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1 Consiglio superiore della Magistratura Nona Commissione Roma- Hotel Ergife – Incontro di studio 2-4. 7. 2012 “Il regime giuridico dei beni “a fruizione collettiva”: in particolare Internet e la tutela dei diritti fondamentali” Relazione del 2.7.2012 “Le Nuove Frontiere del Danno Ambientale: aspetti sostanziali e processuali” Sommario: I) Introduzione II) La nozione normativa di responsabilità per danno ambientale: 1) la Legge 8 luglio 1986 n. 349. 2) la Direttiva 2004/35/CE. 3) il Codice dell’Ambiente (D.lvo 152/2006). 4) il D.L. 25.09.2009 n. 25, convertito in legge 20.11.2009 n. 166. III) La struttura dell’illecito ambientale: 1) La legittimazione attiva. 2) L’individuazione del responsabile e la natura dell’obbligazione risarcitoria. 3) Il risarcimento dei danni. IV) Le misure di riparazione del danno ambientale secondo la Direttiva del 2004 e l’art. 5 bis del D.L. 25/2009, accertamento del danno e CTU: 1) I criteri della Direttiva. 2) Applicazioni pratiche. V) Il ruolo del Pubblico Ministero. VI) Conclusioni. #### I) INTRODUZIONE Nell’ordinamento giuridico italiano, prima degli anni ‘80, manca una definizione normativa di AMBIENTE e, a dire il vero, assai tiepido è l’interesse alle problematiche ambientali. Solo negli anni ’70, che segnano la nascita delle prime Associazioni ambientaliste, l’ambiente inizia ad essere sentito come problema anche di politica mondiale, inizia il pubblico dibattito sulla prevenzione e sui controlli volti a contemperare lo sviluppo industriale ed economico con la tutela ambientale. Il simbolico momento di passaggio può essere individuato nel 1972, anno in cui si tengono la Conferenza delle Nazioni Unite a Stoccolma ed il Consiglio delle Comunità Europee di Parigi. La Conferenza di Stoccolma, che si conclude con una Dichiarazione in cui la tutela dell’ambiente diventa parte integrante dello sviluppo, è la prima sede in cui, su scala mondiale, si siano toccate tematiche ambientaliste , aventi ad oggetto il seguente tema base: “La Terra come capitale da preservare, nella considerazione del rapporto critico fra crescita ed ecosistema e del processo irreversibile costituito dallo sfruttamento delle risorse non rinnovabili”.

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Consiglio superiore della Magistratura Nona Commissione

Roma- Hotel Ergife –

Incontro di studio 2-4. 7. 2012 “Il regime giuridico dei beni “a fruizione colletti va”:

in particolare Internet e la tutela dei diritti fo ndamentali”

Relazione del 2.7.2012 “Le Nuove Frontiere del Danno Ambientale: aspetti s ostanziali e processuali” Sommario:

I) Introduzione

II) La nozione normativa di responsabilità p er danno ambientale: 1) la Legge 8 luglio 1986 n. 349. 2) la Direttiva 2004/35/CE. 3) il Codice dell’Ambiente (D.lvo 152/2006). 4) il D.L. 25.09.2009 n. 25, convertito in legge 20.11.2009 n. 166.

III) La struttura dell’illecito ambientale: 1) La legittimazione attiva. 2) L’individuazione del responsabile e la natura dell’obbligazione risarcitoria. 3) Il risarcimento dei danni.

IV) Le misure di riparazione del danno ambientale s econdo la Direttiva del 2004 e l’art. 5 bis del D.L. 25/2009, accertamento del dan no e CTU:

1) I criteri della Direttiva. 2) Applicazioni pratiche.

V) Il ruolo del Pubblico Ministero. VI) Conclusioni.

#### I) INTRODUZIONE Nell’ordinamento giuridico italiano, prima degli anni ‘80, manca una definizione normativa di AMBIENTE e, a dire il vero, assai tiepido è l’interesse alle problematiche ambientali. Solo negli anni ’70, che segnano la nascita delle prime Associazioni ambientaliste, l’ambiente inizia ad essere sentito come problema anche di politica mondiale, inizia il pubblico dibattito sulla prevenzione e sui controlli volti a contemperare lo sviluppo industriale ed economico con la tutela ambientale. Il simbolico momento di passaggio può essere individuato nel 1972, anno in cui si tengono la Conferenza delle Nazioni Unite a Stoccolma ed il Consiglio delle Comunità Europee di Parigi. La Conferenza di Stoccolma, che si conclude con una Dichiarazione in cui la tutela dell’ambiente diventa parte integrante dello sviluppo, è la prima sede in cui, su scala mondiale, si siano toccate tematiche ambientaliste , aventi ad oggetto il seguente tema base: “La Terra come capitale da preservare, nella considerazione del rapporto critico fra crescita ed ecosistema e del processo irreversibile costituito dallo sfruttamento delle risorse non rinnovabili”.

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In questi anni nascono i presupposti dell’ecologia e dell’economia ambientale, intesa come nuovo campo di studi in cui valutare le relazioni reciproche fra attività antropiche ed ambiente. Questo nuovo atteggiamento mirato alla ecogestione del territorio condurrà allo sviluppo dei concetti di SOSTENIBILITA’ e SVILUPPO SOSTENIBILE, contenuti nel Rapporto OUR COMMON FUTURE della World Commission on Environment and Development (commissione Bruntland) del 1987 , intesi come “sviluppo che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere le possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”. Altri eventi internazionali rilevanti in tema di sviluppo sostenibile ed ambiente sono costituiti da:

1) Conferenza Nazioni Unite di Rio de Janeiro –1992, che nella sua dichiarazione sancisce i 27 Principi su ambiente e sviluppo;

2) Protocollo di Kyoto sui cambiamenti climatici – 1997 3) Convenzione di Aarhus sui diritti all’informazione ed alla partecipazione ai processi

decisionali; 4) Protocollo sulla biosicurezza di Montreal; 5) 2001 Convenzione sulle sostanze inquinanti non degradabili di Stoccolma.

Inizialmente le politiche ambientali vengono attuate con strumenti di diritto pubblico, i soli che vengono ritenuti possibili nell’ottica della prevenzione dei danni. In Italia non sono previsti strumenti civilistici a tutela dell’ambiente, non considerato come valore da tutelare in via autonoma, ma solamente, in via “indiretta” laddove si verifichino situazioni di danno per la salute umana (art. 32 Cost) o per il diritto di proprietà.1 Dottrina e giurisprudenza cominciano infatti a chiedersi quale sia il ruolo del diritto privato in materia di preservazione dell’ambiente , analizzando soprattutto l’apparentemente del tutto diversa tematica dell’intollerabilità delle immissioni, agganciando la norma che prevede l’inibitoria a tutela del diritto di proprietà (art. 844 c.c.) alla normativa pubblicistica in materia di limiti all’inquinamento atmosferico, acustico, ecc.2 onde indicare dei criteri al giudice in materia di valutazione dell’intollerabilità delle immissioni. Il passaggio immediatamente successivo è, com’è noto, il collegamento dell’art. 844 c.c. con l’art. 2043 c.c. con estensione della tutela inibitoria fornita dal primo articolo anche al campo della responsabilità civile extracontrattuale, a tutela di situazioni differenti da quella proprietaria.3 L’espansione della tutela fornita dall’art. 844 c.c. all’esterno del diritto di proprietà è stata, tuttavia, bloccata dalla Corte Costituzionale, innanzi alla quale il Pretore di Bologna ha sollevato, nel 1972, la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 844 c.c. per violazione del principio di uguaglianza dei cittadini colpiti dagli effetti delle immissioni e della insufficiente tutela prevista per altri beni, quali quelli della salute umana. La Corte Costituzionale 4 ha rigettato la questione, ribadendo che l’art. 844 c.c. era esclusivamente diretto alla tutela della proprietà e specificando che la salute e l’ambiente erano tutelati dalle discipline penali ed amministrative “salva in ogni caso l’applicazione dell’art. 2043 c.c”. Sono note le successive applicazioni giurisprudenziali in tema di ristoro del danno alla salute e dei danni non patrimoniali, tramite l’utilizzo dell’art. 2043 c.c. e dell’art. 32 Cost, inteso come valore costituzionale fondamentale.

1 La responsabilità per danno all’ambiente a cura di F.Giampietro , Ed.Giuffrè 2006 2 Forte, “Per una lettura alternativa dell’art. 844 c.c.” in DG, 1976, 641-658; Nappi F. “Le Regole proprietarie e le tutele delle immissioni”, ESI, Napoli 3 Cass. SS.UU. 9.4.1973 n. 999 FI 1974, I, 843, Cass. 10.12.1984 n. 6476 GI 1985, I 1, 708 4 Corte Cost. 23.7.1974n. 247

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Va qui ricordato anche un orientamento giurisprudenziale che ha elaborato il concetto di diritto alla salute come DIRITTO ALL’AMBIENTE SALUBRE e quindi il diritto all’ambiente come DIRITTO DELLA PERSONALITA’ 5, concezione molto criticata per l’implicazione individualistica, che comporta l’impossibilità di oggettivizzarne nozione e tutela. Fin qui, tuttavia, ancora scarsa attenzione all’ambiente, in sé e per sé, fatta eccezione per la nozione di danno pubblico erariale elaborata dalla Corte dei Conti. Con una serie di importanti sentenze degli anni ’70 la Corte dei Conti ha infatti enucleato il concetto di “DANNO PUBBLICO AMBIENTALE” nell’ambito del danno erariale, estendendo la sua competenza, oltre che ai funzionari ed amministratori pubblici, anche nei confronti dei privati6. Afferma la Corte così che il danno pubblico presupposto della giurisdizione contabile non vada inteso solo nel senso ragionieristico di turbativa di alcuni elementi di conto patrimoniale, bensì come turbativa di quei beni, quali la flora, la fauna, la natura, il paesaggio, che appartengono alla collettività organizzata dello Stato ed indica nel danno a tali componenti un pregiudizio concreto e reale per l’ente pubblico o per gli stessi enti pubblici che impersonificano tali interessi o sono preposti alla loro tutela, anche sotto l’aspetto patrimoniale della spesa necessaria per la riduzione in pristino7. Nella famosissima sentenza riguardante l’inquinamento dei c.d. “fanghi rossi di Scarlino”, la Corte dei Conti8 ha affermato che: “l’inquinamento di una vasta zona di mare, che pur verificandosi oltre il limite delle acque territoriali, comporti una diminuzione delle utilità che dal mare ritrae la comunità dei cittadini, concreta un danno per lo Stato, sia sotto il profilo del depauperamento di un bene che costituisce patrimonio della collettività, sia sotto il profilo degli oneri finanziari che lo Stato stesso può essere chiamato a sostenere in dipendenza dell’inquinamento; sussiste pertanto la giurisdizione di responsabilità del magistrato contabile nei confronti dei pubblici dipendenti, che con la violazione di doveri inerenti al proprio ufficio abbiano consentito l’attività inquinante (nella specie esprimendo parere favorevole e concedendo l’autorizzazione allo scarico in mare dei c.d. “fanghi rossi” residui della lavorazione del biossido di titanio negli stabilimenti Montedison di Scarlino)”. L’importante affermazione del diritto dello Stato al risarcimento per danni arrecati all’ambiente si coniugava tuttavia con la giurisdizione contabile e con i limiti propri del procedimento contabile, ovvero la limitazione ai dipendenti pubblici, l’imputazione soggettiva limitata, l’impostazione patrimoniale del danno, lasciando troppi spazi di impunità.

### II) La nozione normativa di RESPONSABILITA’ PER D ANNO AMBIENTALE :

1) la Legge 8 luglio 1986 n. 349 ; 2) la Direttiva 2004/35/CE; 3) il Codice dell’Ambiente (D.lvo 152/2006); 4) il D.L. 25.09.2009 n. 25, convertito in legge 2 0.11.2009 n. 166 ,

II 1) La legge 08.07.1986 n. 349

5 Cfr. Cass. 6.10.1979 n. 5172, GI 1980, I, 1, 464 secondo cui la protezione alla salute umana si estende “alla vita associata dell’uomo nei luoghi delle varie aggregazioni nelle quali questa si articola e, in ragione della sua effettività, alla preservazione , in quei luoghi, delle condizioni indispensabili o anche soltanto propizie allla sua salute : essa assume in tal modo un contenuto di socialità e sicurezza, per cui il diritto alla salute, piuttosto (o oltre) che come mero diritto alla vita e all’incolumità fisica, si configura come diritto all’ambiente salubre” 6 Corte Conti sez I 15.5.1973 n. 39, FA, 1973, I, 3, 247, Corte Conti 8.10.1979 n. 61, in FI , 1979, III, 593; Corte<Conti 18.09.1980 n. 86, FI, 1981, III, 167. 7 Corte Conti 39/73 cit. 8 Corte Conti sez I, 8.10.1979 n. 61 cit.

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A seguito di un travagliato iter parlamentare, viene emanata la legge 8.7.1986 n. 349 istitutiva del Ministero dell’ambiente e comprendente, per la prima volta in Europa, norme in materia di risarcimento del danno ambientale, nonché prevedendo forme di tutela diretta delle risorse ambientali. Il provvedimento legislativo ha per scopo la conservazione e la valorizzazione del patrimonio nazionale delle risorse ambientali in senso generale, non più settorialmente, come avvenuto in relazione alle disposizioni di carattere pubblicistico a tutela di singoli categorie di beni (flora, fauna, aria, ecc.) ma nel suo insieme9. Il legislatore sceglie di non estendere la giurisdizione della Corte dei Conti all’intera area del danno ambientale, come molte voci suggerivano, e, ancora senza formulare una espressa nozione giuridica unitaria di AMBIENTE e di DANNO AMBIENTALE, introduce una fattispecie risarcitoria prettamente civilistica con giurisdizione attribuita al Giudice Ordinario. La norma d’interesse è l’art. 18:

1) “Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”.

