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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Corso n. 3403 IL CONTRASTO AL TRAFFICO DI STUPEFACENTI: TECNICHE INVESTIGATIVE E PROBLEMI APPLICATIVI. Roma, 30 novembre – 2 dicembre 2009 1. Premesse. 1.1. Le fonti internazionali. 1.2. Il bene -interesse tutelato. 1.3. La <<sostanza stupefacente>>: nozione. 1.4. L’equiparazione delle droghe <<leggere>> e <<pesanti>>: profili di costituzionalità. 2. Questioni pratiche rilevanti per il gruppo di lavoro. 2.1. La coltivazione. 2.1.1. L’efficacia drogante ed il principio di offensività. 2.1.2. Considerazioni. 2.2. L’uso di gruppo. 2.3. L’attenuante speciale di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990. 2.4. L’ingente quantità (art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990). 2.5. L’esistenza dell’associazione di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/1990 (anche nella forma di cui all’art. 74, comma 6 ) nella giurisprudenza più recente. Sergio Beltrani (magistrato c/o Corte di Cassazione – Ufficio del Massimario)

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Corso n. 3403

IL CONTRASTO AL TRAFFICO DI STUPEFACENTI:

TECNICHE INVESTIGATIVE E PROBLEMI APPLICATIVI.

Roma, 30 novembre – 2 dicembre 2009

1. Premesse. • 1.1. Le fonti internazionali. • 1.2. Il bene-interesse tutelato. • 1.3. La <<sostanza stupefacente>>: nozione. • 1.4. L’equiparazione delle droghe <<leggere>> e <<pesanti>>: profili di costituzionalità. 2. Questioni pratiche rilevanti per il gruppo di lavoro. • 2.1. La coltivazione. • 2.1.1. L’efficacia drogante ed il principio di offensività. • 2.1.2. Considerazioni. • 2.2. L’uso di gruppo. • 2.3. L’attenuante speciale di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990. • 2.4. L’ingente quantità (art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990). • 2.5. L’esistenza dell’associazione di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/1990 (anche nella forma di cui

all’art. 74, comma 6) nella giurisprudenza più recente.

Sergio Beltrani

(magistrato c/o Corte di Cassazione – Ufficio del Massimario)

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1. PREMESSE.

1.1. Le fonti internazionali.

Numerose norme internazionali e comunitarie riguardano condotte aventi ad oggetto

sostanze stupefacenti.

Gli artt. 33 e 36 della Convenzione delle Nazioni Unite di New York del 1961

prevedevano che la detenzione non autorizzata di sostanze stupefacenti dovesse essere

vietata, senza peraltro nulla specificare in ordine alla natura delle sanzioni da comminare

per le infrazioni; nella stessa direzione si era mossa la successiva Convenzione delle

Nazioni Unite del 1971.

L’art. 3 § 2 della Convenzione di Vienna del 20 dicembre 1988, ratificata e resa

esecutiva in Italia con legge 5 novembre 1990, n. 328, ha poi stabilito che,

“Fatti salvi i propri principi costituzionali ed i concetti fondamentali del proprio

ordinamento giuridico, ciascuna parte adotta le misure necessarie per attribuire la natura

del reato conformemente alla propria legislazione interna, (…) alla detenzione e

all'acquisto di stupefacenti e di sostanze psicotrope, alla coltivazione di stupefacenti

destinati al consumo personale (…)”.

La Commissione istituita dal Parlamento europeo per le libertà e i diritti dei cittadini, la

giustizia e gli affari interni, nell’ambito del Documento di lavoro sulle Convenzioni ONU

sulle sostanze stupefacenti redatto in data 4.2.2003, ha interpretato la Convenzione di

Vienna in senso particolarmente rigoristico, ritenendo che essa, all’art. 3, § 2, richieda alle

parti contraenti

“di definire violazioni delle proprie disposizioni attribuendo la natura di reato penale,

ai sensi del proprio ordinamento giuridico interno, al possesso, l’acquisto e la

coltivazione di stupefacenti illegali destinati al consumo personale”.

Non sarebbe, dunque, sufficiente la mera previsione, per siffatte ipotesi, di un (pur

articolato) sistema di sanzioni amministrative.

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Peraltro la Corte costi tuzionale (sentenza n. 28 del 1993), nel ritenere ammissibile la

richiesta di referendum per l'abrogazione di alcune norme del T.U. delle leggi in materia di

stupefacenti, mirante alla depenalizzazione dell'illecito costituito dalla detenzione di

stupefacenti per uso personale, aveva osservato che la stessa non si poneva in contrasto con

le Convenzioni di New York del 1961 e di Vienna del 1988,

“dal momento che la prima, si limita a stabilire che deve essere vietata la detenzione di

stupefacenti senza però nulla specificare in ordine alla natura delle sanzioni da applicare,

e la seconda lascia espressamente agli Stati contraenti la possibilità di prevedere misure

diverse dalla sanzione penale per le infrazioni di minore gravità”.

L’esigenza di arginare il dilagare della diffusione delle droghe ha indotto, in tempi più

recenti, gli organi comunitari a ripetuti interventi.

Il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato, in data 17.12.1996, una Azione

Comune 1 con la quale, dopo aver considerato che

“gli Stati membri ottemperano ai loro obblighi a norma delle convenzioni della Nazioni

Unite del 1961, del 1971 e 1988 e che essi esamineranno i mezzi per rendere più efficace il

rispetto di dette Convenzioni, in particolare aiutando i paesi terzi a mettere in atto i loro

obblighi”, e che

“gli Stati membri riaffermano la loro determinazione comune ad eliminare il traffico

illecito di droga per proteggere le loro società dagli effetti devastanti di tale traffico,

nonché dalle altre cause profonde del problema dell’abuso di stupefacenti, in particolare

la domanda illecita di stupefacenti e gli enormi guadagni derivanti da tale traffico, e che

un ravvicinamento delle legislazioni e delle prassi, destinato a rendere più efficace la

cooperazione, costituirebbe un contributo positivo al conseguimento di tale obiettivo”,

si è stabilito, tra l’altro, che gli Stati membri devono impegnarsi

“ad adottare le misure più opportune per lottare contro la coltivazione illecita delle

piante contenenti principi attivi con proprietà stupefacenti”.

1 N. 96/750/GAI in GU n. L342 del 31.12.1996, pp. 6 – 8.

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La decisione quadro 2004/757/GAI dello stesso Consiglio dell’Unione Europea2, che

fissa norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati ed alle sanzioni applicabili in

materia di traffico illecito di stupefacenti, non ha riguardato [art. 2, comma 2, in relazione

al comma 1, lett. b)] la <<coltura del papavero da oppio, della pianta di coca o della pianta

della cannabis>>, se tenuta <<soltanto ai fini del loro consumo personale quale definito

dalle rispettive legislazioni nazionali>>; peraltro,

“l’esclusione di talune condotte relative al consumo personale dal campo di applicazione

della presente decisione quadro non rappresenta un orientamento del Consiglio sul modo

in cui gli Stati membri dovrebbero trattare questi altri casi nella loro legislazione

nazionale”3.

Nella Relazione del Parlamento Europeo in data 23.2.2004 sulla proposta della

predetta decisione quadro si è precisato che

“sono escluse dal campo di applicazione della presente decisione quadro le attività

collegate al consumo strettamente personale di stupefacenti, quale definito dalle

legislazioni nazionali degli Stati membri (articolo 2.2.). Questo aspetto è stato l’oggetto di

uno dei principali emendamenti del Parlamento europeo e rispetta effettivamente il

principio di sussidiarietà. Da un punto di vista giuridico, ciò significa che gli Stati membri

vogliono poter penalizzare il consumo personale, ma non vogliono essere obbligati a farlo

in virtù della presente decisione quadro”.

Il Piano quadriennale 2000 – 2004 d’azione per la lotta contro la droga predisposto

dalla Commissione, premesso che l’art. 152 del Trattato CE (ora UE) esige che la salute

umana sia venga presa in considerazione in tutte le azioni e le politiche dell’Unione

Europea, poichè proprio la lotta alla droga costituisce una delle priorità dell’azione

comunitaria in materia di sanità pubblica, ha individuato, tra le priorità per il periodo di

riferimento, la lotta contro il consumo e la produzione di cannabis, di anfetamine e

dell’extasy.

2 In GU dell’Unione europea L335/8 dell’11.11.2004. 3 Quarta considerazione, seconda parte.

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Il Consiglio dell’Unione Europea ha inoltre predisposto una nuova strategia in materia

di droga, per il periodo 2005 – 20124, a tutela del benessere della società e dell’individuo,

ed a salvaguardia della salute pubblica, onde ridurre sia l’offerta che la domanda di droga:

preso atto che i dati disponibili non testimoniano alcuna significativa riduzione né dell’una

che dell’altra, con specifico riguardo alla riduzione dell’offerta, è stata evidenziata la

necessità di “uno sforzo globale che comprenda azione di contrasto, eliminazione delle

coltivazioni illegali, riduzione della domanda …”, ed è stato conseguentemente adottato un

nuovo Piano quadriennale 2005 – 2008 di azione in materia di lotta alla droga, contenente

misure volte a ridurre, tra l’altro, la produzione di eroina, cocaina e cannabis.

Il Piano quadriennale d'azione dell’UE in materia di lotta contro la droga 2009-2012,

adottato il 19 settembre 2008 dalla Commissione, prevede misure di ampio respiro intese a

potenziare la cooperazione europea in materia di lotta alla narcocriminalità e ridurre le

ripercussioni del consumo di stupefacenti, che contemplano anche un'alleanza europea

contro la droga, attraverso la quale si mira a propiziare la riduzione dei danni causati dal

fenomeno nella società.

Stando ai dati più recenti, negli Stati membri dell’UE il consumo di eroina, cannabis e droghe sintetiche

si è stabilizzato o è diminuito, mentre è in aumento il consumo di cocaina; si stima che il numero totale dei

consumatori regolari o occasionali di droghe ammonti a 70 milioni per la cannabis, ad almeno 12 milioni

per la cocaina, a 9,5 milioni per l’ecstasy e ad 11 milioni per le anfetamine; almeno mezzo milione di

persone ricevono ufficialmente un trattamento sostitutivo al consumo di droghe pesanti; in totale, si contano

due milioni di persone con seri problemi di tossicodipendenza e circa 7.500 morti per overdose l'anno.

Il Piano d'azione 2009-2012 si inscrive nella strategia europea antidroga 2005-2012 che

delinea un modello europeo basato su un approccio equilibrato inteso a ridurre la domanda

e l'offerta di stupefacenti, perseguendo alcune priorità:

- facilitare una maggiore comprensione del fenomeno-droga, sensibilizzando l'opinione

pubblica, per ottenere una mobilitazione dei cittadini europei;

- ridurre la domanda di stupefacenti;

4 Cfr. nota in data 18.4.2005.

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- migliorare la cooperazione internazionale;

Tra le azioni proposte, figurano misure intese a migliorare la qualità, la disponibilità e la

copertura dei programmi di trattamento ed a ridurre i danni per i consumatori di droghe, ed

il varo di operazioni doganali e di polizia improntate sull'intelligence per contrastare i

gruppi criminali che operano su ampia scala tanto nell'UE che lungo le rotte del

narcotraffico, dall'Afghanistan e dall'America Latina.

Il piano d'azione 2009-2012 prende le mosse dalla valutazione del precedente piano 2005-2008 effettuata

dalla Commissione con il sostegno degli Stati membri, dell'Osservatorio europeo delle droghe e delle

tossicodipendenze (OEDT) e di Eurogol e delle ONG europee.

Tra i risultati raggiunti negli scorsi anni si rileva una riduzione dei decessi per droga e la minore

diffusione dell'HIV per assunzione endovenosa.

Nell'insieme, gli Stati membri hanno approntato una vasta gamma di azioni in risposta al problema droga,

soprattutto in materia di prevenzione, trattamento, riduzione dei danni e riabilitazione, nonché

provvedimenti intesi a contrastare reati quali il narcotraffico e il riciclaggio di denaro sporco.

La valutazione conferma che, malgrado le differenze in materia di approccio, gli Stati membri

collaborano sempre più e le strategie antidroga nazionali tendono sempre più alla convergenza.

A livello internazionale, l'influenza dell'UE è andata aumentando, non solo perché l'Unione si esprime

con una sola voce in seno alle commissioni antidroga dell'ONU, ma anche perché la sua strategia funge

sempre più da modello per gli altri paesi.

In virtù della sua natura dinamica, la politica antidroga deve costantemente adeguarsi per far fronte alle

nuove tendenze: si pensi all'aumentato consumo di cocaina, che pone problemi in termini di prevenzione e

trattamento, alle continue mutazioni delle rotte del narcotraffico o ancora alla diffusione delle coltivazioni

di papavero da oppio in Afghanistan, di coca nelle regioni andine, e della produzione di droghe sintetiche

nell'UE, tutti fenomeni a fronte dei quali gli Stati membri e gli organismi quali l'Europol sono chiamati ad

approntare nuove soluzioni e meccanismi di cooperazione flessibili ed efficaci.

Per approfondimenti sulla comunicazione relativa al Piano d’azione dell’EU in materia di droga 2009-2012 e sull'allegata relazione sulla

valutazione finale del Piano d'azione dell’EU in materia di droga 2005-2008, cfr.:

- Global approach to drugs developed at European Union level: http://ec.europa .eu/justice_home/fsj/drugs/fsj_drugs_intro_en.htm

- Newsroom: http://ec.europa.eu/justice_home/news/intro/news_intro_en.htm

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1.2. Il bene-interesse tutelato.

