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1 COMUNICAZIONE E CONFLITTI NELLA RELAZIONE ASSISTENZIALE E D'EQUIPE FINALITA’ DEL SEMINARIO Offrire ai partecipanti strumenti concreti di comunicazione per migliorare la propria efficacia comunicativa, relazionale e di leadership verso i propri colleghi e superiori e verso l’esterno. OBIETTIVI SPECIFICI Acquisire familiarità con gli strumenti più comuni che rendono la comunicazione efficace (ascolto attivo, tecnica delle domande , consapevolezza del linguaggio non verbale, toni di voce, gestione della tensione e dei conflitti) Migliorare la gestione della relazione assistenziale Migliorare la capacità di contatto e di rilevazione dei bisogni dei pazienti Stimolare il senso di iniziativa nel lavoro la disponibilità ad accettare e vivere positivamente i cambiamenti. Capire l’importanza della diffusione delle proprie informazioni ai colleghi. Migliorare il clima di gruppo dell’equipe Valutare la propria leadership e trovare gli strumenti comunicativi per rafforzarla. Prendere coscienza degli strumenti e delle tecniche per rendere le riunioni più efficaci. Migliorare la relazione con i superiori attraverso una comunicazione ascendente più efficace. Rendere più efficaci le riunioni di lavoro tramite una migliore pianificazione e conduzione. Migliorare la propria capacità di auto-percezione e di percezione delle dinamiche relazionali. DURATA: 10 ORE CREDITI EROGATI: 10 CREDITI ECM

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COMUNICAZIONE E CONFLITTI NELLA RELAZIONE ASSISTENZIALE E D'EQUIPE

FINALITA’ DEL SEMINARIO

Offrire ai partecipanti strumenti concreti di comunicazione per migliorare la propria efficacia comunicativa, relazionale e di leadership verso i propri colleghi e superiori e verso l’esterno.

OBIETTIVI SPECIFICI

• Acquisire familiarità con gli strumenti più comuni che rendono la comunicazione efficace (ascolto attivo, tecnica delle domande , consapevolezza del linguaggio non verbale, toni di voce, gestione della tensione e dei conflitti)

• Migliorare la gestione della relazione assistenziale • Migliorare la capacità di contatto e di rilevazione dei bisogni dei pazienti • Stimolare il senso di iniziativa nel lavoro la disponibilità ad accettare e vivere

positivamente i cambiamenti. • Capire l’importanza della diffusione delle proprie informazioni ai colleghi. • Migliorare il clima di gruppo dell’equipe • Valutare la propria leadership e trovare gli strumenti comunicativi per rafforzarla. • Prendere coscienza degli strumenti e delle tecniche per rendere le riunioni più

efficaci. • Migliorare la relazione con i superiori attraverso una comunicazione ascendente più

efficace. • Rendere più efficaci le riunioni di lavoro tramite una migliore pianificazione e

conduzione. • Migliorare la propria capacità di auto-percezione e di percezione delle dinamiche

relazionali.

DURATA: 10 ORE

CREDITI EROGATI: 10 CREDITI ECM

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Sulla comunicazione si è scritto e si scrive molto, a proposito o a sproposito, ma cos’è la comunicazione?

DEFINIZIONE:

”La comunicazione è la capacità di trasmettere un messaggio in modo tale che chi lo riceve si comporti nel modo che desideriamo". Esaminiamo attentamente questa definizione, perché l’esatta comprensione di questo meccanismo ci permetterà di migliorare enormemente le nostre capacità in questo campo.

1. Il fine della comunicazione è quello di produrre un comportamento.

2. La messa in atto di questo comportamento è quello che ci dirà se la nostra comunicazione è andata a buon fine o meno.

Già questa consapevolezza risolve una quantità enorme di situazioni. (Quante volte abbiamo cominciato a parlare senza sapere non tanto quello che volevamo dire, ma quello che volevamo ottenere?) pertanto

E’ FONDAMENTALE CHE IL COMPORTAMENTO CHE VOGLIAMO OTTENERE CI SIA NOTO PRIMA DI DARE INIZIO AL NOSTRO MESSAGGIO.

Tre settori nello studio della comunicazione umana:

1. sintassi (trasmissione dell’informazione) 2. semantica (si occupa del significato) 3. pragmatica (si occupa del comportamento) In questo testo i termini

comunicazione e comportamento sono usati come sinonimi

Viene presa in considerazione sia l’effetto della comunicazione sul ricevitore, che l’effetto che la reazione del ricevitore ha sul trasmettitore, poiché in questo lavoro si ritiene che i due effetti siano inscindibili.

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EMITTENTE:

chi produce un messaggio

CODICE:

sistema di riferimento in base al quale il messaggio viene prodotto

MESSAGGIO:

informazione trasmessa secondo le regole del codice

CONTESTO:

in cui il messaggio è inserito e a cui si riferisce

CANALE:

mezzo fisico-ambientale che rende possibile la trasmissione del messaggio

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RICEVENTE:

colui che riceve e interpreta il messaggio

Riguarda la relazione vis à vis in cui maggiormente si realizzano tutte le potenzialità e la ricchezza comunicativa. È passaggio di informazione “da……a…..”; È un’inferenza: offre indizi all’altro e raccoglie gli indizi dell’altro

Funzione e relazione

Funzione è un concetto matematico; con la comparsa graduale di un nuovo concetto di numero (ad es. negativo), si comprende che il numero non è solo espressione di grandezze concrete, ma astratte; sorge il concetto di variabile che ha valore solo in rapporto ad un’altra variabile (non rappresenta una grandezza intuitiva come il numero). La funzione è il rapporto tra le variabili.

Relazione (psicologia) è un concetto che può essere assimilato a quello di funzione (matematica). Da Aristotele in poi la mente umana è stata concepita come una monade di cui una persona si trovava più o meno dotata dalla nascita. Alla fine del secolo scorso cresce un interesse per i vari aspetti della mente umana (memoria, percezione, sensazioni..) e Ashby ha dimostrato come l’acquisizione di memoria sia in rapporto diretto con l’osservabilità di un sistema dato: un osservatore che è in possesso di tutta l’informazione necessaria non ha bisogno di riferirsi al passato, gli basta lo stato attuale del sistema per poterne spiegare il comportamento.

Esempio della partita di scacchi in cui si possono osservare (e capire) le posizioni, le mosse e le contromosse delle varie pedine in ogni istante, senza ricostruire la storia della partita. Il concetto di memoria è una reificazione (non è poi così oggettivo) di una percezione. La consapevolezza che l’uomo ha di se stesso è sostanzialmente consapevolezza delle funzioni, delle percezioni, delle relazioni in cui si trova implicato.

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A livello di relazione gli individui non comunicano su fatti esterni alla relazione, ma definiscono la relazione implicitamente se stessi (ecco come mi vedo; ecco come ti vedo; ecco come vedo che mi vedi; ecco come vedo che mi vedi che ti vedo…)

Informazione e retroazione

Freud introdusse la teoria psicodinamica nel comportamento umano: il comportamento è conseguenza di un’ipotizzata azione reciproca di forze intrapsichiche che seguono le leggi della fisica sulla conservazione e trasformazione dell’energia. La psicoanalisi trascura l’interdipendenza tra l’individuo ed il suo ambiente, lo scambio di informazione, la comunicazione: nei rapporti umani non c’è trasmissione di energia, ma comunicazione (es. del cane). Quindi l’interesse si sposta al campo dell’informazione. Non si considera il comportamento umano in termini lineari (causa-effetto) ma si introduce il concetto di retroazione (che può essere positiva o negativa).

Ridondanza

Esempio dell’omeostato di Ashby (isomorfismo): un congegno di quattro sistemi autoregolantisi ed interconnessi; in esso il movimento di ognuno influenza gli altri e a sua volta ciascuno reagisce attraverso gli altri; ha un numero elevatissimo di possibilità di adattamento a qualsiasi cambiamento (390.625 combinazioni), ma certi raggruppamenti di configurazioni diventano ripetitivi e più probabili di altri (non ricomincia ogni volta da zero). Tale procedimento si chiama processo stocastico: esso mostra ridondanza (o vincolo o modello, cioè probabilità di ripetitività, di scelta delle soluzioni già sperimentate). Il concetto di processo stocastico e ridondanza valgono anche nel sistema del comportamento umano. E’ possibile quindi leggere (non interpretare o spiegare) i modelli, le regole di ridondanza di taluni comportamenti di un ambiente (es. della partita di scacchi che può essere ‘letta’ – da chi non conosce le regole - come un modello complesso di ridondanze ).

Meta-comunicazione e concetto di calcolo

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Continuando l’analogia con il gioco degli scacchi anche nella comunicazione umana si hanno sequenze di ‘mosse’ rigidamente governate da regole ed è irrilevante che i comunicanti siano consapevoli delle regole; su tali regole però si può fare asserzione, si può cioè metacomunicare. Esiste quindi un calcolo della pragmatica della comunicazione umana le cui regole vengono osservate nella comunicazione efficace, violate in quella disturbata.

Conclusioni

a) Il concetto di scatola nera: la difficoltà della ricerca sulla mente umana consiste soprattutto nell’assenza di un punto archimedeo fuori della mente stessa. Psicologia e psichiatria riflettono se stesse ed ogni ipotesi tende ad autoconvalidarsi. Allora, come avviene per un hardware, è più corretto trascurare la struttura interna (funzione intrapsichica) ed osservare esclusivamente i rapporti di ingresso-uscita, cioè la comunicazione.

b) Consapevolezza e non consapevolezza: attribuire un significato ai messaggi della comunicazione è senza dubbio importante, ma impossibile poiché tale attribuzione dipende necessariamente dalla personale valutazione; pertanto il significato è indecidibile ed esula dai fini dello studio della comunicazione umana.

c) Presente e passato: nella nostra memoria del passato siamo strettamente legati alle mostre relazioni in corso; osservando quindi direttamente la comunicazione in atto, modelli qui ed ora, si possono identificare i modelli prevalenti di comunicazione sia dal punto di vista diagnostico, che per la terapia.

d) Causa ed effetto: la causa ha un’importanza secondaria, mentre s’impone l’effetto del comportamento come criterio estremamente rilevante nell’interazione (il perché? finale)

e) Circolarità dei modelli di comunicazione: impossibile individuare un rapporto di causa-effetto: è patologica la comunicazione di una famiglia perché uno dei membri è psicotico o un membro è psicotico perché la comunicazione è patologica?

f) Relatività delle nozioni di “normalità” e “anormalità”: la condizione del paziente non è statica (il malato), ma dinamica e potenzialmente variabile nel contesto (situazione patogena…)

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TENTATIVO DI FISSARE ALCUNI ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE

1° Assioma della comunicazione: “non si può non comunicare”.

L’impossibilità di non comunicare: non esiste il non-comportamento, quindi non esiste la non-comunicazione.

2° Assioma della comunicazione: ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto ed uno di relazione, di modo che il secondo qualifica il primo ed è quindi Metacomunicazione.

Contenuto = informazione; relazione = istruzioni o metainformazione

3° Assioma della comunicazione: la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione dei comunicanti

Da un osservatore esterno la comunicazione può essere considerata una sequenza ininterrotta di scambi: in essa la punteggiatura organizza gli eventi.

Comunicazione numerica e analogica:

L’uomo è il solo organismo che si conosca che utilizza moduli di comunicazione sia numerici (tutte le informazioni anche nella tradizione; sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia) che analogici (campo esclusivo della relazione; ha una sua semantica, ma non ha nessuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle relazioni)

L’interazione può essere complementare (basata sulla differenza – one-up e one-down) o simmetrica (basata sull’uguaglianza)

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La punteggiatura della sequenza di eventi

Se non si risolvono le discrepanze relative alla punteggiatura delle sequenze di comunicazione, l’interazione è un vicolo cieco che giunge a reciproche accuse. E’ gratuito supporre che l’altro abbia lo stesso grado di informazione del proprio o che debba trarre da questa informazione le stesse conclusioni. La comunicazione può diventare un circolo vizioso che si interrompe solo se la comunicazione diventa l’oggetto della comunicazione stessa cioè quando i comunicanti diventano in grado di metacomunicare, uscendo fuori dal circolo. Vi è una circolarità dei comportamenti per cui è impossibile stabilire quale è la causa e quale l’effetto (l’individuo crede di reagire a quegli atteggiamenti e non di provocarli); nella punteggiatura si può arrivare alla ‘profezia che si autodetermina’ (equivalente nella comunicazione è il ‘dare la cosa per scontata).

Errori nella “traduzione” del materiale analogico in numerico

Tutti i messaggi analogici sono invocazione di relazione e sono quindi proposte che riguardano le regole future della relazione: il ricevente deve attribuire a tali proposte il futuro valore di verità positivo o negativo. Questo processo è fonte di innumerevoli conflitti di relazione

Le patologie potenziale dell’interazione simmetrica e complementare

Escalation simmetrica: è il rischio sempre presente in una relazione simmetrica, il voler essere uguali. La forma limite dell’interazione simmetrica è caratterizzata da uno stato di guerra più o meno aperta o scisma.

a. Complementarietà rigida: le espressioni estreme delle relazioni complementari equivalgono a disconferme del Sé e dell’altro. (sadomasochismo)

L’importanza dei contenuti diminuisce quando emergono i modelli di comunicazione.

L’organizzazione dell’interazione umana

L’interazione come sistema

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L’interazione può essere considerata un:

- sistema = “ un insieme di oggetti e di relazioni tra gli oggetti ed i loro attributi”in cui gli oggetti sono componenti o parti del sistema (individui), gli attributi sono le proprietà degli oggetti (comportamenti) e le relazioni tengono insieme il sistema. L’aspetto importante non è il contenuto della comunicazione, ma il ‘comando’ (relazione).

- l’ambiente di un dato sistema è costituito dall’insieme di tutti gli oggetti che sono tali che un cambiamento nei loro attributi influenza il sistema e anche di quegli oggetti i cui attributi sono cambiati dal comportamento del sistema.

E’ comunque difficile definire quando un oggetto appartiene al sistema e quando all’ambiente. Ogni sistema può essere ulteriormente suddiviso in sottosistemi (i cui oggetti possono appartenere all’ambiente di un altro sottosistema).

