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ISBN 978-88-89984-18-5

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COLLANA ELEMENTI Progetto editoriale: Alessandro Lion

Impostazione grafica: Camilla LionSupervisione grafica: Anna DonegàCopertina: Claudia ZanonFotografie: Guido Turus, Sechi Salvatore

Tutti i diritti sono riservati

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Salvatore Sechi

Un naso rosso per l’umanizzazione delle cure pediatriche

Clown di Corsia

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A tutti i bambini dell’ospedale pediatrico di Padova e ai loro genitori, per farci dono delle loro fragilità

A Luca e a tutti i “ninõs”

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Clown di corsia Un naso rosso per l’umanizzazione delle cure pediatriche

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PresentazioneLa realizzazione di questo libro nasce da diverse esigenze; in primo luogo, il bisogno di ripercorrere e approfondire le mie conoscenze in ambito psicologico e, in seconda istanza, la volontà di condividere ciò che la vita mi ha regalato dal giorno in cui ho conosciuto la maschera più piccola del mondo, dal momento in cui i miei desideri adolescenziali, tipici di un giovane idealista che sente parlare in TV di clown-medici, si sono concretizzati e convertiti in esperienza reale.Il clown di corsia e i suoi effetti sul bambino ospedalizzato sono stati oggetto di studio preferenziale nella mia carriera universitaria, ma soprattutto, hanno rappresentato la risposta alla mia continua esigenza di “Vivere emotivamente”. Ho scelto di sviluppare un tema in cui le informazioni potessero essere tratte sia da una vasta bibliografia ma anche e soprattutto dalla mia esperienza personale; il mio obiettivo è dunque quello di divulgare non soltanto dati descrittivi quanto piuttosto le mie emozioni di fronte al miracolo del ridere come “medicina”. Questo vuole essere un viaggio attraverso il quale rivivere i dubbi e le certezze sulla figura del clown e sulla sua ambiguità sociale, sulla risata e sul mondo fantastico che scaturisce dal sorriso di un bambino. Nel mio percorso di scrittura ho provato a riflettere sulle evoluzioni del mio modo di pensare; se appena entrato in ospedale associavo alla figura del clown il solo gesto del “mettersi un naso rosso”, ora del Clown ne riconosco la potenza introspettiva ed educativa. Costruendo

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Presentazione

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il proprio “pagliaccio” impariamo a conoscerci, ad accettarci e a giocare con le nostre ombre. Vestendo i panni del clown aderiamo volontariamente a valori più nobili di quelli imposti dalla società del “corpo perfetto”, quali l’emotività e i sentimenti positivi. Per non impelagarmi in congetture “buonistiche” o “filosoficamente astratte”, ho deciso di approfondire, all’interno di questo libro, le conseguenze fisiologiche della risata; si tratta dunque di un percorso volto a confermare quanto la nostra “Mentalità” non possa essere scissa dalla nostra “Fisicità”. Ho ritenuto opportuno introdurre la figura del clown di corsia riflettendo su concetti ad essa legati quali l’ospedalizzazione, il rapporto tra emozioni e sistema immunitario ed altri “aspetti psicologici” per me di grande importanza. La malattia, in tutte le stagioni della vita, determina una condizione di profonda crisi che incide sia a livello biologico, perchè comporta limitazioni, sofferenze e disagi, sia a livello esistenziale perchè interrompe l’abituale ritmo di vita, altera il rapporto con gli altri e disorienta l’identità. La “clown-terapia”, come ogni intervento di affiancamento alle cure tradizionali, ha voluto superare la visione del paziente come soggetto malato, valorizzando una concezione più umana che sottolinea il ruolo della persona come individuo unico e degno di ogni considerazione.Come lavora un clown nelle corsie dell’ospedale? Quali sono le sue caratteristiche e le linee guida del suo intervento? Cos’ è la tanto menzionata “ clown-terapia”? Da dove nasce? Perché proprio il clown? Perché il sorriso fa bene? Come agisce nel nostro organismo?

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Presentazione Clown di corsia Un naso rosso per l’umanizzazione delle cure pediatriche

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Queste sono le domande a cui ho cercato, nel corso degli anni, di dare risposta… Tante sono state le scoperte e altrettante le conferme, ma quella che chiamiamo la “medicina del sorriso” ha bisogno di avvalorare le proprie ipotesi con ulteriori studi e altre riflessioni. In una realtà condizionata dal “tutto” e dal “troppo”, si prospetta l’esigenza di una maggiore attenzione al concetto di salute dal punto di vista sociale, fisiologico e culturale. È necessario approfondire gli studi sulla relazione corpo-mente e sul coinvolgimento attivo del paziente nel suo percorso di cure. Il contatto diretto con il malato ha messo in discussione le mie certezze e mi ha permesso di maturare nuove consapevolezze. Come clown di corsia e come uomo, auspico una maggiore attenzione verso la sofferenza altrui e verso l’isolamento sociale che spesso la malattia determina, anche al di fuori delle mura ospedaliere. Una società più sorridente e conviviale può contenere e ridurre non soltanto queste sofferenze, ma anche e soprattutto il sottile disagio che regna nelle nostre vite e che si manifesta nella sfrenata volontà di dare soddisfazione a tutte le richieste e le pretese. Mi accorgo sempre più di quanto sia difficile “stare dietro a noi stessi”, assaporare i momenti che la vita ci offre e gioirne in modo totalitario. È questo ciò che ho appreso dall’esperienza di essere clown: godere di ogni piccola cosa con lo stupore e la meraviglia che appartengono al bambino, vivere con semplicità gli eventi cercando di individuare in essi il lato positivo. Buona lettura. Salvatore Sechi

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Capitolo 1 Background culturale-legislativo e discorso epistemologico

Prima legge dei robot: mai danneggiare un essere umano.

(Isaac Asimov)

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Parlare di clown di corsia non è semplice! Non lo è perché il suo fenomeno tocca diversi aspetti: dalla figura teatrale del clown agli effetti psicologici dell’ospedalizzazione pediatrica; dall’importanza del gioco nella crescita del bambino agli effetti eccitatori-salvifici della risata. Ma non si può parlare di Clown di corsia senza aver fatto cenno al contesto nel quale nasce, contesto che ha una sua specifica storia e si fonda su alcuni “step” culturali specifici.

1.1 Come sono cambiati i diritti dei bambini

È fondamentale parlare del cambiamento del ruolo sociale dell’infanzia, che ha influenzato l’evoluzione dell’ambiente culturale e medico della nostra società. Infatti, mentre prima il bambino veniva privato di identità propria perchè ritenuto “piccolo” o “minore”, solo nel secolo XX lo si inizia a considerare (il bambino) quale titolare di diritti autonomi e non di proprietà della famiglia. Nel 1924 si inizia a fare qualche passo in avanti con l’approvazione della Dichiarazione dei diritti del fanciullo (Dichiarazione di Ginevra), adottata dalla Quinta Assemblea Generale della Società delle Nazioni, nella quale vennero citati i diritti del bambino ad un adeguato sviluppo fisico e mentale, ad essere nutrito e curato, ad essere riportato in un ambiente normale qualora viva in contesti disagiati e ad essere accudito e aiutato se orfano.

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Capitolo 1

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Capitolo 1

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Con la dichiarazione universale dei diritti umani nel 1948 si sancì la necessità di una protezione speciale alla maternità e all’infanzia (art 25, comma 2).

Dopo lo scioglimento della Società delle Nazioni e la nascita dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1959 si torna a parlare dei diritti dell’infanzia con la Dichiarazione sui diritti del bambino (Risoluzione n° 1386 del 1959), affermando che “il bambino gode di una protezione speciale e attraverso la legge o con altri mezzi devono essergli fornite pari opportunità e strumenti che permettano il suo sviluppo fisico, intellettuale, morale, spirituale e sociale in modo sano e normale e in condizioni di libertà e dignità” (principio II). La grande novità di questa dichiarazione è dunque quella di aver equiparato la tutela fisica del bambino a quella intellettuale, relazionale e affettiva.

Il 20 novembre 1989 viene “partorita”, dopo più di dieci anni di lavori preparativi, la convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo (Convenzione di New York) che vanta il maggior numero di ratifiche. I diritti di questa convenzione vengono divisi in quattro aree principali: la prima che riguarda il diritto del bambino alla sopravvivenza, la seconda che sottolinea i diritti allo sviluppo individuale e sociale, la terza relativa alla protezione e, la quarta, la più innovativa, che evidenzia il diritto del bambino alla partecipazione. Quest’ultima area rileva dunque l’importanza di riconoscere al bambino il diritto ad essere informato, ascoltato e coinvolto nelle decisioni che lo riguardano.

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1.2 Un nuovo concetto di salute

A queste prese di coscienza internazionali è interessante aggiungere come vi sia stato un cambiamento paradigmatico del concetto di salute, da sempre concepito in termini monodimensionali, ossia come stato fisico dell’organismo in piena funzionalità, senza evidenza di malattie. Di contro, a partire dal 1948, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (dopo O.M.S.) ha compiuto un importante passo in avanti riconoscendo la natura multidimensionale della salute. L’O.M.S. integra così nella vecchia concezione di salute la dimensione sociale, culturale e soggettiva, utile agli operatori ospedalieri per percepire il paziente nella sua complessità e totalità ed eliminare, quindi, l’orribile concezione del “malato” come portatore di soli sintomi. Si viene dunque a delineare l’importante passaggio dalla definizione di salute come assenza di malattia a quella di completo stato di benessere fisiologico, psicologico e sociale.

Da quegli anni in poi si intensificarono i lavori alla ricerca di prove empiriche sugli effetti dell’ospedalizzazione pediatrica: da Bowlby (1957, 1982) che affrontò, in particolare, le conseguenze derivanti dal distacco dalla madre, a Spitz (1945) che volle comprovare, invece, gli effetti negativi dell’istituzionalizzazione, dando vita al termine “Hospitalism” per descrivere il declino della salute in conseguenza a lunghi periodi di ospedalizzazione.

In un famoso saggio del 1958, per la prima volta, l’opinione pubblica si confrontò con l’impatto e gli esiti traumatici

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che il ricovero determina nel bambino (Robertson, 1980). Con una accurata ricerca, questo studioso confermò che l’ospedalizzazione provocava sofferenza mentale, impoverimento della personalità e sentimenti di ostilità e angoscia nei confronti dell’ambiente. (ibidem). Alle ricerche di Robertson seguì uno studio promosso dal Ministero

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Capitolo 1 Clown di corsia Un naso rosso per l’umanizzazione delle cure pediatriche

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della Salute inglese, dal titolo “The Welfare of Children in Hospital”, più noto come “Rapporto Platt”, all’interno del quale vennero stilate precise raccomandazioni sugli aspetti non strettamente medici dell’assistenza pediatrica. Tra queste, le principali furono: le visite non devono avere restrizioni e i genitori possono vedere i bambini in ogni momento; si devono prendere provvedimenti per cui i genitori di bambini sotto i 5 anni possano vivere il ricovero accanto ai figli; la formazione dei medici deve essere migliorata inglobando aspetti fino ad allora non considerati, come lo studio della sfera emotiva del piccolo paziente.

Nel maggio del 1986, il Parlamento Europeo adottò una risoluzione su una proposta di “Carta Europea dei bambini degenti in ospedale” (risoluzione A2-25/86), che in Italia venne introdotta con una mozione della Camera dei deputati (n° 1-00105 del 3 settembre 2002, seduta 185) presentata dall’On. Bolognesi. Se nel documento originale si faceva riferimento alla possibilità di poter richiedere il rispetto della Carta anche in caso di ricovero al di fuori del paese di provenienza, nel testo approvato in Italia, lo Stato si impegna a “prevedere modalità non subalterne di coinvolgimento delle organizzazioni di volontariato nell’attuazione dei diritti precedenti”. Viene dunque evidenziato il ruolo fondamentale e fondante delle associazioni di volontariato nel processo di umanizzazione delle cure e di garanzia dei diritti dei bambini in ospedale.

In conseguenza a ciò e al fine di garantire piena attuazione dei suggerimenti degli esperti, sul diritto alla presenza dei genitori e sulla creazione di un ambiente

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ospedaliero adatto alle esigenze psico-fisiche dei bambini, in diversi Paesi si costituirono associazioni di volontariato, che nel 1987 si riunirono a Leida, in Olanda, per il primo convegno sul tema “Bambino e ospedale”. In quella sede si discusse sull’effettivo compimento, all’interno dei vari Stati, della risoluzione del Parlamento Europeo in merito ai diritti del bambino degente in ospedale (Gazzetta ufficiale delle comunità Europee”, 16 giugno 1986); nacque quindi la cosiddetta “Carta di Leida” e si definirono i settori di intervento per il benessere del bambino ospedalizzato: la presenza dei genitori, la preparazione al ricovero, il gioco e l’ambiente. La Carta di Leida si convertì in Carta di EACH (Allegato) quando le stesse associazioni che la sottoscrissero si riunirono in European Association for Children in Hospital (EACH).

Nel 2001, in Italia, venne adottata la “Carta dei diritti del bambino in ospedale”, ancora una volta ispirata ai principi della Convenzione delle Nazioni Unite: ad essa aderirono, in un primo tempo, i quattro grandi ospedali pediatrici (“Burlo Garofalo” di Trieste, “Meyer” di Firenze, “Bambin Gesù” di Roma e il “Gaslini” di Genova) e solo successivamente si estese a molte altre strutture ospedaliere del territorio italiano.

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1.3 Nascita della Gelotologia

La nascita dell’attività di clown di corsia si avvale della sempre maggiore coscienza empirica dell’apporto positivo del sorriso sullo stato di salute. Il primo caso, per così dire “pioneristico”, è quello del giornalista americano Norman Cousin che, negli anni ’80, ammalato di una forma rara di spondilite anchilosante (malattia che altera le articolazioni fino a portare alla paralisi e alla morte), decise di impostare la propria cura su metodi ancora non concepiti dalla medicina tradizionale. Infatti, egli chiese di poter essere curato attraverso la somministrazione massiccia di vitamina C e con alte dosi di stimoli comici (film, filmini e gags comiche). La salute migliorava a vista d’occhio, risata dopo risata, fino al completo ristabilirsi. Grazie a questa sua intuizione Norman Cousin ricevette la laurea ad honoris causa dall’Università della California di Los Angeles. In seguito, egli fece nuovamente ricorso allo stesso tipo di cura per un altro problema di salute (infarto al miocardio) che si risolse in una straordinaria e “miracolosa” guarigione. Altra esperienza sicuramente degna di nota è quella del medico L. Ljungdhal che, sempre in quegli anni, decise di compiere uno specifico studio per valutare oggettivamente gli effetti dell’umorismo su pazienti con malattie a lungo termine (Ljungdahl, 1989). Alla fine di questo percorso egli evidenziò l’effettiva ed immediata positività della risata sui sintomi e gli innegabili miglioramenti sulla qualità della vita del paziente cronico. Da queste esperienze e dai cambiamenti paradigmatici sopracitati, nasce la Gelotologia, dal greco ghelos (Riso),

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una scienza giovanissima che si prefigge, attraverso il buon umore e le emozioni positive che si stabiliscono tra paziente e medico, di stimolare il potenziale di auto-guarigione. La gelotologia comprende sia l’approccio passivo, cioè quelle attività dove il gelotologo è chiamato semplicemente a far “ridere” e a procurare emozioni positive, che quello attivo, il quale abbraccia tutte le esperienze che coinvolgono la persona nella produzione di umorismo e in cui “è attivo nel ricercare la sua vis comica” (Fioravanti, Spina, 1999). La gelotologia pone le sue basi sulla psiconeuroendocrinoimmunologia, che si fonda sullo studio delle interrelazioni tra il sistema nervoso centrale, il sistema endocrino ed il sistema immunitario; di tali aspetti parleremo in maniera più dettagliata nel quarto capitolo.

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1.4 Quando nasce la figura del clown di corsia?

Si cominciò a parlare per la prima volta di clown di corsia nel 1978 quando Christensen, un clown professionista, del Big Apple Circus inventò uno “speciale” servizio ospedaliero nel “Babies and Children Hospital” del Columbian Presbyterian Medical Center di New York, con la consapevolezza, e soprattutto nella speranza, di poter utilizzare la risata e la fantasia come antidoto allo stress ospedaliero. Oggi “The Clown Care Unit” ha 17 programmi di intervento con circa 90 clown professionisti impegnati per far sorridere e assistere i bambini ospedalizzati. (bigapplecircus.org)

Sulla base delle ispirazioni idealiste della Big Apple Circus Care Unit, nel 1991 nasce in Francia “Le rire Médecin”, un associazione che si occupa di portare divertimento e fantasia (Simonds, Warren, 2003) negli ospedali pediatrici. Questo movimento di “hôpiclowns” nasce sotto la guida di Caroline Simmonds (dott.ssa Giraffa), clown professionista americana traferitasi a Parigi in quegli anni. (leriremedecin.asso.fr)

Nel 1993 nasce, in Svizzera, la fondazione Theodora grazie all’iniziativa dei due fratelli André e Jan Poulie in memoria della loro madre Theodora, con lo scopo di supportare gli ospedali pediatrici nel lenire le sofferenze dei bambini ricoverati. Nel 1995 iniziano le attività dei “dottor Sogni” anche in Italia, precisamente nell’istuto tumori di Milano, espandendosi poi in altre città come Monza,

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Genova, Savona, Torino, La Spezia, Pavia e Bologna. Attualmente questi clown professionisti sono presenti in 30 ospedali svizzeri e 20 all’estero. (theodora.org)

Nel dicembre 1995 nasce l’associazione Ridere per vivere! per dare uno sfondo giuridico alle varie iniziative proposte, negli anni precedenti, da un equipe di studiosi provenienti da diverse realtà; tra cui Leonardo Spina, at-tore e clown, e Sonia Fioravanti (psicologa e psicotera-peuta). Questi ultimi collaborarono alla creazione di un metodo di lavoro in cui le emozioni positive ed il ridere avessero la possibilità di essere utili alla crescita del-le persone, a cui poi venne dato il nome di “Comicità e Salute”! Nel 2003 durante un raduno associativo nasce la federazione di “Ridere per vivere”! (Foligno) per regola-mentare i rapporti tra le diverse realtà associative presenti in regioni come Lazio. Emilia, Toscana, Lombardia,Veneto. (www. riderepervivere.it)

Nel 1996, da un iniziativa della Fondazione Garavaglia, nasce Dottor Sorriso onlus, che si avvale del lavoro di diversi professionisti per incontrare i bambini e i genitori, e “strappargli” un sorriso in un momento di estrema fragilità come quello dell’ospedalizzazione. Questo movimento ha avuto il ruolo fondamentale di introdurre la clown-terapia in alcuni istituti di riabilitazione, accompagnando con la forza della comicità bambini affetti da disabilità fisiche e mentali, patologie psichiche, malattie croniche e degeneranti. Ora è presente in 27 strutture sanitarie in 14 province italiane. (www.dottorsorriso.it)

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A Firenze, nel 1998, nasce il primo corso specialistico di clown di corsia professionisti, sotto la guida di Vlad Olshansky (Dott. Bobo), il direttore artistico di Soccorso Clown. Quest’ultima è una piccola società cooperativa che opera in vari ospedali di Roma, Napoli, Siena, Modena, Cremona, Prato e al “Meyer” di Firenze.

