Ajay Metha, due ri-cercatori californiani, hanno inventato il private nework perfamiglia perché non volevano condividere la loro vita quoti-

Networkil suoAciascuno

Meno social, più private

Usato dai professionisti per creare una retedi contatti di lavoro affidabili. Le personedella “lista” vengono definite “connessioni”e l’utente può invitare chi vuole. Obiettivo:la ricerca di nuove opportunità di business

LINKEDIN

■ 37DOMENICA 20 MAGGIO 2012

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PATH

È l’anti social network, trasforma Facebookin un fatto privato, ovvero solo per due personeCi si scambia file, foto, disegni e perfino baciRicorda date di nascita e anniversari, oltre a creareun elenco condiviso di cose da fare insieme

PAIR

diana di Facebook con i genitori: adesso anche loro co-municano con più serenità con le famiglie laggiù in India e

Cina. E Pair? Il super-private network è nato per risponderealle esigenze di coppia: tant’è che l’applicazione per telefo-nino permette anche di mandarsi un bacino virtuale. Ma trale coppie che la usano adesso ci sono anche tanti genitori efigli. Professori e allievi. A indicare insomma che il bisognodi circuito chiuso — in questo caso minimo — è sempre piùforte. Domanda: ma i private network potranno sostituiredel tutto Facebook? Risponde a Repubblica David Kirkpa-trick, autore di Facebook. La storia, che paradossalmente«molti di questi prodotti finiranno per funzionare meglioproprio come applicazioni di Facebook: oppure come ap-plicazioni autonome che utilizzano comunque parti dellapiattaforma di Facebook». È un po’ quello che è accaduto aInstagram: il private network dedicato allo scambio di foto-grafie che è stato inglobato proprio dal social network. Chia-ro, no? Ci vorrebbe un amico: e uno davvero di numero. At-tenti solo che non si chiami Mark Zuckerberg.

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INSTAGRAM

Dedicato agli amici a quattro zampeI padroni condividono informazioni riguardola città, il quartiere e la razza dell’animalee organizzano incontri per farli socializzare(e per conoscersi tra di loro)

MATCHPUPPY

ROBIN DUNBARAntropologo

Applicazione gratuita, nata per i telefonini,con cui si possono scattare foto e condividerlesui social network. Tra le particolarità l’utilizzodi un formato quadrato (in omaggio alle polaroid)e la presenza di filtri per modificare le immagini

Riservato agli appassionati di sport. Le disciplinesono divise per categoria (dal calcio all’hockey)e gli utenti condividono e commentano risultatio statistiche dei campionati, interagendo durantele partite, con aggiornamenti in tempo reale

È un network formato micro perché permettedi condividere contenuti con gruppi molto ristrettidi persone. Si può arrivare a un massimo di 150amicizie. Che vengono scelte dopo una rigidaselezione, tra parenti, amici e colleghi

PLAYUP

Il numero di personecon cui siamo in grado

di mantenere relazionisociali stabili

è una funzione direttadella grandezza

della neocortecciacervicale

Il nostro limiteè di centocinquanta

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IL LIBROA sinistra la copertinadi Facebook. La storiaMark Zuckerberge la sfida di una nuovagenerazionedi David Kirkpatrick(Hoepli, 19,90 euro)

LA DOMENICA■ 38DOMENICA 20 MAGGIO 2012

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Cottura breve e desiderio di convivialitàsono gli ingredienti d’obbligo. Poi sulla sciadelle classiche cozze e vongole,moltiplicate a piacere gli abbinamenti con i prodotti dell’orto (patate, asparagi,pomodori) oppure con funghi, pollo e riso. Accompagnate il tuttocon un buon bicchiere di vino bianco e sarà subito menù d’estate

I saporiCentrotavola

Sauté

In un saltodal marealla padella

LICIA GRANELLO

«Lasciate le vongole im-merse in acqua e sale».Comincia così la ricettadi sauté più famosa epraticata. Un sautéspurio, in realtà, geneti-

camente modificato. Perché nel Dna delsauté primigenio, il sughetto che vince qual-siasi resistenza a fare scarpetta e imbevegioiosi eserciti di crostini & crostoni, recupe-rando al palato quanto di saporito e stuzzi-cante le vongole avevano smarrito durante lacottura (per altro molto breve, pena perdita difragranza), semplicemente non esiste.

