Art. 614 bis Attuazione degli obblighi di fare infungibile...

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Le misure coercitive indirette di Cesare Trapuzzano Art. 614 bis Attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare C. TRAPUZZANO (1) Con il provvedimento di condanna (2) il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409 (3). Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile. ______________ (1) Articolo introdotto dall’art. 49, primo comma, l. 18 giugno 2009, n. 69. (2) V. art. 474 c.p.c.. (3) V. art. 409 c.p.c.. SOMMARIO SEZ. I - L’INQUADRAMENTO 1. Premessa. 2. Misure coercitive e giusto processo. 3. Struttura della norma. 4. Obblighi infungibili di fare. 5. Obblighi di non fare. 6. Funzione coercitiva e non risarcitoria. 7. Condanna accessoria, futura e condizionata. 8. Risarcimento in forma specifica. SEZ. II - LE DOMANDE E LE RISPOSTE 1. La misura è posta a tutela del diritto sostanziale o del provvedimento a cui è accessoria? 2. A vantaggio di chi opera la previsione del pagamento di una somma di denaro? 3. Qual è il titolo che prevede la misura coercitiva indiretta? 4. Qual è il giudice competente ad irrogare la misura? 5. La previsione della misura coercitiva opera in via automatica, d’ufficio ovvero su istanza di parte? 6. La pronuncia della misura è idonea a passare in cosa giudicata o è un mero accessorio della pronuncia principale? 7. La misura coercitiva può essere richiesta separatamente? 8. Può essere chiesta nel giudizio di gravame? 9. Secondo quali parametri deve essere quantificata la misura coercitiva? 10. Le misure coercitive possono essere applicate in caso di inesatto adempimento o di ritardo? 11. Quali accertamenti sono demandati al giudice prima di applicare le misure coercitive? 12. Le misure coercitive possono essere concesse a supporto di mere pronunce di accertamento? 13. La misura può essere richiesta a supporto dell’adempimento di obbligazioni pecuniarie fungibili? 14. Può essere richiesta a supporto dell’adempimento di obblighi di consegna o rilascio? 15. Le misure coercitive sono compatibili o cumulabili con il risarcimento dei danni? 16. È possibile che il giudice non conceda la misura coercitiva nonostante la ricorrenza dei presupposti? 17. La norma ha efficacia retroattiva? 18. Il capo della pronuncia che prevede le misure coercitive costituisce titolo esecutivo? 19. Di quali strumenti dispone il debitore per contestare la ricorrenza delle condizioni per l’applicazione delle misure coercitive? 20. Quando la misura non è dovuta? 21. Le misure coercitive si applicano nel processo del lavoro? 22. Le misure coercitive si applicano anche contro gli enti pubblici? 23. Le misure possono applicarsi per compulsare l’adempimento di prestazioni relative a diritti indisponibili? 24. Possono trovare applicazione in via concorrente la misura coercitiva generale e quelle speciali? 25. Le somme corrisposte a titolo di coercitoria sono ripetibili? BIBLIOGRAFIA AMADEI, Una misura coercitiva generale per l’esecuzione degli obblighi infungibili, in www.judicium.it; ANDOLINA,

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Le misure coercitive indirette di

Cesare Trapuzzano Art. 614 bis Attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare C. TRAPUZZANO (1) Con il provvedimento di condanna (2) il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409 (3).

Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile. ______________ (1) Articolo introdotto dall’art. 49, primo comma, l. 18 giugno 2009, n. 69. (2) V. art. 474 c.p.c.. (3) V. art. 409 c.p.c..

■ SOMMARIO ■ SEZ. I - L’INQUADRAMENTO 1. Premessa. 2. Misure coercitive e giusto processo. 3. Struttura della norma. 4. Obblighi infungibili di fare. 5. Obblighi di non fare. 6. Funzione coercitiva e non risarcitoria. 7. Condanna accessoria, futura e condizionata. 8. Risarcimento in forma specifica. ■ SEZ. II - LE DOMANDE E LE RISPOSTE 1. La misura è posta a tutela del diritto sostanziale o del provvedimento a cui è accessoria? 2. A vantaggio di chi opera la previsione del pagamento di una somma di denaro? 3. Qual è il titolo che prevede la misura coercitiva indiretta? 4. Qual è il giudice competente ad irrogare la misura? 5. La previsione della misura coercitiva opera in via automatica, d’ufficio ovvero su istanza di parte? 6. La pronuncia della misura è idonea a passare in cosa giudicata o è un mero accessorio della pronuncia principale? 7. La misura coercitiva può essere richiesta separatamente? 8. Può essere chiesta nel giudizio di gravame? 9. Secondo quali parametri deve essere quantificata la misura coercitiva? 10. Le misure coercitive possono essere applicate in caso di inesatto adempimento o di ritardo? 11. Quali accertamenti sono demandati al giudice prima di applicare le misure coercitive? 12. Le misure coercitive possono essere concesse a supporto di mere pronunce di accertamento? 13. La misura può essere richiesta a supporto dell’adempimento di obbligazioni pecuniarie fungibili? 14. Può essere richiesta a supporto dell’adempimento di obblighi di consegna o rilascio? 15. Le misure coercitive sono compatibili o cumulabili con il risarcimento dei danni? 16. È possibile che il giudice non conceda la misura coercitiva nonostante la ricorrenza dei presupposti? 17. La norma ha efficacia retroattiva? 18. Il capo della pronuncia che prevede le misure coercitive costituisce titolo esecutivo? 19. Di quali strumenti dispone il debitore per contestare la ricorrenza delle condizioni per l’applicazione delle misure coercitive? 20. Quando la misura non è dovuta? 21. Le misure coercitive si applicano nel processo del lavoro? 22. Le misure coercitive si applicano anche contro gli enti pubblici? 23. Le misure possono applicarsi per compulsare l’adempimento di prestazioni relative a diritti indisponibili? 24. Possono trovare applicazione in via concorrente la misura coercitiva generale e quelle speciali? 25. Le somme corrisposte a titolo di coercitoria sono ripetibili? BIBLIOGRAFIA AMADEI, Una misura coercitiva generale per l’esecuzione degli obblighi infungibili, in www.judicium.it; ANDOLINA,

Contributo alla dottrina del titolo esecutivo, Milano, 1982; ASPRELLA – GIORDANO, La riforma del processo civile, in Giust. civ., suppl. n. 6/09; BIAVATI, Diritto comunitario e diritto processuale tra attrazione, autonomia e resistenza, in Il dir. dell’U.e., 2001, 717 e ss.; BONSIGNORI, L’esecuzione forzata, Torino, 1990, 52 e ss.; BOVE, Brevi riflessioni sui lavori in corso nel riaperto cantiere della giustizia civile, in www.judicium.it; BUSNELLI, Verso una riscoperta delle «pene private»?, in Resp. civ. e prev., 1984, 26 e ss.; CAPPONI, Alcuni problemi su contraddittorio e processo esecutivo - alla luce del nuovo art. 111 della Costituzione -, in Riv. esec. forz., 2001, 28 e ss.; CAPPONI, Astreintes nel processo civile italiano?, in Giust. civ., 1999, II, 157 e ss.; CARPI, Riflessioni sui rapporti tra l’art. 111 della Costituzione ed il processo esecutivo, quale titolo della relazione presentata all’incontro di studio organizzato dal Consiglio superiore della magistratura in Roma, nei giorni 18-20 febbraio 2002 sul tema “Effettività della tutela giurisdizionale: l’esecuzione dei provvedimenti civili”, scritto destinato agli studi in onore di Piero Schlesinger, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 381 e ss.; CHIARLONI, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile, in Riv. dir. proc., 2000, 1010 e ss.; CHIARLONI, Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano, 1980; CHIZZINI, in Balena – Caponi – Chizzini – Menchini, La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della legge sul processo civile n. 69/2009, Torino, 2009, sub art. 614 bis; CIVININI - VERARDI (a cura di), Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, Milano, 2001, Atti del convegno dell’Elba (9-10 giugno 2000) ed ivi varie relazioni fra le quali la relazione conclusiva di Proto Pisani; COMOGLIO, Le garanzie fondamentali del « giusto processo », in Nuova giur. civ. comm., 2001, II, 1 e ss.; COMOGLIO, Principi costituzionali e processo di esecuzione, in Riv. dir. proc., 1994, 450 e ss.; COSTANTINO, «Giusto processo» e procedure concorsuali, in Foro it., 2001, I, 3451 e ss.; DENTI, A proposito di esecuzione forzata e di politica del diritto, in Riv. dir. proc., 1983, 130 e ss.; DE SALVIA, Riflessioni in tema di esecuzione civile ed equo processo nel quadro dell’art. 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. internaz. dir. uomo, 1993, 15 e ss.; DI LORENZO, Osservazioni minime in tema di tutela degli obblighi infungibili e mezzi coercitivi indiretti, in www.Diritto&Diritti.it, 2004; DI MAJO, Forme e tecniche di tutela, in Foro it., 1989, V, 132 e ss.; DI MAJO, La tutela civile dei diritti, Milano, 1987, 177 e ss.; DONDI, Effettività dei provvedimenti del giudice istruttore, Padova, 1985, 77 e ss.; DONDI, L’astreinte endoprocessuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 524 e ss.; FERRARA, L’esecuzione processuale indiretta, Napoli, 1915; FRIGNANI, La penalità di mora e le astreintes nei diritti che si ispirano al modello francese, in Riv. dir. civ., 1981, I, 511; FURNO, Disegno sistematico delle opposizioni nel processo esecutivo, Firenze, 1942; GAMBINERI, Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare, in Foro it., 2009, V, c.; GARBAGNATI, Espropriazione, azione esecutiva e titolo esecutivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, 1331 e ss.; LANFRANCHI, Giusto processo civile e procedimenti decisori sommari, Torino, 2001, e specialmente il saggio introduttivo «Pregiudizi illuministici» e «giusto processo» civile, 1 e ss.; LIEBMAN, Le opposizioni di merito nel processo di esecuzione, Roma, 1936, 136 e ss.; LUISO, Diritto processuale civile, III, Milano, 2009; MANDRIOLI, L’azione esecutiva, Milano, 1955, 327 e ss.; MANDRIOLI, L’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, in Noviss. Dig. it., 1957; MANDRIOLI, Sulla correlazione necessaria tra condanna ed eseguibilità forzata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 1342 e ss.; MANDRIOLI – CARRATTA, Come cambia il processo civile, Torino, 2009; MARAZIA, Astreintes e altre misure coercitive per l’effettività della tutela civile di condanna, in Riv. esec. forz., 2004, 2; MATTEI, Il modello di common law, in Sistemi giuridici comparati, II, a cura di Procida Mirabelli Di Lauro, Torino, 1997; MAZZAMUTO, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli, 1978; MAZZARELLA, Contributo alla teoria del titolo esecutivo, Milano, 1965; MONTELEONE, Recenti sviluppi nella dottrina dell’esecuzione forzata, in Riv. dir. proc., 1982, 281 e ss.; MONTESANO, Condanna civile e tutela esecutiva, Napoli, 1965; MONTESANO, La garanzia costituzionale del contraddittorio e i giudizi civili di «terza via», in Riv. dir. proc., 2000, 929 e ss.; ORIANI, L’imparzialità del giudice e l’opposizione agli atti esecutivi, in Riv. esec. forz., 2001, 1 e ss.; PAGNI, La “riforma” del processo civile: la dialettica tra il giudice e le parti (e i loro difensori) nel nuovo processo di primo grado, in Corr. 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Treccani, 397; TARZIA, L’art. 111 Cost. e le garanzie europee del processo civile, in Riv. dir. proc., 2001, 1 e ss.; TARZIA, Il contraddittorio nel processo esecutivo, in Riv. dir. proc., 1978, 193 e ss.; TARZIA, L’ordine europeo del processo civile, in Riv. dir. proc., 2001, 915 e ss.; TARZIA, Parità delle armi tra le parti e poteri del giudice nel processo civile, ora in Problemi del processo civile di cognizione, Padova, 1989, 311 e ss.; TOMMASEO, Provvedimenti d’urgenza a tutela dei diritti implicanti un facere infungibile, in Studium iuris, 1997, 1277 e ss.; TROCKER, Il valore costituzionale del «giusto processo», in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 381 e ss.; VERDE, Giustizia e garanzie nella giurisdizione civile, in Riv. dir. proc., 2000, 299 e ss.;VULLO, L’attuazione dei provvedimenti

cautelari, Torino, 2001, 222 e ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA, Le novità della riforma in materia di esecuzione forzata, in www.judicium.it.

■ SEZ. I - L’INQUADRAMENTO

1. Premessa. Il primo comma dell’art. 49 della legge di riforma del processo civile introduce il principio dell’esecuzione indiretta degli obblighi di fare infungibili e degli obblighi di non fare attraverso la previsione di cui al nuovo art. 614 bis c.p.c.. In forza della recente disposizione, il provvedimento che condanna il debitore ad adempiere ad un obbligo di fare insostituibile o di non fare stabilisce la somma dovuta in favore dell’avente diritto per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento.

La ratio dell’intervento del legislatore deve essere ricondotta ad un’esigenza di rafforzamento della tutela esecutiva. Ciò avviene mediante la previsione di misure coercitive volte ad assicurare l’adempimento degli obblighi di fare infungibili e, perciò, insuscettibili di esecuzione forzata in forma specifica, attesa la necessità che la prestazione sia eseguita dall’obbligato. Assai spesso tali prestazioni sono connesse a situazioni giuridiche relative a beni fondamentali, come quelle inerenti ai settori della famiglia, del lavoro e così via. Esse, con l’introduzione dell’art. 614 bis c.p.c., hanno una garanzia di accesso generale e non più limitato a sporadici casi espressamente regolati.

L’istituto prende le mosse dalle esperienze tipiche di altri ordinamenti. Il modello di riferimento è quello francese delle astreintes (DONDI, L’astreinte endoprocessuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 524 e ss.; FRIGNANI, La penalità di mora e le astreintes nei diritti che si ispirano al modello francese, in Riv. dir. civ., 1981, I, 511). Ma forme di tutela per l’inadempimento degli obblighi infungibili si rinvengono anche nel sistema tedesco, con l’istituto del Geldstrafe, e nel sistema di common law, attraverso lo strumento della specific performance e della contempt of court (DI MAJO, La tutela civile dei diritti, Milano, 1987, 177 e ss.). In detti ordinamenti stranieri si ricorre a forme di esecuzione indiretta che utilizzano la tecnica delle misure coercitive, cioè strumenti di coartazione della volontà del debitore che si concretano nella minaccia di sanzioni civili o penali, al fine di costringerlo ad adempiere i suoi obblighi (LUISO, Diritto processuale civile, III, Milano, 2009, 9). Nel sistema anglo-americano si assiste, innanzi tutto, ad un rilevante ampliamento delle forme di esecuzione specifica tramite la surroga di un terzo (c.d. master), in luogo dell’obbligato, ed il ricorso all’injuntion, sanzionata dalla contempt of court, che comporta la condanna ad un’ammenda fissata

discrezionalmente dal giudice o alla carcerazione, finché non segue l’esecuzione della prestazione dovuta. Connesso a quello anglosassone è il sistema tedesco, in cui l’esecuzione degli obblighi infungibili è assistita da pene coercitive previste dalla Z.P.O. – Zwangsstrafen (codice di rito), §§ 888 e 889. Nel sistema tedesco la misura coercitiva può essere disposta solo su istanza del creditore e consiste nella condanna al pagamento di una somma di denaro e, nel caso in cui tale somma non possa essere riscossa, in una misura limitativa della libertà personale. Le pene pecuniarie previste non sono però pagate al creditore ma allo Stato.

Come anticipato, il sistema francese prevede invece il modello delle astreintes, che consistono nell’accompagnare la condanna al facere con l’imposizione di una pena pecuniaria commisurata ai giorni di ritardo, in favore della parte creditrice.

Il nostro ordinamento, già prima dell’ultimo intervento del legislatore, ricorreva, in maniera episodica, a forme di esecuzione indiretta della sentenza ispirate alle astreintes, come le penali inflitte dal giudice a norma delle leggi sui brevetti per invenzioni e per marchi industriali, in cui il giudice, accertata la violazione del diritto di brevetto di invenzioni industriali o la contraffazione del marchio, ha il potere di fissare una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata e per ogni ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti contenuti nella sentenza stessa. Altra ipotesi è quella della clausola penale prevista per la ritardata reintegrazione nel posto di lavoro del rappresentante sindacale illegittimamente licenziato ex art. 18 statuto dei lavoratori (TOMMASEO, Provvedimenti d’urgenza a tutela dei diritti implicanti un facere infungibile, in Studium iuris, 1997, 1277 e ss.; VULLO, L’attuazione dei provvedimenti cautelari, Torino, 2001, 222 e ss.). È anche modellata sull’astreinte la misura coercitiva dell’esecuzione forzata indiretta introdotta a tutela degli interessi dei consumatori dall’art. 11 della legge comunitaria 10 marzo 2002, n. 39, che prevede che, qualora il soccombente non adempia una prestazione di fare o non fare caratterizzata dal requisito dell’infungibilità, sia disposta la sua condanna al versamento di una somma di denaro al tesoro pubblico o ad altro beneficiario per ogni giorno di ritardo. Si veda altresì l’attuale formulazione dell’art. 140, settimo comma, del c.d. codice del consumo di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, il quale – con riguardo alle azioni inibitorie

proposte a tutela dei consumatori a cura delle associazioni rappresentative – prevede che, con il provvedimento giudiziale che definisce il giudizio, il giudice fissa un termine per l’adempimento degli obblighi stabiliti e, anche su domanda della parte che ha agito in giudizio, dispone, in caso di inadempimento, il pagamento di una somma di denaro da 516 euro a 1.032 euro per ogni inadempimento ovvero per ogni giorno di ritardo, rapportati alla gravità del fatto. La norma aggiunge che, in caso di inadempimento degli obblighi risultanti dal verbale di conciliazione, le parti possono adire il tribunale con procedimento in camera di consiglio affinché, accertato l’inadempimento, disponga il pagamento delle dette somme di denaro. Con riferimento alla destinazione di tali somme, la previsione normativa specifica che esse sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate con decreto del Ministro dell’economia al fondo da istituire nell’ambito di apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero delle attività produttive, per finanziare iniziative a vantaggio dei consumatori. Altra misura coercitiva formulata come vera e propria astreinte è quella contenuta nell’ultimo comma dell’art. 8 del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, sulla lotta contro i ritardi nelle transazioni commerciali: il giudice, in questi casi, può disporre, su istanza delle associazioni di categoria degli imprenditori o d’ufficio, il pagamento di una somma di denaro da euro 500 a euro 1.100 per ogni giorno di ritardo nell’attuazione dell’inibitoria delle condizioni generali gravemente inique, tenuto conto della gravità del fatto.

A fini coercitivi, prima dell’ultimo intervento del legislatore, sono stati richiamati anche gli artt. 388 e 650 c.p. (in specie, con riguardo a detta ultima norma, si è discusso se i “provvedimenti” da essa evocati siano solo quelli amministrativi ovvero anche quelli giudiziari), volti a sanzionare, quali condotte integranti reato, gli inadempimenti colpevoli dei doveri infungibili.

Ma gli interventi innanzi enunciati si sono fermati nell’ambito della regolamentazione di settori specifici dell’ordinamento. Mai prima della recente introduzione dell’art. 614 bis c.p.c. la disciplina delle misure coercitive connesse all’inadempimento di obblighi di fare infungibili o di non fare aveva assunto il rango di previsione generale, a presidio di tutti i diritti non attuabili in forma specifica, nonostante già in passato il legislatore italiano non fosse rimasto insensibile al rinnovato interesse dommatico per il tema delle misure compulsorie ed avesse tentato, a più riprese, di varare un sistema di esecuzione indiretta, capace di prescindere dalle singole previsioni settoriali, senza però che prima

d’ora fosse riuscito nell’intento. Pertanto, una delle più evidenti lacune del

processo civile esecutivo era costituita dall’inadeguatezza della salvaguardia degli obblighi infungibili. Dinanzi a tali obblighi, la tutela risarcitoria è – per definizione – insufficiente, in quanto destinata a fornire esclusivamente un’utilità per equivalente, non omogenea e non corrispondente al risultato sperato dal creditore. D’altronde, la tutela esecutiva in forma specifica è logicamente non esperibile in forza del noto brocardo nemo ad factum praecisum cogi potest.

Le soluzioni in passato prospettate ricorrevano a forme più o meno condivisibili di interpretazione estensiva o analogica di norme dedicate a settori specifici dell’ordinamento (a volte, vere e proprie forzature della lettera della legge), al fine di sanare il vuoto evidente di tutela per la soddisfazione di dette situazioni giuridiche.

L’ultimo intervento del legislatore ha finalmente posto rimedio a detto vulnus. La norma ha avuto un seguito anche nel processo amministrativo: l’art. 114, quarto comma, lett. e), del c.d. codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 ha previsto gli strumenti di coazione per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato. 2. Misure coercitive e giusto processo. L’introduzione di una norma generale diretta ad assicurare l’attuazione dei diritti che non possono trovare tutela immediata in via esecutiva risponde ad un’esigenza di effettività della difesa giudiziale. Infatti, anche tali situazioni giuridiche devono avere una specifica considerazione a cura del legislatore nella prospettiva di incentivare la loro finale soddisfazione. Il caso estremo é rappresentato dalle prestazioni giuridicamente infungibili, nelle quali l’impossibilità dell’esecuzione specifica non fa venire meno il diritto del creditore all’adempimento specifico. Dal lato opposto, troviamo tutte quelle situazioni in cui la tutela può essere realizzata solo se si riesce a prevenire la lesione o, quanto meno, il ripetersi della lesione. In entrambi questi gruppi di situazioni le misure coercitive indirette rappresentano l’unico mezzo per assicurare un difesa effettiva. La loro previsione costituisce esplicazione del principio costituzionale di cui all’art. 24 Cost.. Si evidenzia però che la formula “esecuzione indiretta” non rientra nel concetto di esecuzione in senso stretto e proprio, il quale presuppone che, dinanzi al mancato adeguamento al precetto a cura dell’obbligato, intervenga un organo terzo in via surrogatoria per realizzare l’interesse-presupposto di cui è titolare il creditore.

L’esecuzione indiretta, invece, si riferisce agli strumenti di deterrenza che siano specificamente predisposti per indurre il debitore ad adempiere, quando appunto la soddisfazione dell’interesse del creditore non può prescindere dal contegno del debitore, legato all’avente diritto dal rapporto obbligatorio. Pertanto, per esecuzione indiretta si intende la comminatoria di provvedimenti persuasivi dell’esecuzione, esecuzione che in ogni caso non può che essere rimessa al debitore tenuto.

La puntuale previsione di misure di esecuzione indiretta è anche funzionale alla realizzazione del principio del giusto processo ex art. 111, primo comma, Cost.. Non potrebbe essere qualificato come giusto un processo che a priori non garantisca coattivamente la salvaguardia dei diritti, se non tramite la condotta del tutto arbitraria e priva di alcun vincolo dell’obbligato.

La disciplina delle misure coercitive indirette è inoltre funzionale alla realizzazione della garanzia del principio della parità delle armi vigente nel processo esecutivo, forgiato da tempo dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (TARZIA, Parità delle armi tra le parti e poteri del giudice nel processo civile, ora in Problemi del processo civile di cognizione, Padova, 1989, 311 e ss.). Ora, nell’esecuzione forzata tale principio è per definizione compresso, vista la sostanziale e legittima diseguaglianza determinata dal titolo esecutivo. Se un provvedimento di condanna ha posto un’obbligazione a carico del debitore, costui non può vantare la stessa posizione del creditore. Del pari accade ove l’obbligazione sia sancita in un titolo esecutivo stragiudiziale. Il riequilibrio della posizione può verificarsi, ove il titolo possa essere rimosso nelle forme di legge, con le impugnazioni o con l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., mediante la sospensione dell’esecuzione o dell’esecutorietà (ANDOLINA, Contributo alla dottrina del titolo esecutivo, Milano, 1982; BONSIGNORI, L’esecuzione forzata, Torino, 1990, 52 e ss.; FURNO, Disegno sistematico delle opposizioni nel processo esecutivo, Firenze, 1942). Nondimeno, la parità delle armi riprende pieno vigore con riferimento ai creditori che abbiano ottenuto una declaratoria di condanna all’adempimento di obblighi non suscettibili di esecuzione in forma specifica. In tale evenienza, deve essere assicurata al creditore l’effettiva soddisfazione del suo diritto, mediante strumenti apprestati dall’ordinamento, volti a riconoscere – per un verso – le stesse facoltà di realizzazione della pretesa che sono garantite ai creditori di prestazioni eseguibili in via diretta e - per altro verso – ad escludere qualsiasi privilegio per il debitore di obblighi non attuabili coattivamente.