I clown professionisti di Soccorso Clown “sono attori versatili e pluri-specializzati” (soccorsoclown.it), con differenti provenienze artistiche, “che si addestrano appositamente ad acquisire tecniche mediante le quali sdrammatizzare, all’occorrenza, i piccoli e i grandi drammi della vita dei piccoli pazienti” (ibidem)

Nel 1997 nasce a Torino la prima associazione V.i.p. Clown (acronimo di vivere in positivo), con lo scopo di portare volontari-clown “in quei luoghi in cui sia presente un stato di disagio fisico o psichico” (clownterapia.it). Nel 2003 nasce la federazione nazionale “VIP Italia ONLUS” che attualmente è composta da 35 Associazioni VIP e circa 2600 i volontari attivi e 93 gli ospedali convenzionati.

Ma la figura del clown di corsia raggiunge l’apice della popolarità con l’uscita del film “Patch Adams”, maestralmente interpretato da Robin Williams, in cui si raccontano la vita e i progetti di un giovane medico e clown che cerca, attraverso un semplice naso rosso, di dare spazio alle emozioni e alla voglia di ridere, anche all’interno di un ospedale. È proprio questo medico che ha portato gloria e onore al clown di corsia.

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1.5 Dottor Clown Padova

L’associazione Dottor Clown Padova ha una storia che viene da un lontano dicembre 1999 quando un giovane intramprendente, ora Dott. Evaristo Arnaldi, sulla scia emotiva e ispiratrice del film “Patch Adams”, volle portare l’attività di clown-terapia all’ospedale San Bortolo di Vicenza. Da allora inizia una grande storia di passione civile che porta l’Ancis Aureliano di Caldogno (Vi) ad espandersi a macchia d’olio in altre città venete, tra cui Padova. Il gruppo di Padova nasce nel 2004, quando, sotto la cura e la formazione di Dott. Baristo, diversi giovani e meno giovani intraprendono questo percorso tra follia e passione. Attualmente l’associazione patavina opera nell’ospedale pediatrico di Padova, nei reparti di Pediatria (II e III), chirurgia pediatrica, urologia pediatrica, maxilo-facciale, nefrologia, ortopedia e pronto soccorso. Ma le attività sporadicamente vedono i dottor-clown impegnati in case di riposo o altre stutture socio-sanitarie.

Nel 2005 nasce il progetto della Conferazione “Dottor Clown Italia”, che ora è composta dai gruppi di Padova, Vicenza, Belluno, Rovigo, Sassari (Happy Clown Sassari) e Mestre (Il Piccolo Principe).

La confederazione, ora formata da 350 clown di corsia e presente in 12 strutture ospedaliere, è arrivata alla XII edizione dei corsi e negli anni ha strutturato un percorso di formazione che prende spunto da diverse scuole di pensiero, quali quelle di Patch Adams, Jaques Lecoq, Dario Fo e Charlie Chaplin (Arnaldi, 2009).

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1.6 Un clown può fare terapia?

Chiedersi se la Comico-Terapia è davvero una terapia, fa scivolare velocemente in un discorso più epistemologico, quasi a voler a imporre un’etichetta alla nostra attività. È sicuramente un tema su cui vale la pena spendere due parole senza, tuttavia, giungere a delle certezze. Vi è da parte di coloro che, come me, esercitano questa attività in ospedale, un grande senso d’umiltà e, d’altro canto, una innegabile volontà di costruire un’identità precisa.

Ci sono alcuni psicologi che hanno sperimentato in prima persona il mondo magico della comico-terapia, che hanno offerto le proprie conoscenze al servizio del lavoro di costruzione di tale identità, riflettendo in modo specifico e peculiare sul termine “terapia”. La professoressa Alessandra Farneti, docente di psicologia dello sviluppo all’Università di Bologna, scrive: “Terapia significa cura e, come tale, dovrebbe produrre la guarigione da qualche malattia, sia essa fisica o psicologica e determinare modifiche più o meno stabili nel soggetto che ad essa viene sottoposto. Il clown che entra in ospedale e con le sue arti riesce a distrarre i pazienti e a sollevare per qualche ora il loro morale, che genere di terapeuta è?” (Farneti A., 2004). Ritengo che questa provocazione induca ad una profonda ed accurata riflessione e credo altresì che, attraverso le sue parole, la prof.ssa Farneti abbia voluto anteporre, alla frenetica e ingenua confusione di chi si occupa di clown-terapia, un chiaro discorso, anche critico, sul mondo del clown e le sue “possibili” destinazioni in ambiti educativo-sanitari.

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Se epistemologicamente è scorretto dire che la comicoterapia sia una terapia a tutti gli effetti, credo che al problema si possa rimediare inserendo il nostro “lavoro” all’interno di un campo più ampio, che è quello dell’“umanizzazione” delle cure ospedaliere. L’attività del clown di corsia è “semplicemente” una partecipazione supportiva, cioè un’insieme di interventi psico-educativi che hanno lo scopo di offrire a tutti i piccoli pazienti, con l’uso di una comunicazione efficace, lo spazio per esprimere i loro bisogni attraverso il gioco, il disegno e il contatto umano (Axia, 2004). A questo proposito Jacopo Fo propone il suo punto di vista affermando che “il riso come strumento per dare benessere non è una tecnica terapeutica ma un modo di entrare in rapporto con gli altri e con il mondo”. (Simonds, Warren, 2003)

Del resto, è ormai noto quanto il ricovero rappresenti una esperienza traumatica, soprattutto per i bambini, costretti ad allontanarsi contemporaneamente dalla scuola, dalla famiglia, dagli amici, dal mondo dei giochi; è soprattutto in questo caso che diventa doveroso offrire una maggiore partecipazione umana e affettiva, basata anche su una specifica e continua formazione del personale sanitario al fine di migliorare l’impatto psicologico del ricovero stesso. All’interno di tale ambito si possono inserire tutte quelle iniziative che cercano di rendere più positiva possibile la degenza del bambino, come ad esempio la scuola all’interno dell’ospedale e varie attività ludiche che affronteremo in maniera più dettagliata nei capitoli successivi. A tali trasformazioni si aggiunge un ulteriore cambiamento paradigmatico, che investe il concetto di salute. Ed è

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proprio in questo periodo di evoluzioni che si avverte la necessità di una maggiore attenzione al piccolo malato, alla sua soggettività e alla specificità dell’ intervento.

Sempre la docente prima citata, trattando questo discorso scrive: “Se non si può dubitare delle buone intenzioni dei volontari e se ci si deve compiacere della loro presenza negli ospedali e nei luoghi di sofferenza, bisogna tuttavia cominciare a ragionare seriamente sulla figura, o forse sarebbe meglio dire le figure, di clown che si vengono delineando per tentare di costruirne un profilo professionale riconosciuto e soggetto a normative precise” (Farneti A., 2004). Queste “parole-provocazioni” ci fanno ragionare sull’esigenza di porre il nostro lavoro ad una verifica di Identità, per trovare dei principi comuni e universali su cui ogni clown di corsia si possa riconoscere. La strada è lunga, viziata da giochi di parte e prospettive diverse da parte dei vari attori della scena ospedaliera, ma continuo a dire... chi la dura la vince...

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Capitolo 1

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Bibliografia

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Capitolo 1 Clown di corsia Un naso rosso per l’umanizzazione delle cure pediatriche

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Lecoq J. , (1997), Le corps poétique. Un enseignement de la création théatrale, Actes Sud Leriremedecin.asso.fr – Sito Associazione Le rire mèdecinLjungdahl, L., (1989), Laugh if This is a Joke., Jama, 261.4, 558.Riderepervivere.it – Sito Federazione Ridere per vivere!Robertson J., (1980), Bambini in ospedale, Feltrinelli Simonds C, Warren B., (2003) La medicina del sorriso, l’esperienza dei clown-dottori con i bambini, Sperling & Kupfer EditoriSoccorsoclown.it – Sito Soccorso Clown s.c.s. onlusSpitz R.A., (1945), Hospitalism: an inquiry into the genesis of psychiatric conditions in early childhood, Psychoanalitic Study of the Child, 2, 313-342.Theodora.org – Sito Fondazione Theodora

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Capitolo 2 Dottor clown padova: analisi dell’attività ospedaliera

“Avevo quattordici anni, (forse!) quando vidi per la prima volta in televisione che negli ospedali iniziavano a girare questi personaggi buffi, alla ricerca del sorriso che i bambini avevano perso con la loro malattia. Ero come stato fulminato da questa cosa … un clown in ospedale … sorridere dove si soffre… forse spinto dalla parte di me a cui piacciono le contraddizioni, ho conservato bene dentro me questo sogno e l’ho tirato fuori quando, già intrapresi gli “studi psicologici”, mi venne proposta questa formazione specifica per Clown Di Corsia. Da quel giorno, da quel pensiero che fece in me riaccendere un vecchio ardore, è iniziato il mio percorso di Formazione e trasFormazione, dove alle conoscenze tecniche dovevo affiancare le mie doti umane, di con-tatto con le persone ma soprattutto con la sofferenza, parola chiave per chi come me ha scelto di fare lo psicologo e il clown di corsia”

2.1 - A chi ci rivolgiamo?

Nell’attività che portiamo avanti in ospedale ci sono diversi spazi che vengono calpestati e vissuti; dai corridoi alle scale, dalle sale d’aspetto agli ingressi dei reparti, dalle stanze dei medici-infermieri alle stanze del bambino, “soggetto” privilegiato del nostro “lavoro”.

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È importante non trascurare nessuna delle persone che incontriamo nei vari spostamenti; tutti, a loro modo, hanno bisogno di sorridere ed essere coinvolti; dal medico al genitore, dal bambino all’infermiere ognuno è legato emotivamente al processo di cura del piccolo paziente. Capita spesso che il genitore abbia tanto bisogno di distrarsi e noi siamo lì, anche, per quello, per farlo sorridere e per porgerli una spalla qualora voglia condividere angosce e pensieri negativi, e perché no, per provare a trasformarli in pensieri positivi e magici. Proprio in quest’ultimo caso il nostro personaggio esuberante deve sfumare in un “attento ascoltatore” e “tenero coccolatore”, per mostrare che è benvenuto paradossalmente anche un pianto liberatorio nella nostra “relazione d’aiuto”. Vorremo essere una ventata di colore e buon umore generale che smorzi le tensioni che si creano in un luogo dove la malattia è sempre protagonista.

Nelle stanze ospedaliere il bambino diviene il “terzo vertice di un triangolo: è allo stesso tempo attore e spettatore delle scenette improvvisate ed equilibra le tensioni creative tra Augusto e il clown Bianco” (Simonds, Warren, 2003).

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2.2 - Come avvicinare un paziente

Penso che il modo giusto di avvicinare il bambino sia quello meno invasivo, che io volgarmente chiamo “in punta di piedi”. Generalmente la nostra è una visita gradita, anche se, all’ingresso in stanza, è sempre importante chiedere, o almeno intuire, se il bambino gradisca o meno la nostra presenza. All’arrivo in stanza è essenziale predisporsi all “ascolto dell’ambiente”, ossia captare tutte le possibili informazioni utili per la riuscita positiva del nostro intervento. Può capitare infatti che, ad un primo impatto, i bambini siano spaventati dalla figura del clown; si cerca allora di stabilire un contatto ricorrendo a strategie meno dirette, come, ad esempio, parlare da dietro la porta, consegnare un palloncino al genitore, spostare l’attenzione del bambino su un pupazzo che facciamo sbucare dalla porta, ecc.

A tal proposito, volevo sottolineare quanto sia indispensabile la presenza del genitore che rappresenta il vero ed effettivo anello di congiunzione tra noi e il bambino, in particolare quello più piccolo (da 1 anno in poi). Del resto, diversi studi dimostrano quanto le reazioni materne, espresse nella mimica del volto o nel linguaggio del corpo, di fronte ad uno stimolo ambiguo (nel nostro caso l’ingresso di un clown nella stanza, diverso dal personale e tanto colorato), siano fondamentali riferimenti per la risposta comportamentale del bambino (Sorce et all., 1983). Il genitore del neonato funge, quindi, da filtro per l’ansia che potrebbe provocare l’apparizione di una figura estranea come il clown.

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2.3 – Materiale utilizzato

Non esiste un materiale specifico, ma ogni clown sceglie quello che fa parte del proprio personaggio. Sicuramente lo strumento più utilizzato è il palloncino modellabile, sempre gradito dai bambini (a volte non solo da loro!!!). Un semplice palloncino colorato può diventare un cagnolino, un bel fiore, un uccellino, un cigno, un topo volante o un cuore. In ospedale si ricorre poi, in maniera considerevole, alla micromagia con la quale, attraverso specifiche routines, si fa scomparire un fazzoletto o nascere un drago da un uovo di spugna. La magia quando coinvolge il bambino è stimolante e ha la capacità di trasformare l’ambiente asettico dell’ospedale in un luogo magico, al di là della razionalità della malattia. Bolle, fischietti, palline da giocoleria, peluche, libro magico e strumenti musicali possono essere altri materiali impiegati in ospedale.

Il clown interviene anche avvalendosi di favole e racconti che possono tramutare le stanze in luoghi magici e offrono la possibilità di coinvolgere i genitori, assegnandogli una parte nella scena.

Tra lavorare con bambini e lavorare con adulti vi è una differenza assai marcata. L’adulto, con il passare del tempo e per le esperienze vissute, perde quella capacità propria nei bambini di emozionarsi; questo implica che, nell’approccio con gli adulti, occorre orientarsi su altri livelli di comicità. Se un bambino vede un clown ride perchè gli sta simpatico il personaggio o perchè assomiglia ai protagonisti della sua fantasia, invece, se un adulto vede

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un clown ride perchè esce dagli schemi razionali della vita di tutti i giorni. Con l’anziano ritorna la fantasia e ritorna la magia, soprattutto per il bisogno costante di affetto e colore che è insito in questa fase della vita. Un fiore, un bacio e una bolla di sapone sono dei gesti accettati dagli anziani a cuore aperto.

2.4 - Approccio al bambino ospedalizzato

Nella nostra attività, come in altre esperienze di volontariato, l’obiettivo prioritario è quello dell’ impersonificare un messaggio pacifico. C’è soddisfazione nel potersi sentire utile a qualcuno e poter offrire il proprio tempo per un progetto importante: l’umanizzazione delle cure pediatriche. Le emozioni sono ogni giorno nuove e profonde e ci ritroviamo spesso in un limbo fatto di felicità, di amarezza, di letizia e di tenerezza.

Il nostro intervento sulla vita del bambino è in definitiva distrattivo, ludico e affettivo.

Distrattivo, in quanto nel tempo che passiamo col bambino cerchiamo di “curare” la persona e non la malattia, distogliendo l’attenzione dalla situazione negativa che lo circonda e sopratutto dal pensiero che lo porta ad attendere qualcosa di negativo.

Ludico, in quanto attraverso la creazione di momenti comici stimoliamo quella parte sana del bambino che ha voglia di giocare, quella parte che vuole esprimere la

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propria personalità portando a sciogliere l’ansia che regna spesso sovrana in ambienti di “Malattia”. Ritengo che un buon processo di guarigione debba consentire al bambino di sentirsi ancora padrone di tutto ciò che appartiene alla sua infanzia e quindi anche il gioco.

Affettivo, in quanto il nostro intervento consiste, nella sostanza, nel diffondere un “intenso sentimento di amicizia, amore e simpatia” che, nel caso dei bambini ospedalizzati, si traduce nel creare quella vicinanza che pone al centro di tutto il bambino stesso.

Analizzando l’origine delle parole emergono spesso elementi interessanti e stimolanti; nel caso del termine “affettivo” il significato etimologico “atto a muovere affetto” definisce e sottolinea già una componente dinamica del sentimento espresso.

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E l’affetto come viene definito? Deriva dal latino afficere, ossia “toccare, commuovere lo spirito”. In funzione di aggettivo assume il significato di “tocco di passione per qualche oggetto” e come sostantivo indica “maniera di sentire, passione dell’anima in forza di cui si eccita un interno movimento”. Ecco! Credo sia abbastanza chiaro di cosa si nutre l’intervento del clown di corsia.

