Come dentro un sogno. L’opera narrativa di Dante Maffìa

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A leggere con attenzione i suoi romanzi e i suoi libri di racconti, si scopre che Dante Maffìa è un narratore efficace e avvincente, oltre che poeta autentico. Poesia e narrativa, in lui, si rincorrono in maniera osmotica: intrattengono un rapporto organico, reciproco, di circolarità. Maffìa sa narrare quando fa il poeta ed essere poeta quando narra. È uno scrittore “toto corde”, dall’empito torrenziale: un fiume in piena, straripante di vita, furiosamente acceso dai tumulti lievitanti del suo corso. Una valanga inarrestabile, che trascina con sé i detriti del tempo e i grumi dell’esperienza. Un vulcano in eruzione continua: un centro di irradiazione di energie attraverso cui – nei momenti di maggiore slancio – la totalità del reale sembra aver deciso di tradursi sotto forma di scrittura. Ci troviamo dinanzi a un viaggiatore instancabile dell’immaginario, che – da buon viaggiatore – non vuole arrivare mai da nessuna parte, giacché arrivare vorrebbe dire concludere il viaggio. Come il vento: sempre in moto, immerso nel ciclo creativo-distruttivo della vita. L’importanza del viaggio, peraltro, è nell’esperienza, più che nella meta. L’importante è il percorso, come si compie il percorso. Maffìa ha un cuore poetico vastissimo, stratificato come le pagine del mondo da sfogliare, che lo vincola a una pienezza “libidinosa” del dire, a una dovizia di vita che trabocca dalle pagine. L’istinto primario della libido si traduce in voglia e fame, in desiderio e struggimento di bellezza, in golosità insaziabile e capacità di stupore infinito. La grande bellezza apre i suoi frutti a chi la sollecita e interroga con una percezione di tipo estatico, che elegge l’eros a chiave di appropriazione e degustazione: ed ecco la fresca, scintillante concretezza dei corpi, la luminescenza degli aloni, i guizzi fuggitivi degli sguardi. E le tracce che l’incontro e il passaggio delle persone lasciano nella nostra vita. L’amore frammentato in onde infinitesime. E lo sguardo che pettina le chiome iridate dell’incanto. C’è una vera e propria “abbuffata” di bellezza da godere nel mondo: è un cibo inesauribile, che nasce e si moltiplica dal suo continuo rimpasto, e trova la sua origine nel cuore, eterno, della sua stessa fine. Proprio la preziosa fragilità della bellezza, così caduca, impone di rubarla con occhi avidi, quando appare nel suo lampo, per farne riserva aurea, deposito di luce, «salvadanaio a cui attingere nei momenti bui». Come riuscire insomma a dire basta, dinanzi al bello e al buono della vita? specie quando poi si concentrano in una donna, ovvero nel potenziale di anima e gioia che è capace di spandere intorno, come una scossa febbrile, o il contagio di una sacra malattia? Mi era capitata nella vita con una tale ampiezza di luce che ogni volta mi abbeveravo come un forsennato che non si sazia mai. Mai verso dell’Alighieri fu più veritiero: dopo il pasto avevo più fame di pria. La scrittura maffiana mette spesso in scena una dinamica di teatralizzazione del “canto di lode” in onore della donna, sotto forma di “adorazione” della sua bellezza, degustata come quintessenza della vita, e descrizione fenomenica degli effetti che produce intorno a sé. Ecco qualche esempio: Mentre dorme un giovane medico la guarda incantato. Una ragazza così bella è un tesoro da non perdere; Non poteva farci niente: appena vedeva una bella donna ci si perdeva appresso, cominciava a sognare le sue carezze, a vederla nuda nel suo letto, a sentirla spasimare per lui; Quante belle donne erano presenti: inebriavano l’anima, accentuavano quel sottile desiderio sensuale che in lui era sempre pronto a balzare;

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A leggere con attenzione i suoi romanzi e i suoi libri di racconti, si scopre che Dante Maffìa è un narratore efficace e avvincente, oltre che poeta autentico. Poesia e narrativa, in lui, si rincorrono in maniera osmotica: intrattengono un rapporto organico, reciproco, di circolarità. Maffìa sa narrare quando fa il poeta ed essere poeta quando narra. È uno scrittore “toto corde”, dall’empito torrenziale: un fiume in piena, straripante di vita, furiosamente acceso dai tumulti lievitanti del suo corso. Una valanga inarrestabile, che trascina con sé i detriti del tempo e i grumi dell’esperienza. Un vulcano in eruzione continua: un centro di irradiazione di energie attraverso cui – nei momenti di maggiore slancio – la totalità del reale sembra aver deciso di tradursi sotto forma di scrittura. Ci troviamo dinanzi a un viaggiatore instancabile dell’immaginario, che – da buon viaggiatore – non vuole arrivare mai da nessuna parte, giacché arrivare vorrebbe dire concludere il viaggio. Come il vento: sempre in moto, immerso nel ciclo creativo-distruttivo della vita. L’importanza del viaggio, peraltro, è nell’esperienza, più che nella meta.

L’importante è il percorso, come si compie il percorso.