E’ ormai consolidato l’orientamento (Cass. pen. Sez. U., sent. n. 9973/98, Kremi) per il

quale i beni oggetto di tutela penale da parte delle fattispecie incriminatrici previste dagli

artt. 73 e 74 d.P.R. 309/1990 sono individuabili nella salute pubblica, nella sicurezza e

nell’ordine pubblico (“può sicuramente affermarsi che l’implemento del mercato degli

stupefacenti costituisce anche causa di turbativa per l’ordine pubblico e di allarme

sociale”: Cass. pen. Sez. U., sent. n. 28605/08, Di Salvia; in tal senso si è pure espressa la

Corte Costituzionale con la sentenza n. 333/91), nonché nella salvaguardia delle giovani

generazioni, maggiormente esposte alla tentazione di cedere al consumo di sostanze

droganti: quest’ultimo rilievo chiarisce la ragione per la quale il legislatore, al fine di

reprimere più incisivamente il fenomeno dello <<spaccio>>, ne ha anticipato la punibilità

alla semplice offerta (Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 44281/08, Marrocchelli), nonché alla

mera <<coltivazione>> (cfr. amplius § 2.1.)

Più recentemente le Sezioni Unite (sentenza n. 22676/2009, Ronci, rv. 243381),

chiamate a decidere se ai fini dell'accertamento della responsabilità penale dello spacciatore per la morte

dell'acquirente, in conseguenza della cessione o di cessioni intermedie della sostanza stupefacente che

risulti letale per il soggetto assuntore, sia sufficiente la prova del nesso di causalità materiale fra la

precedente condotta e l'evento diverso ed ulteriore, purché non interrotto da cause sopravvenute di carattere

eccezionale, ovvero debba essere dimostrata anche la sussistenza di un profilo colposo per non aver

preveduto l'evento5

hanno peraltro chiarito che

“la legislazione in materia di sostanze stupefacenti, invero, non svolge in via diretta un

ruolo di prevenzione delle offese alla integrità fisica dei cittadini, ma, (…), ha come scopo

diretto ed immediato delle sue norme incriminatrici la repressione del mercato illegale

della droga e soltanto come scopo ulteriore, collocato sullo sfondo, la tutela della salute

5 In relazione alla questione controversa, è stato affermato il principio così massimato: “In tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, la morte dell'assuntore di sostanza stupefacente è imputabile alla responsabilità del cedente sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta di cessione) e con prevedibilità ed evitabilità dell'evento, da valutarsi alla stregua dell'agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall'agente reale”.

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pubblica, accanto alla tutela della sicurezza e dell'ordine pubblico. Del resto, a conferma

che l'attuale legislazione in materia non ha una destinazione diretta ed immediata alla

tutela dell'integrità fisica dei cittadini, sta la scelta del legislatore a favore della non

punibilità del consumo personale di stupefacenti. È stato inoltre esattamente osservato che

lo scopo ulteriore ed indiretto di tutelare la vita dei possibili consumatori riguarda solo un

rischio ed un pericolo generali e generici per l'incolumità e la salute della massa dei

consumatori, pericolo che è già incluso nel disvalore complessivo, severamente sanzionato

dalle disposizioni sulla produzione e sullo spaccio degli stupefacenti”.

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1.3. La <<sostanza stupefacente>>: nozione.

L’ordinamento non prevede una definizione farmacologia dello stupefacente, avendone

adottato una nozione legale: ciò comporta che sono soggette alla normativa che vieta la

loro cessione tutte e soltanto le sostanze specificamente indicate negli elenchi predisposti

(Cass. Pen. Sez. U., n. 9973/98, Kremi).

Successivamente, Cass. pen., Sez. VI, n. 44232/05, Galliani ed altro ha osservato che,

“al fine di stabilire se una <<preparazione>>, consistente in un semplice processo

derivativo da piante naturali non tabellate, ma dalle quali sia estraibile un principio attivo

inserito in tabella, rientri nella generale previsione punitiva di cui al d.P.R. n. 309 del

1990, art. 14, comma primo, è necessario verificare che nel prodotto finale vi sia una

incidenza del principio attivo maggiorata (per accresciuta presenza percentuale o altro)

rispetto a quella dallo stesso posseduta nell'utilizzo della pianta allo stato naturale. Nel

caso in cui la derivazione sia operata da più tipi di vegetali non tabellati, la rilevanza

penale del prodotto derivato viene meno se tale surplus risulti corrispondente a quello

procurato dall'eventuale possibile utilizzo diretto, in contemporanea, delle piante

originarie come esistenti in natura”.

In applicazione di tali principi, la Corte ha annullato con rinvio la ordinanza cautelare

nella quale era stata contestata agli imputati la illecita detenzione ed utilizzazione di una

bevanda denominata <<ayahuasca>>, in quanto non risultava accertato che nella sua

preparazione gli effetti della DMT, sostanza stupefacente estraibile dai vegetali utilizzati,

risultassero potenziati rispetto a quelli presenti nella pianta allo stato naturale).

Si è più recentemente affermato che di inserimento nell'elenco predisposto, nel caso di

vegetali contenenti naturalmente un principio attivo già inserito in tabella, può parlarsi solo

quando anche tale vegetale - foglia, semi et c. - sia distintamente compreso in tale elenco

(Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 19056/07, Barbieri , a parere della quale, non essendo i semi di

Rosa Hawaiana ceduti dall’imputato ad un giovane successivamente deceduto, inclusi nelle

tabelle allegate al D.P.R. n. 309 del 1990, non può, allo stato dell'attuale normativa,

affermarsi che la loro cessione integri il reato di spaccio di stupefacenti, con la conseguente

inconfigurabilità del contestato delitto di cui all’art. 586 c.p.

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1.4. L’equiparazione delle droghe <<leggere>> e <<pesanti>>: profili di

costituzionalità.

E’ stata ritenuta manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 73

d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dall'art. 4-bis della L. n. 49 del 2006, in relazione

all'art. 3 Cost., nella parte in cui prevede il medesimo trattamento sanzionatorio per le

condotte aventi ad oggetto "droghe pesanti" e "droghe leggere", poiché tale assimilazione,

frutto di una scelta discrezionale del legislatore fondata sull'adesione all'opinione

scientifica per la quale tutte le droghe producono effetti gravi, non è irragionevole (Cass.

Pen. Sez. IV, sent. n. 22643/08, Frazzitta):

“la scelta del legislatore è discrezionale, né pare qualificarsi per una irragionevolezza

intrinseca che imponga di sottoporrà al vaglio del giudice delle leggi. Giova in effetti

ricordare che con la riforma del 2006, con un notevole mutamento di prospettiva,

scompare la differenziazione tra <<droghe pesanti>> e <<droghe leggere>>, le quali,

quindi, sono parificate sono il profilo sanzionatorio (cfr. D.P.R. n. 309 del 1990,

<<nuovi>> artt. 13 e 14). Tutte le sostanze vietate (che non trovano nessun impiego

terapeutico e che, quindi, non possono essere prescritte) sono ricomprese in un'unica

tabella (tabella 1): nella stessa tabella, per intenderci, sono collocati indifferenziatamente

l'oppio, le foglie di coca, la cannabis indica e le amfetamine. L'assimilazione tra

<<droghe pesanti>> e <<droghe leggere>> è stata motivata, nella relazione di

accompagnamento al progetto di legge governativo, dall'esigenza di aderire alle <<più

recenti ed accreditate conclusioni della scienza tossicologica>> secondo cui il principio

attivo presente in alcune sostanze stupefacenti è <<incomparabilmente>> maggiore che

in passato: ciò è stato apprezzato soprattutto con riguardo alla cannabis, rispetto alla

quale, normalmente a motivo di diversificate modalità di coltivazione, il principio attivo

(tetraidrocannabinolo o THC) è passato dallo 0,5/1,5 per cento che caratterizzava i

derivati della cannabis negli anni 70/80 a valori attuali pari al 20/25 per cento, con punte

anche superiori. Tale assimilazione è frutto di una scelta discrezionale del legislatore

basata sull'adesione ad una determinata opinione scientifica, cui ovviamente può opporsi,

in modo legittimo, l'opinione opposta basata sulla non assimilabilità delle sostanze sotto il

profilo della gravità degli effetti che queste sono in grado di determinare. Ma tanto non

basta per prospettare la dedotta irragionevolezza”.

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2. QUESTIONI PRATICHE RILEVANTI PER IL GRUPPO DI LAVORO.

2.1. La coltivazione.

Chiamate a chiarire se la condotta di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili

sostanze stupefacenti sia penalmente rilevante anche quando sia realizzata per destinazione

del prodotto all’uso personale, le Sezioni Unite della Corte di cassazione (con due

sentenze in data 24 aprile – 10 luglio 2008, n. 28605, Di Salvia, e n. 28606, Valletta)

hanno optato per la tesi dell’illiceità penale della condotta anche quando il prodotto della

coltivazione sia destinato all’uso personale, affermando che

“Costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di

coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia

realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale”.

L'intervento delle Sezioni Unite era stato necessitato dall'esistenza in argomento di due

distinti orientamenti giurisprudenziali.

L'orientamento che appariva dominante riteneva la coltivazione di piante da stupefacenti penalmente

illecita, quale che fosse la destinazione del raccolto.

La prima decisione in tal senso, all'esito del referendum abrogativo del 1993, fu Sez. IV, 15.3. - 5.5.1995,

n. 913, P.G. in proc. Paoli, rv. 201631, seguita da Sez. VI, 7.11.1996 - 5.1.1997, n. 100, Garcea, non

massimata, e da Sez. IV, 30.5.2000 - 5.2.2001, n. 4928, Croce, rv. 218692, per le quali il differente

trattamento riservato alla coltivazione rispetto alla mera detenzione fondava sulla maggior pericolosità ed

offensività insite nell'essere la coltivazione, la produzione e la fabbricazione attività rivolte alla creazione di

nuove disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio

nazionale, e maggior rischio per la pubblica salute e incolumità; Sez. IV, 6.7. - 22.9.2000, n. 9984,

Fiorone, rv. 217258, nel ribadire – quanto all'offensività astratta della coltivazione - che detta condotta

continuava ad essere prevista come reato indipendentemente dalla destinazione ad uso di terzi del prodotto

di essa, attribuì una residua rilevanza alla destinazione della sostanza, affermando che, ove essa fosse

assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, ben poteva il giudice di merito

escludere l'offensività in concreto della condotta, e ritenerla non punibile.

Successivamente, Sez. IV, 14.4. - 10.6.2005, n. 22037, Gallob, rv. 231784, ha evidenziato che né la ratio

né la lettera dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 consentono di distinguere tra le varie tipologie di

coltivazione, concludendo che il reato de quo sussiste anche se la coltivazione mira a soddisfare esigenze di

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approvvigionamento personale; a conclusioni analoghe è giunta Sez. IV, 17.10. - 7.12.2006, n. 40295,

Quaquero ed altro, rv. 235425, all'indomani dell'entrata in vigore dalla l. n. 49 del 2006, osservando che

"l'art. 73 previgente del decreto citato [n. 309 del 1990], ma applicabile alla fattispecie, e il cui contenuto

non è stato modificato con la L. n. 49 del 2006, comma 3, prevede poi espressamente tra le attivita' illecite,

punibili penalmente, la coltivazione delle suddette piante, tra cui quindi la canapa indiana, precisandosi

peraltro che gia' la L. n. 685 del 1975, art. 26 disponeva l'illiceita' della coltivazione della canapa indiana,

e che problemi interpretativi erano sorti - prima della piu' chiara ed ampia dizione dell'art. 26 e art. 73,

comma 3, citato - solo per la punibilita' degli altri tipi di coltivazione".

All'orientamento ha aderito piu' recentemente Sez. IV, 10.1.2008, n. 871, Costa.

Un diverso orientamento (certamente minoritario, pur se molto diffuso nell'ambito della giurisprudenza

piu' recente) riteneva, al contrario, che la c.d. <<coltivazione domestica>> non integrasse gli estremi della

fattispecie tipica della <<coltivazione>> oggetto di incriminazione nell'ambito dell'art. 73, comma primo,

d.P.R. n. 309 del 1990, ma costituisse species del più ampio genus (di chiusura) della <<detenzione>>, e

fosse, conseguentemente, depenalizzata, se finalizzata all'esclusivo uso personale (cfr. Sez. VI, 3.5. -

30.5.1994, n. 6347, Polisena, non massimata e Sez. VI, 12.7.-13.9.1994, n. 3353, Gabriele, rv. 199152,

caratterizzata dal tentativo di precisare la nozione normativa di <<coltivazione>>, che evocherebbe la

disponibilita' di un terreno ed una serie di attivita' dei destinatari delle norme sulla coltivazione -

preparazione del terreno, semina, governo dello sviluppo delle piante, ubicazione dei locali destinati alla

custodia del prodotto ecc. - quali si evincono dagli artt. 27 e 28 d.P.R. n. 309 del 1990).

