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clamore della filosofia

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MIMESIS

IL CLAMOREDELLA FILOSOFIA

sulla fi losofi a francese contemporanea

A cura diPaolo Aldo Rossi – Paolo Vignola

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© 2011 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono e fax: +39 02 89403935 Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD) E-mail: [email protected]

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INDICE

PREFAZIONE p. 7

IL SIGNIFICATO E IL METODO DELLA STORIA DELLE SCIENZE

“COSTRUITA DALLA MENTE DELLO STORICO”IN FEDERICO ENRIQUES di Paolo Aldo Rossi p. 11

HENRI-LOUIS BERGSON, TRA OTTO E NOVECENTO

di Luca E. Cerretti p. 23

«LES PSYCHOLOGUES NE SAVENT PAS TOUT.LES POÈTES ONT SUR L’HOMME D’AUTRES LUMIÈRES».POETICHE DELLA MEMORIA NELLE RÊVERIES DI GASTON BACHELARD. IPOTESI PER UN’ERMENEUTICA DELLA LETTERATURA

di Emanuela Miconi p. 39

L’HEGELISMO FRANCESE NEGLI ANNI TRENTA

DEL NOVECENTO. GRANDEZZA E LIMITI

di Roberto Morani p. 53

JACQUES MARITAIN E I DIRITTI DELLA PERSONA UMANA

di Simona Langella p. 63

PROSPETTIVE STORIOGRAFICHE NELL’OPERA

FILOSOFICO-TEOLOGICA DI HENRI DE LUBAC:CATTOLICITÀ, PARADOSSO E MISTERO di Matteo Zoppi p. 73

LA NIETZSCHE RENAISSANCE TRA DELEUZE E DERRIDA

di Paolo Vignola p. 87

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BLANCHOT, IL NEUTRO, IL DISASTRO

di Giuseppe Zuccarino p. 107

J.- F. LYOTARD E IL POSTMODERNO

di Ignazio Semino p. 123

FOUCAULT E L’ONTOLOGIA DELL’ATTUALITÀ

di Filippo Domenicali p. 141

PIERRE HADOT: LA FILOSOFIA COME MODO DI VITA

di Letterio Mauro p. 155

CREDENZA RELIGIOSA E VIRTÙ EPISTEMOLOGICHE:IL CONTRIBUTO DI POUIVET ALLA FILOSOFIA ANALITICA

DELLA RELIGIONE IN FRANCIA

di Marco Damonte p. 167

SIMONE DE BEAUVOIR: LA PASSIONE DELLA LIBERTÀ

di Luisella Battaglia p. 183

L’AMBIVALENZA DEL DEMOCRATICO. NOTE SUL SENSO

DELLA DEMOCRAZIA IN CLAUDE LEFORT E JEAN-LUC NANCY

di Alessandro Esposito p. 205

AUTORI p.

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PREFAZIONELA CLAMEUR DE LA PHILOSOPHIE∗

Se il XX secolo ha mostrato un modo di distinguere il pensiero fi losofi co in due grandi settori di riferimento, quello della fi losofi a analitica e quello della fi losofi a cosiddetta “continentale”, cartografando così il globo in due grandi aree di infl uenza – anglo-americana ed europea continentale appunto –, risulta comunque riduttivo esaurire il discorso di fronte a questa “cortina di ferro” che sicuramente ha mostrato, soprattutto dagli anni Venti fi no alla fi ne degli Ottanta, la sua peculiare rigidità. Riduttivo sia per quanto riguar-da la storia della fi losofi a sia per ciò che concerne la possibilità di pensare fi losofi camente oggi. In primo luogo infatti, omogeneizzando i vari sentieri della fi losofi a tedesca, francese, italiana si farebbe un torto agli studi sto-rico-fi losofi ci che tanto si sono sforzati di cucire – o ritagliare – le deci-ne di trame interpretative del pensiero di Kant, Hegel e Nietzsche (solo per elencare i fi losofi più famosi) che i pensatori contemporanei hanno prodotto. Secondariamente, proprio dalla eterogeneità di tali esiti fi losofi ci sorgono le chances – ancora lontane dall’essere esaurite – del pensiero per il XXI secolo. Nondimeno, la distinzione tra “analitici” e “continentali”, seppur indubbiamente profi cua per un approccio di massima alla fi losofi a contempo-ranea, non può essere utilizzata come fotografi a dello scenario “geofi losofi co”1 odierno. In Italia, come in Francia e in Germania, la fi losofi a analitica ha progressivamente preso consistenza, tanto dal punto di vista editoriale quan-to da quello accademico-istituzionale. La stessa dinamica di “penetrazione” in terra d’oltremanica o d’oltreoceano è d’altronde riscontrabile nell’exploit

* I testi contenuti nel presente volume sono la rielaborazione degli interventi presentati al convegno “La clameur de la philosophie – sulla fi losofi a francese contemporanea”, tenutosi nella Facoltà di Lettere e Filosofi a dell’Università di Genova il 17-18 novembre 2008.