2) “Per la materia di cui al precedente comma 1 la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, ferma quella della Corte dei Conti, di cui all’art. 22 del decreto del Presidente della Repubblica 10.01.1957 n. 3”.

3) L’azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato , nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo.

4) Le associazioni di cui al precedente articolo 13 e i cittadini, al fine di sollecitare l’esercizio dell’azione da parte dei soggetti legittimati, possono denunciare i fatti lesivi di beni ambientali di cui siano a conoscenza.

5) Le associazioni individuate in base all’articolo 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi.

6) Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno , ne determina l’ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore, in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali.

7) Nei casi di concorso nello stesso evento di danno , ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale.

8) Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile.

- Omissis -

9 Per un’articolata definizione delle componenti e dei fattori ambientali cfr. art. 5 DPCM 27.12.1988 (norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale ai sensi dell’art. 6 della legge 349/86) e allegato I, punto 2 al citato DPCM

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Come è agevole vedere, la nuova fattispecie dell’illecito ambientale è caratterizzata da elementi assolutamente innovativi, rispetto al precedente approccio al problema, a partire dall’individuazione della giurisdizione, regolamenta in un certo modo i diritti ed il ruolo delle associazioni ambientaliste, lascia aperto il campo all’individuazione del soggetto passivo dell’azione e costruisce l’illecito ambientale sull’archetipo dell’art. 2043 c.c., restringendo, tuttavia, i criteri di imputazione della responsabilità a fatti dolosi o colposi “in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge” che compromettano l’ambiente, con tipizzazione dell’evento di danno nelle tre possibili ipotesi di alterazione, deterioramento o distruzione dell’ambiente, pone una deroga al criterio generale della responsabilità solidale fra coautori dell’illecito e, infine, per quanto riguarda il danno, dopo avere dato la precedenza al ripristino dello stato dei luoghi, qualora possibile, detta i criteri da utilizzare per la liquidazione equitativa del risarcimento. La prima novità, che, in allora, ha rappresentato una vera “bomba” è stata quella sulla giurisdizione: l’art. 18 prevede infatti tre distinti tipi di azione riservati alla competenza di giudici diversi, precisamente, l’azione civile ordinaria risarcitoria per danno all’ambiente, appartenente alla giurisdizione del Giudice Ordinario, quand’anche implicante responsabilità di amministratori pubblici, l’azione contabile di rivalsa ex art. 22 del DPR 10.01.1957 n. 3 nei confronti dei funzionari pubblici, qualora responsabili per dolo o colpa grave e, al quinto comma , la giurisdizione del Giudice Amministrativo per l’annullamento di atti illegittimi lesivi dell’interesse all’intangibilità dell’ambiente. La Corte dei Conti non ha però accettato di buon grado la sottrazione di una sfera così importante di giurisdizione e , con una serie di ordinanze di rimessione, ha provocato l’intervento della Corte Costituzionale sull’art. 18, nella parte in cui sottrae alla giurisdizione contabile la responsabilità dei dipendenti dello Stato e degli Enti Pubblici per i danni arrecati all’ambiente nell’esercizio delle proprie funzioni, in riferimento agli artt. 25 e 103 Cost.10, nonché in riferimento agli artt.5 e 103 Cost.11 La Corte Costituzionale, riuniti i ricorsi, ha dichiarato non fondata la questione12 , ritenendo che la giurisdizione generale sui diritti soggettivi spetti al Giudice Ordinario e che il concetto di contabilità pubblica non possa essere espanso al di là dei limiti funzionali delle attribuzioni giudicanti della Corte dei Conti e, per la prima volta, ha fornito una definzione di ambiente come “un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti , ciascuna delle quali può anche costituire isolatamente e separatamente oggetto di cura e di tutela: ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità” e così come “un bene giuridico in quanto riconosciuto e tutelato da norme”. La Corte Costituzionale ha dunque introdotto il concetto di UNITA’ dell’ambiente come bene immateriale formato da varie componenti appartenente alla categoria dei beni liberi, ovvero fruibile dalla collettività e dai singoli”, approvando l’inserimento della responsabilità ambientale ex art. 18 nell’alveo della responsabilità aquiliana ed affermando che “il danno è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o l’alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé e per sé e che si riflette sulla collettività la quale viene gravata da oneri economici”.

10 C. Conti S.U.ord 21.10.1986 n. 107, FI, 1987, III, 262, fattispecie relativa al danno ambientale erariale da costruzione abusiva di villette nel Comune di Lecce dei Marsi e di una rete stradale di collegamento per la creazione di un centro residenziale 11 C. Conti, sez I, 30.06.1987, fattispecie riguardante l’azione promossa dal P.G. presso la Corte dei Conti per il risarcimento del danno ambientale provocato dalla realizzazione abusiva di opere in licalità Punta Penne, zona vincolata dal Piano regolatore di tale Comune 12 Corte Cost. 30.12.1987 n. 641

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Seguono numerose altre ordinanze di rimessione della Corte dei Conti, formulate sulla base di altri profili, ma invano: tutte le questioni vengono rigettate in quanto manifestamente infondate.13 Alla fine la stessa Corte dei Conti si è arresa e nel 1989 ha riconosciuto da sé il proprio difetto di giurisdizione.14 Anche la Corte di Cassazione, ripetutamente, interviene affermando la giurisdizione ordinaria in materia di danno ambientale15, anche sui ricorsi ex art. 700 c.p.c., quand’anche il responsabile sia un ente pubblico economico esercente attività di impresa16 e financo allorchè i responsabili del danno siano pubblici funzionari, riservando alla competenza della Corte dei Conti, solamente gli aspetti tipicamente attinenti alla responsabilità erariale, in conseguenza degli esborsi patrimoniali subiti da Enti pubblici subiti per le opere poste in essere e/o per il successivo ripristino.17 Va detto che la legge 349 concentra la sua disciplina sul rimedio giurisdizionale di tipo risarcitorio, ma non si occupa della tutela cautelare processuale, non essendo stata approvata in sede di lavori preparatori un’apposita proposta che prevedeva la facoltà per la Corte dei Conti di concedere provvedimenti urgenti ex art. 700 c.p.c. e sequestri giudiziari, cosicchè, sotto la vigenza di tale normativa, il rimedio cautelare giurisdizionale restava quello atipico dell’art. 700 c.p.c., risultando peraltro di dubbia utilità pratica l’esperibilità di inibitoria, in considerazione dei poteri di autotutela attribuiti dall’art. 6 della legge 349 al Ministro dell’Ambiente, nei confronti di opere in corso suscettibili di provocare rilevanti modificazioni dell’ambiente.18 Le competenze giurisdizionali, così come delineate dalla legge 349 non sono state successivamente intaccate. Le questioni giuridiche aperte dalla costruzione dell’illecito effettuata dall’art. 18 sono moltissime, ma, prima di procedere con qualche riflessione più specifica ed alla disamina di qualche fattispecie applicativa, è opportuno, al fine di orientarsi, dare conto dell’intersecarsi di tali previsioni con quelle del D.lvo Legislativo 3.4.2006 n. 152, il cosiddetto Codice dell’Ambiente , che si è, letteralmente, sovrapposto al campo temporale di applicazione della legge 349/86, in virtù di alcune, forse discutibili, in parte condizionate dalle Direttive Comunitarie , ulteriori scelte del legislatore italiano.

### II 2) La Direttiva 2004/35/CE: Sul fronte comunitario, i principii fondamentali in materia di ambiente sono due: il primo, il principio della c.d. “prudent avoidance”, improntato alla massima garanzia precauzionale

13 cfr. ad es., C. Conti sez II, 14.5.1987 . n. 28 e Corte Cost. 29.12.1988 n. 1162 14 C. Conti ord. 2.7.1989 n.287; Barbara Pozzo “Il danno ambientale” Cedam, 1998 15 cfr. ad es. Cass. SS.UU. 25.1.1989 n. 440 16 fattispecie di ricorso promosso ex art. 700 c.p.c. da alcuni Comuni del Salentino nei confronti di ENEL per l’impatto negativo ambientale cagionato dall’avanzata costruzione di una centrale termoelettrica, non avendo gli studi scientifici sino ad allora predisposti escluso il possibile effetto negativo per l’ambiente e la salute dei cittadini ed ENEL, residtendo al ricorso, aveva sollevato il regolamento di giurisdizione – Cass. SS.UU. 17.01.1991 n. 400) 17 Cass. SS.UU. 23.06.1992 n. 7677 , Pozzo B. opera cit. 18 “qualora, nell’esecuzione delle opere di cui al comma 3, il Ministro dell’ambiente ravvisi comportamenti contrastanti con il parere di compatibilità ambientale…., o comunque tali dacompromettere fondamentali esigenze di equilibrio ecologico e ambientale, ordina la sospensione dei lavori e rimette la questione al Consiglio dei Ministri- art. 6 comma 6 L. n. 349/86-

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di tutela della salute, richiede l’adozione delle misure più efficaci a salvaguardia dell’ambiente, il secondo, indicato con l’acronimo ALARA ( as low as reasonably achievable) mira al bilanciamento tra esigenze di tutela dell’ecosistema ed attività produttive utili ( rischio consentito). Il 21.4.2004 viene emanata la Direttiva 2004/35/CE sulla “responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale”, che ha come obiettivo principale l’attuazione del principio “chi inquina paga ” stabilito nel Trattato, in coerenza con il principio dello sviluppo sostenibile. La Direttiva esprime lo scopo di istituire una disciplina comune per la prevenzione e riparazione del danno ambientale a costi sostenibili, caricando la responsabilità finanziaria, anche solo per le minacce di danno, in capo ai soggetti potenzialmente inquinatori, con evidente finalità deterrente, onde costringere gli operatori a sviluppare le “best practices” volte a ridurre al minimo il rischio ambientale. La Direttiva, al tredicesimo Considerando, afferma l’inefficacia di qualsiasi meccanismo di responsabilità civile, qualora il soggetto inquinatore non sia individuabile in modo specifico, escludendo poi al quattordicesimo Considerando, che rientri nel proprio campo di applicazione il danno alla salute, alla proprietà privata o alle perdite economiche.19 La Direttiva, che all’articolo 2) provvede ad una sorta di definizione del danno ambientale, che, nel caso di dubbio interpretativo, può essere utile all’operatore giuridico, distingue due ipotesi di responsabilità ambientale, ovvero quella cagionata dall’esercizio di una serie di attività professionali elencate nell’allegato III , che potremmo, in via riassuntiva, definire come “attività pericolose” (ad esempio discariche, stoccaggio di rifiuti e rifiuti pericolosi, attività comportanti lo scarico nelle acque di inquinanti, fabbricazione o interramento di sostanze pericolose , ecc.) per cui non viene richiesta alcuna imputazione di carattere psicologico e quella cagionata da attività diverse dalle precedenti, per cui, invece, l’inquinatore risponde solo a titolo di colpa o dolo. La Direttiva richiama altresì l’attenzione sulle misure di prevenzione , elenca una notevole serie di eccezioni a quanto previsto dall’art. 3 (cfr. art. 4) e, per quanto riguarda l’ambito cronologico di applicazione esclude la propria applicabilità:

- Al danno causato da un’emissione, un evento o un incidente verificatosi prima della data del 30.04.200720;

- Al danno causato da un’emissione, un evento o un incidente verificatosi dopo la data del 30.04.2007 , se derivante da una specifica attività posta in essere e terminata prima di detta data;

- Al danno in relazione al quale sono passati più di trenta anni dall’emissione, incidente o evento che l’ha causato.

La nozione di danno ambientale ricavabile dalla Direttiva non copre tutte le ipotesi di inquinamenti, dal momento che l’art. 2 nelle “Definizioni” classifica come “danno ambientale” solamente il danno alla specie ed agli habitat naturali protetti, il danno alle acque ed il danno al terreno, e, in generale. Il “danno” come “un mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente”.

19 Cfr. Dir 2004/35 CE : Considerando n. 13) “A non tutte le forme di danno ambientale può essere posto rimedio attraverso la responsabilità civile. Affinchè quest’ultima sia efficace è necessario che vi siano uno o più inquinatori individuabili, il danno dovrebbe essere concreto e quantificabile e si dovrebbero accertare nessi causali tra il danno e gli inquinatori individuati. La r.c. non è quindi uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi a atti o omissioni di taluni singoli soggetti”; Considerando n. 14: “ La presente Direttiva non si applica ai casi di lesioni personali, al danno alla proprietà privata o alle perdite economiche e non pregiudica qualsiasi diritto concernente questi tipi di danni” 20 L’art. 19 par I della Dir. cit assegna agli Stati membri il termine del 30.04.2007 per conformarsi alla Direttiva.

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Non sono dunque compresi il danno all’atmosfera in sé e per sé e, in virtù di espressa esclusione, i danni da rischio nucleare. Viene, infine, data priorità assoluta al ripristino primario o alla riparazione del danno, rispetto al suo ristoro per equivalente pecuniario .