La parità delle armi non è che il corollario del

principio costituzionale del contraddittorio (TARZIA, Il contraddittorio nel processo esecutivo, in Riv. dir. proc., 1978, 193 e ss.), contraddittorio esecutivo che acquista una spiccata individualità come contraddittorio parziale ed attenuato. Il che conferma l’esattezza dell’osservazione, compiuta più con riguardo alla struttura dell’esecuzione che alla garanzia costituzionale, secondo la quale il principio del contraddittorio non é estraneo ai procedimenti esecutivi ma é ridotto e spostato nella sua esplicazione pratica (REDENTI - VELLANI, Diritto processuale civile 3, Milano, 1999, III, 197), dato che l’audiatur et altera pars di tutti coloro che siano parti dell’azione esecutiva o siano divenuti parti del processo riguarda il modo con cui il processo esecutivo deve procedere verso il suo scopo (l’attuazione coattiva del diritto), con una serie ben congeniata di atti (LUISO, op. cit., 53 e ss.). Il problema, in fondo, é quello consueto del bilanciamento delle due posizioni contrapposte, ma entrambe costituzionalmente garantite, di colui che nel processo esecutivo subisce le misure di esecuzione - e dalle medesime si difende - e di colui che legittimamente agisce per ottenere le riconosciute forme di tutela (COMOGLIO, Principi costituzionali e processo di esecuzione, cit., 466).

In ultimo, la regolamentazione di uno strumento generale di induzione dell’obbligato all’attuazione della prestazione è volta a garantire parità di trattamento sia con i diritti realizzabili con l’esecuzione forzata diretta sia con le isolate situazioni giuridiche in cui sono espressamente disciplinate puntuali misure intimidatorie ad hoc ex art. 3 Cost.. Queste ultime pretese sono rafforzate dall’effetto conformativo indiretto della soggezione a conseguenze sanzionatorie nell’ipotesi di mancato adeguamento, diversamente dalle altre situazioni giuridiche la cui definitiva soddisfazione non può comunque prescindere dal contegno dell’obbligato che si uniformi al tenore del precetto emesso.

Il recepimento del principio dell’esecuzione indiretta nel nostro ordinamento porta al definitivo superamento dell’endiadi condanna - esecuzione forzata nelle forme del libro terzo del c.p.c., con la conseguenza che l’esecutorietà provvisoria può inerire anche a sentenze che impongono un obbligo od obbligazioni che non appaiono coercibili con quelle tecniche di attuazione. In verità tale conclusione era stata sancita già prima della formulazione della nuova norma. Per l’effetto, l’impossibilità che la condanna ad un facere infungibile sia soggetta ad esecuzione in forma specifica non è preclusiva della sua pronuncia. Né detta pronuncia è a priori inutiliter data. E ciò perché la relativa decisione, non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici, in conseguenza

dell’eventuale esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è altresì funzionale alla produzione di ulteriori conseguenze giuridiche, derivanti dall’inosservanza dell’ordine in essa contenuto, che il titolare del rapporto è autorizzato ad invocare in suo favore (Cass. civ., Sez. I, 01 dicembre 2000, n. 15349; Cass. civ., Sez. III, 13 ottobre 1997, n. 9957). Il che è ancora più attuale alla luce della previsione delle misure coercitive indirette. 3. Struttura della norma. Come anticipato, riempiendo una grave lacuna nel sistema, viene introdotta una misura coercitiva di carattere generale per le ipotesi in cui, non essendo fungibile il comportamento dovuto e non tenuto dall’obbligato, non è possibile procedere ad esecuzione forzata. A tale fine nel codice di procedura civile è aggiunto l’art. 614 bis, rubricato “Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare”.

La norma è stata inserita nel libro terzo del codice di rito, a conclusione del titolo dedicato alla disciplina dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare. Nondimeno, si tratta di una scelta opinabile perché in effetti nessuna previsione specifica è stata dettata in tema di esecuzione in forma specifica: piuttosto si tratta di una misura che può essere adottata dal giudice della cognizione. La disposizione concerne la disciplina di una condanna accessoria, quando la condanna principale abbia ad oggetto l’adempimento di un obbligo infungibile di fare ovvero di un obbligo di non fare, con l’effetto che ben avrebbe potuto essere inserita nel codice civile, quale art. 2931 bis c.c., ovvero nel secondo libro del codice di rito, quale art. 278 bis c.p.c..

La seconda parte della norma stabilisce che la condanna accessoria eventualmente pronunciata costituisce titolo esecutivo, eventualmente legittimante l’espropriazione forzata, il che avrebbe consentito l’introduzione della disposizione quale art. 474 bis c.p.c..

Sennonché, una prima annotazione si appalesa necessaria. Ora, in antitesi con il brocardo rubrica non est lex, l’oggetto della disposizione è identificato proprio dal titolo dell’art. 614 bis, il quale ha pertanto un contenuto precettivo. In definitiva, è la sola rubrica che delimita l’oggetto della condanna a cui l’applicazione delle misure si riferisce, giustappunto gli obblighi di fare infungibile e di non fare. Viceversa, il testo della nuova previsione normativa non compie alcuna opera di filtro.

La stesura finale della norma richiama poi, in coerenza con il corso dei lavori preparatori, la manifesta iniquità, quale condizione preclusiva per la fissazione della somma di denaro dovuta. L’irrogazione della sanzione pecuniaria è inoltre estesa anche all’ipotesi del ritardo. Al contempo, nel

secondo comma vi è un esplicito riferimento ai criteri cui il giudice deve attenersi per la quantificazione della pena: valore della controversia, natura della prestazione, danno quantificato o prevedibile ed ogni altra circostanza. In ultimo, è expressis verbis statuito il divieto di applicazione per la materia del lavoro: segnatamente, per le controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e relative ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 c.p.c..

Seguendo la lettera della disposizione, elementi costitutivi della fattispecie sono: 1. la ricorrenza di una pronuncia di condanna; 2. l’inerenza dell’oggetto della condanna all’adempimento di un obbligo infungibile di fare ovvero di un obbligo di non fare. Quando siano integrate dette condizioni, purché vi sia l’istanza dell’avente diritto, lo strumento di deterrenza può essere accordato.

L’effetto è rappresentato dalla previsione della sanzione, che ha le seguenti caratteristiche: 1. è stabilita per un eventuale inadempimento futuro; 2. è determinata in denaro; 3. è quantificata in via discrezionale dal giudice della condanna; 4. è dovuta dall’obbligato all’avente diritto; 5. può essere irrogata per ogni violazione o inosservanza; 6. costituisce titolo esecutivo. 4. Obblighi infungibili di fare. È opportuno chiarire sin da ora la nozione di obblighi infungibili, che è al contempo limite di ammissibilità della tutela esecutiva in forma specifica nonché presupposto per l’applicazione della nuova norma.

L’infungibilità non deriva dalla natura del rapporto da cui origina l’obbligo rimasto ineseguito ma connota la prestazione dovuta.

Ragionando a contrario, la possibilità dell’esecuzione specifica non è legata alla volontà del debitore perché sussiste ogni qual volta vi sia la possibilità giuridica e naturale di conseguire altrimenti, purché in maniera immediata e diretta, la soddisfazione dell’interesse del creditore. Laddove non è possibile l’esecuzione specifica, appunto perché non si può prescindere dalla volontà del debitore nell’adempimento della prestazione, si riscontrerà un obbligo infungibile.

Il concetto di facere è adoperato in senso lato, con l’effetto che rientrano nella categoria anche gli obblighi che hanno propriamente ad oggetto un dare, purché esso non rientri nella portata più particolare e specifica dell’art. 2930 c.c. (MANDRIOLI, L’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, in Noviss. Dig. it., 1957, 766).

Presentano il carattere dell’infungibilità in primis gli obblighi di fare materialmente infungibili, vale a dire non realizzabili senza la volontà dell’obbligato. In definitiva, la loro esecuzione

presuppone la collaborazione attiva dell’obbligato, che deve materialmente porre in essere il comportamento cui è specificamente tenuto. La sua prestazione non è surrogabile con identica efficacia satisfattiva per il creditore. Sono, dunque, infungibili e, in conseguenza, incoercibili i facere consistenti in un’attività negoziale o, più in generale, nel compimento di atti giuridici.

Sono infungibili anche gli obblighi complessi, conglobanti obblighi di fare infungibili, quali – ad esempio – l’obbligo di reintegra nel posto di lavoro.

Altrettanto infungibili si appalesano gli obblighi di fare che, pur essendo materialmente fungibili, implichino particolari difficoltà o complessità qualitative in sede di esecuzione a cura di un terzo (DI LORENZO, Osservazioni minime in tema di tutela degli obblighi infungibili e mezzi coercitivi indiretti, in www.Diritto&Diritti.it).

Ancora, l’insurrogabilità si riscontra in presenza di situazioni di vantaggio, il cui godimento è assicurato dall’adempimento di obblighi di fare o non fare a carattere continuativo o periodico, e la condanna sia diretta, non solo ad eliminare gli effetti della violazione già compiuta, ma anche ad assicurare l’adempimento (futuro) degli obblighi in questione. In tal caso, assolvendo la condanna ad una funzione di tutela preventiva, l’esecuzione forzata non potrà per definizione garantire l’attuazione della condanna.

Come è stato ampiamente dibattuto in giurisprudenza, un obbligo non è fungibile quando il suo adempimento dipende dal fatto di un terzo, diverso dal debitore. Detti obblighi presuppongono l’adempimento di una prestazione da parte di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, come – ad esempio – i casi in cui l’obbligato abbia promesso la vendita di cosa altrui o il fatto del terzo. Così avviene anche in tema di compravendita di edifici, con il correlativo obbligo del venditore di far ottenere alla controparte il certificato di abitabilità, del cui rilascio è competente l’autorità amministrativa (Cass. civ., Sez. II, 25 febbraio 1987, n. 1991).

In ultimo, la tipologia dei facere infungibili comprende le ipotesi in cui viene in rilievo il ruolo della persona, ipotesi individuabili sulla scorta dei rapporti intuitu personae; si pensi, tra gli altri, ai contratti atipici di vitalizio improprio – vitalizi alimentari, contratti di mantenimento e contratti di assistenza materiale e morale – (MAZZAMUTO, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli, 1978, 12). In tale alveo rientrano anche le ipotesi in cui la prestazione abbia ad oggetto cose determinate solo nel genere; in questa evenienza, dovrà essere necessariamente il debitore ad individuare e selezionare, secondo la quantità prefissata, la species.

Occorre tuttavia chiarire che l’infungibilità, quale

concetto di portata eminentemente giuridica, non ha una valenza astratta, predeterminabile sulla scorta di una tavola di obbligazioni che presentano a priori certe caratteristiche. Piuttosto, la sostituibilità o meno dell’obbligato nell’attuazione della prestazione, ai fini di garantire l’interesse dell’avente diritto, in una prospettiva dinamica dell’evoluzione del rapporto obbligatorio, che tenga conto sia del lato passivo che del lato attivo di detto rapporto, deve essere ponderata in concreto rispetto alla specifica fattispecie dedotta in giudizio. Per questo si discorre in termini di infungibilità processuale. Sarà l’imprescindibile valutazione della vicenda praticamente connotata nell’ottica dell’assicurazione della sua tutela giudiziale a discriminare il profilo dell’infungibilità. Essa può dipendere da molteplici varianti che non possono che essere colte nel momento della concreta manifestazione del diritto di cui si invoca la difesa. Né si può escludere che circostanze sopravvenute rendano di fatto l’obbligazione infungibile. 5. Obblighi di non fare. La sintassi della norma (rectius della rubrica) suggerisce di includere tra gli obblighi suscettibili di tutela attraverso la previsione, su istanza di parte, della misura coercitiva indiretta tutti gli obblighi di non fare, siano essi infungibili ovvero fungibili. Infatti, il requisito dell’infungibilità è espressamente collegato ai soli obblighi di fare.

Secondo tale interpretazione, che muove dal dato letterale della norma, l’inadempimento degli obblighi fungibili di non fare sarebbe al contempo passibile di esecuzione in forma specifica e di irrogazione della pena pecuniaria. Vi sarebbe, in altri termini, una duplicità di tutele, le cui forme devono essere rese tra loro compatibili. Tale compatibilità verrebbe raggiunta attraverso l’applicazione della misura coercitiva per il periodo in cui l’obbligo non ha trovato attuazione (rectius per il semplice ritardo) e sino alla concreta realizzazione dell’esecuzione in forma specifica.

Secondo altra prospettazione, sarebbe demandato alla scelta del creditore di richiedere l’esecuzione in forma specifica in alternativa all’attuazione della misura coercitiva prevista nel titolo esecutivo, volta ad incentivare l’adempimento spontaneo, ma i due rimedi non sarebbero tra loro cumulabili, nonostante l’eterogeneità di ratio.

Aderendo ad un ulteriore orientamento, la norma deve essere interpretata nel senso che gli obblighi di non fare suscettibili di ricevere tutela mediante la previsione della pena privata siano esclusivamente quelli che hanno ad oggetto una prestazione infungibile. Solo in questa ipotesi l’effettività della tutela merita di essere garantita attraverso la previsione di misure coercitive indirette mentre,

quando la violazione possa essere coartata con il ricorso all’esecuzione in forma specifica (mediante l’attivazione di una condotta distruttiva dell’attività esercitata in spregio all’obbligo imposto di non fare), la richiesta e la successiva previsione delle misure coercitive pecuniarie non avrebbero senso alcuno. È innegabile però che detta interpretazione, apprezzabile sul piano logico, implicherebbe il superamento della lettera della legge. Salvo che non si muova dalla tesi secondo cui gli obblighi di non fare sono per definizione infungibili. Molto dipende dall’ampiezza che si attribuisce al concetto di infungibilità. In forza di detto divisamento, l’obbligazione negativa di astensione da un determinato comportamento sarebbe sempre per sua natura infungibile. E ciò perché tale obbligo originario non può mai essere oggetto di surrogazione a cura di un terzo. Infatti, in caso di sua violazione, potrà essere semmai suscettibile di esecuzione forzata solo l’obbligo secondario e derivato di disfare, restituire o pagare. Sennonché, l’obiezione che può essere appuntata contro tale tesi è la seguente: il concetto prevalente di infungibilità degli obblighi di non fare, almeno nei termini processuali che qui interessano, deve essere inteso in senso restrittivo, non già quale eterogeneità della condotta distruttiva volta a ripristinare lo stato originario su cui si innestava l’obbligo negativo, bensì come radicale impossibilità che tale comportamento ripristinatorio possa avere luogo e, quindi, come insuscettibilità dell’esperimento dell’esecuzione in forma specifica. Sicché, quando la trasgressione all’obbligo di non fare si traduca in un quid novi, dovrà farsi ricorso agli strumenti di esecuzione in forma specifica; viceversa, quando la violazione dell’obbligo negativo non determini alcuna innovazione materialmente percepibile, passibile di distruzione, necessariamente l’unico mezzo di salvaguardia esperibile sarà quello delle coercitorie.

Trasponendo il discorso su un altro piano, può ritenersi che i limiti all’irrogazione delle misure coercitive indirette per la violazione degli obblighi di non fare prescindano dalla natura fungibile o infungibile della prestazione ma siano sottesi piuttosto ai concetti di economicità od onerosità dell’esecuzione in forma specifica, quand’anche essa sia praticamente possibile (il che esige che l’obbligo di non fare sia fungibile, almeno nel senso ampio prima emarginato). Il legame tra fungibilità e contenuto materiale della prestazione è evidente soprattutto negli obblighi di non fare per la cui eseguibilità specifica è condizione indispensabile che la violazione si sia tradotta nella creazione di un quid novi eliminabile attraverso un’attività puramente fisica che, in quanto tale, può essere compiuta anche

da un soggetto diverso dall’obbligato. Ebbene, in tale fattispecie, si ritiene che un

ulteriore limite all’eseguibilità coattiva dell’obbligo possa essere desunto dall’art. 2058, secondo comma, c.c., secondo il quale il giudice può disporre che il risarcimento per equivalente possa sostituire la reintegrazione in forma specifica, quando questa risulti eccessivamente onerosa per il debitore.

Ulteriore limite all’attuazione coattiva degli obblighi di non fare è stato ravvisato nell’ipotesi in cui la distruzione di ciò che è stato fatto in violazione dell’obbligo possa causare pregiudizio all’economia nazionale sub art. 2933 c.c..

Solo allora, quando ricorrano tali limiti, sebbene l’obbligo di non fare sia fungibile, si può prevedere l’applicazione della misura coercitiva indiretta in caso di sua violazione.

Ciò spiegherebbe perché il legislatore ha esteso la disciplina delle misure coercitive indirette anche agli obblighi di non fare fungibili.

In linea di massima, dovrebbe comunque essere escluso il cumulo, quantomeno in termini di esercizio in concreto, tra mezzi di esecuzione diretta in forma specifica e mezzi di esecuzione indiretta. Qualora si ammettesse detta convergenza ne conseguirebbe un indebito vantaggio per il creditore, il quale - da un lato - raggiungerebbe la soddisfazione dell’interesse in natura, mediante l’attività surrogatoria di un organo terzo, e - dall’altro - otterrebbe una somma di denaro derivante dalla trasgressione dell’obbligo negativo. E ciò in palese contrasto con i limiti prescritti per il riconoscimento delle misure conformative a supporto degli obblighi di fare.

6. Funzione coercitiva e non risarcitoria. La previsione di detto rimedio prende le mosse dal principio secondo cui nemo ad factum praecise cogi potest. La non coercibilità diretta degli obblighi, tramite l’intervento surrogatorio di un terzo, è un’impossibilità logica prima che giuridica. Detta condizione integra il presupposto per la previsione della misura coercitiva indiretta. Ne discende che le misure indicate non rappresentano un’esecuzione diretta ma mirano indirettamente a fornire una tutela specifica, incidendo sulla volontà del debitore e rendendo per lui più conveniente l’adempimento anziché l’inadempimento (FERRARA, L’esecuzione processuale indiretta, Napoli, 1915, 5 e ss.; PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, II, 1165).

Pertanto, la loro funzione non è propriamente risarcitoria, a differenza dell’istituto della clausola penale. Nonostante la somma di denaro debba essere corrisposta in favore del creditore, le

richiamate misure costituiscono solo un mezzo per vincere la resistenza del debitore. Esse, infatti, sono stabilite a monte, prima che la violazione dell’obbligo si sia concretizzata, senza tenere conto dell’effettiva entità del nocumento eventualmente subendo dal creditore per effetto della futura violazione, con la funzione di incentivare il debitore ad adempiere. Al più, l’entità meramente presumibile del pregiudizio può concorrere, insieme ad altri elementi, a consentire la quantificazione della misura, giammai costituisce il dato saliente che ne legittima la previsione (DI MAJO, Forme e tecniche di tutela, in Foro it., 1989, V, 132 e ss.; MAZZAMUTO, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli, 1978, 12 e ss.).

A posteriori (id est dopo la violazione dell’obbligo), la misura non è destinata a riparare il pregiudizio subito dal creditore, per il fatto dell’inadempimento, bensì a sanzionare la disobbedienza ad un ordine del giudice, recettivo di un diritto. Così è confermata la sua definizione quale mezzo di pressione o di intimazione per ottenere dal debitore l’adempimento spontaneo.

In tale dimensione, il tema dei mezzi coercitivi indiretti si lega con quello delle c.d. pene private, consistenti nella privazione di un diritto privato o nella determinazione di un’obbligazione privatistica, a scopo di punizione del trasgressore di una norma. Ne è dunque esaltata, non già la funzione risarcitoria, piuttosto sanzionatoria. Nondimeno, deve essere fugato dalle pene private qualsiasi carattere pubblicistico: esse sono sanzioni civili, non sanzioni penali, come tali individuabili solo se espressamente previste dalla legge (BUSNELLI, Verso una riscoperta delle «pene private»?, in Resp. civ. e prev., 1984, 26 e ss.). A differenza delle pene private, che hanno un contenuto esclusivamente repressivo ed operano dopo che la violazione del precetto sia stata integrata, le misure coercitive indirette hanno indefettibilmente a monte un ruolo preventivo di dissuasione dall’inadempimento e solo eventualmente, qualora l’inadempimento persista nonostante l’adozione dello strumento conformativo, un ruolo sanzionatorio.

La previsione delle coercitorie dovrebbe favorire l’adempimento del debitore, indipendentemente dal destinatario della somma di denaro prevista a titolo di misura coercitiva. La funzione non sarebbe mutata qualora il legislatore avesse previsto che la somma doveva essere corrisposta a vantaggio dello Stato.

Secondo una tesi meno rigorosa, la previsione della misura coercitiva indiretta, proprio in ragione dell’individuazione del destinatario del pagamento della somma di denaro indicata nel provvedimento di condanna (rectius il creditore), renderebbe del

tutto compatibile che nella sua cristallizzazione convergano certamente la funzione compulsoria-sanzionatoria ma anche una funzione lato sensu risarcitoria. 7. Condanna accessoria, futura e condizionata. L’esplicito richiamo alla natura di titolo esecutivo della fissazione della somma di denaro per il caso di inadempimento evoca chiaramente la fattispecie della condanna accessoria (a quella principale, avente ad oggetto gli obblighi infungibili di fare e gli obblighi di non fare), futura e condizionata.

In proposito, il nostro ordinamento nulla dispone in ordine all’ammissibilità generale della condanna in futuro né sugli eventuali limiti della sua ammissibilità. Ed allora concretamente si è posto il problema di stabilire se nel nostro ordinamento la condanna presupponga, in ogni caso, una violazione già radicata o se, invece, essa possa essere invocata anche prima dell’integrazione della violazione a cui è funzionale, allo scopo di premunire il relativo titolare del diritto di un titolo esecutivo di natura giudiziale, idoneo a mettere in moto un procedimento di esecuzione forzata, non appena la violazione sia realizzata.

Sennonché, già nel nostro sistema esistevano singole disposizioni che prevedevano forme di condanna in futuro, a cui recentemente si è aggiunta la previsione di cui all’art. 614 bis c.p.c.. Così, a titolo esemplificativo, l’art. 657 c.p.c. consente al locatore o al concedente di intimare al conduttore o all’affittuario coltivatore diretto, al mezzadro o al colono licenza per finita locazione prima della scadenza del contratto, con la contestuale citazione per la convalida, nel rispetto dei termini previsti dal contratto, dalla legge o dagli usi locali; la funzione della norma è quella di procurare al locatore un titolo esecutivo volto ad ottenere il rilascio coattivo dell’immobile, in caso di inottemperanza all’obbligo, una volta scaduto il termine contrattuale. Ed ancora, l’art. 664, primo comma, c.p.c., in caso di sfratto per morosità, consente al giudice adito di pronunciare decreto ingiuntivo per i canoni scaduti e a scadere fino all’esecuzione dello sfratto; in tal caso, l’inadempimento è già in atto, relativamente ai canoni scaduti, ed il titolo si estende ai crediti futuri che prevedibilmente resteranno inadempiuti. Anche l’art. 148 c.c. regola un’ipotesi di condanna in futuro, al fine di assicurare una tutela urgente per l’adempimento degli obblighi di concorrere ai doveri di mantenimento dei genitori verso i figli; in tale fattispecie, è prevista l’emanazione di un provvedimento contro il terzo debitor debitoris (solitamente il datore di lavoro o un inquilino del genitore obbligato), avente ad oggetto l’obbligo di versare direttamente al soggetto che sostiene le

spese di mantenimento una quota della somma che esso terzo è tenuto periodicamente a versare al debitore inadempiente.

Ebbene, la creazione di un titolo esecutivo che prescinde dall’attualità dell’inadempimento non contrasta affatto con la struttura del processo esecutivo, come concepita dal nostro legislatore. Infatti, il titolo esecutivo, quale presupposto per l’inizio dell’esecuzione forzata, dà certezza solo in ordine all’esistenza del credito ma non in ordine alla perdurante attualità dell’inadempimento e ciò anche con riguardo ai titoli di formazione giudiziale, in quanto è ben possibile che l’adempimento sia intervenuto nel tempo intercorrente tra l’emanazione del provvedimento e l’inizio dell’esecuzione (in tal caso, il rimedio in favore del debitore è quello dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.). Pertanto, la sentenza di condanna può avere ad oggetto sia l’adempimento di obblighi già violati sia l’adempimento di obblighi non ancora violati ovvero, sul piano funzionale, la condanna può essere rivolta sia verso il passato, al fine di eliminare gli effetti della violazione già compiuta, sia verso il futuro, allo scopo di impedire che la violazione sia compiuta o reiterata.