Empatia

Anche nel nostro “lavoro”, come per l’infermiere e il medico, è importante che nella relazione Dottor Clown - bambino vi sia empatia, che può essere descritta come “l’attitudine ad essere completamente disponibile per un’altra persona, mettendo da parte le nostre preoccupazioni e i nostri pensieri personali, pronti ad offrire la nostra piena attenzione. Si tratta di offrire una relazione di qualità basata sull’ascolto non valutativo, dove ci concentriamo sulla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell’altro.” (http://it.wikipedia.org/wiki/Empatia). In ogni intervento non si deve mai scordare l’unicità del bambino con cui ci confrontiamo, dobbiamo relazionarci con lui “immergendoci nella sua soggettività”, lasciandoci guidare in ciò che davvero desidera, non sottolineando le nostre abilità, ma le sue e rendendolo così vero protagonista della relazione. Mettere in pratica queste indicazioni può sembrare complesso, soprattutto nelle prime uscite in ospedale, quando ci si avvale per lo più di trucchetti, giochini, barzellette perdendo di vista il vero obiettivo del nostro “lavoro”, ossia la relazione empatica. Col tempo e con l’esperienza,

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si impara a limitare il ricorso agli artifizi, valorizzando la relazione con il bambino e lasciandoci ispirare dalla sua fantasia.

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2.5 Il “ciclo” del clown

L’attività del clown di corsia, all’interno dell’ospedale, può essere suddivisa in tre momenti principali, ognuno importante per la buona riuscita degli interventi e della loro sostenibilità nel tempo.

2.5.1 Preparazione - vestizione

Vestirsi e prepararsi non è un’azione superficiale, non è mettersi una divisa, ma è un momento di concentrazione, di separazione dagli eventi giornalieri e dai sentimenti disturbatori come la stanchezza, la noia e la tristezza, è un momento di elicitazione del proprio personaggio durante il quale, in convivialità, si cerca di scaldare la propria comicità interiore.

Una vestizione diventa di valore quando si spoglia del suo carattere puramente materiale e si pregna del senso dell’attesa e dell’iniziazione.

2.5.2 Intervento stanza per stanza

L’intervento si struttura sempre in coppia per diversi motivi: nell’ interazione tra i due clown emerge la comicità più efficace (come vedremo nel prossimo capitolo); è ottimale per condividere con il compagno le possibili situazioni d’imbarazzo o le difficoltà di approccio con persone in un particolare stato di sofferenza; per avere un

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diverso punto di vista necessario per gestire nei migliore dei modi l’intervento-relazione. Spesso capita che un eccessivo coinvolgimento nella situazione determini degli errori e nel confronto con l’altro è più facile che questi emergano e vengano risolti. Il partner-clown è feedback, sostegno e calibro dell’intervento. Di norma le uscite avvengono stanza per stanza, fatta eccezione per la sala d’attesa del pronto soccorso dove è più semplice e funzionale un approccio collettivo.

Prima di far visita nelle varie stanze è fondamentale chiedere al personale medico-infermieristico il permesso di entrare, in modo da poter evitare quelle in cui la nostra presenza potrebbe essere motivo di disturbo (bambini appena usciti dall’operazione, bambini addormentati) o addirittura di complicanze mediche (bambini allergici al lattice, bambini immuno-depressi).

2.5.3 Diario di sbordo: L’importanza di parlare, sfogarsi ed esorcizzare le visioni

Anche se in misura ridotta, perfino il clown di corsia è sottoposto al rischio di “Burnout” 1, una sindrome tipica delle attività lavorative a carattere socio-sanitario, che si può manifestare quando si va oltre il limite tra la propria

1 La parola Burnout etimologicamente significa “essere bruciati”, “esauriti” e “scoppiati” ma come sindrome racchiude quei sintomi che lo studioso Ma-slach C. nel 1994 come Esaurimento emotivo, Depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale. Tipicamente il B. conduce l’operatore a comporta-menti apatici, cinici nei confronti del bisogno di cura del paziente e indiffe-renti.

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vita e quella del paziente, facendosene carico in maniera eccessiva. Questo processo conduce ad un lento “logorio” psicofisico dovuto alla “mancanza di energie e di capacità di sostenere e scaricare lo stress accumulato” (sito wikipedia). Il nostro antidoto principale è quello del dialogo aperto, previsto alla conclusione del turno in ospedale, in un momento destinato appositamente a tale scopo.

Scambiarsi le emozioni della serata, condividere i propri disagi relativi ai pazienti ma anche quelli relativi alla propria performance, individuale e di coppia (clown), raccontare ciò che è stato vissuto, diventa una prassi fondamentale, una necessità. Il proprio punto di vista viene messo al centro della discussione ed elaborato in un contesto di ascolto e di condivisione. Questo è il Diario di sbordo: un contenitore di emozioni che dura nel tempo (essendo in forma scritta), uno strumento per esorcizzare le proprie paure, le emozioni negative e, perché no, un modo per condividere i sorrisi profondi e viscerali che la nostra attività ci regala.

2.6 La formazione

L’esperienza ci ha portato negli anni ad offrire dei corsi di formazione sempre più dettagliati, dove però, l’attenzione principale è volta sempre al vissuto e all’esperienza di un clown di corsia. Prendendo spunto dai diversi percorsi formativi vado ad illustrare le caratteristiche centrali che vengono proposte attraverso varie metodologie come lezioni frontali, esercitazioni, e simulazioni.

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Condivisione delle aspettative e motivazione personale: questo momento iniziale è importante per capire quali sono le attese e i fattori stimolanti che cambiano da persona a persona e ci spingono a dare un taglio adeguato ai nostri corsi.

Conoscenza (coscienza) degli altri e di sé stessi: giochi di contatto, di conoscenza, di fiducia e di comunicazione per creare la giusta sintonia. Prima di ogni corso è fondamentale formare un gruppo affiatato che si rispetti, si conosca e sia aperto al nuovo.

Storia ed evoluzione della clownterapia: Lezione teorica sulla nascita del clown di corsia e sui vari argomenti utili per una buona formazione conoscitiva: l’ evoluzione del concetto di “salute” , i diritti del fanciullo, il clown di corsia nel mondo.

Giochi e balli di gruppo: l’obiettivo è quello di creare momenti di intervallo dove poter sperimentare il piacere di stare nel gruppo, mettendosi in gioco e predisponendosi alla relazione con l’altro.

Sculture di palloncini, giocoleria e magia comica: Lezione pratica sulle tecniche utili per un intervento in ospedale.

La fisiofarmacologia del sorriso: Lezione teorica su come la risata influenza il funzionamento del nostro organismo.

Aspetti psicologici dell’ospedalizzazione pediatrica: per affrontare gli interventi in ospedale è utile avere delle conoscenze di base su come i bambini affrontano, psicologicamente, l’ospedalizzazione pediatrica.

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Igiene, malattie infettive e norme comportamenta-li coi pazienti: Un buon clown di corsia deve conoscere le regole di base sull’igiene, sulle malattie che si possono trasmettere in ospedale e su come approcciare col bambi-no senza essere veicolo di infezione.

La ricerca del “proprio clown”: Un percorso di sperimentazione alla scoperta del proprio clown interiore, attraverso esercizi introspettivi e teatrali.

La costumazione e trucco: La costumazione è un’attività molto divertente e creativa che, con l’aiuto del trucco, permette di caratterizzare il proprio personaggio o di inventarne di nuovi, di calarsi con più facilità in un ruolo o in una situazione. Sia nei bambini che negli adulti, la costumazione facilita l’espressione corporea e teatrale.

Arrivano i clown: l’improvvisazione: Un buon clown non vive di cliché, ma si improvvisa sempre e comunque. In questa fase viene chiesto ad ogni partecipante d’ improvvisare un ipotetico ingresso in una stanza d’ospedale, con un setting stabilito dagli organizzatori, ma sempre differente, in modo da far sperimentare le più svariate circostanze.

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Bibliografia

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Capitolo 3 Il clown: tra introspezione e servizio alla persona

Io sono un clown e faccio collezione di attimi. (Heinrich Böll)

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Capitolo 3

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“Si sostiene implicitamente che quella del clown non è un’arte, ma un’improvvisazione di cui tutti sono esperti in quanto uomini, che basta sorridere indossando un naso rosso per saper trasmettere buon umore e gioia di vivere agli altri”. (Farneti A., 2004).

Ritengo efficace iniziare il capitolo con questa provocazione della dott.ssa Farneti, attenta nel sostenere che non basta improvvisare per essere clown d’effetto.

L’arte della “clownerie ospedaliera”, infatti, è frutto di un percorso lungo e complesso dove, ad una crescita artistica e tecnica, si affianca una formazione umana specifica, impregnata di conoscenze psicologiche utili alla buona realizzazione degli interventi negli ospedali pediatrici. Durante tale percorso vengono approfonditi temi quali l’ospedalizzazione, la psicologia del bambino “malato”, il gioco, l’empatia e il con-tatto; conoscenze, queste, che aiutano ad affrontare le inevitabili difficoltà emergenti dal confronto con la malattia e con l’individualità e la particolarità di ciascun paziente.

Quel magico giorno in cui qualcuno ha intuito che i “pagliacci” dovevano uscire dai circhi per andare a visitare i luoghi della sofferenza, si è confermato come il clown sia in grado non solo di far ridere, ma di essere ancor più “uomo tra gli uomini”, eliminando le distanze tra spettatore ed artista. Questo cambiamento ha dunque determinato il passaggio dalle fredde distanze che dividevano i clown dal pubblico del circo, alle calde vicinanze di un rapporto vis a vis con il paziente, piccolo o grande che sia. Si è passati da una dimensione del “ridere collettivo” ad una del “ridere

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personale”, un ridere che si plasma sulle caratteristiche ed esigenze di chi ci sta di fronte (paziente); infatti, il clown di corsia non è altro che il mezzo con cui, attraverso situazioni comiche, il piccolo paziente scaccia le proprie paure e viene distratto.

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Capitolo 3

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3.1 Il proprio personaggio

Ė erroneo pensare che diventare clown significhi solamente vestire dei panni buffi, fare una magia perfetta e muoversi con goffaggine; la definizione del proprio personaggio è, infatti, il risultato di un lavoro lungo, introspettivo, spesso faticoso e rappresenta un canale preferenziale attraverso cui far emergere il nostro vero “essere”. Il clown funziona da specchio: ci fa vedere meglio chi siamo e ci fa amare quelle che potremmo definire le nostre ombre. Il nostro personaggio, di solito, è l’esasperazione o la contrapposizione di quello che siamo normalmente nella quotidianità.

Una persona che nella vita è timida e riservata potrebbe creare un personaggio altrettanto timido, che “lavora” e si esprime in “punta di piedi”, oppure, per contrapposizione, può costruirsi un soggetto con caratteristiche estremamente esuberanti, esternando dunque un lato sommerso e spesso inibito. Semplicemente, essere clown significa mettere in scena la propria vita con i suoi successi e fallimenti, che diventano, appunto, oggetto di comicità, gioco e godimento. Di contro, copiare un personaggio non è affatto proficuo perché si rischia di creare prototipi standardizzati che peccano di scarsa autenticità e il “risultato è sempre fastidioso e stucchevole” (Fo, 1997).

Come descrive Lecoq nella sua opera-testamento Corpo poetico: “siamo tutti dei clown, crediamo tutti di essere belli, intelligenti e forti, mentre ognuno di noi ha le sue debolezze, i lati ridicoli che, rivelandosi, provocano riso” (Lecoq 2000). Questo “clown introspettivo” ha

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un’influenza rilevante per chi è proiettato verso la ricerca del proprio personaggio, poiché consente una conoscenza più profonda di se stessi, permette di scoprire e definire la propria unicità e “demistifica la pretesa di ognuno di essere superiore ad un altro” (ibidem). È certamente un percorso impegnativo perché, grazie al potere dell’introspezione, possono affiorare lati profondi e oscuri, vissuti che escludiamo dalla coscienza, che cerchiamo di annullare e, forse, negare. A dimostrazione di quanto affermato, ritornano alla memoria i volti e i gesti di persone con cui ho avuto modo di condividere emozioni, confidenze, ricordi, parole sussurrate e rievocative.

“Tutti possono fare i clown?”; è questa la classica domanda che ci viene posta nelle occasioni di dialogo e confronto con giovani e adulti. La risposta è piuttosto complicata e si rischia di cadere in generalizzazioni deci-samente inopportune ed inappropriate. Vi sono importanti aspetti da considerare: in primis, la predisposizione e, in secondo luogo, la preparazione. Miloud, il clown delle fogne di Bucarest, utilizzerebbe l’espressione “clown si nasce” per sottolineare l’inclinazione e l’attitudine verso questo genere di esperienza. Si possono infatti evidenziare delle caratteristiche che potrebbero facilitare chi intende avvicinarsi alla clownerie, come per esempio, l’auto-iro-nia, l’ottimismo, la positività, la capacità di comunicare e di sapersi relazionare. A mio parere, però, questi requisiti rappresentano soltanto il punto di partenza su cui costru-ire il proprio clown; un percorso, questo, che necessita, anche e soprattutto, di tempo, energia e buoni maestri. Il tempo è, infatti, un elemento fondamentale in quanto per-mette all’aspirante-clown di sperimentarsi, di rivedere e

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ridefinire i propri traguardi e di smascherare l’illusione che si possa essere clown in un “battibaleno”.

Il risultato finale, per definirsi soddisfacente, necessita, però, non soltanto di energie e attitudini personali, ma anche del contributo delle persone che si incontrano lungo tale percorso: si fa riferimento a quelli che pocanzi ho descritto come “buoni maestri” e che, nella mia mente, assumono le sembianze sia delle grandi figure clown sia di chi con noi condivide il turno in ospedale e la vita associativa. Questi buoni maestri, se sono tali, devono saper stimolare la messa in discussione, favorire la riflessione ed approfondire le conoscenze tecniche ed artistiche.

In definitiva, se da un lato riconosco l’importanza dell’attitudine e della predisposizione verso la clownerie, dall’altro credo fermamente nella validità della riflessione, dell’ascolto e dell’empatia verso l’altro e verso la sofferenza con cui dobbiamo confrontarci.

3.2 Profili dei vari tipi di clown

Per ragioni storiche e di comportamento, i clown vengono divisi in tre categorie: il bianco, l’augusto e il tramp. Ognuno di questi profili interviene, dunque, nella relazione di coppia, imponendo le proprie peculiarità fisiche e di atteggiamento ed alimentando, in tal modo, l’elemento di comicità. Ogni personaggio offre, quindi, la propria “diversità” ed ognuno, con la sua particolarità, diviene “attore” della scena che vuol creare.

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3.2.1 Il bianco

Il clown bianco è l’emblema della Razionalità, si esprime attraverso il proprio compiacersi e mostrarsi abile. Possiede una camminata diritta e signorile e altrettanto signorili sono i suoi modi:

“I bianchi puri, sono sul gradino più alto dell’intelligenza e dell’abilità tra i clown. Generalmente lavorano in coppia con un augusto, che riesce sempre a “rovinare” loro qualcosa. Di solito indossano un costume intero, simile ad un pigiama, tutto bianco e con pochi altri colori, spesso il rosso e il nero. Il viso è completamente bianco, con gli occhi, il naso e la bocca evidenziati da altri colori. Molte volte hanno una cuffia bianca che copre i capelli a cui è attaccato un piccolo copricapo comico” (Michelotto, 1996, p. 16)

Per quanto riguarda la figura del “Clown Bianco” la Farneti scrive:

“Quest’ultimo, presente di solito solo nel circo, è un personaggio elegante, dall’aspetto piuttosto cattivo, con la biacca sul volto e una smorfia di disprezzo che serve a dar vita a scenette basate su un copione fisso, in base al quale il povero Augusto è messo alla berlina per la sua stupidità e spesso picchiato.” (Farneti, 2004). Mi piace immaginare il clown bianco come un borghese alla continua ricerca di approvazione ed ammirazione nello sguardo di chi lo osserva, che si pavoneggia della propria ricchezza e potenza e assume atteggiamenti troppo spesso saccenti, arroganti e superbi.

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3.2.2 L’augusto

L’Augusto è il personaggio del disordine, del rumore e della goffaggine. È il clown di “disturbo”, del prendersi non troppo seriamente. Ognuno di noi ha in sé un po’ del clown augusto, ed è la parte più infantile di noi, la più libera, la più spensierata. Il clown augusto non ha paura di mostrarsi con le sue debolezze, anzi queste possono essere un buon veicolo di comicità, perché offrono alla performance carattere di naturalezza e sincerità. Il bambino ama l’Augusto perché a lui è permesso fare tutto ciò che nella quotidianità è generalmente proibito; urlare, rotolarsi per terra, fare boccacce e, nel farlo, non riceve rimproveri ma bensì applausi. Con l’Augusto passiamo da una visione del mondo impregnata di “perfezionismo”, proprio dell’adulto, ad una visione “fantasiosa”, tipica dei bambini, dove non esistono leggi che regolano i colori, le forme, i profumi e i movimenti; dove, attraverso il “gioco simbolico” (Petter, 1988), lo spazzolone del water diventa un microfono, la flebo contiene un liquido magico o, ancora, una scarpa si trasforma in telefono cellulare.

Per quanto riguarda il clown Augusto, la Farneti scrive: “Sono clown goffi, confusionari e giocherelloni. Come dei bambinoni cresciuti troppo. La base del loro trucco è il rosa, il rosso o l’arancione. L’uso del bianco è molto esteso nella zona della bocca e degli occhi. Spesso usano un nasone rotondo e rosso, e molti altri colori per delimitare i contorni e per abbellimento. Il vestito è costituito spesso da giacche molto colorate e a quadrettoni, da camicie enormi, da cravattoni a farfalla e da pantaloni larghi con bretelle” (Farneti, 2004).