### II 3) Il Codice dell’Ambiente (D.lvo 152/2006) : L’Italia ha inteso dare attuazione a questa Direttiva ed alla legge delega del 15.12.2004 n. 308 per il riordino, coordinamento ed integrazione della legislazione in materia ambientale, con il Codice dell’Ambiente, pubblicato sulla GU del 14.4.2006 , di cui, per la presente trattazione, rileva la Parte Sesta, con particolare riferimento agli articoli da 299 a 318. Il legislatore fornisce, peraltro, una definizione poco chiara di danno ambientale, formulando al comma 1 dell’art. 300 una nozione atipica di tale danno, vincolata tuttavia dall’uso problematico degli aggettivi “significativo” e “misurabile ”, che paiono richiamare, il primo, il concetto di rilevanza (quantitativa?) della compromissione dell’ambiente, con esclusione del danno di lieve entità, il secondo il requisito della stimabilità dello stesso, in contraddizione, apparentemente, con l’importanza conferita dall’intera normativa al ripristino quale migliore forma di tutela dell’ambiente, dettando poi, al secondo comma, alcune specifiche ipotesi di danno ambientale che restringono notevolmente la portata del primo comma, creano dubbi interpretativi e danno adito al rischio di esclusione di altre tipologie di danni eventualmente non ricomprese nell’elencazione, qualora ritenuta tassativa e non esemplificativa. ART. 300 - (Danno ambientale)

1. E' danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa

naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima.

2. Ai sensi della direttiva 2004/35/CE costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto alle

condizioni originarie, provocato:

a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria di cui alla legge 11

febbraio 1992, n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica, che recepisce le direttive

79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979; 85/411/CEE della Commissione del 25 luglio 1985 e 91/244/CEE

della Commissione del 6 marzo 1991 ed attua le convenzioni di Parigi del 18 ottobre 1950 e di Berna del 19

settembre 1979, e di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, recante

regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e

seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche, nonché alle aree naturali protette di cui alla legge 6

dicembre 1991, n. 394, e successive norme di attuazione;

b) alle acque interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente negativo sullo stato ecologico,

chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate, quali definiti nella direttiva

2000/60/CE, ad eccezione degli effetti negativi cui si applica l'articolo 4, paragrafo 7, di tale direttiva;

c) alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni suddette, anche se

svolte in acque internazionali;

d) al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche

indiretti, sulla salute umana a seguito dell'introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze,

preparati, organismi o microrganismi nocivi per l'ambiente.

Resta fuori dalla previsione dell’art. 300 il danno all’aria, omissione non casuale, in quanto il “Considerando n. 4 della Direttiva” non lo considera come un danno ambientale in sé,

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perché il ripristino delle condizioni atmosferiche si verificherebbe di norma celermente, ma vi conferisce rilevanza solo nei limiti in cui l’inquinamento dell’aria cagioni guasti all’acqua, al terreno o alle specie ed agli habitat protetti (risorse naturali ). L’art. 5 lett. c del D.lvo cit., contiene altresì una definizione di ambiente inteso come “sistema di relazioni fra i fattori antropici, fisici, chimici, naturalistici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali ed economici” che pare valorizzarne l’aspetto IMMATERIALE , aspetto poi accentuato dal D.Lvo 4/2008 agli effetti della valutazione dell’impatto ambientale. Il diritto al risarcimento dei danni ambientali dello Stato non pare dunque modellabile sui criteri classici della tutela dei beni demaniali, improntata ai principii del diritto di proprietà. E’ poi stato codificato il principio di precauzione (art. 301), che si fonda su situazioni di incertezza scientifica per cui viene ritenuto ipotizzabile in astratto, in mancanza di prova contraria, che talune attività umane possano compromettere la salute umana e l’ambiente, caso in cui si impone all’ “operatore” di adottare misure preventive e quello di prevenzione, ambedue da intendersi come mezzi di tutela anticipatoria ART. 301 - (Attuazione del principio di precauzione)

1. In applicazione del principio di precauzione di cui all'articolo 174, paragrafo 2, del Trattato CE, in caso di

pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l'ambiente, deve essere assicurato un alto livello di

protezione.

2. L'applicazione del principio di cui al comma 1 concerne il rischio che comunque possa essere individuato a

sèguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva.

3. L'operatore interessato, quando emerga il rischio suddetto, deve informarne senza indugio, indicando tutti

gli aspetti pertinenti alla situazione, il comune, la provincia, la regione o la provincia autonoma nel cui

territorio si prospetta l'evento lesivo, nonché il Prefetto della provincia che, nelle ventiquattro ore successive,

informa il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare.

4. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, in applicazione del principio di

precauzione, ha facoltà di adottare in qualsiasi momento misure di prevenzione, ai sensi dell'articolo 304,

che risultino:

a) proporzionali rispetto al livello di protezione che s'intende raggiungere;

b) non discriminatorie nella loro applicazione e coerenti con misure analoghe già adottate;

c) basate sull'esame dei potenziali vantaggi ed oneri;

d) aggiornabili alla luce di nuovi dati scientifici.

5. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare promuove l'informazione del pubblico

quanto agli effetti negativi di un prodotto o di un processo e, tenuto conto delle risorse finanziarie previste a

legislazione vigente, può finanziare programmi di ricerca, disporre il ricorso a sistemi di certificazione

ambientale ed assumere ogni altra iniziativa volta a ridurre i rischi di danno ambientale.

Il Titolo Secondo della parte sesta disciplina dettagliatamente i poteri di autotutela di cui dispone il Ministero, a tutela dell’ambiente, in tema di prevenzione e ripristino, confermandosi anche in tal modo come l’intento del legislatore sia stato quello di privilegiare quale forma di riparazione primaria la riduzione in pristino e, ancor prima, la prevenzione . Il Titolo Terzo disciplina il risarcimento del danno ambientale, specificando, nella vecchia formulazione, all’art. 311, con dissociazione normativa della descrizione dell’illecito rispetto a quella del danno, contenuta nell’art. 300 : Art. 311

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1) Il Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto.

2) Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato.

3) Alla quantificazione del danno il Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio provvede in applicazione dei criteri enunciati negli Allegati 3 e 4 della parte sesta del presente decreto. All’accertamento delle responsabilità risarcitorie ed alla riscossione delle somme dovute per equivalente patrimoniale il Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio provvede con le procedure di cui al titolo III della parte sesta del presente decreto.

In sintesi, sono state mantenute la legittimazione attiva dello Stato, tramite il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio (ora divenuto il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare), divenuta però esclusiva, a scapito degli Enti territoriali, e la disciplina restrittiva in tema di intervento in giudizio delle associazioni ambientaliste, è stato formalizzato più nettamente, rispetto all’art. 18, il principio della precedenza del risarcimento in forma specifica rispetto a quello per equivalente, ovvero quello della prevalenza assoluta, laddove possibile, del ripristino. La fattispecie dell’illecito costituisce tuttavia una specie di minestrone di requisiti copiati dall’art. 2043 c.c. ( “realizzando un fatto illecito”) e dall’art. 18, laddove prevedeva distinte ipotesi di colpa specifica per violazione di legge, regolamenti o provvedimenti amministrativi, la condotta illecita viene nuovamente descritta in termini di alterazione, deterioramento o distruzione delle componenti, terra, acqua, flora e fauna, dell’ambiente. Non è stata tuttavia introdotta una forma di responsabilità oggettiva paragonabile, per intenderci, all’art. 2050 c.c., con riferimento agli inquinatori “professionali”, come richiedeva la Direttiva, che, come s’è visto, voleva un doppio binario di responsabilità, né è stata riprodotta, nel primo testo dell’art. 311 la specifica disposizione che escludeva la solidarietà nell’obbligazione risarcitoria a carico degli eventuali corresponsabili. A voler essere formalisti, si rileva anche la mancanza della menzione del dolo nell’elencazione dei vari criteri di imputazione dell’illecito, per cui non escluderei che taluno possa arrivare a dire che la commissione di atti dolosi lesivi dell’ambiente sia sottratta alla sfera di applicazione della norma. Tornando alla questione della successione delle leggi nel tempo, l’art. 318 intitolato “Norme transitorie e finali” abroga espressamente l’art. 18 della legge 349/86, fatta eccezione per il comma 5 (quello relativo all’intervento delle associazioni ambientaliste), ma la norma abrogata, ai sensi dell’art. 303 del Codice nella formulazione di allora continuava a trovare applicazione nei casi di sinistri verificatisi prima del 30.04.2007 ed ai danni ambientali manifestatisi dopo tale data qualora provocati da attività iniziate prima, caso frequentissimo, dal momento che l’inquinamento è un fenomeno raramente di origine istantanea, come, ad esempio, può capitare nel caso di naufragio di una petroliera o di esplosione di sostanze chimiche, più spesso frutto di azioni prolungate nel tempo i cui effetti variano e si propagano in lunghi periodi.

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Per tale ragione ed in stretta connessione e con i tempi biblici della giustizia italiana, le più note pronunce giudiziali in materia di danno ambientale hanno applicato l’art. 18 , ai cui parametri i criteri liquidatori del danno hanno, ratione temporis, fatto prevalente riferimento21.

### II 4) Il D.L. 25.09.2009 n. 25, convertito in legg e 20.11.2009 n. 166: La gestione della successione temporale delle leggi in materia di danno ambientale ha trovato, tuttavia, un’ulteriore complicazione, quando, a seguito della procedura di infrazione n. 2007/4679 promossa nei confronti dell’Italia ai sensi dell’art. 226 del Trattato CE, cagionata dall’esclusione, nella nuova disciplina della responsabilità ambientale, delle situazioni di inquinamento rispetto alle quali fossero già avviate le procedure di bonifica, alla limitazione dell’obbligo di riparazione ai soli danni cagionati da comportamenti dolosi o colposi ed all’ammissibilità del risarcimento del danno ambientale in forma pecuniaria, laddove la Direttiva prevede principalmente misure di ripristino dello stato dei luoghi, il nostro legislatore ha emanato il D.L. 25.09.2009 n. 25, convertito in legge 20.11.2009 n. 166 , con il cui art. 5 bis sono stati modificati gli artt. 303 e 311 del Codice. In primo luogo il secondo comma e il terzo comma dell’art. 311 sono stati modificati come segue: 2.Chiunque realizzando un fatto illecito o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato all’effettivo ripristino a sue spese della precedente situazione e, in mancanza, all’adozione di misure di riparazione complementare e compensativa di cui alla Direttiva 2004/35 CE del parlamento Europeo e del Consiglio del 21.04.2004, secondo le modalità prescritte dall’Allegato II alla medesima Direttiva, da effettuare entro il termine congruo di cui all’art. 314 comma 2 del presente decreto. Quando l’effettivo ripristino o l’adozione di misure di riparazione complementare o compensativa risultino in tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi dell’art. 2058 del Codice Civile e comunque attuati in modo incompleto o difforme rispetto a quello prescritti, il danneggiante è obbligato in via sostitutiva al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato, determinato conformemente al comma 3 del presente articolo, per finanziare gli interventi di cui all’art. 317 comma 5” “ 3. Alla quantificazione del danno il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare provvede in applicazione dei criteri enunciati negli Allegati

21 Così, ad esempio, la nota sentenza del Tribunale di Torino n. 4991 del 2008 relativa al danno ambientale conseguente allo sversamento, da parte della società Enichem Synthesis, poi divenuta Syndial, facente parte del gruppo Eni, nel Lago Maggiore ed in alcuni corsi d’acqua tributari (fiume Toce e rio Marmazza), in località Pieve di Vergonte, di sostanze inquinanti, fra cui il DDT, che avevano provocato un grave deterioramento, del corso del periodo 1.1.1990-18.6.1996 dell’alveo delle acque e della fauna ittica.

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3 e 4 della parte sesta del presente decreto. All'accertamento delle responsabilità risarcitorie ed alla riscossione delle somme dovute per equivalente patrimoniale il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare provvede con le procedure di cui al titolo III della parte sesta del presente decreto. Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono definiti, in conformità a quanto previsto dal punto 1.2.3 dell'Allegato II alla direttiva 2004/35/CE, i criteri di determinazione del risarcimento per equivalente e dell'eccessiva onerosità, avendo riguardo anche al valore monetario stimato delle risorse naturali e dei servizi perduti e ai parametri utilizzati in casi simili o materie analoghe per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito nazionale e comunitario. Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale. Il relativo debito si trasmette, secondo le leggi vigenti, agli eredi nei limiti del loro effettivo arricchimento. Il presente comma si applica anche nei giudizi di cui ai commi 1 e 2.” E’ stato, in secondo luogo, aggiunto alla lettera F) dell’art. 303 il seguente periodo: “i criteri di determinazione dell’obbligazione risa rcitoria stabiliti dall’art. 311 , commi 2 e 3 si applicano anche alle domande di risarcimen to proposte o da proporre ai sensi della L 18.7.1986 n. 349, art. 18, in luogo d elle previsioni di cui al citato art. 18 o ai sensi del titolo 9 del libro quarto del codice civile o ai sensi di altre disposizioni non aventi natura speciale, con esclusione delle pr onunce passate in giudicato ; ai predetti giudizi trova, inoltre, applicazione la p revisione dell’art. 315 del presente decreto” . Trattasi di un’anomala previsione normativa di retroattività applicativa di una legge ordinaria, mediante la quale, come è stato osservato dalla S.C. nella recente sentenza della Sezione III 22.03.2011 n. 6551 (Min Ambiente c/soc. Fontana Bleu e altri) l’intera normativa sulla liquidazione del danno ambientale è stata interamente riscritta , tramite rinvio espresso alla direttiva, cosicchè, qualora una vertenza non sia ancora passata in giudicato, occorrerà applicare d’ufficio i criteri liquidatori di cui al novellato art. 311 comma 3 del Codice dell’Ambiente22. Così ha interpretato la norma la S.C. nella citata sentenza, osservando: “La peculiarità della disciplina sopravvenuta sta in ciò , che essa si applica appunto anche alle domande già proposte, con il solo evidente limite, ricavabile dai principi generali, dei giudizi già definiti con sentenza passata in giudicato. Tanto consente di ritenere che con la citata normativa del DL n. 135 del 2009 e della legge 163/2009 siano stati completamente neutralizzati , soprattutto ed anche per i giudizi ancora in corso e cioè non conclusi con sentenza passata in giudicato (qual è appunto il presente) i criteri del danno stabiliti dalla L. n. 349 del 1986, art. 18 e tanto, probabilmente, secondo l’opinione dei commentatori, proprio per le difficoltà applicative indotte dalla loro intrinseca contraddittorietà e per il carattere latamente punitivo che pareva discendere dalla previsione legislativa originaria”.

