Conoscere i videogiochi - M. Pellitteri, M. Salvador

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PREFAZIONE DI EMILIO COZZI INTRODUZIONE ALLA STORIA E ALLE TEORIE DEL VIDEOLUDICO

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La migliore trattazione storica di questo giovane mezzo di espressione e anche la più completa rassegna ragionata sul dibattito che esso ha ispirato.

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PREFAZIONEDI EMILIO COZZI

INTRODUZIONE ALLA STORIAE ALLE TEORIE DEL VIDEOLUDICO

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INTRODUZIONE

UN PERCORSO SUI VIDEOGIOCHI,UN PERCORSO FRA I VIDEOGIOCHI

Nonostante la vita del medium videoludico non superi i sessant’anni di età, descriverne la storia è un’operazione lunga e tutt’altro che sempli-ce. Il tema del «videogioco», in inglese video game, è dibattuto nella

-biti disciplinari che hanno preso parte alla discussione teorica sono la sociologia, la psicologia, le scienze cognitive, le teorie delle comunica-

-quadrato, talora con obiettività, talaltra con un atteggiamento di parte (in positivo o in negativo), una tematica che non può che essere mul-tiforme, poiché il videogioco è un medium, un linguaggio e un forma-to d’intrattenimento altamente composito. Ciò che manca allo stadio

-sa che permetta di scegliere una posizione metodologica chiara per la ricostruzione storica e teorica del medium. Non esiste cioè un pensiero

di fondamenta non è possibile, di fatto, distinguere un’analisi «istitu-zionale» da letture marginali o divergenti.

L’atteggiamento di parte può essere interpretato come una tendenza alla difesa o all’attacco di questa forma ludico-narrativa dovuta al fatto che il videogioco, in quanto nuovo medium, ha generato una grandis-sima varietà di reazioni rispetto ai diversi posizionamenti culturali e

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che studiavano questa nuova forma d’intrattenimento con strumenti

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teorici ed empirici non sempre idonei, data l’assoluta novità del mezzo. Ancora oggi vari sociologi dei media, armati di teorie obsolete e una frammentaria conoscenza dell’argomento, producono testi che nelle intenzioni vorrebbero essere resoconti fondati sul videogioco ma che

di Arthur Asa Berger [2002]. Solo di recente studiosi di preparazione multidisciplinare, caratterizzati quasi tutti da un’età che non supera i quarant’anni, hanno preso in mano quelli che oggi si suole chiama-re game studies, affrancando lo studio del tema dall’inadeguatezza e dall’avversione, anche ideologica, che aveva caratterizzato gli analisti della generazione precedente. I game studies sono diventati oggi «una disciplina autonoma di insegnamento e di ricerca, il cui programma non è soggetto alle pretese tiranniche di una comunità accademica ac-condiscendente, quando non apertamente ostile» [Aarseth 2002].

Del resto, va osservato un elemento che raramente viene preso in 1 era una delle poche

forme d’intrattenimento, se non l’unica, studiata da persone che non l’avevano mai direttamente sperimentata come normali fruitori e che anzi la osservavano a distanza e con atteggiamento sospettoso, laddo-ve invece da generazioni gli studiosi di letteratura, di teatro, di cine-ma, sono fondamentalmente, a livello passionale, degli amatori della forma espressiva da loro indagata. Ma non appena la generazione dei primi videogiocatori, che erano bambini negli anni Settanta e Ottanta, è cresciuta, alcuni suoi componenti si sono dedicati allo studio appro-fondito del loro amore di gioventù, entrando all’università, nel mondo della ricerca e della produzione, aggiungendosi così in pochi anni agli studiosi delle generazioni precedenti, che non erano per nulla parteci-pi dell’immaginario e delle strutture mentali videoludici, similmente

dall’establishment -ma d’animazione [Pellitteri 1999 e 2005c].

Ciò ha comportato una grande varietà di opinioni teoriche sul vide-ogame, e non solo a causa di questi due atteggiamenti che – come già

ancora raggiunta teoria generale del videogioco, che forse è una chi-mera irraggiungibile, dal momento che il videogame non è un sistema conchiuso in sé ma un conglomerato composito di componenti psico-

1 Benché in inglese il termine sia video game, con i due termini separati, qui useremo da questo

Cfr. sul tema Salvador 2013: 11-2.

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logiche, cognitive, pragmatiche, emozionali, estetiche, comunicative; quindi un universo molto sfaccettato che richiede, per la sua completa analisi, l’apporto di molte discipline, oggi per l’appunto coacerbate nei game studies.

Anche nel raccontare la vicenda storica del videogioco non possia-

preferire una lettura esclusivamente tecnica, che periodizzi un per-corso sulla base dell’evoluzione dei supporti e delle tecnologie? Una posizione esplicitamente determinista che però renderebbe conto in modo preciso e puntuale del susseguirsi delle «generazioni» di console (gli apparecchi elettronici di interfacciamento su cui «girano» i giochi

D o della rivolu-zionaria adozione di interfacce innovative, arrivate oggi a concedere la possibilità di giocare senza controller joystick in poi). Oppure sarebbe possibile concentrarsi sul linguaggio, descriven-done l’evoluzione sia attraverso le marche di genere sia seguendone i cambiamenti a livello formale, il tutto attraverso il confronto del video-game con gli altri media e con le loro rispettive grammatiche. Da un’a-

e differenze fra le etichette di genere legate alle meccaniche di gioco ( , real time strategy, hack ’n’ slash ecc.; i termini sono spiegati in seguito) e quelle legate invece alle tradizionali clas-

azione ecc.). Una terza possibilità invece sarebbe quella di pensare al videogame come medium innanzitutto interattivo e quindi di legger-ne l’evoluzione in base ai cambiamenti nelle pratiche d’uso. In questo modo si andrebbe a delineare una sorta di «storia dei giocatori», facil-mente riconducibile agli strumenti utilizzati, passando cioè a descrive-re prima una fase legata ai luoghi di aggregazione pubblici come le sale giochi, poi una fase domestica caratterizzata da un pubblico straordi-nariamente competente a livello sia tecnico che linguistico. Un’altra distinzione che emergerebbe sarebbe quella fra giocatori hardcore, che si moltiplicano con la diffusione delle console appunto domestiche, e quelli casual, che nascono e si affermano con l’esplosione dei social game seguita al riaffacciarsi della Nintendo sulla ribalta internazionale a metà degli anni Duemila.

In queste poche righe abbiamo tracciato già tre possibili percorsi evolutivi: uno tecnico, uno linguistico e uno relativo alle pratiche. Nel ragionare su quale di queste possa adattarsi meglio alle esigenze di

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questo testo, ne vengono tuttavia in mente ancora altre. Per esempio la descrizione storica del gioco a livello sociale, non solo osservando gli usi che i giocatori ne fanno ma anche il valore culturale che il medium porta con sé, una periodizzazione cioè dei cambiamenti riguardanti la ricezione del videogioco da parte dell’opinione pubblica. Com’è cam-biata dagli anni Ottanta, quando il videogioco era considerato una vera e propria sottocultura di nicchia, alla contemporaneità, caratterizzata da un lato da un prepotente panico moralizzatore, dall’altro da un suc-cesso transgenerazionale senza precedenti per un medium rappresen-tativo? Anche un’analisi del punto di vista economico e commerciale meriterebbe un discorso a sé, con particolare attenzione alle rivalità fra i giganti della distribuzione e della produzione, alle loro strategie di marketing e di posizionamento, passando per le ragioni delle nascite e

relativi alla scena indie («indipendente» cioè dalle grandi società) e serious (i giochi a scopo didattico e professionale), due universi in co-stante espansione e in grado di rappresentare a buon diritto una fetta consistente della realtà videoludica contemporanea.

Altre poche righe, altri possibili percorsi. Nel marasma delle posizioni -

tà, del resto, a emergere è quella di Ian Bogost, accademico e designer statunitense, che nell’illuminante articolo «Videogames are a mess» [2009] li descrive come detentori di molteplici possibili identità. Il vec-chio videogame E.T. della Atari per esempio è, secondo Bogost, contem-poraneamente undici cose diverse: 8 Kb di valori alfanumerici; una ROM dei medesimi valori espressa in un linguaggio comprensibile all’uomo;

RF generato dalla combinazione degli input dell’utente e delle risposte procedurali del software e trasformato in frequenze radio interpretate da un apparecchio televisivo; un circuito integrato; una cartuccia di plastica con incollatavi sopra l’etichetta del gioco; un prodotto di consumo all’interno di una confezione colloca-ta in un negozio; un sistema di regole e meccaniche che produce una certa esperienza; un’esperienza di gioco appunto, da condurre da soli o in compagnia; una proprietà intellettuale; un oggetto da collezione; un simbolo del crollo del mercato statunitense dei videogame nel 1983.

Considerare allora il videogioco come l’insieme di queste cose, tutte dotate di pari dignità, consente di affrontarlo con metodologie varie anche da un punto di vista storico senza il timore di non rendergli giu-stizia: dai principali e imprescindibili protagonisti delle fasi di nascita e crescita del mondo videoludico passeremo a narrare le storie di singole

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console, di titoli particolari, di team di sviluppo, ritenuti esemplari per comprendere l’evoluzione del medium. Il tutto sarà trattato attraverso la redazione di microstorie di ginzburghiana memoria2 attraverso cui cercare di narrare gli avvenimenti principali dei decenni coinvolti.

Parallelamente a questo lavoro di ricostruzione storica, la nostra materia sarà trattata a livello teorico a partire da una premessa, forse scontata per molti, relativa al termine con cui si designa questa forma espressiva. Il neologismo «videogioco» deriva dal fatto, evidente, che questi giochi si svolgono dinnanzi a uno schermo, a un video appunto: il giocatore ha gli occhi rivolti su un televisore o su un monitor e intera-

-te il citato joystick, il joypad o altri strumenti di dialogo fra l’uomo e la macchina. Questo appellativo, però, ha provocato una riduzione della complessità insita nel videogioco, così come per altre forme espressive

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a tradizioni culturali che ne hanno colto con maggiore attenzione gli aspetti strutturali, come la Francia, dove i fumetti si chiamano bandes dessinées, ‘strisce disegnate’ [Raffaelli 1997]. V’è dunque chi ha propo-

-rattiva» [Garassini – Romano 2001: 176], la quale però si scontra con il fatto che non tutti i videogiochi sono storie: anzi in parecchi videogame la dimensione puramente narrativa è sullo sfondo, appena accennata, oppure è del tutto assente, come si vedrà in seguito. Molti ricercatori del settore dei game studies, come Carlo Molina in Italia o Espen Aarseth

computer game, ponendo l’accento sulla natura informatica di questo medium di svago.

videogiochi sono in sé e per sé giochi e questo non è un difetto ma una caratteristica da valutare con neutralità, tuttavia il fatto stesso che sia la

per i suoi censori, che lo hanno additato come passatempo vacuo pro-prio in quanto gioco: come se il gioco, come attività, fosse qualcosa di futile. In ciò si manifesta uno dei peggiori equivoci di cui certo mondo

2 Quella delle «Microstorie» è stata una collana diretta da Giovanni Levi e Carlo Ginzburg per Einaudi negli anni Ottanta. Ogni testo ricostruiva un microcosmo relativo a un personaggio co-mune, un avvenimento, un luogo, allo scopo di descrivere, dal particolare al generale, i caratteri di un periodo storico.