1 Utilizziamo un termine che proviene dal lessico di Gilles Deleuze e Felix Guattari; con “geofi losofi co” è da intendersi, in questo caso, innanzitutto l’approccio meto-dologico che concerne l’individuazione di alcuni tratti nazionali o territoriali come costitutivi di determinate tradizioni fi losofi che. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la fi losofi a?, trad. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 2002, pp.77-107

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di alcune correnti della fi losofi a “continentale” – come il post-strutturalismo francese – che, giungendo nelle università di lingua inglese, hanno con-tribuito a complicare, e quindi a far proseguire, questo Risiko fi losofi co.Crediamo allora che, prima ancora della divisione tra analitici e continentali, sia opportuno distinguere le peculiarità – metodologiche e concettuali – che le fi losofi e delle diverse nazioni, mediante le rispettive tradizioni e preferen-ze tematiche, esibiscono. Ciò non signifi ca che si possa stabilire irrevocabil-mente un modo di pensare “tedesco” o “francese” non soggetto a variazioni e ibridazioni, ma semmai che alcune componenti “territoriali” entrano in gio-co poderosamente nella costruzione delle teorie fi losofi che contemporanee.

Prestando orecchio alla fi losofi a francese del Novecento non sentiamo solo un accento differente dalle sue “cugine” tedesche, italiane e spagno-le, ma un clamore – inteso come grido molteplice e confuso – capace di scuotere la storia della fi losofi a per garantirle innumerevoli futuri. È pro-babilmente dallo stile – o meglio dai diversi stili – di pensare, di porre i problemi e di creare percorsi che questa potenza vitale traspare, si fa sentire e ammalia chi vi si avvicina.

Se per Habermas sono quattro i grandi movimenti fi losofi ci del XX se-colo – la fi losofi a analitica, la fenomenologia con le sue varie declinazioni, rotture e deplacements (ivi compresa la fi losofi a heideggeriana), lo strut-turalismo e ciò che egli defi nisce il marxismo occidentale –, la fi losofi a francese del Novecento non solo ‘ospita’ queste correnti, ma ha saputo ‘esportare’ una serie di specifi che posizioni fi losofi che che non si lasciano rinchiudere nella griglia habermasiana.

Da un lato, se guardiamo alla prima metà del Novecento, Bergson, Ba-chelard e Sartre non sono stati solamente illustri maestri per la generazione successiva di fi losofi francesi, ma hanno contribuito al dibattito fi losofi -co mondiale, conducendo dialoghi serrati e produttivi con la scienza, la morale e la politica. Fatta eccezione per Sartre, il quale rientrarebbe nelle categorie descritte da Habermas per via del rapporto con la fenomenologia e con il “marxismo occidentale”, gli altri due fi losofi potrebbero unicamen-te far parte – loro malgrado – del “bergsonismo” o del “bachelardismo”. Eppure è attraverso Bergson e Bachelard, come mediante Sartre, Merleau-Ponty, Koyré, Kojève e Althusser, che fi losofi del calibro di Canguillem, Lacan, Lévinas, Blanchot, Lyotard, Deleuze, Foucault, Derrida, hanno po-tuto emergere, ponendo nuovi interrogativi alla fi losofi a nonché al rapporto tra essa e le altre discipline.

Dall’altro lato, fi losofi come Gabriel Marcel, Paul Ricoeur, Jacques Ma-ritain, Jean-Luc Marion e l’attualissimo Pierre Hadot hanno sviluppato, in

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Prefazione. La clameur de la philosophie 9

maniere assai differenti ma i cui esiti sono accomunati dal grande ricono-scimento internazionale, un dialogo con le ‘tradizioni’ – religiosa, erme-neutica, soggettivistica – capace di esibirne nello stesso tempo la solidità e la possibilità di guidare il pensiero del presente. Un dialogo non solo profi cuo ma in grado di rilanciare le tematiche relative alle tradizioni ben oltre le ‘barricate’ del 1968, evento quest’ultimo che in Francia, proprio at-traverso la generazione di Deleuze, Foucault e Lyotard, ha assunto caratteri profondamente fi losofi ci2.

