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CONSIGLIO SUPERIORE DELL MAGISTRATURA Nona Commissione – Tirocinio e formazione professionale INCONTRO DI STUDIO SUL TEMA "I crimini in danno dell’ambiente e del territorio» ROMA 21 – 23 maggio 2012 La normativa sull’inquinamento idrico e atmosferico. Analisi della giurisprudenza di merito e della cassazione sui rapporti tra la normativa speciale e le fattispecie incriminatici del codice penale, con particolare riguardo ai reati contro la pubblica incolumità (c.d. disastro ambientale), alle ipotesi di falso, alle contravvenzioni del Codice penale. I possibili riflessi in materia cautelare personale. La prospettiva della responsabilità dell’ente. Monitoraggio dell’applicazione del D.Lvo 231/2001 Relatore: Dott. Luca RAMACCI Corte di Cassazione – Terza Sez. Penale

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CONSIGLIO SUPERIORE DELL MAGISTRATURA

Nona Commissione – Tirocinio e formazione professionale

INCONTRO DI STUDIO SUL TEMA"I crimini in danno dell’ambiente e del territorio»

ROMA 21 – 23 maggio 2012

La normativa sull’inquinamento idrico e atmosferico.Analisi della giurisprudenza di merito e della cassazione sui rapporti tra la normativa

speciale e le fattispecie incriminatici del codice penale, con particolare riguardo ai reati contro la pubblica incolumità (c.d. disastro ambientale), alle ipotesi di falso, alle

contravvenzioni del Codice penale.I possibili riflessi in materia cautelare personale.

La prospettiva della responsabilità dell’ente. Monitoraggio dell’applicazione del D.Lvo 231/2001

Relatore:

Dott. Luca RAMACCI

Corte di Cassazione – Terza Sez. Penale

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I miei recapiti: e.mail: [email protected] web : www.lexambiente.it

1. Come al solito, una premessa....

Quando vengo chiamato dal Consiglio a tenere una relazione in un corso di formazione faccio precedere il testo predisposto da una premessa dove spiego le ragioni delle scelte effettuate nella selezione del materiale da proporre.

E' un'abitudine che non volevo più seguire in quest'occasione ma, visto il titolo della relazione assegnatami, ho repentinamente cambiato idea.

Praticamente, nello spazio di un'ora, dovrei parlare di tantissimi argomenti, peraltro neppure correlati tra loro, trattando anche di disposizioni del codice penale con incursioni nella procedura penale, per terminare con il «monitoraggio dell’applicazione del D.Lvo 231/2001» che, se riferito alla disciplina antecedente al d.lgs. 121\2011, occuperebbe, da solo, lo spazio di più relazioni, mentre, per la materia ambientale, il d.lgs. è stato preso in considerazione in sole due occasioni, in via meramente incidentale, dalla giurisprudenza di legittimità.

Considerato che in tema di inquinamento idrico ed atmosferico tutto tace al momento, fatta eccezione per la recente innovazione introdotta, in materia di acque, dall'art. 2 del d.P.R. 227\2011, ancora oggetto di prime valutazioni da parte della dottrina, al quale si può far cenno nel corso del dibattito, come per i falsi (che però assumono un maggiore rilievo per i richiami operati dalla disciplina sui rifiuti, che non rientra tra gli argomenti assegnatimi) e le questioni concernenti i riflessi in materia cautelare personale, ho dovuto prendere una decisione.

Ho così pensato di approfondire in questa relazione scritta tre specifici argomenti: il d.lgs. 231\2001 perché pare, al momento, scarsamente o per nulla applicato da chi si occupa di reati ambientali; il «disastro ambientale» perché riguarda condotte di un certo rilievo ed è stato già oggetto di esame da parte della giurisprudenza costituzionale e di legittimità ed, infine, l'art. 674 cod. pen. con riferimento alle emissioni in atmosfera perché risulta segnalato un contrasto di giurisprudenza dal Massimario ed è il caso di verificare, insieme, la situazione.

Propongo quindi tre distinti testi (due sono articoli in corso di pubblicazione) che trattano separatamente questi argomenti, ancora una volta senza alcuna pretesa di insegnare niente a nessuno e con la speranza di ricavare ulteriori spunti di riflessione.

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2. ….e la solita segnalazione L’esperienza comune non può esaurirsi nello spazio degli incontri di studio e perciò, anche in questa occasione, segnalo ai colleghi interessati al diritto dell’ambiente l’esistenza della mailing-list “Lexamb” da me creata.

Si tratta di una ML dedicata ai soli magistrati ordinari (PM e giudici) ed avente come scopo lo scambio di informazioni, dottrina, giurisprudenza, stampati ed altro materiale di interesse generale riguardante il diritto ambientale.

La mailing list è riservata. Vi si può accedere (salvo eccezioni) solo con l'indirizzo @giustizia.it ed i suoi contenuti non possono essere divulgati a terzi senza autorizzazione. L’iscrizione può essere richiesta scrivendomi all'indirizzo di posta elettronica indicati nei recapiti.

Attualmente sono iscritti alla mailing list 257 magistrati.

Da quando sono in Cassazione giro anche alla lista i documenti (relazioni, sentenze delle SS.UU., sentenze segnalate etc.) anche non concernenti la materia ambientale che mi vengono spediti per posta dalla Corte e che sono di interesse generale perché tutti trattano comunque anche altre materie

Punto di riferimento comune è, inoltre, la rivista giuridica on line da me ideata e curata “Lexambiente” (www.lexambiente.it) che viene da me aggiornata quotidianamente con dottrina e giurisprudenza (quella della Cassazione viene da me selezionata esaminando le sentenze della Terza Sezione depositate nella settimana e comprende anche decisioni che non verranno poi massimate ufficialmente).

La collaborazione è ovviamente aperta a tutti e l'invio di articoli (anche se già pubblicati su carta e vi è il consenso dell'editore) e di giurisprudenza di merito è certamente gradito.

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RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DEGLI ENTI COLLETTIVI E VIOLAZIONI AMBIENTALI

Una partenza con il piede sbagliato....

Il tema della responsabilità amministrativa degli enti collettivi per alcune tipologie di reato è stato sempre oggetto di ampio dibattito1 ed assume particolare rilievo nella materia ambientale, avuto riguardo ai soggetti che svolgono attività imprenditoriali il cui esercizio può determinare il verificarsi di fenomeni di inquinamento.

Come è noto, la responsabilità da reato degli enti collettivi è stata considerata dal legislatore nazionale nella legge 29 settembre 2000 n. 300, con la quale, ratificando alcuni atti internazionali elaborati in base al Trattato dell'Unione europea, è stato anche delegato il governo a disciplinare la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica, come disposto dall'art. 11, il quale contemplava, tra l'altro, al comma 1, lettera d), ipotesi di responsabilità in relazione alla commissione dei reati in materia di tutela dell'ambiente e del territorio, punibili con pena detentiva non inferiore nel massimo ad un anno anche se alternativa alla pena pecuniaria, previsti da determinate disposizioni specificamente indicate.

Provvedendo nel termine previsto di otto mesi, è stato emanato, come è noto, il D.Lv. 8 giugno 2001 n. 231, utilizzando solo parzialmente la delega, senza prendere così in considerazione le ipotesi di responsabilità per i reati in materia di tutela dell’ambiente e del territorio e per quelli di cui agli artt. 589 e 590 C.P. commessi in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ovvero di tutela dell’igiene e della salute sul lavoro menzionati dalla lettera c) del medesimo articolo2.

La singolare scelta, non è stata casuale ma, come da più parti osservato, fortemente condizionata dalle prevedibili pressioni del mondo dell’impresa3.

Particolarmente significativa risulta, a questo proposito, la lettura della Relazione ministeriale, laddove si specifica che la decisione di limitare l'attuazione della delega ai soli reati che formavano oggetto delle Convenzioni ratificate con la legge-delega era giustificata da due contrastanti ordini del giorno votati da Camera e Senato sull'ampiezza del catalogo dei reati a cui legare la responsabilità amministrativa degli enti e, dopo aver dato atto del rilievo assunto, nella c.d. criminalità d'impresa, di alcune tipologie di reati, si conclude ritenendo opportuno favorire n progressivo radicamento di una «cultura aziendale della legalità»4.

1 V. ad es. SELVAGGI “ La responsabilità penale della persona giuridica: un dibattito europeo” in Cass. Pen. 1999 pag. 2778 e ss.; DI GERONIMO “Aspetti processuali del D.Lg. n. 231\2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti per fatti costituenti reato: prime riflessioni” ibid. n.4\2002 pag. 1564; ARENA, CASSANO «La responsabilità da reato degli enti collettivi», Milano 2007; BERNASCONI, PRESUTTI, FIORIO «La responsabilità degli enti» Padova, 2008; D'AVIRRO, DI AMATO «La responsabilità da reato degli enti», Padova 2009; CADOPPI, GAROTTI, VENEZIANI, «Enti e responsabilità da reato», Torino 2010; CIPOLLA “Il d.lg. n. 231 del 2001 nella prassi giurisprudenziale,a dieci anni dall'entrata in vigore” in Giur. Merito n. 6\2011 pag. 1468 e ss.2 Il Governo non ha dato attuazione alla delega neppure nella parte concernente gli effetti civili conseguenti all'accertamento di responsabilità dell'ente di cui all'art. 11 lettere t), u), v) e z). 3 Si veda, in dottrina, PASCULLI “Questioni insolute ed eccessi di delega nel D.Lvo n. 231\01” in Riv. Pen. 9\2002 pag.739; AA.VV. “La responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse” (Atti del convegno di Roma 30 novembre – 1 dicembre 2001) in supplemento al n. 6\2003 di Cass. Pen.; MANNA “La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: il punto di vista del penalista” in Cass. Pen. 3\2003 pag. 1101; FARES, “La responsabilità dell’ente pubblico per i reati commessi nel proprio interesse” in Cass. Pen. 6\2004 pag. 2201. 4 Le affermazioni, chiaramente indicative dell'approccio a certe tematiche da parte di chi è chiamato a specificarne la

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L'adattamento a regole tutto sommato elementari, quali indubbiamente sono quelle della sicurezza sul lavoro e concernenti la tutela dell'ambiente e della salute delle persone, è stato faticoso.

All’omissione si è in un primo tempo parzialmente rimediato, limitatamente ai delitti commessi in violazione delle norme antinfortunistiche, attraverso l’articolo 9 della L. 3 Agosto 2007, n. 123, recante “Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia” mediante l'inserimento dell'articolo 25-septies nel d.lgs. 231\01, forse determinato anche da un incremento dell'attenzione mediatica sulle c.d. morti bianche che ha risvegliato il legislatore dal pluriennale torpore.

Torpore che si è, tuttavia, protratto per un decennio per ciò che attiene alle violazioni ambientali, determinando una situazione del tutto singolare, come rilevato anche dalla giurisprudenza di legittimità,5 alla quale si è posto rimedio molto tempo dopo, mentre chi si giovava della provvidenziale inerzia continuava a districarsi con l'abusato sistema delle deleghe di funzioni6, di modo che la responsabilità per condotte illecite, poste in essere in esecuzione di precise strategie imprenditoriali, andasse ancora a ricadere su soggetti diversi da quelli cui può essere attribuita la responsabilità del fatto illecito, approfittando anche della scarsa incisività degli altri obblighi previsti dalla normativa di settore quale conseguenza della commissione di fatti illeciti e tali da coinvolgere anche le persone giuridiche7.