22 avendo presente, tuttavia, che il decreto ministeriale di attuazione con cui avrebbero dovuto essere fissati i criteri del risarcimento per equivalente e dell’eccessiva onerosità non risulta ad oggi essere stato ancora emanato.

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Da qui la Corte ha tratto la conclusione che, nei casi pendenti, nonostante la mancata emanazione del Decreto ministeriale attuativo, sia necessario rivedere i criteri risarcitori applicati, sostituendo ai criteri di liquidazione equitativa fino ad ora presi in considerazione dai giudici del merito in applicazione del previgente art. 18, quelli previsti dalla norma vigente, ovvero verificare l’impatto di questi ultimi sui primi. La Cassazione ha così cassato con rinvio la sentenza parziale della Corte d’Appello di Napoli sulla liquidazione del danno, rinviando ad altra Sezione.

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III) La struttura dell’illecito ambientale: 1) La legittimazione attiva, 2) L’individuazione del responsabile e la natura de ll’obbligazione risarcitoria, 3) Il risarcimento dei danni.

Tutto ciò premesso, si può procedere alla disamina della regolamentazione dell’illecito ambientale, nella nuova prospettiva normativa . III 1) La legittimazione attiva: Il legislatore del 1986 aveva scelto, in punto legittimazione attiva in ordine all’azione risarcitoria per danno all’ambiente, una posizione ben definita, nel senso di attribuire la legittimazione all’azione di risarcimento del danno ambientale, anche qualora promossa in sede penale, esclusivamente in capo allo Stato ed agli Enti Territoriali sui quali incidessero i beni oggetto del fatto lesivo. Al di là delle varie elaborazioni sulla giustificazione teorica di tale attribuzione (esistenza di un diritto soggettivo dello Stato e degli Enti Territoriali sul loro territorio23, Stato quale ente esponenziale della collettività quale titolare della proprietà del bene collettivo ambiente24, posizione degli Enti quali sostituti processuali dello Stato25 ), la legittimazione esclusiva di Stato ed Enti territoriali di riferimento non è mai stata posta in discussione né in sede civile né in sede penale, ha superato il vaglio della Corte Costituzionale26 e non ha posto problemi di rilievo. Controverso è divenuto, invece, il ruolo delle associazioni ambientaliste che, prima della legge 349 ed a partire dagli anni ’70 avevano visto riconosciuto il loro diritto a proporre ricorsi giurisdizionali a tutela di un interesse pubblico diffuso, subordinatamente ai requisiti che l’associazione fosse riconosciuta ed avesse indicato quale scopo nello statuto proprio il perseguimento dell’interesse minacciato e potesse vantare un collegamento territoriale con il bene protetto.27 La giurisprudenza amministrativa antecedente al 1986 aveva così sancito il principio della localizzazione geografica sul territorio degli interessi in capo all’associazione che li faceva valere in giudizio. Controversa era invece la legittimazione a costituirsi parte civile nei giudizi penali delle associazioni c.d. “esponenziali”, all’epoca riconosciuta spesso dai Giudici di merito, ma esclusa dalla Cassazione, in assenza di un preciso riconoscimento legislativo. Sarà stata, forse, proprio questa “anarchia” giurisprudenziale che ha spinto il legislatore a disciplinare espressamente la questione. 23 Cutrera, 1987 24 Maddalena, Danno pubblico ambientale, Rimini, 1990; 25 Giampietro 1987 26 Corte Cost. 29.12.1988 n.1162 27 Cons. Stato , 9.3.1973 n. 253, FI 1974, III, 53.

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Sta di fatto che l’art. 18 al comma 5° ha previsto che “le associazioni individuate in base all’art. 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi”, L’art. 13 ivi richiamato prevedeva a sua volta le modalità con le quali il Ministro dell’Ambiente individua con Decreto le associazioni titolari del diritto ad intervenire in giudizio ed a richiedere l’annullamento degli atti illegittimi, limitando la categoria ad associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e a quelle presenti in almeno cinque regioni, dotate di ordinamento interno democratico e con scopi statutari ambientali ben definiti. In pratica la legge 349 aveva inteso escludere qualsiasi altro Ente diverso dallo Stato e dagli Enti territoriali locali dalla pretesa risarcitoria, riservando, con il V comma (che è l’unica disposizione rimasta in vigore dopo l’emanazione del c.d. Codice dell’Ambiente del 2006), alle Associazioni a carattere nazionale o rappresentate in almeno 5 Regioni, il solo potere di INTERVENTO, che è stato interpretato come mero potere di intervento adesivo a norma dell’art. 105 II comma c.p.c.. La norma è stata assai criticata per questo ed anche per la limitazione a tali tipologie di Associazioni anche del potere di denuncia di potenziali situazioni di rischio ambientale, che peraltro competerebbe al singolo cittadino, senza che sia stato previsto un correlato dovere della P.A. destinataria della segnalazione di attivarsi. Residua il dubbio circa i concreti poteri processuali delle Associazioni ambientaliste in sede di intervento e circa la facoltà di costituzione di parte civile nel processo penale per reati ambientali, generalmente ammessa dalle Corti di merito, con svariate giustificazioni teoriche, per lo più richiamandosi alle norme civilistiche relative all’illecito (artt. 2043-2059 c.c.) che si ritengono applicabili con riferimento ad Associazioni portatrici di interessi concreti localizzati in una certa area territoriale. Nella formulazione attuale dell’art. 311 è stato, tuttavia, eliminato ogni riferimento agli Enti Territoriali, in coerenza con l’attribuzione allo Stato della potestà legislativa esclusiva in materia di ambiente, ecosistema e beni culturali, operata dalla riforma dell’art. 117 Cost. attuata con legge costituzionale del 2001. Tale esclusione ha provocato la reazione di alcune Regioni, in particolare della Regione Calabria, Regione Puglia e della Regione Piemonte , le quali già nel 2006 hanno sollevato distinte questioni di illegittimità costituzionale sia dell’intero testo della parte sesta del D.lvo 152/2006, sia delle singole disposizioni in essa contenute, per violazione degli artt. 3, 5, 24, 76, 77,97, 114, 118 , 119 e 120 Cost., nonché del PRINCIPIO DI LEALE COLLABORAZIONE, perché, sostanzialmente la disciplina impugnata, nel riservare allo Stato, senza alcuna forma di partecipazione delle amministrazioni territorialmente interessate, ogni intervento amministrativo e l’azione risarcitoria, escluderebbe l’apporto delle amministrazioni locali in violazione del loro ruolo istituzionale, della legge delega, del principio di buona amministrazione e delle ripartizione di competenze. La Corte Costituzionale, con una nota sentenza del 200928, richiamandosi ad un suo recente precedente con cui aveva ritenuto in parte inammissibili ed in parte infondate analoghe questioni sollevate dalle stesse Regioni relativamente alla dedotta illegittimità costituzionale dell’intero testo del Codice dell’Ambiente, e con la quale erano stati dichiarati inammissibili gli interventi in giudizio di associazioni quali il WWF Italia-Onlus, in quanto soggetti privi di potestà legislativa, ha dichiarato inammissibili tutte le questioni sollevate, ad eccezione di quella nei confronti dell’art. 117 Cost., dichiarata infondata, perché la Corte non ha ravvisato nella complessiva disciplina sull’ambiente alcuna possibilità di interferenza fra competenze regionali e statali che potesse ledere il principio

28 Corte Cost. n. 225 del 23.07.2009

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di leale collaborazione, attesa la prevalenza di quella statale, finalizzata alla protezione dell’ambiente. Nonostante l’evidente intenzione del legislatore, così giustificata dalla Consulta, di escludere gli Enti Territoriali dalla legittimazione ad agire in giudizio per il ristoro del danno ambientale, parte della giurisprudenza ha proseguito imperterrita ad ammetterla, sia in sede civile sia in sede di costituzione di parte civile nel processo penale, vuoi sotto il profilo del diritto a far valere in giudizio, anche in via cautelare, un danno alla salubrità dell’ambiente, inteso come danno alla salute della collettività di cui il Comune è ente esponenziale, nonché come pregiudizio alla propria identità storico-culturale-economica29, vuoi sotto il profilo dell’applicabilità, in caso di commissione di reati ambientali, del combinato disposto degli artt. 2059 c c e 185 c.p., ritenendo che il T.U. 152/2006 non escluda una competenza sussidiaria o quantomeno concorrente di enti territoriali e locali in ordine ad eventi dannosi incidenti sul loro territorio30, orientamento che non pare così rispettoso dello spirito della norma, anche alla luce dell’interpretazione della Corte Costituzionale. In sede penale, la giurisprudenza di merito ha ritenuto altresì, giustamente, compatibile la disciplina dell’art. 311 con quella specificamente prevista dall’art. 872 comma 2 c.c. (proprietà edilizia) , ammettendo alla costituzione di parte civile i soggetti privati che per effetto della condotta illecita lesiva del danno ambientale abbiano subito un proprio danno patrimoniale.31 Tale giurisprudenza pare senz’altro condivisibile, in quanto il Testo Unico dell’Ambiente non ha, né avrebbe potuto, escludere la tutela risarcitoria civilistica a soggetti, pubblici o privati, lesi nei loro diritti soggettivi da condotte illecite plurioffensive, sol perché l’illecito aveva prodotto anche un danno ambientale. Tale principio basilare, espresso del resto anche dalla Direttiva del 2004, che al quattordicesimo Considerando prevede un’espressa clausola di salvezza per i danni alla salute ed alla proprietà dei privati, è stato ampiamente ripreso ed ilustrato dalla S.C. nella nota sentenza con cui è stato affermato il diritto “jure proprio” dei residenti di un’area che aveva subito gravi manifestazioni di inquinamento per effetto di immissioni provenienti da un impianto industriale al ristoro del danno non patrimoniale conseguente al patema d’animo indotto in ogni cittadino dalla preoccupazione per il proprio stato di salute conseguente all’inquinamento.32 Quanto, infine, alle associazioni ambientaliste, alle quali residua l’intervento, in virtù del salvataggio del comma 5 dell’art. 18 da parte del T.U.A., viene pacificamente riconosciuto in giurisprudenza il diritto di costituzione di parte civile nei processi penali qualora siano portatrici di danni riferibili ad un interesse proprio, ovvero quando l’illecito ambientale coincida con un diritto soggettivo del sodalizio.33

### III 2) L’individuazione del responsabile e la natur a dell’obbligazione risarcitoria:

29 Cfr. Tribunale Salerno sez I, 28.4.07 (Com. Serre c/ Comm. Straord. Gov. Emergenza rifiuti in Campania) in Corriere Merito 2007, 10, 1139 30 Tribunale Milano sez X, 12.02.2010, Foro Ambrosiano, sez X, 12.02.2010 31 Cfr. Tribunale Salerno sez. I 16.12.09 Riv. Pen. 2010, 10, 1035 32 Cass. Civ. 13.05.2009 n. 11059 caso Icmesa. 33 Cfr., fra le tante, Cass. Pen. Sez .III 25.5.2011 n. 25039

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L’art. 18 non ha tipizzato i soggetti chiamati a rispondere dell’illecito ambientale, definiti, genericamente come “l’autore del fatto”, pertanto, non risultando tipizzata nemmeno la condotta illecita, lascia del tutto libera l’individuazione del soggetto passivo dell’azione a seconda della specifica condotta individuata dalla parte attrice . Potrà dunque trattarsi di un’impresa (caso più frequente) , di un singolo cittadino, di un ente pubblico e(o di un pubblico funzionario. In questi ultimi due casi la giurisprudenza è stata più riottosa nel pervenire alla distinzione fra danno erariale e danno ambientale ed a riconoscere la distinzione ontologica fra la condotta lesiva dell’interesse patrimoniale dello Stato , fonte , appunto, di danno erariale e di competenza della Corte dei Conti, e la condotta lesiva dell’ambiente, di competenza del G.O. a norma dell’art. 18. A tal proposito ha avuto una funzione chiarificatrice la Cassazione a SS.UU nel 199234 che, in una fattispecie relativa al danno all’ambiente cagionato in Sicilia da operazioni poste in essere su territorio a vincolo archeologico per ordine di amministratori di ente territoriale, senza la prescritta autorizzazione della Sopraintendenza archeologica di Palermo, ha escluso che quando la condotta del funzionario trasgressiva ai doveri del rapporto di servizio abbia cagionato due distinti tipi di danno, l’uno consistente nella mala gestio del pubblico denaro e l’altro nella compromissione dell’ambiente, la seconda assorba la prima, facendo venire meno la perseguibilità autonoma delle responsabilità che ne conseguono. Il cuore del problema, in tema di individuazione del soggetto passivo dell’azione da risarcimento ambientale, ovvero del reale responsabile, dipende, tuttavia, dalla perniciosa esclusione della solidarietà passiva prevista dal comma 7 dell’art. 18 in caso in cui il danno sia attribuibile a condotte illecite di diversi soggetti, in deroga al principio della solidarietà fra condebitori prevista, in tema di illecito, dall’art. 2055 c.c. e, in tema di obbligazioni dall’art. 1294 c.c. . Tale deroga, rappresentativa del principio, di derivazione comunitaria del “chi inquina paga”, abolita dal Codice dell’Ambiente del 2006, è stata ripristinata dal DL 135 del 25.09.2009, convertito con la legge 166/2009, a modifica dell’art 311 del D.lvo 3.4.2006 n. 152, che, attualmente, nell’ultima parte del terzo comma recita: “Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale. Il relativo debito si trasmette, secondo le leggi vigenti, agli eredi nei limiti del loro effettivo arricchimento.” E’ noto che la solidarietà fra condebitori, qualora l’evento dannoso sia prodotto da un concorso di fatti illeciti, è istituto ideato a vantaggio del creditore, in quanto agevola l’indagine a carico del danneggiato sul nesso causale fra plurime condotte lesive di distinti soggetti e rovescia a carico dei debitori l’eventuale onere di provare la quota di corresponsabilità , agli effetti del regresso. Il legislatore ha, invece, ricostruito la responsabilità da illecito ambientale come fattispecie di obbligazione parziaria, in cui è necessaria la prova, a carico dello Stato danneggiato, trattandosi di fattispecie di natura extracontrattuale, dell’esatta attribuibilità ai presunti responsabili del “quid” di inquinamento risarcibile, introducendo così una finalità punitiva della responsabilità civile collegata con la natura pubblicistica del danno35 e costringendo il giudicante ad effettuare quella che è stata chiamata una “ponderazione comparativa” per la valutazione del concorso delle colpe. Prova che, non trattandosi, di solito, di fatti episodici isolati attribuibili ad un solo soggetto, ma, molto frequentemente, di danni a formazione progressiva, cagionati da un intersecarsi di plurime e distinte condotte illecite fra loro sovrapponibili o concorrenti e con effetti che