È il pregio delle traduzioni culinarie: nelpassaggio di frontiera, il concetto originario siveste da sapore migrante, adattandosi alletradizioni del paese di destinazione. Così, laversione mediterranea del participio passatodel verbo francese sauter— indubitabilmen-te assimilabile al saltare italiano — va ben ol-tre ciò che si salta in padella (da cui il verbospadellare) acquisendo una consistenza piùsensuale e succulenta.

Le vongole, appunto. Che dopo la spurga-tura d’ordinanza per liberarle dalla sabbia —farle cadere una a una sul piatto vuoto per-mette di verificare se ne nascondono ancora— vengono fatte saltare a fuoco vivace nelcondimento-principe del Mediterraneo: ex-travergine, aglio e peperoncino, da togliereentrambi appena l’olio è caldo e ha assorbitoi profumi. Fosse per il sauté-sauté, la ricetta siesaurirebbe qui. Ma insieme al sugo, perde-remmo un passaggio fondamentale: scaltrirele vongole, ovvero far sì che il calore ne schiu-da le valve, pratica indispensabile anche per

individuare quelle da eliminare (cocciuta-mente chiuse). La nuova generazione di co-perchi trasparenti ben supporta l’operazio-ne: senza bisogno di aprire per controllare, unpaio di colpi di polso ben assestati garanti-scono l’equa distribuzione della fiamma atutte le vongole, un attimo prima di spegnereil fornello e portare in tavola.

In scia alle vongole o in antitesi, le cozze, al-tre protagoniste del sauté, ma anche la mi-scellanea di frutti di mare che mette tutti d’ac-cordo, soprattutto quando servita a mo’ di ri-to collettivo, con la padella a troneggiare inmezzo al tavolo in un mulinare di mani, toc-chi di pane e gocce di sugo che raggiungonoparti impensabili di maglie e camicie.

Al di là dei sauté di molluschi e crostacei —su tutti la magnifica buzaradi scampi tipica diSlovenia e Croazia — l’esercizio di spadellaresenza troppo asciugare coinvolge categorie dicibi tra loro lontanissime: patate e asparagi,pollo e manzo (che altro sono straccetti e sal-timbocca?). In alcuni casi, le parti della ricet-ta si invertono e la tecnica del sauté finalizzauna breve cottura, che fa guadagnare in mor-bidezza prima della caramellatura finale, co-me nel caso delle verdure più toste.

Qualsiasi sia il vostro sauté preferito, ac-compagnatelo con un buon bicchiere dibianco o rosé, in versione ferma o declinatoin bollicine. Se avete dei dubbi sugli abbina-menti, regalatevi una gita a Napoli, dove inquesti giorni si svolge la decima edizione di“Vitigno Italia”, sfiziosa passerella di vinimade in Italy e godetevi il Vesuvio a suon divongole.

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■ 39DOMENICA 20 MAGGIO 2012

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PolloNel pollo saltado peruviano, marinaturadel petto tagliato a striscioline con soia,paprica, miele, peperoncino, aceto e cumino, poi rosolatura veloce in padella

FunghiGallinacci, pioppini, finferli, porcini tagliatisottili e cotti in un filo d’extravergine ben caldo, profumato con uno spicchiod’aglio. Prezzemolo alla fine

GamberoniCapperi e olive con i crostacei sgusciati,sfumati in poco cognac. A piacere una cucchiaiata di sugo di pomodoroVersare il tutto sul pane abbrustolito

CozzeIl sauté di cozzerisulta perfetto sia come antipasto che come secondopiatto.Variazionesul tema: l’impepatacampana