L'inadeguatezza del sistema sanzionatorio in materia ambientale

Questa situazione andava, dunque, ad inserirsi in un sistema di controllo e repressione delle violazioni ambientali certamente inadeguato.

disciplina, meritano di essere riprodotte nelle parti essenziali: «Il Governo non ignora che, sul piano generale, il catalogo dei reati di cui all'articolo 11, lettere a), b), c) e d), ricostruisce, in modo più completo, la cornice criminologica della criminalità d'impresa, nel cui ventre distingue, da un lato, gli illeciti collegati a delitti precipuamente indirizzati al conseguimento di ingiustificati profitti, di regola espressione di una politica aziendale che mira ad aggirare i meccanismi di legalità che regolano la concorrenza e l'esercizio dell'attività produttiva; dall'altro lato, le violazioni che conseguono a reati espressivi di una colpa di organizzazione, che rappresentano una (e senz'altro la più grave) forma di proiezione negativa derivante dallo svolgimento dell'attività di impresa (il rischio-reato come una delle componenti del rischio di impresa). Nondimeno, occorre realisticamente prendere atto del maggiore equilibrio della scelta cd. minimalista: poiché l'introduzione della responsabilità sanzionatoria degli enti assume un carattere di forte innovazione del nostro ordinamento, sembra opportuno contenerne, per lo meno nella fase iniziale, la sfera di operatività, anche allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una cultura aziendale della legalità che, se imposta ex abrupto con riferimento ad un ampio novero di reati, potrebbe fatalmente provocare non trascurabili difficoltà di adattamento. »5 Cass. Sez. III n. n. 41329 del 6\11\2008 in lexambiente.it. Si tratta di un caso in cui si discuteva del sequestro di un mezzo utilizzato per il trasporto non autorizzato di rifiuti e la difesa, paradossalmente, si doleva, tra l'altro, del fatto che l'illecito non era stato contestato alla società proprietaria del mezzo sottoposto a sequestro preventivo. La Corte facendo osservare che, al momento della decisione, l'unico richiamo alla responsabilità amministrativa dell'ente sul tema dei rifiuti era quello contenuto nell'art. 192, comma 4 del d.lgs. 152\06 che, oltre a limitare il riferimento agli amministratori o rappresentanti delle persone giuridiche, faceva espresso riferimento unicamente alla previsione del cit. art. 192, comma 3 che ha per oggetto gli obblighi di rimozione dei rifiuti nel caso di abbandono incontrollato, osservava, dando atto del mancato completo adempimento alla delega, che, per quanto concerne la responsabilità degli enti, difettava allora tanto la tipizzazione degli illeciti quanto la indicazione delle sanzioni. L'uso diffuso del condizionale in motivazione evidenzia, ancora di più, la particolarità della situazione rilevata, dove all'inerzia del governo si andava a sommare uno dei non rari esempi di confusione offerti dal d.lgs. 152\06 laddove, nel menzionato art. 192, fa riferimento al d.lgs. 231\01, come se niente fosse. 6 Sul tema v. RAMACCI «Tutela dell’ambiente e delega di funzioni nella giurisprudenza della Corte di Cassazione»in Ambiente & Sviluppo 1\2008 pagg. 17 e ss. Per i successivi interventi della giurisprudenza di legittimità in materia v. Cass. Sez. III n. 19882, 11 maggio 2009; Sez. III n. 6420, 11 febbraio 2008; Sez. III n.2478, 17 gennaio 2008. Molto più numerose sono le decisioni in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro i cui principi sono, ovviamente, utilizzabili anche con riferimento alle violazioni ambientali. 7 Si pensi, ad esempio, agli oneri economici conseguenti agli obblighi di ripristino e bonifica originariamente previsti dal D.Lv. 22\97 in tema di rifiuti e ora fortemente ridimensionati dal D.Lv. 152\06

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Come si è già avuto modo di osservare,8 nella materia ambientale9 si è passati dalla completa indifferenza all'inevitabile adeguamento alle disposizioni comunitarie (salvo poi ricorrere, in caso di necessità, anche per casi specifici, a pesanti interventi modificativi e di favore per determinati settori) fino all'emanazione del discusso d.lgs. 152\06, meglio noto con gli impropri appellativi di «Codice dell'ambiente» o «Testo Unico Ambientale»,10 il tutto accompagnato da progetti ambiziosi mai realizzati (come nel caso dell'introduzione, nel codice penale, dei delitti contro l'ambiente, da tutti voluta,ma solo a parole) o che, se realizzati, creano effetti disastrosi, come è avvenuto, almeno finora, per il SISTRI,11 tanto che resta sempre di attualità l'affermazione testuale di un'autorevole studiosa della materia, secondo la quale “il nostro legislatore ambientale, bisogna ammetterlo, non conosce vergogna”. 12

Questa è dunque, più o meno, la situazione con la quale, ad oltre dieci anni dalla delega al governo, l'ambito di applicazione del d.lgs. 231\01è stato finalmente ampliato.

L'estensione del dlv. 231\2001 ai reati ambientali e le prime critiche

L'occasione è stata offerta dalla esigenza di adeguarsi alla Direttiva 2008/99/CE del 19 novembre 2008 sulla tutela penale dell’ambiente, che, negli articoli 6 e 7, ha ribadito la necessità di sanzionare le persone giuridiche per la violazione di disposizioni ambientali ed alla quale è stata data attuazione, in ritardo, con il D.Lv. 7 luglio 2011 n. 121 modificando, tra l'altro, il D.Lv. 231\2001 mediante l'introduzione degli articoli 25-decies e 25-undecies, prevedendo così l'applicazione di sanzioni pecuniarie per una serie di reati, specificamente indicati13.

8 RAMACCI «La repressione delle violazioni penali in materia ambientale: limiti attuali e prospettive future» in Ambiente & Sviluppo n. 9\2007 pagg. 788 e ss.9 Il termine è volutamente «neutro», posto che ancora vi è incertezza sull'ambito di operatività del diritto ambientale, da molti confinato nell'ambito della triade «rifiuti-acque-aria» (con una netta prevalenza per il primo dei tre settori, di maggiore interesse per le imprese e statisticamente più remunerativo per chi è preposto ai controlli, stante la relativa semplicità di accertamento di determinate infrazioni) ignorando completamente altri settori di rilievo, come, ad es., l'urbanistica e la tutela dei beni ambientali e culturali che, invece, la criminalità ambientale (e non solo quella) non disdegna affatto. 10 Sul d.lgs. 152\06 e sulle innumerevoli modifiche si è scritto moltissimo e, spesso, con accenti fortemente critici del tutto giustificati. Per avere comunque un'idea di massima dell'approssimazione con il quale è stato redatto, basta leggere il testo della «legge delega» 15 dicembre 2004 n. 308 (per un commento «a caldo» v. RAMACCI “La legge delega ambientale” In Guida al Diritto n. 4\2005) e le osservazioni di VERGINE sul singolare divieto di «versamento nel terreno di discariche di rifiuti civili ed industriali», così testualmente inserito nell'originaria formulazione dell'art. 199, comma 3, lettera f) in Ambiente & Sviluppo n. 5\2006, pag. 476.11 Il SISTRI - sistema informatico di controllo della tracciabilità dei rifiuti, è finalizzato alla trasmissione e raccolta di informazioni su produzione, detenzione, trasporto e smaltimento di rifiuti ed alla realizzazione, in formato elettronico, del formulario di identificazione dei rifiuti, dei registri di carico e scarico e del M.U.D. La sua istituzione ha portato finora, come unico risultato, un aggravio di spese per gli imprenditori obbligati all'adeguamento (delle loro reazioni, pienamente giustificate a fronte dell'approssimazione con la quale il sistema ha visto la luce, vi sono diffusi esempi nei forum in Internet), un contenzioso in sede giudiziaria, naturalmente un profluvio di pubblicazioni ed alcune proroghe, l'ultima – salvo errori – fino al 30 giugno 2012, ad opera della Legge 24 febbraio 2012 n. 14, di conversione del d.l. 216\2011 (cosiddetto decreto “Milleproroghe”), mentre in qualche dibattito già si è avuto modo di ipotizzare, da parte dei più smaliziati addetti ai controlli, con quali modalità, relativamente semplici, il sistema potrebbe essere aggirato. 12 VERGINE “A proposito della L.192/04” in lexambiente.it 13 Per un commento v. SCARCELLA “Nuovi ecoreati ed estensione ai reati ambientali del D.Lv. n.231\2001 sulla responsabilità degli enti” in Ambiente e Sviluppo n. 10\2011, pag,854 e ss.; RUGA RIVA “Il decreto legislativo di recepimento delle direttive comunitarie sulla tutela penale dell'ambiente: nuovi reati, nuova responsabilità degli enti da reato ambientale” in Lexambiente.it; FIMIANI « Imprese ed enti: estesa ai reati ambientali la responsabilità prevista dal d.lgs. 231\2001» in Rifiuti n. 188, 10\2001 pagg. 17 e ss. (che si segnala anche per le interessanti osservazioni sulla possibile applicazione della nuova disciplina anche ai fatti antecedenti alla sua entrata in vigore); ANILE «Ecoreati e 231: il diritto penale, l'ambiente e la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche» ibid. n. 190, 12\2011, pag.4 e ss. ; PISTORELLI, SCARCELLA Relazione n. III\09\2011, agosto 2011 dell'Ufficio del massimario della Corte

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É senz'altro questa l'unica novità di rilievo introdotta dal d.lgs. 121\2011, in quanto la previsione di due nuove fattispecie contravvenzionali nel codice penale (artt. 727-bis «Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette» e 733-bis «Distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto») e gli altri interventi, appaiono di scarsa incisività14

La tanto attesa estensione ai reati ambientali delle disposizioni del d.lgs. 231\01 non ha mancato, tuttavia, di prestare il fianco ai rilievi dei primi commentatori, cui dovranno necessariamente aggiungersi, come meglio si dirà in seguito, le criticità già manifestatesi in precedenza nella concreta applicazione del decreto legislativo e quelle inevitabilmente insorgenti dalle prime letture che date dalla giurisprudenza alla parte di nuova introduzione e che la dottrina ha già censurato.

Un dato, che non è certo sfuggito dopo l'emanazione del d.lgs. 121\11, riguarda il considerevole «sfoltimento» delle ipotesi di reato determinanti la responsabilità degli enti rispetto alla versione originaria dello schema di decreto legislativo. Anche se nessuno pare lo abbia detto espressamente, quanto è avvenuto in precedenza non consente di fare a meno di pensare che pure questo possa essere il risultato di mirate pressioni, di cui peraltro le cronache non fanno mistero trattando di altri casi in cui l'adozione di nuove disposizioni va ad incidere sugli interessi economici di specifiche categorie di soggetti, sebbene si sia osservato15 che la riduzione delle ipotesi di reato ha riguardato anche i reati formali o di minore offensività.

Curiosamente, manca all'appello il reato di abbandono di rifiuti sanzionato dall'art. 256, comma 2 d.lgs.152\06, la cui fattispecie astratta è espressamente riferita ai titolari di imprese ed ai responsabili di enti che violano il divieto stabilito da quell'art.192 il quale, come si è detto in precedenza, menzionava il d.lgs. 231\01 prima ancora che gli illeciti ambientali rientrassero nel suo ambito di applicazione.

Restano fuori anche la quasi totalità delle violazioni in materia di inquinamento atmosferico, essendo contemplato il solo reato previsto dall'art.279, comma 5 d.lgs. 152\06, concernente il superamento dei valori limite di emissione determinante anche il superamento dei valori limite di qualità dell'aria e quelle della disciplina in materia di autorizzazione integrata ambientale (AIA).

Si è osservato16, a tale proposito, che la espunzione dal testo originario delle violazioni previste dall'art. 29-quattordiecies del d.lgs. 152\06 suscita perplessità non soltanto per l'obiettiva intrinseca offensività delle condotte sanzionate, ma anche per l'evidente disparità di trattamento che potrebbe determinarsi in concreto tenendo conto del disposto del comma 10 del medesimo articolo, laddove stabilisce che «per gli impianti rientranti nel campo di applicazione del presente titolo, dalla data di rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale, non si applicano le sanzioni, previste da norme di settore, relative a fattispecie oggetto del presente articolo».

Ciò porterebbe alla singolare conseguenza che gli impianti soggetti ad AIA resterebbero sottratti all'applicazione del d.lgs. 231\01 non solo in ragione della mancata inclusione, ma anche in applicazione della disposizione appena richiamata con riferimento alle altre «norme di settore» concernenti, quindi, i rifiuti, l'inquinamento idrico e quello atmosferico.

La preoccupazione, certamente giustificata, pare che possa comunque essere mitigata dalla

di Cassazione, reperibile anche in lexambiente.it. 14 Si vedano, in tema, i commenti citati nella nota precedente.15 RUGA RIVA op. cit., ANILE op. cit.16 RUGA RIVA op. cit.

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considerazione che la norma si riferisce espressamente ed esclusivamente alle «fattispecie oggetto del presente articolo», cosicché l'esenzione opererà soltanto nel caso in cui dette fattispecie siano perfettamente sovrapponibili a quelle previste dalle corrispondenti «norme di settore», sicché, in difetto, queste ultime resteranno pienamente applicabili e, con esse, quelle del d.lgs. 231\01.

Altra assenza significativa rilevata dalla dottrina17 e che, pur non derivando dall'operazione di recisione dell'originaria bozza del decreto, si fa certamente notare a fronte di un numero rilevante di reati meramente formali, è quella relativa ad alcuni reati contemplati dal codice penale, quali, ad esempio, l'avvelenamento di acque o il disastro.

C'è però da osservare, a tale proposito, che sebbene il rilievo sia certamente pregnante, si tratta comunque di disposizioni comuni, solo eventualmente correlate a condotte rilevanti sotto il profilo ambientale.

Va inoltre osservato come, nella già menzionata Relazione governativa, venisse specificato che, nella redazione dell'art. 9, comma 2, le sanzioni interdittive individuate rispecchiavano, quasi totalmente, l'elenco contenuto nella legge-delega (art. 11, lettera l), con eccezione di quella della chiusura dello stabilimento o della sede commerciale, ritenuta incompatibile con le finalità del sistema punitivo delineato in considerazione della scelta del Governo di limitare il novero dei reati presupposto e ciò in quanto «...la chiusura dello stabilimento o della sede commerciale, infatti, è una sanzione tipicamente orientata a fronteggiare forme diverse di rischio-reato, segnatamente quegli illeciti che si situano nel cono d'ombra del rischio di impresa: si pensi ai reati in materia ambientale, all'omicidio o alle lesioni derivanti dalla violazione di norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro ovvero ai reati connessi allo svolgimento di attività pericolose. Come si vede, si tratta di una sanzione utilmente riferibile solo ai reati indicati nelle lettere b), c) e d) dell'articolo 11, che non sono stati ricompresi nel presente decreto legislativo».

Inutile dire che nel procedere alle successive integrazioni della disciplina, di questa sanzione interdittiva, di indubbia efficacia, non vi è traccia18.

L'estensione del d.lgs. 231\01 ai reati ambientali va valutata, in ogni caso, con un certo favore, tenendo conto della maggiore incisività di cui si è venuto a dotare il sistema sanzionatorio in campo ambientale che, in effetti, mostrava tutti i suoli limiti.