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3.2.3 Il tramp

Di questo personaggio, tipicamente americano, esiste sia la versione triste che quella felice. Il trucco che lo caratterizza consiste principalmente in una base nera su cui spiccano la bocca, gli occhi bianchi e il nasone rosso. Di solito indossa un cappello, una camicia sgualcita, una cravatta e un vestito tutto rattoppato. Un personaggio che bene definisce la figura del tramp è Charlot nello stile utilizzato in “The Vagabond” (Il Vagabondo), film interpretato e diretto nel 1916 da Chalie Chaplin. L’attore stesso descrive il suo personaggio come “un vagabondo, un gentiluomo, un sognatore, un poeta, un solitario in cerca d’affetto d’amore e di avventure, capace anche di raccogliere le cicche delle sigarette dal marciapiede, di rubare le caramelle a un bambino in culla e all’occorrenza di sferrare calci nel sedere a una signora chic” (Chaplin Charles, 1964).

3.2.4 Bianco e Augusto: interazione e comicità

È proprio nell’interazione tra i due opposti personaggi (Bianco e Augusto) che nasce la comicità. Una situazione tipica è quella in cui un clown bianco vuol dare prova delle sue capacità mettendo in atto una magia, nonostante le difficoltà dovute alla presenza del clown augusto che si intromette disturbando, scherzando e giocando. Il Bianco, affezionato all’immagine della serietà, è colui che spesso

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e volentieri cerca di nascondere e di far scomparire il personaggio “scomodo”, nella fattispecie, l’Augusto. In ogni situazione comica si fa perno sulla gerarchia dei clown; il Bianco mostra se stesso denigrando e sottolineando la pochezza del clown augusto e viceversa l’Augusto cerca di smontare l’impalcatura altezzosa del clown bianco, evidenziando la sua vulnerabilità. Sembra la rappresentazione comica e satirica dell’attualissima differenza tra classi sociali: il ricco e il povero, il politico e il popolo.

3.3 Comicità escrementizia ossia l’umorismo scatologico

Vi siete mai chiesti perché i bambini (ma anche i grandi) ridono sentendo parlare di cacca, pipì e scorreggie quando in fondo sono funzioni fisiologiche?

Ritengo che tali situazioni possano suscitare ilarità, soprattutto nel bambino, poiché rappresentano una sorta di superamento di un tabù presente nella quotidianità: un “divieto non scritto” che impedisce di parlare di qualcosa che è molto naturale, ancor meglio necessario, come la cacca, le flatulenze e la pipì. Nelle prime fasi di vita del bambino vi è una non-padronanza dei bisogni fisiologici; l’acquisizione di una certa autonomia nell’espletamento di tali bisogni induce il bambino a gesti liberatori come il parlarne e riderci sopra.

In una società come la nostra, esplicite allusioni agli escrementi vengono ritenute inconvenienti, poco eleganti e di cattivo gusto; allo stesso modo si considerano

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coloro che ad esse fanno riferimento. Ci si vergogna, ci si nasconde e si cresce con un’idea “proibizionista” e “proibitiva” sul discorso della cacca e della pipì. Da qui trae spunto la comicità escrementizia; essa nasce dal potere, assolutamente positivo, del clown di sfondare le barriere imposte dalla società e ribaltarne i confini, creando comicità. Il clown può utilizzare tutto il suo corpo per far ridere, anche nelle sue sfaccettature più nascoste e vietate!!!

3.4 La paura del clown

La paura del clown prende il nome di Coulrofobia. Molte persone trovano i clown inquietanti e ciò è spesso riconducibile ad esperienze traumatiche vissute nell’infanzia. Molti bambini temono i personaggi travestiti, tra cui lo stesso Babbo Natale, ed un contatto poco piacevole con un clown può rimanere impresso anche a lungo termine. I costumi dei clown tendono ad amplificare i tratti del viso e le parti del corpo, come mani e piedi, e questi elementi,così modificati, possono essere interpretati come mostruosi. Il comportamento del clown può essere letto come un atteggiamento da folle e impregnato di imprevedibilità. A tutto ciò si associa il contributo del cinema nel rendere ancor più malvagia la figura colorata del clown. Alcuni esempi sono Pennywise e Joker; il primo, tratto da un libro di Steven King, uccide i bambini e li mangia, mentre il secondo è un pluricriminale. Nella mia esperienza mi sono trovato, in diverse occasioni, di fronte a bambini, e anche adulti, che manifestavano paura e timore rispetto alla figura del clown. Spesso e volentieri, incuriosito, ne

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ho parlato con i genitori e molti mi hanno citato una brutta esperienza all’interno del circo. Per evitare atteggiamenti e conseguenze di questo tipo, si cerca, soprattutto all’interno dell’ospedale, di non esasperare i tratti del trucco, di essere i più sobri possibile e di non attivare comportamenti troppo irruenti. Oltre a questo, si richiede al clown di corsia di adottare specifiche precauzioni: non avere la barba o averla curata, utilizzare un trucco che non copra tutta la faccia (cerone bianco classico del clown bianco), ricorrere a colori preferibilmente chiari,

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non creare maschere che risaltino espressioni facciali tristi o inquietanti. Mi sembra interessante riportare, come esempio, il Regolamento dell’Associazione “Dottor Clown Padova”. In esso si sottolinea come il trucco, pur essendo soggetto a personale interpretazione, debba rispondere a precise caratteristiche: deve risultare sobrio; non deve essere troppo pesante e non deve coprire tutto il viso (si può scegliere di non metterlo); va messo in forma tenue, non angolosa né troppo carica; meglio evitare zone troppo estese di rosso (è sufficiente sulle labbra); non si utilizzano linee ad angolo ed appuntite, ma linee curve che tendono verso l’alto (richiamano emozioni positive).

3.5 Grandi vite per grandi progetti: Patch Adams e Miloud

A proposito di grandi maestri e figure di riferimento, ritengo opportuno citare dei personaggi che hanno fatto la storia del clown al “servizio della persona” e a cui sono particolarmente affezionato: Patch Adams e Miloud.

3.5.1 Patch Adams: il sogno di una medicina diversa

Hunter “Patch” Adams è un medico statunitense co-nosciuto dal grande pubblico per essere stato il perso-naggio che ha permesso la diffusione della clown-terapia. Partendo dal presupposto che un medico debba prendersi

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cura della persona e non soltanto curare la malattia, Patch Adams si scaglia con tenacia contro la medicina occi-dentale, quella delle cosiddette “case farmaceutiche”. La sua fama si impone fortemente nel 2003 quando, in tutto il mondo, viene proiettato un film sulla sua vita, interpre-tato da un emozionante Robin Wiliams. Il racconto inizia con il giovane Hunter che, dopo aver tentato il suicidio, si fa internare in un ospedale psichiatrico, dove entra in con-tatto con vissuti, esperienze e persone che gli insegnano a “vedere oltre”. Una volta dimesso dalla clinica, si iscrive alla facoltà di medicina della Virginia Medical University, per assecondare il suo bisogno di offrirsi agli altri. Durante il periodo universitario costruisce una forte amicizia con Truman, insieme al quale si diletta nella ricerca di prove “empiriche” rispetto agli effetti positivi del buon umo-re. La sua carriera va a gonfie vele ed altrettanto la sua vita sentimentale, scandita dall’incontro con la seducente Carin. Grazie a Carin, a Truman e al contributo economico di Arthur (un anziano internato nella clinica psichiatrica), Patch riesce a costruire un ospedale, così come lo aveva sempre sognato: un ospedale immerso nel verde, dove i pazienti siano curati, oltre che gratuitamente, attraverso il sorriso, lo spirito di amicizia e l’ascolto. Un bel film, dun-que, dove alla sottesa critica rivolta alla classe medica si aggiunge una buona riflessione sui rapporti umani.

Del pensiero di Patch Adams ci sarebbe da scrivere tanto ma ritengo più opportuno evidenziare solo determinati aspetti che ben si coniugano con il percorso riflessivo intrapreso all’interno di questo libro:

Ridefinizione del rapporto medico-paziente: Patch riscontrava come si facesse troppo spesso riferimento

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al concetto di distanza professionale per indicare quel distacco tra medico e paziente che contribuiva a trasformare il processo di cura in una sorta di esame di laboratorio. Di contro, egli sottolinea come “empatia ed attenzione sono gli elementi che fanno la differenza” (Adams, 2004) e permettono di esorcizzare il pericolo che i pazienti diventino clienti e i medici dei “fornitori retribuiti di un servizio” (ibidem) .

L’importanza di riscoprire le visite a domicilio (intese come visite ai propri cari) come passo fondamentale per sostenere il processo di cura. Uno dei desideri più condivisi e comuni nelle persone ospedalizzate è di ricevere la visita di un amico, avvenimento, questo, “capace di portare amore ed empatia, o anche momenti giocosi che possono calmare le tensioni.” (Adams, 1999).

Un concetto di salute, che si avvicina al cambiamento paradigmatico dell’O.M.S. del 1948. Essere in salute secondo Patch è avere “un corpo che esprime il suo potenziale massimo di prestazioni, una mente chiara che esplode di meraviglia e curiosità e uno spirito in pace con il mondo”; viene dunque sottolineato come una buona salute sia strettamente legata al potenziale positivo della nostra vita.

L’idea di salute mentale non può prescindere dall’humour. Infatti, esso rappresenta il miglior antidoto per lo stress e un “buon lubrificante sociale”: i problemi dei singoli e della comunità possono essere sanati dall’humour. Patch ha sempre cercato di rendere la propria vita divertente, proponendosi come ”buono, felice, benedetto, fortunato, gentile e portatore di gioia”, aprendosi agli altri e all’amicizia, vero motore della socialità.

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3.5.2 Miloud: un clown contro l’indifferenza

Miloud Oukili era uno studente ed un attore-clown quando conobbe la Romania in televisione e decise di raggiungerla. Il ventenne Miloud abbandona quindi la Francia e, in tal modo, ha inizio la piccola-grande storia del clown dei ragazzi di strada di Bucarest. Probabilmente anche grazie alla sua prestanza fisica riesce ad incuriosire ed avvicinare i cosiddetti bambini delle fogne, piccoli uomini senza alternativa, esclusi, abbandonati ed emarginati dall’intera comunità e da chi li avrebbe dovuti proteggere. Ed è a loro che si rivolge Miloud, creandogli un’alternativa e offrendogli una possibilità di riscatto attraverso l’arte, la clownerie ed il gioco. Nelle intenzioni di Miloud riscopriamo il significato più profondo delle parole “ascolto”, “solidarietà” e “libertà”. Infatti, solo ascoltando le esigenze di questi giovani, Miloud ha potuto sperimentare quell’arma potente che è la solidarietà, spesa per un solo ed unico fine: la loro libertà. Una libertà che induce questi ragazzi ad allontanarsi dalle fogne, dai furti e dalla droga per avvicinarsi ed aderire ad un mondo diverso, dove l’unica cosa che conta è la realizzazione di se stessi.

Per dare forza alla sua azione, nel gennaio 1996, Miloud crea “Fundatia PARADA”, che ora vanta associazioni in diverse nazioni, tra cui l’Italia.

Se fosse possibile riassumere il pensiero di Miloud lo farei citando due parole, la strada e la diversità; se da un lato egli riscopre la strada come modalità di vita,

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come simbolo di positività e libertà, dall’altro, coglie nella diversità il potenziale di ricchezza e arricchimento per se stesso e per gli altri. Da diversi anni insieme ai ragazzi di Bucarest, Miloud porta in scena degli spettacoli in tutta Europa, all’interno della campagna “Un naso rosso contro l’indifferenza”, incontrando giovani e famiglie e diffondendo un messaggio di speranza attraverso la testimonianza di chi ce l’ha fatta.

Bibliografia Chaplin C., (1964), My autobiography, Simon and Schuster, New York [trad. it. La mia autobiografia, Mondadori, Milano 1964]. Farneti A., (2004),Spetti psicologici della clownerie, Alberto Perdisa Editore Fo D., (1987), Manuale minimo dell’attore, Einaudi, Torino Lecoq J. , (1997), Le corps poétique. Un enseignement de la création théatrale, Actes Sud Michelotto P., (1996), Divertirsi diventando clown, Troll Libri Patch A., (1999), Visite a domicilio. Come possiamo guarire il mondo una visita alla volta, ApogeoPatch A., (2004), Salute! Ovvero come un medico-clown cura gratuitamente i pazienti con l’allegria e l’amore, UrraPetter, (1988), Lo sviluppo mentale nelle ricerche di Jean Piaget, Giunti, 76

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Capitolo 4 Riso e benessere: il rapporto mente-corpo

Se lo stress e la depressione producono, nell’organismo, reazioni chimiche negative non possono esistere altre emozioni che producono reazioni chimiche positive?

Norman Cousins

Introducendo la figura del clown di corsia non si può prescindere dall’evidenziare le caratteristiche specifiche della risata e le sue implicazioni fisiologiche e psicologiche. Che ridere faccia bene alla salute è stato ampiamente confermato e assodato. Basti pensare che, persino all’interno della Bibbia, si legge che “un cuore giocoso fa bene come un farmaco” [ libro dei proverbi (17,22)]. In questo capitolo verrà dunque analizzato quel percorso di ricerca che, partendo da intuizioni ed ipotesi, ha dimostrato come la risata produca effetti benefici nell’organismo. Per gli studiosi è sempre stato difficile compiere ricerche sull’umorismo senza essere sottoposti a severe critiche sulla natura dell’oggetto di studio. L’umorismo, infatti, veniva etichettato come qualcosa di effimero, spontaneo ed immediato e, dunque, non passibile di indagine scientifica; insomma, era considerato argomento da “massima” o ancor peggio “grave malanno della natura umana” come lo descrisse Hobbes nel 1650.

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4.1 Effetti fisiologici della risata

Ritengo opportuno introdurre questo paragrafo analizzando gli effetti che uno stimolo risorio, come una barzelletta, può determinare sull’organismo.

Nell’atto del ridere, le endorfine, prodotte dal nostro corpo e altrimenti dette oppioidi endogeni, stimolano una serie di sensazioni: una, calmante, paragonabile al rilassamento yoga, un effetto antidolorifico e uno stato euforizzante. Quest’ultimo si riscontra a livello di sistema immunitario che, dalla risata e dalle mutazioni biochimiche ad essa collegate, riceve una specie di sferzata vitalistica (Fioravanti, Spina, 1999). Ne consegue che tutti gli elementi costitutivi del sistema immunitario, dalle cellule helper ai natural killers, sottoposti a stimoli attivanti, inducono gli organi deputati ad una massiccia produzione di risposte immuni.

Questi sono i presupposti fisiologici che anticipano l’indissolubile relazione mente-corpo, sottolineando l’importanza della capacità di auto-guarigione e, dunque, la partecipazione attiva del paziente al suo percorso di cura, non più esclusivamente condizionato dall’azione di terze persone (in particolare il medico).

Nel 1579, due illustri chirurghi, Joubert, con il suo “Trattato sul riso”, e Mulcaster ipotizzarono che ridere potesse apportare benefici paragonabili a quelli derivanti dall’esercizio fisico. William Fry (1944), una delle perso-nalità più affermate nel campo degli studi sull’umorismo, conferma la teoria precedentemente esposta, riconoscen-

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do l’efficacia della risata con risultati pari a quelli di un moderato esercizio aerobico. È stato dunque comprova-to come la risata stimoli e rilassi “l’apparato respiratorio, muscolare e cardiovascolare, i sistemi endocrini e quello centrale e periferico”; ne consegue, inoltre, un aumento del battito cardiaco e della pressione arteriosa. Lo stesso Fry riconosceva come, nell’atto del ridere, “la circolazione del sangue e il ritmo della respirazione si fanno più veloci, i muscoli si muovono, nel cervello appare un’attività elet-trica particolare, la temperatura aumenta e la produzione ormonale viene stimolata” (Fry, 1994).

Il ridere provoca il movimento di tutti i muscoli del nostro corpo, quali, ad esempio, torace, spalle, addome, diaframma, braccia, gambe e aria pelvica. Una risata prolungata determina un brusco aumento della pressione a cui succede uno stato di rilassamento; inoltre, migliora il funzionamento del sistema respiratorio, infatti “durante la risata si espira di più e s’inspira tra gli scoppi di risata” (Francescato, 2004).

Rod A. Martin, psicologo della Western Ontario University nel Canada, fu artefice di una importante scoperta: il senso dell’umorismo riduce l’indebolimento del sistema immunitario quando siamo sottoposti a fonti di stress. Sappiamo bene come nelle situazioni di ansia e nervosismo, siano esse brevi e continuative o di grossa entità, si viene a determinare un abbassamento delle difese immunitarie e una modifica nelle quantità di immunoglobina A prodotte nella saliva. Quest’ultima sostanza indica lo stato delle nostre difese immunitarie,

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anche se non è il suo compito principale. L’autore scoprì che questa “diminuzione è tanto modesta quanto più forte è il senso dell’umorismo dimostrato dall’individuo” (Farnè, 1995).

4.2 La connessione mente-corpo: Psiconeuro-endocrino-immunologia

Nel definire gli effetti fisiologici della risata non si può non parlare della psico-neuro-endocrino-immunologia, ossia lo studio delle interrelazioni tra il sistema nervoso centrale, il sistema endocrino ed il sistema immunitario. Questa nuova scienza interdisciplinare ha offerto, specie negli ultimi anni, ulteriori spunti di riflessione sul legame mente – corpo, proponendosi quale costrutto teorico per l’attività del clown di corsia.

