Dio salvi la regina

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Atletica leggera tra impianti e rimpianti prefazione di Eddy Ottoz postfazione di Vanni Lòriga Roberto Corsi Editrice Fiorentina Società Dio salvi la regina

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Atletica leggera tra impianti e rimpianti «Il percorso di Roberto disegna una ragnatela apparentemente casuale, per certi versi incoerente, forse incompleta, ma piacevolmente fresca e ingenua e, ciò che più conta, nuova. Fattor comune, collante del grande mosaico di questo libro è l’amore, il vero amore per l’atletica. Al giorno d’oggi, vi par poco?». (dalla Prefazione di Eddy Ottoz)

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Atletica leggeratra impianti e rimpianti

prefazione diEddy Ottoz

postfazione diVanni Lòriga

Roberto Corsi

Editrice FiorentinaSocietà

Dio salvila regina

«Il percorso di Roberto disegna una ragnatela appa-rentemente casuale, per certi versi incoerente, forse incompleta, ma piacevolmente fresca e ingenua e, ciò che più conta, nuova. Fattor comune, collante del grande mosaico di questo libro è l’amore, il vero amore per l’atletica. Al giorno d’oggi, vi par poco?».(dalla Prefazione di Eddy Ottoz)

«Scorrendo le pagine dell’opera di Roberto Corsi mi pare di ruotare lentamente un caleidoscopio mira-coloso: una dopo l’altra appaiono e riappaiono im-magini talora reali, talaltra fantastiche se non quasi immaginarie. Mi trovo impegnato in un viaggio fra i più lontani dei miei ricordi con il pensiero che, ov-viamente, all’incontrario va».(dalla Postfazione di Vanni Lòriga)

L’atletica leggera, la regina di tutti gli sport, non attraversa un periodo particolarmente brillante. Questo libro è un’escursione storica e romantica per le strade e i vicoli della memoria, una esplora-zione speleologica del fiume carsico ingrossato dal sudore grondato su piste e pedane. Una sorta di pellegrinaggio alle sorgenti, per ricongiungere fili interrotti, riannodare intense storie giovanili che l’esplodere della vita ha disperso in mille rivoli.

Roberto Corsiè nato a Fiesole nel 1947 e vive a Scandicci con i quattro figli. Giornalista pubblici-sta, collabora al «Corriere Fiorentino», dorso locale del «Corriere della Sera». Dopo aver pubblicato quattro libri su tematiche socio-politiche, Dio salvi la regina è il se-condo dedicato all’atletica, dopo Stelle senza polvere, anch’esso uscito per la So-cietà Editrice Fiorentina.

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Roberto Corsi

Dio salvi la reginaAtletica leggera tra impianti e rimpianti

prefazione diEddy Ottoz

postfazione diVanni Lòriga

Editrice FiorentinaSocietà

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© 2011 Società Editrice Fiorentinavia Aretina, 298 - 50136 Firenze

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isbn 978-88-6032-160-2

Proprietà letteraria riservataRiproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata

Le immagini presenti nel libro provengono dagli archivi fotografici degli atleti,che le hanno gentilmente concesse per la pubblicazione e, dove espressamente indicato,

dall’Archivio Fidal, che si ringrazia per la gentile concessione.L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari

di diritti sulle immagini riprodotte

Copertina a cura diAndrea Tasso

(foto istockphoto.com)

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A Raffaele Piras,il ragazzo che saltava tra i rami dell’albicocco

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prefazione

Parafrasando Elias Canetti sono tentato dal dire che non leggo mai un libro prima di scriverne la prefazione, così, quando poi lo leggo, so già che cosa ne penso. Confesso che questa volta, malgrado forte fosse la tentazio-ne, ho letto attentamente anche l’indice.

Passione tardiva, l’atletica, per Roberto Corsi. Non l’ha condotto in campo per mano alle prime gare, alla scoperta di un mondo di regole e di attrezzi strani. Roberto non ha letto fin da ragazzo, allenamento per allena-mento, gara per gara, nello specchio degli spogliatoi o direttamente in vol-to ai suoi compagni i segni dell’insopprimibile lato virtuoso dell’egoismo, le tracce della dolorosa necessità di misurarsi con chi è più forte di te, la voglia di continuare a perdere pur d’imparare a vincere, l’accettazione del rischio che ciò potrebbe non avvenire mai: quien sabe, sei forse ormai sul filo dei tuoi limiti, hai scollinato, e di qui in avanti non potrai che incontra-re avversari più forti, né sarai più in grado di battere te stesso.