Da un lato, infatti, le sanzioni amministrative rivelano tutta la loro scarsa efficacia perché, a fronte di una maggiore rapidità nella comminazione, resta poi dubbia l'effettiva applicazione e, comunque, il pagamento, in caso di occasionale controllo, risulta sempre più vantaggioso rispetto ai costi da affrontare per un effettivo e duraturo adeguamento di un impianto alle disposizioni vigenti o per lo svolgimento di un'attività in maniera regolare e, pertanto, documentata o documentabile, anche nei ricavi.

Dall'altro, le violazioni penali non hanno vita migliore, minacciate da una prescrizione sempre incombente, rese quasi inutili dalla previsione di pene solo simboliche, dalla obiettiva mancanza di controlli, ridicolizzate dalla loro utilizzazione in casi, come quello della legislazione emergenziale in tema di rifiuti, dove pene severissime e la privazione della libertà personale sono previste per condotte di minimo rilievo riconducibili, peraltro, a fattispecie di reato non sempre adeguatamente delineate e, in qualche caso, scarsamente considerate dagli uffici di procura.

17 ANILE op. cit.; RUGA RIVA, op. cit.18 Ma Confindustria, nelle osservazioni formulate sullo schema di decreto legislativo (pubblicate su penalecontemporaneo.it), criticava in toto la previsione di sanzioni interdittive (oltre all'eccessivo numero dei reati presupposto), evidenziando il «rilevante impatto che le sanzioni interdittive, specie se applicate in via cautelare, rischiano di produrre sulle imprese».

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A fronte di un tale contesto, l'applicazione del d.lgs. 231\01 comporterà certamente ulteriori conseguenze negative per i contravventori, essendo previsto, dall'art. 8, lettera b), che la responsabilità dell'ente sussiste anche quando il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia ed una più incisiva disciplina della prescrizione (art. 22),19 nonché sanzioni di un certo rilievo e la possibilità, in relazione ad alcune ipotesi di reato, di procedere all'applicazione di sanzioni interdittive di durata fino a sei mesi o all'applicazione dell'interdizione definitiva. Le sanzioni interdittive, previste dall'art. 9, comma 2 del d.lgs. 231\01, concernono l'interdizione dall'esercizio dell'attività, la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi ed il divieto di pubblicizzare beni o servizi. Esse sono applicabili, a mente del comma 7 dell'art. 25-undecies, nei casi di condanna per i delitti20 indicati al comma al comma 2, lettere a), n. 2), b), n. 3), e f), e al comma 5, lettere b) e c).

La sanzione dell'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività, ai sensi dell'art. 16, comma 3, del d.lgs. 231\01, si applica invece se l'ente o una sua unità organizzativa vengono stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati di cui all'articolo 260 d.lgs. 152\06 (attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti) e all'articolo 8 del d.lgs. 202\07 (inquinamento marino doloso).

E' inoltre prevista la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato, fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona, fede ovvero quella per equivalente21.

Non sono tuttavia mancate valutazioni in senso critico delle disposizioni sopra menzionate, rilevando la maggiore afflittività delle conseguenze del reato per l'ente rispetto all'autore materiale del reato il quale, a differenza del primo, potrà giovarsi di cause estintive (oblazione, prescrizione) che l'art. 8 del d.lgs. 231\01 esclude22. Viene inoltre ritenuto discutibile il riferimento anche a reati

19 La Relazione governativa ricorda che l'enunciato della legge-delega in materia di prescrizione ricalca, sostanzialmente, il disposto dell'art. 28 legge 689\81, ma osserva che «la scelta, invero, non pare delle più felici, visto che il rinvio ad una regolamentazione di stampo civilistico rischia di dilatare eccessivamente il tempo di prescrizione dell'illecito amministrativo dell'ente, potendo persino favorire deprecabili prassi dilatorie, specie nei casi in cui si proceda separatamente nei confronti dell'ente». 20 In realtà, come osservato da RUGA RIVA, op. cit., il quale ha immediatamente colto l'errore del legislatore, l'unico delitto richiamato dalla norma è quello previsto dall'art. 260 d.lgs. 152\06, gli altri sono reati contravvenzionali21Cass. SS.UU. n. 26654, 2 luglio 2008: «In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell'ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l'utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell'esecuzione da parte dell'ente delle prestazioni che il contratto gli impone. (In motivazione la Corte ha precisato che, nella ricostruzione della nozione di profitto oggetto di confisca, non può farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico - quali ad esempio quelli del "profitto lordo" e del "profitto netto" -, ma che, al contempo, tale nozione non può essere dilatata fino a determinare un'irragionevole e sostanziale duplicazione della sanzione nelle ipotesi in cui l'ente, adempiendo al contratto, che pure ha trovato la sua genesi nell'illecito, pone in essere un'attività i cui risultati economici non possono essere posti in collegamento diretto ed immediato con il reato)». 22 Vanno segnalate, sul tema, le interessanti osservazioni svolte da RUGA RIVA «Reato di omessa bonifica e d.lgs. n.231\2001: la bonifica giova (anche) all'ente?» in Ambiente e Sviluppo n. 5\2012 pag. 412 e ss.. L'A. si interroga sul rilievo assunto dalle disposizioni contenute nell'art. 257 commi 1 e 4 d.lgs. 152\06 rispetto al d.lgs. 231\01 sulla base dei principi generali in tema di responsabilità degli enti e sulla natura della bonifica quale causa di non punibilità sopravvenuta o elemento costitutivo di un reato omissivo, osservando anche come, in ogni caso, della impunità conseguente alla bonifica, paradossalmente, andrebbe a giovarsi la persona fisica anche nel caso in cui gli ingenti costi dell'operazione siano sostenuti dall'ente. Altre osservazioni vengono svolte in ordine all'inserimento o meno, tra i reati presupposto, dell'omessa segnalazione di cui tratta l'art. 257, comma 1, ultimo periodo, analizzando le possibili soluzioni e stigmatizzando, in conclusione, l'onere, per l'interprete, di «bonificare un terreno normativo inquinato da

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di pericolo astratto, punibili a titolo di colpa semplice nonostante la direttiva comunitaria menzioni attività «poste in essere intenzionalmente o quanto meno per grave negligenza», il che, anche se è la stessa direttiva a riconoscere la facoltà, per gli Stati membri, «di mantenere in vigore o adottare misure più stringenti finalizzate ad un’efficace tutela penale dell’ambiente», renderebbe, da un lato, più difficoltoso collegare il reato al vantaggio o all'interesse conseguito dall'ente e, dall'altro, andrebbe a compromettere le finalità di omogeneo trattamento mediante l'individuazione di un standard minimo di tutela per tutti gli Stati membri23.

La possibilità, offerta dalla direttiva comunitaria agli Stati membri, di adottare standard di tutela più rigorosi è stata menzionata anche da altri commentatori24 per riconoscere la legittimità della scelta operata dal legislatore delegato, purtuttavia ipotizzando che la decisione, definita «potenzialmente rivoluzionaria», sia stata assunta del tutto inconsapevolmente.

La tesi, considerato l'approccio generale alle tematiche ambientali e le discutibili scelte legislative operate negli anni precedenti, non pare affatto azzardata. La sostenibilità di un eccesso di delega legislativa in violazione dell'art. 76 Cost. è stata, invece, ipotizzata con riferimento ai reati del codice penale richiamati dall'articolo 3-bis, comma 1, della legge n. 150 \1992, il quale prevede che, alle fattispecie previste dall'articolo 16, paragrafo 1, lettere a), c), d), e), ed l), del Regolamento (CE) n. 338/97 del Consiglio, del 9 dicembre 1996 e successive modificazioni (in materia di falsificazione o alterazione di certificati, licenze, notifiche di importazione, dichiarazioni, comunicazioni di informazioni al fine di acquisizione di una licenza o di un certificato, di uso di certificati o licenze falsi o alterati), siano applicate le pene di cui al libro II, titolo VII, capo III del codice penale (articolo 25-undecies, comma 3, lettera c) d.lgs. 231\2001) e ciò in quanto trattasi di reati non contemplati dall'art. 3 della Direttiva ed estranei alla tutela dell'ambiente (trattandosi di reati contro la fede pubblica) ancorché ad essa strumentali25.

I problemi già noti: individuazione del soggetto collettivo responsabile

L'ampliamento delle ipotesi di responsabilità degli enti ai reati ambientali, oltre ad offrire il fianco ai rilievi critici appena menzionati, risentirà inevitabilmente, nella concreta attuazione, delle stesse problematiche che hanno interessato dottrina e giurisprudenza nei primi dieci anni di vigenza del d.lgs. 231\2001.

Un primo aspetto di rilievo riguarda l'individuazione in concreto del soggetto collettivo responsabile dell'illecito, non certo facilitata dalla generica formulazione dell'art.1 d.lgs. 231\2001.

La giurisprudenza ha, finora, considerato le ipotesi della società fallita, 26 degli enti pubblici che

norme poco chiare e, in relazione alla responsabilità degli enti da reato ambientale, mal coordinate con la normativa penale ritagliata sugli autori dei reati presupposto». 23 ANILE, op cit., il quale, a sua volta, richiama anche le osservazioni di VERGINE «Nuovi orizzonti del diritto penale ambientale?» in Ambiente & Sviluppo 2009 e PATRONO «La disciplina penale dell'inquinamento idrico ed atmosferico dopo il c.d. Testo unico ambientale: profili problematici vecchi e nuovi» in Riv. Trim. dir. pen. ec. 2008. 24 RUGA RIVA, op. cit. 25 RUGA RIVA, op. cit. L'A. rileva come, pur potendosi rinvenire una possibile giustificazione alla scelta legislativa nel disposto dell'art. 2, lettera g) della legge delega n. 96/2010, secondo il quale «nella predisposizione dei decreti legislativi…si tiene conto delle esigenze di coordinamento tra le norme previste nelle direttive medesime e quanto stabilito dalla legislazione vigente», si resterebbe comunque «ben lontani da un canone accettabile di chiarezza e sufficiente determinatezza dei criteri e principi direttivi della delega».26 Cass. Sez. V n.33425, 13 agosto 2008 in Cass. Pen. n. 7-7\2009 pag. 3034 con nota di COMPAGNA «Obbligatorietà della confisca di valore e profili di discrezionalità nell'eventuale sequestro: il necessario contemperamento degli interessi costituzionali in gioco e l'ipotesi di fallimento». La Corte, ammettendo, nella fattispecie, la possibilità del sequestro preventivo a fini di confisca di beni in misura equivalente al profitto derivante dal reato, ha tuttavia precisato

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svolgono attività economica e delle società commerciali a capitale «misto», pubblico e privato, che svolgono servizi pubblici,27 delle «società d'ambito»,28 della società capogruppo relativamente al reato commesso nell'ambito dell'attività di una controllata29 ma, come si è osservato, restano ancora insoluti alcuni quesiti sollevati dalla dottrina in tema di comitati, condomini, consorzi con attività interna, società apparenti, società irregolari, gruppi di imprese30.

Va poi segnalato con specifico riferimento, seppure indiretto, ai reati ambientali (applicazione di misura interdittiva della revoca dell'autorizzazione alla raccolta trasporto e conferimento di rifiuti speciali formulata riguardo ad un procedimento penale per il reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati in materia di raccolta, smaltimento e traffico illecito di rifiuti pericolosi e non e per la violazione dell'art. 260 d.lgs. 152\2006), una pronuncia della giurisprudenza di legittimità ha ritenuto applicabili le disposizioni del d.lgs. 231\2001 anche alle imprese individuali, ritenute incluse nella nozione di ente fornito di personalità giuridica utilizzata dall'art. 1, comma secondo, del d.lgs. per identificare i destinatari delle suddette disposizioni31.

La decisione si pone in consapevole contrasto con altra pronuncia precedente,32 che era pervenuta a conclusioni diametralmente opposte per il fatto che il d.lgs. 231\2001 si riferisce ai soli enti collettivi, ricavando tale convinzione sulla base dell'esclusivo riferimento della normativa di settore agli «enti», concetto che «evoca l'intero spettro dei soggetti di diritto metaindividuali»; del tenore della relazione governativa e della circostanza che la responsabilità dell'ente ha natura «aggiuntiva e non sostitutiva» di quella delle persone fisiche, disciplinata dal diritto penale comune.