In merito, con specifico riferimento alla struttura del nuovo art. 614 bis c.p.c., anche la condanna principale all’adempimento di obblighi infungibili di fare oppure di obblighi di non fare – a cui è funzionale la condanna accessoria avente ad oggetto le misure coercitive indirette – può essere rivolta verso il futuro e, specificamente, a garantire l’adempimento di obblighi non ancora attuali.

Sul piano concettuale, la condanna futura nel senso qui delineato si distingue dai provvedimenti inibitori, aventi non già funzione condannatoria propria bensì preventiva, vale a dire di condanna all’adempimento di un obbligo sin dall’origine di non fare.

La statuizione sulle misure coercitive indirette integra un’ipotesi di condanna che, oltre ad essere accessoria e futura, è anche condizionata all’effettivo inadempimento degli obblighi oggetto della condanna principale. Nel nostro ordinamento processuale sono pacificamente ammesse le sentenze di condanna condizionate, quanto alla loro efficacia, alla verificazione di un determinato evento futuro e incerto, alla scadenza di un termine prestabilito o ad una controprestazione specifica, sempre che la circostanza tenuta presente sia tale per cui la sua integrazione non esiga ulteriori accertamenti di merito da compiersi in un nuovo e diverso giudizio di cognizione (Cass. civ., Sez. III, 19 giugno 2008, n. 16621; Cass. civ., Sez. III, 25 agosto 2003, n. 12444; Cass. civ., Sez. III, 10 febbraio 2003, n. 1934) ma possa semplicemente

essere fatta valere in sede esecutiva mediante opposizione all’esecuzione (Cass. civ., Sez. III, 01 ottobre 2004, n. 19657). Alla base della condanna al pagamento della somma di denaro fissata a titolo di misura coercitiva indiretta sta l’accertamento dell’obbligo di eseguire la prestazione ivi determinata alla condizione che si avveri la circostanza differita e incerta rappresentata dall’inadempimento dell’obbligo infungibile di fare ovvero dell’obbligo di non fare oggetto della condanna principale, il cui accertamento non richiede altra indagine se non quella della verifica dell’effettiva esistenza di detto inadempimento.

Esempi di condanna condizionata sono ravvisabili nell’azione di regresso del condebitore solidale e nell’azione di surroga dell’assicuratore. Tali condanne sono condizionate al fatto eventuale che il creditore sia soddisfatto rispettivamente dal condebitore solidale che agisce in regresso e dall’assicuratore che agisce in surroga. Tali azioni sono fatte valere nello stesso giudizio in cui tali soggetti sono evocati in giudizio come convenuti dall’avente diritto. D’altro canto, nessun ostacolo si frappone all’emissione di due distinte pronunce di condanna, l’una subordinata all’altra, nello stesso giudizio e ciò anche per ragioni di economia processuale (Cass. civ., Sez. III, 19 luglio 2004, n. 13342; Cass. civ., Sez. Lav., 21 agosto 2003, n. 12300). Ma una cosa è il piano della cognizione, altra cosa è il piano dell’esecuzione. Benché tali condanne siano contestuali, la condanna subordinata può essere posta in esecuzione soltanto all’esito dell’esecuzione della condanna principale. Invece, nel caso delle misure coercitive indirette, l’esecuzione della condanna accessoria presuppone, non già l’esecuzione della condanna principale, ma la sua inottemperanza.

Tuttavia, il caso più emblematico disciplinato dal legislatore di condanna condizionata o subordinata è quello previsto dall’art. 2932 c.c.; in questa fattispecie, l’effetto costitutivo configurato dal trasferimento coattivo dell’immobile promesso in vendita è subordinato al pagamento del residuo prezzo dovuto dal promissario acquirente. 8. Risarcimento in forma specifica. Le coercitorie possono essere disposte anche per favorire l’attuazione degli obblighi di fare insostituibili e di non fare, che siano sanciti in sede di reintegrazione in forma specifica.

Non necessariamente deve trattarsi di obblighi primari, la cui fonte discenda direttamente dal pregresso rapporto obbligatorio instauratosi tra le parti.

I mezzi di esecuzione indiretta possono essere validamente pretesi anche quando si tratti di

obblighi secondari di provenienza giudiziale, stabiliti dal giudice per dare seguito ad una domanda di risarcimento dei danni. Qualora il giudice, per dare corso a tale richiesta, condanni il responsabile del pregiudizio ad eseguire una prestazione di fare o non fare specifica diversa e succedanea, che solo tale obbligato può attuare, non è escluso che l’avente diritto possa formulare istanza di irrogazione di una misura di deterrenza, diretta ad assicurare l’esecuzione della prestazione.

Questa possibilità può realizzarsi sia per gli illeciti contrattuali che per gli illeciti aquiliani. Così quando sia disposto, su conforme istanza del danneggiato, che il danneggiante provveda a determinate

riparazioni ovvero che riduca in pristino stato le condizioni originarie del bene o, ancora, che si astenga da certi contegni lesivi, la condanna al risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. può essere corredata da un mezzo di incentivazione dell’esatta esecuzione della prestazione, basato sulla constatazione che la condotta prescritta non può che essere attuata dalla parte tenuta.

Non a caso il legislatore non si riferisce al creditore e al debitore ma si richiama genericamente all’avente diritto e all’obbligato. Al contempo, sul piano oggettivo, non si riporta al concetto di adempimento ma si esprime in termini di attuazione di obblighi, di violazione, inosservanza o ritardo.

■ SEZ. II - LE DOMANDE E LE RISPOSTE ■ 1. La misura è posta a tutela del diritto sostanziale o del provvedimento a cui è accessoria? Ci si interroga sulla ratio della nuova previsione e, in particolare, sulla relativa attinenza al campo sostanziale della difesa di specifiche situazioni giuridiche soggettive degne di una tutela effettiva ovvero al campo processuale dell’ottemperanza a determinati provvedimenti giudiziali.

In ragione della loro funzione compulsoria e non sanzionatoria o risarcitoria, si perviene alla conclusione che le misure coercitive indirette mirano a garantire la soddisfazione della pretesa sostanziale azionata in via principale e recepita dalla pronuncia di condanna. E ciò benché impropriamente la norma accentri il senso della difesa conferita sull’esecuzione del provvedimento, anziché del diritto da esso recepito.

Solo di riflesso la loro applicazione importa la mancata esecuzione del capo condannatorio principale della pronuncia che le contiene.

Ma a ben vedere presupposto imprescindibile per l’applicazione in concreto delle misure, e tanto indipendentemente dalla loro previsione astratta - condizionata all’avveramento di un evento futuro e incerto -, è rappresentato dalla violazione del precetto posto a tutela del diritto sostanziale riconosciuto dalla statuizione giudiziale.

In sostanza, l’irrogazione della misura non è la conseguenza della violazione del precetto in sé bensì dell’inadempimento di un obbligo avente immediata rilevanza sul piano sostanziale, a protezione di specifici diritti pieni riconosciuti alla parte.

Se così non fosse, la misura avrebbe un senso a garanzia della soddisfazione dell’esatta esecuzione di ogni provvedimento giudiziale.

D’altronde, l’esigenza che ha indotto il legislatore ad intervenire attraverso una previsione di carattere generale è proprio quella di apportare una

salvaguardia reale a situazioni giuridiche soggettive che altrimenti sarebbero prive di un sistema di tutela adeguato.

Lo scopo primario perseguito dalla legge è dunque quello di assicurare al titolare del diritto di credito, avente ad oggetto prestazioni di facere infungibili ovvero di non facere, di poter contare su un idoneo supporto sanzionatorio, diretto a compulsare il debitore, quale soggetto passivo del rapporto obbligatorio, nell’ottica della precisa soddisfazione di quel diritto.

Ciò non toglie che l’obbligazione che permette la concessione della misura deve pur sempre essere di origine giudiziale e non direttamente negoziale. In definitiva, la condanna alla sua attuazione (condanna ad eseguire un obbligo infungibile) deve pur sempre provenire da un provvedimento del giudice, che ne costituisce il substrato o presupposto. Se così non fosse, l’irrogazione della misura sarebbe ammissibile anche quale oggetto della condanna principale del provvedimento giudiziale, con relativo accertamento incidentale della tenutezza all’esecuzione di un obbligo infungibile (ovvero della sussistenza incidenter tantum delle condizioni per la condanna alla sua attuazione). Il che è espressamente escluso dalla nuova previsione normativa che configura il provvedimento di condanna all’attuazione degli obblighi infungibili quale presupposto per l’irrogazione della misura sollecitatoria e, al contempo, quale fonte dell’irrogazione della misura medesima.

Il contenuto sostanziale è dunque rappresentato dalla situazione giuridica soggettiva che si intende tutelare mentre il contenente formale è rappresentato dal provvedimento di condanna che recepisce la difesa di detta situazione. Per cui deve essere confermata la tesi secondo cui la misura non sanziona il mancato rispetto dell’ordine giudiziale in sé inteso, l’atto di intollerabile

insubordinazione (Ungehorsam), ma sanziona sempre il mancato volontario adempimento dell’obbligazione principale in via compulsoria (CHIZZINI, in Balena – Caponi – Chizzini – Menchini, La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della legge sul processo civile n. 69/2009, Torino, 2009, sub art. 614 bis, 152). ■ 2. A vantaggio di chi opera la previsione del pagamento di una somma di denaro? La misura coercitiva consiste nella minaccia di dover pagare una somma di denaro, la quale – in ragione dell’interpretazione letterale e logica della norma – non deve essere corrisposta in favore dello Stato (come avviene per l’art. 140, settimo comma, del c.d. codice del consumo di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), bensì a favore dell’avente diritto. Nonostante la disposizione non lo chiarisca expressis verbis, il contenuto complessivo della norma (richiesta di parte, titolo esecutivo) lascia inequivocabilmente intendere l’adesione al modello della condanna-indennizzo in favore del creditore, non già a quello della condanna-pena in favore dell’erario.

D’altronde, la tassazione a vantaggio dello Stato avrebbe postulato un esplicito riferimento al soggetto percettore.

Trattasi dunque della previsione di una pena privata, volta a dissuadere il debitore dall’inadempimento dell’obbligo infungibile ovvero dalla violazione di un obbligo di non fare, nella consapevolezza a priori che l’eventuale inosservanza di detti obblighi comporterà un aggravio patrimoniale a suo carico: segnatamente, l’obbligo di corrispondere una prefissata somma di denaro per ogni violazione o inosservanza integrata.

Da un canto, la misura preventivamente prevista opera quale misura coercitiva indiretta e, dall’altro, garantisce al creditore che ha diritto all’adempimento un introito prestabilito per il ritardo imputabile all’inadempiente.

Per l’effetto, la misura irrogata ha i chiari contorni di una pena privata, non già di una sanzione con carattere pubblicistico. Si rientra nell’alveo delle spinte forzose, ma indirette, all’adempimento di obblighi, la cui natura esclude che il debitore possa essere surrogato direttamente dagli organi dell’esecuzione. ■ 3. Qual è il titolo che prevede la misura coercitiva indiretta? Il titolo in cui la previsione della misura coercitiva è contenuta è rappresentato dalla pronuncia di condanna all’adempimento di un obbligo di fare infungibile o di non fare. In definitiva, è il provvedimento conclusivo del procedimento di cognizione a contenere, oltre alla

specifica condanna evocata, anche la previsione della somma che sarà dovuta in futuro, qualora la parte tenuta ad eseguire tale condanna non vi si adegui. E ciò giustappunto perché la natura degli obblighi di riferimento (obblighi infungibili di fare e obblighi di non fare, per definizione infungibili, poiché il terzo non può astenersi in surrogazione dell’obbligato) non consente l’esperimento dell’esecuzione in forma specifica per obblighi di fare e di non fare.

La finalità perseguita è compatibile con ogni provvedimento che dispone la condanna all’esecuzione degli obblighi anzidetti, indipendentemente dalla forma in concreto rivestita. D’altronde, rispetto al provvedimento giudiziale condannatorio, la previsione della misura coercitiva non opera quale dato consequenziale, in ragione della verifica del mancato adempimento imputabile al debitore tenuto, ma – in via contestuale e preventiva – la stessa pronuncia di condanna fissa la misura coercitiva, in vista di un futuro ed eventuale inadempimento. In altri termini, la previsione non postula l’accertamento in concreto dell’inadempimento imputabile di un obbligo che non è passibile di esecuzione forzata ma, in una dimensione preventiva, determina la somma di denaro dovuta in caso di inadempimento ipotetico futuro. Ciò mira a priori, per un verso, ad indurre il debitore ad adempiere e, per altro verso, a dissuaderlo dall’inosservanza degli obblighi per i quali è stato condannato. Qualora l’adempimento si realizzi puntualmente, la previsione in ordine alla misura coercitiva perde ogni efficacia per mancata verificazione della condizione. Pertanto, lo scopo dissuasivo dell’inadempimento, in via preventiva, è astrattamente correlato alla natura dell’obbligo di cui si vuole garantire l’esecuzione e non alla forma del provvedimento che contiene la relativa comminatoria.

In conseguenza, tale previsione accessoria potrà essere contenuta sia in una sentenza che disponga detta condanna sia in provvedimenti aventi la forma di ordinanza o di decreto (vedi provvedimenti cautelari, provvedimenti conclusivi di procedimenti sommari, decreti camerali), che dispongano la medesima condanna all’adempimento di un obbligo di fare infungibile o di non fare.

Il caso più lampante è quello delle sentenze emesse nel nostro ordinamento giuridico che dispongano detta condanna, siano esse pronunciate dal tribunale, in composizione monocratica o collegiale, ovvero dal giudice di pace. E così anche le sentenze straniere quando la loro efficacia sia riconosciuta nell’ordinamento italiano (c.d. exequatur). In questo caso, qualora si ammetta la possibilità di una richiesta separata per l’irrogazione

della misura coercitiva, essa può essere domandata anche a supporto di una condanna all’esecuzione di obblighi di fare o non fare infungibili contenuta in sentenza straniera riconosciuta.

Nel novero dei provvedimenti di condanna che possono avere ad oggetto obblighi di fare o non fare infungibili ricadono anche le ordinanze che definiscono i procedimenti sommari di cognizione ex art. 702 bis e seguenti c.p.c., a tutti gli effetti assimilabili alle sentenze. Dette ordinanze, infatti, nella specie quando abbiano ad oggetto la condanna all’esecuzione di un obbligo infungibile, sono provvisoriamente esecutive, costituiscono titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione, contengono la statuizione accessoria sulla regolamentazione delle spese e competenze di lite, sono appellabili, producono gli effetti di cui all’art. 2909 c.c. se non appellate nei termini di legge (cioè sono idonee al passaggio in giudicato formale) ex artt. 702 ter, sesto e settimo comma, e 702 quater c.p.c.. I poteri istruttori più ampi stabiliti per il giudizio di appello avverso le ordinanze sommarie potranno concernere anche il capo relativo all’irrogazione della misura sollecitatoria.

La previsione non si può invece estendere ai decreti ingiuntivi provvisoriamente esecutivi ex art. 642 c.p.c. che per definizione ex art. 633, primo comma, c.p.c. non possono avere ad oggetto obblighi di fare (ma solo di pagamento di una somma liquida di denaro o di una quantità determinata di cose fungibili ovvero di consegna di una cosa mobile determinata).

Come anticipato, non è la forma del provvedimento a condizionare la statuizione della misura coercitiva, bensì il suo contenuto. All’uopo, la norma usa l’espressione ampia “provvedimento di condanna”, con l’effetto che qualsiasi statuizione che riporti la condanna ad attuare specifici obblighi di fare infungibile o di non fare costituisce in linea di massima titolo idoneo per riportare la connessa condanna alla misura coercitiva, fissata per il caso di inadempimento. Il che pone una questione di ammissibilità dell’applicazione della disposizione anche per i provvedimenti di condanna con natura interinale.

In primo luogo, la questione si pone per i provvedimenti cautelari anticipatori (si intende di accoglimento dell’istanza cautelare) e per i loro assimilati (provvedimenti di nunciazione e provvedimenti possessori) ex artt. 669 octies, sesto comma, e 703, quarto comma, c.p.c.. Tanto più che, per effetto della riforma di cui al d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, che ha introdotto il principio di strumentalità attenuata, il provvedimento interinale di condanna, contenente la statuizione accessoria

sulle spese di lite, è tendenzialmente stabile mentre il giudizio di merito successivo è solo eventuale, benché non abbia autorità in un diverso processo. Né l’estinzione del giudizio di merito, quand’anche l’ordinanza cautelare sia emessa in corso di causa, compromette l’efficacia di tale provvedimento.

Trattandosi a tutti gli effetti di provvedimenti di condanna, non si frappongono ostacoli insormontabili al riconoscimento della loro idoneità a contenere la previsione accessoria sull’irrogazione delle misure indirette, purché la condanna abbia ad oggetto obblighi di fare infungibili o di non fare (e non obblighi di consegna o rilascio). In realtà, l’irrogazione della misura appare pronuncia adeguata ad assicurare o comunque a rafforzare la pronta esecuzione dell’obbligo infungibile, ancora più opportuna quando detta esecuzione sia connotata dal requisito dell’urgenza e non vi sia la possibilità di un intervento surrogatorio diretto a cura di un organo statale. Peraltro, l’inclusione nell’ambito dei provvedimenti di condanna aventi ad oggetto obblighi infungibili di fare e obblighi di non fare anche dei provvedimenti cautelari anticipatori, dei provvedimenti nunciatori e dei provvedimenti possessori dovrebbe definitivamente indurre a giungere ad una conclusione positiva in ordine all’ammissibilità delle ordinanze d’urgenza che abbiano ad oggetto la condanna ad un facere infungibile, questione questa sulla quale in passato si è aperto un ampio dibattito in dottrina e giurisprudenza. L’orientamento che negava tale ammissibilità muoveva proprio dal presupposto dell’impossibilità di attuare coattivamente simili obblighi e, dunque, dall’inutilità a priori della concessione del provvedimento. Premesso che resta ancora ferma la critica a suo tempo sollevata avverso tale prospettazione, in guisa della netta discriminazione dei piani rispettivamente inerenti alla concessione della misura, da un canto, e alla sua attuazione, dall’altro, oggi deve ritenersi fugato ogni residuo dubbio, poiché la condanna in sede cautelare ad obblighi di fare può, su istanza di parte, essere assistita dalla previsione di una penale per l’inadempimento.

La stabilità precaria dell’ordinanza non inficia l’ammissibilità della richiesta accessoria (Trib. Roma, 04 novembre 2009; Trib. Cagliari, 19 ottobre 2009). Infatti, anche le misure irrogate con il provvedimento avente la forma di sentenza possono essere caducate. Qualora tale stabilità venga meno, potrà essere richiesta la ripetizione della somma indebitamente corrisposta per il titolo indicato. In aggiunta, la condanna al pagamento di una somma di denaro, la cui esecuzione dovrà avvenire nelle forme dell’espropriazione forzata ex art. 669 duodecies c.p.c., non è incompatibile con la natura del

provvedimento che la contiene. Le stesse ordinanze cautelari possono avere sulla carta ad oggetto principale la condanna al pagamento di una somma di denaro e, comunque, il capo accessorio sulla condanna alle spese di lite ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro.

Naturalmente, anche il capo accessorio del provvedimento cautelare o nunciatorio o possessorio che provvede in ordine alla condanna al pagamento di una somma di denaro, a titolo compulsorio della condanna principale, sarà soggetto al regime proprio delle misure cautelari (reclamabilità, possibilità di conferma, modifica o revoca qualora sia instaurato il giudizio di merito e per effetto della sua definizione, revoca o modifica in guisa della deduzione di mutamenti nelle circostanze ex art. 669 decies c.p.c.). Non si ritiene invece che esso possa essere adottato nel decreto inaudita altera parte ex art. 669 sexies, secondo comma, c.p.c. ma solo all’esito della previa instaurazione del contraddittorio ed a conclusione del procedimento cautelare. Invece, può essere chiesto per la prima volta in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. e così in sede di attuazione ex art. 669 duodecies c.p.c. poiché l’oggetto della pretesa sostanziale di cui si chiede protezione attraverso l’attivazione del procedimento d’urgenza rimane immutato; piuttosto, si aggiunge una richiesta accessoria volta a garantire la soddisfazione della pretesa originaria. Tale richiesta ha ancora più senso quando si deduca che l’ordinanza avente ad oggetto un obbligo di fare o non fare infungibile non sia stata attuata e all’uopo si chiede al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare di determinarne le modalità di attuazione. Nell’ambito degli ampi poteri conferiti al giudice della cautela ben è possibile che in sede di attuazione sia disposta l’irrogazione della misura diretta a rafforzare l’esecuzione dell’obbligo infungibile, rimasta inevasa all’esito dell’adozione dell’ordinanza cautelare.

Identica conclusione vale per i provvedimenti possessori contenenti un ordine di esecuzione di obblighi di fare o non fare infungibile. Si pensi ai provvedimenti inibitori di manutenzione nel possesso ex art. 1170 c.c., che impongano al molestatore di astenersi dal realizzare determinate condotte volte a comprimere il pieno esercizio delle facoltà spettanti al possessore sulla res, ad immagine di un diritto reale. L’impossibilità di assicurare attraverso esecuzione diretta l’adempimento di tale obbligo di astensione giustifica la previsione di una misura coercitiva già nella fase sommaria, diretta a dissuadere il compulsato dalla possibilità di inadempimento. Nell’eventuale fase del merito possessorio ex art. 703, quarto comma, c.p.c. la misura potrà essere confermata, modificata o

revocata. Non segue tale indirizzo il filone della dottrina

che reputa che il legislatore abbia inteso riferirsi ai soli provvedimenti idonei al passaggio in giudicato, tra cui non sono inseriti i provvedimenti cautelari anticipatori (CHIZZINI, op. cit., 146).

Occorre poi interrogarsi sulla possibilità che altri titoli possano legittimare la previsione delle misure coercitive.

Secondo una prima tesi, il riferimento al termine provvedimento limiterebbe l’ambito di applicazione della norma ai soli titoli giudiziali.

Secondo un diverso orientamento, il termine provvedimento deve essere inteso in senso estensivo.

Perciò, la norma dovrebbe operare anche in caso di devoluzione della lite al giudizio arbitrale rituale. Invero, seguendo tale ragionamento, posto che l’arbitro rituale è chiamato a fare ciò che altrimenti avrebbe fatto il giudice statale, non si vede la ragione che dovrebbe impedire agli arbitri di corredare la loro pronuncia di condanna con la misura coercitiva in oggetto. Né avrebbe molto senso interpretare la norma in modo da attribuire una minore effettività alla tutela di condanna fornita dai giudici privati rispetto a quella che si ottiene di fronte ai giudici statali. E ciò anche alla stregua dell’equiparazione sul piano dell’efficacia del lodo arbitrale rituale ad una pronuncia giudiziale. Ed allora l’interessato dovrà solo provvedere al deposito, ai sensi degli artt. 824 bis e 825 c.p.c., al fine di ottenere la dichiarazione di esecutività sia della pronuncia di condanna sia della misura coercitiva accessoria (BOVE, op. cit., 3 e ss.). Solo così è possibile in concreto garantire che l’arbitrato rituale, il cui lodo sia riconosciuto nell’ordinamento giuridico, dia la stessa tutela di una sentenza statale. Diversamente, sarebbe legittimo derogare dalla clausola compromissoria quando la controversia abbia ad oggetto l’adempimento di un obbligo di fare infungibile o di non fare, che in sede arbitrale non potrebbe per definizione essere assistito da una misura compulsoria. Aderendo alla tesi restrittiva, il ricorso all’arbitrato rituale comporterebbe in tale ipotesi una deminutio di tutela, lesiva del principio di effettività della difesa. Il che è conclusione incompatibile con il principio di equivalenza della tutela accordabile con l’arbitrato rituale all’esito dell’exequatur rispetto a quella riconosciuta dall’ordinamento statale. Pertanto, il riconoscimento del lodo che disponga la condanna all’esecuzione di un obbligo di fare infungibile o di non fare postula che anche tale lodo possa essere munito di un capo accessorio volto a prevedere la condanna al pagamento di una somma di denaro in caso di inadempimento. Anche tale capo diverrà esecutivo

per effetto dell’adozione del decreto di esecutività emesso dal tribunale, in conseguenza della verifica della regolarità formale del titolo.