La flessibilità dei concetti sistema-ambiente e sistema-sottosistema è dovuta al fatto che – come spiega la teoria dei sistemi - i sistemi organici (biologici, psicologici…) sono sistemi aperti, cioè scambiano materiali, energie o informazione col loro ambiente. Un organismo vivente o un corpo sociale non sono l’aggregazione di pari elementari o processi elementari, ma una gerarchia integrata di sottoinsiemi autonomi costituiti a loro volta da sottoinsiemi e così via. Quindi le unità funzionali ad ogni livello della gerarchia sono a due facce: agiscono come totalità quando sono rivolte verso il basso, come parti quando sono rivolte verso l’alto.

Le proprietà dei sistemi aperti

§ Totalità: un sistema non è un semplice composto di elementi indipendenti, ma ogni parte di un sistema è in rapporto tale con le parti che lo costituiscono che qualunque cambiamento in una parte causa un cambiamento in tutte le parti ed in tutto il sistema. Totalità non significa quindi – anzi è agli antipodi – sommatività. Si stabiliscono quindi dei corollari della totalità: non-sommatività: un sistema non può essere fatto coincidere con la somma delle sue parti (è necessario trascurare le parti per la Gestalt)

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§ Non-unilateralità: il concetto di totalità esclude l’esistenza di rapporti unilaterale; i rapporti sono sempre interazioni. A influenza B e suscita in lui una reazione che a sua volta influenza A…

§ Retroazione: ciò che tiene unito un sistema quindi non è la somma, né l’unilateralità , ma la retroazione, la correlazione circolare complessa. Retroazione e circolarità sono il modello causale appropriato per la teoria dei sistemi interattivi. La natura specifica di un processo di interazione è molto più interessante della sua origine e dei suoi risultati.

§ Equifinalità: in un sistema circolare e autoregolantesi i ‘risultati’ (modificazioni dello stato dopo un certo tempo) non sono determinati dalle condizioni iniziali, ma dalla natura del processo. Secondo il principio di equifinalità gli stessi risultati possono avere origini diverse perché ciò che è determinante è la natura dell’organizzazione, il processo, la modalità di comunicazione (premesse uguali possono dare risultati diversi e premesse diverse possono dare risultati uguali). (Cambia il modo di intendere l’eziologia della schizofrenia: è più importante domandarsi ‘come infligge il trauma chi lo infligge?’, poiché alla domanda ‘chi infligge il trauma?’ è già stato risposto). Nei sistemi aperti il sistema la propria migliore spiegazione.

Sistemi interattivi in corso

§ “Un sistema è stabile rispetto a certe sue variabili se tali variabili (relazioni, amicizie, gruppi vitali con storie…) tendono a restare entro limiti definiti”.

§ Concetto di limitazione: “In una sequenza di comunicazione, ogni scambio di messaggi restringe il numero delle possibili mosse successive”. Il contesto dunque può essere più meno limitante, ma in qualche misura determina sempre le situazioni contingenti.

§ Regole di relazione: in ogni interazione gli individui definiscono la propria relazione: la regola di una relazione è lo stabilizzarsi delle definizioni della relazione stessa (le famigli vanno viste come sistemi governati da regole; molti comportamenti possono essere inclusi in una singola espressione).

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La famiglia in quanto sistema: in essa valgono i concetti di

• Totalità: il comportamento di ogni individuo è in rapporto con il comportamento di tutti gli altri membri

• Non-sommatività: l’analisi di una famiglia non è la somma dell’analisi dei suoi individui; esistono delle caratteristiche che sono proprie del sistema.

• Retroazione e omeostasi: il sistema famiglia, come ogni sistema organico tende alla stabilità e tale stato è mantenuto da meccanismi di retroazione negativa.

• Calibrazione: è la messa a punto del sistema (equivale al concetto di regola) ed ha un effetto stabilizzatore; si ottiene con le

• Funzioni a gradino

LA COMUNICAZIONE PARADOSSALE

La natura del paradosso

Nella natura del paradosso c’è qualcosa che ha per tutti noi un’importanza pragmatica ed esistenziale.

Il paradosso è una contraddizione che deriva dalla deduzione corretta da premesse coerenti. E’ diverso da una semplice contraddizione

Tre tipi di paradosso:

1. Paradossi logico-matematici

Es.: “La classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse”.

2. Definizioni paradossali (paradossi semantici)

Es.: “Io sto mentendo”.

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“Ogni linguaggio ha una struttura della quale nulla può dirsi in quel linguaggio, ma vi può essere un altro linguaggio che tratti della struttura del primo linguaggio e possegga a sua volta una nuova struttura; una tale gerarchia di linguaggi può non avere alcun limite” (Wittgenstein).

Teoria dei livelli del linguaggio, linguaggio come oggetto.

Per i logici l’asserzione del mentitore è priva di significato; nel comportamento può avere effetti terribile, come una trappola, un ingabbiamento.

3. Paradossi pragmatici

1) Ingiunzioni

Il paradosso del barbiere quando questi è un soldato a cui viene ordinato di radere la barba a tutti coloro che non se la radono da soli e a nessun altro. Elementi essenziali di questa definizione paradossale:

a) Una forte relazione complementare (ufficiale e subordinato) b) Schema di relazione: viene data un’ingiunzione che deve essere obbedita, ma deve essere disobbedita per essere obbedita c) La persona che in questa relazione è one-down non è in grado di uscire fuori dallo schema del paradosso metacomunicando.

Se dal punto di vista logico non esiste un tale barbiere e tale ordine non ha senso, nella vita reale la posizione del barbiere è frequente e diventa quindi insostenibile! Non è possibile comportarsi in modo logico e coerente in un contesto illogico e incoerente (a meno che non si esca dal contesto commentandolo). Dove il paradosso contamina i rapporti umani compare la malattia.

2) La teoria del doppio legame

Quali sequenze di esperienza interpersonale possono provocare comportamenti schizofrenici in un paziente? “Lo schizofrenico deve vivere in un contesto in cui i suoi

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comportamenti non convenzionali risultano appropriati” (Bateson e altri, 1956); si crea cioè un doppio legame i cui elementi paradossali sono:

a) due o più persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e/o psicologica b) in tale contesto viene dato un messaggio che a) asserisce qualcosa, b) asserisce qualcosa sulla propria asserzione, c) queste due asserzioni si escludono a vicenda c) si impedisce al ricettore del messaggio di uscire dallo schema (o metacomunicando o chiudendosi in se stesso)

Il doppio legame ha qualità interattiva, non può essere unidirezionale; è un modello di interazione ben preciso, un circolo vizioso; non causa la schizofrenia, ma dove il doppio legame è il modello predominante di comunicazione si osserva che il comportamento dell’individuo disturbato soddisfa i criteri diagnostici della schizofrenia. Il doppio legame non è solo un’ingiunzione contraddittoria, ma paradossale: nella 1° è slava la scelta (seppur di un male minore), nella seconda fallisce il principio stesso della scelta, nulla è possibile e viene messa in moto una serie oscillante e autoperpetuantesi.

3) Le predizioni paradossali

Es. del prof. che annuncia un compito inatteso nella prossima settimana in un giorno qualunque tra lunedì e venerdì.

Elementi fondamentali:

a) annuncio che contiene una predizione nel linguaggio b) e contiene una predizione nel metalinguaggio che nega la predicibilità (cioè la

predizione – l’oggetto predetto – sarà impredicibile) c) le due predizioni si escludono a vicenda d) chi manda il messaggio può impedire a chi lo riceve di uscire dalla situazione creata dal suo annuncio

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Lo schizofrenico può essere sia nella posizione dello studente (intrappolato in quanto intelligente, preso nel dilemma logica-fiducia), che del direttore impegnato in messaggi di comunicazione che sono indicibili.

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IL PRIMO INTERLOCUTORE DI TE STESSO

SEI PROPRIO E SOLO TU!!!

Quindi, le informazioni devono essere chiare nelle nostra testa prima di essere comunicate, per comunicare con efficacia è necessario abituarsi ad ASCOLTARE SE STESSI.

Introduciamo il concetto di EFFICACIA COMUNICATIVA. Per far si che la nostra comunicazione sia efficace, bisogna chiarire a noi stesi e poi agli altri i nostri obiettivi:

1) stabiliamo l’obiettivo da raggiungere 2) mettiamo in atto la nostra strategia comunicativa 3) verifichiamo il risultato

Se siamo soddisfatti significa che il nostro modo di comunicare è stato efficace, se così non accade dobbiamo comprendere dove sia stato il nostro errore ed apportare i necessari correttivi.

ERRORI DI COMUNICAZIONE

Non sempre la nostra efficacia comunicativa è alta. Un messaggio può arrivare al destinatario in maniera distorta. Alcuni errori tipici dei processi comunicativi sono:

1) mancanza od assenza della necessaria motivazione reciproca all’ascolto 2) mancanza di chiarezza comunicativa circa i propri obiettivi e gli scopi del progetto

comunicativo 3) mancanza di informazioni fondamentali alla veicolazione del messaggio 4) presenza di preconcetti o di pregiudizi che divengono gabbie mentali, o premesse

erronee 5) messa in atto di valutazioni superficiali o frettolose 6) impermeabilità rispetto a nuove informazioni o nuovi elementi di conoscenza

Facciamo un primo semplice esercizio:

Elenca tre “cose” che non hai detto ma che avresti voluto dire:

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• sul lavoro

• in famiglia

• con gli amici

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Appunta le conseguenze e rifletti: se tu le avessi dette, sarebbe stato:

• meglio

• peggio

Perché?

___________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

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L’empatia

L’empatia è un concetto molto sfruttato per ciò che concerne il concetto di relazione assistenziale ma che implica a volte più un comportamento formale che sostanziale.

La definizione di empatia recita: la Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro. Con questo termine si suole rendere in italiano quello tedesco di Einfühlung.

In estetica l’empatia, indica un tipo di percezione vissuta antropomorficamente di fronte a oggetti: una colonna sottile che regge un grosso capitello può suscitare un senso di disagio, di squilibrio, di sforzo. Questi fenomeni sono stati studiati da T. Lipps(1903) come emozioni estetiche.

A partire dai primi anni 1990 la problematica della comprensione empatica (intesa come quella forma di immedesimazione negli stati psicologici dell’altro a cui sarebbe subordinata la spiegazione, o ‘comprensione’, del suo comportamento) è stata al centro di un significativo quanto vivace dibattito nella filosofia della psicologia e nella filosofia della mente (oggi rientranti nella scienza cognitiva). Fermo restando il riferimento ai modelli storici della comprensione empatica (il Verstehen di G. Simmel e W. Dilthey in Germania, il re-enactment di R.G. Collingwood in Gran Bretagna), il rinnovato dibattito ha preso le mosse da alcuni sviluppi della filosofia analitica del linguaggio e della mente, in particolare da una celebre tesi di W.V. Quine secondo la quale l’attribuzione dei cosiddetti atteggiamenti proposizionali o stati intenzionali (credenza, desiderio, speranza ecc.), attraverso i quali nella psicologia del senso comune normalmente spieghiamo il comportamento dei nostri simili secondo il classico modello mezzi-scopi, si basi essenzialmente su una simulazione di tipo empatico.

Tale simulazione empatica costituisce per Quine (Pursuit of truth, 1990) una modalità epistemica naturale con la quale correntemente e spesso inconsciamente attribuiamo credenze, desideri e percezioni. Utilizzata e sviluppata sin dai primi anni 1980, questa tesi è alla base della ripresa del concetto di simulazione empatica nella filosofia della mente.

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Il concetto di empatia, particolarmente importante nella prassi psicoterapeutica, ha trovato un’applicazione, negli ultimi due decenni del 20° sec., nell’ambito della cosiddetta psicologia del sé di H. Kohut. L’empatia diviene, in questo contesto, un elemento fondamentale della teoria della tecnica psicanalitica, mostrando in particolare la sua efficacia nella terapia della patologia narcisistica.

Secondo Kohut, è condizione naturale dello sviluppo il passaggio attraverso fasi narcisistiche, nelle quali il bambino si percepisce e si relaziona con il mondo in una forma onnipotente e ‘grandiosa’; queste fasi dovrebbero trovare un rispecchiamento empatico nelle figure di accudimento, pena un loro ripresentarsi in forma patologica nell’individuo adulto. È allora compito dell’analista, nella terapia di adulti che presentino questa patologia, operare con e. (ponendosi, cioè, in risonanza emotiva con le reali esigenze del paziente) nei confronti dei desideri infantili di rispecchiamento avanzati dal paziente, fornendo peraltro sostegni via via più evoluti in funzione di una trasformazione flessibile (e non di una sostanziale eliminazione, come sostenuto da altri teorici, per es., da O. Kernberg) dei tratti narcisistici della sua personalità

In psicologia per empatia (termine derivato dal greco ἐν, "in", e -πάθεια, dalla radice παθ-

del verbo πάσχω, "soffro", sul calco del tedesco Einfühlung), si intende la capacità di comprendere lo stato d'animo e la situazione emotiva di un'altra persona, in modo immediato e talvolta senza far ricorso alla comunicazione verbale. Il termine viene anche usato per indicare quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica.

L’ascolto

La maggior parte delle persone confonde il significato della parola “ascoltare”, con quello di “udire”: l’udito è un fatto fisico, mentre l’ascolto è un’azione intellettuale ed emotiva.

Esistono vari tipi di ascolto:

- Attivo, che porta ad una comunicazione più efficace.

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- Passivo, inefficiente e improduttivo, è quello che si può riscontrare quando si sentono delle parole che “entrano da un orecchio, ed escono dall’altro”.

- Selettivo, il tipo più comune, si riscontra quando si sente solo ciò che si vuole, quando cioè si filtra il messaggio.

- Riflessivo, che pone attenzione a tutto il messaggio.

Di questi tipi, l’attivo e il riflessivo caratterizzano un buon ascoltatore. Il problema sorge quando una persona filtra il messaggio. I filtri sono le modalità di reazione alle informazioni, variabili da persona a persona in quanto vengono acquisite durante la vita.

Ogni persona perciò filtra il messaggio attraverso le proprie tendenze, esperienze ed aspettative e reagisce di conseguenza. Ci sono vari tipi di filtri:

- -Immediati, che variano secondo la situazione.

- “A lungo termine”, costituiti da tendenze politiche, apporti religiosi, valori, ecc.

- Emotivi, connaturali al nostro modo di comportarci.