La più recente decisione, rilevando invece la indeterminatezza nell'individuazione dei destinatari della disposizione applicata, esclude che questa possa avvenire attraverso la espressa previsione o l'altrettanto espressa esclusione da parte del legislatore, ricorrendo, al contrario, al criterio dell'appartenenza «alla generale categoria degli enti forniti di personalità giuridica nonché di società e associazioni anche prive di personalità giuridica (art. 1, comma 2)». Considerando, poi, che l'attività d'impresa è attività che fa capo ad una persona fisica e non ad una persona giuridica, la Corte osserva come non possa negarsi che «l'impresa individuale (sostanzialmente divergente, anche da un punto di vista semantico, dalla c.d. "ditta individuale"), ben può assimilarsi ad una persona giuridica nella quale viene a confondersi la persona dell'imprenditore quale soggetto fisico che esercita una determinata attività: il che porta alla conclusione che, da un punto di vista prettamente tecnico, per impresa deve intendersi l'attività svolta dall'imprenditore-persona fisica per la cui definizione deve farsi rinvio agli artt. 2082 e 2083 c.c.». Date tali premesse, si rileva che un'interpretazione letterale della norma determinerebbe una concreta disparità di trattamento tra i soggetti che ricorrono a forme semplici di impresa rispetto a quelli che utilizzano strutture più

che spetta al giudice dare conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle che implicano la tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare. 27 Cass. Sez. II n.28699, 21 luglio 2010 in Cass. Pen. 5\2001 pag. 1889, con nota di DI GIOVINE «Sanità ed ambito applicativo della disciplina sulla responsabilità degli enti: alcune riflessioni sui confini tra pubblico e privato» ed in Giur. It. n. 1\2011, pag. 163, con nota di GRINDATTO «Sulla responsabilità da reato di una società azionaria svolgente attività ospedaliera» 28 Cass. Sez. II n. 234, 10 gennaio 2011 in Dir. e Prat. Lav. n.16\2011 pag. 978 con nota di PETRUCCI «Società pubbliche e modelli organizzativi». Le «società d'ambito» sono le società per azioni costituite per svolgere, secondo criteri di economicità, le funzioni in materia di raccolta e smaltimento dei rifiuti, trasferite alle stesse da un ente pubblico territoriale 29 Cass. Sez. V n.24583, 20 giugno 2011 in Cass. Pen. n.12\2011, pag. 4237 con nota di EPIDENDIO « Responsabilità degli enti e gruppi societari», in Dir. e Pr. Soc. n.11-12\2011, pag. 42 con nota di FANTETTI « La responsabilità dell'ente nel nuovo diritto dell'impresa» ed in Le Società n. 11\2001, pag. 1319 con nota di D'ARCANGELO «La responsabilità ex crimine della holding per i reati commessi nella gestione delle controllate» 30 CIPOLLA, op. cit., cui si rinvia anche per i riferimenti agli Autori dei singoli quesiti 31 Cass. Sez. III n.15657, 20 aprile 2011 in Cass. Pen. n. 7-8\2011, pag. 2556, con nota di PISTORELLI «L'insostenibile leggerezza della responsabilità da reato delle imprese individuali» 32 Cass. Sez. VI n.18941, 22 aprile 2004 in Riv. Pen. n. 2\2005, pag. 184

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complesse ed articolate, osservando come l'applicabilità delle disposizioni in esame sarebbe possibile per le società a responsabilità limitata «unipersonali», mentre resterebbe esclusa per le imprese individuali a struttura interna complessa. Un'interpretazione costituzionalmente orientata dovrebbe, al contrario, propendere per l'inclusione anche delle imprese individuali.

La menzionata decisione sposa, sostanzialmente, la soluzione interpretativa prospettata dal Pubblico Ministero ricorrente nell'ambito del procedimento poi definito con la menzionata pronuncia 18941\04 e ritenuta infondata dalla Suprema Corte, la quale, nel rigettare il ricorso del Procuratore della Repubblica, aveva anche confutato la ulteriore doglianza concernente la concreta possibilità che, accedendo ad una diversa lettura delle disposizioni applicate, per l'imprenditore indagato sarebbe stato possibile cambiare veste giuridica all'impresa, eludendo così facilmente la disciplina dettata dal d.lgs. 231\01, osservando come delle vicende modificative che possono interessare i soggetti destinatari delle disposizioni si occupassero, comunque, gli artt. 28 e seguenti del d.lgs. 231\01 ed affermando che, in ogni caso, la invocata interpretazione estensiva era impedita dal divieto di analogia in «malam partem» e si porrebbe in evidente contrasto con l'art. 25, comma secondo della Costituzione.

La tesi dell'estensione della responsabilità anche alle imprese individuali sostenuta dalla menzionata sentenza 15657\11 è stata oggetto di esame, in più occasioni, da parte della dottrina33 che, in alcuni casi , ha preso meramente atto delle conclusioni cui sono giunti i giudici di legittimità34 o segnalato il contrasto con il precedente,35 mentre in altri non ha risparmiato veementi critiche definendola «sorprendente»36, «disinvolta» e fondata su basi teoriche che «sembrano traballanti» mentre il mutamento di orientamento rispetto al precedente giurisprudenziale sarebbe «immotivato»37 ritenendo sostanzialmente errata l'interpretazione estensiva del concetto di «ente», la «nozione elastica di personalità giuridica»,38 violato il divieto di analogia ed insostenibile una lettura diversa da quella testuale e formulato altre argomentate motivazioni delle quali la Corte non potrà non tenere conto in successive pronunce.

Il rinvio ai «reati presupposto» ed il suo ambito di efficacia

Altra questione di rilievo che potrà prospettarsi nella concreta applicazione del d.lgs. 231\01 ai reati ambientali, è quella concernente la corretta individuazione dell'ambito di operatività del rinvio ai «reati presupposto».

La questione, sollevata in dottrina39, riguarda la necessità di accertare se il richiamo riguardi le specifiche disposizioni ovvero la fattispecie incriminatrice descritta dalla singola norma che consentirebbe di mantenere efficace il rinvio al «reato presupposto» anche in caso di successione di leggi.

33 V., ad es. PISTORELLI, op. cit.; PALIERO «Bowling a Columbine: la Cassazione bersaglia i basic principles della corporate liability» in Le Società n. 9\2011, pag.1075; MANNO «L'applicabilità del d.lgs. 231 del 2001 alle imprese individuali» in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec. n.3\2011, pag. 593; BIANCHI «Le imprese individuali nella rete del D.lgs. 231/2001» in Dir. Pen. e processo, n.9\2011 pag. 1115; FAILLA, SPAGNOLO e ALAMIA «Responsabilità amministrativa anche per le imprese individuali» in Guida al Lavoro n. 21\2011, pag. 90; AMARELLI «L'indebita inclusione delle imprese individuali nel novero dei soggetti attivi del D.lgs. n. 231/2001» in penalecontemporaneo.it 34 ANILE, op. cit.; 35 FIMIANI, op. cit.36 PISTORELLI, op. cit. ; PALIERO, op. cit.37 AMARELLI, op. cit. Anche PISTORELLI, op. cit. lamenta l'assenza di «una più rigorosa confutazione delle argomentazioni poste a fondamento dell'unico ed opposto precedente rinvenibile nella giurisprudenza di legittimità, che è invece stato frettolosamente accantonato senza un serio confronto con esso».38 PISTORELLI, op. cit.39 CIPOLLA, op. cit.

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La seconda opzione, avuto riguardo alla comprovata instabilità del sistema normativo in materia ambientale, soggetto ad un evoluzione continua e, spesso, imprevedibile ed alle finalità delle disposizioni in esame, parrebbe preferibile, anche se appare del tutto corretta la pretesa di un accertamento sulla effettiva sussistenza di continuità normativa ed «omogeneità strutturale» tra vecchia e nuova fattispecie che una simile opzione ermeneutica richiede40.

Le nozioni di «interesse» e «vantaggio»

Altro aspetto non secondario è rappresentato dalla esigenza di una corretta individuazione del concetto di «interesse» o «vantaggio» dell'ente conseguente al reato.

La giurisprudenza di legittimità ha sinora precisato che non pare condivisibile la definizione di endiadi attribuita da parte della dottrina alla locuzione «nel suo interesse o a suo vantaggio», diluendo in più parole un concetto unitario e ciò pur prescindendo dall'uso della congiunzione disgiuntiva, per il fatto dei diversi concetti espressi dai due vocaboli «...potendosi distinguere un interesse "a monte" della società ad una locupletazione - prefigurata, pur se di fatto, eventualmente, non più realizzata - in conseguenza dell'illecito, rispetto ad un vantaggio obbiettivamente conseguito all'esito del reato, perfino se non espressamente divisato "ex ante" dall'agente. Concorso reale, quindi, di presupposti, che pone un delicato problema di coordinamento, laddove disposizioni particolari della legge non ripetano entrambi i requisiti, ma facciano riferimento al solo interesse (articolo 5, secondo comma, in senso esimente per le azioni criminose commesse nell'interesse esclusivo del rappresentante o dipendente della società o di terzi; inserito con il D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, articolo 25 ter, comma 1, per la responsabilità amministrativa da reati societari previsti dal codice civile, se commessi nell'interesse nella società)»41.

Di non poco rilievo, rispetto alle tematiche ambientali, è l'individuazione dell'ampiezza attribuibile, in particolare, alla nozione di «vantaggio», essendo evidente il rilievo che potrebbe assumere un'interpretazione che porti a ricomprendervi anche il risparmio conseguente alla mancata predisposizione di apposite cautele al fine di impedire il reato.

Una simile soluzione interpretativa pare certamente preferibile, considerato che la maggior parte delle attività illecite che determinano fenomeni di inquinamento trae origine dalla esigenza di contenimento dei costi di adeguamento degli impianti alla vigente disciplina o, comunque, di quelli conseguenti all'espletamento di specifiche attività nel rispetto della normativa di settore (si pensi, ad esempio, all'inquinamento idrico o alla gestione dei rifiuti) ed il significato del termine.

In dottrina, pur rilevando che la questione resta, al momento, irrisolta, si è ricordato come depongano nel senso dell'interpretazione sopra prospettata le linee guida approvate dal Ministero della Giustizia l'8 aprile 2008 e relative agli illeciti amministrativi delle persone giuridiche riferite ai reati presupposto di cui all'art. 25-septies del d.lgs. 231\0142.

40 L'osservazione è sempre di CIPOLLA, op. cit. il quale ricorda anche come la giurisprudenza di merito abbia già avuto modo di escludere una simile situazione con riguardo al delitto di falsità nelle relazioni dei responsabili della revisione legale, introdotto dal d.lgs. 27 gennaio 2010 n. 39 (art. 27), non essendo stata riscontrata continuità normativa con l'originario delitto di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione previsto dall'art. 2624 c.c., abrogato dall'art. 37 comma 34 del medesimo d.lgs. n. 30 del 2010 (Trib Milano, sez. G.I.P., 3 novembre 2010, in rivista231.it). 41 Cass. Sez. II n.3615, 30 gennaio 2006 in Dir. e Prat. Soc. n. 8\2006, pag. 60 con nota di BERNARDO «Requisiti oggettivi della responsabilità degli enti dipendente da reato» 42 CIPOLLA, op, cit., il quale richiama, a sua volta, quanto osservato in BURLA, CIERI, MACCANI, «La responsabilità da reato dello società», Milano, 2009, pag. 67

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Tali osservazioni, sviluppate con riferimento alle ipotesi di responsabilità conseguente a casi di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, sono certamente utilizzabili anche riguardo ai reati ambientali a sostegno della soluzione sopra prospettata.

Protocolli organizzativi e certificazioni ambientali

Di non minore rilievo appare, inoltre, la questione concernente il valore dei protocolli organizzativi e dei compiti degli organi di vigilanza, sempre con riferimento alla ulteriore estensione dell'ambito di applicazione del d.lgs. 231\01.

L'art. 6 del decreto dispone, infatti, che, se il reato è stato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente da uno dei soggetti di cui all'art. 5, lettera a) (persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unita' organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso), l'ente non ne risponde se prova che : a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b) 43.

Il comma 2 della disposizione richiamata stabilisce, inoltre, che i modelli organizzativi, in relazione all'estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, devono rispondere alle seguenti esigenze: a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati; b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in relazione ai reati da prevenire; c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati; d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell'organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli; e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

Le suddette esigenze possono essere anche garantite, secondo quanto disposto dal comma 3 della disposizione in esame, adottando modelli di organizzazione sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, che vanno comunicati al Ministero della giustizia il quale, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare osservazioni, entro trenta giorni, sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati44.

Particolare rilievo assume anche il ruolo dell'organismo di vigilanza di cui all'art. 6, comma primo, lett. b),45 cui vengono attribuiti compiti essenziali nell'ambito del sistema dei modelli organizzativi ma che, per la laconicità della previsione normativa, che non ne definisce

43 La giurisprudenza di legittimità ha precisato che la persona giuridica che abbia omesso di adottare ed attuare il modello organizzativo e gestionale non risponde del reato presupposto commesso da un suo esponente in posizione apicale soltanto nell'ipotesi in cui lo stesso abbia agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi (Cass. Sez. VI n. 36083, 17 settembre 2009 in Cass. Pen. n.5\2010 pag. 1938, con nota di LEI «La responsabilità degli enti per mancata adozione dei modelli organizzativi»). 44V. artt. 5 e ss. del DM 26 giugno 2003, n. 201 «Regolamento recante disposizioni regolamentari relative al procedimento di accertamento dell'illecito amministrativo delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, ai sensi dell'articolo 85 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231»45 I compiti del quale, negli enti di piccole dimensioni, possono essere svolti direttamente dall'organo dirigente e, nelle società di capitali, dal collegio sindacale, dal consiglio di sorveglianza e dal comitato per il controllo della gestione (art. 6, commi 4 e 4-bis)

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puntualmente composizione, funzioni ed eventuali responsabilità, rende necessaria, nella pratica attuazione, la soluzione di diverse questioni46.