Sulla strada

Viaggio intorno al mitotra il Vesuvio e Sorrento

Il paradiso dei napoletani ha la forma di una penisola. E per andarci c’èpure l’autostrada. Decisamente infernale, come i pochi chilometri cheseparano Napoli dalle terrazze fiorite di Sorrento. Ma in realtà l’eden ci

viene subito incontro a Ercolano quando passiamo tra il Vesuvio coperto diginestre e il mare infinito. Assolutamente leopardiano. È una soglia invisi-bile. Dopo si entra nel regno del mito. La strada si snoda come un nastro nel-l’ombra odorosa dei giardini di agrumi e ogni tanto si impenna verso le pri-me balze dei Monti Lattari. Dove i paesi sono appoggiati dolcemente. Comesu tanti balconi. Si arriva a Vico Equense che strapiomba sulla baia di Seia-no, poi si scivola sul mare verde degli ulivi fino a Meta. Plano sulla bellissi-ma insenatura di Alimuri. Giusto il tempo di un bagno seguito da un sautéalla Conca. Mi rimetto in cammino verso Piano di Sorrento. Che si affacciasulle acque da una falaisealtissima, traforata da grotte di una verticalità qua-si gotica. I velieri dei contrabbandieri ci si infilavano per sfuggire alla mari-na borbonica.

Dietro la punta c’è Sorrento, adagiata su un pianoro orlato dal merletto li-berty dei grandi alberghi. Caruso e Lucio Dalla ci venivano a cercare emo-zioni e ispirazioni. Mi piace immergermi tra le stradine strette, straripanti difolla. Colori e odori si mescolano come in un bazar. E poi rifugiarmi nel si-lenzio di quella bomboniera arabo normanna che è il chiostro di San Fran-cesco. Non fioretti ma granita di limone. Corro verso Massa Lubrense quan-do appare Capri con i Faraglioni colorati di rosa dal sole calante. L’incantodi questo finisterre ha qualcosa di sacro. Per finire in gloria non mi resta cheascendere a Sant’Agata sui due Golfi. Dove vado a cena da Don Alfonso. Chenon è solo il mio ristorante del cuore. È l’acropoli della dieta mediterranea.

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Frutti di mareAssemblaggio secondo gusto e freschezza: cozze, fasolari, tartufi di mare, telline giganti. Filtrare il fondo di cottura e servire con crostoni di pane

PatateCottura a fette in acqua e olio o bollitura,prima di ripassarle con rosmarino e pepeVersione golosa: frittura rapida, poi burroe continuare a cuocere incoperchiate

RisoUn classico della gastronomia orientale: il basmati cotto al dente e poi saltato nel wok con olio di sesamo, piselli, alghe,briciole di tuorlo sodo e salsa di soia

Verdure novelleLa spadellata più appetitosa: cipollotti,melanzane, patate, aggiunti nell’olio caldo in ordine di cottura o calibrando i cubetti delle singole verdure

MARINO NIOLA

Gli indirizzi

DOVE MANGIARELA CONCA III Traversa AlimuriMeta di Sorrento (Napoli)Tel. 081-5321495Chiuso lunedì, menù da 30 euro

LO SCOGLIOPiazza delle Sirene Nerano, Massa Lubrense (Napoli)Tel. 081-8081026Chiuso mercoledì, menù da 30 euro

IL BUCOII Rampa di Marina Piccola 5 Sorrento (Napoli)Tel. 081-8782354Chiuso lunedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRARELA TRADIZIONEVia Bosco 969 Vico Equense (Napoli)Tel. 081-8028437

ANTICO PANIFICIO GARGIULOVia Rivo a Casa 8Massa Lubrense (Napoli)Tel. 081-8789084

RITA BAR TAKE AWAYCorso Italia 219Sorrento (Napoli)Tel. 081-8781420

DOVE DORMIREHOTEL LA PIZZETTAVia San FrancescoSorrento (Napoli)Tel. 081-19912960Doppia da 120 euro, colazione inclusa

VILLA LE PALMEVia Caracciolo 25Meta di Sorrento (Napoli)Tel. 081-8087979Doppia da 60 euro, colazione inclusa

RELAIS GIULIAVia Petriere 12Massa Lubrense (Napoli)Tel. 081-8080818Doppia da 70 euro, colazione inclusa