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benpensante è vittima. Va anche detto che alcune di queste avventure in effetti, nel loro essere giochi, sono dotate anche di una componente narrativa di tipo, ovviamente, interattivo. Quale che sia la più corretta

-te «videogame» e «videogioco», perché sono questi i nomi che, a torto

Nel Capitolo I, a titolo introduttivo, sono segnalati alcuni riferimenti iniziali al tema del successo dei videogiochi e al concetto di «genera-zioni» applicabile ai loro utenti, ai videogame stessi e al possibile con-

rende conto, secondo una suddivisione per argomenti che è solo una delle tante possibili (ed è quella che abbiamo scelto noi), delle prin-cipali voci del dibattito internazionale. Si è cercato il più possibile di

subito osservato che spesso le analisi, tanto teoriche quanto empiriche, si sono involontariamente miscelate alla divulgazione, in ragione della relativa novità tematica del videogioco; se ne renderà quindi conto. Il percorso storico è stato invece composto attraverso l’integrazione di diversi punti di vista, i principali di stampo anglosassone e alcuni ita-liani.3 Sarà inevitabile concentrarsi sugli Stati Uniti e il Giappone come contesti storici più indicativi, lasciando all’Europa continentale il ruolo di comprimario, anche se i tempi sarebbero ormai maturi per procede-re alla scrittura di una storia del videogioco di stampo «europeista».

Insomma i videogame, nonostante una storia assai breve – comin-ciata a livello commerciale nei primi anni Settanta del secolo scorso – sono oggi una delle forme di divertimento e di cultura popolare più lucrative e fra le più presenti nella vita quotidiana di centinaia di mi-lioni di persone, la cui età oggi non comprende solo i bambini e gli adolescenti ma anche una larghissima e sempre crescente porzione di giovani adulti e adulti: sondaggi nemmeno troppo recenti [NPD et al. 2006] attestano che l’età media dei videogiocatori, nei principali mercati mondiali, è di trentatré anni e quella dell’acquirente medio è di quaranta. La tendenza è in progressione e oggi possiamo aspettarci anche età lievemente maggiori.

3 In particolare si farà riferimento a Wolf [2008], Herman [2001], Kent [2001], Herz [1998], Poole [2000], Ascione [1999], Bittanti [1999], Carlà [1993, 1996, 2001] e Rossi [1993] per descrivere so-prattutto il periodo che va dagli esordi alla metà degli anni Ottanta; ad Alinovi [2000], Cerigioni [2002], Chaplin – Ruby [2005], Kushner [2005 e 2012], Takahashi [2002 e 2006], Kohler [2009] e Goldberg [2011] per parlare degli ultimi trent’anni.

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9UN PERCORSO SUI VIDEOGIOCHI, UN PERCORSO FRA I VIDEOGIOCHI

In un mondo in cui la potenza mediale del videogioco è sempre più pervasiva, anche il discorso pubblico e quelli privati su questo effer-vescente medium d’intrattenimento si sono fatti più presenti a livello sociale. Da un lato la saggistica popolare e divulgativa e dall’altro gli studi e le ricerche sul medium si sono occupati in questi quarant’an-ni delle tante sfaccettature del videogioco: la sua vicenda storica e le sue dinamiche commerciali, i suoi pionieri e inventori, i personaggi e i titoli di maggior successo, la sua espansione in tanti luoghi e media diversi (sale giochi, PC domestici, palmari4 e telefonini, internet e social network), le teorie psicologiche e sociologiche per interpretarne le ca-

volte viscerale intrattenuta con essi dai videogiocatori.Questo libro presenta pertanto le due facce del discorso. Non solo

una trattazione storica sul medium, ma anche una rassegna ragionata

internazionale, articolata secondo le sue tematiche portanti: gli aspetti considerati positivi e negativi dei videogame, le loro implicazioni co-gnitive nei confronti degli utenti, la loro intrinseca natura di ludus, l’impatto sulla società.

Abbiamo costruito il libro Conoscere i videogiochi5 come uno stru-mento conoscitivo allo stesso tempo di introduzione e di approfondi-mento all’argomento, abbinando e armonizzando la storia del medium

a questo volume una struttura che media fra le esigenze manualistiche e quelle dell’approfondimento critico, pensando agli studenti e studiosi universitari, ai professionisti di questo medium e ovviamente a tutti i videogiocatori.

4 Utilizziamo qui – e lo useremo anche in seguito – il termine italiano «palmare» consapevoli che nel gergo tecnico videoludico è preferito l’inglese hand-held. Che vuol dire precisamente palma-re: un oggetto che si tiene nel palmo della mano. I due termini sono usati nel corso del libro come sinonimi.

5 Il titolo di questo libro, più per caso che altro, è lo stesso del titolo del primo capitolo del libro di Francesco Alinovi Mi gioco il cervello [Alinovi 2000]; sostanzialmente è stato da noi pensato come riproposizione, adattata al medium videoludico, del titolo del manuale critico Conoscere l’animazione [Pellitteri 2004], dedicato al cinema animato per ragazzi.

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IALBORI, CRESCITAE PRIMO SUCCESSO

DEI VIDEOGIOCHI

La nascita del medium videoludico è relativamente recente. Anche considerando le prime rudimentali macchine a gettone (il cui nome originale, che useremo spesso nel testo, è coin-operated o coin-op, cioè, appunto, ‘funzionanti a gettone’), si tratta di poco più di mezzo secolo di storia. Stabilire la data esatta della nascita del videogame è un’operazione complicata, che richiederebbe innanzitutto una presa di posizione netta,1 anche perché il videogioco viene indicato come una vera e propria invenzione «casuale».

Settanta del secolo XX, fra curiosità e goliardia nei laboratori di inge-gneria e in quelli di informatica diversi scienziati realizzarono stru-menti interattivi che permettevano all’utente di manipolare immagi-ni [Sullivan 1983, Breton 1987, Jolivalt 1994, Bruno 1997, Dodsworth 1997, Bittanti 1999]. A fare da schermo erano gli oscilloscopi, monitor che mostrano linee e traiettorie invece di immagini, o dispositivi a tubo catodico come i vecchi televisori. La letteratura sul tema, fra nostalgia e archeologia della comunicazione [Cohen 1984, Herman 2001], indi-ca che fra i tanti aspetti di quell’epoca aurorale le caratteristiche più importanti che permisero l’emergere di questa nuova forma di intrat-tenimento furono elementi come l’invenzione delle leve e manopole di azionamento dell’utente, la libertà di circolazione fra i vari atenei e ri-cercatori del software dei primi, rudimentali videogame e chiaramente la spinta umana al gioco [Rossi 1993, Herz 1998, Poole 2000, Kent 2001 e 2002, DeMaria – Wilson 2004].

1 In Kent 2001, per esempio, Tennis for Two

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I.1 Panoramica iniziale

I.1.1 Nascita dei giochi da sala e da casa

La reale storia commerciale e culturale del videogioco inizia negli anni Settanta, quando i cabinati coin-op e le console domestiche inizia-rono a diffondersi in modo capillare. L’avvio della prima generazione di console domestiche si può far coincidere con il lancio dell’apparecchio Odyssey della Magnavox e del sistema basato sul chip del celebre Pong della Atari nel 1972. Dopo la crisi del mercato statunitense attraversata fra il 1977 e il 1978, i principali produttori di hardware rinnovarono le proprie tecnologie creando delle macchine in grado di leggere le «car-tucce» e dunque notevolmente più longeve e slegate dai singoli titoli. Anche l’offerta di cabinati coin-op si rinnovò, con nuove compagnie ad affacciarsi sul settore e l’importazione dei maggiori successi dal Giap-pone: l’«età dell’oro» delle macchine cosiddette arcade (‘sala giochi’) era alle porte. Da quegli anni l’evoluzione del settore domestico non ha conosciuto sosta: sette sfuggenti generazioni all’incirca quinquennali e strettamente legate alle evoluzioni dell’hardware, notoriamente ra-pidissimo a rinnovarsi. Oggi siamo entrati nell’ottava, con WiiU della Nintendo, Xbox One della Microsoft e PlayStation4 della Sony.

All’interno di questa singolare storia tecnologica emergono così due

gioco domestico [Ascione 1999, Bittanti 1999]. La distinzione fonda-mentale che venne istituita dal punto di vista hardware fu quindi quella tra un gioco da svolgersi in una sala apposita e un gioco da fruire fra le pareti di casa, con tutte le differenze situazionali e tecnologiche del caso.

A livello di fruizione, gli arcade differiscono dai giochi domestici per-ché nella quasi totalità dei casi si riferiscono a partite contro il program-ma della macchina, scontri accumulativi che si sa già che sarà il compu-ter a vincere e che per essere giocate il più a lungo possibile necessitano di parecchie sedute di gioco e dunque dell’inserimento di molte monete («insert coin -catore può giocare quando e quanto vuole e potrà arrivare a terminare la partita: in tal senso, nei giochi progettati per le console domestiche viene accentuata la dimensione narrativa [Herz 1998, Tanoni 2003].

Come riferiscono Carlà e Herz, fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta i videogiochi si diffusero fra migliaia di programmatori e appassionati tramite un circuito internazionale grazie al quale ci si passava i codici ge-

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con l’avanzare della tecnologia. È soprattutto grazie a questi hacker (ter-mine che non ha in origine nulla di negativo e che solo nella vulgata ha assunto l’accezione di «pirata informatico»), oltre che ai primi pionieri della programmazione e alle prime, piccole e artigianali software house,

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I.1.2 Giocattoli o qualcosa di nuovo?

La storia del videogioco è anche, forse soprattutto, una storia di numeri [Vogel 1986]. I fatturati delle più importanti case produttrici di videoga-me sono milionari e hanno generato giri d’affari enormi [Provenzo 1991]. Per esempio, solo nel 2000 nel mondo erano stati venduti circa 75 milioni di console PlayStation della Sony [Berens – Howard 2002: VII]. Sempre la Sony ha dichiarato nel 2009 di aver venduto complessivamente, dall’e-sordio della console, quasi 139 milioni di esemplari della PlayStation 2

al 2013 incluso, in totale oltre 78 milioni di esemplari della piattaforma XBox. I dati sono impressionanti in generale [List 2014].

Negli USA l’età media dei giocatori si aggirava una dozzina d’anni fa intorno ai 28 anni e il 60% degli statunitensi oltre i sei anni trascorreva un po’ di tempo con i videogiochi [Berens – Howard 2002: VII]. Oggi l’età media è aumentata a 31 anni ed è il 59% degli statunitensi a tra-scorrere un po’ di tempo ogni settimana con i videogiochi [ESA 2014].

Tuttavia, all’inizio della sua storia, il videogioco fu caratterizzato da grossi errori di valutazione strategica, soprattutto perché i primi diret-tori commerciali di questo settore erano in realtà ingegneri-demiurghi che commercializzavano in proprio le loro idee; inoltre negli anni Set-tanta, all’alba della commercializzazione dei videogame, ancora non si aveva una chiara idea di cosa in effetti i videogiochi fossero, dal punto di vista sia linguistico-comunicativo sia merceologico [Cuneo 2002]. Forse questa fu una delle ragioni per le quali il mercato subì ben due crisi nell’arco di sei anni, nel 1977 e nel 1983, per poi risalire la china e assestarsi sui successi più recenti [Herz 1998]; e, fra le cause di questi

a livello concettuale: «un giocattolo oppure un prodotto di elettronica di consumo?» [Cuneo 2002: 39]. Oggi il mistero è risolto e, come si vedrà in seguito, è attestato che è corretto vedere i videogiochi anche come narrazioni interattive e non solo come giocattoli o semplici pro-dotti di elettronica per la casa [Wolf 2001].