Il suo presupposto di partenza consiste nell’individuare, nello stress, la causa principale dell’indebolimento del sistema immunitario, che, in questo modo, rende l’organismo più vulnerabile all’invasione di batteri, virus, funghi e parassiti. Di conseguenza, i soggetti sotto stress sono più esposti alle malattie, dal comune raffreddore a quelle più invasive come il cancro. Esistono, infatti, delle vie che connettono fisicamente il sistema nervoso centrale ed il sistema immunitario; quest’ultimo, può dunque essere sottoposto a cambiamenti provocati dallo stesso sistema nervoso centrale. Ma il rapporto è bidirezionale: infatti, le componenti del sistema immunitario possono attraversare la barriera ematoencefalica e determinare

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delle modificazioni nel sistema nervoso centrale. In questo intreccio di vie, direzioni e sistemi, il clown di corsia si pone quale mediatore per la salvaguardia del bambino, stimolando l’influenza positiva tra il sistema nervoso centrale ed il sistema immunitario.

A conferma del nesso tra stress e sistema immunitario, sono state effettuate diverse ricerche basate su prove di stimolazione di risposta immunologia ai virus; in questo caso, i soggetti – campione sono stati esposti, in modo controllato, ad un particolare virus, come ad esempio quello del raffreddore (Cohen et al., 1995). È importante sottolineare che questa influenza incide anche in coloro che non vivono situazioni di stress particolarmente grave da un punto di vista oggettivo: il solo considerare la propria vita stressante è sufficiente ad indebolire la funzione immunitaria. L’approccio biologico ha fatto grandi progressi nello spiegare come le richieste esterne possano tradursi in uno stato fisiologico interno all’organismo. Tuttavia, sia in laboratorio che nel mondo reale, le risposte sono soggette a grande variabilità individuale. Quindi, di fronte ad una stessa richiesta, possono emergere reazioni diverse e contrapposte: in alcuni individui si evidenzieranno stati di ansia, mentre altri risponderanno in modo calmo ed impassibile. Lo stesso Cohen afferma che “nessun evento ambientale può essere considerato un agente stressante indipendentemente dalla sua valutazione da parte della persona”.

Citando un altro illustre autore, si può concludere che “gli agenti stressanti sono definiti in base al loro significato e alla loro portata emozionale nel mondo fenomenico dell’individuo” (Cassidy, 1999).

4.3 Ruolo del paziente

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Con il passare del tempo e con le esperienze vissute, ho maturato un mio personalissimo pensiero rispetto alla figura del paziente: ritengo, infatti, che non sia la malattia ad intaccare l’individuo, ma piuttosto che sia quest’ultimo a contrarre la malattia poiché, essendo sottoposto a continui stati ansiogeni e stressanti, si è reso più vulnerabile a quella possibilità di infezione. Auspico che, in ambito medico come in quello psicologico, si passi da una concezione passiva dell’individuo, ritenuto incapace di ribaltare la propria condizione, ad una visione più attiva in cui la persona si rende invulnerabile alla malattia. Questa mia personale posizione non vuole essere una critica verso la medicina generale e la figura del medico, ma piuttosto vuole contrapporsi al pensiero comune nella scienza medica che insiste ad intervenire sul malato con farmaci e metodi puramente biologici, trascurando, nel processo di guarigione, le motivazioni e le potenzialità psicologiche della persona (effetto Placebo1) .

Diversi studi hanno dimostrato come la mente influisca sulla salute del corpo attraverso il sistema nervoso centrale, il sistema endocrino e il sistema immunitario: la natura specifica del male è spesso determinata dalle caratteristiche della nostra personalità.

Relativamente a questo punto, vorrei citare quanto afferma Siegel nel suo libro “Amore, medicina e miracoli”.

1 Per effetto placebo si intende una serie di reazioni dell’organismo ad una terapia, non derivanti dai principi attivi insiti nella terapia stessa, ma dalle attese dell’individuo. In altre parole, è una conseguenza del fatto che il pa-ziente, specie se favorevolmente condizionato dai benefici di un trattamento precedente, si aspetta o crede che la terapia funzioni, indipendentemente dalla sua efficacia “specifica”. (Wikipedia)

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L’autore ritiene che i malati possano essere considerati pazienti eccezionali quando riconoscono che la vita non dà loro garanzie. Perciò, finché sono vivi, si sentono padroni del loro destino, lieti della gioia che ricevono e di quella che trasmettono agli altri: non sono spaventati dal futuro né dagli eventi esterni e ritengono la loro felicità come una responsabilità personale.

4.4 Ottimismo e salute

A questo punto ritengo doveroso riflettere su un aspetto comunque relazionato con le tematiche finora affrontate, vale a dire, l’ottimismo.

Secondo Seligman (2005), per ottimismo, si intende uno “stile esplicativo”, ossia una modalità di interpretare le cause degli eventi che si sviluppa nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Questo particolare stile è caratterizzato da tre fondamentali dimensioni: la permanenza, la pervasività e la personalizzazione. Rispetto al primo punto, gli ottimisti riconoscono di possedere specifiche abilità personali con cui conseguire i risultati desiderati; di conseguenza, identificano nelle proprie qualità gli strumenti che determinano i loro successi. Relativamente alla pervasività, si intende l’attitudine, propria dell’ottimista, di non generalizzare l’evento negativo, come, di contro, è solito fare il pessimista. Con il termine personalizzazione, si fa riferimento all’atto di attribuire a specifici eventi negativi dei fattori esterni, a patto che lo si faccia con cognizione di causa e senza perdere di vista le proprie responsabilità.

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Lo stesso Seligman definisce poi il concetto di impotenza appresa, attribuendo tale caratteristica al pessimista: si fa riferimento, quindi, a quella sensazione di inadeguatezza che pervade la persona quando non si ritiene in grado di affrontare una determinata situazione a cui reagisce, di conseguenza, con atteggiamenti di rassegnazione e depressione.

L’ottimismo ha dunque effetti benefici sullo stato di salute dell’individuo: tale assunto può essere dimostrato riflettendo sui quattro punti qui di seguito analizzati;

1. Lo stile esplicativo è il grande modulatore dell’impotenza appresa. Gli ottimisti reagiscono a questo stato negativo non facendosi sopraffare dalla depressione di fronte ad un insuccesso. La persona che affronta gli eventi della vita con attitudine pessimista è dunque maggiormente predisposta ad episodi di impotenza appresa.

2. Anche rispetto al tema della salute si evidenziano posizioni contrapposte tra pessimisti e ottimisti. Questi ultimi, non soltanto intervengono previamente per evitare l’insorgenza della malattia, ma qualora ne siano colpiti, attuano tutte le possibili strategie per debellarla.

3. Una concezione più pessimista della vita pone la persona dinanzi ad un numero maggiore di eventi negativi; l’attitudine passiva e rassegnata e l’incapacità di opporsi alle avversità accresce il rischio di malattia. Ad esempio, è stato dimostrato come i vedovi, nei sei mesi successivi la morte del coniuge, abbiano più probabilità di morire rispetto ad altri periodi della loro vita.

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4. Occorre poi sottolineare come un’attitudine ottimistica, riflessa anche nelle relazioni affettive ed amicali, possa incidere positivamente sulla salute fisica del paziente. Dunque, la presenza di un amico con cui confidarsi, l’affetto di un animale, la vicinanza di persone care, rappresentano dei buoni deterrenti contro la malattia; in opposizione, l’isolamento e la solitudine sono fattori che possono farne aggravare il decorso.

4.5 Due importanti ricerche

A conclusione del capitolo ritengo opportuno riprendere il tema sugli effetti fisiologici della risata citando due importanti ricerche condotte, una, dall’Università del Maryland, School of Medicine di Baltimora, e l’altra, dall’Università di Firenze presso l’ospedale pediatrico Meyer.

4.5.1 Il riso fa buon sangue…

Nell’immaginario popolare il sangue è sempre stato la fotografia dello stato psicosomatico della persona; ad esempio, si attribuisce un temperamento sanguigno ad un soggetto passionale, talvolta collerico.

La ricerca sopracitata, dal nome “Impact of cinematic viewing of endothelial function” (Miller et al. 2006)e coordinata da Michael Miller, dimostra come le

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emozioni negative producano, a livello corporeo, episodi di vasocostrizione, confermando l’incidenza degli stati d’animo sul benessere complessivo dell’organismo. A subire gli effetti positivi della risata è lo strato che riveste internamente i vasi sanguigni, l’endotelio; da questo studio si evidenzia come il ridere mantenga sano l’endotelio, riducendo i rischi cardiovascolari.

La sperimentazione ha coinvolto 20 persone di età media di 33 anni, dieci uomini e dieci donne, fisicamente sani e non fumatori. Le fasi della ricerca sono state le seguenti: inizialmente è stata misurata la capacità circolatoria basale fermando il flusso dell’arteria brachiale con un laccio emostatico annodato intorno al braccio. Sciolto il laccio, gli esperti hanno valutato, con uno strumento ad ultrasuoni, le risposte delle pareti dei vasi sanguigni alla forza del flusso di sangue rilasciato. Dopo queste misurazioni, ai partecipanti sono stati proposti (a distanza di 48 ore l’uno dall’altro) 15 minuti di due diversi film, una commedia e un film drammatico. Al termine delle distinte visioni, è stata ripetuta la misurazione della reattività del flusso; i ricercatori hanno riscontrato alterazioni nella capacità di dilatazione del vaso rispetto alla misura basale: per entrambe le pellicole, le stesse trasformazioni perduravano fino a 45 minuti successivi alla fine del film.

Se il film drammatico ha ridotto il flusso di sangue in 14 dei 20 partecipanti, la commedia ha determinato effetti vasodilatatori e rilassanti su 19 dei 20 individui.

Ne risulta, quindi, che la visione del film drammatico riduce del 35 per cento il flusso di sangue, mentre la commedia lo aumenta del 22 per cento.

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Ha dichiarato Miller: “L’entità dei cambiamenti rilevati sull’endotelio è pari a quella misurabile durante l’attività aerobica, ma senza i dolori e le tensioni muscolari che si accompagnano a questo esercizio. Non stiamo certo raccomandando di abbandonare le palestre sostituendole con le risate, ma suggeriamo di ridere regolarmente oltre a fare ginnastica. Trenta minuti di ginnastica per tre volte a settimana e 15 minuti quotidiani di sane risate è probabilmente un bene per il sistema cardiovascolare’ (ibidem).

4.5.2 Un clown in sala preoperatoria…

La seconda ricerca che qui intendo citare è quella pubblicata sulla rivista medica Pediatrics, condotta dal servizio Terapia del Dolore dell’Ospedale Pediatrico Anna Meyer di Firenze ed intitolata “Clown Doctors as a Treatment for Preoperative Anxiety in Children” - Il clown come trattamento per l’ansia preoperatoria in bambini (Vagnoli et al. 2005). Tale studio è stato affrontato con lo scopo di avvalorare l’ipotesi per cui ridere, durante la fase precedente un’operazione, possa ridurre considerevolmente l’ansia dei bambini e dei loro genitori. L’obiettivo della ricerca è stato quello di verificare se la presenza di un clown, nella fase pre-operatoria, può avere degli effetti sul bambino che sta per subire l’intervento e sui genitori che gli stanno accanto. Di norma, circa il 60% dei piccoli pazienti soffre di ansia pre-operatoria causata principalmente dal distacco dai familiari. Spesso il disagio prolunga i suoi effetti anche nel periodo post-operatorio,

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fino a sei mesi dopo l’intervento.

Durante lo studio sono stati presi a campione 40 bambini di età compresa fra i 5 e i 12 anni, che dovevano essere sottoposti ad un intervento di chirurgia minore in day-surgery. La metà di loro è stata accompagnata in sala operatoria, oltre che da un genitore, da un clown, conosciuto precedentemente in reparto per circa 15-20 minuti e che è rimasto con loro fin quando non si sono addormentati; i restanti bambini, invece, sono stati accompagnati esclusivamente da un genitore, secondo la normale prassi. Per valutare i risultati delle diverse situazioni sono stati effettuati dei test psicologici e fisiologici sui bambini e sui genitori, utilizzando i seguenti strumenti:

Modified Yale Preoperative Anxiety Scale: serve a valutare i comportamenti dei bambini in fase preoperatoria. Con tale strumento si rilevano gli stati ansiogeni nei piccoli pazienti, attraverso una checklist inventata da Kain.

State-Trait Anxiety Inventory (STAI): uno strumento self-report per misurare l’ansia di stato e di tratto negli adulti.

Questionnaire for Health Professionals: ideato dagli stessi ricercatori per valutate l’opinione di medici ed infermieri rispetto alla positività o meno della figura del clown anche in relazione alla diminuzione dell’ansia nel bambino sottoposto ad intervento.

Clown Effectiveness Self-Evaluation Form: un questionario compilato dagli stessi clown e focalizzato sulla

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relazione con il bambino in tre specifici momenti; in corsia, in sala preoperatoria e nel momento dell’anestesia.

I risultati sono stati molto positivi per i bambini accom-pagnati dai clown in cui si è riscontrata una diminuzione dell’ansia del 50% rispetto ai coetanei accompagnati dal solo genitore. Inoltre, nei bambini per cui si è seguita la normale prassi si è registrato un aumento dello stato an-siogeno al momento dell’anestesia; tale reazione non si è verificata negli altri casi. Anche i genitori hanno benefi-ciato della collaborazione con i clown, avvertendo meno stress e timore. Il personale ospedaliero, presente durante l’intervento, ha riconosciuto la positività dei clown, sottoli-neando però un certo disagio determinato dalla presenza in sala operatoria di figure normalmente non coinvolte.

A conclusione, si può affermare come la risata costituisca un ottimo antidoto contro l’ansia che pervade il bambino costretto ad affrontare un’esperienza così delicata, come potrebbe essere un intervento, riducendo la possibilità che lo stesso si trasformi in un evento traumatico.

Bibliografia

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Bibbia, proverbi (17,22)Bottaccioli F, (2005), Psiconeuroimmunologia, Red/Studio RedazionaleCohen J.M., Monsier A., Valette M., Bensoussan J.L., Van Der Werf S.; (2005), GROG-I., General practice and surveil-lance: the example of influenza in France, Med Mal Infect, 35(5):252-6Francescato D., (2004), Ridere è una cosa seria, MondadoriFry W.F., (1994), The biology of humor, Humor, 7, 11-126Miller M, Mangano C., Park Y., Goel R., Plotnick G.D., Vogel R.A., (2006), Impact of cinematic viewing of endothelial function, Heart; num 92: p. 2Seligman M., (2005), Imparare l’ottimismo -Come cambiare la vita cambiando il pensiero, Giunti Siegel S. Bernie, (1986), Amore medicina e miracoli, SperlingTerzi A., (2006), Giochi per ridere, La meridiana, 12-14Vagnoli L., Caprilli S., Robiglio A. e Messeri A.,(2005), Clown Doctors as a Treatment for Preoperative anxiety in Children: A Randomized, Prospective Study in Pediatrics.

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Capitolo 3 Clown di corsia Un naso rosso per l’umanizzazione delle cure pediatriche

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Capitolo 5 Ospedalizzazione e gioco: un ospedale a misura di bambino

Vieni avanti che ti combatto(Giulio – Ospedale di Padova)

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Non è difficile immaginare quanto l’ospedalizzazione rappresenti per il bambino, come per l’adulto, un momento particolarmente complesso. Negli ultimi anni si è rilevato come all’interno della comunità scientifica e dell’associazionismo socio-sanitario sia aumentato l’interesse e l’attenzione verso il vissuto del bambino e della famiglia e sulle possibili modalità per prevenire gli effetti “traumatici” dell’ospedalizzazione. Come accennato nel primo capitolo, cresce la consapevolezza di come ogni cura debba necessariamente preservare la qualità della vita del paziente anche all’interno dell’ospedale, partendo, in primis, dall’analisi dei potenziali fattori di rischio psicosociale. Occorre dunque predisporre strategie per evitare episodi di regressione da parte dei giovani pazienti; si sono presentati, ad esempio, casi in cui bambini già in grado di camminare pretendano di essere presi in braccio dai genitori, o che, pur avendo raggiunto un buon livello di autonomia personale, richiedano di essere lavati, imboccati, vestiti ecc., o, ancora, adolescenti che ricominciano a vedere cartoni animati o che hanno paura di stare da soli (Mangini e Rocca, 1996).

L’ospedale si apre quindi ad attività psico-educative delle quali parleremo più avanti e, in maniera più approfondita, nel capitolo sul “Servizio Gioco e Benessere” dell’Ospedale Pediatrico di Padova. Conoscere le problematiche con cui si confronta un bambino ospedalizzato ha aiutato e aiuterà in futuro le strutture pediatriche a perfezionare il percorso di umanizzazione delle cure, affinché queste diventino sempre più a misura di bambino.

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Capitolo 5 Clown di corsia Un naso rosso per l’umanizzazione delle cure pediatriche

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5.1 Cosa può portare il bambino a provare sofferenza psichica?

Il bambino, posto di fronte ad un ricovero, vive in maniera complessa e traumatizzante l’ingresso in ospedale sia perché viene “catapultato” in una struttura a lui sconosciuta, sia perché è costretto a confrontarsi con persone, attrezzature e soprattutto routines mediche che certamente non appartengono alla sua quotidianità. Tutto questo non ha niente a che fare con la sicurezza della propria casa, dove i tempi e i luoghi sono personali e familiari.

Una buona accoglienza in questi casi è fondamentale, poiché aiuta il bambino ad instaurare un rapporto di fiducia con le distinte figure socio-sanitarie e l’ambiente in generale. Accogliere un bambino significa chiamarlo per nome, presentargli i vari operatori e le loro specifiche funzioni, ascoltare i suoi dubbi e le sue paure, e rassicurarlo affinché possa sentirsi in un ambiente protetto.