Roberto non ha sofferto la sindrome d’impotenza da sospetto che qual-cuno bari, che, per quanto tu sia arrivato in alto, esista un’ulteriore cerchia più ristretta, dove i misteri sono ancora più sacri, la sindrome da timore che l’Eden sia un progetto a termine, il terrore che il paradiso vero sia là fuori, dove i fratelli si uccidono. Non ha dovuto imparare che nessuno t’insegna a smettere, nessuno ti allena a tornare senza inciampare nella corsia accanto, dove scorre il resto della vita “normale”, dove correttezza e rispetto delle regole sono l’eccezione, il forte soccombe sistematicamente al più furbo e tutti i rapporti si basano sul “capisci a ‘me…”.

Niente di tutto ciò.Toscano dalla tastiera facile e arguta, apprezzato quanto pungente

commentatore politico del «Corriere Fiorentino», due anni fa, cercando di districarsi tra i nodi di facebook, è incappato nell’atletica. Un’epifania. Complice una facebook-amicizia chiesta o concessa, gli anni Sessanta che riemergono, ricordi che ti assalgono, un innamoramento tardivo. Un ami-co tira l’altro, scatta la trappola del social network, la catena degli amici degli amici. Perché non mettere sulla tavolozza i ricordi di ognuno, perché non ricavarne un affresco sull’atletica?

Roberto ha fatto come in quel gioco di un tempo, in cui uno scrive-va una parola su una striscia di carta, poi la ripiegava per nasconderla e passava la carta al vicino con una semplice istruzione (“parola”, “verbo”,

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“colore”, “aggettivo” ecc.). Il vicino scriveva ciò che gli veniva in mente, ripiegava, passava al prossimo e così via. Alla fine, leggendo il risultato, saltavano fuori imprevisti e improbabili canovacci, sempre comunque di-vertentissimi.

Così, chiedendo a ogni nuovo amico di presentargliene un altro dal quale assorbire ricordi e pensieri, il percorso di Roberto disegna una ra-gnatela apparentemente casuale, per certi versi incoerente, forse incom-pleta, ma piacevolmente fresca e ingenua e, ciò che più conta, nuova. I personaggi di questo libro, con ruoli, notorietà e livelli diversi, hanno tutti fatto parte dello stesso mondo. Nessuno di loro conosce tutti gli altri e potrà così apprendere cose che non sapeva. Oppure, su esperienze comu-ni, si renderà conto di come il tempo ne abbia depositato un ricordo così diverso nei diversi partecipanti. Come sempre la memoria degli uomini e il politically correct riscrivono la realtà. Il compito della storia (ma si scomoderà essa per l’atletica?) di risincronizzare tutti gli orologi è assai arduo, quando possibile. Una certezza, questa, maturata dopo la lettura di Stelle senza polvere, il primo libro di atletica di Roberto, che non potrà che trovare conferma in questo Dio salvi la regina.

Per lo spaccato originale e affascinante della grande atletica sarda, un tributo che sinora mancava, vi rimando alle riflessioni finali (la vera pre-fazione) del mio comandante, il bersagliere Vanni Lòriga, compagno di tante avventure in tribuna stampa. Mi sentirei presuntuoso a scrivere di Sardegna in sua presenza.

Fattor comune, collante del grande mosaico di questo libro è l’amore, il vero amore per l’atletica.

Al giorno d’oggi, vi par poco?

Eddy Ottoz

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introduzione

La professione di scrivere libri fa apparire le corse dei cavalli un’attività solida, sta-bile. (John E. Steinbeck)

Monsieur Jacques La Palisse, che andava sul sicuro, avrebbe detto che questo è un libro. Walter Veltroni, più propenso a slanci onnicomprensivi, avrebbe aggiunto un ma anche. Azzeccandoci, probabilmente di più che con l’imbarco elettorale di Antonio Di Pietro.

Io che l’ho scritto posso dire che questo libro è, soprattutto, un’escur-sione storica e romantica per le strade e i vicoli della memoria. Un’esplo-razione speleologica del fiume carsico ingrossato dal sudore grondato su piste e pedane. Una sorta di pellegrinaggio alle sorgenti, per ricongiungere fili interrotti, riannodare intense storie giovanili che l’esplodere della vita ha disperso in mille rivoli. Un raccordo anulare sui generis, per provocare quella commozione cerebrale – l’unione del cuore con il cervello – che con-ferisce alla vita sapore e colore. Alimentando la speranza, rappresentata da alcuni figli d’arte che provano a porsi nella scia di celebrati genitori.

Chi si ferma al titolo può pensare che io, piccolo scrivano fiorentino, abbia subito l’irresistibile fascino dell’Oltremanica e dell’inno che la rap-presenta. Quasi per pagare il debito contratto con la patria dell’humour al quale anch’io quotidianamente attingo. Oppure potrebbe sembrare che io sia rimasto vittima di un rigurgito monarchico, magari influenzato dalle mirabolanti gesta, danzanti o politiche, del rampollo savoiardo Emanuele Filiberto. Quasi volessi prendermi una vendetta nei confronti della storia, che mi ha fatto nascere un anno dopo la scelta della repubblica, che indicò al re la via dell’esilio.