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Un importante aspetto del successo dei videogiochi, a livello commer-

molto anche nei negozi di strumenti musicali, di musica in generale e di home-video, e coinvolgono un pubblico che altrimenti non ne sa-rebbe stato raggiunto [Berens – Howard 2002: VIII-IX]. Fra gli elementi merceologici connessi alla mission strategica delle aziende di hardware vanno considerati alcuni divari di condotta delle società, che rivelano incompatibilità «ideologiche» sul ruolo assegnato ai rispettivi sistemi di gioco. Per esempio la società nippoamericana Sony vende le sue con-sole della serie PlayStation come oggetti di intrattenimento casalingo, la statunitense Microsoft non ama che la propria XBox venga inquadrata come un «computer ridotto» ma l’ha inizialmente posizionata sul mer-cato «solo» come una (potente) console per giochi, la GameCube della giapponese Nintendo aveva anch’essa potenzialità da PC ma era stata progettata per lo più per il gioco su internet [ivi: X]. A questo proposito si consideri il grande exploit della citata Sony che negli anni Novanta, aggredendo il mercato, introdusse l’idea forte che i videogiochi non fos-sero solo «roba da bambini» (Leitmotiv usato invece dalla Nintendo) ma indicati per tutti i tipi di utente [Cuneo 2002 e Hayes – Dinsey – Parker 1995]. Se ne parlerà in modo più approfondito in seguito.

Inoltre va tenuta presente la grande varietà di strategie pubblicitarie, commerciali, di sensibilizzazione, di creazione delle tendenze e delle mode che i videogiochi hanno innescato. Ripercorrere una storia del-le pubblicità per i videogiochi sarebbe un modo che oltre a rendere

svelerebbe molti aspetti sulle dinamiche della popolarità di questo fenomeno [Carzo – Centorrino 2002]. E difatti un settore dei game studies si occupa del marketing dei prodotti videoludici e dei suoi ef-fetti sociali [Kline et al. 2003]. Ad esempio il ricercatore neozelandese Mark McGuire si è concentrato su una delle più formidabili campagne pubblicitarie del settore, quella relativa al lancio della famosa console Sony PlayStation 2 [McGuire 2003]. In effetti la spettacolare e origi-nale campagna della Sony, basata sullo slogan «The Third Place» as-sociato alla pratica videoludica mediante la PlayStation, ha avuto a suo tempo risultati estremamente positivi [Asakura 2000]. Il concetto di third place infatti, come McGuire annota, sta per un luogo che esula dalla consueta divisione fra posti di lavoro e di svago. Sarebbe quindi una sorta di non luogo, per utilizzare un concetto introdotto dall’antro-pologo francese Marc Augé [1995], una dislocazione quasi surreale in cui i videogiocatori siano in grado di incontrarsi e in cui le realtà più in-

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credibili possano essere vissute; e questo spazio è la rete, la modalità di gioco per la quale la PlayStation 2 in effetti è stata prodotta. Del resto, prima ancora che in relazione a internet, il concetto di third place era

-che tipo di «comunità livellatrice», come bar, librerie, parrucchieri, in cui tutti sono uguali e dove ci si sente a proprio agio [Oldenburg 1989].

Un importante fattore del videogioco è quindi il suo impatto sociale:

i giochi elettronici portatili e le console per i giochi in televisione erano [molto diversi]. A differenza delle console domestiche, quelle portatili era-no piccole al punto di stare in una mano e venivano commercializzate in un arcobaleno di contenitori plastici colorati. Funzionavano a pila. Abi-tavano nel cestino dei giochi, sul sedile posteriore di una familiare o sul pavimento della cameretta di un ragazzino, non nel sacro «centro del di-vertimento casalingo», che ospitava il costoso impianto stereo e l’onnipo-tente televisore. In sintesi, i nuovi giochi elettronici non erano minacciosi. [Herz 1998: 45]

Ciò vuol dire che le strategie commerciali dei produttori di hardware videoludico non sono mai state scisse da attente valutazioni di marke-ting circa l’impatto sugli utenti, sull’immagine (aggressiva o accoglien-te, innovativa o rasserenante) data ai genitori degli utenti e agli utenti stessi. Ecco perché ad esempio risulta che la maggior parte degli utenti di console portatili sono bambini e preadolescenti e quelli delle console domestiche sono adolescenti e giovani adulti [Herz 1998].

I.1.3 Tecnologie per videogiocare: le interfacce

Bisogna considerare un altro fondamentale elemento del successo dei videogiochi, l’interfaccia, cioè il collegamento «materiale» fra il videogioco e il suo utente. Le interfacce di comando più note sono il joystick, simile alla cloche di un aereoplano, e il joypad, prima dotato del solo cross keypad (cioè i comandi direzionali disposti a croce) e poi di uno o due stick o levette analogiche, divenute il nuovo standard per comandare il movimento e l’inquadratura nella maggior parte dei giochi per console; ma non vanno dimenticati il mouse e la norma-le tastiera del computer, con cui vengono giocati moltissimi giochi. Un’altra tecnologia affermatasi nel corso degli anni è quella tattile, dal touch screen del Nintendo DS con il suo caratteristico stilo in plastica, ai touch pad integrati nei joypad di ultima generazione.

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16 CONOSCERE I VIDEOGIOCHI

È interessante, a proposito delle interfacce, riportare l’evoluzione tecnica e merceologica descritta da Fulco per il concetto di «estensio-ne» (o prolungamento del gioco). Da un livello «zero» di sfruttamento

«multilivello» (il gioco procede per stadi successivi, sempre più ardui); da una terza fase con l’introduzione dei cosiddetti goodies (elemen-ti di ricompensa virtuale come nuove modalità, opzioni, immagini) a una quarta tappa in cui l’estensione è costituita da sezioni di software acquistabili su supporti a parte che rivitalizzano il gioco originale (an-tesignani dei contemporanei DLC, downloadable content, espansioni in

particolari come il Mega-CD della Sega o il Transfer Pak della Ninten-do, esempi di add-on hardware che consentono nuove potenzialità a

dall’inizio nel loro piano commerciale [Fulco 2002: 85-6]. Un’ulteriore versione del concetto di «estensione» si può individuare in riferimento alla reazione della Microsoft e della Sony al successo del Nintendo Wii. All’introduzione dei comandi «sensuali», direttamente legati al movi-

Balance Board, i due rivali hanno risposto fornendo «estensioni» in forma di periferiche in grado di aggiornare le proprie interfacce di con-seguenza: il PlayStation Move e il Kinect.

evoluzioni nell’uso manipolativo dei videogiochi e nella relazione vi-suomotoria fra occhio, cervello, mano e quindi della giocabilità [Masu-yama 2002], tanto che «ci sono molte cose da imparare dai quadri di comando dei giochi, che possiamo utilizzare nelle interfacce della vita quotidiana, come le macchine bancomat e i sistemi di navigazione per le automobili» [ivi: 33].

I.1.4 I videogiochi come terreno fertile per statistiche e misurazioni

Anni fa si era stimato che il numero di videogiocatori andasse oltre i 140 milioni di utenti e che la tendenza fosse alla crescita [Interactive Digital Software Association 2001]. Secondo l’IDSA, nel 2002 i video-giocatori nel mondo erano 145 milioni, dei quali il 47% uomini e il 53% donne, con un’età media di 28 anni, il 34% con meno di 18 anni, il 26% con età compresa fra i 18 e i 35 anni e il 40% con più di 35 anni. Il 72% dei giochi più amati erano di competizione, il 42% di ruolo o sociali e il 36% d’azzardo. L’ERSB [Entertainment Software Rating Board, in Car-

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zo – Centorrino 2002] ha rilevato anni fa che più del 55% dei giochi in commercio era valido per un’ampia platea di fruitori di tutte le età, che il 27% dei giochi era adatto agli adolescenti e che il 13% era destinabile solo agli adulti. In Europa, in Giappone e negli Stati Uniti il fatturato annuale dell’industria dei videogiochi supera di molto quello del setto-

-lare, dal 1995 al 2000 è stato rilevato un aumento del 23% nell’utenza maschile dei videogiochi e del 42,6% in quella femminile, con il 73,8% da parte degli individui dagli 11 ai 24 anni [ISTAT 2000: 55-9].

Negli scorsi anni anche in Europa sono state realizzate inchieste sulla diffusione dei videogame, e in paesi attenti all’infanzia come la Francia

già il 64% dei minori di 16 anni usassero videogiochi, come risulta da un’indagine delle società di ricerca Médiametrie e Diapason [in Gruau et al. 1987]; dati confermati da altre ricerche di minore estensione ma

scuole savoiarde nel 1994 [Longuet 1996a e 1996b]. La tendenza, in questo paese, è stata molto interessante, perché se nel 1979 solo il 7% circa della popolazione era il mercato potenziale di materiale video-ludico e nel 1983 esso era aumentato al 10% [Cregut et al. 1983], già solo nel 1997 era salito al 35%, cioè a circa 7,5 milioni di famiglie [Le Diberder – Le Diberder 1998: 90]. In Francia analisti di più settori si

hanno prodotto documenti e ricerche al riguardo, come il CEO e il CESTA sotto la direzione di Hélène Monnet [Cregut et al. 1983] e l’agenzia OCTET, un organismo – purtroppo di breve vita – dedito alla promozio-ne degli aspetti culturali delle nuove tecnologie fondato nei primi anni Ottanta dal Ministro della Cultura di quel periodo, Jack Lang, e diretto da Daniel Populus [OCTET 1983]. Tuttavia, nonostante questi e altri stu-di [Kempf 1983, Frémeaux 1983-’84, Bécherraz – Graber 1983], pare che in Europa si sia ancora molto indietro nell’integrazione delle inno-vazioni portate dai videogiochi nel tessuto sociale e nella contempora-neità [Le Diberder – Le Diberder 1998: 235].

In una ricerca del 2002 sui consumi culturali dei giovani [Tirocchi – Andò – Antenore 2002] si fa molta attenzione a tutti i passatempi me-diatici degli adolescenti e fra questi non si dimenticano naturalmente i videogiochi. I dati dello studio dicono che il 24% dei ragazzi oggetto dell’analisi ritenesse il gioco l’aspetto più piacevole dei computer e che oltre il 70% di loro possedesse una console videoludica; solo il 10% cir-ca invece era estraneo al videogame; fa invece un certo effetto venire a

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conoscenza che, dopo il grande exploit degli anni Ottanta, le sale giochi fossero frequentate solo dal 6% del campione indagato [ivi: 121]. Un segnale in qualche modo positivo sulle pratiche di gioco è quello secon-do cui circa il 30% dei ragazzi videogiocasse con gli adulti, specie i più piccoli, con il risultato di generare forti momenti di socializzazione [ivi: 122]: segno che, sembra quasi banale annotarlo, quando lo scambio

l’armonia se ne giovano.Desta interesse anche la rilevazione secondo la quale in Italia i giochi

più amati fossero quelli sportivi (34%, specie fra i maschi) e quelli di ruolo e strategia (21%, specie fra le femmine); il tempo quotidiano de-dicato al gioco era in media di un’ora (54%), ma non manca, dai risulta-ti, chi vi trascorresse da due a quattro ore (25%), e ben il 73% dei giova-ni preferiva usare il computer per i videogame [Mediamonitor Minori 2001]; si sarebbe però potuto anche indicare con chiarezza, nello stu-dio citato, se i giochi fossero fruiti con macchine e software propri o di

fra utenti soft e heavy. L’operato di Mediamonitor Minori comunque è estremamente utile e si differenzia per qualità dalle ricerche sui me-dia di altri enti, caratterizzate talvolta da vari problemi metodologici. In un altro rapporto di quegli anni [CENSIS-UCSI 2004], ad esempio, si indagano «giovani e media» concentrando l’attenzione su televisione, cellulare, radio, internet, libri, quotidiani e periodici, senza citare altri supporti e formati mediatici come il fumetto o il videogioco e in man-canza di una chiara individuazione di una tipologia dei consumi, dei contenuti fruiti e della varietà delle situazioni di provenienza.