Dal tenore della disposizione appare evidente che l'indicazione contenuta nel comma 2 dell'art. 6 riguarda soltanto i requisiti minimi essenziali dei modelli organizzativi indicati, mentre la giurisprudenza e la dottrina hanno ulteriormente precisato che l'adozione di detti modelli non è obbligatoria per l'ente47; richiede una effettiva attuazione ed una costante verifica e non un'adozione soltanto formale; deve essere idonea e, conseguentemente, adeguarsi al contesto operativo dell'azienda, nonché prevedere adeguate risorse finanziare per fronteggiare situazioni di rischio, mentre la verifica dell'idoneità spetta al giudice di merito e non comporta ingerenza nelle scelte organizzative dell'impresa48.

Diversamente da quanto avvenuto in tema di salute e sicurezza sul lavoro,49 nulla si è però stabilito rispetto ai contenuti essenziali dei modelli organizzativi in materia ambientale, anche se da più parti50 si è guardato con attenzione alle certificazioni volontarie ambientali (Iso14001 - EMAS) «attraverso le quali un’impresa decide volontariamente di tenere sotto controllo le prestazioni ambientali delle proprie attività e si impegna in modo sistematico a migliorarle, nonché a sottoporsi alla valutazione di un soggetto certificatore esterno alla organizzazione, che verifica periodicamente il rispetto da parte dell’impresa controllata delle norme ambientali»51.

Il riferimento è accompagnato dall'osservazione che a tali strumenti di certificazione le vigenti disposizioni normative riconoscono un significativo rilievo, richiamando il d.lgs. 152\06 ed il d.l. 112\2008, convertito nella l. 133\2008.52

46 In dottrina ci si è interrogati sull'ambito di efficacia dei poteri attribuiti all'organismo di vigilanza, sulla sua composizione con soggetti interni o estranei all'ente, sulle conseguenze in caso di omessa vigilanza e, segnatamente, sui profili di responsabilità verso l'ente stesso e verso l'esterno. Si vedano, a es., le osservazioni di DE STEFANIS, «Profili di responsabilità dell'Organismo di Vigilanza ai sensi del d.lgs 231/2001» in Danno e resp., n. 4\2010, p. 329 e ss.; IEVA «Responsabilità degli enti ed efficacia esimente dei modelli organizzativi» in ipsoa.it/sicurezzaeambiente; FIMIANI op. cit. 47 Lo ricorda FIMIANI, op. cit., richiamando il contenuto di Cass. Sez. VI n.32626, 2 ottobre 2006 (in Cass. Pen. n. 11\2007 pag. 4228 con nota di RENZETTI «Misure cautelari applicabili agli Enti: primi interventi della Cassazione» 48 Le indicazioni provengono sempre da FIMIANI, op. cit., cui si rinvia per l'attenta analisi della giurisprudenza di merito in materia.49 Si veda quanto dispone l'art. 30 d.lgs. 81\200850 In dottrina VAGLIASINDI «La direttiva 2008/99/CE e il trattato di Lisbona: verso un nuovo volto del diritto penale ambientale italiano?» in Dir. comm. Internaz. 3\2010 pag. 449, afferma che «nella elaborazione dei compliance programs in materia ambientale, un utile modello di riferimento potrà essere rinvenuto nei cosiddetti «sistemi di gestione ambientale», alla cui adozione ed attuazione il regolamento (CE) n. 1221/2009? — che sostituisce il precedente regolamento (CE) n. 761/2001 — subordina l'ottenimento della certificazione ambientale EMAS, il cui possesso determina significative agevolazioni (ad esempio, la maggiore durata delle autorizzazioni ambientali), oltre che vantaggi competitivi derivanti dalla maggiore compatibilità ambientale, sempre più considerata dai «consumatori» come un decisivo parametro di scelta.». Analoghi richiami alle certificazioni volontarie ambientali sono effettuati da FIMIANI, op. cit.; RUGA RIVA, op. cit. Si veda anche, per un raffronto tra sistemi di certificazione e d.lgs. 231\2001, ALDINI «D.lgs. 121\2001 e «modello 231»: norma ISO 14001 e regolamento EMAS» nel volume a cura di MAGLIA - PAVANELLO «D.lvo 231 ambiente. Le nuove responsabilità ambientali» Piacenza, 201151 La definizione è di Confidustria (osservazioni allo schema di d.lgs., cit.) ed era unita all'auspicio che il legislatore «fornisse alle imprese criteri per l’implementazione dei modelli organizzativi esimenti, definendo eventualmente una serie di obiettivi e alcuni requisiti minimi da rispettare e sancendo la presunzione di idoneità dei modelli organizzativi definiti conformemente alla norma Uni En ISO 14001 ovvero al Regolamento EMAS, o modelli equivalenti».52 Nelle osservazioni di Confidustria ed in FIMIANI, op. cit. si richiamano l'art. 212, comma 10 del d.lgs. 152\06 che, in tema di attività di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, prevede una riduzione delle garanzie finanziarie a favore dello Stato pari al 40% in caso di imprese in possesso della certificazione ambientale ai sensi della norma Uni En Iso 14001 e l'art. 30 comma 1, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133), il quale prevede che «per le imprese soggette a certificazione ambientale o di qualità rilasciata da un soggetto certificatore accreditato in conformità a norme tecniche europee ed internazionali, i controlli periodici svolti dagli enti certificatori sostituiscono i controlli amministrativi o le ulteriori attività amministrative di verifica, anche ai fini dell'eventuale rinnovo o aggiornamento delle autorizzazioni per l' esercizio dell' attività. Le verifiche dei competenti organi amministrativi hanno ad oggetto, in questo caso, esclusivamente l'attualità e la completezza della certificazione».

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Si tratta di osservazioni pienamente condivisibili che potrebbero consentire, nell'elaborazione dei modelli organizzativi, di utilizzare le certificazioni ambientali come base di riferimento, anche se queste ultime non possono certamente considerarsi come sostitutive né, costituire, in mancanza di una espressa previsione normativa, diversamente da quanto avviene in tema di salute e sicurezza sul lavoro53, il presupposto per una presunzione di idoneità.

Si è infatti correttamente richiamata l'attenzione, a tale proposito, sulla diverse finalità tra i modelli organizzativi definiti dal d.lgs. 231\2001 ed i criteri cui si ispira il sistema delle certificazioni ambientali evidenziando, peraltro, la necessità di considerare, ai fini della predisposizione del modello organizzativo, anche la delega di funzioni, in ragione della sua rilevanza anche di tipo organizzativo, attraverso l'individuazione delle funzioni delegabili e della loro concreta attuazione alla luce dei principi già elaborati dalla giurisprudenza in materia, con conseguente incidenza sui criteri di imputazione delle responsabilità54.

Conclusioni

In definitiva, l'estensione ai reati ambientali della responsabilità degli enti non potrà che alimentare ulteriormente l'articolato dibattito che ha già da tempo impegnato la dottrina, rendendo necessaria una rinnovata valutazione di questioni già trattate in considerazione della particolarità della materia, tenendo ovviamente conto dei contributi già offerti e delle criticità già emerse.

Non può farsi a meno di rilevare, infine, che nella negativa valutazione dei risultati conseguenti al primo decennio dalla sua entrata in vigore il d.lgs. 231\2001, un ruolo non secondario viene attribuito anche alla «esitazione» con la quale la magistratura ha utilizzato gli strumenti sanzionatori offerti dal decreto, testimoniata dall'esiguo numero di provvedimenti e dalla mancanza di un effettivo decremento delle condotte illecite ed è auspicabile che il recente intervento modificativo rinnovi l'interesse per la materia contribuendo, così, anche alla soluzione dei dubbi interpretativi ancora non risolti.

Luca RAMACCI

FIMIANI richiama, inoltre, l'art. 209 del d.lgs. 152\06, relativo al rinnovo delle autorizzazioni alle imprese in possesso di certificazione ambientale.53 L'art. 30, comma 5 del dlv. 80\2008, stabilisce, infatti, che «in sede di prima applicazione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida UNI-INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono conformi ai requisiti di cui al presente articolo per le parti corrispondenti».54 FIMIANI, op. cit.

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ARTICOLO 674 CODICE PENALE , EMISSIONI IN ATMOSFERA E GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

L'art 674 cod. pen. è una delle disposizioni codicistiche maggiormente applicate per la tutela penale dell'ambiente sin da quando ancora mancava una specifica disciplina di settore ed attualmente utilizzate per rafforzarne l'efficacia, come avvenuto anche, riguardo all'inquinamento idrico, per l’articolo 635 cod. pen.1 e per i reati di avvelenamento ed adulterazione di acque (artt. 439, 440, 452 C.P. )2 e, con riferimento all'inquinamento da rumore, con l'utilizzazione dell’articolo 659 cod. pen. anche dopo la «legge quadro» 447\953.

La ragione del diffuso ricorso alla contravvenzione che sanziona il getto pericoloso di cose è rinvenibile nella possibilità di ricondurre nella sua fattispecie astratta condotte diverse, concernenti l'inquinamento idrico (riconoscendo la possibilità del concorso, dapprima con le violazioni previste dalla legge 319\764 e, poi, anche con quelle contemplate dalle disposizioni successivamente entrate in vigore5), quello atmosferico e quello da campi elettromagnetici, procedendo, in tale ultimo caso, dapprima a delinearne l’ambito di applicazione rispetto a tale particolare fenomeno, allora costituente un'assoluta novità, per poi divenire oggetto di rinnovato interesse, dopo un periodo di relativo silenzio, in occasione della vicenda concernente la “Radio Vaticana”.

Una situazione particolare, che ha dato luogo ad incertezze interpretative, ha riguardato la questione relativa alle «emissioni» in atmosfera, cui la fattispecie delineata dall'art. 674 cod. pen. maggiormente si attaglia, non soltanto per la relativa semplicità di accertamento rispetto ai reati ora disciplinati dal d.lgs. 152\06 e, ancor prima, dal d.P.R. 203\88, i quali richiedono analisi complesse e dispendiose6, ma anche per la possibilità di applicare la contravvenzione alle situazioni più disparate, non riguardanti soltanto le emissioni di origine industriale, ma anche quelle causate da caldaie a metano per il riscaldamento7, le molestie conseguenti indirettamente dalla emissione di fumi attraverso la canna fumaria quali risultato del riscaldamento della canna fumaria medesima e dalla propagazione del calore attraverso le pareti8, le esalazioni maleodoranti provenienti non solo

1 V. da ultimo Cass. Sez. III n. 31485 del 29\7\2008, Valentini (in www.lexambiente.it) ove si è anche precisato che “in tema di inquinamento di due corsi d'acqua provocato dalla fuoriuscita del percolato il giudice non può fondare un giudizio di responsabilità sula sola base di analisi microbiologiche attestanti un grave inquinamento biologico, senza nulla affermare a proposito dell'esistenza di un danno strutturale dei corsi d’acqua medesimi e, soprattutto, sull'elemento psicologico del reato”.

2 V. Cass. Sez. V n. 23465 del 22\6\2005, PM in proc. Laghi ed altri. Fattispecie nella quale era stata emessa misura cautelare personale in relazione allo smaltimento - mediante spandimento su terreni agricoli - di fanghi provenienti da un depuratore e contenenti sostanze pericolose in quantità superiori al consentito. Il Tribunale del riesame aveva rilevato la mancata dimostrazione, sia pure a livello indiziario, del fatto che nei fanghi vi fossero sostanze pericolose in quantità tali da dare luogo ad effettivo pericolo di contaminazione di acque di falda, pozzi e coltivazioni. La Corte ha ritenuto che tale assunto fosse corretto.

3 Per approfondimenti rinvio a L. RAMACCI “Inquinamento da rumore e tutela penale” in Giur. Merito n. 12\20074 ILa possibilità di concorso è stato sempre ammesso in considerazione delle diverse finalità perseguite dalle diverse

disposzioni. V. ad es. Sez. III n.11329 del 25\11\198, Marzaduri; Sez. VI n. 13615 del 16\5\1980, Biasin e Sez. I n. 17573 del 19\12\1989, Bimonte

5 Cass. Sez. III n.37945 del 7\10\2003, Graziani6 Sul punto v., da ultimo, Cass. Sez. III n. 42533 del 14\11\2008, Palberti in www.lexambiente.it7 Cass. Sez. III Sent. 35730 del 28\9\2007, Bodrato in www.lexambiente.it8 In questo caso, tuttavia, la Cassazione ha escluso l’applicabilità dell’articolo 674 c.p., osservando che l’art. 844 c.c.

espressamente annovera tra gli elementi potenzialmente idonei a recare molestie, le immissioni di calore, allorché superino la normale tollerabilità, che non sono invece menzionate nella fattispecie penale, con la conseguenza che risulta evidente come il fenomeno predetto non sia riferibile alla esistenza di interessi collettivi, la cui tutela giustifica l'intervento sanzionatorio dello Stato, ma riguardi esclusivamente il libero godimento del diritto di proprietà, la cui compressione consente il ricorso agli strumenti di natura privatistica che sono posti a tutela di tale diritto (Cass. Sez. III n. 9853 del 4\3\2009, Festa in www.lexambiente.it)

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da impianti9, ma anche da deiezioni animali,10 non escludendosi neppure l'ipotesi dell'inquinamento da traffico veicolare11.

Oggetto di particolare attenzione è stata la seconda parte dell’articolo in esame, laddove prevede la rilevanza penale di emissioni di gas vapori o fumi “nei casi non consentiti dalla legge”, secondo uno schema che, come osservato in dottrina, non era in precedenza previsto dal codice penale Zanardelli e la cui introduzione è volta a chiarire che “le nozioni di getto e di versamento non possono essere estese fino a comprendere la propagazione o la diffusione di determinate sostanze nello spazio aereo circostante” e non sarebbe giustificata se la prima parte della fattispecie potesse estendersi fino a ricomprendere tale possibilità12.