A farmi vincere la prima tentazione mi aiuta Vanni Lòriga, che mi svela come il solenne inno inglese non sia che una rivisitazione di quello sardo (o viceversa): Cunservet Deus su re, sarvet su regnu sardu.

È invece l’ambiente familiare nel quale sono cresciuto a rendermi aller-gico a qualsiasi nostalgia monarchica. Mio padre Gino, alle prese con buoi che non sempre volevano stare al solco, edulcorava il vizio del moccolo, tipi-camente toscano pur senza monopolio, imprecando contro la regina madre.

Tocca allora al sottotitolo fare giustizia di ogni interpretazione politico-istituzionale, indicando l’oggetto della mia celebrazione: l’atletica leggera, la regina di tutti gli sport.

Ho già affrontato l’argomento nel libro precedente, Stelle senza polvere. Atletica leggera “palestra di vita”. Avessi manie di grandezza, potrei perfino iniziare come l’evangelista Luca negli Atti degli apostoli: «nel mio primo

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libro, o Teofilo…». Avendo l’avvertenza di sostituire l’amore a Dio, con quello, più prosaico, delle corse, dei salti, dei lanci.

Anche perché qui di sacro non c’è niente, tranne l’osso dove si pren-dono i calci. Quelli, reali, di qualche allenatore dai metodi forti ma anche quelli, metaforici ma forse più dolorosi, della malasorte.

A Rita Angotzi e a Raffaele Piras, protagonisti di questo libro, e a tanti sfortunati militi (a me) ignoti dell’atletica, fischieranno le orecchie.

Non voglio dire che la prima incursione nel mondo dell’atletica sia stata una falsa partenza. Certo, come diceva la canzone, si può (e si poteva) dare di più. Ci riprovo dunque con la stessa lena, per mettere il pranzo insieme alla cena. Riecheggiando il grande umorista Achille Campanile potrei dire, come certi scrittori, di aver trovato nell’atletica la vena. Mi auguro di trova-re anche l’avena, necessaria per soddisfare la fame (di copie) dell’editore.

Nella speranza che la vena umoristica – sono ora debitore dell’immagi-ne a Marcello Marchesi – al momento vivace, non si dissolva in una vena varicosa con l’incedere inclemente dell’età.

Rispetto al primo libro, ho apportato soltanto alcune correzioni, divi-dendolo per argomenti.

Il tentativo è di offrire uno spaccato vivace di questo mondo articolato e composito che ruota intorno ad atleti e dirigenti, prestazioni e misure, piccole gare e grandi appuntamenti.

A differenza della mitica Eulalia Torricelli celebrata da Luciano Tajoli nella canzone, i personaggi di questo libro non li ha inventati l’autore.

Sono andato a cercarli, in un lungo viaggio fra impianti spesso scalci-nati e rimpianti talora acuti. Novello Ulisse che varca le colonne d’Ercole, per la prima volta in vita mia ho solcato il mar Tirreno, per approdare in Sardegna. Non ho raggiunto Itaca, però l’omaggio a su populu sardu era doveroso: da lì sono partite diverse delle storie di questo libro.

Devo ringraziare particolarmente Eddy Ottoz, autore della prefazione, e Vanni Lòriga, autore della postfazione. Con loro mi pare di riposare tra due guanciali.

Non c’è bisogno di dire che l’invocazione della salvezza divina sulla regina degli sport è una forzatura enfatica. L’atletica non sta benissimo ma non può morire.

Se questo libro rappresentasse una pur modesta iniezione – di fiducia, di coraggio, di entusiasmo – su un corpo malato, lo scopo sarebbe raggiun-to. Io ce l’ho messa tutta, ma tocca ai lettori affidarmi una sorte migliore di padre Ernesto da Faggeto, che si slombò per fare un peto. Pensateci.

Roberto Corsi

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Sardi d’azione

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La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattromila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso.(Fabrizio De André)

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antonio ambu, il tamburino sardo

Edmondo De Amicis probabilmente avrà sussultato nella tomba per questo incontro tra due personaggi del suo Cuore: il piccolo scrivano fiorentino e il tamburino sardo. Il piccolo scrivano fiorentino, che sarei io, ha dovuto farsi spesso la domanda finale della canzone dell’altro tamburino, quello del reggimento: tamburino dove sei tu? E rivolgere, a molti, l’interrogativo televisivo che fu della Raffai: chi l’ha visto? Il tamburino sardo, che sarebbe Antonio Ambu, l’ho alfine trovato in una bella casa, circondata dai fiori e vestita di fresco, che si è costruito appena fuori Schio, alle pendici del monte Pasubio. Per immedesimarsi nei pensieri reconditi di un maratoneta che cosa c’è di meglio di una maratona Firenze-Schio? In auto, s’intende.