I.1.5 Videogiochi e nostalgia

Esiste una realtà «nostalgica» indicativa del grande successo dei vi-deogiochi, che si lega al concetto, spiegato nella subsezione seguente, di «generazioni» di giocatori e per estensione alle generazioni dei vide-ogame avvicendatisi dagli anni Settanta a oggi. Tale realtà ha preso il nome di retrogaming e ha a che fare con il recupero dei videogiochi del

giocare di nuovo, nonostante l’obsolescenza del materiale hardware su cui i vecchi giochi, vero e proprio modernariato software, funzionava-no in origine. Di retrogaming si è occupato in un saggio illuminante e completo Andrea Babich [2002], che annota, oltre a numerosi parti-colari tecnici riguardanti le modalità di emulazione dei vecchi giochi

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sui nuovi supporti informatici, come il mondo del retrogaming si sia sviluppato su internet, quella «comunità virtuale» di cui parlava già Rheingold [1994] agli inizi della pubblica diffusione della rete.

Il retrogaming è sostanziato dalla «sincera volontà di dedicarsi ai gio-

ricordo sopravviva […]. È questa […] la tendenza più feconda ed inte-ressante del retrogaming, che si trasforma così in uno strumento del più ampio movimento per la preservazione e l’archiviazione dei docu-menti informatici» [Babich 2002]. La questione non è di poco conto, se il Research Library Group, un ente patrocinato da oltre 160 università, ha negli scorsi anni dato vita a un gruppo di ricerca, la Task Force on Archiving of Digital Information (abbreviato TFADI), per la produzione di un dettagliato documento che analizza questo tema nei particolari [TFADI 1996 sgg.]; ma un po’ in tutto il mondo vari ricercatori si sono dedicati e si stanno dedicando alla questione della preservazione del software videoludico, in termini sia teorici [Chartier 1993] sia tecni-ci [TOSEC 2000]. E poiché, come anche Babich annota, il retrogaming è indissolubilmente legato a internet, nella questione va tenuto conto della diffusione del fenomeno dell’open source, che consiste nella libe-ra diffusione di molti software caratterizzati dalla possibilità di essere

Open-source.org e Sourceforge.net -ne si è dedicato, fra gli altri, Eric Raymond del Massachusetts Institute of Technology [Raymond 1997 e 1998]. Ciò investe problemi legati alla diffusione di materiale protetto da copyright e quindi all’aumento del fenomeno della pirateria: la questione è complessa e se ne accenna in un’altra sezione di questo libro.

I.1.6 Generazioni di videogiocatori

Un altro aspetto preliminare di cui tenere conto per lo studio dei vi-deogiochi è quello generazionale. Infatti, come scrive Herz, autrice del più interessante contributo sul tema delle generazioni di videogioca-tori (seppure dal solo punto di vista statunitense), «al giorno d’oggi, sono già due le generazioni di ragazzini cresciute assieme a cinque ge-nerazioni di videogiochi. Non stiamo parlando di un piccolo gruppo di persone. Non stiamo parlando di una sottocultura» [Herz 1998: 11]. Fra i vari aspetti dell’avvicendamento generazionale nel mondo dei vi-deogiochi non vi sono da considerare solo l’età dei giocatori e il grado d’avanzamento di macchine e programmi, ma anche quello, da non

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sottovalutare, delle occasioni di incontro e di gioco. Scrive Herz: «la sala giochi degli anni Ottanta era uno dei pochi ritrovi davvero diversi nel regno degli adolescenti. Si rivolgeva allo stesso modo ai liceali ben vestiti e a quelli che la scuola l’avevano lasciata, ai secchioni e ai guer-rieri della palestra […] Ed essendo i videogiochi grandi equalizzatori, la sala giochi era più o meno una meritocrazia» [ivi: 57], laddove invece oggi «il popolo delle sale giochi è diventato il popolo online» [ivi: 66-7]. In questo libro si parla del gioco in rete in seguito.

L’argomento delle generazioni di videogiocatori formatisi in sala gio-chi è importante, fra gli altri motivi adducibili, a proposito delle rea-

videogame: in sala giochi «si cerca la reazione forte. Se un giocatore non s’interessa abbastanza a un gioco da prendere a calci lo sportello della gettoniera o da rompere il vetro, sai che non è un granché, come gioco» [ivi: 85] e questo, chiaramente, investe anche il valore intrin-seco del gioco. Un altro elemento, è proprio il caso di dirlo, in gioco, riguarda l’uso che i videogiocatori, crescendo, hanno cominciato a fare delle competenze tecnico-linguistiche acquisite in ore e ore di pratica sui videogame: oggi i videogiocatori infatti scovano i «bachi» o bug (i difetti dei giochi), dialogano con le aziende produttrici, cercano un equilibrio nelle varie sezioni dei giochi utilizzati, insomma si sono fatti molto competenti ed esigenti e ciò ha prodotto giocoforza un’evoluzio-ne del mercato e della qualità dei prodotti proposti [ivi: 122-3].

Le differenze generazionali di cui sopra però non riguardano soltan-

anche elementi molto problematici di incompatibilità fra le fasce d’età, -

nale, che mette dalle due parti della barricata digitale adulti impacciati e bambini esperti. […] tutto se ne può dire tranne che siano realtà mar-ginali e secondarie» [Garassini – Romano 2001: 175]. In questo studio di Garassini e Romano sono presenti numerosi riferimenti al contrasto, non certo cercato ma comunque esistente, fra generazioni e alla tema-

dei linguaggi a essa associati e i secondi molto competenti riguardo ai computer, a livello «istintivo», ma non sempre in grado di farsi uten-ti critici di queste tecnologie. Ha opportunamente scritto David Ben-nahum a proposito delle generazioni di programmatori e quindi, per estensione, dei videogiocatori degli anni Settanta e Ottanta: «per una generazione per cui tutto sembrava già fatto prima, che cos’altro resta-

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va da fare? Droghe già dato, musica già dato, manifestazioni già dato. Tutto sembrava vecchio. Tranne [il computer]» [Bennahum 1998].

Dopo questa primissima panoramica iniziale e trasversale, in cui sono stati molto sinteticamente presentati in prima battuta e da varie prospettive alcuni dei temi fondanti inerenti al videogioco, addentria-moci nella storia del medium.

I.2 Giocare nei laboratori

Il fatto è che [mio padre] non volevaessere ricordato solo per quel gioco.

William Higinbotham, Jr

dicembre del 1948 Thomas T. Goldsmith, Jr e Estle Ray Mann brevet-tano presso gli Allen B. DuMont Laboratories di Passaic nel New Jersey il Cathode Ray Tube Amusement Device, uno strumento per control-lare un raggio catodico allo scopo di abbattere bersagli mobili visualiz-zabili su un oscilloscopio. Interessanti sono le prime righe del brevetto:

«This invention relates to a device with which a game can be played. The game is of such a character that it requires care and skill in playing it or operating the device with which the game is played. Skill can be increased with practice and the exercise of care contributes to success» [United Sta-

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con risvolti ludici ma di un gioco a tutti gli effetti, pensato come tale, con espliciti riferimenti alle abilità necessarie per utilizzarlo e la descrizione di un’abbozzata curva di apprendimento per il giocatore. Goldsmith è prima di tutto un pioniere della televisione e non continua sulla stra-da dell’intrattenimento elettronico [Weinstein 2004]. La natura del suo più grande successo televisivo, Captain Video and His Video Rangers, in onda dal ’49 al ’55 sul canale DuMont, rivela comunque anche qual-

2 ‘Quest’invenzione si riferisce a uno strumento tramite il quale ci si può intrattenere con un gioco. Le caratteristiche del gioco sono tali da richiedere attenzione nel praticarlo o abilità nel manovra-

con la pratica e l’uso attento contribuisce al risultato’.

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cos’altro: si tratta di una serie di fantascienza, la prima del suo genere negli Stati Uniti. Non è un caso che il creatore della prima macchina a essere descritta in tutto e per tutto come un videogioco abbia questo tipo di fantasia e lavori con questi contenuti: il videogame è un’invenzione in grado di affascinare e di esercitare un’attrattiva sul pubblico, proprio come il cinema una cinquantina d’anni prima, tecnologia avanzata e all’avanguardia, uno sguardo sul futuro. Il rapporto fra videogame e fan-tascienza non è in realtà mai venuto meno, lo ritroviamo ancor oggi an-che solo scorrendo i principali titoli sul mercato o pensando al radicato

di cui è stato da subito tema e luogo di profondo interesse.

I.2.1 Tennis for Two

Esattamente dieci anni dopo l’esperimento di Goldsmith, nel 1958, Wil-liam Higinbotham realizza, con l’aiuto del tecnico Bob Dvorak, un gioco di tennis interattivo sfruttando un oscilloscopio e il gigantesco calcolato-re dotato di costosissimi transistor in germanio del Brookhaven National Laboratory a Yaphank, nello stato di New York. Come Goldsmith, anche Higinbotham coltiva interessi diversi dal videogioco, un tantino più di-stanti dal mondo dell’intrattenimento rispetto al suo predecessore: dopo aver lavorato attivamente al Progetto Manhattan (per la realizzazione delle bombe atomiche durante la Seconda guerra mondiale), lo scienzia-to è profondamente tormentato dal rimorso e assume la direzione della Federation of Atomic Scientists allo scopo di tenere sotto controllo i pos-sibili utilizzi della tecnologia nucleare. Inoltre contribuisce alla fondazio-ne della Atomic Energy Commission, l’ente alle spalle del Brookhaven National Laboratory, inaugurato nel 1947 con l’obiettivo di approfondire ulteriormente la ricerca sull’energia atomica.3 È lì che in poco meno di un mese Higinbotham e Dvorak creano Tennis for Two, pensato esclusiva-

di coinvolgere il pubblico e di far comprendere in modo semplice le tec-nologie utilizzate in quel luogo. Ancora come Goldsmith, i due scienziati non sono interessati a brevettare lo strumento né sono consapevoli del potenziale culturale ed economico che hanno in mano. Anni dopo, come

3 Cfr. il breve ma esaustivo resoconto nel sito internet dell’iniziativa William A. Higinbotham Game Studies Collection della Stony Brook University (Stonybrook.edu/libspecial/videogames).