L'orientamento, abbandonato per oltre un decennio, era stato recentemente ripreso, all'indomani

dell'entrata in vigore della l. n. 49 del 2006, da Sez. VI, 18.1. - 10.5.2007, n. 17983, Notaro, rv. 236666,

che aveva riproposto la distinzione tra la nozione di <<coltivazione c.d. domestica>> (configurabile quando

il soggetto agente mette a dimora, in vasi detenuti nella propria abitazione, alcune piantine di sostanze

stupefacenti) e quella di <<coltivazione in senso tecnico>>, che troverebbe un solido fondamento nella

disciplina amministrativa complementare (artt. 26 ss. d.P.R. n. 309 del 1990), nella parte in cui regola le

procedure per il rilascio dell'autorizzazione ministeriale alla <<coltivazione>> e le modalita' con le quali

tale attivita' puo' essere lecitamente svolta. La ritenuta riconducibilita' della condotta di <<coltivazione

domestica>> al piu' ampio genus della detenzione comporterebbe che, ove si accerti la destinazione

esclusiva del prodotto della coltivazione all'uso personale, la condotta risulterebbe depenalizzata.

All'orientamento hanno aderito piu' recentemente Sez. IV, 20.6. - 3.8.2007, n. 31968, P.M. in proc.

Satta, rv. 237210; 20.9. - 19.11.2007, n. 42650, P.G. in proc. Piersanti, rv. 238153; 21.9. - 6.11.2007, n.

40712, Nicolotti ed altro, rv. 237645; 11.10. - 31.10.2007, n. 40362, P.G. in proc. Mantovani, rv.

237915 in fattispecie avente ad oggetto la coltivazione di cinque piante di canapa indiana destinate ad

adornare l’interno di vasetti di vetro che, riempit i di paraffina e muniti di stoppino, venivano messi in

commercio come lumini).

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La giurisprudenza costituzionale era stata chiamata in più occasioni a verificare la

legittimità costituzionale delle norme che assumevano rilievo ai fini della soluzione della

questione controversa, perlopiù in relazione all'art. 3 Cost., ma talora anche in relazione

agli artt. 13, 25 e 27 Cost.

Con la sentenza n. 360 del 1995, fu dichiarata l'infondatezza della questione di legittimità

costituzionale dell'art. 75 d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato a seguito del d.P.R. n.

171 del 1993 (che aveva recepito l'esito della precedente consultazione referendaria,

sopprimendo il riferimento al concetto di <<dose media giornaliera>> quale parametro

fisso ed inderogabile, sintomatico della destinazione delle sostanze stupefacenti e

psicotrope all'uso personale), sollevata in relazione all'art. 3 Cost. ed agli artt. 13, 25 e 27

Cost., osservando che la scelta di incriminare penalmente la condotta di coltivazione c.d.

domestica era ragionevole, poiché detta condotta, diversamente dalla <<detenzione>>, non

è contraddistinta da un nesso di immediatezza con l'uso personale,

"il che giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella

discrezionalita' del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti

propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale",

ed inoltre che, con riguardo alla coltivazione, la stessa destinazione ad uso personale si

presta ad essere apprezzata in termini di versi

("nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente e'

certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi attinenti alle circostanze

soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della destinazione della

sostanza. Invece nel caso della coltivazione non e' apprezzabile ex ante con sufficiente

grado di certezza la quantita' di prodotto ricavabile dal ciclo piu' o meno ampio della

coltivazione in atto, sicche' anche la previsione circa il quantitativo di sostanza

stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione della

destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risultano

maggiormente ipotetiche e meno affidabili; e cio' ridonda in maggiore pericolosita' della

condotta stessa, anche perche' come ha rilevato la stessa giurisprudenza della Corte di

cassazione - l'attivita' produttiva e' destinata ad accrescere indiscriminatamente i

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quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialita' diffusiva delle sostanze

stupefacenti estraibili").

Pur dopo avere ammesso espressamente la configurabilità della condotta di

<<coltivazione>> anche in relazione alla coltivazione domestica di un'unica pianta, la

Corte costituzionale precisò che

"costituisce poi questione meramente interpretativa, rimessa altresì al giudice ordinario,

la identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di <coltivazione> che,

sotto altro profilo, incide anch'essa sulla linea di confine del penalmente illecito".

Queste considerazioni sono state più volte ribadite dalla Corte costituzionale (cfr.

sentenze n. 150 del 1996, n. 414 del 1996 e n. 296 del 1996: quest'ultima chiarì anche gli

obiettivi perseguiti dal legislatore attraverso le incriminazioni previste dal d.P.R. n. 309 del

1990 - "ciò che si vuole impedire è che la droga giunga al consumatore, sia perché (...)

senza quest'ultima fase il narcotraffico non avrebbe ragione di esistere, sia perché

comunque si vuole contrastare ogni ulteriore incremento del consumo di tali sostanze").

I contributi della dottrina allo studio della questione non erano stati moltissimi, ma

consentono anch’essi di enucleare due contrapposti orientamenti, nessuno dei quali in

verità dominante.

Si è ritenuto che il concetto di <<coltivazione>> evochi “l’insieme delle fasi che vanno dalla semina alla

raccolta delle piante produttrici, esclusa la raccolta stessa. Ciò si desume dall’art. 1 lett. f) della

Convenzione unica sugli stupefacenti stipulata a New York il 30.3.1961, che definisce <<produzione>>

l’operazione che consiste nel raccogliere l’oppio, la foglia di coca, la cannabis e la resina dalle piante che li

forniscono”6.

Una dottrina meno recente7 aveva osservato che “nella lingua italiana, coltivazione significa <<attività

diretta ad ottenere un conveniente rendimento dalla terra e dalle piante>>. Il concetto, sul piano giuridico

(civilistico) viene individuato nel disposto di cui all’art. 2135 c.c. dove però è presente una componente

economico-reddituale, nel senso che l’attività di coltivazione, definibile ex art. 2082 c.c., è intesa come

<<attività di produzione di beni, mercé lo sfruttamento dell’energia genetica della terra>>. Tuttavia, occorre

6 AMBROSINI, voce Stupefacenti, in Dig. Pen., Torino 1999, p. 32.

7 GIORDANO, La coltivazione abusiva di piante per la produzione di sostanze stupefacenti , in Giust. pen. 1988, II, 378 ss.

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depurare, ai fini che ne occupano, la nozione di <<coltivazione>> dai profili esclusivamente propri del

diritto agrario che accentuano esclusivamente il dato produttivo ed imprenditoriale, per recuperare, invece,

il significato del fenomeno in sé, come dato agronomico che rinvia ad un complesso di lavori indispensabili

per il conseguimento dei frutti della terra: <<rottura del suolo, preparazione del terreno, raccolta del

prodotto attraverso fasi intermedie volte a sorreggere ed a stimolare il processo produttivo>>. In questa

operazione concettuale, si sposta inevitabilmente il baricentro dalla terra alla pianta, giacché oggetto della

coltivazione diventa non il terreno, ma la pianta, <<essendo sufficiente un diverso elemento che riponga a

sostegno della pianta e costituisca veicolo per le sostanze nutritive ad essa necessarie>>. Non è senza

ragione che proprio quest’ultimo significato sia contestato nel diritto agrario, ponendo il diritto positivo (art.

2135 c.c.) un riferimento specifico al fondo, che però manca nella legislazione sugli stupefacenti, ove

invece assume rilievo la specie botanica – indipendentemente dall’ambiente nutritivo-, e l’idoneità della

pianta a fornire <<sostanze stupefacenti o psicotrope>>. Dal che consegue che la coltivazione punibile è

configurabile anche se essa viene praticata in ambienti diversi dal terreno aperto (in serra, in vasi ecc.)”.

In quest’ottica, la quantità di raccolto poteva condizionare unicamente il trattamento sanzionatorio, non

anche la stessa rilevanza penale della condotta.

A favore della tesi della incondizionata rilevanza penale delle condotte di c.d. coltivazione domestica si

era negato che le interpretazioni più evolute della fattispecie penalmente rilevante avessero una solida base

normativa: “in particolare, pare che, per tutti gli argomenti già spesi da C. cost. n. 360 del 1995, non sia

percorribile la strada dell’interpretazione estensiva della nozione di <<detenzione>>, fino a far

ricomprendere in essa il concetto di <<coltivazione domestica>>. (…) Per individuare il nucleo centrale

della questione, occorre considerare che il legislatore, valutando comunque come illecita l’attività di

assunzione di sostanze stupefacenti, ha inteso sottrarre alla sanzione penale solo l’area del consumo ,

considerando l’assuntore come una vittima di chi produce o comunque fa circolare la sostanza stupefacente.

(…). Vi sono quindi alcune condotte che sono necessariamente connesse con il consumo, punendo le quali

si punirebbe automaticamente il consumo stesso. Tra di esse, in primo luogo, ovviamente, la detenzione, in

quanto è evidente che non si può consumare se non si è detenuta, almeno per un attimo, la sostanza (…) Ma

il nucleo centrale dell’area depenalizzata resta l’assunzione della sostanza, già esistente in natura. Tale

condotta va distinta nettamente non solo da quelle che implicano la circolazione della sostanza (cessione,

vendita ecc.) ma anche da tutte quelle che tendono ad accrescere in qualsiasi modo ed in qualunque

quantità, la sostanza stupefacente esistente (produzione, raffinazione, fabbricazione, coltivazione ecc.). Il

legislatore ha inteso in tal modo evitare del tutto la <<creazione>> di nuova sostanza, ritenendo tale attività

pericolosa per la sua diffusività e per il fatto, comunque, di incoraggiare il consumo. Trattasi di scelta assai

ragionevole e perfettamente conforme allo spirito complessivo della normativa in materia. La punibilità

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penale della coltivazione, pertanto, prescinde del tutto dalla destinazione della sostanza, in quanto opera su

un piano diviso ed in tal modo si spiega l’influenza che ha avuto su tale fattispecie l’esito referendario”8.

Alla luce di tali considerazioni, veniva considerata senza mezzi termini <<assurda>> la proposta

distinzione tra coltivazione in senso tecnico-agrario e coltivazione domestica: “in primo luogo, non pare che

tale distinzione sia legittimata dal dato letterale della norma, che non prevede alcuna specificazione del

termine lessicale. Il fatto che negli artt. 27-29 e 30 d.P.R. n. 309 del 1990 siano previste norme particolari

per la concessione delle autorizzazioni alla coltivazione, che presuppongono l’esistenza di un terreno su cui

effettuare la coltivazione, depositi di stoccaggio ed eccedenze di produzione non può essere interpretato nel

senso che le attività di coltivazione che non abbiano questi requisiti non siano soggette ad autorizzazione, e

quindi siano lecite, ma solo che l’autorizzazione, per uso di ricerca, può essere concessa solo in presenza di

questi elementi; per cui, ad esempio, la coltivazione domestica per uso personale non potrebbe giammai

essere autorizzata. Invece, ciò che rileva è che tutte le coltivazioni sono accomunate da un dato essenziale,

e distintivo rispetto alle fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere la quantità di

sostanza stupefacente esistente in natura”9.

Secondo l’orientamento contrario, l’intento del Legislatore, anche prima del già menzionato referendum

abrogativo del 1993 sarebbe stato quello di discriminare non i tipi di condotta, ma le quantità di droga

implicate; all’esito del referendum abrogativo del 1993, per quanto in questa sede rileva, doveva ritenersi

che le condotte di c.d. coltivazione domestica di piante stupefacenti destinate all’esclusivo uso personale

dell’agente risultassero depenalizzate.

A sostegno di questo orientamento, erano state inizialmente recepite le argomentazioni della

giurisprudenza costituzionale e di legittimità, sia quanto alla riconducibilità della c.d. coltivazione

domestica al genus della detenzione, sia quanto alla necessità di verificare il concreto effetto drogante del

raccolto.

All’indomani dell’entrata in vigore delle modifiche introdotte dalla l. n. 49 del 2006, l’orientamento ha

trovato nuova linfa: parte della dottrina ha considerato irragionevole la non menzione, nella lett. a) del

nuovo art. 73, comma 1-bis e nel successivo art. 75, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 (come modificati

dagli artt. 4-bis e 4-ter l. n. 49 del 2006), delle condotte di (micro)coltivazione finalizzate al solo uso

personale: “un’interpretazione dei concetti di detenzione, trasporto e coltivazione ispirata al principio di

offensività e, dunque, alla ratio sulla quale si fonda la scelta legislativa di differenziare la modalità

8 RIVIEZZO, Sulla coltivazione domestica della canapa indiana, in Gazz. Giur. Italia Oggi 1998, n. 19, p. 4 ss.

9 RIVIEZZO, op. e loc. cit.; più recentemente, le medesime convinzioni (accompagnate da rilievi negativamente critici in ordine alla condivisibilità delle argomentazioni della sentenza n. 17983/07, Notaro, cit.) sono state espresse da GRILLO, in Dir. pen. e proc. 2007, n. 12, p. 1618 ss.

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dell’intervento (penale o amministrativo) a seconda che il fatto inerisca o meno all’uso non personale

dovrebbe consentire soluzioni non determinate da un approccio formalistico alla lettera normativa”10.

Analogamente, nel senso della attuale omessa previsione della irrilevanza penale della coltivazione

finalizzata all’esclusivo uso personale, altra dottrina ha osservato che “si tratta di incoerenze sulle quali la

Corte costituzionale potrà intervenire attraverso un controllo di ragionevolezza/eguaglianza. E ciò anche a

proposito di casi di coltivazione di cannabis, che, alla stregua dei criteri del comma 1-bis lett. a, risultino

destinate ad uso esclusivamente personale. Il nuovo contesto normativo dovrebbe indurre la Consulta a

rivedere posizioni negative già assunte: i criteri ora positivizzati dall’ultima norma citata potrebbero fornire

sufficiente garanzia rispetto al pericolo derivante dalla ritenuta incertezza riguardante il quantitativo di

prodotto ricavabile dalla coltivazione”11.