Per rendere più familiare la propria stanza d’ospedale ai bambini è permesso portare giochi, bambole o altri oggetti simili “purché non rappresentino un pericolo ed un ostacolo per il suo od altrui programma di cure” (art 6, Carta dei diritti del bambino in ospedale).

La preparazione del bambino al nuovo ambiente diventa quindi indispensabile e si avvale di specifici percorsi e strumenti volti a favorire una prima familiarizzazione con le pratiche medico-diagnostiche e la struttura ospedaliera in generale.

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Capitolo 5

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Per questo motivo, oltre al colloquio con il medico, alle famiglie vengono proposti dei libretti informativi (spesso illustrati, tarati per età e chiari nella terminologia) in cui trovare dettagliate notizie sulla vita nel reparto, sulle routines mediche, sul personale presente (medici, infermieri, psicologi, educatori), sugli spazi e sui servizi ospedalieri offerti. Anche la multimedialità può offrire un suo contributo rendendo questi percorsi di conoscenza interattivi e, quindi, attirando di più l’attenzione dei bambini, soprattutto tra i 4-11 anni (Dragone et all, 2002). Nonostante l’effettiva validità di tali materiali, la comunicazione tra la struttura ospedaliera e le famiglie viene quasi totalmente gestita ed affidata al personale medico-infermieristico.

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Oltre a familiarizzare con il nuovo ambiente, i giovani pazienti devono essere informati sulla propria malattia. Il medico deve saper comunicare con il bambino tenendo conto del grado di comprensione dell’interlocutore, del suo sviluppo mentale e del suo stato emotivo e psicologico (art 4 EACH). Esercitando questo diritto all’informazione, stabilita dalle carte internazionali sui diritti dell’infanzia, si rafforza anche il processo di comunicazione tra i professionisti della salute e i familiari, stimolando così un rapporto di fiducia nella caring niche1 (Axia, 2004). Il dialogo tra le parti che compongono la caring niche è fondamentale per poter curare il bambino in modo efficace ed ottimale.

Un altro aspetto che potrebbe incidere sul piccolo paziente, al momento del ricovero, è il cambiamento dei ritmi di vita, che, con il loro bagaglio di routines e consuetudini costituiscono, specie durante l’infanzia, la struttura per un buon sviluppo cognitivo. Infatti, durante la degenza, è inevitabile che, sulle abitudini familiari e sui ritmi quotidiani, abbiano il sopravvento le esigenze della prassi medica, determinando spesso nel bambino sentimenti di estraneità rispetto al proprio vissuto ospedaliero e alla propria autonomia. Diminuiscono i tempi di gioco e aumentano quelli di “ozio” forzato; questa imposizione è spesso legata ad una specifica esigenza medica di diminuire la mobilità, senza considerare quelle pratiche ospedaliere che, di contro, la stessa mobilità la ostacolano

1 La caring niche (nicchia di cura) si occupa del bambino in un momento in cui la sua salute è minacciata, ed è composta dal Sistema Esperto e dal Sistema Naturale. Appartengono al Sistema Esperto i medici, gli infermieri e gli psicologi. Rientrano, invece, all’interno del Sistema Naturale, i familiari prossimi e lontani, e la rete sociale.

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del tutto (flebo, TAC, EEC, etc.) e che determinano inevitabilmente nel bambino profondi stati di irrequietezza. A tal proposito è indicativo evidenziare la tendenza degli stessi bambini ospedalizzati a rappresentarsi distesi a letto, quasi a voler sottolineare le limitazioni motorie a cui sono costantemente sottoposti.

Per ovviare a queste evidenti problematiche e fare in modo che il bambino non risenta della diminuzione delle ore e degli spazi di gioco, il personale animativo-educativo organizza e struttura momenti di divertimento, e si occupa di allestire e predisporre attività ludiche e ricreative per quei pazienti impossibilitati a visitare i locali per il gioco (art 31, Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia).

L’esperienza del ricovero è limitante anche sul piano della socializzazione poiché comporta il distacco dal gruppo dei coetanei; ne sono esempio i bambini oncologici costretti a ridurre i contatti con altre persone a causa dell’immuno-deficienza. Le apparecchiature elettroniche (Dvd, Tv, Videogiochi), quasi sempre presenti in ogni stanza, possono essere apparentemente un buon rimedio ma è difficile ed insano che un bambino ne faccia un uso continuato per troppe ore.

Il bambino ospedalizzato deve poi affrontare un ulteriore cambiamento, quello dell’assetto familiare, poiché la permanenza continua in ospedale è consentita ad un solo genitore (art 2, EACH). Nella maggior parte dei casi, è la mamma che accompagna il bambino mentre il padre, i fratelli e gli amici devono rispettare gli orari di visita.

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L’ospedalizzazione implica, inevitabilmente, da parte delle famiglie, un coinvolgimento nelle dinamiche di sofferenza del bambino. Con il ricovero, viene meno quell’idea, propria del bambino, di avere al suo fianco una figura forte e onnipotente; emerge, invece, l’immagine di un genitore che non riesce ad annullare le difficoltà del proprio figlio, rafforzando in quest’ultimo la convinzione che quell’adulto a suo lato non è più colui che risolve tutto.

La reazione del bambino alla malattia è strettamente connessa al tipo di sostegno che il genitore offre al proprio figlio. Un adulto ansioso influenza negativamente la buona riuscita del percorso di guarigione, mentre un genitore forte e sereno riesce a contenere il bambino aumentando le sue possibilità di miglioramento.

5.2 Verso un’assistenza personalizzata

Partiamo dal presupposto che ogni bambino ha bisogni specifici e che ogni patologia è strettamente dipendente con l’età del paziente, il contesto familiare di provenienza e la gravità del caso. Ora, sommando questi due assunti e analizzandoli all’interno del sistema medico, emerge la necessità di rapportarsi al bambino ospedalizzato secondo un’ottica personalistica, offrendo dunque al piccolo paziente la possibilità di esprimersi, di elaborare le proprie paure e manifestare le proprie esigenze. Un bambino, soprattutto durante il ricovero, ha bisogno di

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sentirsi accolto, amato, capito e necessita di persone che sappiano comprendere e codificare i suoi messaggi, anche quelli più indiretti. Quindi la comunicazione, intesa come intreccio complesso di comunicazione verbale e non verbale, ricca di segnali diversi come posizione del corpo nello spazio, direzione dello sguardo, postura, espressione facciale delle emozioni, micro-movimenti delle mani e dei piedi (Axia 2004), è un elemento fondamentale e imprescindibile all’interno di un sistema come quello educativo-ospedaliero. Queste esigenze si scontrano con il bisogno di intervenire tempestivamente per la salvaguardia della salute del paziente e con i ritmi ospedalieri che sono sempre frenetici. Per cui occore trovare il giusto equilibrio tra tempestività e attenzione globale del paziente.

5.3 Il gioco

Il gioco in ospedale è fondamentale quanto lo è nella vita di tutti i giorni, poiché, a prescindere dal contesto, resta un bisogno fisiologico del bambino.

Piaget mette in relazione il percorso evolutivo del gioco con quello della mente e fa corrispondere la capacità ludica al prevalere, nella dinamica accomodamento assimilazione2, del momento dell’assimilazione, dove il

2 Secondo Piaget l’intelligenza può essere misurata in base al grado di adat-tamento sociale e fisico. Tale adattamento si compone di due fasi :L’assimilazione: consiste nell’incorporazione di un evento o di un oggetto in uno schema comportamentale o cognitivo già acquisito. In pratica il bambino utilizza un oggetto per effettuare un’attività che fa già parte del suo reperto-

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bambino incorpora qualsiasi oggetto nuovo in schemi mentali già esistenti, con lo scopo di sperimentare questi ultimi senza però modificarli. In definitiva il gioco è la “più spontanea abitudine del pensiero infantile” (Piaget, 1972).

La funzione del gioco, all’interno di un ambiente ospedaliero, si basa su alcuni assunti, requisiti e presupposti fondamentali. Dunque, il gioco è:

- un momento ed uno spazio “protetto” di incontro, condivisione e confronto con altri bambini: un vero e proprio laboratorio sociale da cui trarre forza.

- un processo in cui riaffiorano i vissuti sereni, piacevoli e spensierati della vita quotidiana, una sorta di tuffo nella normalità.

- una possibilità per elaborare stati d’ansia, di angoscia e di paura e, soprattutto, per poterli esprimere ed esternare (vedi disegni e attività di simulazione).

- un modo per continuare ad imparare così da non interrompere il percorso di crescita e maturazione.

- un modo per entrare in contatto con l’adulto, che, dal canto suo, deve imparare a sperimentare e condividere il gioco del bambino e a migliorare la qualità del tempo trascorso insieme affinché, specie nel periodo del ricovero, la sua presenza e il suo supporto possano incidere

rio motorio o decodifica un evento in base ad elementi che gli sono già noti (l’esempio è il caso di un bambino di pochi mesi che afferra un oggetto nuovo e lo porta alla bocca, l’afferrare e il portare alla bocca sono movimenti già acquisiti che vengono però applicati ad un nuovo oggetto). L’accomodamento: consiste nella modifica della struttura cognitiva o dello schema comportamentale per accogliere nuovi oggetti o eventi che fino a quel momento erano ignoti (nel caso del bambino precedente se l’oggetto è difficile da afferrare dovrà per esempio modificare la modalità di presa).

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positivamente sulle ansie e sulle angosce del bambino stesso.

Il gioco, nel caso specifico dell’ospedale, può divenire un isola felice, un anticamera di quella realtà con cui il bambino deve necessariamente confrontarsi, che non è possibile negare o trasformare ma che si può soltanto addolcire: uno spazio “intermedio[…] che non si trova né dentro né fuori, nello spazio della realtà condivisa” (Winnicott, 1975).

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Il gioco diviene dunque strumento per incanalare i contenuti dell’esperienza.

Spesso, all’interno delle strutture ospedaliere, vengono proposti dei veri e propri percorsi ludici volti a favorire un approccio più sereno e familiare con pratiche, strumenti e attrezzature mediche su cui i pazienti proiettano ansie e paure. Ad esempio, accompagnati da educatori, animatori o volontari e con il supporto di colla, forbici, pennarelli, etc. delle siringhe possono essere trasformate in libellule, le garze si convertono in tele su cui dipingere,etc. Così attraverso specifiche attività ludiche, il bambino viene avvicinato alle prassi mediche, poco a poco si attenuano le sue paure e può dare libero sfogo alla propria fantasia.

Diversi studi hanno dimostrato che utilizzando delle bambole per simulare le pratiche a cui i bambini verranno sottoposti, vi è una sostanziale diminuzione di ansia e paura (Astuto et all, 2002). Partendo da questi presupposti è nato un movimento di giovani medici (www.sism.org) fondatori del cosiddetto “Ospedale dei pupazzi”. Nelle scuole viene portato un ospedale finto, con macchinari di cartone che riproducono quelli reali, dove “esperti pupazzologi” (giovani studenti di medicina) eseguono su delle bambole e peluche, e sotto lo sguardo attento del genitore (bambino), tutte le visite e le operazioni a cui ci si sottopone generalmente in ospedale. Questa esperienza viene realizzata con lo scopo di avvicinare i più piccoli alla conoscenza delle prassi mediche e alleviare il più possibile la classica “paura del camice bianco”.

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Bibliografia

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Capitolo 6 Servizio per il gioco e il benessere del bambino in ospedale (presso A.I. di Pediatria - Azienda Ospedaliera- Università degli Studi di Padova)

di Elena Bertocco, Beatrice Ferraresi, Carlo Moretti , Elisa Salata

6.1 Il Servizio Gioco e Benessere

Il Servizio per il Gioco e il Benessere del Bambino in Ospedale nasce da un’idea ormai quindicinale del Dipartimento di Pediatria di Padova nella resa della struttura ospedaliera pediatrica sempre più un “ospedale a misura di bambino”.

Uno dei primi obiettivi era quello di accogliere il piccolo ricoverato in un ambiente strutturato per le sue esigenze, i suoi punti di vista, le sue misure. L’obbiettivo successivo era di potergli consentire di stare bene anche in ospedale e soprattutto di poter continuare ad essere bambino nonostante il ricovero.

A sostegno di questa intuizione giungeva l’interpretazione più moderna del concetto di salute da parte dell’OMS come benessere globale dell’individuo (più che come assenza di malattia): tale benessere doveva poter essere perseguito anche in Ospedale.

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Per questi motivi sono stati identificati alcuni aspetti fondamentali per la qualità di vita del bambino che dovevano essere particolarmente tutelati e sviluppati durante la permanenza in Ospedale: il gioco, la scuola, la creatività. Inoltre sono stati identificati alcuni aspetti di organizzazione interna sui quali agire: il ricorso a professionisti in grado di farsi carico del sostegno psicorelazionale del bambino malato e l’informazione ai bambini-utenti ed ai loro genitori

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ma anche agli operatori sanitari.

Il servizio scolastico in Ospedale nasce nel 1974 con la scuola dell’infanzia alla quale si aggiunge nel 1977 la scuola elementare e nel 1996 sono stati inseriti anche dei professori della scuola media inferiore.

Nel 2000, in accordo con il Settore Servizi Educativi del Comune è stato attivato “Centro Giochi Orsetto Paddi”, un asilo nido condotto da due educatori professionali che offre una proposta educativo-socializzante per i bambini ricoverati della primissima infanzia (0-3 anni).

Nel 2001, in convenzione con la Direzione Provinciale dell’Istruzione è stato attivato il progetto “Web for Help-Le Scuole Superiori in Corsia”, che prevede la presenza in ospedale di un insegnante di scuola superiore con funzioni di coordinatore il quale, in base alla presenza ed alla richiesta dei degenti, è in grado di attivare corsi scolastici praticamente di tutte le materie di scuola superiore, durante la degenza del paziente, avendo a disposizione una decina di professori di varie materie.

Nel 2002 nasce il Servizio Gioco ed Animazione (S.G.A.), costituito da 2 educatori professionali, supervisionati da un pediatra- neuropsichiatra con il compito di:

-coordinare tutte le attività ludiche e di supporto psico-relazionale per i ricoverati;

-elaborare il programma di animazione ospedaliera, in accordo con i responsabili medici;

-favorire l’integrazione di programmi ed attività con

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la scuola ospedaliera al fine di realizzare una proposta educativa unica ed integrata;

-curare la formazione degli animatori volontari nonché dei tirocinanti dei licei psico-pedagogici e della Facoltà di Scienze dell’Educazione che afferiscono al servizio.

Una delle componenti principali degli interventi che vengono proposti dal servizio è quella del gioco e delle attività di animazione. Il gioco quale strumento principale di relazione con il bambino, diviene lo spazio in cui potenziare le sue risorse e riattivare la sua autostima danneggiata dell’esperienza di malattia. L’utilità delle attività creative è tuttavia molto potenziato, in Ospedale, in quanto da al bambino un’adeguata organizzazione logistica e temporale.

Il gioco, nella vita del bambino ha un ruolo fondamentale: è sua caratteristica specifica, è componente naturale e tende a creare un’atmosfera di familiarità.

Il gioco per le sue funzioni fondamentali, può rappresentare la continuità con l’ambiente abituale del bambino: la sua casa, la sua stanza, i suoi genitori, i suoi fratelli, i suoi amici, i suoi giocattoli.

Quando il bambino entra in ospedale, il gioco e l’attività ludica in genere, costituiscono per lui l’equilibrio con la realtà esterna, una costante che ritrova anche in reparto.

Se nella vita normale di ogni bambino l’attività ludica riveste tanta importanza, in un vissuto quale è quello della malattia e soprattutto dell’ospedalizzazione, dove si focalizza l’attenzione sulla cura fisica del bambino per

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superare il suo stato di malattia, è fondamentale garantire un tempo, e soprattutto uno spazio, per il gioco, per il suo ruolo riconosciuto, di notevole importanza nell’aumento del benessere psicofisico del soggetto coinvolto. Il gioco in ospedale non deve però essere concepito solo come attività generica, piacevole, che si fa perché deve essere fatta, perché diverte il bambino e gli fa passare il tempo, ma anche perché contribuisce ad una formazione armoniosa della personalità. Per queste e per altre numerose motivazioni è stato scelto il gioco quale strumento di intervento con i bambini ricoverati presso la struttura pediatrica.

Di seguito elenchiamo i principali laboratori proposti dal servizio:

Laboratori serali di cartotecnica e modellazione: questo attività è peculiare della Pediatria di Padova e non è presente in nessun altro ospedale italiano. Essa copre la fascia oraria dalle 19 alle 21, un arco di tempo normalmente privo di attività sanitarie e nelle quali i bambini non sono ancora andati a dormire. Poiché precede la fase dell’addormentamento, è un momento molto delicato perché slatentizza molte angosce. Il coinvolgimento in tranquille attività creative di manipolazione è risultato molto utile e richiesto dai bambini stessi e li accompagna in maniera più armonica al momento di andare a letto, detenendo l’ansia e favorendo l’addormentamento.

Laboratorio con materiale sanitario: un approccio particolare si è voluto dare all’ambito prettamente sanitario. Partendo dagli oggetti e strumenti medici che i bambini vedono tutti i giorni, spesso anche applicati ai loro corpi,

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se ne stravolge l’uso dando libero spazio alla fantasia dei piccoli malati per ripensarli in chiave divertente e giocosa. Abbassalingua, mascherine, flebo e siringhe diventano gli strumenti con cui i bambini realizzano marionette, pupazzi, mostri o personaggi buffi. I camici bianchi dei medici che solitamente suscitano nei bambini sentimenti negativi diventano tele su cui la creatività del bambino può essere espressa liberamente. Il gioco di ruolo con gli strumenti sanitari permette al bambino di “provarsi” dottore, di rielaborare quello che spesso subisce passivamente e di trasferire sui pupazzi i propri vissuti, le proprie paure e angosce, ridimensionando l’esperienza della malattia.