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fermamente convinto del disinteresse del padre per quel progetto di sva-go, ispirato al manuale dell’oscilloscopio in cui alcune delle traiettorie

eventuale brevetto non avrebbe cambiato le cose. Nonostante le accuse

McCarthy, Higinbotham ha continuato a lavorare al laboratorio per l’e-nergia nucleare allo scopo di sensibilizzare governi e opinione pubblica sui rischi di quella tecnologia. Fino alla sua morte nel 1994, lo scienziato non ha mai voluto menzionare Tennis for Two come una delle sue prin-cipali realizzazioni: non voleva, non gli interessava, essere ricordato per quello [Goldberg 2011].

Tennis for Two non è ovviamente un capolavoro di longevità e cari-sma, ma è sicuramente il primo gioco elettronico multiplayer della sto-ria: mette di fronte due avversari che devono scambiarsi un punto lu-minoso sopra una rete bidimensionale con due antesignani del joystick, dotati di leva analogica e di un solo pulsante. Rimasto sconosciuto alla maggior parte dei successivi pionieri del videogame, è stato spesso igno-rato anche dagli storici, poiché non utilizzava uno schermo catodico ma solamente un oscilloscopio come strumento di visualizzazione. Non con-siderarlo un esempio di videogame appare tuttavia una forzatura, se non altro per il fenomenale coinvolgimento che riuscì a creare fra i visitatori e i dipendenti del museo, entusiasti di provare questo strumento interat-

che avevano di fronte: pura fantascienza.

I.3 Giocare nelle università

Mi è capitato di trovarmisul posto per primo.4

Steve Russell

Il videogame nasce fra tecnici e inventori, prima di tutto come ten-tativo di intrattenere attraverso la fascinazione di uno schermo inte-

importanti cominciano a esserci studiosi interessati alla questione. A Cambridge, nel Regno Unito, nel 1952 lo studente di Dottorato Alexan-der S. Douglas crea OXO, versione su schermo del classico gioco Tris (o Tic-Tac-Toe), a corredo della sua tesi dedicata all’interazione uomo/

4 Riferito in Herz 1998: 18.

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macchina. Il gioco è gestito da un enorme calcolatore, l’Electronic De-lay Storage Automatic Calculator (EDSAC), ed è visualizzato a video. Il videogame inizia pian piano a essere percepito non più come un pro-dotto eccezionale, ma come un vero e proprio strumento sperimentale a livello accademico. Le capacità informatiche per utilizzare prodotti di questo tipo del resto si trovano solo nelle università, nelle grandis-sime aziende o nei laboratori governativi. Negli anni Cinquanta tutta-via nessuno di questi possibili incubatori tecnologici pare aver ancora compreso le potenzialità del medium nascente.

Anche il secondo padre fondatore del medium videoludico, Steve Rus-sell, inizia la sua avventura videoludica in un’università. Studente del MIT di Boston e affascinato, guardacaso, dai romanzi di fantascienza di E.E. Smith, a cavallo del 1960 «Slug» Russell entra a far parte del Tech Model Railroad Club. Il circolo è una sorta di affascinante confraternita pre-geek in cui si usa il termine hack comune. Non appena il club inizia a utilizzare con assiduità i calcolatori nei laboratori di ingegneria dell’università, i suoi membri vengono ri-battezzati hacker, i primi della storia, anche se privi del romanticismo legato all’anonimato e all’illegalità [Lévy 1984]. In questo contesto, fra il 1961 e il 1962, insieme ad alcuni colleghi fra cui Martin Graetz5 e Wayne Wiitanen, Russell crea Spacewar!. Il gioco è un semplice combattimen-to fra due navicelle spaziali installato su uno dei calcolatori più potenti dell’epoca, dotato di transistor ma ancora molto ingombrante e tutt’altro che popolare, il PDP-1 della Digital Equipment Corporation (DEC). Dopo

vecchio Transistorized Experimental (TX-0) del MIT, Russell sfrutta l’e-norme potenza di calcolo del nuovo PDP-1 per creare un software mol-to elaborato e ricco di particolari. Oltre alle due navicelle, come sfondo viene integrato il software Expensive Planetarium elaborato da Pete Samson,6 una dettagliata mappa stellare che rende più riconoscibile e di conseguenza meglio modulabile la variazione di velocità delle astronavi; Dan Edwards realizza invece una simulazione della gravità, collocando al centro dello schermo un sole che esercita attrazione sui mezzi volanti dei giocatori; Sanders e Alan Kotok creano invece un sistema di controllo portatile dotato di quattro pulsanti, destra, sinistra, acceleratore, missi-le, collegato al calcolatore con un cavo.

5 Del quale si legga il rivelatorio articolo «The Origin of Spacewar» [Graetz 1981].6 Expensive proprio nel senso di ‘costoso’. In Herz 1998 viene descritta la famiglia di software realiz-

zati con questa etichetta: si trattava di sperimentazioni realizzate con il P -1, semplici traduzioni informatiche di strumenti esistenti e, per questo motivo, più costose degli originali.

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I.3.1 Spacewar!

Spacewar! è senza dubbio il primo gioco progettato in modo appro--

ni tecniche ma dal vero e proprio design delle meccaniche di gioco, dell’interfaccia, dei controlli. L’esperimento ottiene una tale visibilità da essere distribuito con i nuovi computer della serie DEC, ma prima ancora esplode come fenomeno proto-virale, copiato e distribuito pra-ticamente su tutti i principali calcolatori degli Stati Uniti, a livello sia universitario (che in realtà, oltre che al MIT, si trovano solo all’Univer-sità dello Utah e a Stanford) che governativo o militare. Russell e col-leghi, infatti, nonostante percepiscano la grande risonanza che il loro prodotto sta avendo, decidono di non brevettare l’invenzione. Lo stesso giovane ingegnere è un puro creativo che non ha mai nutrito interessi economici per le sue creazioni, un hacker a tutti gli effetti; è felice di aver avvicinato le persone allo studio dell’informatica ma soprattutto, proprio come Higinbotham, di aver realizzato uno strumento per far capire all’esterno con quali tecnologie lavorano lui e i suoi colleghi del

-re una posizione tanto illuminata, Russell ha affermato spesso che, se non lo avessero inventato loro, il primo videogioco sarebbe comunque apparso nello stesso periodo storico.

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decennio successivo, lo sviluppo di videogiochi all’interno dei mainfra-me universitari diventa una pratica consolidata. Esistono poche testi-monianze a cui fare riferimento poiché i software ludici non vengono messi in commercio e sono ancora considerati utilizzi «impropri» di costosissimi hardware di proprietà degli atenei. Possiamo tuttavia cita-re i più importanti. Esistono innanzitutto almeno due hardware di rife-rimento per la diffusione dei propri lavori: il sistema gestionale PLATO, creato all’Università dell’Illinois ed esportato presto presso altri atenei, e il gruppo DECUS della DEC.

Gli esperimenti testuali di Don Daglow sul baseball e su Star Trek al Pomona College di Claremont, in California [Daglow 1986], fanno parte di questa categoria di prodotti, denominati Mainframe Computer Game, come i successivi giochi di esplorazione testuale, per esempio Adventure di Will Crowther, rielaborato poi da Don Woods a Stanford, o il mitolo-gico Hunt the Wumpus di Gregory Yob, un centinaio di righe di codice in BASIC descritte da J.C. Herz come il mostro di Loch Ness del periodo,

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per confermarne l’esistenza. Questi prodotti e molti altri sono creati nel-le università e di rado escono dalla rete dell’accademia, per un motivo abbastanza evidente: calcolatori dotati della potenza necessaria a farli girare non sono ancora disponibili, se non all’interno di strutture all’a-vanguardia, e la diffusione casalinga è ancora un miraggio lontano.

I.4 Nascono le console domestiche

Con l’Odyssey interagisci con la televisione,non ne sei solo spettatore!7

Dal Manuale del Magnavox Odyssey

Il terzo luogo in cui individuare la genesi del videogioco, dopo il Bro-okhaven National Laboratory di Yaphank e il Tech Model Railroad Club al MIT, sono i laboratori nel New Hampshire della Sanders Associates, che lavora per il Ministero della Difesa statunitense. Nel 1966 Ralph Baer, un ingegnere ebreo di origine tedesca, fuggito prima della Secon-da guerra mondiale dal suo paese natale, convince i dirigenti dell’a-

da collegare al televisore: «Channel Let’s Play!».8

Dal carattere determinato e rigido, Baer ragionava su quest’idea da più di quindici anni e aveva intuito già nel 1951, mentre progettava e sviluppava tecnologie per apparecchi televisivi alla Loral Electronics di New York, le potenzialità insite nel rendere interattivo proprio il te-levisore. Guidato da un’inventiva e da capacità ingegneristiche fuori dal comune, tentò già allora di convincere il proprio datore di lavoro a investire in un’idea simile ma fu respinto con decisione. Alla Sanders, invece, abbastanza sorprendentemente dato che l’azienda si occupava di sistemi di difesa elettronici antiaerei e antisommergibili, Baer riesce

-son, esperto ingegnere interno, e Bill Rusch, fresco di laurea al MIT. I tre inventori creano Chase, un semplicissimo gioco visualizzabile su un ap-parecchio televisivo catodico in cui due punti di luce si inseguono sullo schermo. I tre lavorano anche a diversi sistemi di controllo da collegare alla loro macchina, integrando agli spostamenti sull’asse orizzontale e verticale, unici comandi a disposizione del giocatore, una pistola gio-

7 Riferito in Goldberg 2011: 16.8 Baer stesso ricostruisce con grande precisione la genesi del videogame in un breve articolo a cui

rimandiamo [1998]. Per approfondire ulteriormente cfr. anche Baer 2005.

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cattolo interattiva, una mazza da golf e addirittura una pompa da vigile del fuoco, tutte collegabili all’apparecchio televisivo. Dopo l’approva-zione del progetto, tuttavia, il presidente della Sanders, Harold Pope, inizia a chiedere con insistenza un prodotto commercializzabile. Dopo sette diverse versioni del sistema, che durante la lavorazione è ribat-tezzato «TV

aziendali una piattaforma di gioco chiamata «Brown Box», in grado di utilizzare diverse applicazioni ludiche, la maggior parte delle quali riduzioni degli sport più famosi. La prima console domestica è una re-altà. L’effetto visivo tuttavia è per forza di cose deludente: per riuscire a distinguere i diversi sport, Baer crea delle mascherine in plastica da collocare sul televisore in modo da contestualizzare i diversi giochi. Fra questi c’è anche un titolo di tennis, o meglio di ping-pong caratterizzato da un’innovativa visuale dall’alto, ideato da Rusch e molto diverso da Tennis for Two, che i tre colleghi hanno sempre sostenuto di non aver

suo progetto originale, registrando il brevetto del sistema con il nome di «Television Gaming Apparatus and Method» nel 1969.