Antonio Ambu si gode la sua pensione di dipendente Coni. Qui il ver-bo godere assume il suo significato più pregnante, lontano da un’accezione meramente epicurea. Antonio sta sperimentando, come l’uccello del Pa-scoli, che oltre il correre, saltare, lanciare c’è qualche altra felicità. Annusa-re il profumo mattutino dell’orto, guardare le zucchine crescere rigogliose così come le piante di kiwi. Il forno se l’è costruito da solo, come la rin-ghiera che circonda l’ampia casa. «Ora so anche saldare, perché mi piace imparare a fare cose nuove», dice con un pizzico di autocompiacimento.

«Sa fare di tutto» lo asseconda la signora Mariuccia, che gli sta accanto da cinquant’anni. Dalla loro unione sono nati quattro figli, ormai grandi. Carlo fa il geometra, Monica la maestra, Barbara la psicoterapeuta e Ales-sio all’attività di geometra unisce quella di truccatore teatrale.

Lasciate al marito quelle che la vecchia pagella avrebbe chiamato at-tività manuali e pratiche, la signora Ambu per sé si è ritagliata il ruolo di assistente letteraria, pronta a correggerne le imperfezioni di linguaggio: «Si dice aneddoto, Tony, non anneddoto». Nell’eloquio di Tony, la durezza dell’inflessione sarda è addolcita dalla cadenza veneta, ormai assimilata. Gli anni della Sardegna e dell’atletica sono lontani. In questa casa puoi trovarne il riverbero solo nei ritagli, ormai ingialliti, dei giornali che Mari-uccia custodisce nel cassetto.

Da questi ritagli spunta fuori la dimensione internazionale del piccolet-to, una sorta di eroe dei Due Mondi.

«El Corredor Italiano A. Ambu Ganò la Travesìa de las Playas», esulta-no a Montevideo. Con la rosea «Gazzetta», invece, si sale nell’America del Nord: «Ambu: A Boston bene solo le gambe alla fine».

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Il tamburino vince anche a Spoleto, dove si celebra il festival dei Due Mondi: «Tricolore numero 7 per Ambu». Se «Cindolo ha dovuto presto abbassare bandiera», Antonio innalza il figlioletto sulle spalle. «Bravo Papà», recita la didascalia.

Il fenomeno Ambu tracima anche nella cronaca nera. Suo malgrado. «Ambu derubato. Cento medaglie da quasi due milioni». È una duplice conferma: i furti non li hanno inventati adesso e Antonio di medaglie ne aveva vinte tante.

Anche negli anni d’oro era Mariuccia a tenere a bada i giornalisti. Fu lei ad affrontare il grande Gianni Romeo, che su «Tuttosport» parlava del «tamburino sardo, claudicante, con la tuta dismessa».

Romeo aveva ragione, ma non perché lei fosse venuta meno alle sue incombenze di guardarobiera: «ne aveva anche di nuove, ma, per una sorta di scaramanzia, lui voleva sempre quella tuta anche se sporca».

Certe scintille con i giornalisti erano frequenti anche in quegli anni. Lo stesso Ambu racconta di essere stato tra quelli che riuscirono a calmare quell’omone di Silvano Meconi, pesista fiorentino. Minacciava di far vola-re dalla finestra dell’albergo Gianni Brera, che aveva scritto di un «pesista dai piedi puzzolenti». Meconi ad Ambu voleva bene, tanto da sceglierlo come unità di misura: «sei alto un Ambu e due barattoletti».

Antonio non è certo il tipo da crogiolarsi nei ricordi, ma alcuni riman-gono indelebili. «Una volta Michel Jazy, il grande mezzofondista francese, prima di una gara sui 5.000 mi domandò se me la sentivo di tirare per i primi 3.000 metri. Risposi di sì, anche se mi chiedeva un ritmo da 8’- 8’2”, superiore al mio 8’3” di allora. Andò a finire che lui fece il record europeo e io quello italiano».

In un certo senso è stato il grande marciatore Pino Dordoni a fare da starter per proiettare Ambu sul continente, lontano dalla natia Cagliari e dai nuraghi sardi.

La vittoria del marciatore piacentino all’Olimpiade di Helsinki nel 1952 sprona un gruppetto di giovani, fra i quali c’è anche Antonio, a provare la marcia. Si accorgono presto che non piaceva loro. Meglio la corsa.

In famiglia, al padre negoziante di scarpe e alla madre casalinga dello sport non importa niente. Invece interessa al professore di educazione fisi-ca, che organizza una gara sui 1.500 metri.

Dopo averla vinta, con le scarpe da ciclista, Antonio si rende conto che i 1.500 metri percorsi erano come la paternità di San Giuseppe: putativi.