34 Cass. Civ. SS.UU. 23.06.92 n. 7677 35 Prati, Riv. Giur. Ambiente 2010,6, 957

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possono perdurare a lungo nel tempo, anche dopo la successione di nuovi soggetti nelle posizioni precedenti, non si presenta certo agevole, incentrandosi in maniera anche quantitativa sul nesso di causalità e facendo confondere il piano causale oggettivo con quello psicologico della colpa . Tale previsione è dunque, a mio avviso, assai criticabile proprio per le difficoltà probatorie processuali. Secondo taluni, invece, la solidarietà passiva si porrebbe in contrasto con le finalità deterrenti della responsabilità ambientale: si sostiene, infatti, che l’impresa che debba adottare costose metodiche antiinquinamento, sarà disincentivata da tale spesa, dall’ipotesi che possa essere chiamata a rispondere in via solidale in ordine a condotte lesive poste in essere da altra impresa36. Tale opinione mi pare non tenere conto del fatto che, se davvero l’impresa abbia adottato idonee misure di protezione ambientale, essa andrà esente per ciò solo da qualsiasi responsabilità, non potendosi in questo caso nemmeno ipotizzare una responsabilità solidale che, invece, potrebbe indurre tale impresa ad esigere idonee misure protettive anche da parte delle consorelle o delle altre aziende con cui ponga in essere operazioni commerciali a rischio ambiente. Sta di fatto che la giurisprudenza ha praticamente eluso la disposizione in questione, condannando sovente i vari responsabili in solido, in base al richiamo dei principii generali civilistici in tema di solidarietà 37, in barba al principio di specialità, con l’éscamotage dell’accoglimento della domanda non solo a titolo di responsabilità ambientale, ma anche in virtù di altri titoli di illecito dedotti in giudizio, quali, ad esempio, l’art. 2050 c.c.. E’ nota, ad esempio, la giurisprudenza che qualifica come attività pericolosa lo smaltimento e stoccaggio dei rifiuti tossico-nocivi.38 In tal modo la giurisprudenza ha spesso posto in essere una vera e propria disapplicazione di una norma di diritto, dettata, forse, da un condivisibile intento di tutela del danneggiato, ma che non può che destare qualche perplessità, specialmente alla luce della Direttiva 2004/35/CE del 21.04.2004, che ha espressamente affermato il principio di base “Chi inquina paga” e l’esigenza di individuazione specifica dell’inquinatore. Una lettura alternativa dell’art. 18 comma 7 in termini di disciplina del regresso è stata, ad esempio, offerta dalla Cassazione Penale, che, nella ritenuta impossibilità di superare l’art. 187 c.p., ha affermato che “Quanto alla lamentata solidarietà anche nella condanna alla bonifica ed al ripristino, deve essere ribadito che la norma contenuta nella legge n. 349 del 1986, art. 18 , comma 7 , secondo la quale nei casi di concorso nello stesso evento di danno ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale, disciplina esclusivamente i rapporti interni di regresso tra i condebitori , ponendosi come deroga al principio generale della responsabilità solidale di cui all’art. 2055 c.c., senza nessuna trasformazione dell’obbligazione solidale prevista per le obbligazioni risarcitorie da delitto e da fatto illecito, in obbligazione parziaria”39 , interpretazione che, in effetti, ben può venire in soccorso dell’operatore del diritto ogni qualvolta l’illecito ambientale civilistico coincida con una fattispecie di reato. Un rigoroso approccio al problema, molto attuale, in considerazione della vigenza della previsione, è stato, invece, attuato dalla notissima sentenza del Tribunale di Torino n.

36 Cfr. Pozzo, cit. 37 Cfr., ad es. Cass 1.9.1995 n. 9211 38 Cfr. Cass. 1.9.1995 n. 9211 39 Cass. Pen. Sez. III 12.01.2011 n. 18815, conferma C. App. Torino

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4991/08 del luglio 2008 (caso Ministero Ambiente c/Syndial), che pronunciando la condanna nei confronti dell’impresa inquinatrice delle acque del Lago Maggiore e di undici persone fisiche chiamate a rispondere dei danni a vario titolo in relazione alle qualifiche rispettivamente rivestite nel periodo temporale durante il quale si è verificata l’azione contaminante, ha condannato l’impresa per l’intero al risarcimento liquidato in complessivi € 1.833.475.405,49 oltre ad interessi ed ha fatto uno sforzo istruttorio e motivazionale encomiabile nell’attribuzione a ciascuno dei funzionari, analiticamente, della quota corrispondente alla propria parte di responsabilità nella produzione del danno, senza vincolo di solidarietà, tenendo conto della natura delle mansioni, del livello di responsabilità dipendente, ad esempio, dall’essere stato amministratore delegato o presidente o responsabile della sicurezza della dante causa Enichem Synthesis e della rilevanza causale delle azioni individuale commissive od omissive (carenza di controlli) in ordine alla compromissione dell’ambiente. La questione pratica dell’individuazione concreta del responsabile del danno ambientale e del nesso di causalità fra la condotta del singolo soggetto chiamato a rispondere ed il danno, in tutti i frequenti casi di inquinamenti complessi cagionati da plurime distinte azioni umane e da soggetti succedutisi nel tempo, vivamente sentita non solo in Italia, specialmente a seguito della Direttiva Europea del 2004 , ha addirittura condotto la Corte di Giustizia CE, in sede di interpretazione degli artt. 3 n. 1, 4 n. 5 e 11 n. 2, a pervenire alla tesi che la Direttiva consenta all’autorità competente per la prevenzione e le attività di riparazione del danno ambientale, di presumere l’esistenza di un nesso di causalità, nell’ipotesi di inquinamento a carattere diffuso, tra determinati operatori e un inquinamento accertato, in base all’esistenza di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza fra sostante inquinanti ed i componenti impiegati da detto operatore. La Corte ha così affermato che gli articoli suddetti debbano essere interpretati nel senso che, quando decide di imporre misure di riparazione del danno ambientale ad operatori le cui attività siano elencate nell’allegato III a detta direttiva, l’autorità competente non è tenuta a dimostrare un comportamento doloso o colposo in capo agli operatori le cui attività siano considerate all’origine del danno ambientale.40 III 3) Il risarcimento del danno ambientale. L’art. 18 della L. n. 349 aveva introdotto una regola risarcitoria opposta rispetto a quella del codice civile, secondo cui la regola è il risarcimento per equivalente e l’eccezione è rappresentata dalla facoltà per il danneggiato di chiedere la reintegrazione in forma specifica. La deroga all’art. 2058 c.c.41 appare ancora più marcata, laddove è stato escluso ogni rilievo all’eccessiva onerosità per il responsabile del ripristino, in tal modo svincolando la responsabilità del danneggiante dalla proporzionalità rispetto alla propria condotta e dando un connotato “punitivo” alla riparazione del danno. Sennonchè, l’oggettiva difficoltà del ripristino completo del bene-ambiente, specialmente nell’ipotesi di distruzione di una risorsa naturale, ha in pratica dato luogo alla quasi abituale liquidazione del danno per equivalente, in via equitativa, secondo i criteri imposti dalla norma, ovvero, per il caso di impossibilità di una precisa quantificazione del danno,

40 Corte Giustizia CE, Grande Sezione, 09.03.2010 n. 378 Soc. ERM e altro c Min Sviluppo economico, in Riv. Giur. Ambiente, 2010, 6 957 41 Salvatore Patti “La quantificazione del danno ambientale” in La Responsabilità Civile, 485, luglio 2010

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tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore, in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali. E’ stato osservato in dottrina che il ricorso al criterio della “gravità della colpa” è nuovo ed estraneo al sistema civilistico italiano42. Esso è menzionato, per il vero, dall’art. 1227 c.c. a proposito del concorso di colpa del danneggiato e dall’art. 2055 c.c., in tema di regresso fra condebitori solidali (unitamente al criterio dell’entità delle conseguenze), ma attiene alla successiva ripartizione del risarcimento pro quota e non, come nel caso del danno ambientale, alla quantificazione generale del danno. E’ stato così opinato che anche tale caratteristica avesse lo scopo di conferire carattere punitivo al risarcimento, in quanto ancorato alla misura della scelleratezza della condotta dell’inquinatore. Curiosa è anche l’indicazione, fra detti criteri, di quello del profitto del responsabile, da intendersi, evidentemente, come vantaggio patrimoniale dalla minore o omessa spesa per la prevenzione del rischio ambientale e non come profitto globale di tutta l’attività di impresa, soluzione che a mio avviso svincolerebbe troppo la responsabilità dal criterio della proporzionalità. Interessante, infine, appare l’enucleazione di criteri “ufficiali” dell’esercizio del potere equitativo conferito al giudice, in generale, dall’art. 1226 c.c. , situazione che, di fatto, da una parte, esonera la parte danneggiata dall’onere, normalmente ritenuto a questa spettante, di suggerire i criteri liquidatori da utilizzare in giudizio e di fornire in concreto dati utili per l’esercizio del potere, dall’altra ha una sicura utilità in termini di parità di trattamento ed uniformità della giurisprudenza. E’ infatti noto che, secondo i principii generali normalmente seguiti dalla giurisprudenza in materia di liquidazione equitativa ex artt. 2056 e 1226 c.c., l’esercizio del potere conferito al giudice non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendosi già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno, né esonera la parte danneggiata dal fornire gli elementi probatori ed i dati di fatto utili per rendere possibile l’apprezzamento equitativo del “quantum”43. Nel caso dell’art. 18, invece, i due aspetti appaiono compenetrati in un unico accertamento da demandarsi, necessariamente alla CTU, che in materia è un accertamento indispensabile. L’esigenza che l’esercizio concreto del potere equitativo di liquidazione non generi disparità di trattamento non è del resto una preoccupazione estranea alla nostra giurisprudenza ed è da questa esigenza, ad esempio, che è nato il sistema tabellare della liquidazione del danno non patrimoniale e che la Cassazione ha recentemente affermato che: “Nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l'adozione della regola equitativa di cui all'art. 1226 cod. civ. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziari. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale - e al quale la S.C., in applicazione dell'art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea

42 Salvatore Patti, scritto cit. 43 Cfr. Cass. Civ. 7.6.2007 n. 13288; Cass. Civ. 30.04.2010 n. 10.607

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generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono. L'applicazione di diverse tabelle, ancorché comportante liquidazione di entità inferiore a quella che sarebbe risultata sulla base dell'applicazione delle tabelle di Milano, può essere fatta valere, in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, solo in quanto la questione sia stata già posta nel giudizio di merito”.44 Ed è stata proprio l’applicazione dei criteri della gravità della colpa e del risparmio di costi per prevenzione ambientale che hanno portato a lievitare le voci di danno liquidate dalla già menzionata Sentenza del Tribunale di Torino, che , per quanto mi consta, ha erogato il risarcimento per equivalente per danno ambientale più elevato che sia mai stato liquidato in Italia (un miliardo e ottocentomila euro circa). Questo sistema avrà anche avuto le sue pecche in considerazione dell’introduzione surrettizia nel nostro sistema del danno punitivo e sarà anche stato applicato in modo spesso non corretto,45 ma, dal punto di vista del giudice di merito, aveva il pregio di indicare dei criteri di semplice comprensione, uguali per tutti, agevoli da far rientrare nel contraddittorio e facilmente traducibili in quesiti per il CTU. La nuova normativa ha puntato l’accento sulla priorità del risarcimento in forma specifica, e, comunque, sulla valutabilità economica del danno, ha reintrodotto in materia l’applicabilità dell’art.2058 c.c. e, attenzione, ha previsto un’alternativa procedimentale per il ripristino del bene leso. L’art. 311 pone infatti per il Ministro dell’ambiente l’alternativa fra l’azione ordinaria risarcitoria innanzi al giudice ordinario ed il procedimento amministrativo disciplinato dalla parte sesta del titolo III, disponendo che, qualora scelga la seconda strada, gli è preclusa la prima(art. 315). 46 In sintesi, il Ministro ha facoltà di emettere un’ordinanza con cui ingiunge al responsabile di ripristinare l’ambiente entro un determinato termine (art. 313comma 1). Se il destinatario dell’ordinanza non vi ottempera, oppure se il ripristino risulti in tutto o in parte impossibile ovvero eccessivamente oneroso, ai sensi dell’art. 2058 c.c., il Ministro, con successiva ordinanza, ingiunge il pagamento, entro sessanta giorni, di una somma pari al valore economico del danno accertato o residuato, a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario (art. 313 co. 2). L’art. 314, infine, pone una vera e propria presunzione circa l’ammontare del risarcimento, nel caso non sia possibile determinare i costi per il ripristino, prevedendo che, in tale caso si presume, fino a prova contraria che il suo ammontare non sia inferiore al triplo della somma corrispondente alla sanzione pecuniaria amministrativa, oppure alla sanzione penale in concreto applicata. Tale disposizione ha, in pratica, introdotto una presunzione “juris tantum” vincibile tramite la prova, a carico del responsabile, del fatto che, in realtà, il danno sia di ammontare