Per risolvere il problema dei filtri dobbiamo innanzitutto individuarli, allontanarci da essi per minimizzare l’influenza, e concentrarci per ascoltare con mente sempre più aperta. La maggior parte delle polemiche potrebbe essere evitata, se le persone utilizzassero l’ascolto attivo e riflessivo. In genere esse (polemiche) nascono perché uno, o entrambi i partecipanti non ascoltano con partecipazione. E allora l’ascolto non è più attivo (libero da conflitti), ma è polemico (con conflittualità potenziali). La differenza tra un ascoltatore attivo ed uno polemico, risiede nel fatto che mentre il primo (attivo) ascolta il contenuto, valuta la comunicazione non verbale, sorveglia i propri filtri, ascolta con partecipazione, l’altro (polemico) filtra il messaggio, e prima ancora di aver ricevuto l’intero messaggio, formula una conclusione, generalmente un rigetto.

Inoltre, reagisce istintivamente, non cerca di controllare i propri filtri…

Se entrambe le parti utilizzano l’ascolto attivo possono essere in disaccordo, ma riescono

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comunque a comunicare.

LE PAROLE SONO FONDAMENTALI.

LA CAPACITÀ PENETRATIVA E L’EFFICACIA DEL LINGUAGGIO SONO, PERÒ, STRETTAMENTE

COLLEGATE AI MESSAGGI ED AI COMPORTAMENTI CHE ACCOMPAGNANO LE PAROLE CHE

PROFFERIAMO.

Un’altra variabile importante nel rendere efficace una comunicazione è l’assertività, la capacità di sostenere ed affermare le proprie idee nel confronto con gli altri senza diventare prevaricanti.

Acquistare assertività può migliorare la comunicazione.

Possiamo distinguere 5 diverse aree dell’assertività:

1. autonomia emotiva: acquisire un migliore controllo delle proprie reazioni emotive 2. libertà espressiva: lavorare sul proprio grado di inibizione al fine di non limitare la

propria espressività 3. rispetto di sé: incrementare la capacità di mediare tra esigenze personali ed esigenze

sociali 4. auto ed etero apprezzamento: motivare se stessi e gli altri nel perseguimento dei

propri obiettivi di crescita e di sviluppo 5. immagine di sé: migliorare la propria autostima e il livello di sicurezza personale

Assertività si traduce : nell’essere consapevole del proprio comportamento non verbale (gestualità e posture), nel riconoscere il significato del linguaggio mimico (espressività facciale), nel prestare attenzione al contatto oculare (sguardo), nel saper modulare il tono ed il volume della voce (prosodia), nel saper valutare i tempi e modi della scansione dialogica.

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Facciamo un altro semplice esercizio:

Troverai indicati di seguito alcuni concetti raggruppati a coppie, indica volta per volta quale dei due è più importante per te ai fini della comunicazione efficace.

Pubblico Privato Pubblico

Atto formale Atto linguistico atto linguistico

Risultato Ricavo risultato

Litigio Localizzazione localizzazione

Agente strumentale Aggressività agente strumentale

Norme Noncuranza norme

Tipo di comunicazione Tipo di intrattenimento tipo di comunicazione

Eroismo Emozioni emozioni

La soluzione è il cosiddetto schema del P.A.R.L.A.N.T.E.

Pubblico: qual è il pubblico cui ti rivolgi? Quali caratteristiche ha e che cosa si aspetta da te?

Atto linguistico: quali sono i contenuti che devi comunicare?

Risultato: quale risultato ti prefiggi?

Localizzazione: quali sono i luoghi del tuo comunicare? Quali caratteristiche hanno?

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Agente strumentale: che cosa utilizzi per fare arrivare i tuoi messaggi? Quali sono i mezzi della tua comunicazione?

Norme: quali regole presiedono i sistemi di comunicazione che ti coinvolgono?

Tipo di comunicazione: quali sono i generi di comunicazione in cui sei coinvolto?

Emozioni: cosa provi quando comunichi?

Tenere presente questo schema permette di essere maggiormente efficaci e più incisivi

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Simmetrica Dinamicità Squil ibrio Instabil ità Tensione Escalation

Complementare Staticità Equil ibrio Stabil ità Controllo Rigidità

Dalla scuola di Palo Alto, l’esperienza della pragmatica della comunicazione, puntualizza quanto l’aspetto di relazione insito nella comunicazione sia necessario qualora si affrontino compiti di cura e di assistenza. Gli assiomi della pragmatica, delineati da Watzlawick, vogliono evidenziare il fatto che non si può non comunicare, il nostro silenzio, la nostra resistenza, la capacità empatica vs l’indifferenza sono delle variabili che, comunque, al di là del nostro volontario intento comunicativo dicono di noi, del nostro stato d’animo e del teatro nel quale si mette in scena la comunicazione.

Gli scambi comunicativi possono essere simmetrici o complementari a seconda che si basino su una relazione d’uguaglianza o di differenza: nel primo caso i comportamenti dei soggetti tendono a rispecchiarsi, a trovare le motivazioni l’uno nell’altro; nel secondo caso il comportamento dell’uno completa quello dell’altro differenziandosi notevolmente.

In situazioni di simmetria si tende comunque a definire il rapporto come tra uguali ciascuno tende a non essere da meno dell’altro.

Il rapporto è complementare quanto è impostato sulla differenza reciproca: uno è “quello che sta sopra” (one-up), che dirige, consiglia, critica; l’altro “quello che sta sotto” (one-down); è colui che chiede, obbedisce, accetta.

La complementarietà, tipica nei rapporti madre-bambino, insegnante-alunno, capo ufficio-sottoposto, diventa rigida quando colui che gestisce il rapporto soffoca la personalità dell’altro tenendolo costantemente in una condizione di dipendenza emotiva o intellettuale.

Se pensiamo alla relazione di cura, essa è caratterizzata da una posizione asimmetrica nella quale il curante riceve una delega, quasi magica, da parte del paziente, che gli chiede di assisterlo e curarlo, rimettendo ogni responsabilità ed assumendo, spesso, una posizione di

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passività. Questo scambio è caratterizzato a livello di comunicazione dalla necessità di un ascolto di tipo attivo e da una comunicazione di tipo non verbale caratterizzata da elementi di accoglienza del bisogno e da un contenimento dell’emotività del paziente da parte della figura di assistenza ed accudimento.

La “reverie” è, infatti, un comportamento relazionale nel quale vi è accudimento attivo, ascolto partecipato, osservazione e la capacità di manifestare le proprie emozioni, al fine di favorire l’emersione e la manifestazione dell’espressività dell’altro.

Se il ricevente non accetta la definizione data dall’altro, perché ne rifiuta l’autorità, mette in atto una risposta che vorrebbe ripristinare la situazione di simmetria. Si instaura così una lotta di potere in cui la violenza verbale o fisica, può essere usata come manovra per tentare di definire la relazione nel modo in cui il ruolo rivestito da il diritto di definirla.

Nessuna risorsa è più efficace per coinvolgere congiuntamente le persone.

Le parole costituiscono il più importante strumento per portare parlante e ascoltatore nello stesso centro d’attenzione e all’interno dello stesso schema interpretativo. Ma pur essendo il mezzo migliore le parole non sono l’unico mezzo e non si può neppure dire che l’organizzazione sociale sia caratterizzata da una natura prettamente verbale. Non a caso, il termine comunicazione indica tutti gli innumerevoli modi con cui gli esseri umani entrano in contatto tra di loro, non solo quindi con le parole, la stampa, la pittura, la musica, ma anche le grida, i sussurri, i cenni del capo, i segni con le mani, le varie posture assunte dal corpo, il tipo di abiti indossati. La comunicazione umana è un insieme complesso di simboli e segni che ci servono a interpretare il nostro ruolo sociale secondo un copione che noi stessi scriviamo.

QUI E ORA

Che cosa significa? Significa essere presenti, seguire con il cervello e non esserci solo fisicamente.

Occorre tutta la disponibilità intellettiva quando intraprendiamo un’avventura,

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un’esperienza...

Vale a dire essere consapevoli di essere qui perché abbiamo scelto di esserci e pensiamo solo a ciò che stiamo facendo in questo momento perché se pensiamo che stiamo perdendo tempo ci perdiamo l’opportunità di conoscere cose nuove.

Spesso l’uomo pensa che non vede l’ora che l’interlocutore abbia smesso di parlare per dire la sua; quando ci troviamo con una persona che sembra che ci sia e non c’è proviamo dispiacere. Perciò è bene dare la disponibilità a mettersi in gioco, a mettersi in discussione cioè a sperimentare nuove situazioni per superare le abitudini.

L’abitudine spinge l’uomo a mettere In moto il suo sistema extrapiramidale e diventa quello delle tre o quattro azioni contemporaneamente. L’abitudine è estremamente rassicurante ed è sempre quella che ci fa percorrere sempre la solita via ma porta alla monotonia, alla noia, alla morte.

Chi fa così è l’uomo vecchio (qualunque sia la sua età anagrafica), ripetitivo, reso sicuro dai medesimi meccanismi e gesti. L’uomo altero, vecchio è quello che ha perso la capacità di ascoltare.

Un uomo nasce, muore e viene sepolto; gli autonomi sono già morti. Morte e sepoltura devono coincidere altrimenti siamo morti prima di morire.

Per essere vivi, crescere e progredire occorre elasticità; cioè avere la capacità di adattarsi alle situazioni. Perciò essere qui e ore significa avere la capacità di concentrarsi in ciò che facciamo nel momento in cui lo facciamo. E’ chiaro che oggi per essere qui abbiamo rinunciato ad altri impegni e, dal momento che ormai abbiamo scelto di esserci, è bene esserci a 360°° altrimenti perdiamo due occasioni, questa e quella che abbiamo lasciato. La stessa disponibilità che occorre qui e ora è necessaria anche nel momento in cui mettete piede al lavoro e nelle relazioni in genere.

Può accadere a volte che le persone si dimentichino di vivere qui e ora cioè il PRESENTE, l’unica cosa sulla quale sì può agire e che si può modificare. Quanta sicurezza sembrano dare la routine quotidiana, le stesse persone, lo stesso ambiente, ma quale grande finzione

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possono diventare se non si riesce a viverli in modo autentico e presente ogni volta!

Per essere qui e ora occorre isolare una parte di noi dal resto: MONDRAGON dice che l’uomo gioca tutta la sua vita in quattro ruoli:

AMICIZIA - LAVORO - AMORE - FAMIGLIA

a cui si dedica in modo uguale a livello qualitativo. Se riusciamo a separare ogni 25% siamo in grado di essere sempre concentrati qui e ora. E’ molto difficile farlo ma se ci riusciamo facciamo qualità nella vita. Se i comportamenti sono ben separati la barca non va a fondo, per usare una metafora, se va a fondo un settore; se, invece, i settori sono confusi allora la barca va a fondo, cioè va in crisi la persona che è costantemente sotto STRESS.

Lo Stress in senso medico si definisce come l'insieme degli stimoli percepiti da un organismo, come sollecitazioni, sia cognitive (coscienti), inconsci, ambientali, fisiologiche, biologiche, psichiche o relazionali.

Questi stimoli si chiamano stressori e sono da intendere come autori di processi di adattamento dell'organismo a condizioni variabili inerenti l'ambiente e l'organismo stesso.

Ogni sollecitazione (stressore percepito coscientemente o meno) chiama immediatamente delle reazioni regolative: emotive, neurologiche, locomotorie, ormonali e immunologiche; in organismi sviluppati essi sono ulteriormente corretti da funzioni cognitive.

Lo stress non è quindi una frusta dell'umanità moderna ma una condicio sine qua non di tutti gli organismi viventi.

Le sollecitazioni sono una condizione di vita, ma sia nel caso in cui gli stimolatori siano presenti per eccesso che per difetto possono creare disturbi fisici e mentali.

Nota:

• Stress per eccesso o difetto può essere causa di malattia e generare le patologie più diverse,

• Malattie e i correlati dolori sono causa di notevole stress.

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• Malattia <=> Stress formano quindi un circolo vizioso difficile da decifrare in termini di causa ed effetto e che causa notevoli grattacapi terapeutici.

Stimoli e reazioni umane

Lo stress patologico, definito DISTRESS provoca dei disturbi metabolici, viscerali, comportamentali dell'organismo provocato dall'azione di più svariati agenti.

Tra questi agenti (agenti stressanti) si possono riscontrare:

• traumi • shock chirurgici • freddo

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• malattie infettive • emozioni • sforzi fisici • radiazioni • intossicazioni.

Lo stress costituisce l'elemento principale della sindrome generale di adattamento formulata da Hans Selye. Questa capovolgeva alcuni punti di vista della medicina del tempo: l'attenzione era diretta sulla risposta dell'organismo, di conseguenza si poteva cominciare a pensare ad una cura in grado di modificare e di contenere questa risposta.

Il termine deriva da una parole inglese che significa "forza", "violenza", mentre nel linguaggio medico indica la "somma di tutte le forze che agiscono contro una resistenza". Il termine, in italiano, è simile al significato di "tensione".

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Forme di stress

Lo stress è normalmente classificato secondo il suo potenziale patogeno in:

• normale, gestibile: eustress • continuo, a bassa intensità: distress cronico • accidentale, esistenziale, momentaneo: stress traumatico • per alcuni autori anche la noia (deficienza di stimoli) può essere paragonata allo

stress: sia perché fa degenerare i meccanismi di controllo sia perché causa meccanismi intrapsichici stressanti

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Altre classificazioni usano i nomi dei programmi di gestione per caratterizzare il tipo di stress come:

• elementare organico (p.e. malattie, incidenti) • di auto-conservazione • di specie-riproduzione • socio-relazionale

Si distinguono pure le mosse sequenziali che servono ad affrontare uno stimolo potenzialmente stressante in:

• preparazione • attivazione • attuazione della reazione

Programmi biologici per la regolazione di stress umano

Secondo gli scienziati del ramo ci sono dei "programmi" che in linea di massima controllano la reazione a stimoli stressanti nelle seguenti circostanze:

• Auto - conservanti: come la preparazione, l'attivazione e l'esecuzione di attacco, difesa, inerzia, fuga, ...

• Specie - riproduttivi: per puerperio, adolescenza, sessualità, concepimento, gravidanza, parto, allattamento, cure parentali

• Socio - relazionali: perdita, attaccamento, lutto, emarginazione

Dopo la percezione di uno stimolo, dagli organi dei sensi specifici o aspecifici, i segnali nervosi raggiungono il talamo e il sistema limbico dove vengono integrati e creano delle emozioni. In base a questo, si inseriscono dei programmi che attivano i sistemi:

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• locomotore, • neurovegetativo, • neuroendocrino, • endocrino, • e tramite gli ultimi tre anche il sistema immunitario

I sistemi agiscono poi in modo concertato sugli organi esecutivi con lo scopo di neutralizzare lo stimolo stressante.

