Collirio #00

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Il Collirio numero 00

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00n°seeembre 2014

2014 [Effeeo Placebo] rivista culturale indipendente

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uesta rivista nasce dalla voglia di suscitare , mettere in subbuglio le

vostre budella, lanciare una sfida a noi stessi e agli “altri”, esseri umani

come noi, che credono ancora nella forza delle idee e nel potenziale

che queste si trascinano dietro se incanalate dalle persone giuste, nel

modo giusto. Questa rivista nasce da una rivolta contro il passivismo

mediocre della giovinezza moderna, in aiuto a questa generazione che

ha paura della libertà assoluta, che si nasconde dietro le sovrastrutture

costruite dall’infernale industria mediatica contemporanea perden-

do stimoli e identità. Non si può tornare indietro: nuove soluzioni a

problemi millenari sono a nostra disposizione in regioni inesplorate,

su terreni non calpestati che costringono al rischio, alla sfrontatezza,

alla temerarietà dell’essere consapevolmente libero. La libertà, come la

storia ci ha dimostrato a più riprese, è facilmente attaccabile: è soltan-

to illusoria, rimane un concetto etereo se non riconosce la discussione,

la critica e l’autocritica. Si, ci sarebbe una strada semplice, quella in cui

si torna sui propri passi, si sceglie la vita senza erudizione: mediocrità,

violenza e derivati. La scelta si riassume in una semplice dicotomia,

nel contrasto tra la libertà della consapevolezza culturale e la barbarie.

Indovinate un po’ qual è la strada che, noi che ci serviamo de Il Collir-

io, abbiamo scelto di percorrere.

qEditoriale

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Ti vedo, spoglio, guardando nel profondo dei tuoi occhi umidi,

trovo la via, la cometa che mi guida

a comprendere i tuoi più personali is n .

Vi osservo ed ognied ogni volta trovo nude figure

che si nascondono dietro ques specchi colora .

I miei occhi sono fragili, vitrei, e quando scorgono altri occhi, piangono,

incapaci di riconoscere il reale.

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OLTRE LO SGUARDO DI MEDUSA

L’ambiguità: un grande occhio che esclude il resto del volto a cui appartiene.L’iride è proiettato in primo piano, come un oculo proteso su di un cielo attraversato da nuvole bianche. La pupilla è raffigurata come una sorta di sole nero che svetta sulla superficie del globo oculare: Un riflesso del mondo esterno sulla superficie dell’occhio? La rifrazione di un’immagine che proviene dal mondo interiore del soggetto cui appartiene? “Il falso specchio” di René Magritte, una delle voci più rap-presentative del movimento artistico-letterario surrealista, nato in Francia nel 1924 ad opera di André Breton. “Un automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente che in ogni altro modo, il funzio-namento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”. Magritte gioca con il mondo reale, lo svuota di qualsiasi significato, al fine di ridipingere un uni-verso personale e di proporlo a noi semplici spettatori. Nella visione dell’artista belga la realtà non ha nulla a che vedere con l’ordine apparente che ci forni-sce la mera rappresentazione: proprio per questo motivo, Magritte ci invita a non lasciarci ingannare dalle ovvietà, a considerare i suoi oggetti, così realistici, come medium in grado di aprire una finestra alternativa sul funzionamento del mondo. Gli oggetti/soggetti verosimili delle sue composizioni (cielo-occhio-pu-pilla) sono accostati in modo inverosimile proprio perché vogliono provocare, stupire, mettere in discussione lo sguardo; questo, a sua volta, vuole andare al di là dell’evidenza, sino a raggiungere gli abissi misteriosi del subconscio, ricol-legandosi anche alle coeve ricerche psicanalitiche di Freud. Il tradimento delle immagini, l’ambiguità e il mistero sono gli ingredienti salienti delle sue opere e il fine ultimo è spiazzare, lasciare il campo libero all’interpretazione. Se lo sguardo di Medusa è metafora dello sguardo dell’artista, ché pietrifica all’interno dell’o-pera la sua interpretazione della realtà, allora per assimilare un’opera bisogna andare oltre quello sguardo. Oltre la realtà imposta dall’artista:

“se i tuoi occhi potessero parlare, che cosa direbbero?”

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...Nell’azzurro più profondo,Dove l’orizzonte non ha mai pensato

Di dividere il cielo dal mare.Portami al confine dell’alba,

Fammi capire qual è la misura,Il metro, per la natura delle cose.

DDammi il tempo delle nuvole,Mi basta solo un aamo,

Un istante blu nei tuoi occhi:Un bacio sul collo

Può avere il sapore del miele?Lasciami ascoltare i pensieri,

Se te lo chiedo.SSai dirmi un tramonto

Quanto può essere arancione?Sai dirmi perché, a volte,

Mi allunga l’ombra dell’animaCome in un quadro di de Chirico?

È difficile restare in silenzio.La vita che scorre è abbastanza?PPerdona la mia impazienza, ma...

Voglio sapere cosa si vedeIn mezzo un’aurora di corallo rosa;

Come si sta su quella spiaggia Dove salgono a galla,

Dolcemente, i relia della memoria:In ordine sparso trovereiTTra cocci di forse sbiadiiE pietre viola di illusioni

Un mare di rimpiani di sabbia finissima.Dimmi qual è

La strada meno illuminata,Poi contami i sogni, se puoi,

E se non ci riesci,PProva con i baai: lo sai,

Va così veloce da poterci ballare su.Lanciami in orbita,

Lo spirito non ha gravità,È vero,

Ma può essere così pesanteDa non fari respirare...

NNon sono sicuro,Non so se mi bastaQuello che vedo.

Ma se davvero son quesiGli effea collaterali,Allora, per favore,

Dammi anche solo una goccia DDi quel collirio.