Quel bricconcello di Mussolini, per illudere la Gioventù Littoria, aveva fatto costruire piste di neanche 300 metri. Quindi i tre giri e ¾ di quel campetto non erano 1.500 metri ma meno di 1.200.

Ci pensò un giovane sveglio a riportare con i piedi per terra il vincitore, che si vantava del 3’36” cronometrato dal professore: «non puoi aver fatto 3’36” sui 1.500, perché saresti vicino al record del mondo, che è 3’32”».

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Ad Antonio piaceva anche la bicicletta, ma tutti lo sconsigliavano. Po-trai anche vincere un campionato sardo ma mai diventare professionista. Le squadre sono in continente e il miglior corridore sardo sarà il peggior corridore della squadra.

«C’era un amico – ecco la dimostrazione – con cui uscivamo insieme a livello ciclistico, un certo Aru, figlio di un maresciallo dei carabinieri, mi pare. Si era messo in luce nel giro della Sardegna, stando in testa fino all’ultima tappa. Però poi nessuno l’ha portato via dalla Sardegna ed è rimasto lì».

Senza trucchi sulla distanza, Antonio vince invece i campionati studen-teschi sardi. Può esserci miglior incoraggiamento della vittoria? Due o tre volte alla settimana, dopo pranzo, pantaloni corti e via di corsa alla polve-riera, due chilometri e mezzo da casa sua. Questo era l’allenamento.

Dopo 4 o 5 mesi, Antonio è già all’apice della forma e si trova davanti l’occasione della vita. «Partecipai ai campionati sardi, a Carloforte. Al via si presentava anche il campione italiano Giovanni Lai. Io ero il pivellino, ma nella mia squadra c’era un atleta più forte di me. Dovevo stare tranquil-lo accanto a lui, senza preoccuparmi di Lai. Ma quando questi aveva 50-60 metri di vantaggio, io gli dissi: quello se ne va. Io provo a riprenderlo. La sua risposta fu: se te la senti, vai pure. Questo Lai era bravissimo ma si allenava da solo, correva un po’ all’arrembaggio. Lo raggiunsi e lo infilai in volata».

Se un pivellino batte il campione in carica attira su di sé, inevitabilmen-te, l’attenzione nazionale.

Così, a diciassette anni Antonio mette piede in continente, chiamato per un raduno nazionale giovanile a Chiavari.

A seguire, convocazioni per raduni al centro federale di Schio, dove abitava il tecnico Mario Lanzi, grande mezzofondista, medaglia d’argento all’Olimpiade di Berlino.

La scossa vera arriva quando ha da poco compiuto diciotto anni. Con tanto di suspense. La madre si vede arrivare due poliziotti a casa e si spa-venta. Cosa mai avrà fatto quel figliolo?

Antonio in realtà non ha fatto nulla. Meglio, nulla di male. La polizia lo aveva adocchiato per l’atletica e se lo voleva accaparrare per le Fiamme Oro di Padova. Il problema era che ci si poteva arruolare solo a vent’anni. I poliziotti avevano già studiato l’escamotage offrendogli un’assunzione, con un contratto e uno stipendio da impiegato. A Padova lui deve solo allenarsi, con la maglia del Monteponi di Iglesias, una società all’avanguar-dia per quei tempi. Usando termini calcistici, si tratta di un prestito con diritto di riscatto.

L’ingresso vero e proprio nelle Fiamme Oro arriva ai canonici vent’an-ni. La ferma prevista è di quattro anni.

All’esordio in nazionale juniores, Antonio corre i 3.000, perché biso-gnava avere ventuno anni per gareggiare su distanze più lunghe. Ha una

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paura da matti perché fra gli avversari c’è anche un negro. Pensa che sia fortissimo, ma in realtà va molto piano.

La paura sarebbe più giustificata oggi, che è più facile trovare un con-giuntivo giusto in Antonio Di Pietro che un bianco fra i primi in una gara di mezzofondo.

Dal 1956 in poi, porta aperta per la nazionale maggiore. Quasi sempre gli viene chiesto di doppiare, 5.000 e 10.000, una faticaccia. Una volta però il commissario tecnico, Giorgio Oberweger, gli dice che non c’è più posto nei 5.000 e nei 10.000. Lo invita a fare la selezione per gli 800. Prova supe-rata con 1’50”8 e convocazione in nazionale per la stessa distanza. È l’unica gara di Antonio sugli 800, perché, arrivati in Svizzera, Oberweger cambia idea e lo fa gareggiare sui 5.000.

Il motivo dell’abbandono delle Fiamme Oro, dopo quattro anni, è rosa. Non era possibile per i poliziotti sposarsi prima dei ventotto anni. Anto-nio non se la sente di aspettarne altri quattro per impalmare Mariuccia. Così lascia le Fiamme Oro e va a gareggiare nelle fila della Lancia, per poi passare alla Pro Sesto con Venini («un grande allenatore, con allenamenti molto duri, come si usa oggi»). Dal 1963 alla fine della carriera gareggia nello squadrone della Snia con un altro sardo, Franco Sar. Senza problemi economici, in quanto dipendente della stessa società.