Una volta ammessa, in linea di principio, la possibilità che anche il lodo arbitrale rituale sia munito della misura coercitiva indiretta, si pone l’ulteriore interrogativo di stabilire in quali casi l’arbitro può irrogare in concreto una simile misura, sempre che la controversia concerna un obbligo di fare o non fare infungibile. E’ ovvio che l’arbitro non potrà applicare la misura in mancanza di un’espressa conforme richiesta a cura del creditore. Nondimeno, qualora tale istanza sia proposta, occorre domandarsi se la relativa facoltà di irrogazione della misura debba essere prevista nell’accordo arbitrale posto a monte del procedimento ovvero se la misura possa essere irrogata senza che ad essa si riferisca l’atto fondativo della giustizia privata. La questione si intreccia con i limiti della potestas judicandi riconosciuta all’arbitro rituale, che deve trovare la propria fonte pur sempre nell’accordo compromissorio e ciò indipendentemente dalla necessità che vi sia corrispondenza tra domanda e lodo. In proposito, si rammenta che l’arbitro è sfornito di jus imperii. Pertanto, la risposta al quesito dipende dalla natura che si intende attribuire alla condanna accessoria al pagamento di una somma di denaro a titolo compulsorio: se si ritiene che tale condanna sia satisfattiva di un diritto autonomo, allora la relativa facoltà deve essere stabilita nell’accordo che demanda agli arbitri la soluzione delle possibili controversie che insorgano tra le parti; qualora, invece, si reputi che si tratti di mera tutela rafforzativa della pretesa oggetto del compromesso, la relativa condanna, per effetto della conforme istanza di parte, non esige che vi sia la previsione della specifica facoltà di irrogazione nell’accordo fondativo della giustizia privata.

Indipendentemente dalla natura della misura coercitiva indiretta, si ritiene - ad ogni modo - che il patto arbitrale debba contenere un espresso richiamo, non già specificamente alla possibilità di applicazione dell’art. 614 bis c.p.c., ma quantomeno alle norme del codice di procedura civile, affinché l’arbitro possa provvedere sulla richiesta di irrogazione della misura medesima (CHIZZINI, op. cit., 148).

Qualora si ritenga che l’istanza volta ad ottenere l’irrogazione della misura possa essere richiesta anche in via separata, dovrebbe essere ammessa la domanda principale proposta al giudice statale, avente ad oggetto l’irrogazione di una sanzione a titolo rafforzativo di una condanna all’esecuzione di obblighi di fare o non fare infungibili contenuti in un lodo arbitrale rituale munito della relativa

esecutività. Ultimo nodo da sciogliere con riferimento

all’arbitrato rituale è il seguente: l’individuazione dei potenziali strumenti di reazione esperibili quando l’arbitro commetta un errore di merito nella concessione ovvero nella non concessione della misura. Si tratta dei casi in cui la misura sia disposta nonostante non ne ricorressero i presupposti ovvero sia negata pur sussistendone le condizioni. In questi casi l’errore di merito dell’arbitro è in linea di massima irrimediabile ex art. 829 c.p.c.. Il che non deve meravigliare poiché la conclusione che precede è del tutto compatibile con i limiti della giustizia privata, che tra l’altro non consente la sindacabilità del lodo con riguardo alla soluzione delle questioni di fatto. Il lodo è invece impugnabile per nullità nei seguenti casi: quando espressamente la convenzione d’arbitrato vietava l’irrogazione della misura compulsoria ovvero non conteneva neanche un generico richiamo all’applicazione delle norme del codice di procedura civile e ciononostante la misura sia stata irrogata ex art. 829, primo comma, n. 4, c.p.c.; se l’applicazione della misura, pur astrattamente prevista nella convenzione d’arbitrato, sia avvenuta senza una specifica istanza di parte e dunque senza che sul punto la controparte abbia avuto modo di replicare ex art. 829, primo comma, n. 9, c.p.c.; se l’applicazione della misura sia avvenuta senza che l’arbitro abbia deciso il merito della controversia avente ad oggetto l’adempimento di un obbligo di facere infungibile o di non facere ex art. 829, primo comma, n. 10, c.p.c.; se la misura sia irrogata dall’arbitro nonostante sia negata l’esistenza dell’obbligo ad adempiere un obbligo di fare o non fare infungibile ex art. 829, primo comma, n. 11, c.p.c.; se il lodo non abbia pronunciato sull’istanza di concessione della misura espressamente richiesta ex art. 829, primo comma, n. 12, c.p.c..

Il lodo non sarà invece impugnabile quando l’arbitro abbia errato nella qualificazione (fungibile o infungibile) dell’obbligo principale.

Chiaramente non rientrano tra i provvedimenti di condanna equiparabili ai titoli giudiziali gli atti conclusivi di arbitrati irrituali o liberi, che hanno mera natura negoziale.

Prevedendosi che la misura coercitiva sia disposta nell’ambito di un provvedimento di condanna, si pone il problema a fronte dei titoli esecutivi che non siano pronunce di condanna. Gli atti ed i documenti che sono previsti dall’art. 474 c.p.c. come titoli esecutivi non giudiziali (scritture private autenticate, titoli di credito, atti pubblici) non possono fondare un’esecuzione per obblighi di fare e non fare ma al più un’esecuzione per espropriazione o per consegna o rilascio. Per l’effetto, non pongono neanche problemi per la

mancata possibilità di disporre in riferimento ad essi misure coercitive. Qualora tali atti prevedano l’obbligo di adempimento di un facere o di un non facere infungibile, l’interessato comunque non potrebbe evitare di instaurare un processo di cognizione rivolto alla pronuncia di una sentenza di condanna. E solo in tale contesto può richiedere, a titolo rafforzativo, l’irrogazione della misura. Come in precedenza riferito, la condanna all’esecuzione di detti obblighi deve trovare la propria fonte in un provvedimento giudiziale, che recepisca l’obbligo di natura negoziale.

Diverso è il discorso a fronte della conciliazione giudiziale e stragiudiziale.

Nel primo caso, guardando alla logica più che alla lettera della norma, non si incontrano ostacoli ad immaginare che il giudice possa, sussistendone i presupposti, disporre la misura coercitiva di cui all’art. 614 bis c.p.c.. È vero che qui non si è in presenza di un provvedimento di condanna. Ma è anche vero che affermare il contrario significherebbe scoraggiare le conciliazioni giudiziali ex art. 185 c.p.c., direttamente stimolate e comunque recepite dal giudice, senza che a questo fine vi sia una ragione forte. Per effetto del controllo del giudice, che recepisce in giudizio l’accordo tra le parti in causa, il verbale di conciliazione giudiziale ex art. 88 disp. att. c.p.c. costituisce a tutti gli effetti un equivalente della sentenza. L’accordo recepito nel verbale sostituisce la sentenza che altrimenti sarebbe stata emessa, con la conseguenza che esso deve avere la stessa garanzia di effettività. Diversamente, il creditore non godrebbe delle stesse garanzie che potrebbero essere fornite da una sentenza di condanna a protezione dell’inadempimento di un obbligo di facere infungibile o di non fare. La soluzione conciliativa sarebbe in tal modo giustamente disattesa dal creditore e ciò benché sia il giudice della causa a raccogliere la conciliazione in un verbale con valenza di atto pubblico surrogatorio della sentenza.

Ormai devono ritenersi definitivamente superati gli arresti che condizionavano la condanna all’esecuzione degli obblighi di fare alla previa verifica della natura fungibile degli obblighi e, in tal guisa, limitavano la valenza di titolo esecutivo alle sole sentenze (Cass. civ., Sez. III, 13 gennaio 1997, n. 258; Cass. civ., Sez. II, 14 dicembre 1994, n. 10713). Già la Consulta aveva ammesso che anche le conciliazioni giudiziali potessero assumere la valenza di titoli esecutivi, seppure all’implicita condizione che fosse previamente appurata la natura fungibile dell’obbligo (Corte cost. 12 luglio 2002, n. 336).

Nella fattispecie, possono verificarsi tre possibilità. In base alla prima possibilità, anche

l’irrogazione della misura è frutto dell’accordo tra le parti che stabiliscono i termini qualitativi, quantitativi e temporali della sanzione pecuniaria. In questa eventualità, il giudice non deve a rigore disporre alcuna autonoma condanna integrativa, poiché evidentemente è lo stesso verbale di conciliazione giudiziale a prendere atto dell’accordo delle parti anche sull’irrogazione della misura per il caso di inadempimento. Tale processo verbale della convenzione conclusa costituisce titolo esecutivo ex artt. 185, ultimo comma, e 474, secondo comma, n. 1, c.p.c., con l’effetto che, qualora il debitore non adempia l’obbligo di fare infungibile ovvero non rispetti l’obbligo di non fare, il verbale di conciliazione giudiziale potrà essere utilizzato come titolo esecutivo immediatamente azionabile per avviare l’espropriazione forzata, volta a garantire la soddisfazione del pagamento della sanzione pecuniaria stabilita. Non si vede perché detto accordo in questa parte non debba avere efficacia esecutiva, visto - tra l’altro - che è il riflesso di una precisa posizione assunta in sintonia tra le parti. Ma in questa ipotesi non si rientra nell’alveo della condanna giudiziale al pagamento di una somma di denaro condizionata dall’inadempimento dell’obbligo principale oggetto della conciliazione giudiziale, come regolata dall’art. 614 bis c.p.c.. Piuttosto, si tratta di una condizione dell’accordo conciliativo previsto dalle parti, allo scopo di rafforzare o assicurare la soddisfazione dell’impegno assunto dal debitore. Il che non impedisce che la misura compulsoria possa essere concordata anche a garanzia di obbligazioni che non presentano il requisito dell’infungibilità. La fonte della previsione non è comunque giudiziale né alcun filtro spetta in proposito al giudice, che si limita a rivestire sul punto una mera funzione notarile. Pertanto, la previsione concordata non soggiace ai limiti stabiliti dalla norma: manifesta iniquità, non applicazione alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 c.p.c., quantificazione della somma in base ai criteri all’uopo individuati dalle parti interessate.

Variante di questa ipotesi è quella in cui le parti raggiungano l’accordo sulla soluzione bonaria della controversia e demandino, sempre di comune accordo, al giudice dinanzi al quale avviene la conciliazione di determinare una misura sanzionatoria da irrogare al debitore per il caso di inadempimento dell’obbligo riconosciuto a vantaggio del creditore. In questa eventualità l’accordo delle parti si estende anche all’irrogazione della misura benché in concreto le parti rimettano al giudice la condanna condizionata. Il giudice dovrà allora applicare la norma di cui all’art. 614 bis c.p.c.

poiché, a tutti gli effetti, la condanna è in questo caso di matrice giudiziale, nonostante trovi la propria fonte nella rimessione delle parti. Ne consegue che, intanto la misura potrà essere disposta dal giudice, in quanto effettivamente ricorrano le condizioni previste dalla norma. Il giudice dovrà dunque valutare che la conciliazione giudiziale riguardi l’impegno ad adempiere un obbligo di fare infungibile o di non fare. All’esito, qualora l’irrogazione non appaia manifestamente iniqua, dovrà quantificare la misura secondo i criteri stabiliti dall’art. 614 bis c.p.c. e, in ogni caso, non potrà adottarla quando la conciliazione giudiziale risolva controversie di lavoro.

Benché la conciliazione giudiziale non sia in senso tecnico un provvedimento di condanna, in presenza dei presupposti che concernono la natura dell’obbligazione oggetto dell’impegno, l’accordo raggiunto nel processo è ad esso assimilabile. In definitiva, la conciliazione giudiziale sostituisce a tutti gli effetti il possibile contenuto di una sentenza di condanna avente ad oggetto un obbligo di fare infungibile o di non fare, con la conseguenza che appare congruo che sia garantito lo stesso trattamento che spetta a tale tipo di pronuncia, ivi compresa la possibilità che l’accordo conciliativo giudiziale sia corredato da una declaratoria accessoria di condanna al pagamento di una misura pecuniaria sanzionatoria qualora si realizzi l’inadempimento dell’obbligazione principale.

Più problematica è la terza possibilità: si tratta del caso in cui, facendo leva sulla natura meramente accessoria della previsione della misura, la conciliazione riguardi la sola vicenda sostanziale avente ad oggetto l’esecuzione di un obbligo infungibile, a conclusione della quale, su istanza del solo creditore, il giudice stabilisca in via unilaterale anche il pagamento di una somma di denaro in caso di violazione dell’impegno assunto dal debitore, senza che su tale ultimo aspetto vi sia l’accordo specifico del debitore stesso. Ora, nel momento in cui il debitore, in forza dell’accordo raggiunto, si obbliga ad eseguire un facere infungibile ovvero a rispettare un obbligo di non facere in sede di conciliazione giudiziale, non è dato individuare le ragioni ostative al riconoscimento di una misura coercitiva applicata dal giudice su istanza del creditore, a scopo rafforzativo dell’impegno assunto dalla parte tenuta, e ciò al fine di assicurare che la conciliazione giudiziale raggiunta fornisca le stesse garanzie di effettività della sentenza che va a sostituire. D’altronde, sarebbe un atteggiamento contraddittorio del debitore, che lascia presagire la sua volontà di non adempiere (e dunque sconsiglia la conciliazione), per un verso, assumere l’obbligo di adempimento e, per altro verso, opporsi

all’irrogazione della misura volta ad assicurare detto adempimento. Pertanto, nonostante l’accordo non sia stato esteso dalle parti anche su detto aspetto, nel verbale di conciliazione giudiziale può essere inserita, a cura del giudice, su istanza del creditore, la previsione condannatoria di una sanzione nel caso di inadempimento. Infatti, ciò che importa, ai fini della conciliazione, è che le parti raggiungano l’accordo sulla pretesa sostanziale oggetto della controversia, all’esito della quale il giudice ben può applicare la misura a titolo meramente rafforzativo dell’effettiva attuazione dell’impegno assunto con l’accordo. Naturalmente la condanna accessoria del giudice può essere emessa in quanto sussistano i presupposti indicati dalla norma di riferimento sulle misure coercitive indirette. Unica ipotesi in cui ciò non può avvenire è quella in cui specificamente il debitore condizioni l’adesione all’accordo per l’adempimento di un obbligo di fare o non fare infungibile alla circostanza che non sia irrogata la pena accessoria, diretta a rafforzare l’adempimento.

Secondo altra tesi, che pone - per contro - l’accento sul dato letterale, non essendo assimilabile il verbale di conciliazione giudiziale ad un provvedimento di condanna, la misura coercitiva non potrebbe essere mai prevista (MANDRIOLI – CARRATTA, Come cambia il processo civile, Torino, 2009, 97). Si intende fare chiaramente riferimento alle ipotesi in cui sia il giudice a disporre tale misura e non invece al caso in cui la misura sia concordata direttamente dalle parti in sede di accordo conciliativo.

Più difficile è affrontare il problema per quelle conciliazioni stragiudiziali, come ad esempio la conciliazione in materia societaria, disciplinata dall’art. 40 del d.lgs. n. 5 del 2003 (ma vedi l’attuale abrogazione di tale rito), che pongono capo ad un titolo esecutivo che ha le stesse potenzialità dei titoli esecutivi giudiziali. Qui siamo in presenza di un atto complesso in cooperazione tra i privati ed il giudice, composto dal verbale di conciliazione e dal decreto del giudice, atto che può fondare anche un’esecuzione in forma specifica. Ebbene, se in un atto del genere è rappresentata un’obbligazione infungibile o di non fare, sembra proprio che l’interessato alla misura coercitiva debba rivolgersi al giudice della cognizione per ottenere detta misura, come accessorio di una sentenza di condanna. L’alternativa sarebbe quella di attribuire un simile compito al giudice dell’exequatur, alternativa non semplice da sostenere in via interpretativa.

Secondo la tesi che ammette la concessione della misura anche per le conciliazioni stragiudiziali, la relativa competenza, su specifica istanza della parte interessata, spetterebbe al giudice dinanzi al quale si chiede l’omologazione dell’accordo conciliativo

negoziale. E’ proprio tale provvedimento giudiziale di omologazione che ratifica l’accordo a costituire l’aggancio formale per estendere l’elenco dei provvedimenti suscettibili di essere corredati da una misura coercitiva ex art. 614 bis c.p.c.. Per l’effetto, il giudice dovrebbe verificare che la conciliazione stragiudiziale abbia effettivamente ad oggetto l’adempimento di un obbligo di fare infungibile o di non fare e, all’esito, in adesione alla richiesta del creditore che domanda l’omologazione, irrogare la misura la cui fonte è rappresentata dal solo provvedimento giudiziale di ratifica. La tesi estensiva conforta la relativa ricostruzione in termini positivi, in guisa del dettato dell’art. 140 del codice del consumo, che stabilisce un’apposita sanzione a supporto della conciliazione stragiudiziale raggiunta. Sennonché tale richiamo non appare pertinente poiché la norma evocata disciplina un procedimento camerale ad hoc, diretto a rafforzare con la previsione di una misura la conciliazione stragiudiziale omologata condotta dinanzi ad un organismo accreditato. Si tratterebbe dunque di previsione speciale non applicabile in via analogica.

Di recente, l’art. 11, terzo comma, ultima parte, del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, in attuazione della delega contenuta nell’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, ha espressamente previsto che l’accordo raggiunto a seguito della composizione amichevole (c.d. mediazione facilitativa) ovvero dell’adesione alla proposta formulata dal mediatore (c.d. mediazione aggiudicativa) possa stabilire il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi previsti ovvero per il ritardo nel loro adempimento. Pertanto, direttamente il legislatore ha esteso la previsione della condanna accessoria di garanzia anche agli accordi conciliativi stragiudiziali, addirittura oltrepassando i limiti dell’art. 614 bis c.p.c., posto che la misura può essere irrogata anche per la violazione di obblighi fungibili, suscettibili di esecuzione forzata, all’esito dell’omologazione del presidente del tribunale ai sensi dell’art. 12 del medesimo decreto.

E’ proprio tale ratifica (verifica postuma o omologazione) a cura di un organo giudiziale a giustificare l’applicazione accessoria della misura coercitiva. Tuttavia, sono le parti dell’accordo di media-conciliazione a stabilire la misura, non già il giudice dell’exequatur, per espressa previsione di legge. In conseguenza, si deve categoricamente escludere che essa possa essere chiesta in via separata attraverso la proposizione di apposita e autonoma domanda giudiziale fondata sull’impegno ad adempiere un’obbligazione infungibile recepito

da un atto di conciliazione stragiudiziale. Resta comunque da sciogliere il seguente nodo: se

la previsione innanzi citata sia recettiva di una misura di esecuzione indiretta ovvero si limiti a regolare un’ipotesi speciale di clausola penale. Sembra preferibile la tesi che assimila tale facoltà ad un vero e proprio strumento coercitorio e ciò essenzialmente per le seguenti ragioni: diversamente, la norma sarebbe inutiliter data, poiché meramente specificativa di un diritto già contemplato dall’ordinamento ex art. 1382 c.c.; l’introduzione di tale clausola nell’accordo conciliativo ha lo scopo specifico di dissuadere le parti dall’inottemperanza all’accordo e non costituisce una liquidazione forfettaria e convenzionale del danno, con l’effetto che nel caso la conciliazione non sia rispettata la parte non inadempiente potrà pretendere la somma tassata a titolo di coercitoria, oltre al risarcimento dei danni; in ultimo, è escluso che il giudice eventualmente adito dalla parte interessata, o anche d’ufficio quando l’accordo conciliativo sia evocato in causa, possa procedere alla riduzione ad equità della misura convenzionalmente determinata ai sensi dell’art. 1384 c.c.. ■ 4. Qual è il giudice competente ad irrogare la misura? La struttura della norma è espressamente concepita secondo un meccanismo di previsione preventiva della misura compulsoria e non successiva alla constatazione dell’inadempimento, rimessa al giudice che dispone la condanna principale.

Ne discende che, benché la disciplina delle misure di coercizione indiretta sia stata inserita a conclusione del libro terzo, in realtà la previsione concerne il processo di cognizione, regolato dal libro secondo del codice di procedura civile. La norma, nondimeno, contiene anche previsioni tipicamente riguardanti l’esecuzione, quanto alla regolamentazione delle conseguenze dell’inadempimento dell’obbligo di corrispondere le somme determinate a titolo di misura coercitiva (ma sul punto si veda oltre).

Del resto, tale scelta è idonea ad influire in modo preponderante sulla stessa identificazione della natura compulsoria o sollecitatoria dell’istituto. Salvo che non si reputi che la mera previsione astratta, sul piano puramente normativo, dell’irrogazione della sanzione in caso di inadempimento degli obblighi di fare infungibili o di non fare avrebbe potuto svolgere un’efficace funzione deflattiva del riferito inadempimento. Nulla avrebbe impedito al legislatore di stabilire a monte una sanzione, chiaramente delimitata nel quantum, nel caso di violazione di simili obblighi. Ma

è evidente che un conto è l’irrogazione della misura in concreto già nel provvedimento di condanna all’esecuzione di un obbligo infungibile di fare ovvero di un obbligo di non fare, sebbene subordinato alla condizione che l’intimato non adempia detti obblighi, altro conto è la mera statuizione astratta della norma circa la facoltà riconosciuta all’avente diritto di adire il giudice, all’esito della mancata esecuzione della condanna con l’oggetto indicato, per ottenere l’irrogazione di una misura coercitiva di natura pecuniaria.

Ne discende che la relativa competenza a disporne l’irrogazione spetta al giudice della cognizione, chiamato a pronunciarsi sull’accertamento (dell’esistenza dell’obbligo e del suo inadempimento imputabile) e sulla conseguente condanna all’adempimento di uno specifico obbligo infungibile di fare o di non fare.

Di contro, la competenza non può essere attribuita al giudice dell’esecuzione, che per definizione interviene quando la condanna all’attuazione dei riferiti obblighi non ha trovato spontanea esecuzione a cura dell’obbligato.

Peraltro, qualora la competenza ad irrogare le misure coercitive fosse stata espressamente attribuita dal legislatore al giudice dell’esecuzione, il suo compito sarebbe stato, non già quello di assicurare direttamente l’esecuzione attraverso l’intervento surrogatorio statale, atteso che substrato di tali obblighi è appunto l’infungibilità, bensì esclusivamente quello di irrogare la misura. Il che avrebbe denotato una funzione del tutto impropria del giudice dell’esecuzione, oltre che un maggiore dispendio di energie contemplato a tutto scapito dell’interessato, il quale – dopo avere constatato l’inottemperanza dell’obbligo cui era tenuto il suo obbligato, come recepito dal titolo giudiziale conclusivo del processo di cognizione – avrebbe dovuto spiccare precetto verso l’intimato e, all’esito, adire il giudice dell’esecuzione con apposita domanda al solo scopo di ottenere l’irrogazione della misura. Solo all’esito di tale irrogazione la permanenza del relativo inadempimento (chiaramente della misura) avrebbe potuto indurre il giudice dell’esecuzione a curare l’esecuzione forzata avente ad oggetto somme di denaro dopo il precetto e il pignoramento propiziati dall’avente diritto.

Il quadro processuale si sarebbe dunque notevolmente complicato e precisamente si sarebbe scandito secondo tre fasi: la condanna del giudice della cognizione all’adempimento di un obbligo infungibile; la condanna del giudice dell’esecuzione a corrispondere la misura coercitiva all’esito dell’inadempimento dell’obbligo; l’espropriazione volta ad assicurare l’introito della somma di denaro oggetto della misura.

La competenza del giudice della cognizione (anche a conclusione del procedimento sommario di cognizione ovvero dei procedimenti cautelari con funzione anticipatoria o dei procedimenti nunciatori o possessori) ad irrogare la sanzione ha delle precise implicazioni. Infatti, qualora l’obbligo principale avente ad oggetto la prestazione infungibile rimanga inattuato, il capo accessorio della pronuncia che riporta la condanna condizionata al pagamento della sanzione pecuniaria diviene titolo esecutivo azionabile, senza che sia necessaria alcuna altra pronuncia di accertamento dell’effettivo inadempimento dell’obbligo principale e di quantificazione della misura. Il titolo esecutivo è rappresentato dunque dalla stessa pronuncia che ha disposto la condanna accessoria condizionata. A questo punto può essere avviato il processo esecutivo.