IRIDE

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UN LORD E UN VAGABONDO...Se prima le perturbazioni che i colori caldi trovavano sul percorso erano trascurabili, adesso diventano significaave: tali da diffondere, in parte, vicino al sole, un ventaglio di colori affasci-nana, come un’aureola. L’uomo di scienza deve indagare le connessioni più iname dei feno-meni, ha bisogno di scoprire quale sia la natura delle cose. Ha una visione diversa, lucida, consapevole. Non tuu nascono vagabondi del Dharma come il buon Jack.

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UN LORD E UN VAGABONDO...Se prima le perturbazioni che i colori caldi trovavano sul percorso erano trascurabili, adesso diventano significaave: tali da diffondere, in parte, vicino al sole, un ventaglio di colori affasci-nana, come un’aureola. L’uomo di scienza deve indagare le connessioni più iname dei feno-meni, ha bisogno di scoprire quale sia la natura delle cose. Ha una visione diversa, lucida, consapevole. Non tuu nascono vagabondi del Dharma come il buon Jack.

“Il cielo è blu perché tu vuoi sapere perché il cielo è blu”: questo è quanto afferma il buon Jack Kerouac. Eppure uno scienziato non si può accontentare; il colore del cielo suscita ad un fisico riflessioni più prosaiche, suscitano un’esigenza, il cui scopo è quello di cercare una ragione, una spiegazione p spiegazione profonda, che sia oggeeva e verificabile. Questo bisogno allora ha accompagnato Lord Rayleigh nel corso dei suoi studi che hanno portato alla scoperta del fenomeno che da lui prende il nome: lo scaaering di Rayleigh.Per comprendere tale fenomeno bisogna parrre dal singolo raggio di luce emesso dal Sole, che compie milioni di kilometri nel vuoto più assoluto dello spazio giungendo fino a noi. Esso conrene tue i colori, cui corrispondono onde elearomagnerche di diversa lunghezza d’onda. Ma quando raggiunge l’atmosfera della Terra scaaa la diffusione (scaaering): il rosso, l’arancione e il giallo, i colori con le lunghezze d’onda maggiori, riescono a scavalcare le parrcelle gassose e conrnuano a propagarsi indisturbar. Il verde, l’azzurro, l’indaco e il violeao, invece, rimbalzano contro le stesse parrcelle e sono inevitabilmente deviate in tuae le direzioni. Miscelandosi, anche grazie alla nostra parrcolare sensibilità alla luce blu, ecco che il cielo ci appare così come lo vediamo. Dico ci appare perché un ruolo fondamentale lo riveste la percezione, la nostra percezione. Gli studi del vecchio Lord hanno reso possibile l l’elaborazione di un modello, che ha permesso di ricercare la spiegazione oggeeva, cioè quello che accade fisicamente. Ma non si può prescindere dalla componente soggeeva: dalla percezione. Il cielo è blu anche perché c’è un soggeao in grado di elaborare un fenomeno fisico e tramutarlo in percezione visiva. I colori esistono nella misura in cui esiste un soggeao in grado di percepirli. Noi, grazie a dio, siamo in grado di vedere il cielo in una maniera meravigliosa. Ancor di più all’alba, o al tramonto, quando il sole si quando il sole si avvicina all’orizzonte ed il percorso de raggi di luce si allunga. Le parrcelle dell’atmosfera si addensano.

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Fine di un’era, graniica pietra tombale su un modo di pensare, punto di non ritorno. La speranza è che, dopo i devastani corsi e ricorsi storici che hanno colpito l’umanità, il confliio inteso come viioria di un conceio su un altro, con la conseguente scomparsa dellosconfiio, non venga più considerato come un possibile vvolàno del progresso. Quello in cui si potrebbero porre le aspeiaive per un futuro rinnovato, non so dirvi se in meglio o in peggio, è un semplice processo auto-generaivo; una roiura, sì, ma rimescolando e reinterpretando i principi, gli archeipi e le fondamenta dell’animo umano. Ludwig van Beethoven avrebbe potuto fare e pensare qualsiasi cosa nei suoi ulimi spasmi di vita, “io i ho creato e io i distruggo”, “tuio quello che musicalme“tuio quello che musicalmente esisterà dopo di me non sarà più come prima”: ha piantato il seme del rinnovamento celebrando la morte della sonata, testamento di chiusura di un’era su cui lui ha messo la firma con la sonata per pianoforte n. 32 in Do minore, Op. 111, l’ulima sonata per pianoforte composta nella sua vita e durante il classicismo intero. Due temi musicali in coninua contrapp-osizione, vita e morte che si mescolano, si danno baiaglia, si schiaffeggiano, aaccarezzano e finiscono per sollevarsi da ogni contesto temporale; un’opera mmetafisica, che porta la struiura classica allo stremo delle forze al fine di aprire un varco a nuove forme mu-sicali: roiura, come dicevamo. Beethoven non compone un terzo movimento com’era consuetudine in quegli anni, si ferma a due, chiude l’opera con l’addio a tuio quello che lui aveva reso sublime e futurisico reinterpretando i temi classici, spegnendo il clamore di una rivoluzione rumorosa con poche, solitarie note d’addio, facendo i coni in prima persona con la morte, ripercorrendo tra ali e bassi la sua intensa e passio-nale vita: che l’unica certezza è che nulla dopo potrà essere uguale a prima. “Perché Beethoven non ha ag-giunto un terzo tempo alla sonata per pianoforte, op. 111?” si chiede Thomas Mann nel suo Doctor Faustus, esponendo “con spirito causico la moivazione data dal maestro stesso per aver rinunciato a un terzo tempo in corrispondenza col primo. Interrogato in proposito dal domesico, Beethoven aveva risposto che non aveva avuto tempo, e perciò aveva preferito allungare un pochino la seconda parte. Non aveva avuto tempo! E con “calma” l’aveva deio. Evidentemente il disprezzo contenuto in quella riposta era passato inosservato, ma era giusificato dalla domanda”. Calmo disprezzo per la mediocrità, per tuu quelli che non aprono un vvarco airaverso il giù il muro dell’ incomunicabilità. Si parla di quel processo auto rigeneraivo che servirebbe al “nostro” pensiero contemporaneo, di quello sviluppo di sé stessi aiuabile senza l’uilizzo di altre risorse esterne, uilizzando quello che c’è già stato e quello che già c’è nella nostra personale genialità; un confliio interno e silenzioso, consapevole del potenziale che possiede, con gli occhi ben aperi e messi a fuoco sugli archeipi e sui principi fondaivi che hanno portato l’uomo ad essere una creatura sublime; una goccia di col-lirio, per vederci chiaro e poter guardare con fiducia l’orizzonte, nonostante il mondo ci imponga la cecità e il desino abbia imposto a Beethoven, e alle sue reinterpretazioni furiose del classicismo, la sordità.