Sono anche stati espressi dubbi sulla possibilità che l’estromissione – tra le altre – della condotta di

coltivazione dall’ambito di operatività (pur solo a livello indiziario) degli indici quantitativi di cui all’art. 73

co. 1-bis possa comportare il superamento dell’orientamento che in precedenza riteneva prive di rilevanza

penale le condotte di coltivazione c.d. domestica di un numero esiguo di piante 12.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto la fondatezza dell'orientamento in precedenza dominante,

giungendo alla conclusiva affermazione del principio di diritto innanzi riportato.

A sostegno dell'affermazione della rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di

coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, pur se finalizzata

all'uso personale, il Supremo Collegio ha osservato, in particolare, che:

(a) come già evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale, non è individuabile un nesso

di immediatezza tra la coltivazione e l'uso personale, ed è conseguentemente impossibile

determinare ex ante la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione: la

fattispecie in esame si caratterizza, infatti, rispetto agli altri delitti in materia di sostanze

stupefacenti, per una notevole anticipazione della tutela penale, in relazione ad un

<<pericolo del pericolo>>, ovvero al "pericolo, derivante dal possibile esito positivo della

condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di

10 EUSEBI, L’assunzione di stupefacenti non è un diritto, ma il tossicodipendente non è un “nemico”, in Leg. pen. 2007, parte VI, Tavola rotonda.

11 GAMBERINI ed INSOLERA, Commento articolo per articolo alla l. n. 49 del 2006 - Premessa, in Leg. pen.

2007, 318.

12 MANES, Commento all’art. 4-bis della l. n. 49 del 2006, in Leg. pen. 2007, p. 342.

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stupefacenti", ed ha natura di reato di pericolo presunto, che fonda sulle "esigenze di tutela

della salute collettiva", bene giuridico primario che "legittima sicuramente il legislatore ad

anticiparne la protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto". Ad esso, si

affiancano, peraltro, quali ulteriori beni giuridici tutelati, la sicurezza e l'ordine pubblico e

la salvaguardia delle giovani generazioni (cfr. § 1.2.);

(b) il fatto che, anche dopo l'intervento normativo del 2006, gli artt. 73 co. 1-bis e 75 co. 1

d.P.R. n. 309 del 1990 non richiamino la condotta di <<coltivazione>>, lascia ritenere che

il legislatore abbia inteso "attribuire a tale condotta comunque e sempre una rilevanza

penale, quali che siano le caratteristiche della coltivazione e quale che sia il quantitativo

di principio attivo ricavabile dalle parti delle piante da stupefacenti", nel rispetto delle

garanzie di riserva di legge e di tassatività in virtù delle quali è rimessa al solo legislatore

"la responsabilità delle scelte circa i limiti, gli strumenti, le forme di controllo da

adottare": il problema-droga presenta infatti "il pericolo effettivo che la carica ideologica

ad esso inerente, in senso vuoi libertario vuoi conservatore e repressivo, induca a

risolverlo con schemi di ampliamento e dilatazione ovvero per contro repressivi";

(c) l'art. 75 d.P.R. n. 309 del 1990 assoggetta al regime previsto per le droghe destinate

all'uso personale le sole condotte di importazione, acquisto o detenzione, con esclusione di

tutte le altre condotte previste dall'art. 73 stesso d.P.R., ed il precedente art. 28 "prevede

espressamente l'assoggettabilità alle sanzioni anche penali stabilite per la fabbricazione

illecita di chiunque, senza essere autorizzato,<<coltiva le piante indicate nell'art. 36>>";

(d) è arbitraria la distinzione tra <<coltivazione in senso tecnico-agrario>> ovvero

<<imprenditoriale>> e <<coltivazione domestica>>, non legittimata da alcun riferimento

normativo: essa è comunque superata dal rilievo che qualsiasi tipo di <<coltivazione>> è

caratterizzato dal dato essenziale e distintivo rispetto alla <<detenzione>> di "contribuire

ad accrescere (...) la quantità di sostanza stupefacente esistente", il che legittima la

previsione di "un trattamento sanzionatorio diverso e più grave".

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2.1.1. L’efficacia drogante ed il principio di offensività.

Ai fini della decisione, le Sezioni Unite hanno dovuto, inoltre, valutare la possibile

rilevanza dell'efficacia drogante del prodotto della <<coltivazione>> ai fini della punibilità

della condotta, in presenza ancora una volta di orientamenti contrastanti:

(a) a parere di un orientamento, in conformità con quanto già in precedenza ritenuto dai Giudici delle

leggi (Corte cost. n. 360 del 1995), l'assenza od insufficienza di effetto drogante della sostanza coltivata

consentirebbe di escludere l'offensività della condotta ex art. 49 c.p. (Sez. VI, 14.4. - 5.6.2003, n. 24622,

Isoni, rv. 225572; Sez. IV, 27.11.2003 - 6.2.2004, n. 4836, Felsini, rv. 229366; Sez. VI, 29.9. - 2.11.2004,

n. 42590, Scuoch, rv. 230464; Sez. VI, 15.11.2004 - 6.6.2005, n. 20938, Bortoletto, rv. 231631; Sez. IV,

17.10. - 7.12.2006, n. 40295, Quaquero ed altro, rv. 235425; Sez. VI, 12.2. - 28.9.2007, n. 35796,

Franchellucci, rv. 237661);

(b) secondo altro orientamento, la fattispecie in esame ha natura di reato di pericolo astratto o presunto,

che non consentirebbe di attribuire rilievo, ai fini della sua configurabilità, alla quantità e/o qualità delle

piante, alla loro effettiva tossicità, ed alla quantità di sostanza drogante da esse estraibile: tali elementi

potrebbero assumere rilievo unicamente ai fini della valutazione della gravità del reato ovvero alla

qualificabilità del fatto come di lieve entità ex art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990 (Sez. VI,

7.11.1996 - 5.1.1997, n. 100, Garcea, non massimata; Sez. VI, 11.3. - 21.4.1998, n. 4696, Pesce ed altro,

rv. 211060; Sez. VI, 9.6. - 16.7.2004, n. 31472, De Rimini, rv. 229311; 29.9. - 1.12.2004, n. 46529, Aspri

ed altro, rv. 230571; Sez. IV, 15.11.2005 - 5.1.2006, n. 150, D'Ambrosio, rv. 232794; Sez. VI, 24.1. -

23.3.2007, n. 12328, P.G. in proc. Fiorillo, rv. 236397).

Le Sezioni Unite hanno condiviso il primo orientamento, affermando che

"Aa fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono

estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della

condotta ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante

rilevabile ".

Una condotta può risultare, infatti, in concreto inoffensiva "soltanto se il bene tutelato

non e' stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo ".

E’ opportuno aggiungere che nel 2008 le Sezioni Unite erano state chiamate a pronunciarsi sulla

configurabilità o meno come reato delle condotte previste dall'art. 73 d.P.R. 309 del 1990 quando la

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quantità delle sostanze, indicate nelle tabelle I e II di cui all'art. 14 del citato d.P.R., sia inferiore alla soglia

drogante.

La questione era già stata esaminata dalle Sezioni Unite (sent. n. 9973/08, Kremi), che avevano ritenuto

la sussistenza del delitto di cui al d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 nell’ipotesi di spaccio di stupefacenti anche

se la sostanza stupefacente non superi la cosiddetta soglia drogante, ed era stata nuovamente sollevata

all’indomani dei recenti interventi normativi, particolarmente innovativi, ed in particolare dall'introduzione,

con la L. n. 49 del 2006, dell'art. 73, comma 1-bis, che ha attribuito un rilievo specifico alla quantità dello

stupefacente ai fini del presuntivo superamento della destinazione della droga per uso personale. Nella

specie, peraltro, risultava pacificamente superata la soglia drogante del quantitativo di eroina spacciato dal

ricorrente, pari a mg. 33 (“e, come tale, non si può assolutamente ritenere che si tratti di un dato ponderale

che non produca un apprezzabile effetto stupefacente”).

Le Sezioni Unite (sent. n. 47472/07, Di Rocco) hanno, in particolare, osservato che

“nella premessa del D.M. Salute 11 aprile 2006, che ha proceduto alla indicazione dei limiti quantitativi

massimi ai fini previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, e' precisato che e' stata

individuata la dose media singola (essendo molto variabile da persona a persona la dose media

giornaliera), "intesa come la quantita' di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre

in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo", come base del calcolo

per ritenere presunta la detenzione al fine di spaccio. Cio' in quanto la dose media singola e'

"espressione di evidenza scientifica", e dai lavori preparatori delle tabelle di cui al citato decreto

ministeriale si evince che la determinazione della dose media singola delle varie sostanze e' stata

calcolata con cautela. Per l'eroina la dose media singola, cosi' valutata, e' stata individuata in 25

mg., in quanto tale quantita' e' senza dubbio idonea a produrre un effetto stupefacente e psicotropo in

soggetto aduso costantemente al consumo di quel tipo di droga, in altre parole nel tossicodipendente. Il

dato fornito dal D.M. 11 aprile 2006 costituisce quello scientifico piu' recente, e quindi piu'

aggiornato e adeguato alla realta' dei tempi, ed e' conforme alle valutazioni di questa Corte, che ha gia'

individuato la soglia dell'effetto drogante in quantita' analoga ai 25 mg. (Cass. sez. 4 9.11.1993 n. 1010;

Cass. sez. 6 15.10.1996 n. 10689), ovvero addirittura inferiore (18,4 mg. in Cass. sez. 4 24.1.1996 n.

2502; 5-6 mg. in Cass. sez. 6 13.1.1990 n. 12068). Pertanto, non rileva il superamento della dose media

giornaliera, che nella specie non vi e' stato, ma la circostanza che l'eroina spacciata aveva

certamente effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente, considerata la dosimetria del

principio attivo individuato, e pertanto risulta priva di rilevanza la questione sottoposta alle Sezioni

Unite”.

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2.1.2. Considerazioni.

Si è già osservato che le fonti internazionali e comunitarie, pur ispirate da notevole rigore

nel perseguire l’obiettivo di ridurre i traffici di droghe, ed in definitiva la provvista di esse

suscettibile di commercializzazione, oltre che lo stesso consumo, non prendono

direttamente posizione sulla questione controversa, ove in particolare si acceda

all’interpretazione dell’art. 3 § 2 della Convenzione di Vienna già accolta dalla Corte

costituzionale13, pur se non pacifica in ambito internazionale14.

La scelta di incriminare penalmente la condotta di coltivazione c.d. domestica era già

stata considerata ragionevole dalla Corte costituzionale15 poiché detta condotta,

diversamente dalla <<detenzione>> non è contraddistinta da un nesso di immediatezza con

l’uso personale, “il che giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando

nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti

propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale”.

La soluzione della questione controversa non poteva, peraltro, prescindere dall’opzione –

sub specie di tipicità della fattispecie incriminata – per l’una o l’altra delle contrapposte

interpretazioni del concetto di <<coltivazione>>: la stessa giurisprudenza costituzionale,

pur dopo avere ammesso la configurabilità della condotta di <<coltivazione>> anche in

relazione alla coltivazione domestica di un’unica pianta, aveva, infatti, affermato che

trattasi di “questione meramente interpretativa, rimessa altresì al giudice ordinario”16.

L’esclusione dal novero delle condotte di <<coltivazione>> penalmente rilevanti di quelle

materializzatesi nella c.d. <<coltivazione domestica>> di pochi esemplari di piante

stupefacenti fonda essenzialmente sugli artt. 26 ss. del d.P.R. n. 309 del 1990, che

disciplinano il procedimento amministrativo attraverso il quale la coltivazione di piante

13 Corte cost., ord. n. 28 del 1993 cit. 14 Cfr. Documento di lavoro del 4.2.2003 della Commissione del Parlamento Europeo per le libertà ed i diritti dei

cittadini, la giustizia e gli affari interni cit.

15 Corte cost., sent. n. 360 del 1995 cit.

16 Corte cost., sent. n. 360 del 1995 cit.

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stupefacenti per scopi industriali può essere autorizzata, e prevedono il ricorso alla

sanzione penale per le sole condotte di <<coltivazione (industriale) abusiva>>,

disinteressandosi di quella c.d. <<domestica>>, che rientrerebbe nel più ampio genus della

<<detenzione>>, e, se finalizzata esclusivamente all’uso personale, rileverebbe unicamente

quale illecito amministrativo (ex art. 75 d.P.R. n. 309 del 1990).