I.4.1 Il Magnavox Odyssey

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il progetto, Baer decide di rivolgersi ai produttori di apparecchi tele-visivi via cavo per provare a commercializzarlo. Dopo alcuni tentativi a vuoto con le grandi aziende Teleprompter Corporation, Manhattan Cable e Warner Cable, trova un accordo con la Magnavox. Il rapporto con il colosso della televisione è però tormentato: il nome del prodot-to è cambiato nel deludente «Skill-O-Vision»; molte periferiche sono eliminate per ridurre i costi; si rinuncia al colore ed è scelta una star in declino come Frank Sinatra in qualità di testimonial. Nei mesi pre-cedenti la commercializzazione del prodotto, tuttavia, sono introdotti

ma la console è costruita con plastiche bianche e nere minimaliste, che Harold Goldberg accomuna ai computer di 2001: Odissea nello spazio [2011: 14], mentre il nome diventa, evidentemente non per caso, il de-

commercio sul mercato statunitense.In tre anni ne vengono acquistate all’incirca 300.000 unità, ma non

è un successo tale da indurre la Magnavox a insistere sulla strada dei

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television game. Baer tuttavia cerca a più riprese di convincere i suoi interlocutori ad adottare la strategia commerciale «dei rasoi e delle la-mette» per dare una decisiva spinta al mercato nascente. Vuole in so-stanza commercializzare più giochi, in modo da non dare la sensazione di vendere un prodotto dalla scarsa longevità, rendendolo un po’ come

costante fornitura di nuovi titoli, il pubblico avrebbe più volentieri ac-quistato la console ma soprattutto sarebbe stato possibile guadagnare proprio sulla vendita dei singoli giochi. Nonostante questa strategia sia stata uno dei punti cardine delle successive lotte fra grandi produtto-ri videoludici, il sistema Odyssey avrebbe dovuto essere radicalmente rivoluzionato: non prevedeva, infatti, cartucce programmabili con gio-chi installati al loro interno, ma semplici chiavi di attivazione che, una volta inserite nel sistema, avviavano un gioco invece di un altro, tutti integrati nella console stessa.

È indubbio che Baer avesse intuito molto di quanto avrebbe riservato il futuro al medium videoludico. Nonostante questo decise di tornare al suo ruolo di primo piano alla Sanders, pur continuando ad apparire in quel mondo come consulente, salvatore o avversario e inventando il gioco Simon, uno dei prodotti di intrattenimento elettronico più ven-duti di tutti i tempi.

I.5 I cabinati a gettone e la nascita della Atari

Evita di mancare la pallinaper aumentare il tuo punteggio Istruzioni sul cabinato di Pong

Se da un lato le console domestiche avevano fatto il loro stentato de-butto, un altro tipo di videogiochi stava per dare il primo vero impul-so positivo al mercato. I sistemi arcade coin-operated appaiono per la

-versity. Galaxy Game è creato dal neolaureato Bill Pitts e dal suo caro amico Hugh Tuck, ma non è altro che una versione cabinata di Spa-cewar! installata su un DEC PDP-11, il primo minicomputer economico

due creatori della macchina, il primo un programmatore con nozioni di ingegneria elettrica, il secondo un ingegnere meccanico puro, hanno fondato l’anno precedente la Computer Recreations e si sono dedicati alla costruzione di Galaxy Game, il cui costo per cabinato era molto

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alto, attorno ai 20.000 Dollari. Pitts e Tuck piazzano alcune delle loro

1979), facendo pagare ogni partita dieci centesimi. Nonostante la de-cisione di collegare allo stesso hardware più monitor per rientrare dei costi di produzione, i due tecnici non sono mai riusciti ad avviare una reale produzione e a diffondere la loro creatura.

Parlare della nascita degli arcade conduce necessariamente alla quar-

quel Nolan Bushnell a tutti gli effetti responsabile del boom di metà anni Settanta, sia nel settore dei coin-op sia in quello delle console do-mestiche. Dopo essersi laureato nel 1968 presso l’Università dello Utah, che come abbiamo visto era una delle poche ad avere a disposizione un computer DEC per giocare a Spacewar!, Bushnell inizia a lavorare per l’azienda ingegneristica Ampex. È convinto che l’unico modo per sfon-dare sia creare un’azienda di videogame tutta sua. Realizza, ispirando-si proprio a Spacewar!, Computer Space, rielaborazione del software originale installata all’interno di un minicomputer creato ad hoc e de-dicato esclusivamente al gioco. Attorno all’hardware, Bushnell crea un rudimentale cabinato con un vecchio televisore in bianco e nero come monitor. Per produrre in serie il suo prototipo si accorda con la Nutting Associates per 1500 esemplari. Nonostante lo scarso successo di que-sto primo tentativo, soprattutto a causa dell’eccessiva complessità delle istruzioni fornite e il conseguente abbandono della Nutting, Bushnell decide comunque di provare a fondare la propria azienda.

I.5.1 La Atari e Pong

La Atari (che doveva chiamarsi Syzygy, ma il nome scelto era pur-troppo, o per fortuna, già utilizzato da un’altra azienda) nasce nel 1972 dall’accordo fra lo stesso Bushnell, Ted Dabney e Larry Bryan, due colleghi di vecchia data della Ampex. La prima mossa della neonata azienda è assumere un promettente ingegnere, Allan Alcorn, allo scopo di cominciare a lavorare su un nuovo sistema di gioco, più semplice di Computer Space -sunto si dimostra un brillante acquisto e inizia a lavorare, su ordine di Bushnell, a un gioco di ping-pong. Decide di introdurre l’accelerazione della pallina, distingue diverse traiettorie dipendenti dal punto con cui la «racchetta» virtuale la colpisce e crea per la prima volta una serie di suoni sintetizzati. Il progetto è in realtà un semplice test: Bushnell voleva mettere alla prova Alcorn con un compito concreto per poi farlo

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lavorare, nel caso si fosse dimostrato capace, a un gioco di corse au-tomobilistiche che la Midway gli aveva richiesto. I tre fondatori della Atari rimangono tuttavia talmente colpiti dai risultati raggiunti che de-cidono di fare dell’esercizio di Alcorn un gioco a tutti gli effetti: Pong. Memore del precedente fallimento, le uniche istruzioni stampate sul cabinato recitano «Avoid missing ball for high score» (‘Evita di man-care la pallina per aumentare il tuo punteggio’): l’importante è che sia giocabile e comprensibile per chiunque.

La mitologica e quasi malfamata Andy Capp’s Tavern di Sunnyvale, nella Silicon Valley, è il luogo prescelto per la prova al pubblico. Dopo circa due settimane il gestore del locale chiama la Atari perché la mac-china si è guastata, raccomandandosi di ripararla al più presto perché sta avendo un discreto successo. In realtà non si tratta di un guasto ma i quarti di dollaro hanno semplicemente riempito il contenitore interno

Così vuole la leggenda; in realtà Loni Reeder, assistente personale di Bushnell, racconta che le monetine erano state introdotte dai dipendenti Atari, in modo da creare un effetto di passaparola fra gli avventori. Co-munque siano andate le cose, Bushnell decide di trasformare la Atari da semplice creatore di software a vero e proprio produttore di cabinati. Per allontanare i produttori che aveva già contattato per una dimostrazione del prodotto, si narra che disse semplicemente a Bally che la Midway non era più interessata e viceversa, dimostrando una scaltrezza che avrebbe fatto le fortune (e le sfortune) della ditta negli anni a venire. Nel 1974, per esempio, il più grande rivale di Bushnell sul mercato è la Kee Games, una piccola azienda fondata da alcuni fuorusciti dalla Atari. La rivali-tà è molto accesa e i contendenti non si risparmiano caustici commenti e mosse sleali. In realtà però la Kee Games è segretamente controllata dalla stessa Atari. Bushnell ha creato in casa un rivale in modo da poter saturare il mercato con le proprie macchine, ottenendo contratti con i principali distributori e al contempo con i concorrenti.

Che quello dei quarti di dollaro straripanti sia solo un mito è insom-ma più di una possibilità; Bushnell del resto non è un game designer brillante e innovativo, piuttosto un instancabile uomo d’affari pieno di risorse. Qualche anno dopo, nel 1976, Pong deve affrontare la causa legale per plagio dei brevetti di Baer, intentata da Sanders e dalla Ma-gnavox. Baer è un inventore che crede fermamente nel diritto d’auto-re, mentre Bushnell considera diverse sfumature di grigio, soprattutto quando non si tratta dei suoi prodotti. Nonostante il vero creatore di Pong, Alcorn, non abbia mai provato il gioco di tennis della Magnavox,

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lancio dell’Odyssey, a Burlingame (California). L’accusa dunque de-

concorrente. Per contenere la causa, data l’enorme differenza di risorse fra la neonata azienda e il colosso Magnavox, la Atari si accorda e paga

-tà intellettuale dei giochi registrati da Baer, ovvero Pong e cloni. Non è ancora dato sapere se di fatto Bushnell abbia copiato il lavoro di Baer, certo è che una mossa di questo tipo lo ha messo al riparo da ulteriori controversie e al contempo ha generato una barriera all’entrata consi-stente per tutti i futuri concorrenti.

I.5.2 L’ascesa di un’azienda «anomala»

dalla fondazione, caratterizzato da un sorprendente lassismo. Bushnell assume senza distinzioni detenuti in libertà vigilata e tossici, «bikers» (in America, motociclisti appartenenti a bande) e hippy. Uso di droghe, alcol, furti interni, lentezza nella produzione sono problemi noti, ma lo stesso Bushnell continua a preferire uno stile di vita e di lavoro diver-tente e brillante piuttosto che costrittivo e opprimente. Il successo di Pong del resto è enorme, ogni macchina guadagna circa 200 dollari alla settimana e non si intravedono nubi all’orizzonte. Le conseguenze di uno stile di lavoro tanto sregolato stanno tuttavia per manifestarsi. La lentezza con cui la Atari brevetta il suo sistema hardware originale per-mette a numerosissimi concorrenti di invadere il mercato con semplici

rende insanabili le differenze fra i due fondatori dell’azienda: Dabney, legato a uno stile di lavoro più rigido, viene licenziato.

Per far fronte al proliferare degli «sciacalli», intanto, Bushnell deci-de di provare la strada dell’innovazione, producendo nuovi titoli, come Track 10, Gotcha, Space Race, in modo da porsi come l’unica azienda in grado di rinnovare un ripetitivo listino composto prevalentemente da cloni di Pong. Il titolo più famoso prodotto in quel periodo è Breakout, opera di due giovani e brillanti dipendenti, Steve Jobs e Steve Wozniak, gli stessi che di lì a poco lasceranno l’azienda per fondare la Apple. Il concorrente più pericoloso è invece la stessa Midway, con cui la Atari non aveva trovato un accordo per la distribuzione qualche anno prima.

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la Midway inizia a distribuire sul mercato americano , creato -

troparte nipponica della Atari e avrebbe allo stesso modo contribuito alla crescita del mercato negli anni successivi. La stessa Atari aveva provato

-nendo per siglare un accordo con la Namco, altra realtà di primo piano, per la sola distribuzione in quel paese. L’anno successivo la Midway di-

Sea Wolf, il primo arcade dotato di controlli originali e la riproduzione di un perisco-pio da utilizzare per affondare navi e sommergibili nemici.

-

entrato a far parte della cultura e della realtà quotidiana a livello globale. Bushnell decide allora di provare ad aggredire anche il mercato dei tele-vision game, producendo la versione domestica di Pong, una macchina simile all’Odyssey, quantomeno come posizionamento sul mercato, ma molto più economica. La console Home Pong, in origine chiamata Dar-lene in onore di una dipendente particolarmente avvenente, ha il vantag-gio di non essere legata a una sola marca di apparecchi televisivi e può di conseguenza accedere a un mercato più ampio. Tuttavia la Atari mette a disposizione un solo gioco mentre l’Odyssey, per obsoleta che sia, ne fa girare ben dodici. Per la distribuzione è trovato nel 1976 un accordo con la Sears, che in cambio di un anno di esclusiva offre pubblicità gratuita nel suo seguitissimo catalogo. L’azienda richiede 150.000 esemplari per il lancio, costringendo la Atari ad allargare le sue capacità produttive at-traverso l’ingresso di investitori esterni. Quell’anno la Home Pong vin-ce la battaglia con la Magnavox, vendendo l’intera produzione contro le 100.000 console del concorrente.