Laboratorio di riciclaggio e di pittura: nella fascia oraria pomeridiana vengono proposti laboratori creativi di vario genere utilizzando tecniche grafico-pittoriche varie (acquerello, tempera, colori da vetro, mandala, decoupage), materiale di cancelleria e materiale di riciclaggio (bottiglie di plastica, rotoli di cartone, tappi di sughero…) con cui si realizzano oggetti, simpatici pupazzi o particolari decorazioni.

Laboratorio di animazione del libro: riconoscendo l’importanza delle lettura e del libro come protagonista nel percorso di crescita del bambino è stato attivato un laboratorio con scadenza settimanale, dove vengono proposte letture ad alta voce di favole, fiabe e racconti, dalle quali poi si sviluppano attività di laboratorio manuale o di gioco di gruppo.

Di particolare interesse è la possibilità, per i bambini ed i genitori degenti, di usufruire del prestito di libri e di giochi vari presenti nella Biblioteca di Paddi, nonché di servirsi

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due volte alla settimana nei vari reparti, del “Bibliobus” una sorta di biblioteca itinerante fornita di libri per le diverse fasce d’età, dai più piccoli ai più grandi, che i ricoverati possono tenere per tutto il corso della loro degenza. Allo stesso modo possono essere chiesti in prestito vari giochi in scatola, puzzles, disegni da colorare, costruzioni, ecc.

Laboratorio di pasticceria: dal 2003 è stato attivato in collaborazione con pasticceri dell’Unione Provinciale Artigiani un laboratorio dove i bambini possono imparare ad usare pasta frolla e la cioccolata per la creazione dolci di varie forme che vengono poi cotti e distribuiti ai genitori ed al personale. Questa proposta mira a rafforzare l’autostima del bambino che pur trovandosi in una situazione di apatia si scopre capace di produrre, creare qualcosa di originale e soprattutto di “buono” da condividere con gli altri. Nel caso di bambini affetti da diabete, celiachia o disturbi dell’alimentazione la possibilità di “giocare” con alimenti solitamente vietati o poco consigliati favorisce il superamento delle barriere mentali che sono una conseguenza quasi inevitabile di queste patologie. Il laboratorio di pasticceria viene realizzato ogni lunedì pomeriggio dalle 15 alle 18 circa nel periodo compreso tra ottobre e giugno.

Laboratorio di giornalismo e Paddi news: l’aumento della percentuale di adolescenti presente nei reparti pediatrici pone una serie di problemi legata alla differenza di bisogni ed aspettative fra i bambini piccoli e ragazzi. In una fase in cui il ragazzo cerca di affrancarsi dalle figure adulte e di affermare la sua maturità, la malattia blocca

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questa spinta all’emancipazione ed il venire ricoverato in un reparto con prevalenza di bambini piccoli lo fa sentire ulteriormente sminuito. Per questo motivo è stato realizzato uno strumento ad hoc per gli adolescenti, per dar loro la possibilità di dar voce alle emozioni, ai vissuti e alle proprie passioni attraverso la realizzazione di un laboratorio di Giornalismo che pubblica il “Paddi News” un giornalino pensato, gestito e scritto direttamente dagli adolescenti ricoverati, che viene poi esposto e distribuito all’interno dei diversi reparti di degenza. Questo strumento si è rilevato molte volte un tramite per mandare messaggi forti e chiari al mondo degli adulti spesso non attento alle richieste di aiuto e al bisogno di condividere paure e incertezze degli adolescenti.

Tutte le attività proposte non sono però semplici momenti di svago e il loro obiettivo non è certo quello di far dimenticare la malattia al bambino ma sono interventi sempre finalizzati a privilegiare la relazione con i bambini e i genitori, a creare momenti positivi legati all’esperienza dell’ospedalizzazione che possano rimanere nella memoria del bambino.

Clown in corsia: il servizio coordina diversi gruppi e associazioni sia di volontariato che di professionisti che propongono attività di clownerie in diversi momenti della settimana. Il mercoledì sera, il giovedì pomeriggio il venerdì sera e il sabato pomeriggio le corsie dei reparti di degenza si animano con pagliacci colorati e spiritosi che propongono micromagie, palloncini e scherzi divertenti a bambini, genitori e anche al personale medico-infermieristico.

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A.A.A.: attività assistita dagli animali: dopo l’esperienza degli anni 1996-98 della Fattoria in Ospedale, a partire dal 2005 è stato attivato il progetto Pet. Ped. 2005, che prevedeva attività di gioco con gli animali nei giardini dell’Ospedale Pediatrico.

Nel 2006, nell’ambito dell’attività del Centro di Studio Regionale sulla Pet Therapy, è stato varato il progetto Pet. Ped. 2006, volto a:

1. sperimentare gli effetti di empowerment per il piccolo ricoverato e di promozione del benessere nell’ambiente di ricovero, offerto dalle Attività Assistite dagli Animali (AAA);

2. sviluppare un modello applicativo delle AAA nell’ambito dell’ospedale pediatrico, che potesse essere efficacemente esportato in altre Unità Operative di Pediatria in ambito regionale.

Le attività con gli animali in Ospedale contribuiscono a ricreare il senso di normalità, a rinforzare l’autostima del bambino ed a coinvolgerlo in esperienze ricche di significato che lo aiutino a recuperare il senso di sé e così affrontare meglio la malattia ed il processo di guarigione. Il progetto Pet Ped 2006 si è quindi posto i seguenti obiettivi:

- realizzare una condizione generale di benessere psico-fisico;

- ridurre il disagio e l’ansia causati dal vissuto di ricovero e favorire il rilassamento;

- potenziare l’autostima e l’autoefficacia nei piccoli degenti;

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- stimolare l’area affettiva e la presa in cura;

- contrastare l’isolamento favorendo le relazioni e la socializzazione;

- stimolare la parte ludica attraverso il gioco e il contatto con l’animale;

- costituire una fase propedeutica per la sperimentazione successiva di Terapie Assistite dagli Animali (TAA).

Gli incontri A.A.A. sono strutturati per gruppi omogenei di età (3-6 anni e 6-11 anni) e coinvolgono un numero di bambini non superiore a 8; sono suddivisi in quattro fasi, della durata di un’ora e mezza circa in totale, con attività diversificate per le varie fasce d’età. Vengono realizzati da un’équipe multidisciplinare comprendente un medico pediatra/neuropsichiatra, un veterinario, due psicologhe, due pet-operatrici, tre educatrici ed alcuni insegnanti della scuola ospedaliera. Sono coinvolti cinque tipi diversi di animali (cani, furetti, pet-rats, cavie e conigli, costantemente monitorati riguardo alle loro condizioni igienico-sanitarie) che a turno, ogni settimana, sono accolti in Ospedale. Le attività si svolgono due volte alla settimana nelle sale giochi e si articolano nel seguente modo:

1. Fase etologico-naturalistica: il veterinario o le pet-conduttrici spiegano ai bambini le caratteristiche dell’animale coinvolto mediante diapositive o filmati. Vengono fornite conoscenze sulle origini dell’animale, sull’alimentazione e l’habitat, sul body language dell’animale e sull’approccio corretto verso di lui.

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2. Fase didattico-attiva: con l’aiuto dell’insegnante i bambini preparano alcune domande sull’animale presentato che poi porranno al veterinario.

3. Fase di contatto e cura: i bambini vengono prima invitati dalla pet-conduttrice ad avvicinarsi all’animale e a giocarci in gruppo; poi avviene il contatto diretto bambino-animale e la presa in cura (accarezzare, spazzolare, dar da mangiare, giocare, ecc.).

4. Fase grafico-pittorica: i bambini vengono invitati ad esprimere l’esperienza con gli animali appena vissuta mediante disegni realizzati con varie tecniche, adatte alle diverse fasce d’età considerate.

L’elevata strutturazione degli “Incontri AAA” consente di riproporne il modello nelle altre realtà ospedaliere interessate a portare avanti protocolli di attività con il coinvolgimento di animali.

Laboratorio di informatica: da gennaio 2007 è nato un nuovo progetto che vede la partecipazione di diversi enti e partenrs esterni. Tale progetto, “Paddi e il suo Piccì”, prevede la donazione di pc portatili dotati di web cam, che vengono messi a disposizione dei piccoli ricoverati per partecipare a laboratori di informatica, guidati da un esperto, sia dalla loro stanza che in gruppi nelle stanze gioco.

Educazione terapeutica con bambini diabetici: in accordo con la Prof.ssa Monciotti (diabetologa) sono state realizzate delle attività ludiche con i bambini diabetici durante le giornate di incontro con questi piccoli pazienti.

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Queste attività prevedevano giochi che andassero ad “indagare” il livello di preparazione e conoscenza dei bambini sul diabete e sulle relative accortezze e attenzioni che devono avere per la loro patologia. Attraverso grandi cartelloni colorati e giochi di gruppo è stato possibile creare un clima positivo tra i bambini che hanno partecipato in modo attivo a questa modalità giocosa di “fare scuola sul diabete”.

Tirocini e stage: da numerosi anni tra il Dipartimento di Pediatria e la Facoltà di Scienze della Formazione esiste una convenzione che prevede la possibilità di inserire all’interno della struttura pediatrica studenti che desiderano svolgere il loro tirocinio formativo, previsto dal loro corso di laurea, all’interno dei reparti pediatrici. Con una prospettiva di professionalità nel campo educativo tali soggetti vengono inseriti e valutati nell’iter della loro esperienza dal servizio per il gioco e il benessere del bambino in ospedale coordinati dagli educatori professionali e con la supervisione del Dott. Carlo Moretti.

Inoltre il Servizio collabora da molti anni con l’associazione Xena (Centro Dinamiche e Scambi Interculturali) permettendo l’inserimento di studenti stranieri nelle attività del servizio, in media, per un periodo di 3 mesi.

Recentemente anche alcuni studenti di Master Universitari proposti dalla Facoltà di Scienze dalla Formazione hanno richiesto di svolgere le loro ore di tirocinio previste all’interno del servizio. Inoltre la struttura permette l’inserimento di studenti delle scuole superiori

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per lo svolgimento di stage formativi, inseriti nei progetti di animazione con i bambini degenti, in collaborazione con le tirocinanti presenti nella struttura.

Animatori volontari in pediatria: “Gruppo Paddi”: il servizio si occupa, inoltre, della formazione di animatori-volontari in pediatria. Tale formazione prevede un colloquio iniziale per valutare le motivazioni e le attitudini della persona, 10 incontri teorici, 4 attività pratiche di tirocinio e un colloquio finale per elaborare l’esperienza appena terminata, i volontari danno poi una disponibilità di 2 ore settimanali per il loro inserimento nelle attività di animazione previste.

Queste persone sono le risorse principali del servizio in quanto si affiancano a tirocinanti ed educatori per la realizzazione dei diversi progetti ludico-educativi che vengono proposti ai piccoli degenti. Si alternano dal lunedì al venerdì nelle fasce orarie 10-12, 15.30-18.00, 19-21, con una calendarizzazione settimanale.

La formazione dei volontari non termina con il corso obbligatorio iniziale ma si articola in una serie di incontri di formazione permanente a scadenza bi-mensile.

Sottogruppo “Gioco e Benessere” - Rete HPH: da alcuni anni il Dipartimento di Pediatria collabora in modo attivo con la Rete HPH nazionale (Health Promoting Hospital) che si propone di introdurre nell’area dell’assistenza ospedaliera i principi e i metodi della promozione della salute, intesa come “processo che mette in grado le persone e le comunità di avere un maggior controllo sulla propria salute e di migliorarla”. In particolare la Pediatria

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ha fatto partire in collaborazione con altri Ospedali pediatrici italiani (Meyer-Firenze, Gaslini-Genova, Bambin Gesù-Roma, Burlo Garofolo-Trieste, Sant’Anna-Torino, Spedali Civili-Brescia, Salesi-Ancona, Santobono-Napoli) il sotto gruppo “Gioco e Benessere” che ha come primo grande obiettivo quello di effettuare una mappatura degli interventi promossi all’interno degli ospedali pediatrici e dei reparti di pediatria delle varie strutture ospedaliere italiane che vanno ad integrare l’assistenza medica e sanitaria, di quelle attività ludico- educative, didattiche e di supporto psico-relazionale che vengono offerte ai piccoli degenti e ai loro familiari. Questo si pone come un importante primo passo avanti nel tentativo di valorizzare la realizzazione di interventi di questo tipo e di arrivare a promuoverli come protocolli “obbligatori” all’interno di ogni struttura o reparto pediatrico e di definire in modo chiaro le figure professionali che possano realizzarli.

6.2 Conclusione

Ogni bambino che entra in Ospedale ha diritto di ricevere cure ed assistenza al massimo livello, che lo guariscano dalla malattia ma gli garantiscano anche il diritto di restare comunque bambino e di continuare il suo percorso di crescita. È necessario quindi potergli offrire strumenti per poter continuare ad essere se stesso, per aiutarlo a sconfiggere le sue paure. Solo in questo modo il ricovero e la malattia non rimarranno un buio momento da dimenticare ma potranno diventare una tappa del suo delicato processo di sviluppo.

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Al Dipartimento di Pediatria di Padova abbiamo condotto un percorso di approfondimento culturale, riguardante la qualità della cura globale del bambino con particolare attenzione ai fattori che potevano contribuire a mantenere l’equilibrio psicorelazionale del bambino ed il suo benessere complessivo. Dal primitivo progetto di adeguamento degli ambienti di cura alle esigenze del bambino, si è passati ad una ricerca ed una serie di azioni correttive sul contesto relazionale in cui si esplica la cura medica al fine di creare un ambiente “affettivamente ricco” che aiuti a contenere l’ansia del bambino e contribuisca così alla sua guarigione.

È stato così creato il Servizio Gioco ed Animazione (SGA) che promuove tutte le attività che servono a tutelare l’integrità psicorelazionale del piccolo malato, durante la sua permanenza in ospedale. Coordinando le varie attività ludico educative interne all’Ospedale o provenienti da enti esterni, contribuisce a favorire il rispetto degli standard di qualità stabiliti dal nostro Ospedale, fornendo ai degenti un servizio di alto livello e permettendo comunque alla associazioni ed iniziative esterne di poter offrire un notevole contributo all’Ospedale. L’inserimento di questo servizio all’interno della struttura pediatrica ha dato una chiara connotazione a tutte le attività ludico-educative che venivano proposte, rendendole un fattore che contribuisce, assieme alle cure mediche, al benessere ed alla promozione della salute del piccolo ricoverato, diventando in questo modo un contributo irrinunciabile nel complesso progetto di cura del malato in un Ospedale a Misura di Bambino. Questo passo in avanti culturale ha definito, non con poche

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difficoltà, il ruolo del S.G.A. che è ormai diventato modello di cura consolidato del Dipartimento di Pediatria e gode di un alto indice di gradimento da parte degli utenti e degli operatori sanitari. Ne consegue che esso si sta evolvendo in una presa in carico ancor più globale del piccolo ricoverato a tutela del suo benessere, come testimoniato dal recente cambiamento di denominazione: da SGA a SGB: il “Servizio per il Gioco ed il Benessere” del bambino ricoverato.

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Capitolo 7 Tra parole ed emozioni...

Quando si opera all’interno di un’associazione di volontariato è fondamentale farsi contaminare dall’ambiente in cui si è immersi ed allargare i confini verso il mondo esterno. Con questo presupposto, spesso invitiamo coloro che partecipano alle nostre attività o quanti conoscono la nostra associazione a mettere per iscritto opinioni, riflessioni e pensieri rispetto alle tematiche e al settore di cui ci occupiamo. A dire il vero sono molti i lavori che spontaneamente ci vengono consegnati, soprattutto da parte di bambini. Per questo motivo, ho deciso di dedicare un intero capitolo agli scritti e alle testimonianze raccolte in questi anni, segni tangibili di un sostegno morale alle nostre attività.

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Dott.ssa Paletta, Marta Casotto

Era un paio d’anni che avevo in mente di trovare un modo per diventare un clown in ospedale. Presa dalle cose di ogni giorno, dal lavoro, dalla famiglia, dalla frenesia, non mi ero mai impegnata fino in fondo per trovare una strada per raggiungere quel desiderio.

Poi un giorno un amico di manda un sms dicendomi: “Marta, comincia un nuovo corso per diventare un clown di corsia. Vieni?” Spiazzata. Io ho già il teatro, ho già la mia musica, ho tutti i miei amici ho un lavoro che mi assorbe molto tempo … ce la farò? Proviamo.

Invio una mail di iscrizione e inizia l’avventura. Mi presento alla prima giornata di formazione e mi trovo in mezzo a 40 persone che non conosco e che mi coinvolgono in balli, canti e giochi. Nelle ore successive ascolto clown “anziani” che mi raccontano il significato del loro naso rosso. Scettica. Non so se sono in mezzo a un gruppo di esaltati o se prima o poi capirò anch’io il significato di quel naso.

Poi inizia un’attività formativa: la visualizzazione. Mi chiedono, mentre sono distesa a terra, di pensare a quando ero bambina e alla sensazione che provavo nel giocare. Una lacrima mi scende. Io che non mi ricordo nemmeno cosa ho fatto ieri, ora in questo momento mi vedo bambina e piango. Non è una bella sensazione, ho paura, non sento la spensieratezza, l’incoscienza di una bambina. Ma mi vedo e questo mi basta.