Tuttavia, tale interpretazione risulta sistematicamente improponibile, per due ordini di

rilievi:

(a) l’ampliamento dell’area dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 75 cit. fino a

ricomprendervi la condotta di c.d. <<coltivazione domestica>> si porrebbe in contrasto con

il principio di legalità, ed in particolare con il corollario della tassatività dell’illecito

amministrativo (art. 1 l. n. 689 del 1981), con la conseguenza (prima facie irragionevole)

che, una volta esclusa la rilevanza penale della condotta, andrebbe esclusa la sua rilevanza

anche quale illecito amministrativo, e la c.d. <<coltivazione domestica>> risulterebbe tout

court lecita;

(b) analogo problema si porrebbe a fortiori con riguardo alla nuova disciplina dettata

dall’art. 73, comma 1-bis, d.p.r. n. 309 del 1990 (introdotto dalla legge n. 49 del 2006): è

indubbio che da questa disposizione discendano a carico dell’indagato/imputato, sia pur

soltanto con riguardo alla prova della destinazione della sostanza, e sia pur soltanto sub

specie di presunzione relativa, effetti sfavorevoli, che non sarebbe agevole, sempre in

ossequio al principio di legalità, ed in particolare al corollario della tassatività, estendere ad

una fattispecie non espressamente rientrante nell’ambito applicativo della norma ed ictu

oculi naturalisticamente diversa. Anche in tal caso, la paradossale conseguenza

dell’accoglimento dell’orientamento minoritario sarebbe quella dell’inoperatività, per le

sole condotte di coltivazione, dei criteri probatori (sfavorevoli) che lasciano presumere (pur

se iuris tantum) la destinazione del raccolto all’uso personale: alle condotte di

<<coltivazione>> sarebbe in tal modo riservato un più favorevole trattamento anche in

sede penale, rispetto ad altre caratterizzate da analoga finalità, ma obiettivamente meno

gravi.

Appaiono, in verità, evanescenti le riserve manifestate da parte della dottrina

sull’opportunità della soluzione prescelta dalle Sezioni Unite, contraddittoriamente

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riconoscendosi, ad un tempo, la sua correttezza con riferimento alla lettera ed alla ratio

della legge (cos’altro occorre per ammetterne senza riserve la fondatezza ?), ma

dissentendone “nella consapevolezza che proprio l’irragionevolezza delle conseguenze

sanzionatorie che possono derivare dall’interpretazione di rigore esige una lettura

costituzionalmente orientata, comunque rispettosa della necessaria offensività delle

condotte incriminate”17.

In realtà, se ciò che il legislatore intendeva impedire attraverso le incriminazioni

contenute nel d.P.R. n. 309 del 1990 “è che la droga giunga al consumatore, sia perchè

senza quest'ultima fase il narcotraffico non avrebbe ragione di esistere, sia perchè

comunque si vuole contrastare ogni ulteriore incremento del consumo di tali sostanze”18, il

maggior rigore riservato alle condotte di coltivazione c.d. domestica trova una apprezzabile

giustificazione sistematica nel rilievo che, mentre in conseguenza di una detenzione

finalizzata all’uso personale la diffusione verso terzi della droga postula la commissione

quantomeno di un atto di cessione, assoggettato a sanzione penale e quindi a controllo

preventivo-repressivo-rieducativo (art. 27, comma 3, Cost.), diversamente, in conseguenza

di una <<coltivazione c.d. domestica>>, la diffusione potrebbe promanare per ragioni

accidentali, imprevedibili ex ante, non imputabili all’agente e non assoggettabili ad alcun

controllo (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla sottrazione di semi-germogli-

inflorescenze et c. ad opera di terzi, specie se prodotti in misura maggiore di quanto

sarebbe stato ragionevole attendersi ex ante, od alla semina accidentale – per ragioni

naturali – in terreni, grandi o piccoli, limitrofi, eventualmente anche accessibili a minori).

Anche a prescindere dal carattere (domestico ovvero tecnico-industriale) della

coltivazione, tutte le <<coltivazioni>> sono accomunate da un dato essenziale, che le

distingue ontologicamente rispetto alle fattispecie di <<detenzione>>: contribuire ad

accrescere la quantità di sostanza stupefacente esistente in natura.

La fattispecie costituisce, peraltro, reato di pericolo astratto, categoria intermedia tra

quella dei reati di pericolo concreto e presunto, caratterizzata19 “dal fatto che il legislatore

opera un astratto riferimento alla generica possibilità che una data condotta provochi

17 Così AMATO, in Guida al dir. 2008, n. 31, p. 95. 18 Corte cost., sent. n. 296 del 1996 cit.; analogamente, tutte le fonti internazionali in precedenza citate. 19 Come autorevolmente evidenziato dalla dottrina: cfr. PADOVANI, Diritto penale , 7a ed., Milano, 2004, 129 s.

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danni al bene protetto, che peraltro andrebbe successivamente verificata in concreto, caso

per caso”20. Ai fini della sua compatibilità con il principio di offensività21, è, pertanto,

necessario verificare che il raccolto abbia in concreto una apprezzabile efficacia drogante:

in caso contrario, dovrà ritenersi la configurabilità di un reato impossibile per inidoneità

dell’azione ex art. 49 c.p., e conseguentemente la non punibilità della condotta.

In tal modo, sarà possibile pervenire al medesimo risultato (auspicato dall’orientamento

minoritario) della non assoggettabilità a sanzione penale del soggetto agente responsabile

di condotte “marginali”, ma questa volta argomentato su basi giuridico-sistematiche non

arbitrarie.

Proprio quest’ultimo profilo risulta valorizzato dalle decisioni giurisprudenziali

intervenute in tema dopo la pronunzia delle Sezioni Unite:

- Cass. pen., Sez. IV, 28.10.2008 – 14.1.2009, n. 1222, Nicoletti, rv. 242371 ha

affermato che ai fini della configurabilità del reato di coltivazione non autorizzata di piante

dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è necessario accertare la concreta

offensività della condotta, e cioè l’effettiva capacità della stessa di ledere i beni giuridici

tutelati dalla norma incriminatrice, escludendo, nel caso in esame, la concreta offensività

della condotta per il rilievo che le piante de quibus non avevano ancora completato il ciclo

di maturazione e non avevano ancora prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del

concreto accertamento della presenza del principio attivo della sostanza stupefacente, e ciò

per la penale irrilevanza di un accertamento di offensività “a futura memoria”. La decisione

desta, peraltro, perplessità: pur se il reato de quo ha natura di reato di pericolo astratto, la

condotta di <<coltivazione>> (come inequivocabilmente chiarito in motivazione dalle

stesse Sezioni Unite) è “punibile fino dal momento di messa a dimora dei semi” (quando

sarebbe impossibile accertare l’offensività concreta di un raccolto del tutto inesistente in

20 BELTRANI, Corso di diritto penale. Parte generale e parte speciale, 4a ed., Padova, 2009, 139. Una autorevole dottrina ha addirittura affermato che tali reati vanno considerati “come reati di pericolo concreto, perché il pericolo è elemento di fattispecie e come tale da accertare volta per volta” (ROMANO M., Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 3a ed., Milano, 2004, 341).

21 Per la intervenuta costituzionalizzazione del principio di offensività ex artt. 13, 25 e 27 Cost., cfr. Corte cost. n. 265 del 2005, n. 360 del 1995, n. 263 del 2000, n. 519 del 2000, n. 354 del 2002, ed, in dottrina, MANTOVANI, Diritto penale – parte generale, 4a edizione, Padova, 2001, p. 192 s. In senso contrario, Cass. pen., Sez. II, n. 41462 del 2004, per la quale nessuna norma vigente consente di affermare l’esistenza del principio di offensività.

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rerum natura) e “si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, quale

fattispecie contraddistinta da una notevole anticipazione della tutela penale e dalla

valutazione di un <<pericolo del pericolo>>, cioè del pericolo, derivante dal possibile

esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla

normativa in materia di stupefacenti”). Viene, inoltre, negata (senza una espressa

motivazione) persino la configurabilità del tentativo, rimettendo in concreto la rilevanza

penale di condotte anche di particolare gravità (nella specie, si trattava di ben 23 piantine di

cannabis sativa) ad un elemento del tutto casuale (quale il momento dell’intervento delle

Autorità);

- Cass. pen., Sez. IV, 23.9 – 5.10.2009, n. 38653, Rabissoni, non massimata, nel

ribadire i principi affermati dalle Sezioni Unite (sentenza Di Salvia), ha annullato con

rinvio l’impugnata sentenza assolutoria poiché, in difetto di un accertamento tecnico, non

poteva ictu oculi essere fondatamente esclusa l’offensività della condotta (coltivazione

domestica di una pianta di canapa indiana).

Si è anche osservato:

- che il possesso di semi estratti da piante da stupefacenti oggetto di precedente coltivazione illecita non

integra gli estremi di alcun ulteriore reato, e di conseguenze va esclusa la continuazione, poiché la

coltivazione non autorizzata ricomprende le condotte che vanno dalla semina fino alla raccolta (Cass. pen.,

Sez. IV, 4.12.2008 – 30.3.2009, n. 13853, Zago, rv. 243193);

- che è configurabile il reato d’istigazione all’uso di sostanze stupefacenti nel caso in cui, unitamente ai

semi di canapa indiana, si forniscano agli acquirenti dettagliate indicazioni circa le modalità e gli strumenti

idonei alla coltivazione di essi (Cass. pen., Sez. IV, 20.5. – 10.6.2009, n. 23903, Malerba, rv. 244222, in

fattispecie nella quale si contestava all’indagato di aver posto in vendita e pubblicizzato, anche tramite

Internet, semi di canapa indiana con accessori, DVD e libri contenenti spiegazioni sulle più opportune

modalità di coltivazione: la Corte ha affermato, in motivazione, che “la coltivazione ha inevitabilmente il

fine dell’uso, di tal che parlare di istigazione alla coltivazione equivale a parlare di istigazione all’uso”;

conforme, Cass. pen., Sez. IV, 20.5. – 25.9.2009, n. 37899, Piga, non massimata);

- che in caso di rinvenimento di una piantagione destinata alla produzione di sostanze stupefacenti, la

polizia giudiziaria ben può limitare il sequestro ad alcune piante scelte a campione, procedendo

contestualmente alla distruzione delle altre, e nella selezione delle piante da sottoporre a vincolo non deve

adottare le modalità previste dall’art. 87 d.P.R. n. 309 del 1990, atteso che tale disposizione disciplina la

campionatura dello stupefacente già oggetto di cautela reale, e non l’estrazione preliminare alla apposizione

del vincolo (Cass. pen., Sez. IV, 21.1. – 16.4.2009, n. 16097, Varone ed altro, rv. 243635).

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2.2. L’uso di gruppo.

Nella vigenza del “vecchio” testo dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, la tematica della

possibile rilevanza penale del c.d. uso di gruppo era stata esaminata dalla fondamentale la

sentenza n. 4 del 1997, P.M in proc. Iacolare, con la quale le Sezioni Unite avevano

ritenuto che

“non sono punibili - e rientrano pertanto nella sfera dell'illecito amministrativo di cui

all'art. 75 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 - l'acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti

destinate all'uso personale che avvengano sin dall'inizio per conto e nell'interesse anche di

oggetti diversi dall'agente, quando è certa fin dall'inizio l'identità dei medesimi nonché

manifesta la loro volontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo”.

La Corte aveva, in particolare, osservato che l'omogeneità teleologica della condotta del

procacciatore rispetto allo scopo degli altri componenti del gruppo caratterizzava la

detenzione quale codetenzione ed impediva che il primo si ponesse in rapporto di estraneità

e quindi di diversità rispetto ai secondi, con conseguente impossibilità di connotazione

della sua condotta quale cessione, precisando altresì che ad opposta conclusione doveva

invece pervenirsi qualora l'acquirente-detentore non fosse anche assuntore, ovvero non

avesse ricevuto alcun mandato all'acquisto o alla detenzione.

Le decisioni più recenti hanno ribadito l’orientamento.

Così, Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 37078/07, Antonini, ha osservato che

“per la sussistenza del c.d. consumo di gruppo di sostanza stupefacente occorre che la

sostanza venga acquisita da uno dei partecipanti al gruppo su preventivo mandato degli

altri, in vista della futura ripartizione ed attraverso una partecipazione di tutti alla

predisposizione dei mezzi finanziari occorrenti, di talché possa affermarsi che l'acquirente

agisca come longa manus degli altri e che il successivo frazionamento della sostanza

acquisita sia solo una operazione materiale di divisione senza trasferimento dall'uno

all'altro di valore”.

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Nel caso concreto, è stata peraltro esclusa la sussistenza dell’evocata destinazione all’uso

di gruppo (smentita dalle residue risultanze istruttorie) con riguardo alla detenzione da

parte dell’imputato di 1600 dosi di eroina.

Cass. Pen. Sez. IV, sent. n. 35682/08, Di Riso ed altri, ha evidenziato la necessità della

prova rigorosa che la droga sia stata acquistata in comune, con il denaro cioè di tutti i

partecipanti al gruppo ed allo scopo di destinarla al consumo esclusivo dei medesimi.

Se l'acquisto ed il consumo rimangono circoscritti all'interno del gruppo degli assuntori, è

irrilevante che la sostanza sia detenuta da uno solo di essi, in quanto l'intero quantitativo è

idealmente divisibile in quote corrispondenti al numero dei menzionati partecipanti; in

difetto di ciò, sussiste per il detentore il reato di cessione, sia pure gratuita, a terzi di

sostanza stupefacente.

La contraria prova della destinazione della droga allo spaccio spetta all'accusa, mentre

non incombe all'imputato l'onere inverso di dimostrare la propria innocenza:

“non v'è dubbio che la prova della destinazione di stupefacente ad attività di spaccio (con

conseguente insussistenza dell'ipotesi di codetenzione per consumo di gruppo) debba

essere fornita dall'accusa, non potendo porsi, con un'inversione dell'onere della prova, a

carico dell'imputato il compito della dimostrazione della mancanza dei presupposti e delle

condizioni per l'affermazione di colpevolezza”.