L’AUTO-GENERARSIBEETHOVENIANO

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È l’occhio del poeta,che ancora ha sete di libertà,

che libera un profumo di seta novella.È l’occhio del nostro comandante rivoluzionario

dove nuvole e vento vanno a cercar torma,e l’ultima forma.

Su ogni terra ha annotato l’inesprimibile, la vertigine,

la vita vergine; Dentro di sé riflette

tutto ciò che l’uomo ha perso; le donne pagherebbero

per partecipare al suo ciclo estatico.

Hanno finalmente senso,le parole:

la seta ---------------------------------- razziarivoluzione -------------------------------- catarsi

espansione ---------------------------- occhioLo schiavo s’è alzato di buon’ora per andare al limite della città,

dove ogni limite è infinito;e lì la città del sogno

ha offerto il sole, il delirio

e le lacrime, dell’uomo l’unico collirio.

L’OCCHIO

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8_Don’t Swallow the Cup – The NaaonalLa perfeea imperfezione di un giro di baeeria sempre fuori tempo: un baato di cuore non sincronizzato che sembra mandarr a pueane il respiro, questo è l’effeeo che producono i The Naronal con questo meraviglioso pezzo, parte di un medi un meraviglioso album.

COTTON FIOCIGENE AURICOLARE

1_Hong Kong – GorillazDamon Albarn, tra sperimentazioni etniche, Blur e lavori da solista, trova il tempo di farci vivere la quiete depres-siva di Hong Kong: caos calmo ed eterogeneità Gorillaz;

3_Mickey Mouse and the Goodbye–GrindermanLo sfogo schizofrenico figlio della crisi di mezz’età di Nick Cave: velocità inedita e intensità mai senrta,

2_Basic Insanct – The AcidUn trip contemporaneo che, tenendo le emozioni soeo controllo, scava tra le ombre e le ossessioni dell’animo umano;

4_Worms – Youth LagoonDimensione fisica e dimensione spirituale, l’una contro l’altra, si danno baeaglia nell’atmosfera onirica e nel sound rpico delle derive moderne post-Pink Floyd;

5_Piove – Prozac+Inquietudine punk anni 90’, i Prozac+ in paranoia pessimisrca: se piovesSe piovesSe, mille di queste paranoie;

6_Sexx Laws – BeckSesso e trasgressione per uno degli arrsr più geniali del panorama musicale contemporaneo. Avrei potuto citarvi il nuovo album, voglio che andiate a cercarvelo da soli;

7_Get Away – YuckIndie rock, influenze lo-fi, accento londinese: tueo quello che serve, oggi, per fare i fighea hipster e cavalcare la cresta dell’onda (tueo per finta);

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L’Amore Tenero

By

Ciro Apicella

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CONTINUED: 2.

VITTORIOSei così bella che mi metti insoggezione. Mi sento quasi unbambino.

La Donna sorride ancora.

VITTORIOMa di’ un po’. Tu sei innamorata?

DONNASì!

VITTORIOE di chi?

DONNAE allora? Mi dici cosa staiscrivendo?

VITTORIOTante bugie(sorride). Io l’amorenon l’ ho mica capito, sai?

Guarda ancora una volta verso un punto indefinitoall’orizzonte.

VITTORIOIo non ho capito niente di niente.

Con un scatto, La Donna, si posa sulle ginocchia.

DONNADove andiamo? Mica me l’ hai detto?

VITTORIO( Sorride)

E dove vuoi andare? E poi non so sene ho voglia.

La Donna si gira verso Vittorio, cambiando espressione.

DONNA(triste)

Ma come? Avevi detto che uscivamo?

Vittorio si avvicina alla Donna. Afferra dolcemente le suespalle.

VITTORIO(dolcemente, come se stesseparlando ad un bimbo)

Hai ragione! Mi dispiace, ma lo saiche devo finire di scrivere.

(CONTINUED)

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CONTINUED: 3.

DONNAE va bene. ( sorride). Maraccontami la storia. Di cosaparla?

Vittorio si allontana dalla donna. E i suoi occhi si perdonoancora nel vuoto.

VITTORIODi tutto e niente. Di un uomo chenon capisce l’amore e perde unamico. Un uomo all’impasse. Spessogli appare una donna, che glimostra le sue debolezze. Anchequelle che non credeva di avere.Lei è bellissima: è amante, èmadre, e un po’ bambina: è amica egiudice. Rappresenta la fuga e laprigione. Lei è la sua salvezza. Daqui la crisi, il vuoto,l’incertezza. Cosa faresti seperdessi tutto? Tutte le certezze?Quelle che credevi fossero le tuecertezze? Riusciresti aricominciare?

DONNAChi è quest’uomo?