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Decido di continuare il corso per vedere dove mi porterà. Incertezza. Non so se sarò in grado di diventare un clown, non so cosa mi aspetta. Ci provo. Comincia il tirocinio operativo in ospedale. Non sono nemmeno mai entrata in pediatria. Entro nella stanza dove tutti i clown si cambiano e li guardo. C’è un clima allegro, tutti scherzano. Io sono terrorizzata. Esco con due clown, per fortuna li devo solo osservare. Non so cosa mi aspetta mi parlano di reparti che io non conosco: pediatria 1, urologia, chirurgia … Mi pento di non essere stata abbastanza attenta durante l’incontro formativo sul rapporto con il bambino ospedalizzato. Non so nemmeno far girare le palline. Spero che non mi coinvolgano e li osservo. Non parlo, non so cosa dire, ho il cervello in tilt. Non mi viene niente di spiritoso o di interessante da dire. Per fortuna ho i miei angeli custodi che mi proteggono e mi sostengono.

Passa questa sfida e ne passano molte altre ancora e ogni volta guadagno un metro all’interno di quel mondo a “se” che è la stanza di ospedale. Finché arriva la sera in cui sono dentro e non ricordo per quale cosa che ho fatto un bambino ha sorriso e mi ha guardato. Coscienza. In quel momento ho preso coscienza di quello che stavo facendo e il perché. In quel momento ho capito cosa può fare un semplice naso rosso, e ho capito che lo volevo, dovevo averlo!

Da li il percorso è stato in discesa. Con il supporto dei clown che mi hanno sostenuto e grazie al confronto con le altre persone che insieme a me stavano

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facendo il mio stesso percorso, sono arrivata al giorno dell’incoronazione! Anzi della nasazione! Fino a quel momento non avevo mai indossato il naso, ce l’avevo da diversi mesi ma per il rispetto per quel piccolo pallino rosso non lo avevo mai messo.

Oggi è quasi un anno che faccio parte di questa associazione; ammiro tutti quelli che ne fanno parte e che ogni settimana si danno da fare per portare un sorriso non solo in ospedale, ma anche nelle scuole, nelle case da riposo e ovunque ci sia una richiesta di gioia. Ammiro tutti i ragazzi che ne fanno parte perché sono tutti molto giovani, molto più giovani di me e mi chiedo perché io alla loro età non avevo ancora la forza per dedicarmi così alle altre persone ma poi mi dico che ogni cosa e ogni persona ha i suoi tempi e io ho maturato questa decisione a 30 anni. L’importante è che l’abbia fatto.

Non ho ancora imparato a far girare le tre palline, e sono una frana con i palloncini ma i bambini in me vedono un clown ed io specchiandomi in loro mi piaccio molto di più.

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Capitolo 7 Clown di corsia Un naso rosso per l’umanizzazione delle cure pediatriche

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Silvia – una bambina ospedalizzata

Un sorriso può aiutare

anche i più malati,

questa iniziativa è stata molto

Gradita da tutti

Grazie

vi ringraziamo di questo

sorriso che avete portato in questa stanza

ma spero che lo porterete

in tutto il mondo

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Chiara – un ragazza della Scuola Secondaria di 1° grado - Levi Civita - Camin (Pd)

...Si vestono in modo molto bizzarro, proprio come dei clown, divertono i bambini e non solo, per far dimenticare loro la malattia. Proprio una bella attività, anche a me piacerebbe praticarla, però ci si può iscrivere, al gruppo, solo dopo aver compiuto i 18 anni. Perché vorrei farlo? È ovvio! Credo che aiutare le persone in difficoltà porti molta soddisfazione e anche ci arricchisca dentro...Si sono presentati in auditorium tutti con un lungo camice bianco, proprio come quello dei medici, con dei grandi nasi rossi, alcuni con cappelli insoliti (uno anche a forma di anatra) e scarpe enormi come quelle dei clown. Erano davvero buffi! Ognuno aveva un proprio nome, che gli era stato affidato in base alle sue qualità...Ci hanno mostrato alcuni spettacoli con cui divertono i bambini e, devo ammetterlo, sono rimasta molto colpita. Tutti noi infatti, vedendoli, ci siamo piegati in due dalle risate! Veramente, non avrei mai scommesso che l’effetto sarebbe stato così devastante...Ti descrivo lo scatch che ho preferito. Tutti fingevano di preparare una pietanza inserendo in una pentola tanti ingredienti composti da carta igienica. Ad un certo punto la pentola ha preso fuoco. Tutti si sono messi a correre disordinatamente e alla fine uno, prontamente, ha messo il coperchio sul pentolino ed il fuoco si è spento. Magari raccontato non è poi così divertente, ma visto dal vivo ti fa morire dal ridere...Ho perfino ballato, solitamente non mi piace ballare, ma con quella musica non sono riuscita

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a resistere...Sono contenta di questa giornata e spero vivamente di incontrare nuovamente i dottor clown, magari perché no, entrando a far parte del loro gruppo.

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Flavio Sorgato – Padre di Alice, una bambina ospedalizzata

Durante il periodo in cui mia figlia è stata ricoeverata nel reparto di pediatria dell’ospedale di Padova abbiamo e soprattutto ha avuto lei la fortuna di essere intrattenuta dai clown dell’associazione Dottor Clown Padova, figure utilissime per il sollievo e la serenità che riescono a dare ai bambini ma anche ai genitori.

Dott.ssa Graffetta – Angela Moretti

Karime ha forse cinque anni, o forse meno. Certo appare esile e indifeso in quel lettino di ospedale, comunque troppo grande per lui. Karime ha ustioni gravi su tutto il corpo, ed è stato operato proprio oggi. Quanto dolore in un esserino così piccolo! Eppure, in quel volto sfigurato, ci sono occhioni enormi pieni di tenerezza. e anche un timido accenno di sorriso. Karime voleva giocare con quei due nasi rossi tutti matti che gli sono capitati davanti all’improvviso. E siccome le mani non poteva usarle, ha pensato di mettere in bocca la maracas, e muovere la testa, l’unica parte del corpo il cui scuotersi non gli provocava fitte lancinanti. E insieme abbiamo suonato la più bella musica del mondo.

Andrea, 8 anni, ha giocato con l’alcool. No, non si è ubriacato, si è bruciato. Ha le braccia immobilizzate dal gesso e dalle garze, ma cammina. Andrea non si stanca mai di fare le bolle a Karime, con il dottor Polenta pronto

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a tenergli il bastoncino. E poi vuole fare tutto da solo, e vuole anche riuscire a giocolare con i fazzoletti, e non si arrende, e prova e riprova, e ci riesce, e ci fa promettere che lo assumeremo come pagliaccio (chiede solo 10 euro al mese e una confezione di bolle).

Grazie a questi due piccoli uomini, che mi hanno insegnato che con la volontà si può ottenere e fare tutto.

Grazie perché il mio cuore sta ancora cantando con voi.

Grazie perché ancora una volta penso alle cose belle che mi circondano, perché le brutte si sconfiggono così...

Sara , un ragazza della Scuola Secondaria di 1° grado - Levi Civita - Camin (Pd)

Caro nonno

ti scrivo per raccontarti la mia curiosa esperienza di sabato 26 novembre. Quella mattina, a scuola, sono venuti i Dottor clown di Padova e devo ammettere che, per quanto io sia disinteressata al genere di umorismo dei clown, perché non mi fanno ridere, mi sono proprio divertita. La curiosità di vederli era molta, ma forse volevo lanciargli una sfida: “riuscirete a farmi ridere?”...Erano due ragazzi e tre ragazze molto giovani ed una più “anziana” che aveva 47 anni. Indossavano grandi

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scarpe da clown, larghi pantaloni, una camicia colorata, il caratteristico naso da clown, alcuni portavano dei cappelli buffi, e indossavano un camice bianco da dottore sul quale avevano scritto i loro soprannomi…Il loro obiettivo è quello di far divertire il paziente in modo da renderlo più disponibile a operarsi o a farsi visitare. Per ottenere questi risultati si servono di diversi strumenti tra cui il principale è comunque il loro insolito abbigliamento. Inoltre devono avere un grande senso dell’ umorismo e quindi io, che non ne ho molto, non sarei adatta per questa attività...io ho fatto una domanda e mi sono sentita molto fiera di essere lì tra loro pur non facendo parte del gruppo...Tornando alla sfida che gli avevo lanciato, posso dire che sono contenta di avere perso perché mi sono proprio divertita...

Caro nonno, questa giornata mi ha fatto riflettere sulla vita della nonna, a quanto ha sofferto passando metà della sua vita su una sedia a rotelle e con il diabete. E penso anche a te, che già eri molto solo e adesso che è morta la nonna sei ancora più solo.

Poi penso alla gioia che portiamo quando veniamo da te e dagli zii per le vacanze di Natale. Un Natale che quest’anno, senza la nonna, sarà completamente diverso.

Ti voglio bene Sara.

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Dott.ssa Ranetta – Silvia Rui

“...Una bolla di sapone…”

La città…macchine che corrono ovunque, moto, biciclette, tutti noi sempre di fretta, ognuno con i propri impegni …Mi è capitato nella mia corsa in città, di passare per quell’ospedale e di guardare nel sottofondo dei clacson quelle finestre illuminate.

…E loro? Mi sono chiesta….ci penso mai che là dentro ci sono vere e proprie famiglie che vivono in quelle stanze per chissà quanto tempo?

No, non c’avevo mai pensato.

Chissà perché pensavo all’ospedale, come un edificio di passaggio … invece no, quei bambini hanno nelle stanze i loro disegni, i loro pupazzi, i loro dvd…perchè là almeno per un po’ ci vivono.

Ecco perché è importante per me oggi che arrivi a loro un po’ di colore, una distrazione inattesa, un sorriso.

Ho capito che basta così poco per farli felici, ho compreso che è così naturale mettersi là e fare semplicemente quello che con gli occhi loro ti chiedono...

Un clown può fare moltissimo per quei bambini e anche per i loro genitori, sono contenta di averlo capito.

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Un bambino che esce dall’ospedale parlando dei pagliaccini, invece dell’incidente che ha avuto.. un bambino che incoraggia gli altri che come lui sono spaventati, parlando dei clown, o ancora un bambino che smette di piangere perché ha visto un simpatico naso rosso arrivare, non può che darmi la carica per continuare.

Continuare questo percorso, completamente a disposizione di coloro che in quel momento hanno un grandissimo problema, che per un attimo può essere accantonato, soltanto ... con una bolla di sapone.

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Dott. Pallina – Nicola Griggio

Non so perché ho accettato di far parte di questa associazione e di iniziare la mia avventura con loro …i bambini!!!! Sono GRANDI i bambini!!!

Cosa gli faccio, cosa gli racconto, come mi devo comportare, come devo essere,….Tutte domande che ogni volta continuo a farmi prima di incontrarli. E se non sono in gradi di….quanta paura di non essere un “Dottor Clown”!! Ma poi mi trucco e mi metto il NASO ROSSO e come d’incanto quel sentimento svanisce e lascia il posto nel mio cuore alla GIOIA….di essere lì in mezzo a loro che mi sorridono e che mi chiedono semplicemente il mio SORRISO…

Come è bello vederli ridere…e ti accolgono nel loro cuore e nei loro pensieri… e per pochi minuti li vedi lontano mille chilometri da lì, da quella stanza, da quel letto …e sono FELICI!!!

Dopo poco tempo sono arrivato a dirmi: che GRANDE cosa questa semplice cosa!!

E sento di non poter più fare a meno …di questa maniera di donarmi, perché è meravigliosamente BELLA!!

E allora, ogni sera quando ritorno a casa, dico GRAZIE a quei bambini che mi hanno regalato il loro sorriso, il loro vivere e la possibilità di rendermi conto che sto ricevendo l’AMORE, quello che ti fa gustare la vita quotidiana con tutte le sue contraddizioni e i suoi

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Clown di corsia Un naso rosso per l’umanizzazione delle cure pediatriche

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problemi…quello che mi fa capire il vero significato delle cose…quello che mi lega a quei bambini, a tutti i bambini che purtroppo hanno perso il loro sorriso per strada…

I bambini non dovrebbero ammalarsi, star male, soffrire , morire…I bambini non dovrebbero stare in ospedale. E non dovrebbero esistere né i reparti né tantomeno i dottori pediatrici.

Quando dolore nel mio cuore per non avere una risposta, un rimedio…

Ma c’è una piccola speranza dentro di me … che si chiama SORRISO…ed è tutto per LORO!!

Evviva la gioia di sperare con il sorriso…

Che grande medicina per la vita un NASO ROSSO!!!!

Sono fiero di essere un “Dottor Clown”…forse…un giorno…

Siete GRANDI bambini!!!!!!!!!!!!!

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Capitolo 7

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Dott.ssa Ondina – Maria Grazia Moretti

Metti un clown in carcere e si aprono al cielo tutte le porte...... Quando si avvera un sogno, come quello che coltivi da molti anni è come se si aprissero le porte del cielo. Entrare in un luogo chiuso al mondo, dove tristezza, rabbia e pentimento si mescolano assieme, dove chi ha commesso un errore è comunque un padre ed un marito, dove la mancanza del contatto con i figli è tanto grande e sofferta.... Quando si entra in una realtà dura (come quella del carcere) con il naso rosso tutto diventa più facile, l’angoscia che proveresti senza i panni da clown si trasforma e con il sorriso ti riempi il cuore di gioia comunque e ti senti di perdonare il mondo che vedi davanti ai tuoi occhi. Vedi così i detenuti come padri, che hanno sbagliato ma che sono comunque padri. Qualcuno di loro ha raccontato ai loro figli che lavorano là, una sana bugia per non fare soffrire e far vergognare i loro bambini. È stata un’esperienza emozionante, molto, molto bella ed intensa, anche se all’inizio molto dura. Poi tutto si trasforma ed il sorriso genera altro sorriso. La cosa che più mi ha colpito è l’essere riuscita a far sorridere e ridere quei giovani ragazzi, oltre che i loro bambini, ed aver creato un anche se pur piccolo spazio dedicato a loro, senza giudizi e pregiudizi. Qualcuno li ha già giudicati, a noi è spettato il compito di sollevare in alto i loro cuori, niente altro...

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Capitolo 7 Clown di corsia Un naso rosso per l’umanizzazione delle cure pediatriche

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Dott.ssa Sardina – Goffredina Spanò

In punta di piedi sulla soglia dei tuoi occhi

Mi avvicino e CuCù

Vestita di nuvole, di colori e del mio naso rosso

Di nascosto e CuCù ti prendo per mano e ti porto con me

Giro giro tondo … danzano le bolle

Giro giro tondo… casco giù per terra

E ta-daaan…la magia del tuo sorriso

Senza trucco e senza inganno

Che tutto trasforma…

Tutto si muove dentro e fuori di noi

Tutto si evolve…

Tutto rimbalza e ritorna a me,

E lo sento muoversi dentro

Per plasmare sogni e realtà

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Ringraziamenti

A tutti il gruppo dei Dottor Clown, compagni sognatori, folli, dal cuore grande, per la loro dedizione all’attività, e per la condivisione di momenti magici e prospettive felici.

Ad Eleonora ed Irene Bruno per l’attenta revisione dei testi e per il fondamentale sostegno morale nella stesura.

Ad Evaristo Arnaldi per averci coinvolto in questo bellissimo sogno, chiamato “clown-terapia”.

Al Centro Servizio Volontariato provinciale di Padova per avere creduto che fosse importante divulgare il nostro “sapere”.

Alle educatrici Beatrice Ferraresi, Elena Bertocco ed Elisa Salata, e al Dott. Carlo Moretti per il capitolo inserito in questa pubblicazione e il lavoro attento che portano avanti per il benessere dei bambini ospedalizzati.

A Guido Turus per le fotografie e per sostenere l’attività dei Dottor Clown.

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Capitolo 1 Background culturale-legislativo e discorso epistemologico 11

1.1 Come sono cambiati i dei diritti dei bambini 121.2 Un nuovo concetto di salute 161.3 Nascita della Gelotologia 201.4 Quando nasce la figura del clown di corsia? 221.5 Dottor Clown Padova 251.6 Un clown può fare terapia? 26 Capitolo 2 Dottor clown padova: analisi dell’attività ospedaliera 312.1 A chi ci rivolgiamo? 312.2 Come avvicinare un paziente 342.3 Materiale utilizzato 362.4 Approccio al bambino ospedalizzato 382.5 Il “ciclo” del clown 422.6 La formazione 44

Capitolo 3 Il clown: tra introspezione e servizio alla persona 493.1 Il proprio personaggio 523.2 Profili dei vari tipi di clown 543.3 Comicità escrementizia ossia l’umorismo scatologico 593.4 La paura del clown 603.5 Grandi vite per grandi progetti: Patch Adams e Miloud 62

INDICE

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Capitolo 4 Riso e benessere: il rapporto mente-corpo 694.1 Gli Effetti Fisiologici della risata 714.2 La connessione mente-corpo: Psiconeuro-endocrino-immunologia 734.3 Il ruolo del paziente 764.4 Ottimismo e salute 774.5 Due importanti ricerche 79

Capitolo 5 Ospedalizzazione e gioco:un ospedale a misura di bambino 855.1 Cosa può portare il bambino a provare sofferenza psichica? 875.2 Verso un assistenza personalizzata 915.3 Il gioco 92

Capitolo 6 Servizio per il gioco e il benessere del bambino in ospedale 996.1 Il Servizio Gioco e Benessere 996.2 Conclusione 114

Capitolo 7 Tra parole ed emozioni... 119

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Finito di stampare nel mese di Marzo 2009presso la tipografia

Imprimenda sncdi Franco Zago e Filippo Zella

Via Martin Piva, 14 - 35010 Limena (Padova)