44 Cass. civ., Sez. III, 07/06/2011, n. 12408 45 S. Patti, opera cit. 46 Art. 315- Effetti dell’Ordinanza sull’azione giudiziaria 1) “Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio che abbia adottato l’ordinanza di cui all’art. 313 non può né proporre né procedere ulteriormente nel giudizio per il risarcimento del danno ambientale, salva la possibilità dell’intervento in qualità di persona offesa dal reato nel giudizio penale”

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inferiore, onere probatorio assai arduo, se si considera che il presupposto per l’applicazione di tale soluzione è proprio l’impossibilità di valutare il costo di ripristino.47 Poiché nessun criterio risarcitorio risultava essere stato formalmente espresso dal T.U.A con riferimento al procedimento giudiziario, si era sostenuto che tali criteri liquidatori, formulati per il procedimento amministrativo, potessero essere applicati anche nelle controversie civili, per una sorta di analogia “funzionale”. Dopo la legislazione del 2009, tuttavia, venuti meno, ahimè, anche per i procedimenti pendenti, i chiari criteri dell’art. 18, occorre avere riferimento alla Direttiva, Allegato II, per quanto riguarda le misure di riparazione “primaria”, “complementare” o “compensativa” che il Ministro può ordinare al responsabile e che, secondo le finalità della Direttiva, appaiono essere, nell’ordine indicato, la via obbligata . C’è infatti chi dubita che, in un’interpretazione orientata della disciplina, sia ancora legittimo parlare di risarcimento pecuniario del danno all’ambiente. Nella normativa italiana, qualora l'effettivo ripristino o l'adozione di misure di riparazione primaria, complementare o compensativa risultino in tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi dell'articolo 2058 del codice civile o comunque attuati in modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti, il risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato verrà determinato conformemente al comma 3 dell’art. 311, per finanziare gli interventi di cui all'articolo 317. L’art. 311 comma 3 rimanda agli Allegati 3 e 4 della Parte Sesta. A dire il vero il Decreto Ministeriale di attuazione previsto dall’art. 5 bis del dl 135/2009, che dovrebbe fornire indicazione dei criteri per la liquidazione patrimoniale del danno per equivalente, non mi risulta a tutt’oggi emanato, ma, poiché la Cassazione ha valutato che la novella sia di immediata portata applicativa occorrerà prima individuare quali criteri siano ancora validi e quali esclusi, in secondo luogo verificare, a mio avviso anche d’ufficio, nei procedimenti sub judice, come lo jus superveniens sia applicabile alle fattispecie pendenti, previa provocazione del contraddittorio sulla questione. Solamente nel caso di impossibilità di adozione fruttuosa di una procedura di ripristino o di riparazione, in base al nuovo testo dell’art. 311 T.U.A., si dovrà avere riguardo al valore monetario stimato delle risorse naturali e dei serv izi perduti e ai parametri utilizzati in casi simili o materie analoghe per la liquidazio ne del risarcimento per equivalente del danno ambientale in sentenze passate in giudica to pronunciate in ambito nazionale e comunitario . Tale criteriologia ingenera non poca preoccupazione per il giudice di merito, dal momento che le (poche) pronunce italiane in materia di ambiente risalgono all’epoca di applicazione dell’art. 18, e dunque dovrebbero essere sforbiciate, laddove si siano avvalse dei criteri del profitto e della gravità della colpa, la maggior parte dei casi sono stati poi definiti con transazioni globali e molte delle sentenze più famose hanno riguardato fattispecie di danni ambientali non soggette all’ambito applicativo della Direttiva. Occorre, a proposito della soluzione transattiva, precisare che, a seguito della positiva esperienza delle bonfiche attuate nel quinquennio 2002-2007 nel sito di Porto Marghera, il Ministero dell’Ambiente ha dato corso a meccanismi articolati risarcitori-riparatori anche in diversi siti di interesse nazionale, tramite la preventiva stipula, da parte delle Pubbliche Amministrazioni interessate, di Accordi di Programma in cui erano previste espressamente le transazioni come strumento contrattuale di composizione delle liti in 47 S. Patti, opera cit.

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materia ambientale. Ricordo, ad esempio gli Accordi di Programma per il sito di Mantova (31.5.2007), per il sito di “Napoli Orientale” (15.01.2007) e per quello di Piombino (21.12.2007). In questi accordi spesso sono coinvolti anche i soggetti che, benché formalmente non “inquinatori” abbiano a qualsiasi titolo la custodia dei fondi di riferimento e possano dirsi pertanto tenuti alla bonifica ed alla riparazione in virtù dello stesso principio su cui si fonda l’art. 2051 c.c.. E’ poi intervenuta la legge 22.2.2009 n. 135 (di conversione del D.L. 30.12.2008 n. 208) che, dettando alcune regole in materia di danno ambientale, ha disciplinato l’istituto delle c.d. “transazioni globali” che ha inteso fornire copertura normativa alle prassi già poste in atto, in relazione a casi relativi ad aree comprese all’interno di siti di interesse nazionale 48 e ad evitare il ricorso a gravose procedure legislative di approvazione di transazioni importanti e complesse.49 La negoziazione dell’eventuale risarcimento per equivalente ricompresa in tali transazioni non potrà più essere oggetto di vaglio giudiziario , laddove la bonifica, pur mirante alla c.d. “restitutio in integrum” non necessariamente avrà carattere esaustivo e riparatorio del danno. E’ dubbio pertanto, in caso di definizione con transazione, l’utilizzabilità di eventuali sentenze passate in giudicato, poi superate dall’accordo globale , agli effetti dei parametri di cui sopra. Con riferimento al criterio dei precedenti giurisprudenziali, potrebbe essere utile, per l’individuazione di utili criteri risarcitori, anche il vaglio delle numerose sentenze in materia di danno ambientale non rientranti nella sfera di applicazione della Direttiva del 2004,in quanto si trattava di danno ambientale non aventi le caratteristiche del danno risarcibile, non potendosi escludere la comunanza dei criteri in concreto utilizzati, ad esempio, per valutare l’incidenza temporale del fenomeno inquinante o i metodi di valutazione dei costi di ripristino50. Naturalmente, infatti, l’esclusione dal campo applicativo della direttiva non significa inesistenza di tutela del danno ambientale, applicandosi a tali fattispecie, in primi a quella del danno all’atmosfera, le normali regole civilistiche.51

48 Art. 2 comma 1 L cit, con riferimento ai siti di cui agli artt. 17 comma 14-art. 18 comma 1 lett n.9 D.lvo 5.2.1997 n. 22. Art 1 comma 4 legge 9.12.1998 n. 426, art. 15 DM 25.10.99 n. 471, art. 114 commi 24 e 25 legge 23.12.2000 n. 388, d.m. 18.9.2001 n. 468, art. 252 D.lvo 152/2006. 49 Come avvenne, ad esempio, nel noto caso del naufragio della motonave Haven in acque italiane, a largo di Genova-Voltri, che provocò la morte di 5 persone, l’inquinamento delle acque marine e dei fondali , lo sversamento in mare di circa 15.000 ton di greggio e l’inquinamento di 20Km di costa ligure , transatta nel 1998 con il riconoscimento a favore dello Stato Italiano dell’importo di lire 117,6 miliardi (pari ad € 60.735.331) di cui una parte per interventi di bonifica e riqualificazione ambientale. 50 Ad es. sentenza Pretura Rho del 22.6.89, che nel caso di inquinamento di un corso d’acqua , applicando l’art. 18 ha liquidato 500 milioni di lire; sent. C. App. Messina 30.03.1989- caso “Patmos” che, in un caso di danno al mare per fuoriuscita di greggio, ha liquidato ex art. 18 un risarcimento commisurato al prezzo di mercato delle risorse ittiche danneggiate. 51 - cfr. sentenza Tribunale Venezia 27.11.2002 n. 1286 divenuta definitiva a seguito della sent. Cass. Pen. 20370del 20.4.2006, per una fuga di ammoniaca anidra NH3 dallo stabilimento del Petrolchimico di Porto Marghera che ha interessato l’ambiente , con effetti nocivi per i dipendenti durati poche ore: il danno ambientale è stato liquidato in € 225.000 € per alterazione temporanea della qualità dell’aria, ad effetto quasi istantaneo; - cfr. sentenza 24.10.2003 Tribunale Venezia, per una fuga accidentale di 3000 KG di sostanze tossiche in aria nello stabilimento di Porto Marghera, in cui il Giudice ha liquidato al Ministero attore la somma di € 250.000, a titolo di risarcimento per equivalente del danno ambientale da contaminazione dell’aria; - cfr. sentenza pen. GUP Tribunale Venezia n. 975 del 19.07.2002 per fuga di 900 Kg di ammoniaca, che ha liquidato per danni all’ambiente la somma di € 290.000.

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Resta poi il problema dell’onere di acquisizione dei “precedenti” utili per il caso concreto, laddove si tratti di sentenze di merito, onere per il quale ritengo si possa senz’altro sollecitare la collaborazione delle parti interessate. L’interpretazione della S.C. in tema di retroattività della disciplina di accertamento dell’obbligazione risarcitoria da danno ambientale ha trovato pronta applicazione nella giurisprudenza di merito, forse però non del tutto in linea con lo spirito della nuova normativa e l’intenzione della Cassazione 6551/2011. Con una sentenza del 14.12.2011, infatti, il Tribunale di Bologna, in un giudizio relativo all’inquinamento di un canale di bonifica in cui era accertata la presenza di liquame stagnante di colore scuro, oleoso e schiumoso, proveniente dal fossato di scolo antistante ad una cantina vinicola, si è fatto carico, per lo meno in linea teorica, dell’affermazione del principio, in punto “quantum debeatur” secondo cui il danno deve essere risarcito in base ai criteri stabiliti dall’art. 311 comma terzo del D.lg 152/06, così come indicato dalla S.C. nella sentenza 6551/2011 e quindi , preso atto della mancata emanazione del Decreto con cui avrebbero dovuti essere indicati i parametri, pensando di attenersi a quanto indicato dalla Cassazione ha rilevato poi, in concreto, invero senza argomentazioni specifiche e senza affrontare i criteri prescritti dalla Direttiva, che nel caso concreto una riparazione in forma specifica del tipo risorsa-risorsa o servizio-servizio non appariva praticabile e che quindi occorreva percorrere la via della valutazione monetaria, potendosi utilizzare all’uopo, quale criterio di stima del pregiudizio, la valutazione a suo tempo effettuata dal ministero attore, che poteva costituire “un utile strumento di ragguaglio , assumendo nella prospettiva della disciplina comunitaria la natura di valutazione monetaria delle necessarie misure riparatorie”. Il Tribunale di Bologna ha quindi liquidato, senza spiegazione analitica delle modalità di calcolo, la somma di € 1859 più accessori di legge.

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IV) Le misure di riparazione del danno ambientale s econdo la Direttiva del 2004 ed il D.L. 25/2009, accertamento del danno e CTU:

1) I criteri della Direttiva; 2) Applicazioni pratiche.

IV 1) I criteri della Direttiva: L’Allegato II della Direttiva contiene un quadro comune di indicazioni da rispettarsi per scegliere le misure più appropriate cui attenersi per garantire la riparazione del danno ambientale, che il responsabile dovrà eseguire, secondo l’ordine di priorità stabilito dalla normativa. L’Allegato distingue fra “riparazione del danno all’acqua o alle specie e agli habitat naturali protetti “ e “riparazione del danno al terreno”. Nel primo caso (acqua, specie ed habitat protetti) , il procedimento di riparazione del danno deve seguire un determinato ordine, in quanto l’obiettivo della Direttiva è il completo ripristino dell’ambiente danneggiato.

a) Per riparazione “primaria ” si intende qualsiasi misura di riparazione che riporti le risorse o i servizi naturali danneggiati alle condizioni originarie.

b) Per riparazione “complementare ” si intende qualsiasi misura intrapresa per compensare il mancato ripristino completo delle risorse o dei servizi naturali danneggiati, in modo da ottenere, anche in un sito alternativo, le medesime condizioni che si sarebbero ottenute se il sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie. Laddove possibile, il sito alternativo dovrebbe essere ricavato in collegamento o nei pressi di quello distrutto, avuto riguardo agli interessi della popolazione colpita.

c) Per riparazione “compensativa” , si intende qualsiasi misura intrapresa per compensare le perdite temporanee di risorse o di servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo. Essa consiste in ulteriori miglioramenti alle specie ed agli habitat naturali protetti o alle acque nel sito danneggiato o in un sito alternativo, ma non è una compensazione finanziaria al pubblico.