Nella specie, si contestava agli imputati di aver detenuto, a fine di spaccio, hashish e

marijuana, sostanze rinvenute in due tende, all'interno di un campeggio, occupate,

rispettivamente, dai due gruppi in cui erano suddivisi gli indagati, e la destinazione all’uso

di gruppo è stata esclusa in considerazione degli elementi di fatto (diversità delle sostanze

cadute in sequestro, hashish e marjiuana; modalità di occultamento delle sostanze stesse, e

cioè nelle due tende ed in parte anche in una buca nel terreno; rinvenimento di materiale

per il confezionamento di dosi - come i ritagli di cellophane ed un coltello che si

presentava intriso ed affumicato - nonché di modiche quantità di "fumo" sulle persone di

taluni dei giovani fermati; rilievi dei CC per diretta osservazione, circa i contatti con altri

giovani) emersi nel corso delle indagini preliminari.

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Una più recente decisione in tema (Cass. Pen. Sez. VI, sent. n. 29174/08, Del Conte) ha

ampliato l’ambito della destinazione all’uso di gruppo fino a ricomprendervi casi nei quali

la droga sia inizialmente stata acquistata da un singolo, senza alcun preventivo incarico

all’acquisto:

“non può escludersi una situazione di uso di gruppo nel caso in cui più persone decidano

concordemente ed unitariamente di consumare della droga già detenuta da uno di loro, in

quanto anche in questo caso ricorre quella affinità teleologica che caratterizza la

codetenzione di gruppo”.

Questo orientamento appare quanto mai opinabile, dimenticando che il reato si consuma

all’atto dell’acquisto di droga destinata alla cessione (anche a titolo gratuito) del singolo (in

proposito, la motivazione nulla dice), e che pertanto il successivo consenso dei terzi alla

consumazione di gruppo può, al più, incidere sulla quantificazione della pena ex art. 133

c.p.

L’orientamento delle Sezioni Unite è stato ribadito, nel corso dell’anno 2009, da due

decisioni (Cass. Pen., Sez. IV, 14.1. – 13.2.2009, n. 7939, D’Aniello ed altro, rv. 243870,

e 22.4. – 11.5.2009, n. 19938, Ferrari, non massimata), ferme nel richiedere, ai fini della

configurabilità del c.d. uso di gruppo non punibile la prova:

- del preventivo mandato all’acquisto di droga …

- da parte dei componenti (singolarmente individuati) di un gruppo …

- in vista della futura ripartizione e destinazione all’uso esclusivo dei mandanti e del

mandatario (o dei mandatari) …

- con comune partecipazione (di tutti, nessuno escluso) alla predisposizione dei mezzi

finanziari occorrenti per l’acquisto delegato.

Solo in tal caso l’acquirente potrebbe essere ritenuta longa manus del gruppo.

Nei casi esaminati, l’irrilevanza penale della condotta è stata, peraltro, esclusa per difetto

di prova del mandato preventivo all’acquisto e dell’invocata prassi tacita di acquisto a

turno per conto del gruppo, oltre che, nella seconda decisione, in difetto della sicura

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identificazione dei componenti del gruppo e della raccolta di denaro, avendo l’acquirente

ceduto al gruppo a titolo gratuito la droga acquistata.

L’irrilevanza penale della condotta va anche esclusa nei casi in cui vi sia stata la cessione

al gruppo di un quantitativo di droga eccedente quello inizialmente richiesto (Cass. pen.,

Sez. IV, 8.5. – 9.9.2009, n. 35017, Gatto).

Richiamando il citato orientamento delle Sezioni Unite, la Corte di cassazione ha anche affermato, in

tema di estradizione per l'estero, che non soddisfa il requisito della doppia incriminabilita', di cui all'art.

2 della Convenzione europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957, la domanda di

estradizione relativa a fatti di acquisto e detenzione di stupefacente destinato ad uso personale, che

avvengano per conto e nell'interesse anche di soggetti diversi dall'agente, quando sia certa fin dall'inizio

l'identita' dei medesimi e sia manifesta la volonta' di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo.

Ne consegue che non puo' essere pronunciata sentenza favorevole all'estradizione, rientrando il fatto

oggetto della domanda nella sfera dell'illecito amministrativo di cui all'art. 75 d.P.R. 9 ottobre 1990 n.

309 (Cass. Pen. Sez. VI, sent. n. 21178/07, Montaldo).

Il tema della rilevanza penale della codetenzione di sostanze stupefacenti destinate

all’uso di gruppo è stato riesaminato all’esito delle modifiche apportate all’art. 73 d.P.R. n.

309 del 1990 dalla L. n. 49 del 2006: risulta attualmente illecita (nell’ambito di un contesto

globalmente ispirato a maggior rigore persecutorio) la detenzione per uso non

esclusivamente personale; per effetto dell’aggiunta dell’avverbio <<esclusivamente>>,

la codetenzione per l’uso di gruppo deve ritenersi divenuta penalmente illecita, anche se la

modifica, introducendo una nuova incriminazione, non potrà essere applicata

retroattivamente alle condotte antecedenti: così Cass. pen., Sez. II, 6 maggio – 5 giugno

2009, n. 23574, Mazzuca, per la quale, a seguito della novella introdotta dalla legge n.

49/2006,

“il baricentro della normativa è stato spostato dal consumo personale (…) al

consumatore nel senso che sfugge alla sanzione penale solo colui che si sia trovato nel

possesso di un quantitativo di stupefacente che appare destinato ad un uso

<<esclusivamente personale>> ossia ad essere consumato solo ed unicamente dal

possessore (…). Il cd. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nella duplice ipotesi del

mandato all’acquisto e/o dell’acquisto in comune, è ora sanzionato penalmente in quanto,

non essendo ipotizzabile un uso esclusivamente personale della sostanza stupefacente,

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entrambe le suddette ipotesi sono sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 73, comma 1-

bis, lett.a)”

Ed invero il dato testuale sopravvenuto (cui l’interprete deve di necessità attribuire

valenza innovativa rispetto alla disciplina previgente, non potendo considerare l’avverbio

de quo come non scritto) sembra rendere ineludibile la soluzione adottata dalla Suprema

Corte.

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2.3. L’attenuante speciale di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990.

Art. 73 co. 5 d.P.R. n. 309 del 1990

IL PARAMETRO DI VALUTAZIONE

Cass. pen. Sez. U., sent. n. 17/00, Primavera ed altri.

L'attenuante speciale della <<lieve entità del fatto>> può essere riconosciuta solo in ipotesi di

minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia

dagli altri parametri richiamati dall’art. 73 co. 5 (mezzi, modalità, circostanze dell'azione ), con la

conseguenza che ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra

considerazione resta priva di incidenza sul giudizio (Nella specie, è stato ritenuto idoneo a

giustificare il din iego dell’attenuante il riferimento al dato quantitativo: trattavasi di 50 grammi di

cocaina, idonei a confezionare oltre trecento dosi medie giornaliere, cioè una provvista per dieci mesi

di consumo giornaliero). (Conformi, da ultimo, Sez. VI, n. 13523/09).

Cass. pen. Sez. VI, sent. n. 27052/08, Rinaldo ed altro.

L'attenuante speciale della <<lieve entità del fatto>> trova applicazione quando la fattispecie

concreta risulti di trascurabile offensività, sia per l’oggetto materiale del reato, in relazione alle

caratteristiche quantitative e qualitative della sostanza, sia per la condotta, riferibile ai mezzi, alle

modalità ed alle circostanze della stessa, dovendosi conseguentemente escludere l’ipotesi del fatto di

lieve entità in presenza del vaglio negativo anche di uno solo dei parametri di riferimento individuati

dalla legge.

Cass. pen. Sez. IV, sent. n. 22643/08, Frazzitta.

È possibile attribuire rilievo non soltanto alla maggiore o minore purezza della sostanza, ma anche

alla natura della stessa (in quanto il D.M. 11 aprile 2006, nel fissare la “quantità massima detenibile”

di droga, ha fatto ricorso per le principali sostanze ad un “moltiplicatore variabile” della “dose media

singola”, determinato, per le sostanze ritenute meno pericolose, in termini più ampi), sempre che non

risultino ostativi gli altri parametri indicati nell’art. 73 co. 5, tra i quali valore assorbente può

assumere il dato ponderale assoluto (nella specie si trattava di g. 100 lordi di hashish, con principio

attivo di cinque volte superiore alla soglia della QMD citata, per una ricavabilità di 198 dosi singole).

LA NATURA GIURIDICA

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Trattasi di una circostanza attenuante ad effetto speciale, essendo correlata ad elementi che non

modificano la struttura della fattispecie ma incidono sulla sua valenza offensiva (per tutte, Sez. IV,

n. 27429/08, Messina; Sez. VI, n. 27052/08, Rinaldo ed altro; Sez. VI, n. 13523/09).

CASI PRATICI

Detenzione illegale di 137

DMG di hashish.

Sez. IV, n. 39273/08, Lo

Presti ha negato l’attenuante,

per la rilevanza assorbente del

dato ponderale, “che può essere

reputato sintomo sicuro di una

non trascurabile diffusività

dell’attività di spaccio e, perciò,

sufficiente a negare l’attenuante

in parola, senza necessità che il

giudice prenda espressamente in

esame gli altri parametri

normativi, se non prevalenti

rispetto al dato ponderale.

Difetto di motivazione.

Sez. IV, n. 4104/09 ha

annullato per difetto di

motivazione (non emergendo

ictu oculi le ragioni della

concessione dell’attenuante) la

sentenza di “patteggiamento”

che aveva qualificato come

fatto di lieve entità la

detenzione a fini di spaccio di g.

176 di hashish e 62 compresse

di extasy.

Plurime forniture di

considerevoli quantitativi di

eroina e cocaina succedutesi

nell’arco di due mesi con

cadenze settimanali.

Sez. IV, n. 44285/08, Pittella

ha negato l’attenuante,

essendo evidente che la

condotta accertata presentava

connotati di tale gravità da

renderne improponibile il

riconoscimento.

Imputato tossicodipendente.

Sez. V, n. 25883/09 ha

osservato che, ai fini

dell’attenuante de qua, lo stato

di tossicodipendente può

rilevare solo se si accerti che

lo spaccio non ha dimensioni

ragguardevoli, sì da rendere

verosimile che l’imputato ne

destini i proventi all’acquisto

di droga per uso personale (in

concreto, l’attenuante è stata

negata, in considerazione della

ampie dimensioni dello

spaccio).

Spaccio continuativo.

Sez. VI, n. 27052/08, Rinaldo

ed altro ha negato

l’attenuante, in considerazione

del carattere frequente e

sistematico della condotta di

commercializzazione, ritenuta

sintomatica di una potenzialità

diffusiva dell’attività di

spaccio non trascurabile.

Sez. VI, n. 25988/08, P.M. in

proc. Lataj ha ritenuto che lo

svolgimento di attività di

spaccio non occasionale ma

continuativo non è

incompatibile con la lieve

entità del fatto, come si

desume dall’art. 74, co. 6,

d.P.R. n. 309 del 1990 che,

attraverso il riferimento ad

un’associazione costituita per

commettere fatti descritti dal

co. 5 dell’art. 73 rende

evidente che è ammissibile

configurare come lievi anche

gli episodi che costituiscono

attuazione del programma

criminoso associativo.

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33

Sez. IV, n. 34331/09 ha

annullato per manifesta

illogicità la sentenza che aveva

ritenuto l’attenuente de qua in

relazione alla detenzione illecita

di 150 pasticche di extasy,

richiamando in motivazione

unicamente “la quantità di

sostanze stupefacenti in

possesso dell’imputato”.

Detenzione di più droghe.

Sez. IV, n. 38669/09 ha

dichiarato inammissibile il

ricorso dell’imputato che

lamentava la non concessione

dell’attenuante in relazione

alla detenzione di g. 500 di

hashish (gli era stata concessa

solo per la detenzione di g. 4

di cocaina). Non vi era stato

ricorso del P.M.

La necessità di graduare la

pena al fatto.

Sez. IV, n. 40842/09 ha

annullato (e meno male!) una

sentenza che, considerata la

necessità “di graduare la

pena al fatto”, aveva ritenuto

di lieve entità la detenzione

illecita di kg. 3,070 di

hashish.

INCOMPATIBILITA’

Cass. Pen., Sez. VI, n. 20663/08.

L’attenuante di cui all’art. 73, co. 5 è incompatibile con l’aggravante della cessione a minori di cui

all'art. 80, co. 1, lett. a), d.P.R. n. 309 del 1990, in quanto il fatto stesso della cessione a minori, per la

sua maggiore intrinseca pericolosità, rende più grave l'azione delittuosa ed esclude l'applicazione

dell'ipotesi attenuata, anche in presenza di altri elementi sintomatici, in astratto, della lieve entità del

fatto.

Cass. Pen., Sez. VI, n. 22123/09.

La circostanza aggravante della cessione di sostanze stupefacenti a persona minore di età di cui

all’art. 80, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, è compatibile con la circostanza attenuante del fatto di

lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. cit., in quanto è possibile procedere a identificare

condotte di minima offensività in rapporto ai mezzi, alle modalità ed alle altre circostanze dell’azione

nonché alla quantità ed alla qualità della sostanza ceduta. (Fattispecie nella quale era stata accertata la

cessione da parte di soggetto di poco infraventunenne a soggetto di poco minorenne di una modesta

quantità di hashish).

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IL “BILANCIAMENTO”: art. 69 e 99 c.p.

L’INAPPLICABILITÀ DELL’ART. 63, CO. 3, C.P.