Ebbene, l’azione esecutiva può essere attivata dal creditore sulla base della sola affermazione dell’inadempimento cui è tenuto il debitore, contenuta nel precetto. Ma vi è di più. Il medesimo precetto dovrà altresì contenere la quantificazione dell’importo dovuto dal debitore a titolo di sanzione pecuniaria, calcolato dal creditore sulla scorta dei parametri stabiliti nella pronuncia dal giudice della cognizione. Si tratta di una quantificazione per relationem. Diversamente accade nel sistema giuridico francese, dove il giudice dell’esecuzione dovrà preliminarmente accertare l’inadempimento e i motivi e, in conseguenza, dovrà determinare l’ammontare della sanzione. Di contro, nel nostro sistema giuridico affermazione dell’inadempimento e quantificazione della sanzione sono rimesse al creditore e l’atto deputato a tale scopo è rappresentato dal precetto. ■ 5. La previsione della misura coercitiva opera in via automatica, d’ufficio ovvero su istanza di parte? Non ogni provvedimento di condanna all’esecuzione di un obbligo di fare infungibile o di non fare importa automaticamente la determinazione della relativa misura coercitiva di supporto. Né essa può essere applicata d’ufficio a cura del giudice.

Affinché essa possa essere applicata è necessario che vi sia la specifica istanza di parte. Naturalmente, tale richiesta dovrà essere avanzata prima che il giudice si pronunci sulla domanda principale.

Si ritiene che, avendo la statuizione della misura una specifica finalità rafforzativa della tutela esecutiva, la domanda di irrogazione della misura coercitiva non abbia un contenuto innovativo in senso proprio, con la conseguenza che essa può essere formulata sino all’udienza di precisazione

delle conclusioni. Il regime, sotto tale profilo, è assimilabile allo strumento della condanna per responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c. (Cass. civ., Sez. II, 18 marzo 2002, n. 3941), regime tuttavia solo per certi versi affine (le misure rivolte a salvaguardare da un’eventuale responsabilità futura, con funzione coercitiva, il risarcimento del danno diretto a proteggere da una responsabilità pregressa, con funzione risarcitoria). Il bene della vita di cui si chiede tutela (oggetto e causa petendi) resta infatti sempre quello individuato dalla domanda principale introduttiva del giudizio. Rispetto a tale bene, l’istanza volta alla determinazione di una misura di coercizione indiretta ha un chiaro contenuto accessorio e non innovativo. Pertanto, non si presentano ostacoli formali a ché la richiesta possa essere avanzata in ogni tempo ma pur sempre prima che sia adottata la pronuncia. L’ultimo momento utile, quando la condanna consegua all’instaurazione di un ordinario giudizio di cognizione, è rappresentato proprio dall’udienza di precisazione delle conclusioni, quale spartiacque tra fase di trattazione e fase decisoria. Pertanto, salva la necessità di rispettare il principio del contraddittorio, non vi sono preclusioni alla sua proposizione (CHIZZINI, op. cit., 178).

Resta fermo che la richiesta, quand’anche ammissibile per esistenza dei relativi presupposti, possa non essere avanzata dall’interessato. Si tratta, infatti, di una sua mera facoltà. Conseguentemente, è ben possibile che la domanda principale di condanna avente l’oggetto indicato (adempimento di obblighi infungibili di fare e di obblighi di non fare) sia sprovvista della correlativa istanza di fissazione della misura coercitiva e, ciononostante, la condanna evocata sia pronunciata. La richiesta della misura non è evidentemente condizione per la condanna all’adempimento dei doveri infungibili di fare e dei doveri di non fare. È invece preclusa l’irrogazione della misura in difetto di specifica domanda, con la conseguenza che, qualora tale eventualità si verifichi, la pronuncia è impugnabile per vizio di ultra-petizione ex art. 112 c.p.c..

Viceversa, quand’anche la richiesta di applicazione di sanzione pecuniaria sia avanzata, essa deve essere disattesa quando la condanna non attenga ai predetti obblighi. Tale accertamento è chiaramente rimesso al giudice della cognizione e anche tale qualificazione può essere oggetto di impugnazione.

In base ad altro indirizzo, la domanda di condanna al pagamento di una sanzione compulsoria è domanda autonoma e propria che amplia il thema decidendum e, pertanto, deve essere spiegata nei termini di legge per la proposizione della domanda principale, della domanda

riconvenzionale e della reconventio reconventionis ex artt. 163, 166, 167 e 183 c.p.c., pena la maturazione delle relative preclusioni [AMADEI, Una misura coercitiva generale per l’esecuzione degli obblighi infungibili, in www.judicium.it, 10; PAGNI, La “riforma” del processo civile: la dialettica tra il giudice e le parti (e i loro difensori) nel nuovo processo di primo grado, in Corr. Giur., 2009, 1318; ZUCCONI GALLI FONSECA, Le novità della riforma in materia di esecuzione forzata, in www.judicium.it, 7]. ■ 6. La pronuncia della misura è idonea a passare in cosa giudicata o è un mero accessorio della pronuncia principale? Si dubita in dottrina sull’esatto inquadramento della richiesta di irrogazione della misura coercitiva indiretta.

Secondo una parte della dottrina (AMADEI, op. cit., 10; PAGNI, op. cit., 1318; ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 7), si tratterebbe di un’autonoma domanda volta a tutelare un vero e proprio diritto sostanziale di credito avente ad oggetto la pretesa di ottenere una somma di denaro in caso di inadempimento di un obbligo infungibile di fare o di non fare.

In questa ipotesi, la richiesta dovrebbe essere formulata già con l’atto introduttivo del giudizio ovvero in via riconvenzionale (unitamente alla domanda riconvenzionale presupposta) nel termine di legge (venti giorni prima dell’udienza fissata in citazione ex artt. 166 e 167 c.p.c.) affinché non si incorra nelle preclusioni processuali. Non potrebbe invece essere spiegata per la prima volta in corso di causa.

Aderendo a tale impostazione, potrebbe essere spiegata anche in separato giudizio, purché sia già pendente o sia stato definito altro giudizio avente ad oggetto la condanna all’esecuzione di un obbligo di fare infungibile o di un obbligo di non fare. Inoltre, i due giudizi potrebbero essere riuniti ex art. 274 c.p.c..

Ancora, la relativa pronuncia è destinata a passare in cosa giudicata, appunto perché avente i requisiti della pronuncia di merito.

E’ suscettibile di autonoma impugnazione. Né la richiesta può essere avanzata per la prima

volta in appello, pena la relativa declaratoria di inammissibilità ex art. 345, primo comma, c.p.c..

D’altronde, al giudice dell’esecuzione adito ai sensi dell’art. 612 c.p.c., competente per l’esecuzione forzata di obblighi di fare e di non fare fungibili, è precluso qualsiasi sindacato sulla qualificazione (fungibile o infungibile) dell’obbligo, qualificazione rimessa in via esclusiva al giudice della cognizione che si sia pronunciato sulla domanda di irrogazione della sanzione. Pertanto, il giudice dell’esecuzione sarebbe vincolato

dalla qualificazione data dal giudice della cognizione. Secondo altra parte della dottrina (BOVE, op. cit.,

6 e ss.; CHIZZINI, op. cit., 178; GAMBINERI, Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare, in Foro it., 2009, V, c., 320), l’istanza diretta ad ottenere l’irrogazione della misura sollecitatoria avrebbe natura meramente accessoria della condanna principale, con funzione precipuamente rafforzativa della pronta esecuzione di detta condanna. La sua qualità di corollario della pronuncia principale, efficace subordinatamente alla sua mancata esecuzione, escluderebbe qualsiasi autonomia della condanna al pagamento della somma di denaro stabilita per il caso di inadempimento degli obblighi di fare infungibile e di non fare.

Per l’effetto, essa può essere chiesta in ogni tempo, sino all’udienza di precisazione delle conclusioni, salvo il rispetto del principio del contraddittorio.

Non può essere formulata autonomamente in separato giudizio, pena l’inammissibilità della richiesta.

La relativa pronuncia non è idonea a passare in cosa giudicata.

Non è suscettibile di autonoma impugnazione. Peraltro, la richiesta può essere avanzata per la

prima volta anche in appello. Il giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’art.

612 c.p.c., non è vincolato dalla qualificazione dell’obbligo effettuata dal giudice della cognizione. Così l’avente diritto, nonostante la concessione della misura a cura del giudice della cognizione, nel dubbio circa l’effettiva natura infungibile dell’obbligo, può comunque adire il giudice dell’esecuzione per ottenere l’attuazione coattiva dell’obbligo medesimo, senza che la precedente declaratoria eserciti alcun vincolo sul giudice dell’esecuzione. Ed ancora, qualora la misura sia negata dal giudice della cognizione, in guisa della reputata natura fungibile dell’obbligo, il giudice dell’esecuzione adito ex art. 612 c.p.c. ben può qualificare l’obbligo come infungibile e negare l’esecuzione diretta.

Secondo una soluzione intermedia (MERLIN, Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella L. 69/2009, in Riv. proc. civ., 2009, 1546), la richiesta della misura coercitiva importerebbe una modificazione della domanda (mera emendatio libelli), che può essere avanzata entro i limiti dello sbarramento di cui all’art. 183, quinto e sesto comma, c.p.c..

In realtà, le due qualificazioni dell’istanza, rispettivamente come autonoma domanda e come richiesta accessoria alla domanda di condanna principale, sono tra loro compatibili. E ciò alla

stregua della singolare convergenza in tale richiesta di aspetti significativi dell’una e dell’altra, come emerge dal confronto tra petitum mediato e petitum immediato.

Se, per un verso (petitum mediato), alla richiesta giudiziale non è sotteso un diritto sostanziale diverso dall’interesse che costituisce il presupposto dell’azione di condanna all’esecuzione di un obbligo di fare infungibile o di non fare, con l’effetto che – sotto tale profilo – essa è assimilabile ad una mera istanza accessoria e interinale, necessariamente collegata alla domanda principale di condanna; per altro verso (petitum immediato), la condanna domandata di pagamento di una specifica somma di denaro, per il caso di inadempimento degli obblighi indicati, importa un duplice ordine di implicazioni, uno a monte e l’altro a valle: a. a monte, l’accertamento preliminare sulla natura infungibile dell’obbligo, quale condizione per l’applicazione della misura; b. a valle, la chiara incidenza sulla sfera giuridico-patrimoniale del compulsato; con la conseguenza che – sotto tale aspetto – essa è equiparabile ad un’autonoma domanda di condanna.

Da tale singolare convergenza deriva un trattamento sui generis dell’istituto, assimilabile – per certi aspetti – alla domanda di condanna al risarcimento del danno per responsabilità processuale aggravata ovvero alla domanda di ripetizione dell’indebito formulata in appello, volta ad ottenere la restituzione della somma corrisposta in esecuzione della sentenza di prime cure, quando quest’ultima sia riformata in sede di gravame. Così, valorizzando la sua natura accessoria, essa può essere spiegata sino all’udienza di precisazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado. L’astratta possibilità demandata al diritto potestativo del creditore di richiedere la condanna alla corresponsione di una specifica misura coercitiva pecuniaria durante tutto il corso del giudizio, sino all’udienza di precisazione delle conclusioni, allo scopo di cautelarsi dall’eventuale inadempimento dell’obbligo principale infungibile, non suscettibile di esecuzione forzata diretta, espone comunque l’istante a dei rischi. E ciò perché, in ragione del momento processuale in cui detta richiesta è formulata, opereranno tutte le preclusioni che sono proprie dello stadio in cui il processo si trova. Sennonché, nel caso in cui la richiesta sia avanzata in sede di precisazione delle conclusioni, per definizione è escluso alcun supporto probatorio della richiesta, sia sul piano documentale sia in ordine alla formulazione di mezzi istruttori costituendi.

Ora, accanto ad obblighi infungibili in re ipsa, la cui mera deduzione consente la relativa

qualificazione in termini, senza la necessità di alcun suffragio probatorio, vi possono essere obblighi infungibili in concreto, la cui ricorrenza esige una specifica dimostrazione. Con la conseguenza che rispetto a tali ipotesi si rende necessario che la relativa deduzione sia corroborata da un sufficiente quadro probatorio. Il che implica che la richiesta debba essere proposta prima che siano maturate le preclusioni istruttorie.

Avverso la relativa pronuncia possono essere esperiti gli ordinari mezzi di impugnazione.

La richiesta può essere spiegata per la prima volta anche in appello e ciò in due ipotesi: quando il creditore abbia riposto fiducia nell’adempimento dell’obbligato condannato con la sentenza di primo grado e, all’esito, riscontri che l’obbligato stesso, da un lato, non abbia eseguito l’obbligazione e, dall’altro, abbia interposto gravame; allora, in via riconvenzionale, ben può richiedere nel giudizio di appello l’applicazione della misura; ovvero quando la domanda principale sia rigettata in prime cure e, all’esito, il creditore proponga appello avverso tale pronuncia, corredando per la prima volta la richiesta di riforma della sentenza con l’istanza di irrogazione della misura sanzionatoria, quando l’interesse ad ottenere tale declaratoria accessoria nasca solo con la proposizione dell’impugnazione (BOVE, op. cit., 6 e ss.; contra CHIZZINI, op. cit., 178).

D’altronde, la possibilità che sia avanzata in un separato giudizio non ne pregiudica la sua natura accessoria, poiché essa presuppone pur sempre, a pena di inammissibilità, che: 1. al tempo della sua proposizione (notificazione della citazione introduttiva, quale momento di determinazione della litispendenza) sia pendente altro giudizio avente ad oggetto la condanna all’esecuzione di un obbligo di fare infungibile o di non fare, non ancora definito con sentenza, passata o meno in cosa giudicata; 2. ovvero che vi sia già stata una pronuncia di condanna all’esecuzione di un obbligo di fare infungibile o di non fare. Detta separata domanda è invece inammissibile quando tale potenziale giudizio pregiudiziale non sia pendente ovvero sia stato già deciso con sentenza, all’esito della quale l’obbligo sia divenuto inesigibile. In tale ultima evenienza, infatti, la richiesta di irrogazione della misura coercitiva indiretta non avrebbe più una funzione sollecitatoria condizionata all’evento futuro e incerto dell’inadempimento bensì sanzionatoria di un inadempimento già irrimediabilmente cristallizzatosi e non più sanabile.

Valorizzando il contenuto precettivo della pronuncia, idonea ad incidere sul patrimonio dell’obbligato inadempiente, la richiesta è passibile di passare in cosa giudicata (giudicato formale esterno) ex art. 324 c.p.c., qualora non debitamente

e tempestivamente impugnata. Si badi bene che l’impugnazione può riguardare il capo principale di condanna all’esecuzione di un obbligo di fare infungibile o di non fare, la cui riforma travolge automaticamente il capo accessorio, ovvero il solo capo che dispone la misura, in ordine agli aspetti concernenti l’an (natura infungibile dell’obbligo; manifesta iniquità dell’irrogazione) ovvero il quantum (entità della misura irrogata, per chiaro discostamento dai parametri di riferimento indicati ex art. 614 bis, secondo comma, c.p.c., pur in assenza di una cornice edittale della quantificazione). Né si può dubitare che l’accertamento della natura infungibile dell’obbligo costituisce una verifica preliminare che è propria del capo accessorio di condanna all’irrogazione della misura coercitiva e che non concerne il capo principale. In ordine alla domanda di condanna all’esecuzione di un obbligo di fare o non fare, il giudice deve solo accertare la fonte di detto obbligo e l’esistenza di un termine per il suo adempimento nonché la sussistenza dell’adempimento, qualora l’obbligato ne abbia dato prova (fatto estintivo ex art. 2697 c.c.), ma non gli compete la verifica della natura infungibile dell’obbligo, la quale dovrà essere ponderata solo qualora vi sia la domanda accessoria di irrogazione della misura sollecitatoria. Ne discende che, qualora l’intimato voglia contestare tale valutazione, deve impugnare nei termini di legge il capo accessorio della pronuncia. Consegue ancora che il giudice dell’esecuzione non può sindacare la qualificazione della natura dell’obbligo effettuata dal giudice della cognizione, alla cui pronuncia è vincolato. Secondo un indirizzo intermedio, il giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’art. 612 c.p.c., sarebbe vincolato solo dalla pronuncia del giudice della cognizione che, ritenendo l’obbligazione infungibile, abbia disposto la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria sollecitatoria; quando, di contro, abbia disatteso tale istanza, qualificando l’obbligazione fungibile, nessun vincolo opererebbe per il giudice dell’esecuzione in ordine alla rinnovata qualificazione dell’obbligo (CHIZZINI, op. cit., 180). ■ 7. La misura coercitiva può essere chiesta separatamente? La questione che a questo punto si pone è quella di stabilire se la parte a cui favore sia stata pronunciata una declaratoria di condanna relativa ad obblighi infungibili di fare o ad obblighi di non fare - e che nel corso del giudizio conclusosi con tale condanna non abbia richiesto l’applicazione preventiva delle misure coercitive indirette - possa richiedere detta applicazione successivamente alla pronuncia di condanna, passata o meno in

giudicato (posto che la pronuncia di condanna è comunque provvisoriamente esecutiva ex art. 282 c.p.c.). In tal caso, la richiesta non sarebbe diretta a garantire il creditore nell’ipotesi di un ipotetico inadempimento della parte compulsata ma prenderebbe atto dell’effettivo inadempimento di detta parte, sebbene esso sia ancora esigibile.

La possibilità di disporre la condanna successivamente alla pronuncia principale era espressamente prevista dal progetto Carnelutti del 1926 (MARAZIA, op. cit., 345).

Ebbene, considerata la ratio della norma, nessuna ragione ostativa dovrebbe frapporsi in modo insormontabile al riconoscimento della possibilità di una richiesta separata e successiva della misura coercitiva, all’esito della verifica del concreto inadempimento del debitore tenuto, quando permanga la sua valenza preventiva.

Ciò che conta è che la misura coercitiva invocata sia effettivamente strumentale ad una pronuncia di condanna all’adempimento di un obbligo infungibile di fare ovvero di un obbligo di non fare. Qualora ricorra tale condizione, è rimesso alla facoltà dell’istante richiedere la misura già nel procedimento in cui è stata domandata la condanna in simultaneus processus ovvero all’esito di detta condanna. E tanto perché non costituisce un dato ontologico della misura il momento processuale della proposizione dell’istanza, quanto il presupposto sostanziale della ricorrenza dei particolari obblighi segnalati dalla norma.

Vi è una condizione indefettibile però affinché tale separata richiesta sia ammissibile: che, al momento in cui la misura coercitiva viene domandata in via separata, l’adempimento dell’obbligo principale sia ancora possibile. Se così non fosse, lo strumento si trasformerebbe da mezzo essenzialmente persuasivo in una forma velata di risarcimento.

Quando la condanna all’esecuzione degli obblighi infungibili sia provvisoria (rectius non ancora passata in cosa giudicata), la richiesta di condanna all’irrogazione della misura coercitiva ben può essere formulata per la prima volta nel giudizio di gravame.

Qualora la condanna sia divenuta definitiva, in ragione del decorso del termine per proporre i mezzi di impugnazione ordinari ovvero per l’intervenuta conferma della pronuncia in sede di impugnazione, la richiesta può essere avanzata con autonoma domanda introduttiva del giudizio di primo grado, purché l’adempimento dell’obbligo sia ancora esigibile.

A sostegno dell’autonoma proposizione della richiesta delle coercitorie militano le seguenti riflessioni: a. la lettera della norma non costituisce un ostacolo insormontabile poiché la preposizione

“con” ben può alludere ad un concetto di accessorietà funzionale, quale sinonimo di “all’esito del”, e non necessariamente di accessorietà provvedimentale; b. quand’anche si intenda la formula adoperata in senso restrittivo, come allusiva del riferimento della misura al contenuto dello stesso provvedimento che irroga la condanna, non vi è un esplicito divieto di proposizione separata, così come di fatto accade per le misure speciali in materia di tutela del consumatore e di proprietà intellettuale e industriale, nonostante l’identità della locuzione usata; c. non sussistono ragioni ontologiche che giustificano l’unitarietà del provvedimento di condanna e di disposizione delle coercitorie, a differenza di quanto avviene per altri istituti (domanda di risarcimento danni per responsabilità processuale aggravata e domanda di addebito nella separazione giudiziale tra coniugi), le cui norme di riferimento usano espressioni ben più nette per sancire tale unitarietà (vedi art. 151, secondo comma, c.c.: il giudice, pronunciando la separazione, stabilisce l’addebito; art. 96, primo comma, c.p.c.: la condanna per responsabilità processuale aggravata è liquidata nella sentenza); d. diversamente, sarebbe violato il principio di effettività della difesa giudiziale, specie qualora si aderisca ad un concetto di infungibilità in senso processuale, la cui integrazione dipende da circostanze mutevoli e non prefissate, che possono essere anche sopravvenute; e. anche l’interesse a richiedere le misure sollecitatorie può originarsi dopo la pronuncia di condanna. Ora, aderendo ad una ricostruzione rigida e restrittiva della fonte della misura, si perverrebbe alla seguente inaccettabile eventualità: le situazioni giuridiche per le quali l’impossibilità di un intervento surrogatorio satisfattivo di organi terzi sia rilevabile solo dopo la declaratoria di condanna non sarebbero passibili di ricevere una salvaguardia specifica, attraverso la comminatoria degli strumenti di esecuzione indiretta. Il che porterebbe anche ad un’ingiustificabile e irragionevole disparità di trattamento con i diritti, la cui infungibilità sia valutabile ex ante.

Naturalmente, nel caso in cui la misura coercitiva sia richiesta separatamente, essa dovrà essere avanzata nelle stesse forme con cui è stata introdotta la domanda di condanna all’adempimento. Qualora tale domanda sia stata spiegata nelle forme ordinarie, anche la richiesta della misura coercitiva dovrà essere inoltrata con le stesse forme.

Ma oggi si reputa che l’istanza possa essere fatta valere anche con il nuovo strumento del procedimento sommario, anche quando il giudizio pregiudiziale sia stato svolto nelle forme della

cognizione ordinaria, sempre ché il tribunale non debba giudicare in composizione collegiale. La verifica della natura infungibile dell’obbligo oggetto di una condanna pregressa, dimostrata in via documentale, ricade in astratto nel presupposto dell’istruttoria sommaria, intesa come istruttoria semplificata e snella.

Certamente, deve escludersi il ricorso al procedimento monitorio, per difetto di liquidità della pretesa. Così come non può essere chiesta l’integrazione della pronuncia mediante l’attivazione del sub-procedimento di correzione di errore materiale poiché in questo caso non vi è alcuna omissione rispetto alle domande avanzate. Quando la condanna sia stata pronunciata mediante provvedimento cautelare, attesa la natura della condanna (all’adempimento di obblighi infungibili di fare o di obblighi di non fare), la richiesta dovrà avvenire attraverso il ricorso all’art. 669 duodecies c.p.c. dinanzi al giudice che ha emesso l’ordinanza. E proprio tale ultimo campo sembra quello più confacente alla richiesta della misura in via separata e successiva. È noto che l’attuazione delle misure cautelari che ordinano un facere o un non facere compete in via deformalizzata allo stesso giudice che ha disposto la cautela. Sicché già prima che fosse introdotto il nuovo art. 614 bis c.p.c. si discuteva se il giudice abilitato a garantire l’attuazione delle ordinanze cautelari o possessorie, nell’ambito degli ampi poteri riconosciuti dalla norma, potesse, addirittura d’ufficio, adottare delle misure coercitive indirette, anch’esse connotate dal requisito dell’atipicità, per consentire l’effettiva realizzazione degli obblighi infungibili di fare ovvero degli obblighi di non fare. A fortiori, tale facoltà può essere riconosciuta all’esito dell’entrata in vigore dell’art. 614 bis c.p.c.. All’atipicità ed urgenza dell’ordinanza ben si può associare l’atipicità delle modalità di attuazione e dei provvedimenti opportuni adottabili ai sensi dell’art. 669 duodecies c.p.c.. Non sarebbe coerente con i principi che avvincono il rito cautelare uniforme escludere l’ammissibilità della richiesta di applicazione della misura di coercizione indiretta per il solo fatto che essa sia richiesta solo in sede di attuazione dopo l’emissione dell’ordinanza cautelare, specie se si considera il rapporto di continuità che caratterizza la dicotomia adozione della misura urgente - sua immediata soddisfazione.