La giurisprudenza ha invece giustificato la ragion d'essere della seconda parte dell'art. 674 evidenziando l'intenzione del legislatore di effettuare “un bilanciamento di opposti interessi”, tale da consentire l’esercizio di attività socialmente utili rispettando limiti di legge al superamento dei quali “riacquista prevalenza l’esigenza di tutela dell’incolumità pubblica”13.

La necessità di individuare l'effettiva portata della seconda parte dell'art. 674 cod. pen. ha però determinato l'individuazione di soluzioni interpretative non sempre uniformi da parte della giurisprudenza di legittimità.

Si è così dapprima negato che il possesso di un’autorizzazione amministrativa all’esercizio di una determinata attività escluda in ogni caso la sussistenza del reato configurabile qualora le emissioni superino la normale tollerabilità e siano comunque eliminabili attraverso opportuni accorgimenti tecnici14. In altre occasioni, invece, la configurabilità del reato è stata esclusa nel caso in cui le emissioni di gas, vapori e fumi molesti siano conseguenza di un'attività regolarmente autorizzata e risultino inferiori ai limiti previsti per l’inquinamento atmosferico15.

Tale ultimo orientamento è stato poi ribadito affermando che la clausola normativa «nei casi non consentiti dalla legge» costituisce una precisa indicazione della necessità che, per essere penalmente rilevanti, le emissioni debbono violare le norme di settore che disciplinano l'inquinamento atmosferico, cosicché il rispetto di queste norme integra una presunzione di liceità 9 V. ad es. Cass. Sez. III n. 3042 del 21\1\2008, Cannavò in www.lexambiente.it. Sulla equiparazione degli odori ai

gas v. Cass. Sez. III n.11556 del 31\3\2006, Davito. Sulla applicabilità dell’articolo 674 c.p. alle emissioni di odori si veda in dottrina BUTTI “Emissioni di odori e tutela ambientale” in Giur. Merito n. 4 -5\2002 pag. 1180

10 Cass. Sez. III n. 6097 del 7\2\2008, Sasso; Sez. III n.32063 del 31\7\2008, Imperadori, Sez. III n. 19206 del 13\5\2008, Crupi e altro tutte in www.lexambiente.it

11 L'inquinamento da traffico veicolare era all'origine di un procedimento aperto dalla Procura della Repubblica di Firenze che aveva tratto a giudizio, tra l'altro, anche per la violazione dell'art. 674 cod. pen., alcuni amministratori locali poi assolti dal Tribunale con sentenza del 17.5.2010 per insussistenza del fatto.

12 Così GIZZI “Inquinamento elettromagnetico e getto pericoloso di cose” in Cass. Pen. n. 9\2008 pag. 3438. L’A. richiamando MANZINI (“Trattato di diritto penale italiano”, vol. IX, Utet, 1923, p. 340) ricorda anche come, sotto il vigore del codice Zanardelli, la fattispecie del getto pericoloso di cose non incriminasse espressamente la produzione di emissioni pericolose, poiché si riteneva che la condotta di colui che provocava emissioni, ancorché atte a offendere o imbrattare le persone, non integrasse la contravvenzione in esame, perché non costituiva getto o versamento di cose.

13 Così Cass. Sez. I n.3919 del 28\4\1997, Sartor 14 V. Cass. Sez. III n. 11295 dell’ 1\10\1999, Zompa ed altro in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ. Con nota di VERGINE ;

Sez. I n. 12497 del 4\11\1999, De Gennaro; Sez. I n. 739 del 21\1\1998, PM in proc. Tilli; Sez. I n.863 del 27\1\1996, Celeghin; Sez. I n. 477 del 19\1\1994, Grandoni; Sez. I n. 9826 del 19\11\1983, Guzio in Giust. Pen. n. 6\1984 pag. 330 ed altre prec. conf.

15 Cass. Sez. I n. 697 del 7\7\2000, Meo. Conf. Sez. I n.5932 del 13 febbraio 2002, PM in proc. Tulipano, Sez. I n. 25660 dell’ 8 giugno 2004, Invernizzi ed altri. Si vedano, inoltre, Sez. I n.16728 del 8\4\2004, Pardoi in Riv. Pen. n. 11\2004 pag.1107 e in questa Riv. n. 3\2005 pag. 275 con nota di FUZIO “Il sistema sanzionatorio in materia di emissioni inquinanti nell’aria” ibid. pag. 261;

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penale.

Nell’ipotesi in cui le emissioni, pur rispettando norme specifiche, arrechino concreto disturbo ai proprietari dei fondi vicini, superando la normale tollerabilità, si è invece ritenuto configurabile il solo illecito civile contemplato dall'art. 844 cod. civ., la cui valutazione presuppone che vengano contemperate le ragioni della proprietà con le esigenze della produzione16.

La questione del superamento dei limiti di tollerabilità, si è ulteriormente precisato, riguarda le attività autorizzate, quando l'emissione di fumi e vapori ne costituisce il risultato diretto, con la conseguenza che, se l'emissione, sebbene autorizzata, non sia il risultato naturale dell'attività ma dipenda da deficienze dell'impianto o da negligenze del gestore, ai fini della configurabilità del reato sarebbe sufficiente la semplice idoneità a creare molestia alle persone17.

Altre pronunce, ancorché isolate, si attestavano però nuovamente sull’orientamento originariamente adottato,18 determinando un contrasto ufficialmente segnalato dall’Ufficio del massimario in almeno due occasioni,19 cui facevano seguito altre sentenze che focalizzavano ulteriormente i termini della questione,20 richiamando anche i diversi orientamenti e ribadendo che, nel caso in cui “…esistano precisi limiti tabellari fissati dalla legge, non possono ritenersi "non consentite" le emissioni che abbiano, in concreto, le caratteristiche qualitative e quantitative già valutate ed ammesse dal legislatore. Nei casi, invece, in cui non esiste una predeterminazione normativa, spetterà al giudice penale la valutazione della tollerabilità consentita, ma pur sempre con riferimento ai principi ispiranti le specifiche normative di settore”. 21

16 Così Cass. Sez. III n. 16818 del 3\5\2007, Cattarini. V. Sez. III n. 9757 del 3\3\2004, P.M. in proc. Pannone in Riv. Pen. 10\2004 pag. 977; Sez. III n.38297 del 29\9\2004, P.M. in proc. Providenti ed altri che, nel richiamare i diversi orientamenti in materia, rileva anche che ai fini della configurabilità del reato “…all’espressione “nei casi non consentiti dalla legge” non può ricondursi (in caso di mancato superamento dei limiti massimi di accettabilità) l’innosservanza degli obiettivi di qualità (secondo le specificazioni date dalle norme che regolano l’inquinamento atmosferico). Il raggiungimento di tali obiettivi, infatti, (che costituisce un’applicazione del principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile” al quale sono improntate molte normative in materia ambientale e di sicurezza del lavoro) è previsto in quanto possibile, nei tempi e con le modalità fissate dalla legge ” (fattispecie riguardante responsabilità omissive di pubblici amministratori con riferimento all’inquinamento da traffico veicolare); Sez. III n.9503 del 10\2\2005, Montanaro, Sez. III n. 8399 del 9\3\2006 PM in proc. Tortora ed altri in Cass. Pen. n. 9\2007 pag. 3332 con nota di MONTAGNA, Sez. III n. 33971 del 10\10\2006, Bortolato; Sez. III n.1869 del 23\1\2007, Gigante; Sez. III n. 21814 del 5\6\2007, Pierangeli; Sez. III n.41582 del 12\11\2007, Saetti ed altro. Sulla possibilità di desumere il superamento del limite di normale tollerabilità sulla base della natura abusiva dell’insediamento e da altre circostanze, quali reiterate denunce e segnalazioni da parte dei vicini e ripetute verifiche da parte dell’autorità preposta al controllo, v. Cass. Sez. III n.11556 del 31\3\2006, Davito. In dottrina (Cass. Pen. n. 6\2006 pag. 2116) v. SABATINI “Rapporti tra l‘art.674 c.p. e l’art. 844 c.c. un problema ancora aperto” .

17 Cass. Sez. III n. 40191 del 9\10\2007, Schembri.18 Cass. Sez. III n. 38936 del 24\10\2005, Riva, Cass. Sez. III n.15821 del 22\11\2004, Baldassarre.19 Rel. n. 74/04 del 14 luglio 2004 (in www.lexambiente.it). La relazione si conclude evidenziando che il contrasto

risultava già comunicato con segnalazione 20 ottobre 2000 n. 1125, cui si rinviava per le ulteriori e più risalenti citazioni giurisprudenziali.

20 Lo stesso Autore della relazione citata nella nota precedente precisava, in una successiva occasione, con riferimento alla questione, che “…mentre nessun problema si pone nel caso le emissioni superino gli standard fissati dalla legge, nel qual caso il reato di cui all'art. 674 c.p. concorrerà con quelli originariamente previsti dal d.P.R. n. 203 del 1988 ed oggi dalla Parte V del d.lg. 3 aprile 2006, n. 152, diversamente quando, pur essendo contenute nei limiti di legge, le emissioni abbiano arrecato e arrechino concretamente fastidio alle persone, superando la normale tollerabilità, non si potrà fare a meno di valutare nel merito la avvenuta adozione delle misure offerte dalla migliore tecnologia disponibile (MTD); in caso di risposta negativa non potrà escludersi la responsabilità per violazione dell'art. 674 c.p., diversamente, in caso di avvenuta predisposizione di tecniche aggiornate, la stessa resterà esclusa in quanto, nella valutazione della responsabilità, l'elemento dell'oggettivo disturbo recato a terzi non potrà prescindere dal dato dell'assenza di un sia pur minimo coefficiente di colpevolezza” (MONTAGNA, Nota a Cassazione penale del 9 marzo 2006 in Cass. Pen. n. 9\2007 pag. 3332 cit.).

21 Cass. Sez. III n. 41366 del 6 novembre 2008, D’Auria in www.lexambiente.it Gli stessi principi erano contenuti in Sez. III n. 15653 del 16\4\2008, Colombo ed altri

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Successivamente, trattando la già menzionata questione concernente la «Radio Vaticana», la Corte di cassazione, considerando l’applicabilità dell’articolo 674 cod. pen. al fenomeno dell'inquinamento elettromagnetico, ha confermato il principio secondo cui il reato non è configurabile quando «le emissioni provengano da una attività regolarmente autorizzata o da una attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali e siano contenute nei limiti previsti dalle leggi di settore o dagli specifici provvedimenti amministrativi che le riguardano, il cui rispetto implica una presunzione di legittimità del comportamento», ritenendolo tuttavia non applicabile esclusivamente alla seconda parte dell'art. 674 cod. pen., nella quale non rientrano le onde elettromagnetiche in quanto diverse da gas, vapori o fumo, perché ciò condurrebbe all'irrazionale conseguenza che la contravvenzione sarebbe integrata anche nel caso di emissione di onde elettromagnetiche avvenuta nell'esercizio di una attività autorizzata o disciplinata per legge ed in assenza di superamento dei limiti fissati dalla legge, dai regolamenti o da specifici atti amministrativi, solo perché vi sia possibilità di offesa o molestia, restando invece esclusa per tutte le altre attività anch'esse autorizzate o disciplinate da leggi speciali, operando una presunzione di legittimità delle emissioni22.

Si perveniva così alla conclusione che la violazione è configurabile (anche con riferimento al primo comma) soltanto quando sia stato provato, in modo certo ed oggettivo, il superamento dei limiti previsti dalle norme speciali e sia stata obiettivamente accertata una effettiva e concreta idoneità delle emissioni ad offendere o molestare le persone esposte, ravvisabile non in astratto, per il solo superamento dei limiti, ma soltanto a seguito di un accertamento (da compiersi in concreto) di un effettivo pericolo oggettivo, e non meramente soggettivo.

La portata del principio affermato dalla Corte, estensibile anche alle ipotesi diverse dall'inquinamento elettromagnetico, è stata oggetto di una veemente critica da parte della dottrina, motivata dalla preoccupazione per le possibili conseguenze anche con riferimento ad altre fattispecie di reato23.

L'opzione ermeneutica veniva successivamente riproposta,24 ma a distanza di poco tempo la stessa sezione, in diversa composizione del collegio, riprendeva addirittura l’orientamento ormai abbandonato, con testuale richiamo alla massima della sentenza 38936/05 e l'affermazione che “il reato di cui all'art. 674 c.p. si configura in presenza di un evento di molestia provocato dalle emissioni di gas, fumi o vapori non solo nei casi di emissioni inquinanti in violazione dei limiti di legge, ma anche quando sia superato il limite della normale tollerabilità ex art. 844 cod. civ”25.