VITTORIOE’ un povero cretino. Che ingannasé stesso per andare avanti, cometutti del resto. Una grande bugiache ci raccontiamo da sempre, peringannare quella noia cheingenuamente chiamiamo vita.

DONNAE tu? Tu riusciresti a ricominciareda zero?

Vittorio sembra non sentire.

VITTORIOE allora a cosa serve tutto ciò chefacciamo? Tutto ciò che scrivo? Achi interessa? E’ un atto diegoismo che non aggiunge nulla aglialtri, e nemmeno a me stesso. E’ lapaura che ogni parola, anche la piùimportante, possa essere persa nelvento. La paura che mi spinge alasciare alle spalle strascichi...

(MORE)

(CONTINUED)

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CONTINUED: 4.

VITTORIO (cont’d)strascichi di pensieri e dubbi,sogni e speranze che prendono vitain un orrore indefinito... unorrore che anche io faccio fatica ariconoscere.A cosa serveaffannarci? Arraffare tutto? A cosaserve correre su un’epidermide diemozioni? Tutto è polvere!

Vittorio si ferma. Ascolta il suono delle onde e sembrarealizzare qualcosa.

VITTORIOMa sì!( eccitato) Ma sì! Stosbagliando tutto! Stiamo sbagliandotutto! Andiamo via! Via da qui.

Vittorio si avvicina alla DONNA. Il suo volto si avvicinasempre di più a quello della DONNA, arrivando a sfiorarle ilnaso.

CUT

"A frediano, crisi e luce del mio cammino"

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Passeggiavo per il sentiero di punta Campanella. Il rigoglio biologico della primavera, il paesaggio cal-careo addolcito dalla macchia mediterranea, ricca di profumate e variopinte essenze vegetali spontanee, mi offrirono la compagnia di un’ape, il più laborioso e utile degli imenotteri sociali. Per imenotteri si in-tende un ordine di insetti aventi ali membranose, dal greco y Υμήν (hymem, membrana) e pteron (ala). Già l’attributo sociale fa intuire la complessità della nat-ura di un’ape. Giusto il tempo di alzare lo sguardo, mi resi conto che mi ronzava intorno un ape soldato, visto che a pochi metri, penzolava da un tiglio nas-costo un alveare. Quelle come lei sono deputate alla protezione dell’alveare; le operaie, invece, si dedicano solitamente alla costruzione e alla pulizia dell’alveare, mentre le bottinatrici escono alla ricerca di cibo. Cibo che serve a nutrire soprattutto l’ape regina, più gros-sa, con l’addorme maggiormente pronunciato, perché l’unica fertile. Osservavo le bellezze della penisola sorrentina, rapito da Capri, dal mare. - Ehi, che fai?! Così almeno interpretai il ronzio dell’ape, che mi fece notare che avevo calpestato un fiore. Lo raccolsi. Un profumo delicato ma presente, consono all’atmosfera primaverile che si respirava. L’ape gli volò vicino, ipno-tizzato da qualcosa che io non vedevo. Poi capii. Un disegno invisibile, almeno per gli umani, arricchi-va i petali. L’ape con la sua capacità di percepire la luce ultravioletta, riuscì a godersi quell’unico e igno-rato spettacolo. L’occhio composto dell’apis mellifera (portatrice di miele) riesce infatti a percepire anche le lunghezze d’onda elettromagnetica minori rispetto allo spettro del visibile umano, il quale si arresta al violetto. Delusa dalla mia superficialità, si allontanò, per tornare a proteggere l’alveare. Questa prerogativa sorge da una vitale necessità, quella di individuare i fiori ricchi di polline e nettare, alimenti indispensabili per il pronubo (altro nomen dell’ape). Una necessità vitale non solo per le api, ma per moltissime piante che necessitano dell’impollinazione operata dalle api e da altri imenotteri per compiere la fruttificazione. Il semplice gesto compiuto dall’ape nel poggiarsi sul fiore per procurarsi il cibo fa sì che polline e pistillo entrino in contatto, fecondando di fatto l’ovario del fiore, che diverrà frutto. Ecco perché sono definiti pronubi: essi favoriscono le nozze, o meglio, in senso meno letterale e più biologico: favoriscono la fecon-

dazione. Un onore, quello di incontrare un’ape, sem-pre più raro. L’utilizzo indiscriminato di neonicotinoidi (una classe di insetticidi), sta causando la moria del più importante degli impollinatori, del laborioso pro-duttore di miele. Si sostiene che lo squilibrio ecolog-ico causato dall’estinzione dell’ape possa avere con-seguenze devastanti, sino a causare la fine della vita sulla terra. Può sembrare un’esagerazione, ma può darsi che il prossimo kolossal apocalittico possa trarre spunto dal semplice ronzio di un’ape.

a spasso con l’ape

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SE UNA NOTTE D’INVERNO...Foglio sul tavolo. Penna sul foglio. Mano sulla penna. Non esce, l’inchiostro c’è ma non vuole uscire. Non appena sembra sia lì lì per saltar fuori ecco che con un’inversione ad U torna indietro e si appisola di nuovo nel proprio giaciglio. Troppo banale. Già sennto. Fuori tema. Suona male. Aspeea, questo potrebbe andare. L’in-chiostro stavolta esce: tre righe in un’ora sono un buon risultato. Mi merito un caffè: mi avvio verso la cucina e dopo 10 minun sono di nuovo seduto alla scrivania che sorseggio il mio fumante capolavoro. Rileggo le mie sudanssime tre righe: il caffè mi va quasi di traverso.

Orrore: è illeggibile.