È interessante sottolineare il fatto che le macchine di questa prima generazione non basano la propria architettura su un microprocessore attraverso cui far girare software differenti, ma su un sistema discreto di circuiti logici. Ogni gioco è in un certo senso legato alla meccanica dell’hardware ed è il chip montato sulla console a fare la differenza. Il timore di avere decine di console prodotte da diversi soggetti con montato lo stesso chip di Pong è palpabile e si realizza puntualmente poco dopo. Elencare tutte le diverse versioni è un compito troppo ar-duo; basti sapere che le principali alternative all’apparecchio Odyssey, l’unico esportato anche in Europa, e Home Pong sono, se non altro per l’importanza che le due aziende avrebbero rivestito negli anni succes-sivi, il COLECO Telstar e, solo in Giappone, il Nintendo Color TV Game.

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I.6 1977: il primo crollo del mercato videoludico negli Stati Uniti

Improvvisamente, cani e porci

J.C. Herz, Il popolo del joystick

La Connecticut Leather Company (COLECO) nel 1976 riesce a portare la sua console Telstar ai vertici. Dopo aver risolto un problema di in-terferenze radio generate dalla console con l’aiuto nientemeno che di Ralph Baer, nel 1976 la macchina viene lanciata conquistando il merca-to statunitense. Si sta tuttavia avvicinando il primo brusco stop, dopo un quinquennio di crescita costante. Da un lato la Magnavox e la Atari hanno la necessità di aggiornare i propri hardware (del resto cinque anni sono la durata media di una generazione e la prima non fa ecce-zione); dall’altro iniziano a emergere nuovi concorrenti, come la Radio Corporation of America (RCA) e la Fairchild Camera and Instruments. Questa grande mobilità produttiva arriva però con tempistiche mici-diali. Il Channel F della Fairchild inizia a essere distribuito nell’agosto del 1976, portando una vera e propria rivoluzione tecnologica: le car-tucce programmabili. La console ha tutte le caratteristiche delle mac-chine contemporanee: hardware all’avanguardia e parco titoli da cui scegliere in grado di allungarne la vita sul mercato in modo sensibile. Il pubblico, una volta intravista questa possibilità, non è più intenzionato a comprare console dedicate a singoli giochi. Non solo: nel 1977 il tasso

-cano dei videogame è talmente saturo che le vendite dell’Home Pong stanno

-spettano tempi duri. Dopo la presentazione l’anno precedente del cir-cuito integrato AY38500 della General Instruments, contenente ben sei variazioni di paddle game (cioè sul modello di Pong), i cloni sul mercato diventano davvero troppi, soprattutto per la scarsa disponi-bilità di chip. Il circolo vizioso conseguente è inarrestabile: troppi pro-duttori non riescono a fornire le macchine richieste ai rivenditori per mancanza di componenti. I rivenditori stessi smettono di acquistare le macchine, abbassandone in modo radicale i prezzi. Diversi piccoli pro-duttori decidono di vendere sottocosto e lo squilibrio economico risul-tante spazza via la maggior parte dei concorrenti, lasciando sul merca-to solo la Magnavox e la Atari, le uniche ditte in grado di sopravvivere a un biennio di perdite, la prima grazie alle solide radici nel mercato

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degli apparecchi televisivi, la seconda grazie al recupero della produ-

in costante evoluzione.9

I.7 L’impatto planetario di Space Invaders

Space Invaders dà una sensazione di tensione.Un piccolo errore può portare a gravi conseguenze

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Nel 1978 Space Invaders, il primo titolo a contribuire in modo evi-dente all’affermazione del videogioco a livello culturale, inizia a essere

successo tale da rendere introvabili le monete da 100 yen necessarie per giocare. Nell’ottobre dello stesso anno la Midway introduce il gioco negli Stati Uniti, dando il via alla cosiddetta età dell’oro delle sale arca-de a livello mondiale.

Durante questo periodo, che solitamente viene fatto coincidere con gli anni fra il 1978 e il 1986, gli introiti continuano a crescere, generan-do fenomeni di massa come i tornei di videogame11 e rappresentazioni

12 Il grande successo dei cabinati inol-tre sta oscurando quello delle console domestiche. Sia per potenza di

superiori agli apparecchi domestici e le sale giochi hanno anche una profonda ed evidente vocazione all’aggregazione sociale che ancora

golden age sarà un len-

delle console domestiche. La seconda metà degli anni Ottanta è, infatti, un periodo di recessione, a cui seguirà una solo parziale rinascita all’i-nizio degli anni Novanta, in seguito al grande successo di sparatutto a scorrimento e picchiaduro13 come Mortal Kombat o Street Fighter, oppure all’introduzione di interfacce elaborate (sedili, volanti, pedali,

9 In quegli anni, a partire da Hot Tip, iniziano ad apparire le prime macchine con punteggi memo-rizzabili, suoni e display.

10 Riportato in Bloom 1982: 21.11 Il primo torneo di videogiochi fu organizzato dalla Atari utilizzando Space Invaders. I partecipanti

furono oltre 10.000. Cfr. Kunkel – Katz 1982.12 Tron, di Steven Lisberger,

1982.13

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oggi ingombranti strutture sono visibili nelle sale giochi superstiti o in luoghi di aggregazione che le utilizzano come divertente diversivo [Day 1998]. Solo il Giappone pare avere mantenuto una grande propensione per le sale arcade, rinnovando continuamente l’offerta sia dal punto di vista dell’hardware che da quello del software, oltre a recuperare titoli vintage per far presa sui giocatori più esperti.

Ad avviare il boom delle sale arcade è come detto Space Invaders, opera di quello stesso Tomohiro Nishikado che aveva fatto le fortune della Namco negli Stati Uniti con -bilità al videogame, facendo nascere a tutti gli effetti una sottocultura giovanile, di cui gli stilizzati alieni vengono ancora oggi utilizzati come simboli. I mass media iniziano a interessarsene e i cabinati coin-op tor-nano a essere macchine incredibilmente redditizie. Il fatto che la rina-scita del mercato videoludico statunitense passi principalmente per un titolo d’importazione evidenzia le ragioni puramente creative alla base dello stallo precedente: in mancanza di nuovi titoli di successo il mer-cato non poteva più basarsi esclusivamente sulle variazioni di paddle game; era necessario innovare e rinfrescare il parco titoli a livello visivo e soprattutto tecnologico. Space Invaders ha fatto questo e non solo: da un lato propone un gameplay completamente nuovo, in cui il gioca-tore controlla una torretta laser che si sposta solo in orizzontale e spara

velocemente, qualcosa di molto diverso rispetto ai combattimenti uno contro uno o ai giochi sportivi a cui è abituato il pubblico; dall’altro introduce una colonna sonora continua, con quattro note basse dalla velocità crescente a ritmare l’invasione. Sono 360.000 i cabinati ven-duti sul solo territorio americano.

Fra il 1978 e il 1980, inoltre, successi come Space Wars della Cine-raster

scan,14 Lunar Lander, Super Breakout, Asteroids, Centipede, Battlezo-ne e Missile Command della Atari, Galaxian della Midway, il complica-tissimo Defender della Williams Electronics creano un vero e proprio fenomeno di massa. Anche in questa fase di rinascita negli Stati Uniti la rivalità principale è quella fra Atari e Midway. Nonostante l’ampio parco titoli della prima, la seconda può contare sull’inventiva dei de-signer della Namco, che si stanno dimostrando assolutamente senza eguali. Per la prima volta, accanto ai cloni dei titoli di maggior successo nascono veri e propri generi.

14 I due standard si spartirono equamente le macchine di maggior successo.

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I.7.1 Pac-Man

Un altro passaggio chiave si realizza l’anno dopo, nel 1979, quando proprio uno di questi designer, Toru Iwatani, decide di provare a creare un gioco dotato di presa sul pubblico femminile, privo di violenza e in-centrato sul concetto di taberu, in giapponese ‘mangiare’. Con l’aiuto di un gruppo di nove persone e ispirato da una pizza senza uno spicchio, o almeno così vuole la leggenda, crea Puck-Man, un gioco di esplorazione con protagonista un cerchio giallo che deve mangiare tutti i pallini bian-chi all’interno di un labirinto, fuggendo al contempo da quattro fanta-smini colorati. Preoccupata da cosa sarebbe potuto succedere se qualche vandalo avesse raschiato la P sui cabinati facendola diventare una F, la Namco decide di rinominare il nuovo prodotto Pac-Man. Il gioco sarà in grado di rivoluzionare il medium ancora più in profondità rispetto a Space Invaders, spingendo ancora oltre la sperimentazione sulle mecca-niche: dallo sparare si passa all’esplorazione di labirinti e dalla riduzione

vario modo «astratti». Pac-Man prosegue inoltre sulla strada della le-gittimazione culturale avviata dal predecessore, di cui batterà tra l’altro il record di vendite con 400.000 unità. Al gioco sono, infatti, dedicati giocattoli, canzoni pop, disegni animati e il marchio viene utilizzato a più riprese su prodotti commerciali di vario genere.

Nei tre anni successivi, seguendo l’esempio della Namco diverse so-

Nintendo, celebre produttrice di carte da gioco che si sta pian piano avvicinando all’intrattenimento elettronico. Nonostante un inizio sten-tato, con titoli scarsamente popolari negli Stati Uniti come Radar Sco-pe, Sheriff e Space Fever, la Nintendo riesce a spiccare il volo grazie a Donkey Kong, opera prima di uno dei più grandi creatori di videogio-chi di sempre, Shigeru Miyamoto.

Fra il 1981 e il 1983, altri grandi successi colpiscono il mercato USA: Qix Frogger della neonata Sega, Tempest della Atari, Ms. Pac-Man parte della General Computers, ovvero due studenti del MIT di Boston. In quegli stessi anni le cause fra produttori non riguardano più i brevetti

che la General Computers apportava liberamente ai suoi giochi) ma sono diventate vere e proprie battaglie per i diritti. La più celebre probabil-mente ha coinvolto la Universal Studios e proprio la Nintendo a proposi-to della somiglianza fra Donkey Kong e King Kong. L’azienda giapponese

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è riuscita a prevalere, dimostrando che la Universal non deteneva i diritti del personaggio, decaduti poiché ideato oltre quarant’anni prima, e ha posto le basi per un dominio decennale del mercato mondiale.

I.8 La rivoluzione delle cartucce

Quest’anno il maggiore successo nei negozi di giocattoli non sarà un giocattolo

Pubblicità dell’Atari VCS

Poco prima dello stallo del 1977, la Fairchild Camera and Instru-ments rilascia il Channel F, la prima console in grado di leggere delle cartucce su cui i giochi sono preprogrammati. Robert Noyce, futuro fondatore della Intel, crea un processore in grado di dedicarsi di volta in volta al software presente nelle «videocarts», liberando le macchine dalla costrizione dei chip installati al loro interno. Non solo, la console

il colore. Il Channel F non riesce a sopravvivere al crollo che di lì a poco investirà il mercato, ma ha il merito di introdurre un nuovo standard e di farlo percepire al pubblico come una necessità. Uno standard che si mantiene ancora oggi, attraverso l’evoluzione dalle cartucce al CD e poi al DVD e al Blu-ray, in grado di imprimere un impatto decisivo sulla cultura videoludica generando anche una nuova pratica, quella colle-zionistica, che diventerà importantissima negli anni a venire.