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d) Per “perdite temporanee” si intendono le perdite risultanti dal fatto che le risorse o i servizi naturali danneggiati non possono svolgere le loro funzioni ecologiche o fornire i servizi ad altre risorse naturali o al pubblico finchè le misure primarie o complementari non abbiano prodotto un effetto completo.

Il ristoro delle perdite temporanee pare, in generale, compatibile con tutte le misure di riparazione sopraindicate, in quanto, così come anche già rilevato dalla S.C., peraltro in regime di art. 18, il ripristino dello stato dei luoghi richiede le sue tempistiche e non elide il pregiudizio all’ambiente protrattosi per gli anni precedenti,52 con conseguente piena compatibilità del risarcimento sia in forma specifica sia per equivalente. E’ importante avere presente che la procedura di infrazione si fondava, in principalità, sul mancato collegamento espresso fra l’art. 311 e gli istituti della riparazione primaria, complementare e compensativa e sulla prevalenza data dal legislatore italiano al risarcimento per equivalente rispetto al ripristino ed alla riparazione, per cui, secondo un’interpretazione “orientata”, non pare lecito far finta che tali istituti non esistano e procedere alla liquidazione per equivalente in via di prima scelta. Taluni autori ipotizzano addirittura che la permanenza della facoltà di liquidazione del danno per equivalente, in caso di impossibilità o eccessiva onerosità del ripristino, sia ancora incompatibile con la Direttiva comunitaria.53 In realtà, se si tiene conto del fatto che le somme percepite dallo Stato a titolo di risarcimento per equivalente debbono per legge essere destinate al finanziamento degli interventi di cui all’art. 317 comma V, il risarcimento per equivalente ha comunque una sua funzione di riparazione compensativa del danno, che pare compatibile con lo scopo della Direttiva.54 L’Allegato II procede quindi ad indirizzare l’operatore sui criteri da applicare per la corretta individuazione delle misure di riparazione, da valutarsi anche in relazione alla tempistica, con suggerimento di adozione delle misure più veloci e, in primo luogo, come ripreso, un poco grossolanamente ed in via di “estrema sintesi” dall’art. 311, privilegia l’uso di metodi di equivalenza risorsa-risorsa o servizio-servizio. Tale metodica implica che debbano essere prese in considerazione in primo luogo azioni che forniscano risorse naturali e/o servizi dello stesso tipo, qualità e quantità di queli danneggiati. Qualora ciò non sia possibile, si devono fornire risorse naturali e/o servizi di tipo alternativo (per esempio compensazione della riduzione di qualità con una maggior quantità di misura di riparazione, secondo l’All. cit). Se non è possibile utilizzare, come prima scelta, i metodi di equivalenza risorsa-risorsa o servizio-servizio, si debbono utilizzare tecniche alternative di valutazione, fra cui anche la valutazione pecuniaria destinata, tuttavia, non alla liquidazione di una somma come equivalente, ma alla stima del servizio sostitutivo che ripari il bene danneggiato , in misura proporzionata con il “valore” del bene o servizio andato perduto. Tale criterio dirige l’interprete verso l’arduo compito della “stima” di un bene adespota quale l’ambiente , con tutte le difficoltà che ne discendono.

52 Cass. Civ., Sez III, 17.04.2008 n. 10118 relativa ad un pregiudizio ambientale da illegittima escavazione ed estrazione di materiali inerti durato 9 anni prima del tardivo ripristino. 53 G. Taddei in “Ambiente e sviluppo”, 2/2010 54 L’art. 317 comma V del D.lvo 152/2006 prevede che i proventi conseguiti per il risarcimento del danno ambientale debbano essere impiegati per finanziare gli interventi urgenti di perimetrazione, caratterizzazione e messa in sicurezza , interventi di bonifica delle aree inquinate ed attività dei centri di ricerca nel campo delle riduzioni delle emissioni di gas ad effetto serra e dei cambiamenti climarici globali.

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La scelta concreta delle opzioni di riparazioni deve essere effettuata, infine, nel rispetto dei criteri dettati dalla Direttiva, che sono i seguenti:

- L’effetto di ciascuna opzione sulla salute e la sic urezza pubblica; - Il costo di attuazione dell’opzione, - Le probabilità di successo di ciascuna opzione; - La misura in cui ciascuna opzione giova a ogni comp onente della risorsa

naturale e/o del servizio; - La misura in cui ciascuna opzione tiene conto dei pertinenti aspetti sociali,

economici e culturali e di altri fattori specifici della località; - Il tempo necessario per l’efficace riparazione del danno ambientale; - La misura in cui ciascuna opzione realizza la ripar azione del sito colpito dal

danno ambientale; - Il collegamento geografico al sito danneggiato.

L’autorità competente può derogare a tali criteri solamente qualora:

a) Le misure di riparazione già intraprese garantiscano che non esiste più un rischio significativo di causare effetti nocivi per la salute umana, l’acqua, le specie e gli habitat protetti e

b) I costi delle misure di riparazione da adottare per raggiungere le condizioni originarie o un livello simile siano sproporzionati rispetto ai vantaggi ambientali ricercati.

Manca, nelle ipotesi lecite di deroga, a mio avviso, l’ipotesi in cui le misure di riparazione intraprendibili, allo stato della scienza e della tecnica, oltre ad essere assai onerose, rappresentino un rischio assai concreto di nuovo danno ambientale.

I criteri stabiliti per la riparazione del danno al terreno, consistono, infine, nella raccomandazione che vengano adottate misure idonee a garantire, come minimo, che:

- Gli agenti contaminanti pertinenti siano eliminati, controllati, circoscritti o diminuiti in modo che il terreno contaminato, tenuto conto del suo uso attuale o approvato per il futuro al momento del danno, non presenti più un rischio significativo di causare effetti nocivi per la salute umana;

- Le procedure di valutazione del rischio tengano conto della caratteristica e funzione del suolo, del tipo e della concentrazione delle sostanze, degli organismi o microrganismi nocivi, del relativi rischi e delle possibilità di dispersione degli stessi;

- L’utilizzo venga calcolato in base alla normativa sull’assetto territoriale e alle norme vigenti al momento in cui è stato provocato il danno;

- Venga presa in considerazione un’opzione di ripristino naturale, ovvero senza interventi umani diretti.

IVb) Applicazioni pratiche: Nel giudizio civile, per i procedimenti nuovi pendenti, occorrerà pertanto, a mio avviso,quand’anche il Ministero fornisca dati tecnici utili ed accertamenti dell’ISPRA e dell’ARPA, ammettere, necessariamente, una CTU volta ad accertare, secondo i parametri europei, se:

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- Si sia in presenza di un “danno ambientale” ai sensi e per gli effetti della Direttiva,

come recepita dall’art. 311 e dall’art. 300 del T.U.A., e cioè di un danno avente le caratteristiche descritte e che sia “significativo” e “misurabile”;

- In caso affermativo se sussista il nesso di causa fra l’azione posta in essere dalla parte convenuta nel processo e tale danno;

- Qualora vi siano più parti convenute e si ponga un problema di concorso di condotte illecite, stabilire la misura percentuale del contributo causale di ciascun inquinatore, agli effetti della deroga all’art. 2055 c.c.;

- Procedere, nell’ordine prescritto dal legislatore europeo a verificare la fattibilità delle ipotesi di ripristino ovvero di riparazione complementare o compensativa e ad indicarne le specifiche modalità attuative, ovvero valutare l’ipotesi dell’omissione con riferimento ad un eventuale termine “tecnico” decorso il quale il ripristino non sia più possibile, avuto riguardo, quale parametro, ad uno qualsiasi dei termini disciplinati dall’art. 242 per il procedimento amministrativo;

- Valutare i costi del ripristino onde consentire di verificare se esso si appalesi “eccessivamente oneroso”, ovvero accertare l’eventuale impossibilità di valutare i costi di ripristino (agli effetti della facoltà per il giudice, in tale caso, di applicare la presunzione di valore non inferiore al triplo della somma corrispondente alla sanzione amministrativa, oppure alla sanzione penale concretamente applicata);

- Valutare le perdite “temporanee” e l’equivalente pecuniario del loro ristoro. Suggerisco di inserire analiticamente tutte queste indicazioni nel quesito e di dotare il CTU della Direttiva e dei suoi Allegati, onde impedire che il tecnico segua criteri impropri e svolga un lavoro costoso, ma inutile ed attaccabile sotto tutti i fronti. Più specifico sarà il quesito, meno frequente sarà la necessità di convocare il CTU a “chiarimenti” o di procedere ad integrazioni per lacune della relazione. Ne discende, in tutta evidenza, il ruolo preponderante, per non dire determinante, che avrà la CTU in sede processuale, nonché il ruolo del CTU di “consulente percipiente”. In tema di consulenza tecnica d'ufficio, il giudice può affidare, infatti, al consulente tecnico non solo l'incarico di valutare i fatti da lui stesso accertati o dati per esistenti (c.d. consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (c.d. consulente percipiente). Nel primo caso, la consulenza presuppone l'avvenuto espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto la valutazione di fatti i cui elementi sono già stati completamente provati dalle parti; nel secondo caso, la consulenza può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova. Naturalmente, ciò non significa che le parti possano sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente. E' necessario, invece, che la parte deduca quanto meno il fatto che pone a fondamento del proprio diritto, che il giudice ritenga che il fatto sia possibile, rilevante e tale da lasciare tracce accertabili o, comunque, da poter essere ricostruito dal consulente, che l'accertamento richieda cognizioni tecniche che il giudice non possiede oppure che vi siano altri motivi che impediscano o sconsiglino il giudice dal procedere personalmente all'accertamento, che, infine il consulente indaghi sui fatti prospettati dalle parti e non su fatti sostanzialmente diversi.55

55 Cass. 31 marzo 1990, n. 2629; Cass. 4 aprile 1989, n. 1620; Cass. 19 aprile 1988, n. 3064, Cass. Civ.., sez III 7.10.2005 n. 27002;

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Alla parte danneggiata, ovvero allo Stato, trattandosi di azioni extracontrattuali, competerà comunque, senz’altro, la prova della manifestazione dell’attività inquinante e di elementi utili per la delimitazione dei suoi effetti nel tempo, in relazione alla posizione dei diversi convenuti, la prova delle attività di bonifica eventualmente già esperite (purchè non si tratti della procedura alternativa dell’accertamento del danno prevista dalla legge 152, che preclude l’accesso al G.O. civile) , nonché l’allegazione e prova, se possibile, di circostanze utili per la valutazione dei criteri di cui all’Allegato II cit. (ad esempio la destinazione d’uso delle aree contaminate, la presenza di popolazione, effetti nocivi per la salute, aspetti sociali, ecc.). I presunti responsabili chiamati nel giudizio di danno ambientale dovranno, invece, cercare di scaricare la responsabilità (dal punto di vista causale e/o temporale) su altri soggetti, ovvero provare la loro estraneità ai fatti o la scrupolosa osservanza delle norme di prevenzione, ovvero provare di avere dato corso a fruttuose opere di bonifica ovvero vincere la presunzione di impossibilità di prova del costo di ripristino, qualora loro conveniente. Mi pare che, in considerazione dei poteri di autotutela di cui dispone lo Stato e della normativa in tema di bonifica ambientale, il ricorso all’accertamento tecnico preventivo, che poteva avere un senso quando era pienamente consentito il risarcimento per equivalente pecuniario, abbia attualmente scarse prospettive di applicazione, laddove potrebbe essere ancora d’utilità il ricorso al procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., in caso di riottosità degli inquinatori e della necessità ed urgenza di interrompere, in limine, eventuali attività potenzialmente nocive. In tale sede potrebbe , effettivamente, essere utile l’esperimento di una CTU veloce volta alla caratterizzazione della situazione ed all’indicazione dei provvedimenti urgenti di primo ripristino. Nei casi di procedimenti giudiziari pendenti, in cui già siano stati esperiti gli accertamenti funzionali all’applicazione della vecchia normativa, compresa la CTU, occorrerà ora, anche d’ufficio, verificare la compatibilità di tali accertamenti con i nuovi criteri e, qualora si ritenga la loro non esaustività, rifare la CTU con un nuovo quesito che recepisca tali criteri. Non è chi non veda come tale ipotesi comporti, a distanza di anni dalla fonte del danno, oltre ad un costo processuale enorme, una serie di difficoltà applicative di notevole entità, a cominciare dall’interpretazione della portata della novella. Ci si chiede, infatti, se la revisione dei criteri di liquidazione possa essere circoscritta al “quantum” della liquidazione per equivalente effettuata nel giudizio di primo grado già esaurita, ovvero, a monte, debba retroagire alla valutazione della fattività del ripristino o della riparazione complementare di cui alla Direttiva. Naturalmente le difese dei convenuti invocheranno la seconda interpretazione, mentre lo Stato tenderà a bypassare la fase del ripristino, sostenendo che l’accertamento del primo CTU sull’impossibilità del ripristino sia insuperabile. Altra difficoltà consisterà nell’individuazione corretta di un CTU che sia effettivamente competente ed in grado di svolgere accertamenti così complessi, parendo preventivabile l’opposizione di almeno una delle parti alla conferma di quel perito che già si sia espresso a sfavore della sua posizione processuale. In tale difficile situazione deve trovarsi, attualmente, oltre alla Corte d’Appello di Torino, anche la Corte d’Appello di Napoli, nel complicato processo in cui si è inserita la sentenza n. 6551/2011 cit .