LA RICETTA

Ingredienti per 4 persone8 seppioline giovani 55 grammi di ricci di mare50 grammi di fegato di seppie giovani80 grammi di extravergine30 grammi di aceto di Xeres (sherry)Un pane ciabatta al nero di seppiaSale e pepeErbe aromatiche (lamio rosso, centocchio,mentuccia romana, rabarbaro cinese,crescione, origano, sedano acquatico,acetosella, borsa pastore, triplice verde,matricaria camomilla, piantaggine,lattuga selvatica, finocchio marino selvatico,perilla, aglio da taglio, aspraggine)

Pulire le erbe.Togliere alle seppie il becco e lo stomaco, lasciando la pelle e il fegato

Sciacquarle, tagliarle a pezzettoni, condirle con poco extravergine e saltarle in una padella di ferro. Frullare i fegati con la metà dei ricci di mare. Congelare la restante metà dei ricci e tagliarli, gelati, della grandezza di un piselloSpezzare il pane, farlo seccare in forno,

poi frantumarlo e passarlo al setaccio a maglia larga. Tostare le molliche secche in padella

con uno spicchio di aglio e olio. Sul fondo di una ampia ciotola mettere un poco di salsa

di fegato e i ricci. Disporre in mezzo le erbe aromatiche,condite con poco sale, aceto e olio. Aggiungere sull’intero

perimetro del piatto i pezzi di seppia arrostiti e la granita di ricci gelatiCospargere con le briciole di pane spadellate (dette anche carbonedi nero di seppia) prima di servire il piatto in tavola

Mauro Uliassi pratica l’arte della cucina di mare nel suo locale sulla spiaggiadi Senigallia, armonizzandosaperi antichi e tecnichemoderne, come nella ricettaideata per i lettori di Repubblica

Seppie “sporche” e granita di ricci di mare

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VongoleLa ricetta madre di tutti i sauté firma la cucina tradizionale napoletana:spadellata di veraci in aglio, olio e peperoncino, con prezzemolo tritato

LA DOMENICA■ 40DOMENICA 20 MAGGIO 2012

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È l’autore spagnolo viventepiù venduto al mondo. Cantoredi Barcellona, da una vitaha abbandonato la sua città per farelo sceneggiatore a Hollywood

“Ho provato a tornarea casa, ma non hafunzionato. Del restonascere in un postoè sempre un caso,la letteratura

vive di storie universali:chi pensa che Amletosia danese?”

MILANO

Se lo scopo di ogni intervistaa uno scrittore è in fondo ca-pire quanto e come assomi-glia ai suoi libri, l’incontro

con Carlos Ruiz Zafón all’inizio sembraun disastro.

Breve riepilogo per chi non fosse onon fosse ancora tra il milione e mezzodi lettori italiani di L’ombra del vento(otto milioni di copie in quaranta pae-si), del prequel Il gioco dell’angelo e delterzo tomo appena uscito della quadri-logia incompiuta Il prigioniero del cie-lo, che insieme fanno di Zafón l’autorespagnolo vivente più venduto nel mon-do. Protagonista indiscussa dei tre libriè Barcellona. Ritratta nel primo tomo atinte fosche e spesso sotto la pioggia nel1945, in pieno franchismo; poi a tintegotiche venate di follia negli anni Venti;infine negli anni Cinquanta, con flash-back perfino più cupi e paurosi nei Qua-ranta, quando in un carcere spietato ètorturato dal suo nemico mortale e suanemesi Mauricio Valls, l’intellettualefranchista arcicattivo che da sparsi in-dizi si candida a primeggiare nella pun-tata finale. Effetto sui lettori: oggi ci so-no almeno tre frequentati tour lettera-ri, a piedi e in pullman, che promettonoai pellegrini zafonisti di tutto il mondouna full immersion nella “Barcellonadel Cimitero dei libri dimenticati”.