Qualora, invece, la richiesta di irrogazione della misura sia proposta in separato giudizio in pendenza del giudizio principale, attesa la chiara sussistenza di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, il giudizio secondario dipendente può essere riunito a quello pregiudiziale ex art. 274 c.p.c., qualora entrambi pendano in primo grado

dinanzi al medesimo ufficio giudiziario, ovvero può essere sospeso (sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c.), in attesa della definizione e del passaggio in giudicato della pronuncia principale.

In base all’orientamento restrittivo che fa riferimento ad una lettura formale della norma, la fissazione della misura può avvenire con il solo provvedimento che dispone la condanna ad un facere infungibile o a un non facere. Quindi, sarebbe preclusa la proposizione in via autonoma e separata. ■ 8. Può essere chiesta nel giudizio di gravame? Come riferito, aderendo all’impostazione secondo cui la richiesta delle misure coercitive indirette ha natura accessoria rispetto alla domanda principale di condanna all’esecuzione degli obblighi infungibili, tale richiesta può essere formulata per la prima volta in appello, quand’anche non sia stata avanzata nel giudizio di prime cure.

La richiesta formulata in appello non costituisce una domanda nuova, come tale inammissibile ai sensi dell’art. 345, primo comma, c.p.c., ma può essere equiparata alla richiesta di risarcimento danni sofferti dopo la sentenza di primo grado.

Del resto, è del tutto plausibile che l’interesse del creditore a domandare le misure indirette nasca all’esito dell’appello proposto dall’obbligato avverso la sentenza che lo condanna all’esecuzione di determinati obblighi di fare infungibile o di non fare. Solo in tale momento il creditore, constatata la mancata esecuzione della condanna principale e l’interposizione del gravame, potrebbe acquisire la concreta consapevolezza che l’obbligato non intende adempiere alla prestazione alla quale è tenuto, in guisa di specifico provvedimento giudiziale. Il che suffraga la tesi dell’ammissibilità della proposizione per la prima volta della richiesta delle misure indirette in sede di gravame.

L’interesse ad ottenere la misura potrebbe nascere in sede di gravame anche quando la domanda spiegata nel giudizio in prime cure, avente ad oggetto la condanna all’attuazione di un obbligo infungibile, sia respinta. Solo con l’interposizione dell’appello principale, in ragione di fatti sopravvenuti, potrebbe originarsi l’esigenza del creditore di richiedere, oltre alla riforma della pronuncia emessa in primo grado, l’irrogazione di una sanzione sollecitatoria.

L’istanza deve essere formulata, a pena di inammissibilità, con l’atto di costituzione nel giudizio di gravame.

Tale innovativa proposizione consente la contestuale istanza di ammissione di ulteriori mezzi di prova, quanto meno di natura documentale (produzione) ex art. 345, terzo comma, c.p.c.. In realtà, la richiesta è formulata per la prima

volta nel giudizio di appello, con l’effetto che nessun rimprovero può essere mosso alla parte per non avere formulato le corrispondenti istanze istruttorie nel giudizio di prime cure. Pertanto, vagliata l’indispensabilità di tali prove ai fini della decisione sull’irrogazione delle misure sollecitatorie, esse devono essere ammesse. D’altronde, l’impossibilità di proporle o produrle nel giudizio di primo grado per causa non imputabile al creditore nella fattispecie è in re ipsa.

Peraltro, ammettere la facoltà del creditore di presentare istanza di irrogazione delle misure nel giudizio di appello, senza poter confortare tale istanza con le necessarie richieste probatorie, sarebbe un controsenso.

Diverso è il caso in cui la richiesta delle misure sia tempestivamente proposta nel giudizio di primo grado e disattesa dalla sentenza che conclude il giudizio. In simile evenienza, occorrerà distinguere l’ipotesi in cui la pronuncia sulle misure sia assorbita dal rigetto della domanda principale di condanna all’esecuzione degli obblighi infungibili dall’ipotesi in cui, pur essendo stata accolta la domanda principale, sia reietta la domanda accessoria. Nella prima ipotesi, l’impugnazione sul capo principale dovrà contenere anche l’espressa riproposizione della richiesta di irrogazione delle misure indirette, affinché essa possa essere esaminata nel merito; altrimenti, si intende rinunciata ex art. 346 c.p.c.. Nel secondo caso, la domanda di riforma della pronuncia accessoria di rigetto delle misure indirette dovrà costituire oggetto specifico ed esclusivo dell’appello principale ovvero incidentale che il creditore dovrà spiegare.

Ancora in tema di impugnazione, quando sia accolto l’appello avverso il capo della pronuncia che ha condannato il debitore ad eseguire una prestazione infungibile, senza che alcun specifico motivo di gravame sia stato sviluppato avverso il capo accessorio che ha disposto l’irrogazione delle misure indirette, la riforma del capo principale ha automaticamente effetto sul capo accessorio dipendente che si intenderà all’esito caducato, in ragione dell’efficacia espansiva interna della riforma del capo pregiudiziale ex art. 336, primo comma, c.p.c.. E così dicasi anche in caso di cassazione parziale (CHIZZINI, op. cit., 165). ■ 9. Secondo quali parametri deve essere quantificata la misura coercitiva? La norma al primo comma si limita a stabilire che il giudice, su richiesta di parte, fissa la somma dovuta dall’obbligato all’avente diritto per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Tuttavia, al secondo comma aggiunge che l’ammontare della

somma dovuta deve essere commisurato al valore della controversia, alla natura della prestazione, al danno quantificato o prevedibile e ad ogni altra circostanza. Esistono, pertanto, dei parametri espressamente stabiliti dal legislatore per la quantificazione della misura. Ciò sana le lacune del progetto iniziale, che avrebbe diversamente lasciato gli interpreti alquanto perplessi per la mancanza di ogni limite al potere di determinazione del giudice, ossia, come si suole dire, per l’assoluta assenza di una cornice edittale (BOVE, Brevi riflessioni sui lavori in corso nel riaperto cantiere della giustizia civile, in www.judicium.it, 5 e ss.). Peraltro, secondo altro filone della dottrina, la mancanza di cornice edittale sarebbe giustificata dall’assenza di alcuna tipizzazione delle situazioni sostanziali a tutela delle quali si interviene (CHIZZINI, op. cit., 176).

Resta fermo però che i criteri individuati dal legislatore non consentono una rigida quantificazione. Infatti, la valutazione secondo i parametri indicati non è demarcata dal riferimento a limiti minimi e massimi insuperabili. Allo scopo di evitare che la discrezionalità del giudice si tramuti in vero e proprio arbitrio, è ragionevole reputare che la somma debba essere determinata in termini proporzionali al valore della causa instaurata per effetto della proposizione della domanda principale.

Ancora, dovrà aversi riguardo alla natura della prestazione rimasta inadempiuta e, in specie, al contenuto dell’obbligo infungibile di fare o dell’obbligo di non fare di cui alla condanna principale. A tale stregua, in sede di quantificazione, dovrà farsi riferimento – da un canto - alla complessità dell’obbligo da eseguire, in guisa degli strumenti di cui dispone il debitore, e – dall’altro – all’utilità sottesa alla sua soddisfazione, relativamente alla sfera personale del creditore. Tali valutazioni devono essere oggettivizzate. Ed infatti la stesura definitiva della norma ha soppresso il raccordo con le condizioni personali e patrimoniali delle parti. Ancora, deve tenersi conto del danno quantificato o prevedibile per effetto dell’inadempimento, ossia del nocumento derivante al creditore in conseguenza dell’inadempimento della prestazione. Naturalmente in forza di una valutazione prognostica. In altri termini, ove il pregiudizio sia quantificabile prima che si verifichi l’inadempimento in base a dati certi, potrà farsi riferimento a detti elementi; altrimenti, esso dovrà essere ricostruito in misura approssimativa. In tale ultima evenienza, la ponderazione sarà duplice, una sull’an del danno, l’altra sul quantum. Nondimeno, si evidenzia che la selezione tra i parametri rilevanti per la liquidazione della misura del danno quantificato o prevedibile si pone in contrasto con la funzione perseguita dall’irrogazione della misura,

che non è risarcitoria bensì meramente sollecitatoria. Tuttavia, il richiamo a tale parametro avrebbe comunque una specifica funzione: evitare un ingiustificato arricchimento del creditore che conseguirebbe all’incameramento di una somma di denaro superiore al pregiudizio subito. Resta da chiedersi se l’ammontare di detto nocumento rappresenti, in sede di quantificazione, un limite o tetto massimo (LUISO, op. cit., 9) ovvero un semplice criterio orientativo, nulla impedendo che in concreto la liquidazione possa superare tale limite (BOVE, op. cit., 7 e ss.).

Infine, la norma lascia ampi margini valutativi, consentendo il ricorso ad ogni altra circostanza utile. Per l’effetto, potrebbero trovare applicazione in via analogica i criteri contemplati dall’art. 140, settimo comma, del c.d. codice del consumo di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, il quale stabilisce, in caso di inadempimento, il pagamento di una somma di denaro da 516 euro a 1.032 euro per ogni inadempimento ovvero per ogni giorno di ritardo, rapportati alla gravità del fatto, seppure solo potenziale o ipotetica, insita nell’inadempimento degli obblighi prefigurati. Ancora, in forza di tale clausola di chiusura, nella relativa quantificazione potrebbero assumere pregio anche eventuali elementi soggettivi, quali le condizioni personali delle parti e, in particolare, potrebbe aversi riguardo alla capacità patrimoniale dell’inadempiente, purché ancorata alla natura della prestazione. Non può invece farsi riferimento al grado di colpa (ovvero al dolo) del debitore, poiché la misura viene prevista normalmente in via preventiva rispetto alla violazione dell’obbligo.

In ultimo, la pronuncia può prevedere criteri di adeguamento automatico della sanzione pecuniaria dovuta agli indici Istat nonché degli specifici moltiplicatori per ogni violazione successiva alla prima.

In ogni caso, il giudice deve dare conto in motivazione dei criteri seguiti per la quantificazione. Ed, inoltre, deve fare leva, anche al fine della determinazione, non già sulla funzione riparatoria della pena privata, bensì sulla sua natura di coercizione affinché la prestazione venga effettuata. Pertanto, appare plausibile che nella determinazione del suo ammontare vengano presi contestualmente in considerazione plurimi elementi: il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o prevedibile ed ogni altra circostanza utile.

Non meno lacunosi appaiono i riferimenti ai termini temporali di irrogazione della misura. La norma, infatti, non precisa se la misura debba essere applicata una tantum ovvero per ogni intervallo

temporale di ritardo (per ogni giorno o per ogni mese). Genericamente, l’art. 614 bis c.p.c. si riferisce alla fissazione della somma dovuta per ogni violazione o inosservanza ovvero per ogni ritardo. Attesa la natura prevalentemente (ma non necessariamente) istantanea degli obblighi infungibili di fare, il relativo inadempimento durerà sino a quando il compulsato non realizzi la condotta prescritta oggetto dell’obbligo. Quanto agli obblighi di non fare, connotati da un contenuto tendenzialmente permanente, il loro inadempimento si manifesta nel momento in cui l’obbligato ponga in essere (uno acto) una condotta violativa del dovere di astensione cui è tenuto.

Ora, l’obbligo di non fare è per definizione a carattere continuativo, con la conseguenza che l’ordine inibitorio ha una duplice valenza: una rivolta al passato (in positivo), che si concretizza nel dovere di eliminazione o distruzione di quanto è stato realizzato in violazione dell’obbligo di non fare, e una rivolta al futuro (in negativo), che si manifesta nel dovere di astenersi dal fare inibito. Detto secondo ordine di cessazione è concretamente attuabile solo mediante l’irrogazione di misure coercitive indirette e particolari. Tale duplice valenza è contemplata da istituti espressamente regolati dal legislatore: l’azione di negatoria servitutis ex art. 949 c.c., l’azione volta ad inibire le immissioni intollerabili ex art. 844 c.c., l’adozione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari ex art. 342 bis c.c., l’azione diretta ad inibire la continuazione degli atti di concorrenza sleale ex art. 2599 c.c., l’azione volta ad ottenere la cessazione dell’uso indebito del nome ex art. 7 c.c., l’azione diretta ad inibire l’abuso dell’immagine altrui ex art. 10 c.c..

In base a tale distinzione, appare più confacente stabilire una misura coercitiva per ogni prefissato intervallo temporale di ritardo in caso di inadempimento di obblighi infungibili di fare (che postulano un’attività positiva, modificatrice del mondo esterno) ed una misura fissa nel caso di inadempimento di obblighi di non fare (che esigono un contegno negativo di astensione). Ma anche in questo campo, nessuna prescrizione è desumibile dal testo della legge, con l’effetto che si tratta di operazioni ermeneutiche rimesse al filtro del principio di ragionevolezza e, comunque, prive di valore cogente.

Quando il legislatore usa l’espressione “ogni” violazione o inosservanza non necessariamente si riferisce a più violazioni del medesimo obbligo (obblighi di non fare) ma ben può riferirsi alla persistente violazione dell’obbligo (obblighi infungibili di fare). All’uopo, è plausibile che con il termine “violazione” abbia inteso riferirsi agli

obblighi di fare e con il termine “inosservanza” agli obblighi di non fare.

Cosicché (LUISO, op. cit., 237), nel caso di violazione degli obblighi infungibili di facere, la misura può essere prevista per ogni frazione di ritardo (si pensi al confezionamento di un abito a cura di un famoso sarto). Nel caso, invece, di inosservanza di un obbligo di non facere, la sanzione può essere irrogata per ogni episodio di violazione dell’obbligo di astensione (si pensi all’obbligo di non suonare a tutela del vicino di casa dalle ore 23:00 alle ore 8:00, in cui è plausibile che la sanzione sia disposta per ogni fatto di inottemperanza all’ordine).

Ad ogni modo, non vi è alcun vincolo prefissato sulla determinazione temporale, con l’effetto che il giudice, alla stregua delle emergenze del caso concreto, sempre con ponderazione preventiva (collegata alla natura dell’obbligo oggetto della condanna principale), può comminare la misura una tantum oppure per ogni periodo di inadempimento.

La quantificazione della misura spetta pur sempre al giudice della cognizione al quale è richiesta la relativa irrogazione. Nessun potere può invece essere attribuito al giudice dell’esecuzione, il quale – qualora sia adito in sede di opposizione all’esecuzione – non può in ogni caso sindacare il calcolo della somma dovuta operato dal giudice della cognizione. Piuttosto, tale aspetto potrà essere contestato esclusivamente attraverso l’impugnazione della pronuncia. ■ 10. Le misure coercitive possono essere applicate in caso di inesatto adempimento o di ritardo? Il problema si pone quando il debitore tenuto all’adempimento esegua la prestazione oggetto dell’obbligo infungibile di fare ma tale prestazione non sia esattamente conforme all’obbligo assunto. In linea di massima, la previsione in ordine al pagamento di una somma di denaro già con il provvedimento di condanna è funzionale a garantire l’an e non il quomodo. Nondimeno, nulla esclude che il provvedimento di condanna, su specifica richiesta della parte, fissi una somma di denaro anche per il caso di inesatto adempimento della prestazione dovuta, naturalmente in misura ridotta rispetto all’ipotesi prefigurata per l’inadempimento totale.

In questo senso assume pregnanza la distinzione operata dalla norma tra violazione (totale inadempimento), inosservanza (inesatto adempimento) e ritardo (tardivo adempimento). Ma secondo altro orientamento la violazione si riferirebbe agli obblighi di fare infungibile mentre l’inosservanza riguarderebbe gli obblighi di non fare.

Per converso, quando nulla disponga

espressamente in proposito la pronuncia condannatoria, la misura non potrà essere pretesa.

Sempre che non si ritenga che il giudice dell’esecuzione, in sede di opposizione all’esecuzione, possa ridurre la quantificazione della misura operata dal giudice della cognizione, in proporzione all’entità dell’adempimento correttamente avvenuto. Ma tale soluzione implica un’irragionevole equiparazione, non prevista dal titolo che irroga la misura, tra inadempimento ed inesatto adempimento. Né il giudice dell’esecuzione avrebbe una simile competenza creativa di quantificazione ad hoc della misura.

In base ad una terza soluzione, la riconduzione normativa dell’inesatto adempimento alla generale categoria dell’inadempimento, anche sul piano del regime probatorio vigente (vedi distribuzione dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c.), giustificherebbe l’applicazione della misura tout court anche per l’ipotesi di inesatto adempimento.

Naturalmente, l’inesatto adempimento, rilevante ai fini della pretesa di pagamento della somma di denaro all’uopo espressamente prevista, dovrà essere valutato in relazione alle modalità di adempimento dell’obbligo contemplate in sede di condanna ovvero ricavabili da essa in termini univoci.

Né l’ostacolo alla previsione della sanzione pecuniaria per l’inesatto adempimento può essere ravvisato nella circostanza che detta inesattezza esige una verifica. Infatti, allo stesso modo, deve essere verificato l’inadempimento dedotto dal creditore, quando ad esso si opponga l’eccezione di adempimento a cura del debitore. Ma sui modi attraverso cui tale contestazione può essere fatta valere si dirà più avanti. Piuttosto, il creditore dovrà allegare l’inadempimento o l’inesatto adempimento, quando rilevante, per attivare il titolo di condanna al pagamento della misura coercitiva e determinare all’esito la sanzione pecuniaria spettante. Sarà successivamente onere del debitore dimostrare, con gli specifici strumenti che la legge appresta, che i presupposti per azionare detto titolo non esistevano.

Per converso, la norma prevede espressamente che la sanzione pecuniaria possa essere irrogata per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Pertanto, in questa evenienza, affinché la misura possa operare è necessario che il relativo titolo stabilisca espressamente, anche in via subordinata all’inadempimento tout court, una somma di denaro per il caso di ritardo. Tale evenienza si adatta precipuamente alle obbligazioni di facere. E’ difficile invece configurare un’ipotesi di ritardo per le obbligazioni di non facere.

La questione si sposta all’aspetto relativo alla

quantificazione della misura per detto ritardo. Nulla quaestio quando espressamente il provvedimento che dispone la sanzione stabilisca che per ogni determinato intervallo di tempo di ritardo nell’attuazione della prestazione infungibile sia dovuta una prefissata somma di denaro. Quando invece la pronuncia stabilisca una certa somma di denaro per il ritardo, senza specificare i limiti temporali della sua evoluzione, necessariamente dovrà farsi ricorso a criteri integrativi. In specie, in sede di quantificazione della sanzione rimessa al creditore nell’atto di precetto, dovrà farsi riferimento al ritardo ragionevole in relazione al tipo e alla natura della prestazione dovuta. La quantificazione effettuata sul punto dal creditore potrà essere contestata, proprio alla stregua del canone della ragionevolezza, in sede di opposizione all’esecuzione. ■ 11. Quali accertamenti sono demandati al giudice prima di applicare le misure coercitive? Come anticipato, la misura non è fissata d’ufficio ogni volta che la condanna abbia come contenuto un ordine di fare infungibile o un ordine di non fare ma solo su istanza di parte. Solo all’esito di detta istanza, il giudice è tenuto a verificare la natura infungibile dell’obbligo. Per cui viene ribadita l’idea che, se vi è una normale correlazione tra condanna ed esecuzione forzata ovvero con i mezzi di esecuzione indiretta, tuttavia si può avere una sentenza di condanna senza la possibilità di successiva esecuzione, diretta o indiretta.

Piuttosto, in tale evenienza, si pone un problema di coordinamento tra esecuzione forzata diretta e misura coercitiva. Il giudice, per concedere questa, deve preliminarmente valutare “la natura della prestazione”, vale a dire la fungibilità dell’obbligo in contestazione, perché è evidente che, se detta infungibilità non sussiste, la richiesta di cui all’art. 614 bis deve essere respinta, potendosi in questo caso procedere ad esecuzione forzata, ai sensi degli articoli 612 e ss. c.p.c..

Pertanto, il giudice – all’esito della formulazione della richiesta – dovrà verificare se la condanna principale riguardi o meno obblighi di fare eseguibili intuitu personae (si richiamano qui, a titolo meramente esemplificativo, i casi classici della prestazione del sarto di fama in ordine al confezionamento di un abito particolare ovvero del noto cantante che si era impegnato a tenere un concerto) ovvero obblighi di non fare e, solo quando tale verifica dia esito positivo, può prevedere la sanzione.

Ma cosa accade se il giudice sbaglia? Ed, inoltre, la concessione della misura coercitiva rende senz’altro impraticabile la via dell’esecuzione forzata per obblighi di fare e non fare?

Secondo un primo orientamento, che opta per la mera natura interna e accessoria della verifica della fungibilità su cui si fonda la decisione di irrogare le misure indirette, il giudice della cognizione non può condizionare in ogni caso il giudice dell’esecuzione.

Nell’ipotesi in cui il primo non conceda la richiesta misura coercitiva, sul presupposto di avere a che fare con una prestazione fungibile, non per questo è detto che certamente sarà possibile utilizzare lo strumento concesso dall’art. 612 c.p.c.. E ciò nel senso che il giudice dell’esecuzione successivamente adito può comunque disattendere la richiesta di intervento surrogatorio ai fini dell’esecuzione forzata di un obbligo di fare, quando ritenga che l’obbligo sia infungibile, senza che la pregressa qualificazione operata dal giudice della cognizione possa in alcun modo condizionarlo.

Se, al contrario, venga concessa la misura coercitiva, sul presupposto dell’infungibilità della prestazione, non è escluso che l’interessato possa rivolgersi con successo al giudice dell’esecuzione, sempre ai sensi del citato art. 612 c.p.c., anche dopo l’accoglimento della richiesta di irrogazione di dette misure (BOVE, op. cit., 5 e ss.), senza che il giudice dell’esecuzione sia vincolato dalla qualificazione positiva effettuata dal giudice della cognizione. Pertanto, prevarrebbe la reale natura dell’obbligo sulla qualificazione operata dal giudice della cognizione.

Il divisamento che invece ritiene che il capo condannatorio che prevede l’irrogazione delle misure indirette sia idoneo a passare in giudicato conclude per l’inammissibilità di qualsiasi sindacato a cura del giudice dell’esecuzione, che sarà vincolato dalla pronuncia che ha qualificato l’obbligo infungibile ovvero fungibile.

Pertanto, quando il giudice neghi l’applicazione della misura, alla stregua della natura fungibile della prestazione, il giudice dell’esecuzione successivamente adito non potrà qualificare l’obbligo come infungibile, poiché il pregresso accertamento compiuto dal giudice della cognizione gli è opponibile e lo vincola.

E così, quando la misura sia concessa dal giudice della cognizione, il giudice dell’esecuzione successivamente adito dovrà disattendere la richiesta di attivazione del procedimento di esecuzione forzata, fondata sull’assunto che l’obbligo sia fungibile, in quanto anche in questo caso la pronuncia che ha accertato la natura infungibile della prestazione e ha inflitto la conseguente misura fa stato nel processo esecutivo.

Un correttivo di tale prospettazione, secondo cui il capo che dispone l’applicazione delle misure (ovvero le disattende) è potenzialmente idoneo a passare in cosa giudicata, si riscontra nella tesi in

forza della quale la sentenza che accolga l’istanza di irrogazione della sanzione, sul presupposto dell’infungibilità della prestazione, vincola il giudice dell’esecuzione mentre la sentenza che rigetti detta istanza (che non produce effetti nel mondo esterno), in base alla qualificazione della fungibilità della prestazione, non è idonea a vincolare il giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’art. 612 c.p.c. (CHIZZINI, op. cit., 180).

In base ad altra ricostruzione sistematica, di contro, la sentenza che decide sulla richiesta di applicazione della misura sollecitatoria, sia di accoglimento che di rigetto, in quanto basata su una questione pregiudiziale ex art. 34 c.p.c. (accertamento incidentale della fungibilità – infungibilità della prestazione che, pur potendo costituire oggetto autonomo di una decisione, si inserisce come passaggio obbligato nell’iter logico-giuridico che conduce alla decisione sulla richiesta di irrogazione delle misure), non sarebbe idonea a fare stato ex art. 2909 c.c. su detto accertamento incidenter tantum (in mancanza di espressa domanda della parte interessata) e ciò perché la qualificazione giuridica della natura della prestazione non rientrerebbe nell’oggetto del petitum immediato, rappresentato in via esclusiva dall’irrogazione della misura coercitiva. Pertanto, il giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’art. 612 c.p.c. dopo tale pronuncia, ben può ritenere che l’obbligo sia fungibile o infungibile, andando di contrario avviso rispetto alla verifica incidentale del giudice della cognizione, e dunque, quando il giudice abbia disatteso l’applicazione delle misure, ben può ritenere non suscettibile di esecuzione forzata diretta l’obbligo di fare portato alla sua attenzione, alla stregua della ritenuta infungibilità della prestazione.