I programmi sono predisposti geneticamente.

Le funzioni cognitive umane però, danno loro delle sfumature individualizzate tramite meccanismi di impronte, socializzazione, automatismi esercitati e inibizioni specifiche.

Reazione umana a stimoli stressanti

Uno stimolo stressante raggiunge tramite gli organi di senso specifici e aspecifici il centro nervoso di integrazione e smistamento generale, il talamo, per poi essere elaborato nel sistema limbico sotto aspetti emotivi.

Un altro segnale "locomotore" torna simultaneamente

• tramite gli archi di riflesso spinali e/o

• il cervelletto

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nell'organo locomotore adatto per eseguire immediatamente un comportamento che evita o respinge lo stimolo.

Nel frattempo:

• il talamo come integratore generale secerne neurotrasmettitori centrali (poi anche periferici) che sembrano adatti ad affrontare la situazione

• il sistema limbico, valutate le emozioni connesse con lo stimolo (anche basate sull'esperienza) mette in moto:

• la regolazione neurovegetativa: il ramo simpatico per stimoli di "allerta" o il ramo parasimpatico per stimoli di ristoro

• la regolazione neuroendocrina (ormonale) tramite la cascata ippotalamo - ipofisi - ghiandole endocrine. Secondo il caso tiroide, paratiroide, corteccia surrenale, midollo surrenale, isole del pancreas, timo, gonadi (utero, tube, testicoli, ...) e altre.

• e corregge le prime mosse del talamo.

Tutti questi molteplici segnali vengono coordinati e portano a un comportamento "di pulsione istintiva" con le preparazioni metaboliche e locomotorie adatte. In caso ideale, dopo un certo tempo, l'evento stressante grazie a tutti questi impegni è neutralizzato e il ciclo è terminato. Si passa al ristoro fino al prossimo evento stressante. Questo meccanismo é presente in tutti i mammiferi.

Come esseri umani in una società complessa e regolata, abbiamo inoltre bisogno di un sistema cognitivo più o meno sviluppato che riesce:

• a promuovere o a inibire secondo il caso certe mosse pulsive, • a sviluppare tattiche e strategie per affrontare stimoli stressanti

• conflittuali tra di loro o • non neutralizzabili

senza grossi danni fisici e/o mentali.

Il sistema cognitivo è determinato e viene formato tramite:

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• fattori genetici, • la socializzazione (nei primi vent'anni di vita) • impronte traumatiche (fisiche e psichiche), gratificazioni e frustrazioni (per

determinate mosse) durante questo tempo e di seguito.

Fisiopatologia del distress cronico

Come esseri umani non abbiamo molta scelta di reazione cognitiva sullo stress:

• Possiamo reagire smisuratamente, con tutte le forze emotive, verso ogni stressore minore . Questo a lungo va a scapito:

o delle riserve fisiologiche incorrendo nel rischio di malattie somatiche e/o disturbi mentali come salutismo, ipocondria, ...

o delle riserve mentali con conseguente isterismo, logorrea e/o il rischio di disturbi psichici paranoici.

• Possiamo evitare e/o sfuggire sistematicamente a situazioni emozionali rischiose. o Questo permette sì una vita con poche sollecitazioni, ma abbassa man mano

l'efficacia dei regolatori fisiologici e o impoverisce notevolmente le funzioni emotive.

Ambedue restringono notevolmente il campo di tolleranza agli stressori. In caso di rilevanti stressori ineluttabili la situazione diventa critica perché:

• c'è il rischio di cadere in panico e in stati di lungo periodo di disorientamento • oppure, se riusciamo a reagire con impassibilità (inibendo le correlate emozioni) c'è

il rischio di incappare in serie malattie psichiche.

Possiamo tentare di correggere il tiro di volta in volta in maniera che i margini di tolleranza rimangano intatti e l'intensità media, proprio media. È e rimane un tentativo, perché ci possono sempre toccare degli eventi più grandi di noi.

Lo stress è un meccanismo biologico che mette l'organismo in allerta. In quanto tale è esistenziale (come p. e. il dolore). Gli stressori possono essere organici (dolore, rumore, puzza, …), psichici (ansia, preoccupazioni, …) o sociali (dipendenza, repressione, …). Il

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grafico sottostante raggruppa risposte fisiche, psichiche e sociali a degli stressori. Un altro effetto dei meccanismi endocrini (tramite l’asse dell’aldosterone) è la produzione di proteine immuno - suppressori. Questo serve a concentrare tutte le forze sulla prevista azione. Se l’azione non avvviene e se lo stato di allerta persiste, il sistema immunitario viene notevolmente indebolito. Una volta a riposo (in vacanza) si presenteranno tutti malanni che il sistema immunitario finalmente riesce ad affrontare.

Se lo stress supera una certa durata di tempo, il fatto non permette più all'organismo di ricuperare. Si chiama allora distress. Con il tempo diventa cronico e malattia (Sindrome di adattamento).

È sofisticato distinguere lo stress psicologico dallo stress somatico. Infine ogni distress cronico coinvolge disturbi fisici, mentali e sociali.

Il distress cronico e probabilmente anche dei traumi causano anzitutto un'amplificazione rilevante dei fattori a rischio per pressoché tutte le altre malattie degenerative.

Grossarth-Maticek ha dimostrato questo fatto in un esteso studio epidemiologico riguardo le malattie:

• cardiocircolatorie: ipertensione, infarto cardiaco, ... • digestive e metaboliche: diabete II, sindrome metabolico, ulcere gastriche e

duodenali, ... • respiratorie: tumori polmonari, ...

La continua sovrastimolazione dei sistemi neurovegetativi e ormonali tiene attivato continuamente le funzioni di allerta e disattivati le funzioni di ristoro. Questo fa esaurire con il tempo gli uni e degenerare gli altri. Il grafico di fianco (Distress) riporta un esempio di Grossarth-Maticek riguardante tumori polmonari. Altre patologie dimostrano qualitativamente simili correlazioni.

Il nostro organismo resiste a lungo a rilevanti stressori: di solito troviamo delle compensazioni emotive e locomotorie.

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Se invece la situazione si aggrava, diversi sistemi e organi degenerano e si ammalano sia per mancato uso sia per abuso (amplificazione di altre malattie).

In questo stadio non si fa tanto caso agli stressori (quelli del lavoro precedente sono sostituiti da quelli della malattia stessa).

Individui dalla costituzione molto robusta superano o non cadono invece in questa fase , finché i regolatori cedono e mettono fuori uso il normale funzionamento dell’ l'organismo.

Le nostre nonne questo stato lo chiamavano "esaurimento nervoso", Selye parlava di sindrome di adattamento (oggi si usa in aeronautica spaziale), i medici e psichiatri di oggi l'hanno nominato Burning out e Cronique fatigue syndrome.

La deviazione endocrina è poi responsabile per diversi disagi e rischi tipici dello stress, come p.es. l'impotenza, la frigidità, ipercolesterolemia e in stadi progrediti per il sindrome metabolico.

In qualunque modo lo si voglia chiamare, si tratta di uno stato di alto pericolo esistenziale per di più "inguaribile", perché non si riesce a "riparare" sistemi biologici trasandati con un po’ di medicina e un paio di consigli a buon mercato.

Prossemica e mimica facciale

La distanza fra i corpi

Tutti gli animali vivono in una sorta di bolla virtuale che rappresenta la loro intimità e che ha il raggio della distanza di sicurezza, cioè quella che consente di difendersi da un attacco o di iniziare una fuga. Negli uomini, essa è di circa 60cm., cioè la distanza del braccio teso.

La “bolla” è un dato di natura, mentre la sua dimensione e il suo valore di intimità sono dati di cultura e quindi variano: l'infrazione alle regole “prossemiche”, cioè alla

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grammatica che regola la distanza interpersonale, può generare una escalation, cioè far interpretare come aggressivi e invasivi, quindi degni di una reazione adeguata, dei movimenti di avvicinamento che non hanno questo significato nella cultura di chi li ha compiuti.

• Distanza intima - (0-46 cm). La zona intima è la più vicina al nostro corpo (madre figlio, coppia); in essa si verificano diversi fenomeni emozionali, per cui possono accedervi soltanto persone con le quali si sia stabilito un rapporto di intimità. Viene percepito come aggressore chiunque invade tale spazio senza consenso.

E’, quindi, molto importante, nel rispetto dell’altro, cercare di non violare la sua zona intima. È una distanza che implica la percezione non solo del messaggio comunicativo ma anche delle sensazioni emotive che si trasmettono.

• Distanza amicale/personale – (46-120 cm). Caratterizza le relazioni tra conoscenti che si sentono a proprio agio. Alla zona personale possono accedere familiari, amici, colleghi e tutte quelle persone con le quali di solito si hanno rapporti di affabilità. Propria della confidenzialità, consente di padroneggiare l’incontro con l’altro rispettando i propri spazi vitali (distanza intima) concedendo e concedendosi all’altro in uno scambio dialogico. Questa distanza ci permette di essere maggiormente obiettivi e meno invischiati come accade nella relazione intima. Tale zona non può essere invasa senza aver prima verificato la disponibilità dell’altro perché l’invasione

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arreca disagio o fastidio a chi la subisce. Il disagio aumenta quando l’invasione diventa più grave. Alcune persone di status sociale superiore non gradiscono che il proprio spazio personale (scrivania o altro) venga invaso con parti del corpo od oggetti altrui.

• Distanza sociale – (1,2 - 3,0 metri). Normalmente, è quello spazio riservato ai contatti sociali meno profondi, più convenzionali e formali. In questa zona non si parla di problemi intimi ma di lavoro; non ci si confida, ma si offre consulenza, si trattano affari.

• distanza pubblica – (oltre i 3,0 metri). Riguarda le pubbliche relazioni, incontri di lavoro, seminari, cerimonie, conferenze e spettacoli… Tale distanza è regolata, di solito, da precisi protocolli (la distanza che separa l’insegnante dalla classe, il manager dei dipendenti, l’oratore dal pubblico). Spesso sancisce il potere di un individuo sugli altri, è di tipo verticale, crea una distanza. E’ mediata dallo sguardo che comunque rimane diretto dall’alto verso il basso(paziente-medico…). La zona pubblica, come le altre zone, va sempre rispettata a meno che non si stabilisca un coinvolgimento di tipo diverso.

Vediamo qui di seguito come vengono interpretate nelle varie culture le diverse maniere di avvicinarsi e di porsi in presenza di un altro o di altri.

Forme di contatto

in Italia altrove

Contatto frontale

la sfera dell'intimità è data dalla distanza di un braccio teso

Culture della costa europea del Mediterraneo: idem, chi si avvicina troppo invade il campo dell'altro, mettendolo a disagio e dandogli la sensazione di essere aggredito

Nel Mediterraneo arabo: la distanza si riduce, chi parla tocca spesso

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l'interlocutore sul petto o sul braccio

Culture europee non mediterranee e americane: i due interlocutori restano a distanza di un doppio braccio

In Giappone e, a Mosca: lo spazio personale è molto ridotto e quindi il contatto è obbligato e non si dice mai "permesso?" o "scusi!"

Contatto laterale

Soprattutto al Nord, è escluso l'eccesso di contatto fra uomini, visto come esibizione di omosessualità o ubriachezza

Molte Culture Mediterranee: anche i maschi si prendono a braccetto tra di loro nei paesi arabi: i maschi si prendono anche per mano

Nel resto d'Europa: come in Italia zone rurali dell'Oriente sopravvive l'abitudine di prendersi per mano tra persone dello stesso sesso

In Giappone: prendersi a braccetto, camminare molto vicini, a contatto di spalla, hanno una connotazione sessuale

In Turchia e in altre zone di cerniera tra Europa ed Asia: mettere la mano sulla spalla di uno straniero significa “Caro ospite, lascia che ti guidi”

Bacio

Due baci sulle guance tra donne o tra donna e uomo sono sempre ammessi, tra uomini solo in casi eccezionali (ad es.:

In Giappone: un bacio in pubblico, anche tra padre e figlio, è escluso categoricamente In Turchia ed in altre culture medio-

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condoglianze) orientali: il bacio è d'obbligo anche tra giovani maschi

Spazio personale nel luogo di lavoro

Il luogo chiuso indica maggior prestigio ma anche maggior rispetto degli altri; il visitatore deve bussare ma spesso non attende la risposta “avanti”

I giapponesi: preferiscono, anche ad alti livelli gerarchici, gli spazi aperti in cui esibire il proprio ruolo

I nordici: interpretano lo spazio aperto come una mancanza di rispetto, “Me ne frego di disturbarti”

In Germania o negli Stati Uniti: il visitatore comunica rispetto per il territorio altrui tenendo la mano appoggiata allo stipite, ma i tedeschi di solito tengono le porte chiuse, mentre gli statunitensi aperte

L'espressione del volto

Esprimere emozioni, sensazioni, giudizi, pensieri con la mimica facciale è una cosa "ovvia" nell'Europa mediterranea, in Russia e in alcune aree degli Stati Uniti; ma in Europa settentrionale ci si attende che queste espressioni siano abbastanza controllate, mentre in Oriente esse sono poco gradite, tanto che si educano i bambini fin da piccoli ad una certa imperscrutabilità, alla riservatezza riguardo i propri sentimenti.

In alcune culture, come quella turca, tale controllo è richiesto soprattutto alle donne, che devono essere impassibili.

L'Italiano spesso esprime le proprie impressioni e sensazioni più con il viso che con le parole, attraverso una mimica facciale molto articolata. Frequentemente, infatti, facendo il resoconto del dialogo avuto con una persona ci troviamo a dire: "E poi ha fatto una faccia, come a dire…".

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Per noi è quindi del tutto usuale lasciar trasparire in questo modo il nostro pensiero, convinti che ciò sia indice di sincerità. Non funziona sempre così presso gli altri popoli, come ad esempio i Giapponesi, la cui rigida maschera facciale è una vera e propria necessità sociale. Difficile per loro quindi non solo interpretare i nostri segnali ma anche capirne la necessità, visto che esistono le parole per comunicare meglio e in maniera meno suscettibile di fraintendimenti la stessa cosa.