Tale evenienza non è sfuggita alla dottrina,26 che ha auspicato un intervento chiarificatore da parte della stessa terza sezione o delle Sezioni Unite, pur se tale ultimo arresto giurisprudenziale altro non conteneva se non un mero richiamo all’orientamento minoritario senza alcuno specifico riferimento alle altre decisioni. In una successiva pronuncia,27 la Cassazione è tornata a considerare la configurazione giuridica

22 Cass. Sez. III n. 36845 del 26\9\2008, PG in proc. Tucci ed altro in www.lexambiente.it (si veda il punto 11.2)23 AMENDOLA “Radio Vaticana, elettrosmog e cassazione: una sentenza molto discutibile” in www.lexambiente.it24 Cass. Sez. III n.15707 del 15\4\2009 Abbaneo che si segnala anche per i riferimenti alle ipotesi in cui il

superamento dei limiti sia dovuto alla compresenza di più impianti (di identico contenuto anche le sentenze nn. 15708-15709-15710-15711-15712-15713-15714-15715-15716 depositate in pari data)

25 Cass. Sez. III n. 15734 del 15\4\2009, Schembri. Le due decisioni, depositate lo stesso giorno sono state in realtà prese in due diverse camere di consiglio, la prima - citata nella nota precedente – il 9 gennaio 2009 e la seconda il 12 febbraio 2009

26 AMENDOLA (“Art. 674 c.p., emissioni moleste e inquinamenti. la cassazione ci ripensa?” in www.lexambiente.it). L'A. osservava: “…non è possibile che, nell’ambito di una norma penale fondamentale per la tutela dagli inquinamenti quale è l’art. 674 c.p., permanga una incertezza totale su quale sia l’orientamento della Suprema Corte”.

27 Cass. Sez. III n. 16286 del 17\4\2009, Del Balzo. Si noti, tuttavia, che la sentenza è stata pronunciata nella pubblica

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della contravvenzione, analizzandone la composizione ed evidenziando che le due ipotesi di reato previste hanno in comune lo stesso evento di pericolo e si distinguono, però, per la condotta e per l’oggetto materiale, con la conseguenza che, in entrambi i casi, l’evento del versamento o dell’emissione è distinguibile dalla condotta che lo provoca e che può essere sia attiva che omissiva28.

Quanto alla natura del reato29, la Corte ha preso nuovamente in esame la questione e, pur avendo inquadrato la fattispecie relativa alla diffusione di polveri nel primo comma dell’articolo 674 cod. pen., ha comunque tenuto conto di quanto affermato con la sentenza “Tucci” sulla vicenda della Radio Vaticana relativamente alla estensione in via analogica dell'applicazione anche al primo comma della clausola «nei casi non consentiti dalla legge» contenuta nel comma successivo.

A tale proposito ha individuato le ragioni che avevano determinato tale decisione nella «condivisibile esigenza garantista a favore dell’imputato, il quale non può vedersi condannato per una emissione in atmosfera che la legge speciale consente e valuta come tipicamente non pericolosa, non cambiano nel caso concreto le conseguenze in ordine alla affermata responsabilità dell’imputato», chiarendo però che detta clausola non deve ritenersi applicabile con riferimento a tutte le emissioni conseguenti ad attività regolamentate ed autorizzate, assumendo invece rilievo solo per le emissioni specificamente consentite mediante limiti tabellari o altre determinate disposizioni amministrative, le uniche che possono presumersi legittime a differenza di quelle, connesse più o meno direttamente all’attività produttiva regolamentata, che il legislatore non ha specificamente disciplinato o che addirittura ha considerato pericolose perché superiori ai limiti tabellari, o che ha voluto comunque evitare attraverso misure di prevenzione e di cautela imposte all’imprenditore.

La Corte ha così riproposto un principio già affermato in precedenza 30 alla luce della “sentenza Tucci” ma una successiva decisione31 ha nuovamente ribadito il principio secondo il quale la configurabilità del reato di getto pericoloso di cose è esclusa in caso di emissioni (nella specie, di polveri) provenienti da attività autorizzata o disciplinata dalla legge e contenute nei limiti normativi o dell'autorizzazione, in quanto il rispetto dei predetti limiti implica una presunzione di legittimità del comportamento, richiamando diffusamente in precedenti, ma pur richiamando la differenza tra fumi e polveri evidenziata dalla sentenza «Del Balzo», ne prende poi espressamente le distanze relativamente alla parte in cui si afferma che «la clausola "nei casi non consentiti dalla legge",

udienza del 18 dicembre 2008, quindi dopo la decisione sulla Radio vaticana ma prima delle sentenze di cui si è detto nelle due note precedenti. A tale pronuncia aderisce anche Cass. Sez. III n.16422 del 27\4\2011, Busatto

28 Riguardando il caso esaminato una ipotesi di diffusione di polveri, la Corte prende in esame anche le differenze tra fumi e polveri chiarendo che “…nel linguaggio corrente s’intende per "polvere" un "insieme incoerente di particelle molto minute e leggere di terra arida, detriti, sabbia ecc., che, sollevate e trasportate dal vento, si depositano ovunque". S’intende invece per "fumo" il "residuo gassoso della combustione che trascina in sospensione particelle solide in forma di nuvola grigiastra o bianca". Ne deriva che, pur trattandosi sempre di minuscole particelle, il fumo si distingue dalla polvere perché è sempre un prodotto della combustione, sicché la polvere, essendo prodotto di frantumazione, ma non di combustione, non può essere ricompresa nella nozione di fumo. In conclusione, quindi, la diffusione di polveri nell’atmosfera va contestata come versamento di cose ai sensi della prima ipotesi dell’art. 674 c.p. e non come emissione di fumo”.

29 Afferma tra l’altro la sentenza che “…si deve negare che le due ipotesi contravvenzionali previste nell’art. 674 c.p. configurino necessariamente reati di condotta attiva. A ben vedere esse si atteggiano come reati di evento pericoloso, dove l’evento può essere cagionato da una condotta attiva od omissiva, dolosa o colposa: nel caso della contravvenzione codicistica si tratta di un evento di pericolo concreto, consistente nell’attitudine delle cose o delle emissioni a imbrattare, offendere o molestare le persone, che deve essere concretamente accertata dal giudice. Si deve pertanto concludere che il reato de quo nei congrui casi può anche atteggiarsi come reato commissivo mediante omissione (cd. reato omissivo improprio) ogni qual volta il pericolo concreto per la pubblica incolumità derivi (anche) dalla omissione (dolosa o colposa) del soggetto che aveva l’obbligo giuridico di evitarlo”.

30 Cass. Sez. III n. 40191 del 9\10\2007, Schembri cit. Il principio è ribadito, ancor più dettagliatamente, in Sez. III n. 2475 del 17\1\2008, Alghisi

31 Cass. Sez. III n. 40849 del 18/11/2010, Rocchi

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contemplata nell'art. 674 cod. pen., non è riferibile alla condotta di getto o versamento pericoloso di cose di cui alla prima parte della norma citata, ma esclude il reato solo per le emissioni di gas, vapori o fumo che sono specificamente consentite attraverso limiti tabellari o altre determinate disposizioni amministrative. (Fattispecie nella quale è stata esclusa l'applicabilità di tale clausola in un caso di diffusione di polveri nell'atmosfera provocate nel corso di un'attività produttiva)».

Si richiamano, a tale proposito, la già affermata unicità del reato in esame e le ragioni già espresse nella sentenza «Tucci». Non vengono tuttavia criticate le articolate argomentazioni , in precedenza ricordate, che tenuto conto proprio dei contenuti della sentenza «Tucci», sostengono la tesi dell'applicabilità della presunzione di legittimità alle sole attività autorizzate o normativamente disciplinate escludendola per le altre.

Tale determinante distinguo non viene dunque espressamente confutato e sembrano implicitamente condividerne il senso anche altre decisioni successive32, cosicché sembra potersi ritenere raggiunta una certa stabilità di orientamento.

32 Cass. Sez. III n.37495 del 17 ottobre 2011, PM in proc. Dradi ed altro, commentata diffusamente da PAONE «Emissioni in atmosfera, molestia alle persone e intervento giudiziario (nota a Cass. pen. n. 37495/2011)»in Ambiente e Sviluppo n. 4\2012 pag.313 (ma reperibile anche in lexambiente.it) con interessanti osservazioni in ordine alla natura di reato di pericolo astratto o pericolo concreto della contravvenzione e sulla possibilità di un superamento della presunzione di legittimità delle emissioni. V. anche Cass. Sez. III n.34896 del 27/09/2011, Ferrara; Cass. Sez. III n.2377 del 20/01/2012, Landi che, analizzando vicende concernenti molestie olfattive, evidenziano l'assenza di una specifica disciplina e di valori limite in materia di odori tale da rendere operativa la presunzione di legittimità.

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IL «DISASTRO AMBIENTALE» NELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

La politica legislativa in materia ambientale, caratterizzata, come è noto, dall'adozione di disposizioni di dubbia efficacia, tra loro non coordinate e, non raramente, finalizzate alla tutela di interessi particolari e diversi dalla tutela dell'ambiente e della salute delle persone1, rende ancora oggi valido il ricorso alle ben collaudate disposizioni del codice penale per perseguire condotte illecite anche gravi, le quali resterebbero, altrimenti, prive di sanzioni.

Tra le varie norme codicistiche ha trovato applicazione, tra l'altro, l'articolo 434 cod. pen., la cui funzione di norma complementare e di chiusura del sistema dei delitti contro la pubblica incolumità ben si attaglia ad alcune condotte di sicuro rilievo in campo ambientale.

La giurisprudenza di merito e, sopratutto, quella di legittimità, ne hanno fatto, in questo specifico settore, un uso sicuramente ponderato e rispondente ai criteri generali fissati per tale tipologia di reati, fortunatamente sfuggendo a quegli inopportuni sensazionalismi, indotti dal richiamo della ribalta mediatica, che abusando della suggestione semantica di termini quali «ecomafia» e, appunto, «disastro ambientale», hanno come unico effetto quello di banalizzarne il significato e ridurre l'attenzione della pubblica opinione, ormai assuefatta, su fatti di rilievo riconducibili ad attività criminali di sicura gravità.

Sulla rilevanza dell'evento considerato dall'art 434 cod. pen., infatti, non vi è dubbio, essendosi costantemente affermato che questo delitto richiede il verificarsi di un avvenimento grave e complesso, tale da costituire un pericolo per la vita e la incolumità delle persone, indeterminatamente considerate.2

Il delitto è configurabile anche nella forma colposa (artt. 434 e 449 cod. pen.) e richiede, in tal caso, che l'evento si verifichi, a differenza di quanto avviene per l'ipotesi dolosa (art. 434, comma primo, cod. pen.), ove la soglia per integrare il reato è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità e, nel caso in cui il disastro si verifichi, viene a concretarsi la fattispecie aggravata prevista dal secondo comma dello stesso art. 4343.

Si è comunque successivamente specificato, con riferimento al disastro colposo di cui all'art. 449 cod. pen., che è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità «nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l'effettività' della capacita diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) deve essere accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, casualmente, l'evento dannoso non si è verificato»4.

1 Si è già avuto modo di parlarne, ad esempio, in Ambiente e Sviluppo n. 9\2007 pag. 788 e ss., «La repressione delle violazioni penali in materia ambientale: limiti attuali e prospettive future»

2 Tale aspetto è stato considerato nell'individuare le differenze tra le due ipotesi di reato, l'una delittuosa e l'altra contravvenzionale, previste dall'art. 449 cod. pen., con riferimento all'art. 434 e dall'art. 676, rilevabili non soltanto nel fatto che il soggetto attivo del delitto può essere chiunque, mentre soggetti attivi della contravvenzione possono essere esclusivamente il progettista ed il costruttore, ma anche e soprattutto per la differenza inerente all'elemento materiale e, particolarmente, per la maggiore gravità dell'avvenimento che caratterizza il delitto rispetto alla contravvenzione (Cass. Sez. VI n.1462, 18 ottobre 1967, conf. Sez. IV n. 730, 2 novembre 1970; Sez. IV n. 4823, 25 maggio 1983; Sez. IV n. 8171, 25 settembre 1985; Sez. IV n.9553, 14 settembre 1991; Sez. I n. 30216, 17 luglio 2003 in Giust. Pen. n. 5\2004 pag. 273; Sez. I n. 47475, 11 dicembre 2003)

3 Cass. Sez. IV n. 4675, 6 febbraio 2007 in Cass. Pen. n. 7-8\2009 pag. 2887 con nota di DI SALVO « Esposizione a sostanze nocive, leggi scientifiche e rapporto causale nella pronuncia della Cassazione sul caso "Porto Marghera"»

4 Cass. Sez. IV n.7664, 25 febbraio 2010 (fattispecie concernente la precipitazione di un elicottero in un giardino di una abitazione, dopo che si era levato in volo privo del pilota, che era disceso dal velivolo, lasciando il motore acceso).

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Riguardo ai soggetti passivi del reato, si prescinde inoltre dalla loro qualità e dalla più o meno intensa esposizione al rischio5.

Per quanto riguarda la condotta, si è affermato, con riferimento all'ipotesi dolosa, che al fine di verificare l'idoneità a cagionare l'evento occorre considerare la potenzialità dell'azione indipendentemente da altri eventi esterni o sopravvenuti, mentre, al fine di rilevare la configurabilità del reato impossibile, la inidoneità deve risultare assoluta all'esito di una valutazione astratta della inefficienza strutturale e strumentale del mezzo, che non deve consentire neppure una attuazione eccezionale del proposito criminoso6.