Maffìa ha un cuore poetico vastissimo, stratificato come le pagine del mondo da sfogliare, che lo vincola a una pienezza “libidinosa” del dire, a una dovizia di vita che trabocca dalle pagine. L’istinto primario della libido si traduce in voglia e fame, in desiderio e struggimento di bellezza, in golosità insaziabile e capacità di stupore infinito. La grande bellezza apre i suoi frutti a chi la sollecita e interroga con una percezione di tipo estatico, che elegge l’eros a chiave di appropriazione e degustazione: ed ecco la fresca, scintillante concretezza dei corpi, la luminescenza degli aloni, i guizzi fuggitivi degli sguardi. E le tracce che l’incontro e il passaggio delle persone lasciano nella nostra vita. L’amore frammentato in onde infinitesime. E lo sguardo che pettina le chiome iridate dell’incanto. C’è una vera e propria “abbuffata” di bellezza da godere nel mondo: è un cibo inesauribile, che nasce e si moltiplica dal suo continuo rimpasto, e trova la sua origine nel cuore, eterno, della sua stessa fine. Proprio la preziosa fragilità della bellezza, così caduca, impone di rubarla con occhi avidi, quando appare nel suo lampo, per farne riserva aurea, deposito di luce, «salvadanaio a cui attingere nei momenti bui». Come riuscire insomma a dire basta, dinanzi al bello e al buono della vita? specie quando poi si concentrano in una donna, ovvero nel potenziale di anima e gioia che è capace di spandere intorno, come una scossa febbrile, o il contagio di una sacra malattia?

Mi era capitata nella vita con una tale ampiezza di luce che ogni volta mi abbeveravo come un forsennato che non si sazia mai. Mai verso dell’Alighieri fu più veritiero: dopo il pasto avevo più fame di pria.

La scrittura maffiana mette spesso in scena una dinamica di teatralizzazione del “canto di lode” in onore della donna, sotto forma di “adorazione” della sua bellezza, degustata come quintessenza della vita, e descrizione fenomenica degli effetti che produce intorno a sé. Ecco qualche esempio:

Mentre dorme un giovane medico la guarda incantato. Una ragazza così bella è un tesoro da non perdere;

Non poteva farci niente: appena vedeva una bella donna ci si perdeva appresso, cominciava a sognare le sue carezze, a vederla nuda nel suo letto, a sentirla spasimare per lui;

Quante belle donne erano presenti: inebriavano l’anima, accentuavano quel sottile desiderio sensuale che in lui era sempre pronto a balzare;

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Era una ragazza di Trieste di una bellezza indescrivibile. Tremavano tutti solo a guardarla. Quando c’era lei era come se tutto sussurrasse, fosse pronto all’abbraccio. Anche le donne lo riconoscevano, dal suo corpo emanava un fluido che conquistava tutti. Gli occhi, d’un verde inafferrabile, erano cangianti e maliosi, inchiodavano chiunque alla sua persona.

Per un uomo la bellezza della donna è, forse, il più dolce e irresistibile tra gli «inviti ammalianti» che la vita sa donare a chi la cerca. È uno spirito cosmico che, attraverso lo sguardo, mette in moto le energie della materia, cioè della natura. È un cibo paradisiaco che lenisce e dà consolazione, un elisir che rimette al mondo.

Sapessi come si dilatano il cuore e l’anima nell’osservare la sinuosità dei seni, nel cercare il lievito che scorre sulla pelle, nel rincorrere la brezza sottile e invisibile che va su e giù dagli occhi ai piedi. La realtà profonda dell’esistenza dimostra che ogni cosa transita nel tempo e «si spegne per sempre», e questa condizione di caducità emorragica universale produce nell’uomo, quando ne ha coscienza, uno stato permanente di allarme, angoscia, struggimento, melanconia, dolore. Ebbene, la bellezza della donna è così potente che può fungere da antidodo al dolore della perdita continua; e addirittura da antidodo alla morte, che Maffìa percepisce ovunque, nascosta nelle viscere del mondo, dal cuore stesso della vita che attraversa: come il cono d’ombra di una grande luce, il rovescio necessario del suo limpido splendore:

(…) io la morte la sconfiggo diversamente. La vedo e la sento strisciare subdola e maligna, indifferente a tutto, dominatrice che non si ferma dinanzi a niente. Eppure, quando mi approprio di un corpo femminile, avverto che fugge lontano infastidita e ferita.

La bellezza può sconfiggere la morte: basta la dolcezza di un sorriso, il miracolo di una scena, di una visione, che aggancia l’esperienza a un cuore eterno, fermandola in un acquisto definitivo dell’anima: un dono che niente e nessuno potrà più consumare e dissolvere. Ci sono attimi che ci conquistano per sempre alla vita: ci appartengono e ci fanno appartenere. L’immortalità di cui parla Maffìa è intensamente vitalistica, fluida, estemporanea, più versatile di quella che in genere fa sospirare gli scrittori, quando sperano nella gloria postuma dei loro libri:

(…) l’immortalità la trovavo in certe ragazze con cui uscivo, in certi tramonti romani che mi riempivano l’anima di un calore rosso che diventava lievito a cui attingevo per avere la consapevolezza di esistere. All’immortalità presunta e illusoria degli uomini, e delle loro opere, Maffìa appone l’esempio dei cani, che invece «sono immortali mentre vivono, amano e sognano; è il loro essere cani fino in fondo che conta; il non perdere la loro identità che si trasmette e trasmette il senso vero della loro presenza.