Nondimeno, l’orientamento non convince poiché appare più persuasivo ritenere che l’accertamento della natura fungibile o infungibile della prestazione non costituisce una questione pregiudiziale ma, in ragione del petitum immediato e della causa petendi della richiesta di irrogazione delle misure indirette, rientri appieno nell’ambito della verifica principale rimessa al giudice della cognizione. In ordine a tale aspetto si annida un equivoco di fondo: ogni condanna presuppone per definizione un accertamento. Ma l’accertamento intrinseco ed immediato connesso all’oggetto della domanda di condanna non può essere confuso con un accertamento ad esso pregiudiziale ed incidentale. Richiedere l’applicazione delle misure coercitive indirette postula, quale verifica fisiologica immediatamente attinente alla fattispecie, l’integrazione di una prestazione infungibile, quale condizione esplicativa della richiesta di applicazione. Ora, l’accertamento della natura della prestazione

demandato al giudice della cognizione, cui sia richiesta l’applicazione delle misure, costituisce l’oggetto primario della verifica cui è tenuto il giudice e ricade nel petitum immediato della pretesa azionata. Per l’effetto, il passaggio in giudicato sostanziale è destinato a formarsi anche sulla qualificazione giuridica della prestazione, che come tale vincola il giudice dell’esecuzione successivamente adito.

Ne discende che, qualora la qualificazione giuridica contemplata dal giudice della cognizione nella decisione avente ad oggetto la irrogazione – non irrogazione delle misure sia reputata errata, i rimedi adottabili non sono rappresentati dall’instaurazione di un procedimento esecutivo per obblighi di fare fondato sulla diversa qualificazione dell’obbligo bensì dal pronto e tempestivo esperimento dei mezzi di impugnazione.

Quando la misura richiesta non sia accordata, nonostante ne ricorressero i presupposti, sul punto la pronuncia potrà essere oggetto di gravame. Oppure potrà essere attivato il procedimento di esecuzione forzata per obblighi di fare fungibili, senza che in sede di opposizione la prestazione possa essere classificata infungibile. Nel caso esattamente inverso, in cui la misura sia accordata nonostante la fungibilità della prestazione, il relativo capo potrà essere impugnato a cura del debitore. In quest’ultima evenienza, in difetto della riforma di detto capo, è comunque precluso al creditore di attivare il procedimento di esecuzione forzata per obblighi di fare o non fare fungibili.

Piuttosto, il problema si pone per gli obblighi di non fare. Rispetto a tale tipologia di obblighi, almeno in astratto, possono concorrere due strumenti processuali: la richiesta di irrogazione delle sanzioni pecuniarie ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. e l’esecuzione forzata diretta per obblighi di non fare ai sensi dell’art. 612 c.p.c.. Infatti, in questo caso, il legislatore non opera alcuna ulteriore selezione con il riferimento contenuto nella rubrica della disposizione e, d’altro canto, nonostante l’infungibilità intrinseca dell’obbligo di non fare, dipendente dalla circostanza che un terzo non può astenersi per definizione in surrogazione del debitore, il creditore può chiedere al giudice dell’esecuzione di eliminare l’opera realizzata dal debitore in violazione del corrispondente obbligo di astensione. Cioè può domandare che l’ufficio attivi un’azione uguale e contraria volta ad annullare gli effetti scaturiti dalla violazione di detto obbligo.

Tale compatibilità astratta tuttavia opera per i soli obblighi di non fare il cui inadempimento consenta il compimento di un’attività ripristinatoria (si pensi alla violazione di un obbligo di non costruire una determinata opera che consente di provvedere alla

distruzione dell’opera eseguita in difformità dell’obbligo di astensione). Invece, vi sono obblighi di non fare il cui inadempimento non è in sé suscettibile di recupero attraverso il compimento di un’azione contraria poiché detta violazione non si manifesta nel compimento di un’opera materiale eliminabile in fatto (si pensi all’inosservanza dell’obbligo di non disturbare il vicino attraverso schiamazzi, la cui integrazione non consente alcuna attività di neutralizzazione ma di sola inibizione per l’avvenire). In conseguenza di tale distinzione tra obblighi di non fare surrogabili e non surrogabili, si è ritenuto che lo strumento processuale dell’art. 614 bis c.p.c. sia utilizzabile per le sole obbligazioni del primo tipo.

Viceversa, altra opinione reputa che tale discriminazione non sia autorizzata dall’ordinamento giuridico, poiché si tratta pur sempre di obblighi infungibili, con l’effetto che anche nelle ipotesi in cui la violazione dell’obbligo di non fare consenta un’attività ripristinatoria i due strumenti processuali sono in astratto utilizzabili. Detta convergenza però opera solo in astratto, poiché i due strumenti processuali evocati sono tra loro alternativi e mai cumulabili. Se così non fosse il creditore otterrebbe un ingiustificato arricchimento. Pertanto, sarà rimessa alla decisione insindacabile del creditore di optare in concreto per uno degli strumenti di protezione che il legislatore appresta nel caso di inadempimento degli obblighi di non fare.

Resta da chiedersi se, una volta che nel giudizio di cognizione il creditore abbia domandato, contestualmente alla condanna al rispetto di un obbligo di non fare, anche l’applicazione della sanzione compulsoria, e all’esito entrambe le condanne siano state accordate, il creditore medesimo, verificato l’inadempimento del debitore al sancito obbligo di non fare, possa ancora avvalersi dello strumento processuale dell’art. 612 c.p.c., rinunciando ad attivare il titolo esecutivo avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro ottenuta a titolo di sanzione. Ebbene, appare conforme a generali criteri di giustizia consentire al creditore di effettuare la scelta tra i due strumenti che il legislatore appresta, non a monte nella fase di cognizione, ma a valle nella fase esecutiva. Pertanto, qualora il creditore ritenga preferibile ottenere l’eliminazione dell’opera eseguita in violazione dell’obbligo di non fare, può rinunciare al titolo esecutivo concesso che prevede la condanna al pagamento di una somma di denaro. ■ 12. Le misure coercitive possono essere concesse a supporto di mere pronunce di accertamento? Come è connaturale alla ratio delle

misure coercitive, deve ricorrere una pronuncia giudiziale di condanna, avente ad oggetto l’adempimento di obblighi infungibili di fare ovvero di obblighi di non fare. Per un verso, la fonte della condanna deve essere essenzialmente di provenienza giudiziale e, per altro verso, la condanna deve avere ad oggetto l’adempimento di obblighi infungibili di fare ovvero di obblighi di non fare. D’altronde, il creditore deve mantenere l’interesse a richiedere l’adempimento della prestazione e per questo deve agire in giudizio.

Qualora, per contro, la fonte dell’obbligo sia negoziale ed il creditore, preso atto dell’inadempimento del debitore, non proponga domanda giudiziale diretta ad ottenere la soddisfazione della pretesa di adempimento (rectius la condanna), non potrà chiaramente agire in giudizio per richiedere, a conforto di una mera pronuncia di accertamento dell’inadempimento, l’irrogazione della sanzione pecuniaria. Tanto perché lo scopo della misura è appunto quello di compulsare il debitore nella prospettiva di rendere possibile l’adempimento, non già di risarcire il creditore medesimo del pregiudizio subito per effetto di tale inadempimento.

Ne deriva che, quando il creditore, sulla scorta dell’inadempimento del debitore, intenda ripristinare la sua sfera patrimoniale definitivamente lesa, senza esigere la condanna all’adempimento (per difetto di interesse ovvero per sopravvenuta impossibilità), dovrà richiedere il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, non già le misure coercitive indirette agevolatrici dell’esecuzione.

Diverso è il caso in cui la condanna giudiziale all’adempimento della prestazione principale, cui è accessoria la condanna al pagamento della misura coercitiva, sia consequenziale ad una declaratoria pregiudiziale di accertamento o costitutiva. In questa evenienza, la condanna principale consequenziale diventa esecutiva non immediatamente ma all’esito del passaggio in giudicato della pronuncia pregiudiziale (Cass. civ., Sez. Un., 22 febbraio 2010, n. 4059; contra Cass. civ., Sez. II, 26 marzo 2009, n. 7369), con l’effetto che la misura indiretta può essere comunque concessa ma la sua potenziale efficacia è destinata ad operare solo dopo che la condanna all’attuazione della prestazione infungibile diventi esecutiva.

Ad ogni modo, la misura non può essere concessa a titolo rafforzativo di una pronuncia diretta ad ottenere l’adempimento specifico ovvero volta a raggiungere lo scioglimento del rapporto.

Così la pronuncia di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto ex art. 2932 c.c. non può essere accompagnata dall’applicazione di una misura sanzionatoria.

Infatti, con tale domanda il creditore mira a raggiungere gli stessi effetti del contratto non concluso, la cui produzione è ampiamente satisfattiva, cioè surrogatoria della violazione dell’obbligo ricadente sul conduttore. Con la relativa sentenza l’avente diritto ottiene lo stesso effetto che sarebbe derivato dall’adempimento del debitore, per cui questi non può chiedere null’altro. In specie, non può essere domandata la sollecitazione di un effetto che, in conseguenza dell’inadempimento della parte tenuta, è rimesso all’esclusivo intervento sostitutivo del giudice. In aggiunta, si evidenzia che tale pronuncia non è provvedimento idoneo all’irrogazione della sanzione compulsoria, atteso che la pronuncia di esecuzione specifica ha natura costitutiva e non di condanna.

Le misure coercitive indirette sono altresì incompatibili, sul piano concettuale e funzionale, anche con la domanda di risoluzione del contratto proposta in via principale. La risoluzione mira ad ottenere lo scioglimento del rapporto, in conseguenza della violazione dell’obbligo cui era tenuto il debitore, con l’effetto che non ha senso che essa sia accompagnata da una contestuale istanza sanzionatoria volta a sollecitare l’adempimento. Invece, la richiesta della misura è compatibile quale accessorio della domanda giudiziale di adempimento dell’obbligo di fare infungibile o non fare, benché in via subordinata sia spiegata domanda di risoluzione. Qualora la principale sia reietta l’accessorio non può riguardare la subordinata di risoluzione. E così, quando sia proposta domanda di adempimento, con relativa istanza di irrogazione della sanzione, con accoglimento delle condanne a cura della sentenza conclusiva, la domanda successiva di risoluzione, attraverso l’instaurazione di autonomo giudizio, determina la cessazione automatica della sanzione irrogata. ■ 13. La misura può essere richiesta a supporto dell’adempimento di obbligazioni pecuniarie fungibili? La disposizione di cui al primo comma dell’art. 614 bis c.p.c. non riprende il contenuto della rubrica. Segnatamente, la rubrica è intitolata agli obblighi di fare infungibile o di non fare mentre il testo del primo comma dell’articolo si riferisce genericamente al provvedimento di condanna, senza indicarne l’oggetto.

In conseguenza, partendo dall’assunto secondo cui rubrica non est lex, si è posto il problema di stabilire se la norma possa trovare applicazione anche per i provvedimenti di condanna al pagamento di somme di denaro (obblighi pecuniari, per definizione fungibili) ovvero alla consegna o al rilascio di mobili o immobili.

Simile conclusione avrebbe il seguente precipitato: la norma perseguirebbe al contempo una funzione rafforzativa dell’adempimento di detti obblighi e surrogatoria del ricorso al procedimento di esecuzione forzata diretta.

Tuttavia, tale estensione non è suffragata né da criteri di interpretazione letterale né da criteri di interpretazione logica della norma.

Nel caso in esame l’oggetto della rubrica è implicitamente richiamato dalla previsione della norma che, quando allude al provvedimento di condanna, in mancanza di una specificazione del suo contenuto, non può che fare riferimento agli obblighi di fare infungibile o di non fare espressamente richiamati dal titolo dell’articolo. Pertanto, l’oggetto del provvedimento di condanna è individuato per relationem dalla rubrica.

La delimitazione del campo di applicazione delle misure coercitive compulsorie alla sola categoria degli obblighi di fare infungibile o di non fare è confortata anche da una lettura logica e sistematica della norma. L’articolo è introdotto a conclusione del titolo dedicato all’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare. Inoltre, la ratio dell’intervento del legislatore è quella di apprestare un rimedio, in applicazione del principio costituzionale di effettività del diritto di difesa, per i casi in cui non è azionabile l’esecuzione forzata diretta. Presupposto su cui la struttura della norma si impernia è dunque la natura infungibile dell’obbligo di fare o non fare. Non è invece intento specifico perseguito dal legislatore quello di individuare delle forme di coazione alternative al ricorso all’esecuzione forzata diretta, anche quando quest’ultima sia concretamente esperibile.

Diversamente, la collocazione sistematica della norma non avrebbe alcun senso.

Tutto ciò è ricavabile dal tenore della relazione che correda i lavori preparatori della legge 18 giugno 2009, n. 69.

Peraltro, qualora il legislatore avesse voluto ipoteticamente concedere un’alternativa all’esecuzione forzata diretta, posta la chiara incompatibilità del cumulo tra irrogazione delle misure indirette e instaurazione del processo esecutivo, sarebbe stato ben più coerente rimettere la relativa scelta ad un momento successivo alla conclusione del processo di cognizione. Solo dopo la pronuncia di condanna, in teoria, avrebbe avuto un senso per il creditore prediligere lo strumento delle misure coercitive indirette anziché quello dell’esecuzione forzata diretta, in caso di mancata spontanea esecuzione delle prestazioni pecuniarie dovute. Del resto, in questo senso sarebbe stato più congruente che la competenza sulla richiesta di

applicazione delle misure indirette fosse stata rimessa al giudice dell’esecuzione e non già al giudice della cognizione.

Proprio la finalità che il legislatore si prefigge attraverso la previsione delle misure coercitive indirette esclude che la norma possa trovare applicazione analogica per i provvedimenti di condanna aventi ad oggetto obblighi pecuniari.

Viceversa, alcuni esponenti della dottrina esprimono dubbi in ordine all’applicazione della norma, estensiva o analogica, dedicata alle misure coercitive indirette anche alle prestazioni fungibili (CHIZZINI, op. cit., 141; GAMBINERI, op. cit., 320). Ma simile conclusione deve essere decisamente avversata per due ordini di motivi: a. la collocazione sistematica dell’art. 614 bis c.p.c., successivamente alla disciplina dell’esecuzione forzata di obblighi di fare o non fare ex artt. 612 e seguenti c.p.c., lascia intendere che il primo gruppo di norme concerne le prestazioni fungibili mentre la norma di nuovo conio riguarda le sole prestazioni infungibili; b. la disciplina introdotta dal legislatore del 2009 inserisce nell’ordinamento civile l’istituto delle pene private, la cui regolamentazione è per definizione di stretta interpretazione ex art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile e non ammette l’applicazione analogica. D’altronde, ragionando diversamente, gli strumenti processuali dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare o non fare e delle misure coercitive indirette non sarebbero tra loro in rapporto di alternatività, in ragione della natura della prestazione. Piuttosto, l’introduzione dell’art. 614 bis c.p.c. implicherebbe l’abrogazione tacita delle norme dedicate all’esecuzione forzata degli obblighi di fare o non fare (BOVE, op. cit., 7 e ss.).

Tuttavia, il discorso assume una chiara rilevanza pratica per alcune specie di obbligazioni: obbligazioni in cui non è facile delineare una netta linea di confine tra fungibilità e infungibilità; obbligazioni infungibili con sottoprestazioni fungibili; obbligazioni non del tutto infungibili di complessa attuazione.

In questi casi, è dubbia la stessa qualificazione delle prestazioni come infungibili. Infatti, la fungibilità sfuma in modo direttamente proporzionale alla complessità della prestazione, con la conseguenza che le difficoltà di attuare la prestazione o talvolta l’impossibilità di configurare alcuna operazione riparatoria suscettibile di valutazione economica consiglierebbero l’applicazione dell’art. 614 bis c.p.c.. Ma non si tratterebbe comunque di applicazione estensiva bensì di applicazione diretta, guidata dalla prevalenza degli aspetti dell’infungibilità su quelli della fungibilità.

■ 14. Può essere richiesta a supporto dell’adempimento di obblighi di consegna o rilascio? L’interpretazione complessiva della norma nel senso dell’esclusiva pertinenza delle misure compulsorie agli obblighi di fare infungibile o di non fare, in guisa dell’impossibilità di un ricorso all’esecuzione forzata diretta, esclude che essa possa trovare applicazione per gli obblighi di consegna o rilascio. E ciò in controtendenza all’originario progetto Tarzia, il quale espressamente prevedeva l’applicazione delle misure anche a supporto dell’adempimento degli obblighi di consegna-rilascio, tranne che per le locazioni ad uso abitativo (in guisa dell’esigenza di tutelare un diritto fondamentale e non comprimibile del conduttore, quello ad avere un alloggio in cui abitare).

Per un verso, la rubrica della disposizione, implicitamente evocata dal testo della norma, contempla i soli obblighi di fare infungibile o di non fare; per altro verso, gli obblighi di consegna o rilascio, benché abbiano per oggetto un bene infungibile, consentono il ricorso al giudice dell’esecuzione. All’esito dell’esecuzione forzata, il creditore otterrà lo stesso bene oggetto della condanna alla consegna o al rilascio. Per cui le misure indirette non costituiscono un rimedio necessario per ottenere una tutela effettiva, nell’ipotesi di mancata spontanea esecuzione a cura del soggetto tenuto.

Piuttosto, la questione potrebbe porsi quando in concreto l’esecuzione forzata per consegna o rilascio non dia esito (si pensi a beni mobili deperibili o irreperibili).

Il caso che è stato elaborato dalla dottrina a titolo esemplificativo è quello relativo all’obbligo di consegna di uno specifico documento. L’impossibilità di rintracciarlo e comunque la facile possibilità di trafugarlo potrebbero essere posti a fondamento dell’applicazione della misura compulsoria già in fase di disposizione della condanna alla consegna.

Ma anche qualora dovesse verificarsi una simile ipotesi, lo strumento più adatto per rimediare all’inconveniente che potrebbe verificarsi nella fattispecie non è quello del ricorso alle misure coercitive indirette, che tra l’altro perseguirebbero una funzione impropria (non rafforzativa dell’esatta esecuzione ma surrogatoria), bensì quello dell’azione risarcitoria. Tra l’altro, ciò dovrebbe pur sempre presupporre che l’esecuzione forzata sia precedentemente attivata e che non abbia prodotto il risultato sperato. E ciò perché l’esito negativo dell’esecuzione forzata diretta non può essere previsto già nel procedimento di cognizione. Solo all’esito può essere instaurata un’azione ordinaria

per ottenere il risarcimento dei danni patiti. ■ 15. Le misure coercitive sono compatibili o cumulabili con il risarcimento dei danni? Si rammenta che la penale non può essere considerata come un provvedimento acceleratorio del danno. Essa si differenzia sensibilmente dall’istituto del risarcimento dei danni poiché non mira a restaurare un diritto leso, bensì a disincentivare la futura lesione del bene giuridico de quo. Tra le altre cose, a conferma di detta eterogeneità di funzioni, la misura di coercizione non è soggetta al principio di ordine pubblico economico della necessaria redibitorietà del risarcimento, per cui l’ammontare liquidato non potrebbe essere superiore – e ovviamente nemmeno inferiore – al pregiudizio effettivamente patito dal soggetto che invoca la tutela. Di contro, la quantificazione della penale non è commisurata all’entità del danno patito in conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo infungibile di fare, anche perché - al momento della sua liquidazione - non è ancora determinato il nocumento che eventualmente conseguirà dall’inadempimento dell’obbligo oggetto della condanna principale.

Per l’effetto, l’applicazione e la successiva pretesa della misura non escludono la compatibilità con il risarcimento dei danni che sono conseguiti all’inosservanza del capo che ha disposto la condanna ad un obbligo infungibile. Pertanto, il risarcimento dei danni potrà essere richiesto anche quando vi siano i presupposti per la previsione delle misure coercitive. E tanto sia nell’ipotesi in cui, nonostante la soddisfazione, seppure tardiva, della pretesa avente ad oggetto l’adempimento dei riferiti obblighi nonché il pagamento delle somme addebitate a titolo di sanzione pecuniaria per il ritardo, residui un nocumento ulteriore conseguente al detto ritardo, di cui il danneggiato intende ottenere la reintegrazione. Sia nell’ipotesi in cui, nonostante l’applicazione delle misure coercitive, l’inadempimento del debitore persista.

Secondo altra tesi, il periodo coperto dall’applicazione delle misure sanzionatorie, attesa la loro efficacia potenzialmente satisfattiva, in guisa di una predeterminazione giudiziale del nocumento, escluderebbe il cumulo con la richiesta di ristoro dei danni. Tale reintegrazione potrebbe essere domandata solo nell’ipotesi in cui l’inadempimento divenga definitivo, cioè non più esigibile, in aggiunta alle misure coercitive.

Si noti che l’applicazione delle misure mira preventivamente a stimolare l’attuazione e successivamente a sanzionare la disubbidienza al comando, che recepisce il diritto leso, con l’effetto che - in linea di principio - non ricorre alcuna interferenza con la funzione di risarcimento.

Ne discende che, quando si ammetta la compatibilità tout court tra applicazione della misura e risarcimento dei danni, in sede di quantificazione dei nocumenti patititi, non dovrebbe affatto tenersi conto della somma ricevuta in ragione dell’applicazione della misura, attesa la riconduzione di detto versamento, non già ad uno scopo riparatorio, ma prettamente sanzionatorio. ■ 16. È possibile che il giudice non conceda le misure coercitive nonostante la ricorrenza dei presupposti? Sempre che vi sia l’istanza di parte, è pur possibile che il giudice non conceda (an) la misura coercitiva, ove ritenga che essa sarebbe manifestamente iniqua. Così la formula è ripresa nel testo finale della disposizione. Ma su cosa ciò possa significare è difficile formulare un’idea, un concetto dalle applicazioni prevedibili, per cui sembra proprio che tutto sarà lasciato all’arbitrio del giudice. Si tratta di una locuzione estremamente vaga. Salvo che non si emargini tale eventualità (rectius condizione della manifesta iniquità) ai soli casi in cui è già certo nel giudizio di cognizione che l’adempimento degli obblighi infungibili di fare e degli obblighi di non fare non sarà adempiuto oppure, all’esatto contrario, che sarà tempestivamente adempiuto. Il che chiaramente non può avvenire sulla base delle mere rassicurazioni provenienti dal debitore.

Di certo, la manifesta iniquità non può essere riferita all’entità (quantum) della sanzione, posto che essa non è determinata entro soglie prestabilite ma è rimessa alla libera determinazione del giudice. Va da sé che, secondo i principi, il giudice – in sede di apprezzamento e quantificazione della somma di denaro dovuta dall’obbligato – deve provvedere in modo tale da non assicurare alla parte adempiente una situazione addirittura più vantaggiosa rispetto a quella nella quale si sarebbe trovato in costanza di adempimento. Ma tale ponderazione non rientra chiaramente nella clausola di salvezza (volta, in radice, ad escludere l’irrogazione della misura) della manifesta iniquità (e non a calibrarne la quantificazione).

L’iniquità manifesta della misura può piuttosto risultare dalla valutazione ex ante di inidoneità a priori della condanna al pagamento di qualsiasi somma di denaro a compulsare il debitore, in guisa della natura della prestazione oggetto della condanna principale ovvero delle condizioni patrimoniali in cui versa l’obbligato.

Altra parte della dottrina (CHIZZINI, op. cit., 169; MANDRIOLI – CARRATTA, op. cit., 94) ravvisa la manifesta iniquità della misura quando, a fronte di un interesse meramente patrimoniale del creditore, si pone una prestazione di natura

strettamente personale del debitore, come tale non validamente coercibile attraverso il ricorso alle disposizioni sollecitatorie di natura esclusivamente pecuniaria.

Secondo altra soluzione, la manifesta iniquità sarebbe integrata ove sussistano altri rimedi di pari efficacia con realizzazione eventuale dell’interesse protetto ex post. Quando la soddisfazione dell’interesse sostanziale sia raggiungibile tramite altre vie, il ricorso alla misura coercitiva indiretta sarebbe dunque manifestamente iniquo.