CanCancello tueo, stavolta l’inchiostro esce abbondante disegnando sinuose onde sopra le righe scriee.Tueo da rifare. Chiudo gli occhi, li strofino con forza, quasi sperassi in una direea proporzionalità tra pressione ed ispi-razione. Scinnlle di luce si materializzano nell’oscurità. Qualche tempo fa lessi che questo fenomeno, questo dei bagliori di luce, ha un nome specifico, una roba npo “fosfene”… Mi domando da cosa sia esaeamente pro-vocato, potrei documentarmi… Ma il mio viaggio nel mondo dell’ooca e dei suoi misteri viene improvvisamen-te interroeo da un suono ovaeato di carta.

Apro gli occhi.

Seduto sulla mia poltrona, davann il camino scoppieeante, un uomo di mezza età sfoglia, con fare disinvolto, una rivista davann i miei occhi increduli ed esordisce: -Il Collirio, uhm, e tu di cosa dovresn occuparn? Ah sì, eccon. Oh guarda guarda, oggi tocca a me, interessante!- ed inizia a leggere – “Foglio sul tavolo. Penna sul foglio. Mano sulla penna. Non esce, l’inchiostro c’è ma non vuole uscire. Non appena sembra sna lì lì per…”. SSono esterrefaeo, che scherzo è mai questo. Maledeo fosfeni! Improvvisamente interrompe la leeura. Si ferma. Un brusco aeacco di tosse gli arrossisce il volto, l’aria di chi sta per soffocare, gli porgo subito dell’acqua. Calmata la tosse, mi guarda e sorride. Incuriosito ma non spaventato domando: -Ma lei chi è? Perché è seduto sulla mia poltrona? Come fa ad avere quella rivista se è ancora in produzione? Sorride ancora. Si guarda intorno alla ricerca del giornale, quasi a farmi capire che la risposta verrà soltanto a fine leeura. Sbarra gli occhi: la rivista è finita nel camino e lentamente brucia. --Maledizione. Sono mesi che non riesco a terminare un romanzo ed ora sembra la stessa sorte tocchi anche le riviste – il tono è infasndito – Hai un’altra copia?-Io non ho alcuna copia, quella roba lì non l’ho mai scriea. Avrei voluto scriverla, sì, ma non l’ho scriea. -Cerca nella libreria, tra Twain e Fitzgerald! – mi ordina con fare complice.Mi avvicino allo scaffale, comincio la mia ricerca: tra Mark e Francis Scoe giace, impolverato, “Se una noee d’inverno un viaggiatore” di di Italo Calvino. Un’intuizione fulminea, capisco tueo. Mi volto di scaeo verso il mio interlocutore: - Sei il Leeore! - Ma il Leeore è già scomparso. Ho il primo personaggio per la mia rubrica.

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RIFLESSI IN UNOCCHIO SOLO

La nostra generazione ha un lusso immenso: la possibilità di essere triste, ovvero la possibilità del problema di sovrastruttura.Resta fuori da questo lusso chi affronta l’Inferno quotidiano dei problemi di struttura, troppo applicato nella sussistenza per poter coltivare l’anelito di sofferenza che è il grande raggiungimento della cultura occidentale. È chi ha sperato in una possibilità di tipo diverso, chi si è rinchiuso in una accettazione dell’esistenza figlia della alopecia e chi ha sudato e gridato per poter guadagnare un posto al sole che è più ombreg-giato dell’ombra stessa.Ma ad interessare è chi vive così fortemente in questa società generazionale da assumerne, come cicatrici e tatuaggi, tutte le vertiginose contraddizioni. La ricerca è quella di un compromesso che faccia combaciare la nostalgia di casa e la profonda voglia di emancipazione. La pro-fonda asimmetria della suggestione non sempre riesce a riconoscersi – figurarsi ad otte-nere un risultato. C’è chi, perpetuato dal disagio, si immerge nella dimensione mondana, nell’immanenza profonda della domus che è stordimento, un attimo di terribile forza-tura all’handicap in camicia bianca e orologio da polso. Il loro viso è quello dei clochard

sopravvalutati, quelli che avevano la possibilità di spaccare il mondo ma si sono arresi, quel mancato dispiego di

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talento che, c’era da esserne sicuri, era fulg-ido. Qualcun altro è sicu-ro nell’aver individuato la colpevolezza stessa nella costituzione dell’esistente, in questo suo determinis-tico e razionalmente irrazio-nale continuo di indefinizioni perfette. È chi vuole fuggire da questo mondo che è il peggiore dei mondi possibili, asfissiante nelle sue possibilità così inoppor-tune, è chi conserva la spocchia di chi ha capito furbescamente il dis-incanto. C’è poi qualcuno che si strugge nella differenza, chi non vuole abbandonare la meravigliosa vita strutturale che ha consentito le possibilità di porsi il problema, ma che al con-tempo è soggiogato dal problema stesso, consapevole che la risposta è altrove. È qui che soggiace la vera possibilità della modernità: la possibilità di un problema culturale. Per qualcuno è questo l’anelito presentito, la ricerca di qualcuno che creda nella comunanza di un obiettivo, la realtà di una non solitudine nell’universo. È la necessità che viene prima di qualunque altra, uno sguardo all’occhio che sappia prendere la responsabilità di un contatto di amore e gratitudine.Ed è l’occhio che cerca l’occhio, osservandolo nelle sue sfumature plastiche ed impercettibili. Lo cerca per sussurrare, tramite ciglia che non hanno parole, che non si è mai soli nella ricerca di coerenza e senso dove coerenza e senso hanno deciso di non palesarsi. Noi siamo l’occhio che cerca, che vuole credere in una possi-bilità: la possibilità di realizzazione nel mondo che come novità offre la tristezza.

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PRELUDIO

I.