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(Trattasi di una pronuncia di legittimità resa su una sentenza parziale della Corte d’Appello di Napoli relativa al danno ambientale cagionato da una società , a partire dal 1981 in poi, nell’ambito di attività edilizie abusive su territorio demaniale sottoposto a svariati vincoli nel Comune di Castelvolturno, invadendo e distruggendo il demanio forestale, sbancando il suolo, deviando corsi d’acqua, con realizzazione di strade ed opere permanenti ed irrimediabile compromissione dell’ambiente marino e terrestre, in violazione di molteplici norme di settore. Nel corso del giudizio di primo grado, le parti erano addivenute alla transazione in ordine alla riduzione in pristino, ma il Ministero dell’Ambiente aveva modificato la domanda, rinunciando al ripristino e mantenendo la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, modifica a cui la parte convenuta aveva opposto l’efficacia assorbente della transazione su tutto il danno ambientale. Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 11235/2004 ha accolto la domanda del Ministero dell’Ambiente, liquidando un risarcimento pecuniario di 30 milioni di euro e rigettando la domanda della Presidenza del Consiglio per carenza di legittimazione ad agire. Il Tribunale ha ritenuto che non di “mutatio libelli” si trattasse, ma di “emendatio” perché la parte aveva fatto divenire principale ed unica la domanda già presentata in via subordinata, che la transazione avesse espressamente lasciato fuori i profili ambientali e paesaggistici del contenzioso in atto, che la convenuta fosse responsabile dell’intero danno, con condotta colposa in violazione di una serie di norme generali o poste a violazione dell’ambiente, che il danno ambientale fosse accertato, dato che alla foresta ed alla vegetazione si era sostituito un contesto integralmente antropizzato fin sulla riva del mare, che il diritto risarcitorio non fosse prescritto, perché si trattava di un illecito permanente che si protraeva fino alla completa riduzione in pristino, che, infine, i danni potessero essere liquidati secondo i parametri forniti dal Ministero, ritenuti congrui e non specificamente contestati, laddove la parte convenuta aveva suggerito di applicare i criteri fissati dal D.M. 26.9.97, utili solo a fini sanzionatori in via amministrativa. Ha così liquidato poste distinte per le spese di ripristino (lire 14 miliardi settecento milioni ), per i profitti ricavati dalle vendite degli immobili abusivi costruiti e la gestione delle attività alberghiere (lire 45 miliardi e duecento milioni), pari ad € 23.343.851,83 , con ulteriore incremento di trenta milioni di euro per la gravità del comportamento colposo dell’agente. Il Tribunale di Napoli ha liquidato tale risarcimento anche a titolo di danno non patrimoniale, in quanto il danno ambientale era da ritenersi frutto della lesione di un bene immateriale, ha invece rigettato la domanda di liquidazione del danno morale, non ritenendolo pertinente allo Stato. Investita dell’appello, la Corte territoriale, ha pronunciato una sentenza parziale, con la quale ha ridotto il lasso temporale di responsabilità della parte convenuta (ora appellante principale) al periodo 1994-1999, in quanto ha considerato solo l’attività illecita posta in essere direttamente da tale società, ha ritenuto che il danno ambientale fosse tutelabile anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 349/86, in virtù dell’art. 2043 c.c. e che l’art. 18 abbia solo riordinato e composto la disciplina previgente, senza innovare sulla sostanza dell’illecito. La Corte ha altresì confermato la natura di illecito permanente dell’illecito ambientale, in quanto costituisce un illecito suscettibile di creare continuamente il pregiudizio tutelato e, quanto al risarcimento, confermata la bontà dei tre criteri risarcitori utilizzati dal Tribunale in applicazione dell’art. 18, ne ha ristretto l’applicazione al più breve periodo in cui ha circoscritto la responsabilità dell’impresa, tenendo conto anche della situazione diversa che si era creata a seguito dell’accordo transattivo ed ha rimesso la causa a ruolo per la liquidazione, disponendo una CTU orientata sui vecchi criteri. Impugnata la sentenza parziale, la Cassazione ha chiaramente detto che i criteri dovevano essere diversi, ma la Corte d’Appello di Napoli, con la recentissima sentenza definitiva depositata il 19.1.2011 (n. 90/2011) ha, correttamente, preso atto della novella legislativa, segnalata dalle parti , ma, presumibilmente senza avere ancora conoscenza della pronuncia della SC, ha ritenuto di non potere più modificare il proprio orientamento sui criteri liquidatori, vincolato dalla precedente sentenza parziale, riservando la questione al Giudice di legittimità, che, effettivamente , ha cassato con rinvio la prima sentenza. La Corte ha quindi applicato le risultanze della sua CTU “vecchio rito”, applicando, ad esempio, anche il criterio del profitto. Temo che anche tale sentenza sia destinata ad essere travolta, cosicchè sarà interessante verificare cosa farà la Sezione assegnataria dei due rinvii. Interessante è rilevare come la Corte territoriale abbia riformato la sentenza di primo grado in punto mancato riconoscimento del danno morale allo Stato, inquadrando il diritto dell’ente al ristoro del pregiudizio non patrimoniale consistente nella menomazione del proprio prestigio istituzionale di fronte alla considerazione della scarsa tenuta dell’ordinamento nei confronti di una condotta illecita protrattasi per anni, palese e notoria, capace di minare lo stesso giudizio dei cittadini sulla forza istituzionale dello Stato e come abbia liquidato tale voce di danno in misura di un quarto del quantum liquidato a titolo di danno patrimoniale, “secondo gli usuali sistemi di liquidazione del danno morale”, con ciò dimostrando di avere ignorato del tutto l’evoluzione giurisprudenziale a partire dalle sentenze “gemelle” dell’11 novembre 2008 in poi.)

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V) Il ruolo del Pubblico Ministero: L’azione civile di risarcimento per danno ambientale non rientra né nelle ipotesi di esercizio obbligatorio dell’azione civile da parte del Pubblico Ministero (art. 69 c.p.c.-casi stabiliti dalla legge), né nei casi di intervento obbligatorio in giudizio a pena di nullità rilevabile d’ufficio previsti dall’art. 70 C.p.c. o da altre leggi. Poiché, tuttavia, l’ambiente costituisce un bene pubblico, la cui compromissione trascende il mero pregiudizio patrimoniale provocato alle singole componenti che ne fanno parte, ma comprende l’assetto del territorio, la ricchezza delle risorse naturali, il paesaggio come valore estetico e culturale e come condizione di vita salubre56, le cause di questo tipo ben possono essere fatte rientrare nel novero di quelle in cui si ravvisa un pubblico interesse, con conseguente facoltà del P.M. di intervenire, ai sensi dell’art. 70 u.c. c.p.c. E’ nota l’apertura giurisprudenziale a nuove ipotesi di “pubblico interesse” agli effetti della legittimazione del P.M. all’intervento nei giudizi civili, quali ad esempio, le cause di equa riparazione ai sensi della legge 89/2001 (c.d. Legge Pinto).57

56 Cass. Civ. Sez. III 10.10.2008 n. 25010 57 Cass. Civ. Sez. I 6.4.2006 n. 8301

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Sono invece controversi i poteri di cui dispone il P.M. interveniente nel processo civile e, in particolare, si discute se, qualora intervenuto in primo grado, il P.M. abbia poi diritto all’impugnazione. La S.C. sembra orientata nel senso dell’insussistenza di tale legittimazione. In un caso di ricorso in Cassazione proposto dal P.M. contro il decreto della Corte territoriale che aveva aderito al principio sancito dalla Cassazione in merito alla possibilità di disattivare il presidio sanitario che teneva una persona malata giacente da molti anni in stato di coma vegetativo permanente, le SS.UU. hanno affermato che nel processo civile, ove vige il principio dispositivo, la presenza del P.M. ha carattere eccezionale, risultando consentita solo nelle ipotesi di controversie coinvolgenti anche un “interesse pubblico”, ma che, fuori dei casi in cui lo stesso PM disponga del potere di iniziativa processuale egli non è comunque titolare anche del potere di impugnazione58. Le SS.UU. hanno anche escluso l’utilità del richiamo all’impugnazione nell’interesse della legge, di cui all’art. 363 c.p.c., atteso che tale facoltà spetta solo al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ed è esercitabile solo al fine dell’enunciazione del “principio di diritto a cui il giudice del merito avrebbe dovuto attenersi” e non può avere effetto alcuno sul provvedimento del giudice del merito, che resterebbe fermo anche nel caso di accoglimento di tale azione. Ma quale soggetto e come ravvisa la sussistenza di un “pubblico interesse”? Può il Giudice Civile provocare l’intervento del P.M.? Secondo la Corte d’Appello di Torino, l'unico soggetto legittimato a ravvisare l'esistenza di un pubblico interesse tale da giustificare l'intervento "in ogni altra causa" ai sensi dell'art. 70, ultimo comma, c. p. c. è lo stesso Pubblico Ministero, secondo una valutazione discrezionale e insindacabile sia dal giudice, sia dalle parti.59 Tale intervento è dunque facoltativo e non è soggetto a particolari formalità60. Affinchè il P.M. possa esercitare tale potere discrezionale, occorre, naturalmente , che sia ufficialmente informato della pendenza di tutti i procedimenti in cui sia ipotizzabile la sussistenza di un pubblico interesse. Occorre pertanto che fra l’ufficio giudicante e quello requirente sussista una forma di collaborazione che consenta al secondo ufficio di venire a conoscenza dei casi di interesse pubblico, collaborazione che può variare dall’obbligo di trasmissione di tutti i fascicoli, a quello della selezione demandata al Giudice civile titolare del fascicolo, caso per caso, come ad esempio recentemente accaduto al Tribunale di Torino in un caso di ricorso cautelare per inibitoria per violazione di marchi registrati ed arbitrario abuso di marchi non registrati e concorrenza sleale, in cui la Sezione delle Proprietà Industriali, dopo avere accolto l’istanza di inibitoria, ha ravvisato possibili profili di contrarietà alla legge ed all’ordine pubblico dei marchi in oggetto, in quanto utilizzanti immagini e slogans inneggianti al fascismo ed al nazismo ed ha pertanto, d’iniziativa, comunicato al Pubblico Ministero la pendenza del fascicolo, al fine della valutazione del possibile intervento per l’esercizio dell’azione di nullità dei marchi attorei ex art. 22 C.P. Un’ipotesi di interesse pubblico che avrebbe potuto senz’altro legittimare l’intervento in giudizio del P.M. è stato quello trattato, di recente, sempre dal Tribunale di Torino, in materia di accertamento e condanna dello Stato Italiano per mancato adeguamento della propria normativa interna alla Direttiva Comunitaria concernente l’indennizzo alle persone offese da reati violenti61, intervento che non mi risulta verificatosi in primo grado, ma che

58 Cass. Civ. SS.UU. 13.11.2008 n. 27145 59 Corte Appello Torino 04.04.2007 60 Cass. Civ. Sez. I n. 8031/2006 cit. 61 Sentenza Tribunale Torino n. 3145/2010

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invece è stato integrato in grado di appello, da parte del Procuratore Generale, che è intervenuto nel giudizio ed ha rassegnato motivate conclusioni. Nei giudizi in cui l'intervento del p.m. è facoltativo a norma dell'art. 70, ultimo comma, c.p.c., questi non acquista, peraltro, la qualità di parte necessaria, sicché non sussiste, in grado di appello, la necessità di integrare il contraddittorio nei suoi confronti.62 Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Torino, in data 18.07.2011, ha tuttavia adottato una circolare con la quale ha richiesto alla Corte, nell’ottica di una fattiva collaborazione a tutela del pubblico interesse, di trasmettere al suo Ufficio i fascicoli ritenuti suscettibili di valutazione da parte del P.M., con particolare riferimento ai procedimenti c.d. Pinto, specie se derivanti da procedimenti penali. Un intervento della Procura nei procedimenti civili in materia ambientale potrebbe, forse, rivestire una particolare utilità, sia nell’ottica dell’individuazione di reati ambientali, sia con riferimento ad accertamenti che i poteri autoritativi di cui dispone il P.M. possano agevolare alle parti interessate.

### Conclusioni: L’adeguamento dell’Italia alle norme comunitarie, alla fine, pare incompleto. Si dubita infatti, da parte di taluni, della legittimità della permanenza della facoltà di liquidazione del danno ambientale per equivalente in modo del tutto sganciato dal danno effettivo. Manca l’introduzione nella disciplina ambientale di una norma che preveda la responsabilità oggettiva degli “inquinatori professionali”, a meno che si voglia ritenere fungibile l’art. 2050 c.c., già presente nel nostro ordinamento anche prima della Direttiva, in considerazione del noto principio per cui l’attuazione di una direttiva comunitaria non richiede forme particolari , per cui può essere fatta con ogni mezzo . Manca, soprattutto, il Decreto Ministeriale di attuazione dell’art. 5 bis che dovrebbe disciplinare i criteri italiani dell’obbligazione risarcitoria. Il nostro processo non ha poi una struttura snella e duttile che aiuti a minimizzare le difficoltà applicative dell’attuale disciplina e permane, nell’ordinamento l’istituto di carattere speciale della bonifica dei siti contaminati, già disciplinato dal D.lgs 22/97 ed oggi ripreso nella parte quarta del D.lvo 152/2006, che si ritiene , appunto , in rapporto di specialità con la disciplina della responsabilità ambientale, ma che, di fatto, in Italia costituisce la forma principale di riparazione primaria. Forse è stata persa l’occasione di collegare fra loro in modo funzionale i due istituti. Pare, tuttavia, che , in considerazione delle indubbie difficoltà processuali, la scelta dello Stato di avvalersi della procedura alternativa disciplinata dall’art. 311 possa diventare la via privilegiata di ristoro del danno ambientale e che il ruolo del G.O. sia suscettibile di divenire , in materia, sempre più marginale. Ombretta Salvetti

62 Cass. Civ. sez I, 20.08.2003 n. 12228- caso di intervento del P.M. in primo grado in una causa relativa ad atti di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3 c.c.