In punta di piedi insomma si entra nella seconda generazione e la Atari comprende subito la necessità di far evolvere le proprie macchi-ne. Home Pong non ha più mercato e Bushnell decide di concentrare gli sforzi aziendali sulla creazione di un nuovo chip proprietario, basato sul MOS Technologies 6502, più economico dei concorrenti ma egual-mente potente. Il risultato è «Stella», chiamato così non in onore della bella segretaria di turno ma della bicicletta turchese di Joe Decuir, uno degli ingegneri al lavoro sul progetto. Nasce così il Video Computer System (VCS), lanciato in Europa come Atari 2600. Per evitare di essere nuovamente plagiato dai rivali, Bushnell decide di provare a saturare il mercato, consapevole di possedere una macchina migliore e più econo-mica delle concorrenti che stavano allora avendo successo.

C’è un solo problema: il 1977 sta arrivando e con esso il disinteresse del pubblico. Bushnell dapprima pensa di quotare in borsa l’azienda per ottenere i capitali necessari alla produzione e distribuzione del 2600, poi sceglie una soluzione più rapida e redditizia, cedere la società a uno

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dei colossi dell’entertainment. La Warner Communication acquista la Atari per 28 milioni di dollari, con l’accordo di mantenere l’intero orga-nigramma aziendale. Forte del nuovo proprietario, la produzione della console inizia a pieno regime, con la consapevolezza che i veri guadagni arriveranno dalla vendita dei giochi, che al momento del lancio sono nove, e non da quella delle macchine. Per un breve periodo il rapporto

crisi del mercato, diventano ben presto insanabili. Il fondatore della Atari vorrebbe rapidamente creare un nuovo hardware, vendendo a prezzi ribassati tutti gli esemplari del 2600 rimasti, consapevole che i tempi di vita delle console sono estremamente brevi. Kassar, spalleg-giato dai vertici della Warner, è invece convinto di dover insistere sul-la vecchia console. La frattura porta nel 1978 all’allontanamento dello stesso Bushnell, che lascia la Atari ed è interdetto, come da contratto stipulato al momento della cessione dell’azienda, a qualunque tipo di

I.8.1 Il trasformismo della Atari

Nonostante queste profonde scissioni interne, che portano all’ab-

Alcorn, la Atari riesce a mantenere il controllo su una buona fetta del mercato post-crisi, dividendosi fra un comparto arcade e una consumer division dedicata al 2600 e al mercato domestico. Le due sezioni sono molto differenti per consuetudini lavorative: nella prima i designer agi-scono in squadra, collaborando alla creazione dei loro prodotti; nella seconda i singoli designer si occupano autonomamente dei propri tito-li. Warren Robinett, impiegato nella consumer division, ricorda: «Ogni titolo per il 2600 era realizzato interamente da una sola persona, il programmatore, che concepiva l’idea del gioco, ne scriveva il codice,

convertita a mano in esadecimale – e ne componeva la colonna sono-ra» [Agger 2009].15 Una posizione autoriale così forte è completamente nuova per il mondo dei videogame e ben presto i designer iniziano a sentirsi poco valorizzati dall’azienda, cosa mai accaduta con Bushnell, che raramente non riconosceva il lavoro altrui. Paradossalmente, an-

15 Robinett fu anche il creatore del primo Easter egg della storia dei videogame, una stanza segreta svincolata dal percorso di gioco standard del suo Adventure, accessibile solo a chi fosse stato in grado di trovarne la posizione e tutte le chiavi.

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che l’armonia della divisione arcade viene intaccata, portando i suoi membri ad accusare i nuovi dirigenti di favorire esclusivamente l’altra sezione. I designer ribelli sono ben consapevoli che più della metà degli introiti della Atari provengono dalla vendita dei software, opere creati-

che la mentalità imprenditoriale di Kassar, deciso a sfruttare al massi-mo il momento propizio, ha avuto anche degli effetti molto positivi: in quegli anni la Atari diventa, in assoluto, l’azienda con il maggior tasso di crescita degli interi Stati Uniti.

Nonostante questo, nuovi problemi emergono all’orizzonte: innanzi-tutto le nascenti case di produzione di software, intenzionate a produr-re titoli per il 2600 e a prendersi una fetta di quel mercato che stava sostenendo la supremazia della Atari, diventano particolarmente ag-guerrite. La Activision, fondata proprio da alcuni fuorusciti della Atari tra cui Alan Miller, è immediatamente citata in giudizio per impedire che essa produca programmi per l’Atari 2600. Nascono così gli svilup-

-da l’industria videoludica odierna. Nello stesso periodo la Magnavox e la COLECO rientrano in gioco con nuove console: l’Odyssey2 nel 1978 e il COLECOVision nel 1982, il cui brevissimo successo è tutto basato sull’e-sclusiva semestrale per la distribuzione della versione domestica di Donkey Kong.16 La ragione del prevalere della Atari è da cercare ancora una volta nel design giapponese. È il contratto di licenza che permette di distribuire la versione per console domestica di Space Invaders a dare la spinta decisiva al 2600 [Cohen 1984: 71-2]. Inizia una nuova fase, quella delle licenze dei giochi coin-op per console casalinghe. La Atari ne intuisce le potenzialità e, sfruttando il desiderio dei clienti di mettere le mani sul loro arcade preferito e di giocarci da casa senza do-ver spendere un quarto di dollaro a partita, riprende a vendere migliaia di 2600. Nel 1982, l’azienda cerca di replicare il successo preceden-te mettendo in commercio la versione domestica di Pac-Man, opera del designer Tod Frye, producendone a scatola chiusa dodici milioni di esemplari. Nonostante il gioco sia una versione davvero scadente dell’originale – a causa della limitata capacità di calcolo della console,

rimangono di nuovo le briciole, comunque molto consistenti, poiché il

16 Le altre macchine degne di nota della seconda generazione sono l’Intellivision della Mattel, uscito nel 1977 e dotato di 10 bit di potenza invece dei consueti 8, e il Vectrex della General Computer Electronics ( ) e Milton Bradley, uscito nel 1982.

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40 CONOSCERE I VIDEOGIOCHI

I.9 1983: Il secondo collasso

Be’, assicurai a Spielberg proventi per 25 milioni di dollari,a prescindere da quanto avremmo incassato noi.

Ray Kassar17

Nel 1983 arrivano titoli coin-op interessanti come Dragon’s Lair della Cinematronics, il primo disegno animato interattivo; il popolarissimo Q*Bert& Co. nel mercato dei videogiochi; Robotron 2084 della Williams Elec-tronics, il primo gioco controllato da un doppio joystick, uno per muo-vere il proprio personaggio, l’altro per mirare e sparare. Nonostante questo e la riconosciuta affermazione a livello mediatico e culturale, il mercato nordamericano, che funge da cartina di tornasole della salute

della seconda generazione delle console e con essa la crisi che porterà alla chiusura della maggior parte dei produttori di hardware nordame-ricani è iniziata. Il grande protagonista del crollo è proprio il colosso Atari. Kassar annuncia un inaspettato calo della crescita prevista per l’ultimo trimestre del 1982: dal consueto 50% si scenderà al 10-15% e, poco prima di fare l’annuncio, vende una larga fetta del suo pacchetto azionario della Warner Communications; oltre a questo, il nuovo pro-dotto hardware, l’Atari 5200, non sta avendo il successo previsto a cau-

Pac-Man rispetto ai reali possessori di 2600 realizzando un porting18 scadente del gioco, dall’altro c’è il problema di E.T.

E.T. L’extraterrestre (1982) è uno dei maggiori successi cinemato--

berg, con cui esisteva un contratto per la trasposizione videoludica del

un gioco impresentabile, sia dal punto di vista visivo che della gioca-bilità. La maggior parte dei cinque milioni di copie del gioco rimane così nei magazzini e viene successivamente seppellita nel deserto del New Mexico.19 Nel 1984 la Warner Communications vende l’azienda

17 Riferito in Kent 2001: 237.18 Con porting si intende la traduzione di un software in una versione adatta a una piattaforma di-

versa dall’originale. In questo caso si fa riferimento alla traduzione di Pac-Man dalla versione per cabinati a quella per cartucce dell’ Atari 2600.

19 I dubbi sulla veridicità di tale episodio sono rimasti e rimangono forti (cfr. Montfort – Bogost 2009) nonostante nell’aprile 2014 la discarica sia stata disseppellita grazie allo Xbox Enter-tainment Studio e alla produzione di un documentario sul tema, senza però che si siano trovati i

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mantenendo solo la divisione arcade, che pare immune alla crisi; il COLECO

Vectrex sparisce dal mercato; anche la Mattel rinuncia alla divisione hardware. Alla base di una crisi di questa portata non sembra esserci di nuovo l’incapacità delle aziende di rinnovare le proprie macchine, ma il maldestro tentativo di sfruttare al massimo la resa dei software, spremendo i designer con scadenze improbabili e pubblicando giochi

-tà i clienti hanno deciso di ignorare l’offerta. Troppi titoli, troppe mac-chine, troppe produzioni: il business dei videogame è di nuovo in crisi.

Nonostante la situazione americana, i mercati europeo e giapponese si mantengono invece abbastanza solidi. Il primo perché molto legato alla realtà dei personal computer e poco orientato alle console dedicate esclusivamente al gioco, il secondo perché costituito da aziende più so-

Oriente che si sposterà il cuore dell’industria videoludica, con aziende in costante crescita e in grado di interpretare con successo i segnali di un mercato diverso da ogni altro.

volumi di cartucce attesi (cfr. Claiborn 2014), anche se in effetti delle cartucce sono state trovate. C’è, infatti, chi sostiene che in quel luogo furono seppellite alcune cartucce Atari, ma insieme a numerosi altri materiali provenienti da una fabbrica della zona (cfr. Vendel – Goldberg 2012).

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I videogiochi, nonostante una storia assai breve – cominciata a livello commerciale nei primi anni Settanta del secolo scorso – sono oggi una delle forme di divertimento e di cultura popolare più lucrative e fra le più presenti nella vita quotidiana di centinaia di milioni di persone, non solo bambini e adolescenti ma anche una larghissima e sempre crescente porzione di giovani adulti e adulti.

In un mondo in cui la potenza mediale del videogioco è sempre più pervasiva, anche il discorso pubblico e quelli privati su questo

livello sociale. Da un lato la saggistica popolare e divulgativa

la sua vicenda storica e le sue dinamiche commerciali, i suoi pionieri e inventori, i personaggi e i titoli di maggior successo, la sua espansione in tanti luoghi e media diversi (sale giochi, casa, palmari e telefonini, internet e social network), le teorie psicologiche e sociologiche per interpretarne le caratteristiche

«viscerale» intrattenuta con essi dai videogiocatori.

Questo libro presenta pertanto le due facce del discorso sui

sul medium, ma anche una rassegna ragionata del dibattito

dei videogame, le loro implicazioni cognitive nei confronti degli utenti, la loro intrinseca natura di ludus

tunue.comeuro 24,00

9 788867 901302

ISBN 978-88-6790-130-2