L’estate prorompeva solennemente: il sole filtrava dalle sue lenti da sole verdi, procurandogli un delizioso fastidio oftalmico. Tutto intorno era lento e sudato. Camminava stancamente, cercando rifugio dalla calura estiva. Voltò un angolo e scorse due donne sedute davanti ad una chiesa. Erano grasse ed annoiate ed avevano lo sguardo perso nel basola-to che, pure lui, ardeva dalla noia; una di quelle sospingeva un passeggino per inerzia e fumava senza perdere di vista il vuoto che la risucchiava. Non appena svoltò, le due donne trovarono nei suoi occhi il vuoto, o qualunque cosa stessero cercando. Lo fissarono dritto negli occhi, oltre le sue lenti verdi, fino a vedere le nuvole, nuvole bianche e carnose, le stesse che si andavano raggomitolando lì, sul Ve-suvio, perfettamente al centro, quasi a mimare con dolce ironia uno sbuffo letargico. Camminare era la sua forma di meditazione. Lunghe passeggiate lente; talmente lente da allentare il respiro, il cuore, la mente. Si svuotava respirando: rilassava i muscoli e li lasciava in balia di quell’andatura languida di chi cammina senza fare nient’altro, neanche pensare. Aveva lo sguardo vacuo e feroce, come uno squalo, e occhi di un azzurro così intenso da far gelare il sangue. Quando camminava, gli piaceva cercare lo sguardo delle passanti: donne, bambine, ragazze, nonne; accompagnate, sole, mano nella mano o col passeggino. Non importava. Doveva guardarle: in mezzo alle pupille, per un secondo. Un secondo che durava due passi e che spesso valeva un timido saluto oppure un sorriso irrisolto. Lo faceva nell’assurda consapevolezza che quello fosse un rituale privato, a cui partecipavano solo lui e tutto il genere femminile: lui guardava negli occhi le donne perché tutte le donne volevano guardarlo negli occhi. Come quelle due donne grasse e sudate, troppo stanche per serbare una dignità. Non voglio ridurmi così. Un secondo dopo e le due donne cominciarono nuovamente la loro person-alissima ricerca del vuoto. Non posso arrivare così in basso. Dopo i primi minuti della passeggiata, il cervello aveva ripreso le sue funzioni. Non lo sopporto. I vecchi giardini trasudavano d’arancia e l’odore dei gelsomini giungeva di lontano, sospinto da una brezza leggera. Percorse il viale, immerso nell’estate della natura, quindi arrivò al belvedere. Per un attimo, il vento parve concentrato solo a gonfiare i pini marittimi, che danzavano nell’azzurro come dervisci, e le cui chiome ondeggiavano come fossero accarezzate; ma il frullìo delle carezze lo si percepisce con un attimo di ritardo: è una sfalsatura incantata. Un attimo, un secondo. Quello stesso momento in cui, lui stesso, negli occhi di quelle due donne, aveva capito che non sopportava la me-diocrità. Non si fermò al belvedere, ma proseguì dritto: giù per la stradina che, tra i giardini d’aranci, conduceva al mare. Lungo la discesa, passò per un basso. Al suo interno, una mandria di bimbi schi-amazzava davanti ad un vecchio televisore, mentre la madre, sfatta e sudata, cercava riposo su una sedia malconcia. Che schifo. Il vento d’africa sbatteva forte, adesso sì, vicino al mare, sulle case diroccate che si abbarbicavano sul costone di roccia. Un gabbiano ghermì un pesce dalla rete di un pescatore, mentre una vecchia donna ricamava paziente all’ombra. Non capisco. Non capisco a cosa pensano quando si svegliano. Non capisco se hanno deciso o qualcuno ha scelto per loro. Non capisco come si possa vivere senza uno scopo. Perché non hanno uno scopo? Perché si accontentano? Perché vivono così? Come fanno a vivere così? Attraversò tutto il borgo. Lentamente, soffermandosi su scene di vita vissuta quotidianamente, da secoli. Non riusciva a trovare un briciolo di dignità in quella melma mediocre. È questa la vita? Ad un tratto, giù dallo stomaco proruppe un conato di vomito, ma riuscì a trattenersi. Si av-vicinò ad una fontanella per sciacquarsi la faccia. Stava meglio. Comprò una birra e se ne andò sul molo ad aspettare il tramonto.

il falso specchio

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Dopo neanche cinque minuti, cominciò a vomitare. Vomitò tutto quello che aveva in corpo, compresa la riserva di succhi gastrici. Terribili getti gutturali lo costringevano ad uno sforzo capillare e resero il suo volto più vermiglio del mosto. I suoi bellissimi occhi azzurri erano iniettati di sangue, stanchi per lo sforzo compiuto. Si sciacquò la bocca con un sorso di birra, poi accese una sigaretta. Finalmente aveva capito cosa fare.

II.

- Mi dispiace, signore, ma non abbiamo segnalibri. L’hostess era visibilmente indispettita. - Prenda questo. Disse un giovane allungando un bigliettino. - Se ha problemi alla vista, di qualunque tipo, le consiglio di seguire il suggerimento. Il giovane sorrise ammiccando compiaciuto, ma lui ascoltò a stento quello che stava dicendo, poiché era perso in visioni mediterranee e poiché dava poco peso alle parole di chi non aveva una prospettiva munifica. Fece un pigro cenno d’intesa, impacciato. Sistemò il segnalibro in un piccolo libro di pelle nera, e si addormentò per tutto il resto del volo.

III.