Fra i tecnici della nazionale, Antonio ricorda con riconoscenza De Gre-gorio.

«Lui veniva da altre specialità e aveva girato parecchio, portando me-todologie innovative. Prima di passare alla maratona facevo, al massimo, un allenamento di 11 chilometri. Cioè una stupidaggine. Oggi li percorrono gli amatori. De Gregorio mi disse di fare più chilometri possibile. Tutte le mattine mi alzavo e via, anche 35 chilometri al giorno. Così funzionò. Dopo poco tempo che facevo questa preparazione, andai alla Cinque Mulini, una classica internazionale, vincendola. Mi dedicai alle gare fuori pista, realiz-zando record dai 10.000 fino ai 30.000 metri».

La scoperta dell’importanza degli allenamenti duri è stata quasi rivolu-zionaria. Gli atleti vanno in Finlandia e si accorgono che correndo di notte si migliora. Anche a livello federale cominciano a capire che le notturne portano i buoni tempi. Atleti sopra i 30 minuti sui 10.000, allenandosi così, cominciano a migliorare anche di mezzo minuto. Però le piste sono quello che sono.

«Quando a Schio ho corso i 30 chilometri, 75 giri di pista, ti avrei fat-to vedere com’era la prima corsia negli ultimi chilometri. La tecnisolite poteva avere tutti i benefici del mondo se era bella liscia, però, dopo un po’ di pioggia, al secondo giro era piena di buche. A ciò si aggiungeva il problema della scarpe. Io ho sempre finito con le unghie rotte. Allora non si sapeva, come oggi, che per fare la maratona bisogna prendere una scarpa di un numero superiore».

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Sono tutti elementi che rendono non paragonabili i tempi di allora con quelli di oggi. O quelli di allora con quelli dell’epoca precedente. «Io ho fatto anche tempi migliori di Zatopek – constata il tamburino sardo – ma non vorrai mica paragonarmi a Zatopek, che forse a tutt’oggi è stato il migliore in senso assoluto. Con i tempi di allora, il grande mezzofondista ceco oggi verrebbe doppiato».

Ambu insiste sull’importanza dell’allenamento. «Eravamo un gruppo di atleti forti, nessuno dei quali però aveva una specialità. Quando sono uscito di scena io, atleti che non mi battevano mai hanno migliorato i tem-pi nettamente, forse anche per la pista in tartan. Vuol dire che hanno co-minciato ad allenarsi bene. Prima mancavano anche le gare a livello inter-nazionale. C’erano solo quelle 2-3 della nazionale. A quei tempi se correvi la maratona con un tempo sulle 2 ore e 15’-2 ore e 18’ vincevi le Olimpiadi. Oggi si corre intorno alle due ore».

Poste in evidenza le condizioni ambientali che gli annuari non possono considerare, la parola alle nude cifre.

In quindici anni di attività, Antonio Ambu ha collezionato 37 presenze in nazionale. Ricorda con piacere i suoi compagni nella specialità come Conti, De Palma, Volpi, ma andava d’accordo con tutti.

Era il pupillo di quelli più grossi, i lanciatori: forse perché la struttura più minuta degli uni instillava un sentimento di protezione negli altri.

«Ricordo che in Francia dovevo correre di notte in pista. Silvano Meco-ni si è preso il cronometro per darmi i passaggi, anche se dopo lui doveva gareggiare nel peso. A metà gara mi ha detto: non puoi più sbagliare, il record è fatto. Allora non c’era l’allenatore che accompagnava l’atleta».

Su pista vanta 6 vittorie agli assoluti nei 5.000, 7 nei 10.000.Su strada, è stato per 7 volte campione italiano di maratona e altrettante

di maratonina. Ha migliorato per 4 volte il record italiano sui 5.000, per 3 sui 10.000 e

nella maratona, per quanto riguarda le distanze olimpiche.In quelle non olimpiche, per due volte ha battuto il record nell’ora di

corsa, altrettante sui 25.000 metri su pista e sui 30 chilometri. A livello internazionale, a Tunisi ha vinto la maratona nei Giochi del

Mediterraneo.Ambu non è stato molto fortunato, invece, nelle due Olimpiadi cui ha

partecipato, Tokio 1964 e Città del Messico 1968. A Tokio è stato anche un problema di rifornimenti.