Cass. pen. sez. IV, n. 16444/07, P.G. in proc. Severa

Quando la circostanza attenuante ad effetto speciale della lieve entità del fatto, prevista dall'art. 73, co. 5,

d.P.R. n. 309 del 1990, concorre con una circostanza aggravante, si applica la previsione dell'art. 69, co. 4,

c.p., ossia l'obbligatorio giudizio di comparazione, e non la disposizione dell'art. 63, co. 3, stesso codice,

che riguarda esclusivamente il concorso di circostanze omogenee.

IL CASO

Il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti (ed in particolare di quella ex art. 73, co. 5, d.P.R. n.

309/90) sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, co. 4, c.p. opera anche nei casi in cui il giudice abbia

ritenuto di non dover aumentare gli aumenti di pena inerenti alle forme discrezionali di recidiva?

LE SOLUZIONI

Primo orientamento.

Il divieto di dichiarare la prevalenza delle

circostanze attenuati sulla recidiva reiterata di cui

all’art. 99, co. 4, c.p., trova applicazione,

unitamente alle altre regole sul giudizio di

comparazione, pur quando il Giudice ritenga

nell’ambito della sua discrezionalità, dopo aver

accertato la sussistenza della contestata recidiva, di

non disporre l’aumento di pena

Sez. IV, n. 15232/08, Fahir;

Sez. VI, n. 18302/07, P.G. in proc. Ben

Hadhria.

Secondo orientamento.

Il divieto di prevalenza delle circostanze

attenuanti sulla recidiva reiterata trova applicazione,

data la natura facoltativa della recidiva (tranne che

in relazione ai delitti di cui all'art. 407, co. 2, lett. a),

c.p.p.) soltanto nel caso in cui il giudice disponga il

relativo aumento di pena. La Corte costituzionale

(sent. n. 192 del 2007) ha escluso che nella nuova

normativa introdotta dalla l. n. 251 del 2005 siano

ravvisabili elementi di violazione dei principi

costituzionali, ed ha sottolineato come si debba

valutare se sia possibile evitare pene ritenute

eccessive attraverso l’esclusione dell’aumento

previsto per la recidiva reiterata, che rimane

facoltativa, ad eccezione di alcuni specifici casi,

consentendo l’applicazione piena degli effetti

speciali dell’art. 73 co. 5. Il giudice procede al

bilanciamento soggetto al regime limitativo di cui

all’art. 69, co. 4, c.p. come mod. dalla l. n. 251 del

2005 solo ove ritenga la recidiva reiterata

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effettivamente idonea ad influire di per sé sul

trattamento sanzionatorio del fatto per cui si

procede; solo nel caso previsto dall’art. 99, co. 5,

c.p. riguardante l’ipotesi di delitti contenuti

nell’elenco di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p. si

prevede l’obbligatorietà dell’aumento di pena per il

recidivo reiterato.

Sez. II, n. 32876/07, P.G. in proc. Doro;

Sez. IV, n. 27429/08, Messina; n. 16750/07, P.G.

in proc. Serra ed altro; n. 26412/07, P.G. in proc.

Menadi ed altri; n. 29228/07, P.G. in proc.

Farris; n. 39134/07, P.G. in proc. Mazzetta;

Sez. V, n. 40446/07, P.G. in proc. Mura;

Sez. VI, n. 10405/08, P.G. in proc. Goumri.

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2.4. L’ingente quantità art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990).

Art. 80 co. 2 d.P.R. n. 309 del 1990

IL PARAMETRO DI VALUTAZIONE

Cass. pen. Sez. U., sent. n. 17/00, Primavera ed altri.

Quanto ai parametri atti ad individuare la sussistenza e consistenza dell'aggravante della quantità ingente

di droga, di cui all’art. 80, co. 2, d.P.R. n. 309 del 1990, la giurisprudenza meno recente, consapevole delle

non poche aporie logiche e difficoltà fattuali conseguenti alla parametrazione della quantità di sostanza

stupefacente su indici labili e di difficile accertamento, aveva ritenuto di fare riferimento al mercato di

destinazione nelle sue componenti spaziali, temporali e di consistenza della domanda. È pacificamente

ammesso, sia in dottrina che in giurisprudenza, che la ratio legis dell'aggravante in questione vada ricercata

nell'esigenza di contrastare il più efficacemente possibile, e quindi con la comminatoria di più gravi pene, la

diffusione del consumo di sostanze stupefacenti, specie tra i giovani, a causa dei deleteri effetti prodotti

sulla salute fisica e mentale di chi ne fa uso; diffusione che è agevolata sia dall'elevazione del livello di

offerta (maggior facilità di reperimento), sia dal calo del prezzo di scambio collegato, secondo dati di

comune esperienza, alla quantità disponibile per la cessione. Nell'intento di individuare un parametro

valutativo dell'aggettivazione <<ingente>> spesso la giurisprudenza ha fatto ricorso al termine

<<mercato>>, intendendo come tale sia l'area di destinazione e consumo della sostanza tossica oggetto di

valutazione, sia il numero di probabili o possibili consumatori, concludendo nel senso che <<ingente>> è la

quantità di droga idonea a soddisfare le esigenze di un ipotetico <<mercato>> per un certo numero di

giorni secondo i bisogni di consumo di coloro che a quel <<mercato>> attingono. Tuttavia il riferimento al

concetto di <<mercato>>, nel senso sopra descritto, introduce, nell'esegesi della disposizione di legge, un

elemento non richiesto e spurio rispetto alla ratio della disposizione, di profilo mercantilistico ma di

impossibile accertamento con gli ordinari strumenti di indagine dei quali il giudice può processualmente

disporre; quindi, del tutto immaginario affidato all'abilità dialettica di chi fornisce la motivazione della

decisione, quale che sia. Il commercio illecito degli stupefacenti, proprio perché illecito, vive nella

clandestinità e sfugge, per sua stessa definizione, ad ogni indagine probatoria, che per essere valida e

processualmente opponibile, deve seguire regole di garanzia comprese quelle proprie al contraddittorio. I

dati statistici, elaborati fuori del processo e secondo prospettive che non sono, e non possono essere, di

<<indagine di mercato>>, sono privi di rappresentatività e di concludenza ai fini che qui interesserebbero,

poiché, quale che ne sia l'esigenza che abbia sollecitato la raccolta di siffatti dati, l'indagine raggiunge solo

una parte (forse minima) del fenomeno, per molti versi davvero impenetrabile non solo per l’illiceità delle

condotte, ma anche per ragioni di convenzione sociale, dello stare del soggetto tossicofilo nel rapporto con

gli altri membri della società in cui opera e del sostegno della quale ha bisogno. Nella in passato prevalente

giurisprudenza della Corte, infatti, tralaticiamente viene fatto richiamo a presunte esigenze di una

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fantomatico <<mercato>>, ovvero a capacità di assorbimento di una indefinibile massa di ipotetici

consumatori distribuiti su ideali àmbiti territoriali, cadendo, sempre e necessariamente, nell'enunciazione

di nozioni del tutto generiche, alla pratica applicazione sottratte a ogni riscontro fattuale. Quando si è

tentato di fornire una qualche definizione di siffatti sfuggenti concetti, nel lodevole intento di agevolare il

giudice del merito nel difficile compito di dare corpo all'impalpabile e di fornirgli una linea di guida, si è

finito con il pretendere giustificazioni razionali da fondare su impossibili dati: come la individuazione della

quantità di una data specie di stupefacente introdotta – o presumibilmente diretta all'introduzione - nell'area

di un <<mercato>> da definire con un poco di immaginazione; la quantità di sostanza, presumibilmente

della stessa specie, sequestrata in un dato periodo di tempo e sempre in una indefinita area di spaccio

oppure di consumo - fenomeni tra loro non sempre coincidenti -, e similmente; dati, per il vero, molto

aleatori, che dovrebbero estrarsi da accertamenti neppure previsti dalla legge e, per questo mai presenti

negli atti processuali.

Ed allora, appare corretto abbandonare la incerta nozione di <<mercato>>, essendo sufficiente per

giudicare sussistente l'aggravante in questione il verificare che la quantità della sostanza stupefacente, di

cui l'imputazione si occupa, sia oggettivamente di notevole quantità, molto elevata nella scala dei valori

quantitativi, anche se non raggiunga il valore massimo che, per essere riferito a quantità, rimane

sostanzialmente indeterminabile, vale a dire ampliabile all'infinito. Ciò che conta per integrare

l'aggravante di cui al comma 2 dell'art. 80 d.P.R. n. 309 del 1990 è, dunque, che la quantità di sostanza

tossica oggetto della specifica indagine nel dato procedimento superi notevolmente, con accento di

eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere nell'àmbito territoriale nel quale il

giudice del fatto opera e, per questo, è in grado di formarsi una esperienza fondata sul dato reale presente

nella comunità nella quale vive. La relativa valutazione costituisce, pertanto, un apprezzamento di fatto

rimesso al giudice del merito che ha solo l'obbligo di fornire adeguata e congrua motivazione, come ogni

giudizio di valore legato a dati non tipizzabili (buon costume, morale pubblica, e similmente).

Sul punto può dunque affermarsi la regola secondo la quale l'aggravante speciale dell'ingente quantità di

sostanza stupefacente, di cui all'art. 80 co. 2 d.P.R. n. 309 del 1990, la cui ratio legis è da ravvisarsi

nell'incremento del pericolo per la salute pubblica, è integrata tutte le volte in cui il quantitativo di sostanza

oggetto d'imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione

del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicofili, secondo l'apprezzamento del giudice del

merito che, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di

apprezzare specificamente la ricorrenza di tale circostanza.

Più recentemente:

- Cass. Pen., Sez. VI, n. 1870/09 ha indicato, tra i parametri rilevanti ai fini del riconoscimento

dell’aggravante de qua, (a) la qualità della sostanza; (b) il dato ponderale, con riferimento al principio

attivo in essa contenuto ed agli effetti negativi sull’integrità della salute di un rilevante numero di potenziali

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consumatori. La decisione appare molto significativa anche sotto un diverso profilo, avendo annullato senza

rinvio la sentenza di condanna, relativamente alla ritenuta sussistenza dell’aggravante, in quanto la verifica

della sua sussistenza era stata basata dai giudici di merito unicamente sul contenuto di conversazioni

intercettate (si trattava di una classica <<droga parlata>>), in difetto di elementi oggettivi di giudizio;

- Cass. Pen., Sez. IV, n. 36585/09 ha evidenziato che, ai fini del riconoscimento de ll’aggravante, non è

necessaria la prova che il quantitativo di droga in oggetto sia in grado di saturare il mercato in una

determinata area, dovendo ritenersi sufficiente che esso, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da

creare condizioni dia agevolazione del consumo di droga nei riguardi di un elevato numero di

tossicodipendenti (nella specie, è stata confermata la valutazione di merito che aveva ritenuto l’aggravante

in relazione ad un quantitativo di 296 panetti di hashish (peso lordo pari a Kg. 74), pur in difetto di una

perizia per l’accertamento del quantitativo di principio attivo). Nel medesimo senso, Cass. Pen., Sez. IV, n.

35022/09, con la precisazione che la ratio dell’aggravamento di pena risiede nell’incremento del pericolo

per la salute pubblica (nella specie, è stata confermata la valutazione di merito che aveva ritenuto

l’aggravante in relazione ad un quantitativo di kg. 15 lordi di cocaina, di cui kg. 8,3 di principio attivo, dal

quale si stimava essere ricavabili 55.571 DMG); Cass. Pen., Sez. IV, n. 40836/09 (nella specie, è stata

confermata la valutazione di merito che aveva ritenuto l’aggravante in relazione ad un quantitativo di

cocaina dal quale si stimava essere ricavabili 7.660 DMG); Cass. Pen., Sez. IV, n. 42571/09 (nella specie,

è stata confermata la valutazione di merito che aveva ritenuto l’aggravante in relazione ad un quantitativo

di kg. 8,7 lordi di eroina).

I CASI PRATICI

• Detenzione

illecita di Kg. 1,953

di cocaina, con

principio attivo

pari al 66%.

• Sez. VI, n.

30534/07, Leveque

ed altro, ha

affermato la

sussistenza

dell’aggravante,

osservando che il

giudice deve tener

conto sia della

qualità della

• Detenzione illecita di una tonnellata di hashish.

• Sez. IV, n. 39863/08, Baratto ed altri, ha affermato

la sussistenza dell’aggravante, poiché si è con evidenza

alla presenza di un quantitativo davvero esorbitante,

dovendo essere abbandonato l’irragionevole riferimento

a non misurabili profili afferenti alla saturazione del

mercato locale.

• Imputato

sorpreso alla guida

di un grosso

autocarro, sul quale

sono state rinvenute

219 casse contenenti

migliaia di

chilogrammi di

hashish.

• Sez. IV, n.

40792/08, Tsiripidis,

ha affermato la

sussistenza

dell’aggravante,

poiché si è con

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sostanza, con

riferimento alla

quantità di principio

attivo dello

stupefacente e alla

sua capacità di

moltiplicarsi in dosi

destinate al

consumo, sia del

dato ponderale

relativo alla quantità

di droga trattata.

evidenza alla presenza

di un quantitativo

davvero esorbitante,

dovendo essere

abbandonato

l’irragionevole

riferimento a non

misurabili profili

afferenti alla

saturazione del

mercato locale.

RAPPORTI CON LA <<COLTIVAZIONE>>.