Il contatto oculare si presta allo stesso tipo di fraintendimento: per quasi tutte le culture il fissare la persona che sta parlando è segno di attenzione e interesse per quello che sta dicendo; gli orientali, invece, esprimono la propria concentrazione abbassando gli occhi o addirittura chiudendoli, in una sorta di meditazione.

Altre culture, come ad esempio quella tedesca, si avvalgono della mimica, ma con meno frequenza e enfasi, e danno quindi l'impressione di essere più "freddi", difficilmente infatti è possibile reperire le loro emozioni dallo sguardo o dalla piega della bocca.

Infine, un cenno particolare va fatto allo "sbuffare" tipico dei francesi, che spesso gonfiano le guance e lasciano uscire rumorosamente l'aria per esprimere l'irritazione.

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Emozione

L’emozione è un processo interiore suscitato da un evento-stimolo rilevante per gli interessi dell’individuo.

La presenza di un’emozione si accompagna a esperienze soggettive (sentimenti), cambiamenti fisiologici (risposte periferiche regolate dal sistema nervoso autonomo, reazioni ormonali ed elettrocorticali), comportamenti ‘espressivi’ (postura e movimenti del corpo, emissioni vocali).

In risposta alle emozioni si verificano modifiche fisiologiche, che sono adattive in quanto permettono di mobilizzare le energie in maniera rapida e di far fronte a una situazione di emergenza. Queste modifiche di breve durata fanno parte delle reazioni di allarme presenti in tutte le situazioni di stress: tuttavia, se gli stress sono di lunga durata, alla reazione di allarme segue una fase di mantenimento e infine di esaurimento. Alcune modifiche fisiologiche che si verificano durante la fase di eccitazione delle e. possono essere misurate e costituiscono un indice di alcune e.: per es., è possibile registrare le variazioni della pressione arteriosa o del ritmo cardiaco e correlarle con gli effetti di alcuni stimoli emotivi.

Diverse teorie tentano di dare una spiegazione dell’ emozioni privilegiando i correlati fisiologici che si verificano nel corso delle emozioni o le modifiche che si verificano a livello del sistema nervoso.

Secondo la teoria proposta da W. James e da C.G. Lange, l’emozione è determinata a livello cosciente dalla percezione delle risposte dell’organismo agli stimoli che causano la paura, la rabbia, la tristezza o la gioia (per es., in seguito a uno stimolo terrificante, si verifica una reazione di fuga e le sensazioni somatiche relative alla corsa, insieme con le sensazioni delle risposte viscerali indotte dal sistema autonomo, determinano il senso di paura).

Secondo la teoria di W.B. Cannon, l’emozione si verifica a livello cerebrale e non viscerale: le emozioni si verificherebbero a livello dei circuiti del paleoencefalo, che attiverebbero le funzioni corticali e viscerali in un secondo tempo.

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Le teorie cognitiviste dell’emozioni, in particolare quelle proposte da S. Schachter, R.S. Lazarus e N. Frijda, sostengono che le emozioni sarebbero soltanto in parte basate sulle modifiche indotte dall’attivazione del sistema simpatico: in gran parte sarebbero invece legate a meccanismi cognitivi, cioè alla interpretazione di una situazione particolare elaborata dall’individuo.

Le teorie cognitiviste propongono un approccio secondo cui le diverse emozioni possono essere differenziate tra di loro in base al profilo emergente dalla combinazione di alcune dimensioni valutative dell’evento da cui ha origine l’ emozioni (come la novità, la piacevolezza o la controllabilità).

Secondo un altro punto di vista, viene proposta una differenziazione categoriale delle emozioni che sono viste come stati discreti, universali e, in definitiva, innati.

Esisterebbe, cioè, un numero relativamente ristretto di emozioni (P. Ekman, W.V. Friesen e P. Ellsworth): la rabbia, il disgusto, la paura, la tristezza, la felicità e la sorpresa, ben demarcate e tali da non poter essere confuse.

Ekman ha indicato alcune specifiche caratteristiche delle emozioni di base: distinti antecedenti ed espressioni universali; diversità negli indici fisiologici; attivazione spontanea; rapida insorgenza; breve durata; valutabilità automatica. In questa ottica le emozioni sono generate da un processo incessante di valutazione degli stimoli, che avviene attraverso una sequenza di controlli (checks).

Ciascun controllo produce a sua volta cambiamenti sincronizzati nei vari sottosistemi che definiscono le reazioni emozionali.

I vari stati emotivi corrispondono pertanto a differenti patterns di cambiamenti, sincronizzati nel tempo e virtualmente infiniti, ma ciò non esclude che possano esservi alcuni patterns più frequenti di altri, in quanto costituiscono la risposta a situazioni ricorrenti nel corso dell’adattamento.

L’emozione rappresenta un comportamento di risposta profondamente legato alle motivazioni, che si manifesta a tre diversi livelli:

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- Psicologico - Comportamentale - Fisiologico

Il cuore che pulsa, le mani sudate, il respiro affannato, il tremore degli arti che accompagna, ad esempio, sensazioni di intensa paura, sono correlati fisiologici molto evidenti dell'emozione.

Ma...quali sono le motivazioni del comportamento umano? Che cos'è l'emozione? Quante e quali sono le emozioni?

L’insieme degli eventi che si succedono tra la comparsa dello stimolo scatenante l’attivazione dei tre sistemi di risposta

(SENSAZIONE SOGGETTIVA - COMPORTAMENTO - VARIAZIONI FISIOLOGICHE)

Motivazioni

Comunemente si pensa di dedurre le motivazioni dal comportamento; in realtà lo stesso comportamento può essere causato da motivazioni diverse.

Uno studente può passare tre ore a studiare per interesse per la materia, per compiacere un genitore o per primeggiare sui compagni e sentirsi importante.

Ci sono infatti vari tipi di disaccordo tra attività e obiettivo:

- lo stesso obiettivo può essere raggiunto con diversi comportamenti - differenti obiettivi possono essere raggiunti con lo stesso comportamento - un comportamento può essere strumentale al raggiungimento di differenti obiettivi

Per meglio definire le motivazioni profonde del comportamento umano sono state sviluppate molte teorie, citiamo le più importanti: la teoria psicoanalitica, la teoria comportamentistica e la teoria cognitiva.

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Secondo la teoria psicoanalitica di Freud le pulsioni fondamentali sono regolate dal principio di vita (EROS) e dal principio di morte (TANATHOS).

La teoria comportamentista sottolinea l'importanza della relazione stimolo-risposta e dell'apprendimento nello sviluppo del comportamento.

La teoria cognitiva può essere definita come la teoria della scelta preferenziale; cioè la decisione di impegnarsi in una certa attività piuttosto che in altre ed il grado di partecipazione si determinano sulla base di considerazioni di carattere cognitivo.

Che cos’è l’emozione?

Sebbene l’emozione si realizzi all’interno della complessa relazione tra l’individuo e l’ambiente, è utile, per chiarirne gli aspetti, considerarla come indotta da una specifica condizione stimolo.

In altre parole, l’emozione è un esempio di comportamento rispondente, comportamento cioè dove può essere individuato uno stimolo scatenante, legato alle motivazioni profonde.

L’emozione può essere definita come quella complessa catena di eventi compresa tra la comparsa dello stimolo scatenante (INPUT) e l’esecuzione del comportamento rispondente (OUTPUT).

Tre sono i diversi livelli o sistemi di risposta attraverso i quali si manifesta l’emozione:

Il primo sistema, detto psicologico, comprende i resoconti verbali relativi all’esperienza soggettiva, come ad esempio: “ho provato una intensa sensazione di rabbia quando ......”.

Il secondo sistema, denominato comportamentale, riguarda invece le manifestazioni motorie dell’emozione, come ad esempio il comportamento di evitamento, di avvicinamento, di attacco e la fuga ecc., e le modificazioni dell’atteggiamento posturale e dell’espressione facciale.

Infine, vi è il livello fisiologico, prevalentemente rappresentato delle modificazioni fisiche: ad esempio negli effettori innervati dal sistema nervoso autonomo, quindi alterazioni della

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frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, dell'irrorazione vascolare facciale (l’arrossire), l’aumento della sudorazione delle mani, o le modificazione del ritmo respiratorio. Tutte queste variazioni sono connesse con, e anche indotte da, modificazioni di tipo endocrino, per esempio del sistema ipofisi-corticosurrenale (ACTH e cortisolo) o della midollare del surrene (adrenalina e noradrenalina).

Nessuno di questi tre sistemi (psicologico, comportamentale e fisiologico) è prioritario rispetto agli altri, ma piuttosto ognuno risulta strettamente connesso agli altri in una globale risposta emozionale.

I tre sistemi cioè interagiscono tra loro pur essendo parzialmente indipendenti. Concludendo, l’emozione risulta essere un “insieme di risposte”.

Quante e quali sono le emozioni?

Possiamo ipotizzare che la moltitudine delle esperienze emotive sia spiegabile mediante una decina di emozioni fondamentali o primarie. Plutchik (1970, 1980) ha suggerito un modello efficace (parzialmente verificato sul piano empirico per la classificazione delle espressioni facciali).

Tre sono le fondamentali dimensioni rappresentate in questo modello:

intensità, polarità e somiglianza.

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Il cerchio rappresenta la somiglianza e la polarità delle otto emozioni primarie.

L’intensità può variare su un asse ortogonale al cerchio, per esempio la paura aumentando può divenire terrore, diminuendo può divenire apprensione.

Il modello sembra essere in grado di spiegare la maggior parte delle emozioni umane, ciascuna delle quali può essere considerata come una combinazione di queste emozioni primarie.

Il valore “adattivo” delle emozioni

In misura maggiore o minore, tutti noi proviamo emozioni e sperimentiamo quanto i nostri pensieri e comportamenti siano da esse influenzati.

Del resto le emozioni svolgono una funzione molto importante per l'individuo e hanno un valore evolutivo per la specie in quanto sono in grado di trasmettere rapidamente un contenuto semplice ma di grande valore adattivo.

Pensiamo ad esempio alle cosiddette emozioni fondamentali quali felicità, tristezza, paura, rabbia, disgusto. Queste ultime sono attivate da categorie di individui o di oggetti che possiedono un alto significato per l'individuo e la specie:

in questo senso, felicità e tristezza sono le tipiche emozioni connesse alla presenza o alla perdita delle figure di attaccamento, quali ad esempio le figure genitoriali, il partner, i figli, i compagni o gli amici; al contrario la paura e la rabbia sono evocate da concorrenti, da

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nemici o da eventi nel territorio; infine il disgusto è collegato con il cibo e segnala la presenza di sostanze dannose (D'Urso, 1990).

Allo stesso modo anche le emozioni complesse, quali ad esempio l'imbarazzo, la vergogna, il senso di colpa, l'invidia, la gelosia, il disprezzo, hanno un loro valore adattivo. Infatti tali emozioni, essendo strettamente connesse al modo di percepire se stessi e il proprio modo di relazionarsi con l'ambiente esterno, consentono all'individuo di modulare al meglio le sue relazioni sociali.

Funzione delle emozioni

Le indagini svolte negli ultimi decenni del 20° sec. sono andate via via rafforzando la concezione che vede le e. come risposte adattive dell’organismo alle sollecitazioni ambientali. Le e., come ha osservato lo psicologo K. Scherer, consentono una dissociazione tra stimoli e risposte che rende la risposta dell’organismo più lenta ma più varia e flessibile. I maggiori vantaggi derivanti da questa dissociazione sono rappresentati dal fatto che si interpone una qualche latenza tra evento-stimolo e risposta, pur rendendo comunque possibile preparare abbastanza rapidamente una risposta. Le funzioni riconosciute alle e. sono: a) la capacità di determinare i cambiamenti fisiologici necessari per sostenere le risposte adattive dell’organismo;b) la preparazione all’azione (Scherer parla di tendenze all’azione programmate filogeneticamente); c) la possibilità di regolare le relazioni interpersonali, comunicando i propri piani e le proprie intenzioni attraverso l’espressione. Gli studiosi di ispirazione cognitivista sottolineano la capacità delle e. di modulare l’attività razionale, per es., interrompendo l’esecuzione di piani in corso riorientandoli sulla base di nuove priorità. In questa prospettiva, K. Oatley e P.N. Johnson-Laird hanno ipotizzato, negli anni 1990, e. differenziate in rapporto a scopi specifici, e hanno considerato le e. come segnali automatizzati in grado di modificare rapidamente l’individuo, rendendolo pronto a reagire adattivamente alle diverse situazioni ambientali.

Valore sociale delle emozioni

Per spiegare le peculiarità delle diverse culture nel modo di esteriorizzare le e., P. Ekman e W.V. Friesen hanno introdotto il concetto di display rules. Nella loro concezione, alla base

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delle e. discrete vi sono programmi neuromotori innati che fanno sì che le espressioni delle diverse e. siano le stesse nelle diverse culture; dal momento, però, che è possibile un certo grado di controllo volontario su di esse, le e. possono essere variamente modulate (intensificate o inibite, neutralizzate o mascherate) secondo regole prescritte culturalmente. In definitiva, per questi studiosi, le variazioni tra culture non sono sostanziali, ma si limitano a differenze nell’intensità o nel controllo dell’espressione e, forse, nell’esperienza soggettiva.

Una posizione radicalmente opposta a quella dei sostenitori delle e. di base è espressa dai cosiddetti sociocostruzionisti, per i quali le e. non vanno intese come entità biologicamente determinate, ma come costruzioni sociali. In questa prospettiva, R. Harré ha sostenuto che le e. possono essere comprese solo in rapporto all’ordine culturale. B. Rimé, con le sue ricerche degli anni 1990 sulla condivisione sociale delle e., ha inoltre mostrato che le e. non sono fenomeni intraindividuali di breve durata: possono mantenersi a lungo nella memoria dei singoli individui e anche a livello sociale, attraverso la condivisione dei ricordi emotivi. Le e. sono spesso associate a brusche violazioni delle aspettative e delle credenze dell’individuo. Comportano frequentemente una perturbazione dell’equilibrio anche nelle relazioni interpersonali, sollecitando una comunicazione finalizzata al ristabilimento dei rapporti interrotti. Per questi motivi, la frequente riattivazione di ricordi legati alle e. non avviene soltanto in forma intraindividuale, ma soprattutto in forma interpersonale. Altri studiosi, come J.W. Pennebaker, sviluppando una linea di ricerca simile, hanno mostrato gli effetti della condivisione sociale delle e. sulla sofferenza psichica e biologica dell’individuo.