Condotta ed evento, inoltre, pur essendo gli elementi costitutivi di un unico fatto rilevante, possono essere tra loro temporalmente assai distanti,7 come è stato ribadito anche con riferimento alla nota vicenda del Petrolchimico di Marghera, ricordando che il disastro innominato non comprende soltanto gli eventi di grande immediata evidenza che si verificano in un arco di tempo ristretto, ma anche quelli non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato e che pure producono effetti tali da poter affermare l'esistenza di una lesione della pubblica incolumità8.

Per quanto attiene la specifica figura del «disastro ambientale» va ricordato, in primo luogo, che i dubbi sollevati dalla giurisprudenza di merito e dalla dottrina9, in ordine al pericolo di una dilatazione, in via analogica, dell'ambito di operatività in campo ambientale della disposizione codicistica, favorito dalla generica formulazione, possono ritenersi superati non soltantoalla luce di quanto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, ma anche per il fatto che la disposizione, proprio con riferimento ad una ipotesi di illecita gestione di rifiuti pericolosi, smaltiti su terreni agricoli con gravi conseguenze per l'ecosistema, ha superato il vaglio di legittimità costituzionale cui è stata sottoposta dal Giudice per le indagini preliminari investito della vicenda.

Infatti il G.I.P. del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere10 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 434 del codice penale, nella parte in cui punisce chiunque, «fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare […] un altro disastro, […] se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità» in riferimento agli artt. 25, secondo comma, 24 e 27 della Costituzione, lamentando, sostanzialmente, la mancanza di un'efficace delimitazione della condotta, dell'evento primario e del settore della vita sociale in cui si colloca il fatto incriminato.

La Corte Costituzionale11 ha ritenuto la questione non fondata ed ha, in primo luogo, rilevato che la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale non deve effettuarsi valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell'illecito, bensì raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce ed ha chiarito che,

5 Cass. Sez. IV n. 1686, 8 febbraio 1990, ove si fa anche riferimento alla idoneità a diffondere, «un esteso senso di commozione e di allarme»

6 Cass. Sez. I n. 4871, 16 aprile 1987 7 Cass. Sez. V n.998, 23 maggio 1992 (nella fattispecie si trattava della deflagrazione di una miscela aria-gas metano a

seguito della quale era crollato un fabbricato cagionando la morte di un abitante - verificatisi nel 1986; la cassazione ha ritenuto legittimo che la condotta causativa di tali eventi penalmente rilevanti potesse esser ricercata con riferimento ad eventuali deficienze nella costruzione dell'impianto del gas sotto la casa della vittima avvenuta tra il 1970 e il 1972).

8 Cass. Sez. IV n. 4675, 6 febbraio 2007, cit.9 v. MILOCCO nota a G.I.P. S. Maria Capua V., 8 novembre 2004 in Riv. Giur. Ambiente 5\2005 pag. 886;

CASTOLDI «Il «ritorno» del disastro innominato in materia ambientale» ibid. n.5\2008, pag. 83010 Trib. Santa Maria C.V. ord. 12811 del 7 dicembre 2006 in lexambiente.it11 Sent. n. 327, 1 agosto 2008

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nonostante la insufficiente delimitazione del concetto di disastro, tale da fargli assumere, nel linguaggio comune, più significati, la sua valenza è individuabile attraverso la finalità dell'incriminazione e la sua collocazione nel sistema dei delitti contro la pubblica incolumità. Spiega infatti la Corte che, come espressamente specificato nella relazione del Ministro guardasigilli al progetto definitivo del codice penale, l'art. 434 cod. pen., nella parte in cui punisce il disastro innominato, assolve ad una funzione di “chiusura” del sistema, mirando «a colmare ogni eventuale lacuna, che di fronte alla multiforme varietà dei fatti possa presentarsi nelle norme […] concernenti la tutela della pubblica incolumità» e considerando anche le possibili conseguenze del progresso tecnologico.

Altri elementi caratterizzanti la nozione di disastro vengono inoltre rinvenuti, con le dovute puntualizzazioni, nella indicazione, nello stesso articolo 434 cod. pen., di una serie di casi specifici cui segue il riferimento ad «altro disastro»; nell'analisi di insieme dei delitti compresi nel capo I del titolo VI suggerita dalla dottrina; nel complesso delle decisioni della giurisprudenza di legittimità che hanno riguardato tale tipologia di reati, enucleando un concetto un concetto di «disastro» incentrato su tratti distintivi (dimensionale e offensivo) del fenomeno del tutto uniformi, osservando anche che il riferimento al «pericolo per la pubblica incolumità» indica «la messa a repentaglio di un numero non preventivamente individuabile di persone, in correlazione alla capacità diffusiva propria degli effetti dannosi dell'evento qualificabile come disastro».

La Corte non manca tuttavia di auspicare che le fattispecie ora ricondotte in via interpretativa al disastro innominato, possano essere oggetto, in futuro, di una specifica considerazione da parte del legislatore ambientale.

Come si è detto in precedenza, la giurisprudenza di legittimità ha considerato in più occasioni la figura del «disastro ambientale», non manifestando alcuna incertezza circa la sua astratta configurabilità, diversamente da quanto avvenuto in dottrina, ove si è ritenuta, ad esempio, la inconciliabilità del delitto in esame con le caratteristiche strutturali del danno ecologico e con il «bene ambiente»12

Con una prima pronuncia, avente ad oggetto il provvedimento con il quale il Tribunale di Napoli aveva confermato la misura custodiale emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di quella città nei confronti di alcuni soggetti implicati, tra l'altro, in un illecito smaltimento di rifiuti, effettuato con modalità tali da porre in pericolo la pubblica incolumità, si è ricordato come, ai ai fini della configurabilità del disastro ambientale colposo, sia necessario un 'evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità straordinariamente grave e complesso, ma non nel senso di eccezionalmente immane, bastando che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo collettivamente un numero indeterminato di persone e che l'eccezionalità della dimensione dell'evento desti un esteso senso di allarme, senza che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, ben potendo colpire anche le cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva13.

Si era peraltro già affermato che, nel caso in cui il disastro determini, quale conseguenza, anche la morte o lesioni alle persone coinvolte, la natura di delitto contro la pubblica incolumità consente di ipotizzare il concorso formale con l'omicidio colposo, stante la diversità degli eventi realizzati con

12 Si tratta di tesi efficacemente confutate da RUGA RIVA «Diritto penale dell'ambiente» Torino, 2011 pagg. 179 e ss., cui si rinvia anche i per i riferimenti ad altre opere. L'A. osserva, tra l'altro, che la condotta richiesta è compatibile tanto con eventi puntuali e traumatici, come la rottura di un impianto con conseguente diffusione di sostanze chimiche, quanto con la reiterazione di più azioni che, a distanza di tempo, producano fenomeni di inquinamento di eccezionale rilievo. Aggiunge che, essendo l'ambiente tutelato non in sé, ma nelle sue componenti (aria, acqua, suolo), spesso in maniera strumentale alla tutela della salute umana, nel reato in esame il referente offensivo dovrà essere ricercato nelle diverse definizioni di inquinamento e nei loro effetti sulla salute delle persone.

13 Cass. Sez. I n. 40330, 7 dicembre 2006. La Corte richiama anche alcuni precedenti (Sez. V, n. 11486, 12 dicembre 1989; Sez. IV n. 1686, 20 dicembre 1989; Sez. IV n. 1616, 4 ottobre 1983), nonché la relazione ministeriale sul progetto del codice penale.

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un unica condotta, di pericolo per la pubblica incolumità e di danno per l'omicidio14.

La Corte evidenziava, inoltre, la infondatezza della tesi sostenuta in ricorso, secondo la quale i giudici del merito avevano confuso la nozione di danno ambientale con quella di disastro, rilevando che le stesse si identificano «quando l'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo».

Detti principi sono stati successivamente ribaditi con riferimento ad un'ipotesi di massiccia contaminazione di siti mediante accumulo sul territorio e sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi15.

Con l'occasione la Corte, a fronte della deduzione difensiva secondo la quale la sussistenza degli elementi materiali del reato di disastro innominato era da escludersi in ragione della mancata verifica dell'impossibilità di bonifica, che rappresenterebbe l'elemento distintivo tra disastro e danno ambientale, ha fornito un'ulteriore definizione del concetto di disastro ambientale, rilevando che la durata, in termini temporali e l'ampiezza, in termini spaziali, delle attività di inquinamento consentivano di ricondurre la fattispecie concreta nella ipotesi del disastro innominato, osservando che lo stesso «comporta un danno, o un pericolo di danno, ambientale di eccezionale gravità non necessariamente irreversibile, ma certamente non riparabile con le normali opere di bonifica».

Non pare, diversamente da quanto osservato in dottrina,16 che il riferimento alla bonifica nel senso prospettato dalla Corte costituisca un ulteriore elemento di incertezza nella corretta individuazione dell'ambito di applicazione della norma, poiché la puntualizzazione, resa necessaria dalla specifica doglianza del ricorrente, è riferita alle opere di bonifica «normali», con l'unico evidente scopo di rafforzare il concetto, precedentemente espresso, dell'eccezionale gravità dell'evento richiesta17.

Una espressa conferma può rinvenirsi in una successiva pronuncia laddove, nel definire il delitto di disastro innominato come reato di pericolo a consumazione anticipata, che si perfeziona con la condotta di «immutatio loci», sempreché idonea in concreto a mettere in pericolo l'ambiente, si è aggiunto che lo stesso si realizza «quando il pericolo concerne un danno ambientale di eccezionale gravità, seppure con effetti non necessariamente irreversibili qualora venga a verificarsi, in quanto il danno provocato potrebbe pur sempre essere riparabile con opere di bonifica»18.

Si è anche specificato che l'accertamento circa l'attitudine di un fatto a porre in pericolo un numero indefinito di persone o cose va effettuato con valutazione ex ante, che si pone «in logica correlazione con la nozione di pericolo come realtà futura che si presente necessariamente incerta, anche se probabile» con l'ulteriore conseguenza che la prova del pericolo non deve «essere traslata da quella dell'avvenuto danno cagionato dalla condotta colposa, in quanto si andrebbe incontro inevitabilmente ad una contraddizione in punto di diritto, quella cioè di travisare la vera natura del delitto di disastro innominato (alias, altro disastro) colposo, di cui all'art. 449 cod. pen.,

14 Cass. Sez. IV n. 3788, 14 aprile 1982, in Riv. Pen. n. 11\1982 pag. 999; Sez. IV n.321, 10 gennaio 1985; Sez. IV n. 1686, 8 febbraio 1990, dove si è ulteriormente evidenziato che la morte di una o più persone non è considerata dalla legge come elemento costitutivo ne' come circostanza aggravante del reato di disastro, che costituisce un'autonoma figura criminosa

15 Cass. Sez. III n. 9418, 29 febbraio 1988 in Riv. Giur. Ambiente n. 5\2008 pag.827 con nota di CASTOLDI, cit. 16 CASTOLDI, op. cit.17 Del resto, lo stesso A. osserva che «...il profilo del danno afferisce alla sfera civilistica del risarcimento, mentre

quello del disastro alla responsabilità penale, e ... dunque essi possono riguardare due profili distinti della medesima fattispecie. Va, poi, precisato che un ulteriore, rilevante, discrimine tra danno e disastro, almeno nella forma dolosa di quest'ultimo, prevista dall'art. 434 c.p., potrebbe invece risiedere nella sussistenza del disastro anche in forma potenziale, a prescindere dall'effettivo verificarsi dell'evento lesivo. Una simile possibilità è richiamata, sebbene indirettamente, sempre dalla Cassazione nella sentenza già citata, nel momento in cui afferma che "la prova di immediati ed evidentemente tragici effetti sull'uomo non può essere assunta a parametro o a misura esclusiva del disastro»

18 Cass. Sez. III n. 46189, 13 dicembre 2011, in lexambiente.it

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negandone l'appartenenza al genus dei delitti colposi di comune pericolo, il quale richiede - per effetto del richiamo alla nozione di altro disastro preveduto dal capo 1^ del titolo 6^ del libro 2^ del codice di rito, del quale fa parte l'art. 434 c.p. - soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per la incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno»19.

In forza di tali considerazioni la Corte ha ritenuto errata la decisione del giudice di primo grado che aveva escluso la sussistenza del reato sulla base della valutazione della entità dei danni effettivamente verificatisi in relazione all'inquinamento dell'aria, del territorio e delle acque.

La reiterazione delle condotte ed una precedente condanna per il medesimo delitto sono state ritenute dimostrative della consapevolezza, in capo all'imputato, del pericolo per la pubblica incolumità derivante dalla sua condotta, concretatasi nella reiterata, abusiva attività estrattiva da una cava con alterazione di corsi d'acqua, inondazioni, infiltrazioni, instabilità ambientale e pregiudizio per la dinamica costiera20.

19 Sez. IV n. 19342, 18 maggio 2007 (conf. 9418\2008 cit. e 7664\2010, cit.). La Corte ha altresì osservato che «l'espressione "fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti", contenuta nell'art. 434 c.p., rimanda non già a tutti gli articoli precedenti contenuti nel Capo 1^, bensì soltanto a quelli, tra gli articoli precedenti, che prevedono altri delitti di disastro. Tra questi ultimi rientrano, per esempio, l'art. 428 c.p., (naufragio), l'art. 430 c.p., (disastro ferroviario), l'art. 432 c.p., (attentato alla sicurezza dei trasporti), ma non anche l'art 423 c.p., che prevede il delitto di incendio».

20 Sez. IV n.36626, 11 ottobre 2011