- Un pastis s’il vous plaìt. Quel giorno Parigi era più grigia della Torre Eiffel. Una coltre di nubi la avvolgeva serena-mente, e la luce era bianchissima e densa. Dalle sue lenti verdi, sembrava tutto più raffinato, visto che anche i marciapiedi parevano di smeraldo. Aveva comprato una casa a Passy, dove amava trovare rifugio quando voleva staccare dai ritmi ed ascoltare il pensiero. Parigi era l’unica città in cui si trovava a suo agio. Forse perché era l’unica città in cui riusciva a camminare come gli piaceva: la notte, da solo, sul lungosenna, sotto gli archi di Rue de Rivoli, oppure in mezzo la maestosità di Place de la Concorde, o cercando di carpire l’intimità di vecchie eleganti signore che si riunivano nel Jardin des Tuileries, assiepate in un discorso sommesso; a Les Invalides, magnifica tomba d’un superbo imperatore, che voleva l’ampiezza anche nell’architettura della sua cap-itale; lassù, sull’Arc de Triomphe, fermarsi immobile a dominare gli Champs Elysees nella solitudine della caligine lunare. Amava Parigi per queste ed un’altra serie di cose: il velo di raffinatezza che pareva ammantasse tutto, anche i bottoni e i clochard; amava quando i francesi gli parlavano in italiano, perché le rare volte che accadeva, era come se parlassero scartando una caramella con la bocca; amava l’eleganza della lingua perché anche un pesce in francese ha una dignità fonica: si chiama poisson. Rimase seduto al bistrot per almeno mezz’ora. La sua mente era più tersa del pastisse che stava sorseggiando - non amava allungarlo con l’acqua -, nonostante dovessero essere molti i pensieri che lo turbavano quel pomeriggio. A Parigi poteva camminare lento, quindi anche i suoi pensieri si allentavano. A Parigi poteva camminare lento perché era tutto elegante: non esisteva la mediocrità. Aveva capito che doveva evi-tarla anni prima, in un istante, quando incrociò lo sguardo di due donne grasse e sudate. L’oblìo del vuoto; il disgusto di essere svuotato. Per questo aveva deciso di partire. Non riuscì mai a tornare da dove era partito, principalmente a causa del suo lavoro e dei suoi ritmi megalomani, e questo a volte causava degli strascichi. Strascichi tuttavia sempre trascurabili. Era partito in cerca di uno scopo che potesse essere anche rimedio al suo disgusto. Merito, talento ed abnegazione lo avevano condotto fino a raggiungere la vetta, relativamente in fretta, nel giro di una diecina d’anni. Da allora è sempre rimas-to lì, quindi oramai vedeva il mondo da una certa altezza da molto: gi si era formato una sorta di callo sul cuore.Aveva individuato il suo scopo nel danaro, il suo plasil per la mediocrità: il danaro gli aveva permesso di evitare quella vista che ripudiava. Una fredda e lucida indifferenza, un intuito feroce e un’ambizione imponderabile erano le suo tre virtù teologali nel lavoro. Ma quando stava a Parigi, aveva solo il tempo per pensare a niente e fare nient’altro, abbandonandosi in un limbo tra ignavia e

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autocommiserazione. Non pensava al lavoro, quindi non pensava a niente, dato che non pensava ad altro quando non era a Parigi. Ma c’era una cosa a cui pensava sempre, ovunque si trovasse, a Parigi o al lavoro. Non dimenticava mai il suo rituale privato con le donne: nel lavoro quel rituale gli era valso a cogliere numerose opportunità; a Parigi numerosi amori. Mentre beveva, l’anisetta del pastisse gli pizzicava la lingua e la rinfrescava. Sul tavolino ri-posava da una fresca lettura un piccolo libro in pelle nera. Sul frontespizio campeggiavano in oro: “LYRICAL BALLADS with a few other poems” by William Wordsworth & Samuel Taylor Coleridge; era una ristampa della seconda edizione, quella della famosa prefazione. In quel libro ci si immergeva per nostalgia. La cosa che gli mancava di più del posto da cui era partito ed a cui non aveva mai più fatto ritorno era la natura. Solo Wordsworth e Coleridge riuscivano a dare parola ai pensieri che gli suscitava la contemplazione della natura, di quella natura. Ciò che gli mancava era l’inconfondibile vista della sua terra. Ma per raggiungere la vetta non puoi fermarti mai, e sei fortunato se riesci a costruirti un nido a Parigi, dove puoi permetterti il lusso di non lavorare. - Lei è un cannibale. Lei insegna cannibalismo. Non si vergogna? Mi fa schifo quello che pen-sa, quello che insegna. - Allora le fa schifo il mondo. Disse sorridendo maliziosamente. Era abituato a questo genere d’insulti, abituato a non darci peso. La mattina precedente era stato invitato a tenere una lezione in una prestigiosa Università milanese. Raccoglieva lauree ad hon-orem di continuo, in tutto il mondo, ed in alcuni periodi dell’anno si dedicava unicamente alle con-ferenze. - No, non mi fa schifo il mondo. Mi fanno schifo le persone come lei. Quelli come lei... Lei non si rende conto di che razza di mondo ci state lasciando? Di cosa ci state insegnando? Di come ci state insegnando a vivere? Non ve ne accorgete, vero? Lei ha mai pensato a quante persone ha distrutto la vita? Quante si sono buttate di sotto per colpa sua? Lei mi ha portato via la dignità. Lei mi fa vomitare.La squadrò freddamente. Solo allora si accorse di quanto l’umiltà del suo aspetto stonasse con la realtà di quel magnifico contesto accademico che faceva da cornice alla magniloquenza arrivista dei suoi discorsi. Terribile mediocrità. - Lei non ha una dignità. Quelli come voi non hanno una dignità. Disse lentamente. - Io sono giovane: ho diritto ad una dignità. Non ho vissuto abbastanza a lungo da dimenticar-mene, come ha fatto lei. Un attimo, un secondo, ecco il suo rituale. Il tempo si era fermato e lui, in quei furiosi occhi cerulei, aveva visto il vuoto: era il riflesso dei suoi occhi oppure la rivelazione di quell’anima indigna-ta? Gettò in gola l’ultimo sorso di pastisse e ritrovò i suoi occhi, quei bellissimi occhi azzurri, nel pesante fondo del bicchiere. Si era riperso in quell’attimo, di nuovo.

IV.