L’idea che le e. possano essere considerate costruzioni sociali emerge anche da molte indagini antropologiche recenti che evidenziano inoltre la valenza sociale e la dimensione pubblica delle stesse. M. Rosaldo ha definito le e. «pensieri iscritti nel corpo» e ha potuto verificare, durante le indagini sul campo presso i cacciatori e orticoltori Ilongot delle Filippine, come esse abbiano una forte valenza comunicativa comprensibili solo all’interno di uno specifico contesto culturale. Per C. Lutz e L. Abu-Lughod le e. rappresentano dispositivi culturali che danno forma a discorsi sociali localmente determinati dai quali emergono teorie locali sulle e. e concetti specifici di emozione.

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DINAMICHE DI GRUPPO

PICCOLO GRUPPO: alla base di questa denominazione non è la dimensione del gruppo, ma l’adozione di una logica dualistica rispetto a quella unitaria che considera il gruppo dal punto di vista della sua dinamica interna. La logica dualistica, oltre alla figura dell’appartenenza ad un gruppo, non prescinde dalla contemporanea e necessaria disappartenenza a tutto il non-gruppo. “Quanto più io mi sento di appartenere ad un gruppo – scrive Spaltro - tanto meno sono sensibile ai fatti esterni al gruppo stesso. Ciò almeno nella generalità dei casi. I processi di socializzazione possono infatti essere intesi come rivolti al gruppo, cioè come aumento di consapevolezza e di investimento libidico nei confronti del gruppo, ma anche come denegazione e disinvestimento libidico nei confronti del non-gruppo. Ritengo che al tradizionale filone dell’analisi della dinamica di gruppo, occorre affiancare l’analisi dei risvolti storici di questa dinamica, cioè l’analisi dei non-gruppi. Per questo occorre occuparsi davvero dei piccoli gruppi e non per dimensioni ma per logica duale.

Nel piccolo gruppo si matura un livello di sicurezza e un controllo della dinamica della colpa le cui forme costituiranno il metro con cui l’individuo appartenente al gruppo tenderà a esprimere i suoi giudizi sul non-gruppo.

Gruppo di appartenenza e gruppo di riferimento. Il primo è il gruppo a cui l’individuo appartiene e alle cui regole conforma il proprio comportamento, il secondo rappresenta un parametro comparativo. per confrontare i propri comportamenti e le proprie realizzazioni, e normativo quale fonte di valori e di modelli con cui identificarsi. Queste due forme di gruppo, che possono anche coincidere, contribuiscono a controllare e a guidare il comportamento del singolo, influenzandone le aspettative e di conseguenza il grado di soddisfazione e di insoddisfazione.

Gruppo interno e gruppo esterno. Il primo è quello in cui una persona è inserita e si identifica, il secondo, che non è il non-gruppo, è un gruppo a cui l’individuo non appartiene e verso il quale può nutrire sentimenti di avversione, di disapprovazione o di timore tali da indurlo ad adottare tattiche di evitamento

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Gruppo naturale e gruppo sperimentale. Il primo è costituito dal gruppo in cui un individuo nasce, come la famiglia, o si trova, come i compagni di gioco, il secondo è un gruppo che si costituisce in vista di uno scopo, di una realizzazione o di uno specifico intervento.

Gruppo formale e gruppo informale. Il primo è regolato da una precisa strutturazione delle relazioni interne e delle finalità da perseguire, il secondo da interazioni non organizzate che dipendono da una circostanza contingente.

DINAMICA DI GRUPPO. — L’espressione è stata introdotta da K. Lewin e utilizzata dalla psicologia sociale per indicare le relazioni dinamiche che si osservano all’interno di un gruppo e che ne determinano il comportamento e l’evoluzione. Lewin, estendendo la concezione gestaltica dal settore della percezione alla psicologia sociale, interpretò il comportamento del gruppo come espressione della situazione globale di campo determinata dai campi psicologici dei singoli membri, dai canali di comunicazione, dai sottogruppi. Lo studio della dinamica di gruppo, pur non avendo a tutt’oggi raggiunto una concezione sistematica dei meccanismi di interazione, ha messo in evidenza una serie di caratteri generali comuni ad ogni gruppo fra cui i principali sono:

Appartenenza. Sensazione di partecipare e di essere ben accettato da un gruppo secondo modalità che differiscono dalla dipendenza per un maggior grado di scelta. di intimità e di reciprocità. All’appartenenza si perviene attraverso a) il contatto fra i vari membri del gruppo (quanto più è frequente e intenso, tanto maggiore è lo scambio relazionale e il sentimento di vicinanza), b) l’identificazione di ogni componente con le norme, i valori e gli atteggiamenti del gruppo da cui ogni singolo trae un rafforzamento della propria identità, c) l’omogeneità che attutisce le differenze soggettive degli individui accentuando i caratteri comuni del comportamento, del modo di pensare e dell’immagine esteriore. Per effetto ditale assimilazione, i membri del gruppo si designano generalmente con il pronome «noi».

Interdipendenza. L’appartenenza determina una connotazione di interdipendenza dinamica in grado di modificare progressivamente le motivazioni, gli atteggiamenti, i vissuti e i comportamenti di ciascun membro per cui si constata che: a) la decisione di

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gruppo modifica il comportamento di ciascun individuo più della modificazione indotta dall’opera di persuasione individuale anche da parte di una persona particolarmente prestigiosa, b) il gruppo costituisce un sistema di riferimento normativo per cui ciascun membro è portato a giudicare il comportamento altrui in relazione alle regole, più o meno esplicite, presenti nel gruppo. e) la produttività del gruppo è notevolmente superiore alla somma delle produttività dei singoli individui che lo compongono.

Coesione. Legame che tiene insieme i componenti di un gruppo. Il tasso di coesione agisce come rinforzo per i singoli membri nel raggiungimento degli obiettivi che il gruppo si propone. Numerosi sono i fattori che entrano in gioco nel determinare la coesione; tra questi le dimensioni del gruppo, l’ubicazione, l’esistenza di elementi simili nel lavoro svolto. il flusso, la posizione o il prestigio del lavoro. La maggior o minor coesione del gruppo decide il grado di normatività che il gruppo esercita nei confronti dei singoli membri. Questo è particolarmente evidente nella coesione difensiva , a) tipica, ad esempio, dei gruppi di lavoro in contrasto con gli obiettivi dell’amministrazione, e nella coesione narcisistica dove si assiste ad uno spostamento della propria identità e autostima dall’Io individuale all’Io di gruppo. Infine, più i gruppi sono minoritari nel contesto sociale in cui si trovano a operare, maggiore è la coesione interna. La coesione è inversamente proporzionale all’individuazione talché ad una diminuzione di coesione corrisponde un aumento di individuazione. Una combinazione tra coesione e individuazione è nell’accettazione da parte del gruppo del cosiddetto «leader informale» le cui idee vengono fatte proprie dall’intero gruppo. L’instaurarsi di stretti contatti fra i componenti del gruppo determina l’allentamento dei rapporti con gli estranei al gruppo con formazioni autostereotipe ed eterostereotipe riferite rispettivamente all’immagine che il gruppo si costruisce e all’immagine che riferisce agli estranei al gruppo. La coesione viene favorita dalle pratiche di isolamento, come la segregazione degli ordini religiosi, o dalla proiezione dell’aggressività verso l’esterno, come dice S. Freud: «E sempre possibile riunire un numero anche rilevante di uomini che si amino l’un l’altro fin tanto che ne restino altri per le manifestazioni di aggressività» (1929, p. 601-602).

Polarizzazione. Si verifica quando le divergenze all’interno del gruppo non possono più venir eliminate, per cui si formano due sottogruppi la cui riunificazione risulta improbabile

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in quanto i meccanismi di aggressività, un tempo proiettati all’esterno, trovano all’interno del gruppo il loro campo di espressione.

Differenziazione dei ruoli. Si attua in modo spontaneo o prestabilito a seconda del tipo di gruppo. K. D. Benne e P. Sheats hanno individuato: a) ruoli conformi ai compiti del gruppo come il coordinatore, il promotore, b) ruoli relativi alla coesione sociale del gruppo come il mediatore o il gregario, e) ruoli finalizzati al mantenimento delle esigenze individuali all’interno del gruppo. Ogni soggetto può assumere differenti ruoli nell’ambito di gruppi differenti o nello stesso gruppo in tempi diversi. La ripartizione dei ruoli, anche quella relativa alle attrazioni e repulsioni affettive tra i componenti, è rilevabile mediante il metodo sociometrico ideato da J. L. Moreno, che individua e riproduce in grafico le preferenze che ogni membro del gruppo manifesta nei confronti degli altri in base alle sue risposte a determinate domande.

Istituzione del leader. Costituisce il passo decisivo nella differenziazione dei ruoli e dipende dalle caratteristiche e dagli scopi del gruppo, nonché dalle interazioni presenti al suo interno. Di solito il gruppo riconosce il ruolo di guida in base a due scale indipendenti di valori: quella relativa alle capacità tecniche di coordinazione e quella relativa alla capacità di essere benvoluti. Siccome raramente le due capacità sono impersonate da un unico individuo. spesso viene a costituirsi un tipo di reggenza a due simile al doppio re, come il capo tribù e lo stregone nelle società antiche o primitive, dove un capo riscuote benevolenza e popolarità, mentre l’altro raccoglie in sé doti di efficienza e di organizzazione. In base a uno studio sugli effetti di differenti stili di leadership sui membri del gruppo, K. Lewin rileva che: a) la leadership autoritaria determina una forte dipendenza dal leader, aggressività e competizione fra i membri, insoddisfazione da parte degli individui verso le attività del gruppo, buon rendimento nel lavoro; b) la leadership democratica determina scarsa dipendenza e scarsa aggressività, notevole quantità di proposte, soddisfazione per le attività del gruppo e rendimento quantitativo modesto, ma superiore qualitativamente; e) la leadership permissiva genera scarsa dipendenza, aggressività fra i membri. elevato numero di proposte creative, insoddisfazione e modesto

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rendimento. Secondo Freud il leader è colui sul quale tutti i membri proiettano il proprio ideale dell’Io, per cui da un lato egli deve adottare un atteggiamento distaccato e differente rispetto a quello degli altri componenti del gruppo per mantenere la sua funzione di oggetto di proiezione. dall’altro deve manifestare la sua appartenenza al gruppo per favorire i processi di identificazione dei membri su di lui.

Rendimento. Rispetto alla somma delle prestazioni singole, il gruppo offre un miglior rendimento a patto che vengano rispettate: a) la piena comunicazione fra i componenti, b) l’accettazione da parte di tutti di un’adeguata soluzione, anche se proposta da un unico componente, e) l’autonomia di ragionamento rispetto ai problemi. Generalmente la divisione del lavoro nell’ambito industriale, amministrativo o scientifico soddisfa le ultime due condizioni, ma ostacola la prima. Alcune ricerche hanno mostrato che una comunicazione in cui le informazioni confluiscono tutte in un’unica persona risulta più efficace nel caso di compiti semplici, mentre nel caso di problemi più complessi sembra più utile un contatto interindividuale.

Socializzazione. La dinamica di gruppo, come dice Spaltro, « non è altro che l’analisi del processo di socializzazione esaminato nei suoi dettagli, cioè nel suo interno, nella sua direzionalità e dal punto di vista dei fai cui esso tende» (1972, p. 242). Tali fini mediamente sono: a) il raggiungimento di un livello di sicurezza garantito dall’appartenenza al gruppo che consente, con la sua protezione, di rischiare senza troppa ansia anche in terreni mai esperiti; b) il controllo della dinamica della colpa perché il Super-io paterno si trasforma in Super-io di gruppo più facile da controllare; c) l’accelerazione dei processi di apprendimento perché il gruppo serve da feedback continuo mediante il paragone con gli altri, e quindi come mezzo per conoscere continuamente i risultati raggiunti; d) l’aumento dell’efficienza e della funzionalità delle difese perché, seguendo la legge del successo all’interno del gruppo, verranno ad essere potenziati quei meccanismi che hanno determinato un effetto positivo, e verranno abbandonati quelli che ai contrario avevano fallito il loro scopo; e) l’influenza sul ritmo dello sviluppo intellettivo per il rapporto che esiste tra processi intellettivi e linguaggio, e tra il linguaggio e la comunicazione che nel gruppo è potenziata; I) la maturazione affettiva facilitata nel gruppo rispetto alla

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condizione isolata, e controllata nelle manifestazioni delle pulsioni che l’individuo può anche non saper regolare da solo.

ANALISI DI GRUPPO. — 1. Le premesse teoriche. L’analisi di gruppo è un metodo psicoterapico in cui più pazienti, da sci a dodici, di entrambi i sessi, possibilmente rappresentati in ugual misura, alla presenza di uno o più terapeuti, vengono trattati con l’impiego della dinamica di gruppo che offre indicazioni diagnostiche e terapeutiche che non si rilevano nella situazione analitica classica fondata sulla dualità analista-paziente. I gruppi possono essere chiusi o aperti, a seconda che i membri cambino con minore o maggiore frequenza. e il principio che ne regge la formazione è, come scrive D. Napolitani, il fatto che «il Noi è il luogo germinativo di qualsiasi possibile Io e di qualsiasi possibile Tu»(1986, p. 26).

All’interno del gruppo si prende coscienza delle relazioni interne, del modo di cooperazione. dell’adesione dei singoli alle norme e ai valori gruppali, del funzionamento di un comune sistema di comunicazione tra i membri che di solito è assunto come fattore primordiale. Come notava J. Piaget, nell’analisi di gruppo «in primo piano non sono gli “istinti”, ma la polarizzazione di tendenze che scaturiscono dalla vita del gruppo e quindi resistenza alla guida. canalizzazione del temperamento nella linea delle funzioni, reazioni determinate nell’individuo dal gruppo e reazioni determinate nel gruppo dai temperamenti individuali» (1977. p. 350).

Introdotto nel 1907 da Prat per aiutare dei pazienti tubercolotici ad affrontare la propria malattia. il gruppo divenne con W. R. Bion lo strumento per la cura di ogni singolo membro. Moreno introdusse, come variante interpretativa e terapeutica. l’”azione” nella forma dello psicodramma dove il leader dirige una scena spontanea in cui i membri del gruppo possono ricostruire una determinata situazione della vita di ciascuno. Oggi l’analisi di gruppo viene praticata, oltre che nelle comunità terapeutiche o nei centri diurni con gruppi di pazienti omogenei, anche per iniziative di singoli terapeuti soprattutto per la cura dei disturbi della personalità e della tossicodipendenza.