Va in proposito segnalato un risalente contrasto

giurisprudenziale, rimasto privo di composizione:

(a) un orientamento ha ritenuto la configurabilità

dell’aggravante, avendo riguardo al dato ponderale “virtuale”

relativo alla quantità di sostanza stupefacente che sarebbe stata

ricavabile dalla piantagione all’esito del suo ciclo produttivo,

tenendo conto del prevedibile sviluppo (così Cass. Pen., Sez.

VI, n. 10252/99, e Sez. VI, n. 9791/89, con la precisazione che

il dato della quantità ingente deve essere reale, ma va tuttavia

riferito al momento, eventualmente futuro rispetto alla verifica

della sussistenza della condotta, dell’effettiva e completa

maturazione delle piante: nella specie, la perizia aveva avuto

riguardo al quantitativo ricavabile da 650 piante di canapa

indiana nel momento stimato di massima maturazione,

ritenendolo di rilievo, ma non ingente);

(b) altro orientamento aveva affermato che non dovesse tenersi

conto del possibile sviluppo delle piante, ma unicamente alla

loro reale consistenza al momento della scoperta (così Cass.

Pen., Sez. IV, n. 4696/98).

Pur prescindendo dallo specifico riferimento all’aggravante

de qua, la giurisprudenza più recente appare orientata in

quest’ultimo senso: si è, infatti, ritenuto (cfr. § 2.1.2.) che, ai

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fini della rilevanza penale della condotta di <<coltivazione>>,

è necessario accertare la concreta offensività di essa, e cioè la

sua effettiva capacità di ledere i beni giuridici tutelati dalla

norma incriminatrice, ed è stata esclusa in concreto

l’offensività della condotta per il rilievo che le piante de quibus

non avevano ancora completato il ciclo di maturazione e non

avevano ancora prodotto sostanza idonea a costituire oggetto

del concreto accertamento della presenza del principio attivo

della sostanza stupefacente, e ciò per la penale irrilevanza di un

accertamento di offensività “a futura memor ia” (così Cass.

pen., Sez. IV, n. 1222/09 cit.).

2.5. L’esistenza dell’associazione di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/1990 (anche nella

forma di cui all’art. 74, comma 6) nella giurisprudenza più recente.

LA STRUTTURA DELL’ASSOCIAZIONE

Elementi fondamentali:

(a) esistenza di un gruppo i cui membri siano consapevoli di essere aggregati per compiere un numero

indefinito di reati in materia di sostanze stupefacenti;

(b) organizzazione tendenzialmente permanente di attività personali e beni economic i per il

perseguimento del fine illecito comune, con impegno di ciascuno a prestare, anche in futuro, gli apporti

necessari, onde favorire l’attuazione del programma criminoso astratto: non occorre la presenza di una

organizzazione articolata e complessa, dotata di notevoli disponibilità economiche, essendo sufficiente

l’esistenza di una struttura, pur non complessa, deducibile dalla predisposizione di mezzi per il

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conseguimento del fine illecito comune, in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle singole

deliberazioni criminose, con il contributo degli associati;

(c) apporto individuale, apprezzabile e non episodico, di almeno tre associati, integrante un contributo

tendenzialmente costante alla stabilità della societas illecita

(Cass. Pen., Sez. I, n. 1849/09, per la quale anche l’attività di vendita di droga ai consumatori, quando

sia effettuata avvalendosi consapevolmente e continuativamente delle risorse dell’organizzazione e con la

coscienza di farne parte, costituisce apporto causale volontario al raggiungimento del fine di profitto

perseguito dall’organizzazione; Sez. I, n. 10758/09, che, in fase cautelare, ha valorizzato indiziariamente, a

carico dell’indagato, la circostanza di essere stato avvertito dell’avvenuto arresto di un corriere).

LA PROVA DELL’ESISTENZA DELL’ASSOCIAZIONE

DI CUI ALL’ART. 74 D.P.R. N. 309/90: APPLICAZIONI

La prova dell’esistenza dell’associazione di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/90 può essere raggiunta per facta

concludentia, quali (Cass. Pen., Sez. IV, n. 24571/07 e n. 36594/09: trattasi di orientamento ormai

assolutamente consolidato a partire da Cass. Pen., Sez. VI, n. 10725/98):

(a) la sussistenza di continui contatti tra soggetti dediti allo spaccio di sostanze stupefacenti;

(b) la frequenza dei viaggi per procurarsi i rifornimenti di droga;

(c) la disponibilità di basi logistiche e forme di copertura, nonché dei beni necessari per realizzare un

astratto programma di operazioni delittuose concernenti sostanze stupefacenti;

(d) l’organizzazione gerarchica all’interno del gruppo;

(e) la divisione dei ruoli tra gli associati;

(f) la commissione dei reati-fine con costanti e specifiche modalità esecutive.

L’associazione è configurabile anche ove si accerti:

(g) l’unione di più persone che operano in via anche soltanto parallela per la realizzazione di un profitto

economico attraverso lo spaccio di droga;

(h) l’esistenza di un vincolo che leghi anche solo oggettivamente il procacciatore-acquirente con la rete

dei piccoli spacciatori, quando questi ult imi si avvalgano continuativamente e consapevolmente delle

risorse dell’organizzazione.

Non è, peraltro, sufficiente la mera frequenza delle operazioni.

Nel caso sottoposto al suo esame, Cass. Pen., Sez. IV, n. 36594/09 ha valorizzato, a sostegno della

ritenuta prova (oltre ogni ragionevole dubbio) dell’esistenza dell’associazione, i seguenti elementi:

(a) frequenti viaggi per approvvigionarsi di droga;

(b) contati reiterati, e comunque non episodici né sporadici, con soggetti che, a seconda dei casi,

fornivano la droga, venivano riforniti di droga, la smerciavano - anche al dettaglio -, raccoglievano il

denaro necessario per pagare i fornitori , oltre che con i consumatori;

(c) disponibilità di autovetture impiegate per i viaggi e di una rete di telefoni cellulari attraverso i quali

venivano mantenuti i contatti.

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Le condotte punite dagli artt. 73 e 74 d.P.R. n. 309 del 1990, pur potendo essere connesse, sono

ontologicamente diverse, di modo che una fattispecie concreta inidonea ad integrare gli elementi costitutivi

dell'una può presentare quelli dell'altra; ne consegue che la commissione di reati ex art. 73 cit., non può, da

sola ed automaticamente, costituire prova della commissione del reato associativo, costituendo al più

indice sintomatico dell'esistenza dell'associazione (Cass. Pen., Sez. IV, n. 23518/08: nel caso di specie, è

stata ritenuta la partecipazione all’associazione, valorizzando: a) la stabilità dei rapporti negoziali tra

l’imputato ed altri soggetti stabilmente associati per il traffico di sostanze stupefacenti; b) l’accertata

disponibilità dell’imputato a reperire, per conto dell’associazione, la disponibilità di soggetti per da

incaricare dei trasporti della droga oggetto del traffico).

Alla possibilità di dimostrare l’esistenza dell’associazione di cui all’art. 74 d.P.R. n.

309/90 attraverso la mera prova della commissione di più delitti di cui all’art. 73

stesso d.P.R. osta il rilievo ineludibile che si tratterebbe, processualmente, di un mero

indizio (singolarmente insufficiente allo scopo, ex art. 192 c.p.p.), tra l’altro non

preciso, poiché ben compatibile con il mero concorso di persone nel reato continuato

(artt. 110 – 81 cpv. c.p. – 73 d.P.R. n. 309/90).

LA CONTINUAZIONE TRA L’ASSOCIAZIONE ED I REATI-FINE

La continuazione tra l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti ed uno o più reati-fine,

singolarmente individuati, è configurabile unicamente quando sia stata raggiunta la prova che i reati-fine

siano stati programmati nelle loro linee essenziali sin dal momento della costituzione dell’associazione

(Cass. Pen., Sez. I, n. 8451/09, che nella specie ha escluso – ai fini dell’operatività della disciplina di cui

all’art. 297 c.p.p., la continuazione tra il reato associativo ed i reati-fine oggetto di cautela ).

CONCORSO DI PERSONE NEL REATO CONTINUATO,

CONCORSO ESTERNO E RAPPORTI CON GLI ALTRI REATI ASSOCIATIVI

Sia l’associazione di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 che il concorso di persone (art. 110 c.p.) nel

reato continuato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, presentano la caratteristica comune di essere

commessi da una pluralità di individui che si accordano per la realizzazione di un fine illecito riguardante

reati in materia di sostanze stupefacenti; tuttavia (Cass. Pen., Sez. IV, n. 22824/06):

(a) nella prima, lo scopo comune, oggetto dell’incontro di volontà, consiste nel programma di

commettere, cogliendo le opportunità che via via si presentino, una pluralità indefinita di reati, sia pur del

medesimo genere;

(b) nel secondo, il fine dei consociati consiste nella realizzazione di un unico disegno criminoso

storicamente precisato, consistente nella commissione di uno o più reati, ciascuno dei quali singolarmente

individuato, con apprezzabile determinazione, sin dall’inizio della collaborazione.

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Anche relativamente all’associazione di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 è stata affermata la

configurabilità del c.d. concorso esterno ex art. 110 c.p. (Cass. Pen., Sez. V, n. 12591/95:

“si configura il concorso eventuale di persone nel reato di partecipazione ad associazione per

delinquere nel caso in cui taluno contribuisca al pregiudizio che l’associazione reca all’ordine pubblico

mediante un contributo materiale o morale al vincolo dei partecipi, senza che egli sia a sua volta

vincolato. Ne deriva che quando il contributo sia duraturo, la prova negativa del vincolo proviene

dall’esclusione secondo regole interne, anche consuetudinarie, dell’associazione, circa l’affiliazione od il

comportamento dei membri. In assenza di esse, ove si dimostri che gli affiliati fanno preventivo

affidamento sul contributo di taluno, la condotta di questi, non essendo svincolata dallo scopo sociale, va

considerata alla stregua di quella di qualsiasi partecipe. Al contrario, ove gli affiliati non facciano

preventivo conto sul suo apporto, la relativa condotta è qualificabile come concorso eventuale nel reato”).

I reati di associazione per delinquere, generica o di stampo mafioso, concorrono con quello di cui

all’art. 74 cit. anche quando la medesima associazione sia finalizzata alla commissione di reati concernenti

il traffico degli stupefacenti e di reati diversi: il concorso è configurabile nel caso in cui risulti storicamente

accertata l’esistenza di una sola associazione, semplice o qualificata, finalizzata alla commissione anche di

delitti concernenti le sostanze stupefacenti, in considerazione della parziale disomogeneità del bene

protetto (l’art. 74 cit., che si caratterizza per la specificità dei reati-fine, tutela non soltanto l’ordine

pubblico, ma anche la salute individuale e collettiva), di tal che, una volta raggiunta la prova dell’esistenza

dell’associazione semplice o qualificata, ne conseguirà al tempo stesso la prova di quella prevista e punita

dall’art. 74 cit., se tra gli scopi sociali rientri anche la commissione di reati concernenti le sostanze

stupefacenti (Cass. Pen., Sez. un., n. 1149/09; Sez. I, n. 4094/94).

L’ASSOCIAZIONE DI CUI ALL’ART. 74, COMMA 6, D.P.R. n. 309/90

Sulla natura giuridica dell’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, quando si tratti di

fatti di lieve entità, va registrato un contrasto, tuttora non composto, di giurisprudenza:

(a) un orientamento (da ultimo, Cass. Pen., Sez. VI, n. 11938/09) afferma che il richiamo dell’art. 416

c.p., operato dall’art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90, ha una portata generale, e non opererebbe soltanto

quod poenam, dando al contrario luogo ad una vera e propria configurazione autonoma, poiché “il

legislatore, tenuto conto del minore allarme sociale suscitato da tali fatti e dalla minore pericolosità degli

autori dei fatti previsti dall’art. 73 co. 5 del DPR cit., ha voluto <<riqualificare>> l’associazione dedita

allo spaccio di stupefacenti per i fatti di lieve entità (…) come una semplice ipotesi di associazione per

delinquere di cui all’art. 416 c.p.”. Nel caso di specie, quale logica conseguenza del principio affermato, si

è desunto che i procedimenti per il delitto di cui all’art. 74 comma 6 cit. possono essere definiti con

applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 ss. c.p.p., in quanto il predetto delitto non rientra

tra le ipotesi di esclusioni oggettive di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.

(b) altro orientamento (da ultimo, Cass. Pen., Sez. I, n. 24213/09) osserva, in senso contrario, che il

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richiamo all’art. 416 c.p. non incide sugli elementi strutturali del delitto, tenuto conto della diversità

dell’oggetto di tutela e della natura specializzante dei reati-fine programmati dall’associazione finalizzata a

traffici di sostanze stupefacenti, e che l’ambito di applicabilità soggettiva dell’art. 74 cit. è più ampio di

quello delineato nel primo comma dell’art. 416 c.p.: di conseguenza, la pretesa assimilazione del regime

giuridico delle due fattispecie criminose determinerebbe l’irragionevole esclusione della specifica

previsione attenuata, contenuta nell’art. 74, comma 6, nei riguardi di colui che dirige o finanzia

l’associazione finalizzata a fatti di illecito traffico di stupefacenti di lieve entità. Nel caso di specie, quale

logica conseguenza del principio affermato, si è desunto che la condanna per il delitto di cui all’art. 74 cit.,

anche se nelle forme attenuate di cui al comma 6, è ostativa alla sospensione dell’esecuzione della pena.