«Ce n’era uno ogni 5 o 10 chilometri. Ognuno doveva andare al tavolo e prendersi il proprio sacchetto. Al rifornimento del ventesimo chilometro, io ero in seconda posizione, a 50 metri da Abebe Bikila. Mi sono fermato, ma come fai, con più di 100 partecipanti, a trovare il tuo sacchetto? Fruga fruga, ho preso solo un po’ d’acqua e via. Sono andato avanti così fino al ventinovesimo chilometro, quando è arrivata la crisi. Non è come oggi

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che ti danno la spugna a ripetizione. Allora se prendevi una spugna venivi squalificato. Mi è venuto fame e sete. Sono andato avanti al piccolo trotto, procedendo a zig-zag. Sono arrivato quarantesimo».

In Messico invece ha avuto un ruolo importante la preparazione. Quan-do Ambu ci va è già in fase calante. Tre mesi prima aveva vinto il campio-nato nazionale belga dove c’era il campione europeo Van Der Driessche. Il tempo era 2 ore e 11’, ma poi hanno misurato bene e hanno visto che il percorso era più corto. Ma aveva pur sempre battuto il campione euro-peo. Mancando solo due o tre mesi alle Olimpiadi, Ambu diminuisce gli allenamenti per conservare quello che aveva («non dico di essere andato all’ingrasso, ma quasi»). Non che vada tanto male, è ventunesimo. Quarto fra gli europei, ma con gli africani non c’è partita. Anche l’altura gioca un ruolo negativo. Però 2 ore e 23’ non era un tempo malvagio.

Nel 1967, pur continuando a gareggiare, è già ora di pensare al futuro. Antonio frequenta la Scuola dello Sport come tecnico. Appena finita, vie-ne assunto. Come primo lavoro, d’accordo con la Snia per la quale gareg-giava, lo mandano a Colleferro. Lì comincia il lavoro di allenatore, parten-do da zero. Dopo pochi mesi aveva 120-130 ragazzi e ragazze, seguendo da solo tutte le specialità e facendosi carico di tutte le questioni organizzative. In quei cinque anni da allenatore porta anche qualcuno in nazionale, come Orlando Pizzolato. Si può dire che l’ha preso dalla strada, da certe prove non competitive. Un’altra scoperta era Pesavento, che aveva già corso in 10”4 sui cento. Purtroppo un incidente in macchina lo costringe a smette-re. Aveva vent’anni.

Dopo questa specie di tirocinio, il Coni lo spedisce prima a Schio e poi al comitato provinciale di Vicenza. Dopodiché il cambio radicale di specialità: dall’atletica al pattinaggio artistico.

La prova non deve essere andata male («siamo i migliori al mondo») se Ambu è per tanti anni preparatore atletico della nazionale e responsabile del pattinaggio artistico in Federazione.

In pratica alla maratona dei piedi sostituisce quella della macchina. Quando arriva al pattinaggio artistico, il preparatore della nazionale è Giunta, proveniente dal pentathlon. Giunta segue la nazionale, Ambu gli allenamenti che si fanno nelle varie zone.

Ad esempio, tutti i toscani una o due volte alla settimana si concentrano a Prato. Altri a Trieste, a Cremona, ecc. Ambu li deve seguire tutti: in un mese si fa anche 10.000 chilometri per andare ad allenare.

In più prepara anche i programmi agli allenatori, facendo dei disegnini con gli esercizi da effettuare. Quando Giunta lascia per altro incarico, tut-to passa sulle spalle di Ambu, sia la preparazione atletica che le nazionali, anche nelle trasferte.

Quelli della Fidal si rendono conto di aver perso un preparatore in gamba. Dovevano pensarci prima.

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Il successo nel pattinaggio artistico non deriva da particolari segreti. Antonio non fa altro che trasportare la metodologia dell’atletica al patti-naggio: riscaldamento, gara e defaticamento, del quale non avevano mai sentito parlare. Finita la gara, doccia e a casa in fretta e furia. Invece ora restano lì mezz’ora, quaranta minuti a fare il defaticamento.

Anche il pattinaggio non si esaurisce in una prova. Oggi ce n’è una, domani un’altra, più lunga o più corta, quindi bisogna essere freschi anche all’indomani.

Come nell’atletica, anche nel pattinaggio ci sono varie specialità: singo-lo, pattinaggio artistico, danza. Ognuna di queste esige una preparazione diversa. Questo è il metodo Ambu. Funziona, perché gli allievi cominciano a vincere sia a livello europeo che mondiale. Chiamano il preparatore in Inghilterra e in altri paesi a fare delle lezioni.

La fama varca anche la Grande Muraglia. Lo vorrebbero anche in Cina. Antonio si limita a preparare delle tabelle sulla preparazione atletica del pattinaggio artistico e spedirle ai musi gialli.

Non bastasse questo impegno, segue anche l’hochey a rotelle, come preparatore della nazionale, per due o tre anni. Breve esperienza nell’ho-chey come allenatore di squadra, al Seregno. Mugugnano perché si fa pa-gare. Era ovvio che lo pagassero. Non poteva mica partire da Schio, andare a Seregno tre volte alla settimana più la domenica, gratis!