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Per una buona impostazione dell’analisi di gruppo occorre affrontare problemi epistemologici di primaria importanza, come io spostamento del principio di identità dall’individuo (che si caratterizza per la sua percepibilità nello spazio e nel tempo e per l’indipendenza dalla sua variabilità espressiva e dalle modificazioni legate al suo crescere, al suo riprodursi e al suo deperire) al gruppo che, come scrive D. Napolitani, «non è un oggetto della nostra percezione sensoriale, perché questa ci dice qualcosa solo dei singoli individui nella loro aggregazione seriale. ma nulla dei “legami” eventualmente esistenti fra loro. Esso inoltre non ha alcun carattere di costanza, né alcun confine oggettivamente definibile, non cresce, né si riproduce o deperisce secondo “leggi naturali”, cioè secondo regolarità e ricorsività, ed è per definizione un “insieme” da cui ogni parte, in ogni momento, può separarsi per recuperare la sua piena autonomia» (1987, p. 39).

Se l’individuo è «naturale» e il gruppo è «culturale», si pone il problema di sapere se al gruppo possono essere applicati gli stessi paradigmi teorici e i metodi di indagine impiegati per la ricognizione dell’individuo, o se, essendo la cultura originariamente connessa alla natura dell’uomo, non si devono invece derivare dalla modellistica gruppale paradigmi e metodi per l’indagine dell’individuo. All’analisi di gruppo si pone quindi il problema di inventare una prospettiva epistemologica che implichi il superamento della dicotomia ontologica individuo/gruppo, perché se, come scrive D. Napolitani. «l’individuo è nella sua identità una molteplicità di relazioni identificatorie storicamente definite, ogni gruppo sociale che egli andrà promuovendo o a cui si troverà a partecipare è innanzitutto replicazione drammatica, cioè strettamente transferale, della sua gruppalità interna, intesa come dispositivo che codifica il mondo e il proprio rapporto col mondo»

IL RUOLO DELL'INTUITO NEL DECISION MAKING

"Si ritiene che l'istinto non sia un metodo di decision making razionale; ma molte persone non riescono a capire che l'istinto è in realtà un derivato inconscio dell'accumulo di anni di esperienza manageriale".

Così ha scritto un senior manager di una società informatica in risposta a una ricerca sul ruolo dell'intuito nel decision making strategico recentemente realizzata negli Stati Uniti.

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Nella traduzione italiana va persa molta della forza dell'espressione originale: "gut-feeling", ovvero "sentire con la pancia" (gut sono infatti le viscere, le budella).

La ricerca si proponeva di verificare alcune ipotesi di ricerca: in primo luogo che il ricorso all'intuizione nel decision making strategico è maggiore in ambienti instabili piuttosto che in ambienti stabili; e poi che in un ambiente instabile il ricorso all'intuizione nel processo di decision making strategico è associata positivamente alla performance organizzativa.

I risultati della ricerca, svolta su un campione di 281 senior e top manager di 221 aziende dei settori informatico, bancario e dei servizi pubblici, mostrano come l'intuizione sia considerata - in generale - un importante fattore nel processo di decision making strategico e come il ricorso al "gut-feeling" sia decisamente superiore nell'industria informatica (quella caratterizzata da un contesto di riferimento maggiormente instabile) rispetto al settore bancario e dei servizi pubblici (considerati come settori - rispettivamente - a media e bassa instabilità).

Ma la sorpresa maggiore è il riconoscimento di una stretta relazione fra il ricorso all'intuizione e le performance finanziarie: una relazione fortemente positiva nel caso delle industrie informatiche e negativa nelle banche e nei pubblici servizi. Contrariamente a quanto normalmente si pensa, i risultati della ricerca suggeriscono quindi che l'intuizione può giocare un ruolo significativo nella performance finanziaria,, e non solo, di una azienda.

La ricerca e i suoi risultati (per approfondire: The role of intuition in strategic decision making) possono lasciare scettici, ma portano comunque a riflettere sul ruolo dell'intuizione nel decision making strategico, su cosa significhi intuito e su quali componenti entrino in gioco quando si decide "con la pancia".

Già Mintzberg nel suo Ascesa e declino della pianificazione strategica (ISEDI, Torino 1996) notava come l'espressione "pianificazione strategica" fosse un ossimoro: pianificare, infatti, è una attività analitica mentre la strategia ha a che vedere con la sintesi. E l'intuizione altro non è che un'operazione di sintesi che permette di condensare pezzi

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sparsi di dati ed esperienze accumulati nel tempo in una visione integrata: una percezione olistica della realtà che va oltre i modelli di conoscenza razionali.

I modelli analitici normalmente utilizzati subiscono infatti il vincolo della linearità tipica del pensiero razionale e si trovano in crisi di fronte a sistemi la cui complessità va oltre il "razionalmente comprensibile".

L'intuizione, invece, riesce a fornire risposte a situazioni e problemi complessi in modo veloce, cortocircuitando gli step analitici del decision making razionale.

Ciò non vuol dire, però, che l'intuizione sia un processo irrazionale; vuol dire invece che l'intuizione rappresenta uno strumento potente poiché "it compresses years of experience and learning into split seconds" (per approfondire: Isemberg D., How senior managers think?, Harvard Business Review, dec 1984).

Uno strumento di decision making che si basa sul "magazzino" di conoscenze e abilità che - più o meno consciamente - ognuno ha accumulato: intuire significa "accessing the internal reservoir of cumulative experience and expertise developed over a period of years, and distilling out of that a response, or an urge to do or not to do something, or choose from some alternatives - again without being able to understand consciously how we get the answers" (per approfondire: Parikh J., Intuition: The new frontier of management, Blackwell Business, Oxford 1994).

Il problem setting e problem solving

Processo teorico e pratico che serve a trasformare un disagio in un problema, in una questione ben definita.

Il problem setting risponde alla domanda: che cosa fare?

Il problem solving risponde alla domanda: come fare?

In genere quando ci si riferisce a metodi e tecniche di soluzione dei problemi si parla di "problem solving", forse perché si preferisce mettere in evidenza il momento risolutorio

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che ci libera dallo stress del problema. Tuttavia il solving viene dopo del setting, ed è anche meno importante dal punto di vista gerarchico. Chi pone i problemi in genere ha un potere superiore a chi li deve risolvere.

La soluzione del problema, detta per brevità "problem solving", è un processo che ha queste componenti:

Problem finding rendersi conto del disagio

Problem setting definire il problema

Problem analysis scomporre il problema principale in problemi secondari (WBS)

Problem solving eliminare le cause e rispondere alle domande poste dal problema

Decision making decidere come agire in base alle risposte ottenute

Decision taking passare all’azione

Componenti centrali del processo di problem solving sono:

• acquisizione della capacità di visione d'insieme, per cogliere i collegamenti e le interdipendenze tra le parti - componenti del fenomeno indagato;

• predisposizione di un metodo di analisi, distinguendo tra aspetti e tecniche conosciute e non, ai fini di acquisire nuova conoscenza;

• apprendimento ed impiego di nuovi modi di pensare e determinazione della metodologia di analisi;

• raccolta di informazioni finalizzate alla suddetta metodologia; • sintesi delle informazioni in modo da renderle facilmente percepibili ai fini della

creazione di semplici scenari di riferimento alternativi; • confronto tra scenari di soluzione, impiegando tecniche creative ed intuitive; • formulazione dello scenario di riferimento, identificando gli orientatori che

supportano il cambiamento;

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• traduzione dello scenario in risultati aspettati ed indicatori di misurazione; • sperimentazione e valutazione dei risultati.

Varie sono le tecniche e le modalità di problem solving, attualmente impiegate nelle imprese di eccellenza. Una delle più interessanti è sintetizzata nell’acronimo FARE.

Focalizzare

Creare un elenco di problemi

Selezionare il problema

Verificare e definire il problema

Descrizione scritta del problema

Analizzare

Decidere cosa è necessario sapere

Raccogliere i dati di riferimento

Determinare i fattori rilevanti

Valori di riferimento

Elenco dei fattori critici

Risolvere

Generare soluzioni alternative

Selezionare una soluzione

Sviluppare un piano di attuazione

Scelta della soluzione del problema

Piano di attuazione

Eseguire

Impegnarsi al risultato aspettato

Eseguire il piano

Monitorare l'impatto durante

Impegno organizzativo

Piano eseguito

Valutazione dei risultati

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l'implementazione

La negoziazione

Potremmo definire la negoziazione come un “sistema per prendere decisioni” che si concretizza in un processo che, se ha successo, sfocia in una decisione congiunta, presa da più attori contemporaneamente. Fondamentalmente, in tutta la nostra vita privata e professionale la negoziazione è una attività molto frequente e dispendiosa, ma non sempre noi siamo in grado di riconoscerla come tale. Se volessimo identificare della variabili, potremmo dire che in una situazione negoziale sono sempre presenti delle controparti con interessi e obiettivi diversi, ma che agiscono per concludere qualcosa insieme.

Esistono diversi tipi di negoziazione: la forma più evidente è quella commerciale, ovvero quella in cui le aziende, soprattutto multinazionali, stanno investendo molto in attività di formazione. Un esempio potrebbe essere una relazione tra cliente e fornitore per la compravendita di beni. In questo contesto, facilmente possiamo capire come questa relazione si configuri come una negoziazione al fine di concordare il prezzo del bene per cui le controparti si stanno confrontando.

“In questo caso, la negoziazione potrebbe essere definita come l'insieme dei comportamenti tattici che vengono attivati sia dal compratore che dal venditore.

Nella realtà, la negoziazione non può essere limitata a quella commerciale: sono comportamenti che pervadono la nostra vita quotidiana in tutti i suoi ambiti. Esiste anche una negoziazione organizzativa, nei casi per esempio in cui in azienda bisogna negoziare un budget tra diverse funzioni e posizioni. Oppure una negoziazione molto più soft legata ai rapporti tra colleghi”. Se volessimo trovare l’elemento accomunante queste diverse forme, potremmo identificarlo nel fatto che esiste una forma di trattativa in cui le parti si scambiano risorse sia a livello materiale sia a livello dialettico. Anche nel caso della relazione soft tra capo e collaboratore esiste infatti uno scambio: quando il capo chiede al collaboratore di fare qualcosa, ci troviamo in una situazione negoziale, in cui il capo appunto deve cercare di convincere e motivare la propria risorsa ad agire secondo quanto richiesto.

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Due tipi di Strategie: Distributiva e Integrativa

Quando ci troviamo in una situazione negoziale, le strategie che possono essere attivate sono di due tipi: strategia negoziale distributiva o integrativa.

Nel primo caso, l’attività di negoziazione è simile a un gioco competitivo, in cui le controparti sostanzialmente “si fanno la guerra” attraverso un continuo gioco di difesa e attacco. “In questo caso si pone la questione come se si dovesse vincere o perdere (win-lose) per massimizzare la soddisfazione. Queste situazioni negoziali sono presenti nelle relazioni occasionali, meno nelle situazioni ripetute nel tempo o con clienti consolidati.

Sono situazioni negoziali distributive le trattative sul prezzo di una compravendita in cui i prezzi non sono definiti a priori”.

Strategie negoziali di tipo distributivo possono essere riconosciute anche nella vita quotidiana delle organizzazioni, quando due colleghi adottano delle strategie negoziali con il proprio capo al fine di poter ottenere l’assegnazione della posizione vacante. In questo caso, la posizione è unica, non può essere suddivisa ma può essere attribuita a una sola persona: per questo le risorse potrebbe “lottare” fra loro al fine di ottenere l’assegnazione della posizione tanto ambita. Un elemento caratterizzante che ci permette di differenziare la strategia distributiva dall’integrativa è il fatto che essa venga utilizzata quando l’oggetto della negoziazione o “la posta in gioco” non può essere suddivisa, ma necessariamente deve essere assegnata a una sola parte, creando appunto vinti e vincitori.

A differenza della strategia distributiva, la strategia integrativa viene utilizzata per i rapporti duraturi e più oggettivi. Questi casi sono basati sulla collaborazione, in cui alla fine della negoziazione non ci sarà un vincitore e un vinto, ma due vincitori. È una strategia basata sulla comunicazione e sulla trasparenza: più le persone si espongono nei loro interessi e nei loro obiettivi, più si comunica, più si evidenziano i risultati che ciascuno vuole ottenere.

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“Le controparti si rendono conto che è possibile trovare un accordo integrativo, in cui si può aumentare il valore dell’accordo stesso prima di dividerlo. Sono situazioni che a differenza delle strategie distributive, non hanno un unico oggetto del contendere e in cui la relazione deve essere protratta nel tempo: pensiamo, ad esempio, alle partnership tra cliente/fornitore, le riunioni sindacali, le grandi commesse di lavoro, le fusioni e le acquisizioni, le alleanze strategiche tra aziende gli accordi diplomatici tra stati. In ognuna di queste situazioni, gli oggetti della trattativa sono diversi (tempi, costi, modalità di pagamento, specifiche di progetto, impatti economici, politici e sociali a breve e lungo termine) e quindi è possibile trovare almeno un elemento di scambio che permetta a ciascuna della controparti di trovare soddisfazione nella relazione”.

Per effettuare una negoziazione efficace, ovvero il raggiungimento di un accordo tra due o più parti divise da interessi contrastanti è necessario seguire alcun passaggi che permettano di individuare chiaramente il problema posto sul tavolo e per indagare lo stato d’animo personale che emerge nella situazione conflittuale.

Diventa, quindi, estremamente importante:

- Conoscersi reciprocamente;

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- Definire scopi ed obiettivi - Avviare il processo negoziale; - Esprimere il disaccordo ed il conflitto potenziale; - Abbandonare reciprocamente le posizioni di partenza; - Individuare un accordo di principio o definitivo. -

Nel far questo la capacità di sondare le proprie emozioni e potenzialità riveste un ruolo centrale ed imprescindibile.