La natura non può essere mai mediocre e per questo che è così scomodo rilevare quanto sia mediocre la natura degli uomini. Lui credeva invece che la natura non potesse mai essere mediocre, neanche quella degli uomini. La mediocrità era una scelta: la scelta della rassegnazione. E lui non sopportava la rassegnazione, non riusciva a tollerarla. La reputava una scelta contro natura, contro ra-gione. Ne aveva preso consapevolezza in un momento preciso. Durante l’estate della maturità, quando camminava solitario in cerca del suo futuro, quando lo sguardo di due donne gli aveva instillato un profondo senso di turbamento, di inquietudine, che saliva, piano ma incessante, vigoroso, traducen-dosi in un disgusto nauseabondo. Quel pomeriggio vomitò tutti i suoi pregiudizi e comprese di essere abbastanza vuoto ed affamato per azzannare il mondo. Doveva emanciparsi dalla mediocrità, ecco tutto.

[...] The man, whose eye Is ever on himself, doth look on one, The least of nature’s works, one who might move

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[...] The man, whose eye Is ever on himself, doth look on one,

The least of nature’s works, one who might move The wise man to that scorn which wisdom holds

Unlawful, ever. [...]

Arrivato al punto, posò il libro aperto a faccia in giù, nonostante odiasse interrompere così bruscamente la lettura: le lettere dorate cesellate luccicavano ai riflessi dell’abat-jour. Non riusciva a distogliere il pensiero da quello sguardo iracondo. Non riusciva a distogliere la mente da quegli occhi cerulei, quello sguardo iracondo. In quegli occhi aveva visto il vuoto attraversa-to da una scintilla di fuoco, la stessa che attraversava i suoi occhi nei momenti di massima determi-nazione in campo professionale: quando circuiva la preda ignara ed ingenua, come uno squalo dallo sguardo cristallino e feroce che fissa un tonno che ha perso il branco. Quella stessa scintilla balenava negli occhi di quella ragazza indignata. Ma com’era possibile, se quella disgraziata non aveva una dignità? Come fa un’indegna a sentirsi indignata? Un mulinello di pensiero lo risucchiava, incalzando lentamente. Perché anche lei è nause-ata? Anche lei ha la scintilla? Anche io ero nauseato. Anche io ebbi una scintilla. Non è che... Mmm, non è molto logico: lei era così mediocre. E poi si vedeva che non valeva niente. Però c’aveva qualcosa... Nello sguardo, un attimo e mi ha preso di soprassalto... Non ho capito come ma... Bah, io le ho portato via la dignità, ma che significa. Io sono giovane: ho diritto ad una dignità... Perdenti, non sanno lottare, non sanno che significa conquistarsela una dignità, con il proprio ingegno, innalzandosi, fuggendo l’anoni-mato, perseverando, il danaro è un buon obiettivo, un ottimo motivatore. Che cazzo hanno in testa? Qua tutto gli è dovuto... A questi giovani da poltrona... Non poteva continuare a leggere. Posò gli occhiali sul tavolino e si stropicciò gli occhi a lungo, fino a vedere fosfeni ovunque. Io non ho distrutto la vita a nessuno. Io faccio il mio lavoro ed il mio lavoro è fare soldi. Non è col-pa mia se gli altri non lo sanno fare. Io farei vomitare? Io? Qua non si capisce più nulla. Sono le persone come lei che fanno vomitare, non io. Io vomito, non faccio vomitare! “Non ho vissuto abbastanza a lungo da dimenticarmene, come ha fatto lei”. Io mi sarei dimenticato di avere una dignità? Così, camminando, lungo il percorso, l’avrei persa per la strada. Sì, certo, come se fosse colpa mia se non sa reagire allo schifo del mondo. Come se fosse colpa mia se ha scelto la mediocrità...

- ...disgustato per quest’ennesimo caso di corruzione. ... A Milano choc, una giovane stu-dentessa si dà fuoco in una banca. Prima del gesto ha urlato “Non voglio vivere nel mondo che ci state lasciando!”. Era lei. Fissò dritto nello schermo gli occhi cerulei della ragazza e rivide quella scintilla. Bas-tava quel titolo per tutto il telegiornale, almeno per lui. Restò immobile per un tempo indefinito, mentre la voce della giornalista si disperdeva inaudita. Gli sgorgò una lacrima, ma non se ne accorse, rigandogli la gota perfettamente rasata. Il telegiornale era finito, o in pubblicità, guardò l’orologio e si rese conto di avere una stretta allo stomaco. Devo disdire il tavolo da Prunier. Dalle finestre del suo nido, Parigi era ancora livida dalle noie pomeridiane. Alzò il telefono e mentre componeva il numero, notò la lacrima che non sapeva di aver versa-to. Aggrottò la fronte. - Prunier, bonsoir. Lui non piangeva mai, che cos’era quello che aveva. - Prunier, bonsoir. Il y a quelqu’un au téléphone? La lacrima si era posata lievemente su un cartoncino. Era il segnalibro. Lo prese e saggiò le trame della carta con i polpastrelli, non era male. “RIFATEVI GLI OCCHI”. La lacrima lambiva per-fettamente i contorni della O dall’interno, riempiendola di dolore.

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V.

Quella notte camminò per Passy in compagnia della luna. Livido come Parigi, come il dolore. Scese per i giardinetti e si affacciò sulla Senna per guardare la Tour baluginante nella caligine lunare. Un attimo di zaffiro per capire il significato autentico della scelta della rassegnazione. Il vuoto attra-versato da una scintilla, ciò che aveva visto negli occhi di quella ragazza: era il riflesso della mia anima o della sua anima? Il compendio della mia vita o il preludio dell’epilogo della sua vita? Erano entrambe le cose: lui e quella ragazza erano riflessi in un falso specchio, ma non ebbe il coraggio di capirlo.

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