Meglio lasciar perdere questi moralisti da quattro soldi e godersi la pensione.

Ambu non ha più voglia di muoversi. Lo cercano varie squadre di cal-cio della zona, proponendogli di fare il preparatore, ma dice di no. Un no più meditato l’aveva detto tanti anni prima, quando aveva appena iniziato al Coni. Lo volevano al Milan, ma a un mondo dorato ma aleatorio come quello del calcio aveva preferito il pane e salame del Coni.

Non è pentito della scelta. Di nessuna delle scelte fatte, anche se ogni tanto affiora un po’ di nostalgia della Sardegna.

«Cosa dovevo fare? Purtroppo là di lavoro non ce n’era. Andare in polizia era qualcosa di grosso, anche se voleva dire trasferirsi a Padova. Noi comunque qualche piccolo servizio in caserma lo facevamo, gli atleti militari oggi stanno a casa, non sanno nemmeno dove si trovi la caserma. Fra l’altro oggi non vogliono più neanche andare ai ritiri collegiali. A livel-lo di Coni stanno discutendo se valga la pena continuare a tenere il centro di Schio».

Lui ci capita ogni tanto, ma la sua vita è qui, nel suo orto e nella sua casa. «Gli piace anche fare da mangiare», quasi si lamenta Mariuccia, come

se le togliesse anche il mestolo della cucina, quel gratificante ruolo di pic-cola vivandiera che rifocilla il tamburino del reggimento.

Quello sardo, mentre mi invita al desco, fa fare al mestolo il giro del pentolone («tutte verdure del nostro orto!»).

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Il pranzo è servito e anche la splendida metafora dei tanti giri fatti sui campi di tennisolite, quando non ti davano nemmeno una spugna per asciugarti il sudore.

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Valentina Uccheddu, ai Mondiali di Gotebörg (1995), Foto Archivio Fidal

Nicoletta Tozzi, con la maglia della Nazionale, Foto Archvio Fidal

Claudia Paris, ai campionati di società (1989), Foto Archivio Fidal

Raffaele Piras, 7,37 agli Assoluti di Torino (1961)

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Giorgio Frinolli, ai Mondiali di Stoccar-da (1993), Foto Archivio Fidal

Anna Bongiorni, agli European Youth Olympic Trials di Mosca (2010)

Renato Dionisi salta 5,03, record italia-no, a Reggio Emilia (1973)

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indice

vii Prefazione di Eddy Ottoz

ix Introduzione di Roberto Corsi

Sardi d’azione

3 Antonio Ambu, il tamburino sardo

11 Raffaele Piras, atleta e poeta

18 Franco Sar, l’emigrato figlio di emigrante

De brevitate vitae (atleticae)

27 Rita Angotzi: quando la fortuna ti volta la schiena

31 Daniela Porcelli: distanza più lunga, carriera più breve

Splendide quarantenni

37 Claudia Paris e i profumi dal campo

44 Nicoletta Tozzi, professional coach

51 Autobiografia non meditata (di Nicoletta Tozzi)

55 Valentina Uccheddu e la lunga rincorsa

Goliardicamente atleti

61 Renato Dionisi, il goliardo fatalista

70 Sergio Ottolina, il guascone dal cuore tenero

77 Livio Berruti replica a Ottolina

L’ombra del padre

81 Eugenio Meloni salta il basket

82 Ilaria Marchetti tra disco e giavellotto

83 Anna Bongiorni si vede dal mattino

85 Bruno Frinolli e la lunga rincorsa

87 Giorgio Frinolli a ostacoli (anche paterni)

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Maratone verbali e scritte

91 L’(anti)divo Augusto Frasca

97 Giacomo Crosa ci ha messo la faccia

104 Franco Bragagna, the voice

On line

111 Giors Oneto, l’artigliere leggero

115 Sono Diego (Cacchiarelli) e non mi piego

117 Marco Sicari. Senza sicàri

Come t’erudisco il pupo

121 Francesco Garau, caratteraccio da pioniere

127 Carlo Vittori, il professore

136 Luciano Gigliotti, il prof. dei maratoneti

Staffetta celeste

143 Mara Baleani, ferita dal giavellotto

In marcia

149 Gianni Perricelli e la marcia del sudore

Mattone su mattone

157 Andrea Milardi e il miracolo reatino

162 Gianfranco Carabelli e gli anfibi astrali

169 Vincenzo Parrinello e le fiamme d’amore

Resistenza (e strappi) in famiglia

175 Alessandro Andrei e Agnese Maffeis, resistenza in famiglia

180 Roberto Frinolli e i figli ostacolati

187 Postfazione di Vanni Lòriga