E ora ecco l’impatto con Zafón: jeans,felpa da football, spillona con drago (necolleziona a centinaia, sindrome da“generazione Dragon Ball”), una gran

sete di Coca-Cola (si illumina quando lavede sui buffet premurosamente alle-stiti da chi conosce i suoi gusti) e so-prattutto una gran voglia allegra di tor-narsene a casa. Che però da diciannoveanni (lui ne ha quarantaquattro) non èpiù Barcellona, ma Los Angeles. «Ci hoanche provato, a tornare a Barcellonaper un paio d’anni, nel 2006, ma non hafunzionato. Come tutti gli emigranti,mi sono accorto che era tardi. Non era ilposto che ricordavo, ma soprattutto miha subito ricordato le ragioni che miavevano spinto a partire, e che eranoancora tutte lì. Perché vede, Los Ange-les è un crogiolo di identità e prove-nienze diverse dove chiunque puòreinventare la propria vita, Barcellona èun posto dove tutti si sforzano di vestir-si, parlare e vivere nello stesso modo.Negli ultimi tempi ci passo più tempocome base di partenza per girare in Eu-ropa, ma se ci vivessi stabilmente misentirei soffocare».

In un fluente inglese, che Zafón sce-glie d’istinto come lingua per l’intervi-sta (a differenza delle apparizioni pub-bliche dove usa lo spagnolo), chiarisceche sarebbe un’impresa disperata cer-care di identificare nel gioviale e spiccioispano-americano di planetario suc-cesso una controfigura di uno qualun-que dei tanti scrittori che popolano lasua opera (il macerato Martin, il miste-rioso Julian Carax, per non dire il perfi-do Valls o l’accademico professor Al-bunquerque che sogna di redigere una“Storia segreta di Barcellona”). Ma è in-teressante scoprire quanto e come isuoi libri, sotto l’apparenza, assomigli-no a lui.

Cominciamo da capo: come e quan-do è sbarcato a Los Angeles? «Nel 1996.Avevo venticinque anni e avevo appenapubblicato il mio primo libro di succes-so in Spagna, il romanzo per “youngadults” Il principe della nebbia. Così misentivo abbastanza sicuro per farequello che sognavo fin da ragazzo, an-dare a vedere il mondo. All’inizio pen-savo di puntare su Londra o New York,poi un amico che faceva lo sceneggia-tore a Hollywood mi dice: provaci an-che tu. E allora decido di andarlo a tro-vare, senza sapere se mi sarei fermatodue giorni, due settimane o due anni.Ne ho passati lì quasi venti». Un’oppor-tunità d’oro colta al volo, insomma.«Macché, un equivoco e un errore di in-genuità. Per cominciare ho scopertoche il mio amico stava appena a galla dasolo e certo non poteva aiutare nessu-

no. Subito dopo che l’idea di fare sce-neggiature come un buon lavorettomercenario ben pagato, abbastanza fa-cile e leggero da lasciare a uno scrittoreil tempo di dedicarsi ai suoi romanzi,era un’illusione». Così si è messo a farea tempo pieno sceneggiature per Hol-lywood. «Soprattutto per la tv. Vogliodire subito che non sottovaluto né tan-tomeno disprezzo quel lavoro, benchéalla fine praticamente nulla del mio im-pegno peraltro ben pagato, come suc-cedeva allora a tanti nell’industria cul-turale hollywoodiana, sia mai arrivatoalla produzione. Quello di sceneggiato-re è un lavoro che comunque insegnamolto. Però io volevo soprattutto scri-vere i miei romanzi. E dopo qualche an-no ho messo mano alla quadrilogia delCimitero dei libri maledetti, iniziata nel2001 con la pubblicazione di L’ombradel vento. E ora, finalmente, da quattroanni, faccio il romanziere a tempo pie-no». Sempre abitando all’ombra di

Hollywood, ma mantenendo la linguacome linea di demarcazione tra vitaquotidiana e letteratura: «Da sceneg-giatore avevo sempre scritto in inglese.Potrei farlo anche per i romanzi, manon mi sembrerebbe onesto. La scrittu-ra creativa richiede la sensibilità dellalingua madre, quella in cui si è impara-to a parlare, leggere e scrivere».