Il processo di negoziazione e di mediazione implica:

1. Non Contrattare sulle Posizioni

2. Separare la Persona dal Problema

• Fare attenzione alla relazione • Mettersi nei panni degli altri • Discutere le percezioni • Coinvolgere la persona nel processo • Aiutare a salvare la faccia • Riconoscere le emozioni • Consentire alla persona di sfogarsi • Usare gesti simbolici • Ascoltare attivamente • Parlare di voi • Costruire una relazione che funziona • Affrontare il problema, non la persona

3. Focalizzarsi sugli Interessi, non sulle Posizioni

• Chiedere perché? Perché no? • Riconoscere i diversi interessi/bisogni umani • Rendere vivi i propri interessi

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• Riconoscere gli interessi altrui • Mettere il problema davanti alla risposta • Guardare avanti, non indietro • Essere concreti • Essere duri sul problema, morbidi con le persone

4. Inventare Alternative per un Mutuo Guadagno

• Separare l’invenzione dalla decisione • Allargare le vostre opinioni/brainstroming • Guardare con gli occhi di diversi esperti • Inventare accordi di differente forza • Cambiare lo scopo • Identificare interessi comuni • Chiedere le preferenze personali • Rendere facili le decisioni personali. Chi? Cosa?

5. Usare Criteri Oggettivi

• Giusti standard • Giuste procedure • Ricerca comune di criteri oggettivi • Negoziare standard appropriati • Non cedere mai alla pressione, solo ai principi

I conflitti non si sciolgono, né si attenuano spontaneamente.

Con il passare del tempo per lo più si cristallizzano: per certi versi diventano parte delle routine della vita lavorativa e si arriva a considerare “normale”, ad esempio, che in una stessa equipe medici, psicologi e infermieri non si confrontino mai sui contenuti dell’attività, che in un reparto ospedaliero il sottogruppo di medici fedele al primario abbia informazioni e opportunità da cui altri sono sistematicamente esclusi o che il personale infermieristico sia permanentemente in agitazione sindacale e abbia un turnover assai

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elevato. Oppure si accetta come situazione inevitabile il fatto che in una stessa azienda sanitaria il responsabile dei servizi pediatrici o della neuropsichiatria non abbia alcun passaggio o scambio di informazioni con il responsabile dei servizi sociali o che in un Comune alcuni dirigenti delegittimino altri dirigenti, smentendone le decisioni o prendendone altre in aperto contrasto. Si consolidano scissioni e compartimentazioni. I conflitti si aggravano anche perché si perdono i punti da cui le divaricazioni hanno preso origine e le contrapposizioni si diffondono a priori un poco su tutto. Per affrontare i conflitti, e per gestirli come elementi ineludibili dei processi di comunicazione che vanno sviluppati nei microcontesti lavorativi e in genere nei gruppi di lavoro, è cruciale riconoscerli, coglierne i contenuti, i livelli relazionali, le implicazioni soggettive, le possibili riformulazioni e negoziazioni. Ed è importante che siano riconosciuti tempestivamente, prima che si creino distanze incolmabili e barriere troppo sedimentate.

Gli stili personali della COMUNICAZIONE:

Sulla base dell’impianto teorico disegnato dall’analisi transazionale di Berne è possibile definire 4 diverse modalità e stili personali della comunicazione. Tali stili personali sono pattern dinamici attraverso cui le persone entrano in relazione con gli altri.

Ciascuno può attraversare ed assumere tutti e quattro gli stili, benché esista un canale preferenziale per ciascuno di noi. L’interazione, il contesto, la contingenza emotiva nella quale ci si viene a trovare sono elementi che incidono sulla scelta, mai consapevole, di un particolare pattern comunicativo. Diventa, quindi, importante, diventare maggiormente consapevoli del proprio stile e conseguentemente dello stile altrui.

Gli stili personali sono caratterizzate dall’uso di canali comunicativi specifici (canale razionale e canale emozionale) e concernono l’immagine che ciascuno ha di se stesso.

Lo schema riportato di seguito può aiutare ad individuare i propri e l’altrui stili personali:

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1) ACCENTRATORE: bassa emotività

bassa propensione alla delega

Questo pattern può essere definito “il padre di se stesso”, per cui lo stile di comunicazione da adottare per interagire efficacemente con questi soggetti è chiedere la possibilità di essere ascoltati, non ingaggiando alcuna gara di personalità.

2) DELEGANTE: giusta emotività

giusta propensione alla delega

E’ la modalità più efficace per comunicare, in quanto tiene conto sia delle proprie esigenze che di quelle altrui, questi soggetti gestiscono la propria responsabilità in maniera attiva, delegando, se necessario le attività, non accentrandole su di sé. L’interesse per l’altro si

emotività

propensione alla delega

+

+

-

-

ACCENTRATORE

INSICURO

DELEGANTE

DIFFIDENTE

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sostanzia in un costante ascolto e tensione verso la compartecipazione al vissuto emotivo dell’altro.

3) DIFFIDENTE: alta emotività

bassa propensione alla delega

E’ la modalità di soggetti insicuri che temono che gli altri possano approfittare di loro, e risultano, quindi, estremamente aggressivi, pur mantenendo una superficiale calma apparente.

La modalità per entrare in contatto con questi soggetti è adottare uno stile direttivo mostrando le proprie capacità tecniche in modo da catturare la loro fiducia.

4) INSICURO: alta emotività

alta propensione alla delega

E’ lo stile di soggetti eternamente indecisi alla ricerca continua della convenienza. La modalità per entrare in relazione con questi soggetti consiste nell’illustrare i vantaggi derivanti da nuove situazioni rispetto a situazioni analoghe precedenti.

In base agli stili comunicativi si possono predire gli stili di leadership e le implicazioni relazionali che sono inerite alla leadership.

Il leader, infatti, è la persona che esercita più influenza in un gruppo degli altri membri più di quanto sia essa stessa influenzata.

I tratti del leader sono:

- Intelligenza - Estroversione - Cooperazione

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- Adattabilità - Spirito di iniziativa - Fiducia in se stessi - Controllo emotivo - Capacità di tollerare lo stress

In realtà anche se la leadership viene spesso identificata nella figura di un leader deve essere vista come un processo piuttosto che come una persona, è un fenomeno complesso di interazione che coinvolge:

- IL LEADER (competenze, motivazioni, legittimità e caratteristiche personali) - I COMPONENTI DEL GRUPPO (loro attese, competenze, motivazioni,

caratteristiche personali) - LA SITUAZIONE (struttura sociale, tipo di compito, norme, storia del gruppo)

La leadership quindi è un sistema di relazioni che richiama in un’ottica di interdipendenza alle caratteristiche del capo, dei sui membri e alla situazione nella quale si insiste.

Occuparsi di leadership, quindi, significa occuparsi di una Gestalt.

La psicologia della Gestalt

Con i termini psicologia della Gestalt, psicologia della forma, Gestalttheorie, Gestaltpsychologie o semplicemente “la Gestalt”, si intende quel corpo di affermazioni teoriche e impostazioni metodologiche che si sono sviluppate a partire dai lavori di M. Wertheimer (1880-1943), W. Köhler (1886-1941) e K. Koffka (1887-1927).

La Gestalt è una corrente di pensiero psicologico nata e sviluppatasi in Europa, benché, per vicende personali dei suoi esponenti, in un secondo momento sia venuta a contatto con la psicologia americana.

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Qualità von Erhrenfels

Se si prende in considerazione, ad es., una melodia, è innegabile che essa sia costituita da parti, le singole note che la compongono. Il risultato finale però non è la somma delle parti: la melodia ha caratteristiche diverse da quelle delle singole note. La qualità propria della melodia è una qualità-gestalt. Ed è a tal punto indipendente dalle qualità delle singole parti che possiamo ricreare la stessa melodia sia eseguendola con strumenti diversi (le note saranno differenti nel timbro), sia addirittura trasportandola di tonalità e mutando quindi totalmente le note-elementi che la formano (principio della trasponibilità di una Gestalt).

La qualità-gestalt, cioè la qualità propria del tutto, non è data quindi dagli elementi, ma dalle relazioni che intercorrono tra essi e dal loro ruolo all’interno del tutto, dunque dalla struttura della Gestalt.

Lewin ha avuto grande influenza sulla psicologia sociale, in quanto si è occupato delle dinamiche di gruppo elaborando la teoria del campo.

Il gruppo è da lui concepito come una totalità dinamica (Gestalt): comportamenti e problemi di gruppo non sarebbero riconducibili ai comportamenti e problemi di ogni suo singolo elemento perché i bisogni del gruppo non sono riducibili ai bisogni dei singoli.

La teoria del campo sostiene che la percezione di un campo di fiori d'estate varia in base all'individuo che lo osserva. Ad esempio, un passeggiatore domenicale si soffermerà ad

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osservare l'ambiente e a percepirne gli stimoli, osservando anche il grande spazio attorno a lui, mentre per un soldato il campo di fiori diventa un campo di battaglia, e il suo unico obiettivo è quello di fuggire e di salvarsi, quindi la percezione dello spazio si riduce, per esempio, ad un cespuglio dove potrà nascondersi. Infatti la teoria sostiene anche che la percezione dell'ambiente circostante e degli stimoli che ci fornisce, varia in base all'individuo, allo stato d'animo e alla situazione in quel determinato momento.

Il campo è anche inteso quale metodo psicologico di analisi dei fenomeni sociali, visti nella loro interdipendenza. La teoria prevede l'esistenza di uno spazio psicologico dove sono presenti dei comportamenti (C) che sono funzione degli spazi di vita delle persone (S) formati dalle persone (P) e dagli ambienti (A), C=f(PA).

Le situazioni psicologiche vengono analizzate e valutate in relazione al contesto di riferimento, nel quale agiscono delle forze, rappresentabili graficamente, le quali sono in grado di agevolare od ostruire il costituirsi di determinati modelli di comportamento e di condotta.

In aderenza alla Gestalt, il gruppo è definito in termini di interdipendenza tra le parti, in esso la totalità è più della semplice somma dei singoli elementi costitutivi e può essere qualcosa di diverso. La teoria del campo afferma l'esistenza di forze contrastanti all'interno dei gruppi sociali. Queste forze tendono verso un equilibrio quasi stazionario, che caratterizzano il gruppo ad un certo stile di vita.

Questo modo di vedere il gruppo portò a delle conseguenze che introdussero il tema del cambiamento sociale: la tendenza all'equilibrio del gruppo costituisce una resistenza quando si vuole effettuare un cambiamento; le situazioni in cui è più facile cambiare un comportamento sono quelle di confronto di gruppo, piuttosto che il confronto con il singolo individuo. Le situazioni di interazione collettiva creano un maggior grado di coinvolgimento sociale e un maggior consolidamento delle decisioni prese.

Questo aspetto di interdipendenza relazionale già proposto in più momenti di questo lungo excursus dimostra come comunicazione, relazione, comportamento, identità personale, gestione delle emozioni, leadership e lavoro di gruppo siano aspetti ed elementi inscindibili se vogliamo mettere in atto una disamina oltre che puntuale anche attinente.

L’ équipe è l’emblema di un campo di Lewin in cui vige l’interdipendenza delle parti costitutive. La definizione di équipe recita: gruppo di persone che perseguono un fine

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comune o collaborano nello stesso settore di attività, anche intellettuale: il lavoro di équipe, condotto da un gruppo che comprende esperti in varie discipline o in diversi rami di una disciplina.

Esiste un vero LESSICO DELL’ÉQUIPE: entrare in relazione, comunicare, gestire i gruppi e le dinamiche interne e talvolta esterne ai gruppi, mediare i conflitti, gestire le varie leadership, sapersi confrontare, darsi degli obiettivi, saperli valutare, saper gestire i successi e gli insuccessi e saperli gestire e comunicare, la condivisione degli OBTV, ecc., E ANCORA, SAPER ANALIZZARE: il senso di responsabilità dei singoli, la capacità di federare le energie del gruppo, capacità di ascolto, empatia, …

Molto più spesso di quanto si dovrebbe o vorrebbe il lessico dell’ÉQUIPE è formale e non sostanziale. È un modo per non mettere mai davvero in pratica ciò a cui si dovrebbe aderire per scelta e non per obbligo visto che il modello lavorativo d’équipe migliora la prestazione e la qualità della cura e dell’assistenza e permette di ridurre e meglio monitare i rischi clinici intrinsechi nel lavoro sanitario.

Lavorare in équipe significa che non è una sola figura professionale che si occupa del paziente, né che molte figure si occupano del paziente ognuna indipendentemente dall'altra, cioè in maniera separata (équipe multiprofessionale). Il lavoro di équipe significa, invece, che la cura viene effettuata da un gruppo "integrato", cioè da persone che

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lavorano in modo armonico tra di loro e che condizionano il proprio compito attraverso una continua correlazione fatta di interscambi, di confronti, di contributi, di suggerimenti, di pareri ...

Il riconoscimento dei ruoli richiede: credito intellettuale, autorità ed autorevolezza …

Esempio di esercizio del ruolo di potere attraverso l’autorevolezza

Se sapremo lavorare in team:

•lavorare assieme diventerà una sfida della professionalità nella professione;

•si uscirà dall’isolamento mono-professionale di molte categorie;

•si condividerà tutto il processo riabilitativo comprese le frustrazioni e gli insuccessi …;

•si ridurrà il rischio del burnout;

•sarà più semplice affrontare i complessi problemi del nostro campo;

•condivideremo la difficoltà di gestire la domanda incongrua, frequentissima nella cronicità;

AUTOREVOLEZZA

CONSENSO

DECISIONI

AUTORITA’

FEED BACK POSITIVO CON L’ ÉQUIPE, RINFORZO DEL RUOLO

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•combatteremo la crescente insensibilità dei vari operatorinei confronti dei livelli di recupero dei pazienti

Dovremo tuttavia adottare sempre un minimo di sapere condiviso da cui partire, importanza quindi della formazione di base e dell’aggiornamento inter-professionale, dovremo abolire le gelosie preconcette, le contrapposizioni sindacali/professionali, il “complesso del primo della classe”, le presunzioni organizzative, sospettosità, litigiosità e gelosie gestionali di ruolo (le caste), le chiusure preconcette alle innovazioni organizzative (impermeabilità di sistema), abbattere le sindromi da ruolo … siamo COLLEGHI !!!

Regole per stare in equipe

1. Rispettare l'altro riconoscendo all'altro dei valori;

2. Riconoscere i propri limiti e sapere che l'altro può aiutarci a superarli oltre che ad operare meglio;

3. Riconoscere la propria precarietà e sostituibilità (tutti sono utili e nessuno indispensabile);

4. apprezzare il lavoro degli altri;

5. saper ascoltare e comprendere;

6. esprimere il proprio parere liberamente;

7. essere disponibili ad accettare le varie opinioni;

8. essere disponibili alla comunicazione, alla collaborazione;