In base ad altra interpretazione, la richiesta di applicazione della misura coercitiva sarebbe manifestamente iniqua quando sia afferente alla violazione di propri diritti personalissimi o addirittura coinvolga la lesione di prerogative di rango costituzionale o comunque laddove l’adempimento dell’obbligo implicherebbe una penalizzazione eccessiva per il debitore, sacrificando un suo interesse non patrimoniale.

Si tratta chiaramente di un concetto esplicativo della clausola di buona fede oggettiva, diretta ad impedire che attraverso l’osservanza formale della prescrizione si realizzi un abuso del diritto.

Ad ogni modo, anche la valutazione sulla manifesta iniquità, che induce il giudice a negare la concessione della misura, è sindacabile mediante proposizione degli ordinari mezzi di impugnazione. All’esito, è possibile che il giudice d’appello conceda quella misura coercitiva che magari non ha ritenuto di concedere il giudice di primo grado sotto tale profilo ovvero che il collegio in sede di reclamo conceda la misura non concessa dal giudice della cautela. La questione può emergere anche nel giudizio di cassazione, visto che, se gli errori processuali sono rilevanti per la cassazione della sentenza solo se essi attengono alle garanzia del giusto processo, qui è in gioco un profilo che attiene all’effettività della tutela di condanna, quindi - in buona sostanza - un profilo che garantisce l’attuazione dell’art. 24, primo comma, Cost.. (BOVE, op. cit., 5 e ss.). ■ 17. La norma ha efficacia retroattiva? L’art. 58, primo comma, della novella del 2009 statuisce espressamente, quale norma di diritto intertemporale, che le modifiche apportate al codice di procedura civile e alle norme di attuazione si applicano solo ai giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore della riforma. Anche in mancanza di un’espressa disposizione sul punto avrebbe trovato comunque applicazione il principio riassunto nel brocardo latino tempus regit actum. Solo un’esplicita previsione di segno contrario avrebbe potuto giustificarne l’applicazione ai giudizi in corso. Pertanto, la misura coercitiva potrà essere richiesta

solo per i giudizi aventi ad oggetto la domanda di condanna all’adempimento di obblighi infungibili di fare e di obblighi di non fare instaurati successivamente all’entrata in vigore della nuova legge.

Di contro, non potrà essere utilmente richiesta per i giudizi instaurati antecedentemente, benché aventi ad oggetto la condanna all’adempimento di obblighi infungibili di fare e di obblighi di non fare, nonostante detti giudizi non siano stati ancora conclusi con la relativa decisione.

Il problema si pone qualora si ritenga che la richiesta di irrogazione della sanzione pecuniaria possa essere avanzata in via autonoma e separata attraverso la proposizione di apposita domanda giudiziale. In questo caso, le domande autonome spiegate dopo il 3 luglio 2009 potrebbero essere fondate su un provvedimento di condanna all’attuazione di un obbligo infungibile emesso in precedenza ovvero su un procedimento pendente a tale data avente ad oggetto la medesima richiesta di condanna e definito successivamente all’entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69.

Attesa la natura accessoria della richiesta della misura rispetto alla pronuncia principale che dispone la condanna all’adempimento di un obbligo di fare infungibile o di non fare, la domanda di applicazione della misura medesima, quand’anche proposta in via separata, deve riguardare pur sempre obblighi infungibili la cui domanda di adempimento sia stata avanzata dopo l’entrata in vigore della nuova legge. Solo l’inadempimento degli obblighi maturati successivamente consentirebbe il rafforzamento della tutela giudiziale con l’istanza di irrogazione della misura coercitiva.

Altro divisamento, esaltando la funzione compulsoria della misura, reputa che la domanda possa essere proposta anche a sostegno di condanne emesse o di procedimenti instaurati in precedenza. ■ 18. Il capo della pronuncia che prevede le misure coercitive costituisce titolo esecutivo? Nell’ipotesi di continuato inadempimento, l’avente diritto potrà procedere per ottenere il pagamento della pena pecuniaria sulla base della sentenza o dell’altro provvedimento giudiziale di condanna, che è titolo esecutivo evidentemente anche per essa, come espressamente statuito dalla norma di riferimento (si veda la prima parte dell’art. 669 duodecies c.p.c. quanto alle misure cautelari che hanno ad oggetto il pagamento di una somma di denaro).

Basta che nel precetto il creditore affermi l’inadempimento dell’obbligo infungibile principale e quantifichi la sanzione pecuniaria dovuta.

Pensare, al contrario, che l’interessato debba instaurare nuovamente un processo per accertare la

ricorrenza dei presupposti per l’applicazione delle misure già previste in altra pronuncia (rectius accertamento della violazione dell’ordine del giudice) e per la conseguente condanna, per poter solo successivamente agire esecutivamente, significa sottrarre alla misura coercitiva ogni garanzia di effettività.

In conseguenza, l’inadempimento degli obblighi oggetto di condanna, quando siano previste le relative misure coercitive, consistenti nella fissazione di una somma di denaro dovuta per ogni violazione o inosservanza, legittimerà l’avente diritto ad agire con lo strumento dell’espropriazione forzata sulla base del titolo originario, qualora il debitore non corrisponda spontaneamente dette somme. Non vi sarà bisogno di precostituirsi un ulteriore titolo.

D’altro canto, il testo della norma non ammette equivoci: il provvedimento di condanna (si intende avente ad oggetto l’irrogazione della misura) costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Piuttosto, si pone il problema del calcolo della somma dovuta, qualora le violazioni o inosservanze siano plurime. In questi casi, il creditore potrà intimare precetto per le violazioni o inosservanze realizzate dell’obbligo infungibile, eventualmente constatate con apposito verbale a cura dell’ufficiale giudiziario, eventualmente sollecitato dall’istanza della parte interessata.

Spetterà poi al giudice dell’esecuzione, in sede di opposizione all’esecuzione, verificare la correttezza del calcolo operato dal creditore per la quantificazione della somma di denaro indicata nel precetto, sulla scorta delle plurime violazioni o inosservanze contestate. ■ 19. Di quali strumenti dispone il debitore per contestare la ricorrenza delle condizioni per l’applicazione delle misure coercitive? Quando l’avente diritto agisca per ottenere il pagamento coattivo delle somme previste a titolo di misure coercitive, il debitore deve disporre di idonei strumenti volti a contestare la pretesa, in applicazione del principio costituzionale di difesa ex art. 24 Cost..

Ora, a differenza della versione del disegno di legge Mastella, l’attuale formulazione della norma nulla prevede sul punto. La citata versione al secondo periodo del secondo comma stabiliva espressamente che il debitore potesse contestare il proprio inadempimento o affermare che esso fosse dipeso da causa a lui non imputabile con lo strumento dell’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c..

Nonostante il silenzio della norma, tale

previsione deve intendersi recuperata. Pertanto, è ben possibile che l’esecutato contesti la presunta violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione della sentenza, proponendo a tal proposito l’opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c..

D’altro canto, la mancata esplicita previsione non deve essere intesa come un indice negativo della possibilità di ricorrere all’opposizione. Piuttosto, l’esplicito richiamo allo strumento dell’opposizione è stato reputato giustamente superfluo poiché si tratta di un rimedio previsto in via generale dal terzo libro del codice di rito. Una volta che si è ammesso che la pronuncia di condanna - con conseguente previsione delle misure coercitive di natura pecuniaria - rappresenta titolo esecutivo sull’applicazione delle misure medesime, è evidente che la contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata, in guisa di quel titolo, potrà essere fatta valere con l’opposizione ex art. 615 c.p.c..

In tale sede, il debitore potrà contestare sia l’inadempimento della prestazione infungibile a monte, dedotto dall’esecutante, sia l’imputabilità a sua colpa di detto inadempimento, sia l’inadempimento della sanzione pecuniaria, sia la quantificazione operata dal creditore esecutante della somma dovuta per le plurime violazioni o inosservanze contestate.

Ancora, con il medesimo strumento dell’opposizione, il debitore potrà contestare l’inesatto adempimento, qualora le misure coercitive siano previste specificamente per tale evenienza.

Pertanto, l’opposizione all’esecuzione potrà concernere sia l’an che il quantum debeatur. Ovviamente muterà la distribuzione dell’onere probatorio, in guisa dei motivi di opposizione dedotti e della natura dell’obbligo infungibile oggetto della pretesa azionata dal creditore. In linea generale, l’opponente dovrà superare l’affermazione del creditore posta a fondamento del precetto intimato, con il rispetto del principio riassunto nel brocardo latino negativa non sunt probanda.

Quando il debitore spieghi opposizione, negando che l’obbligo infungibile posto a fondamento dell’irrogazione della misura coercitiva sia rimasto inadempiuto, al creditore opposto basterà dedurre l’inadempimento dell’obbligo di facere infungibile mentre dovrà essere il debitore opponente a dimostrare l’adempimento ovvero il corretto o tempestivo adempimento.

Quando invece si tratti di obbligo di non fare, il creditore opposto dovrà dimostrare il facere specificamente attuato dal debitore opponente che ha determinato la violazione dell’obbligo.

Con riguardo all’opposizione fondata sull’assenza di colpa del debitore nell’inadempimento dell’obbligo di fare infungibile o di non fare, la giustificazione non potrà essere costituita da pregresse o sopraggiunte ragioni di indigenza, tipiche degli obblighi di dare, bensì dovrà dipendere essenzialmente dalla buona volontà del debitore. Dovrà essere pertanto l’opponente a dimostrare la verificazione di fatti contingenti che hanno reso impossibile la prestazione infungibile, nonostante la predisposizione del puntuale adempimento.

Quanto alla contestazione dell’inadempimento della misura coercitiva pecuniaria, l’opponente dovrà fornire la dimostrazione positiva del pagamento della somma di denaro dovuta a tale titolo. E ciò in applicazione dei principi di vicinitas della prova, negativa non sunt probanda e di presunzione di persistenza del diritto ex art. 2697 c.c..

Quando si contesti, a cura del debitore opponente, la quantificazione della pretesa portata dal titolo esecutivo, sarà quest’ultimo a dovere dimostrare il parziale adempimento, fornendone prova positiva. Se invece la contestazione si basi sull’erroneità del calcolo effettuato per le plurime violazioni o inosservanze denunciate, indipendentemente dalla natura dell’obbligo infungibile, l’opponente dovrà fornire dimostrazione dell’esatto adempimento di alcune delle violazioni o inosservanze denunciate. ■ 20. Quando la misura non è dovuta? In ogni caso, la misura compulsoria non è dovuta quando si realizzino i seguenti eventi sopravvenuti: dichiarazione di fallimento del debitore, morte del debitore, impossibilità di esecuzione della prestazione principale, anche parziale (elemento quantitativo) o temporanea (elemento qualitativo), per causa non imputabile al debitore.

Nelle prime due ipotesi, posta la natura afflittiva e compulsoria della condanna, a base prettamente personale, la relativa tenutezza non si trasmette verso il fallimento e verso gli eredi. Pertanto, non potrà essere proposta domanda di ammissione al passivo fondata sulla condanna accessoria; allo stesso modo, attesa l’infungibilità della prestazione, la domanda di insinuazione non potrà essere spiegata per la condanna principale. Così non potrà essere proposta domanda di adempimento (rectius condanna al pagamento della misura) verso gli eredi del debitore tenuto.

Nel caso di impossibilità parziale della prestazione principale per causa non imputabile, in sede di opposizione all’esecuzione potrà essere disposta la riduzione della misura in via equitativa (in proporzione all’entità della prestazione principale

rimasta attuabile). Quando invece si tratti di impossibilità temporanea della prestazione principale, laddove la misura sia determinabile in ragione del ritardo, nel calcolo non dovrà essere computato il tempo in cui l’esecuzione della prestazione principale sia stato inesigibile. Viceversa, qualora la misura sia quantificata in termini fissi, la sua esigibilità sarà sospesa per il periodo in cui la prestazione principale sia stata impossibile e riprenderà piena efficacia quando la causa di impossibilità sia cessata. ■ 21. Le misure coercitive si applicano nel processo del lavoro? La norma espressamente dispone in proposito che le disposizioni del primo comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 c.p.c.. Pertanto, le misure coercitive non trovano campo nelle condanne in materia di lavoro.

La lettera della legge non ammette altre interpretazioni. Occorre quindi interrogarsi sulle ragioni che hanno indotto il legislatore a contemplare tale esclusione. In proposito, potrebbe ritenersi che, attesa la peculiarità della materia lavoristica, l’estensione delle pene private a tale specifico settore avrebbe presupposto una puntuale e speciale previsione. Se, da un canto, è innegabile che tale materia coinvolge valori personali primari che si sviluppano nell’ambito di rapporti per i quali la necessità di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale è maggiormente evidente e pressante, anche al fine di rimediare ai tipici squilibri di forza sociale, economica e contrattuale tra le parti, dall’altro, le peculiari caratteristiche di tali rapporti avrebbero richiesto una previsione ad hoc per garantire l’adempimento degli obblighi di fare in materia lavoristica.

Il ragionamento che precede potrebbe trovare un avallo anche in termini di compatibilità della disciplina con i principi del diritto del lavoro. E ciò soprattutto in direzione della quantificazione della sanzione, che necessariamente deve essere ancorata all’entità della retribuzione e che non può essere rimessa alla libera determinazione del giudice.

Dinanzi a tali particolari esigenze, è plausibile sostenere che il legislatore ha reputato di escludere l’applicazione delle misure coercitive indirette nelle condanne di lavoro, in guisa della singolarità del settore e degli interessi coinvolti che avrebbero richiesto una regolamentazione ad hoc.

Resta fermo, infatti, che la materia esigerebbe una disciplina particolare di dette misure. Tanto perché la via alternativa per garantire effettività al diritto del lavoro non è certamente quella del successivo

risarcimento per inadempimento dell’obbligo. Più propria sarebbe la previsione di pene private che portino in modo infinitamente più appagante ad ottenere il risultato di un’autentica obbedienza all’ordine giudiziale. In tale settore si potrebbe ritenere che l’applicazione tout court della normativa generale di cui all’art. 614 bis c.p.c. sarebbe a priori manifestamente iniqua poiché l’unica garanzia possibile è quella che assicuri l’effettiva fruizione della prestazione infungibile.

Contemplare delle misure indirette nel campo laburistico, ad ogni modo, implicherebbe che il legislatore debba prevedere degli scaglioni anche progressivi entro cui applicare le misure coercitive poiché solo così le pene private possono aspirare a raggiungere il risultato che si prefiggono sulla carta nel riferito delicato settore. Per l’effetto, l’attuale disciplina introdotta non si attaglia al campo del rapporto di lavoro subordinato, sia esso pubblico o privato, e neanche ai rapporti di c.d. parasubordinazione.

L’esclusione operata dalla norma lascia intendere che sia intenzione specifica del legislatore quella di regolamentare ad hoc l’attuazione delle condanne non suscettibili di coercizione diretta nei rapporti di lavoro.

Secondo altra chiave di lettura, la mancata estensione della previsione alla materia lavoristica si giustificherebbe alla stregua della tutela rafforzativa già riconosciuta ai crediti di lavoro dall’art. 429, terzo comma, c.p.c.. In base a questo divisamento, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, che la sentenza deve determinare, con relativa condanna al pagamento della corrispondente somma quantificata, con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto, costituirebbe già una forma di misura coercitiva. Ma la tesi non convince poiché la rivalutazione automatica delle somme di denaro dovute al lavoratore rientra nella voce del risarcimento del danno e non ha una funzione induttiva dell’adempimento. Peraltro, la previsione si riferisce alle condanne aventi per definizione ad oggetto obblighi fungibili (rectius il pagamento di somme di denaro). Né il dettato della norma può autorizzare il giudice ad irrogare altre sanzioni pecuniarie nel caso di condanna all’adempimento di obblighi di fare infungibili ovvero di obblighi di non fare, in favore del lavoratore. Piuttosto, misure coercitive specifiche sono previste in altre disposizioni, quali gli artt. 18 e 28 dello statuto dei lavoratori, ma esse non hanno il rango di statuizioni generali nella materia del lavoro. E dunque resta ferma la necessità di un intervento ad hoc.

La precisa esclusione effettuata dal legislatore è stata da altri giustificata per motivazioni di carattere

contingente legate a ragioni di opportunità e dovute, in coerenza con la scelta operata dall’esecutivo dell’epoca in materia giuslavoristica ed economica, alla volontà di non frapporre ostacoli allo sviluppo di un mercato del lavoro sostanzialmente flessibile.

L’ultima risposta data, a spiegazione della scelta effettuata dal legislatore di escludere dal campo di applicazione delle misure coercitive indirette la materia del lavoro, è stata così argomentata: il principale obbligo infungibile che connota tale materia a vantaggio della parte debole del rapporto, vale a dire il lavoratore, è rappresentato dall’obbligo di reintegra nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato. Ebbene, nel caso di inadempimento della condanna alla reintegra, già è applicabile la disciplina speciale prevista dal legislatore all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che garantirebbe l’effettività della tutela in favore del soggetto debole. Detta copertura non renderebbe necessaria una tutela ulteriore di tipo generale. ■ 22. Le misure coercitive si applicano anche contro gli enti pubblici? La natura della previsione non pone alcun ostacolo all’irrogazione della sanzione pecuniaria per l’inadempimento di obblighi infungibili di fare ovvero di obblighi di non fare imputato agli enti pubblici. E ciò sempre che si radichi la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alle domande proposte contro la pubblica amministrazione che abbiano ad oggetto la condanna ad un obbligo di facere infungibile. Deve trattarsi evidentemente della contestazione di comportamenti azionati dalla pubblica amministrazione per le vie di fatto, che non trovino alcun avallo nell’esercizio di un potere. Pertanto, gli enti pubblici sono in tali casi assoggettati allo stesso regime dei soggetti privati e non potranno avvalersi di alcuna esenzione sottesa alla loro natura. Purché non si rientri nei rapporti di lavoro subordinato pubblico.

Così anche gli enti collettivi di diritto privato potranno essere destinatari delle medesime sanzioni, siano essi dotati di personalità giuridica o meno (associazioni, fondazioni, comitati, società di capitali e di persone).

Ed ancora anche le collettività qualificate, come i condomini, non presentano caratteristiche incompatibili con l’irrogazione della sanzione. Piuttosto, la misura configura per i condomini un’obbligazione parziaria e non solidale, che potrà essere soddisfatta in sede esecutiva nei confronti di ciascuno, nei limiti della sua quota (Cass. civ., Sez. Un., 08 aprile 2008, n. 9148). ■ 23. Le misure possono applicarsi per

compulsare l’adempimento di prestazioni relative a diritti indisponibili? La questione si pone quando l’esecuzione coattiva di un obbligo di fare o non fare infungibile si scontri con un diritto indisponibile della parte. Ciò può riguardare le materie costituzionalmente protette della famiglia e della salute.

Così, a fronte di un obbligo di garantire la visita del figlio minore al genitore non affidatario o non collocatario, e sempre che non si ritenga che tale obbligo sia suscettibile di esecuzione forzata diretta per consegna del minore, si colloca un diritto indisponibile del figlio stesso, che eventualmente si rifiuti di vedere l’altro genitore. O ancora, dinanzi ad un obbligo sancito dal giudice di sottoporsi a perizia medica allo scopo di accertare l’infermità dell’ammalato, si può opporre il diritto costituzionale della parte tenuta a non sottoporsi ad alcun controllo personale.

In questi casi, è dubbio che la misura indiretta possa trovare applicazione, giustappunto perché l’inadempimento dell’obbligo di facere è riconducibile all’esercizio di un diritto della parte obbligata, a copertura costituzionale.

In definitiva, tali diritti opererebbero come una sorta di causa di giustificazione dell’inadempimento, tale da escludere la responsabilità dell’obbligato, ovvero potrebbero essere addotti per negare l’elemento soggettivo della colpa.

Prevedere l’irrogazione della sanzione pecuniaria anche per tali ipotesi inerenti ai settori della famiglia e della persona significherebbe esercitare violenza sull’uomo libero.

Resta da chiedersi, tuttavia, se dette particolari situazioni già a monte escludano nel processo di cognizione l’irrogazione della misura sollecitatoria ovvero se esse possano essere fatte valere in sede di opposizione all’esecuzione.

Ebbene, occorrerà distinguere le ipotesi in cui l’obbligo di facere oggetto della richiesta di condanna si ponga in chiave ontologica in termini di incompatibilità con il diritto indisponibile della parte tenuta, che pertanto può farlo valere già nel processo di cognizione per negare la possibilità che sia irrogata la misura. Si tratterebbe in questa evenienza di un possibile caso di manifesta iniquità.

Altra ipotesi è quella in cui il contrasto con un diritto indisponibile non emerga a priopri ma solo in sede di esecuzione dell’obbligo infungibile. Allora, il debitore può far valere tale diritto attraverso lo strumento processuale dell’opposizione all’esecuzione.

Sicuramente sono suscettibili di ricevere lo specifico trattamento sanzionatorio compulsorio di cui all’art. 614 bis c.p.c. gli inadempimenti degli obblighi coniugali e parentali in materia di famiglia

di cui agli artt. 143, 144 e 147 c.c., salvo che le corrispondenti violazioni non siano riconducibili sotto l’egida del più specifico rimedio di cui all’art. 709 ter, secondo comma, c.p.c.. E ciò sebbene nella fattispecie non si tratti di misure sollecitatorie di un adempimento ancora possibile bensì di sanzioni di vario genere (ammonimento, risarcimento danni, sanzione amministrativa pecuniaria in favore della cassa delle ammende) avverso violazioni già riscontrate. La natura delle sanzioni, sia sul piano dei presupposti che degli effetti, è dunque del tutto eterogenea. ■ 24. Possono trovare applicazione in via concorrente la misura coercitiva generale e quelle speciali? La misura coercitiva generale introdotta dall’art. 614 bis c.p.c. non può trovare applicazione concorrente con quelle tipiche previste da norme speciali. Almeno questa è la tesi prevalente.

E ciò in applicazione del generale canone interpretativo di specialità.

Si aggiunge che in dette situazioni il legislatore ha già provveduto a selezionare l’interesse da tutelare, come pure ha provveduto ad individuare il contenuto specifico della tutela da assegnare al creditore (CHIZZINI, op. cit., 165). Infatti, non solo nelle ipotesi speciali regolate dal legislatore è espressamente contemplata la situazione a difesa della quale può essere irrogata la misura, a differenza del riferimento generico di cui all’art. 614 bis c.p.c. a tutti gli obblighi di fare infungibile e di non fare; ma in più è anche più precisamente emarginato il contenuto della sanzione, anche con riguardo alla determinazione della cornice edittale.

Pertanto, l’introduzione dello strumento generale regolato dall’art. 614 bis c.p.c. non ha implicitamente abrogato le ipotesi speciali pregresse che già prevedevano l’irrogazione della sanzione per casi puntualmente selezionati. Piuttosto, la norma generale si è aggiunta e non si è sostituita alle norme speciali, che continuano ad operare per i casi specifici da esse contemplati. In tali casi, la norma generale non potrà avere applicazione ma avrà prevalenza la norma speciale.

Secondo un diverso e minoritario orientamento, le misure coercitive speciali e generali sarebbero applicabili in via congiunta quando le prime abbiano ad oggetto una comminatoria eterogenea dalla mera obbligazione pecuniaria. ■ 25. Le somme corrisposte a titolo di coercitoria sono ripetibili? Secondo la ricostruzione dominante, il pagamento della somma tassata a titolo di misura di deterrence è ripetibile qualora, in sede di gravame o di ricorso in cassazione, la condanna ad attuare un

obbligo insostituibile sia riformata. Venuto meno l’obbligo ad assicurazione del quale è stato comminato il mezzo di sollecitazione, la somma corrisposta a fronte della mancata esecuzione della condanna principale deve essere restituita. E tale ripetizione può essere chiesta per la prima volta anche in appello, congiuntamente alla richiesta di riforma della sentenza che ha condannato l’obbligato ad eseguire un obbligo infungibile.

Un orientamento minoritario ritiene invece che la somma corrisposta a tale titolo non sia comunque ripetibile, poiché essa è diretta a sanzionare

l’inottemperanza in sé considerata ad un obbligo recepito da un provvedimento giudiziale autoritativo. Per il solo fatto di avere disobbedito all’ordine la sanzione è comunque dovuta.

Sennonché, le misure coercitive indirette non hanno una valenza pubblicistica né sono irrogate per la mera violazione di un ordine; dietro quell’ordine si pone un diritto che merita tutela. Qualora si accerti che la difesa di quel diritto non spettava, è congruo che sia ammessa la ripetizione della somma corrisposta a titolo di coercitoria.