Va aggiunto che tra gli anni del lavo-ro “mercenario” e il successo da ro-manziere si è anche sviluppato un rap-porto non facile con il mondo culturalespagnolo. In Spagna L’ombra del ventoè diventato un bestseller grazie al pas-saparola e nella quasi indifferenza del-la critica togata. Poi nel 2008 un’intervi-sta incendiaria a El País, nella qualeZafón definiva la cultura dominantenazionale «mediocre e presuntuosa»,ha peggiorato le cose, nonostante unasuccessiva mezza smentita («Parlavo dialcuni, non di tutti»). Alla lunga le ven-dite e la fama (nel frattempo anche laprecedente trilogia per ragazzi si erafatta strada e in Spagna è largamenteadottata nelle scuole come strumentoper conquistare i giovani alla passioneper la lettura) hanno avuto la meglio.Oggi Zafón in patria ha dozzine di imi-tatori. Però continua a preferire la sen-sazione di avere un oceano di mezzo.

Possibile che scrivere di Barcellonada 9.600 chilometri di distanza come sefosse lì, e addirittura essere considera-to un cantore ufficiale della città, non loimbarazzi? Zafón ride: «Neanche unpo’. Intanto di Barcellona, dove sononato e che amo, non ho mai voluto scri-vere la storia, ma piuttosto, pur rispet-tando scrupolosamente lo sfondo sto-rico, farne un personaggio della narra-zione. E poi, facendo le debite propor-zioni, chi sarebbe così sciocco da pen-sare che Romeo e Giulietta è una storiainscindibilmente legata a Verona? Omagari Amleto un dramma danese? Laletteratura vive di vicende, di senti-menti e di drammi umani universali,che lo scrittore ha il privilegio di rende-re vivi e reali adoperando ciò che cono-sce, per esempio nel mio caso i posti incui sono cresciuto. Ma nascere in unposto o in un altro è sempre un caso, ri-levante ma secondario. E se devo dirlatutta io non trovo granché interessantile appartenenze nazionali, etniche, re-ligiose o ai football club. Mi premono dipiù gli individui e la loro storia».

Quella della quadrilogia dei libri di-menticati nasce da un progetto unita-rio: «Fin dall’inizio, ho pensato a una

specie di labirinto narrativo con quat-tro diversi “ingressi”. C’è una storia dibase, che ha a che fare con una storiad’amore, con uno scrittore maledetto,con un tradimento e un delitto e con laricerca di un libro dimenticato. Poi inciascuno dei quattro “capitoli”, chepossono essere letti anche a sé, prevaleun punto di vista e uno stile. Nel primola ricerca e la formazione del ragazzoprotagonista, Daniel Sempere, e la per-sonalità misteriosa di uno scrittore dicui qualcuno sta cancellando le tracce.Nel secondo l’ossessione, attraverso ilmonologo sul filo della follia di DavidMartin. Nel terzo il racconto avventu-roso e picaresco, centrato su Fermín,che era già un comprimario. Il quarto eultimo capitolo sarà una sorpresa, matirerà tutti i fili della storia».

Come il finale di un film? È una dellelezioni imparate da sceneggiatore?«Non c’è ragione perché tutti gli stru-menti e le risorse dello storytelling,comprese le sue varianti tecnologiche ele soluzioni sperimentate dai new me-dia, non entrino nello strumentariodello scrittore. Ma la superiorità del ro-manzo è proprio il controllo della mes-sa in scena. In un film o in teatro il regi-sta ha tecnicamente molti modi perguidare lo sguardo dello spettatore e fo-calizzarne l’attenzione. Il romanziereperò fa di meglio e di più: è tutt’uno conla testa e gli occhi di chi legge. E infatti illibro funziona davvero quando ti di-mentichi che lo stai leggendo, per vive-re la storia come se fosse la tua realtà.Dovunque ti trovi, o dovunque si trovichi l’ha scritta».

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L’incontroMr. Bestseller

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Il regista può sologuidare lo spettatoreIl romanziere,invece,è tutt’unocon la testae gli occhidi chi legge

Carlos Ruiz Zafón

MAURIZIO BONO

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