Di fronte a questo panorama complesso ed eterogeneo, segnato da una molteplicità innumerevole di opere acute, e a volte imprudenti, si pone il problema di defi nire la dimensione della fi losofi a francese contemporanea. Ci sembra impossibile pensare ad essa come ad una comunità fi losofi ca, se con questo termine si vuole indicare «l’idea di una comunità unifi cata trami-te l’adesione a dei principi comuni, che condivide una concezione comune (anche minima) della razionalità o, al limite, animata da una volontà reale di discussione e di dibattito tra opinioni chiaramente incompatibili»3.

Se, come ha scritto Jacques Derrida, l’idea di comunità rinvia al “come uno”, ossia all’unità omogenea, ci sembra che sul piano fi losofi co si possa invece parlare di una “Francia plurale”4, in cui la diversità delle voci ac-quista potenza coesiva nello stile, nella differenza “geofi losofi ca” che essa intrattiene con le fi losofi e delle altre nazioni o, meglio, delle altre zone culturali. Ecco il clamore della fi losofi a francese.

Paolo Vignola

2 Cfr. L. Ferry, A. Renaut, La pensée 68, Paris, Gallimard, 1985.3 Cfr. J. Bovveresse, Essais IV. Pourquoi pas de philosophes?, Paris, Aragone,

2004, p.8.4 Cfr. E. Alliez, De l’impssibilité de ka phénomenologie. Sur la philosophie françai-

se contemporaine, Paris, Vrin, 1995, p.11. Cfr. inoltre O. Dekens, La philosophie française contemporaine, Paris, Ellypses, 2006, pp.7-18 e il più “datato” ma co-munque utilissimo V. Descombes, Le même et l’autre, Minuit, Paris 1978.

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PAOLO ALDO ROSSI

IL SIGNIFICATO E IL METODO DELLA STORIA DELLE SCIENZE “COSTRUITA DALLA MENTE

DELLO STORICO” IN FEDERICO ENRIQUES

Nel 1934 usciva a Parigi una piccola, ma importante, opera di Federigo Enriques, intitolata Signifi cation de l’histoire de la pensèe scientifi ques, della quale, in una recensione su Archeion dello stesso anno, Hélène Met-zger scriveva:

Questo eccellente libretto […] potrà avvicinare alla storia delle scienze un gran numero di persone colte che fi no ad oggi ne ignoravano non soltanto l’esi-stenza ma persino la possibilità di esistenza1.

Hélène Adler Metzger (Paris 1889-Auschwitz 1944), nipote del grande antropologo Lucien Lévy-Bruhl, si dedicò alla storia della chimica. Fu te-nace cooperatrice di George Sarton (1884-1956), il fondatore della presti-giosa rivista Isis, considerato uno dei primi e dei maggiori protagonisti di quelle rifl essioni che hanno reso la storia della scienza una disciplina auto-noma. Erano i tempi in cui Pierre Duhem, Émile Meyerson, Henry Poicarè avevano posto gli autentici semi affi nché nascessero gli studi storici ed epistemologici della scienza. E difatti, se fu nel 1892 che venne costituita al Collége de France la prima cattedra al mondo di storia generale delle scienze (ma purtroppo venne affi data al leader positivista P. Lafi tte, per-sona del tutto incompetente), si dovette però attendere il 28 gennaio 1932 perché venisse fondato, su proposta d’Abel Rey, l’Istituto di Storia delle Scienze presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Parigi. La Metzger organizzò i primi congressi internazionali di Storia delle scienze venendo in contatto con Alexandre Koyré e Abel Rey, ma anche con Gaston Bache-lard e George Canguilhem, in quella grande stagione della rifl essione fran-cese della nascita della storia della scienza, per cui la frase «ne ignoravano non soltanto l’esistenza ma persino la possibilità di esistenza» detta di una disciplina nata da poco è molto notevole e degna di attenzione.

1 Hélène Metzger, Archeion, 1934, 16, pp. 390-91, recensione a Federigo Enriques, Signifi cation de l’histoire de la pensèe scientifi ques, Paris, Hermann et Cie, 1934.

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E addirittura nel 1970, quando erano state editate da anni alcune ottime “storie della scienze”, Evandro Agazzi poteva a ragione scrivere:

si scopre una ragione ancor più profonda del fatto che la storia della scienza abbia avuto inizi abbastanza recenti: ciò è accaduto semplicemente perché re-cente è la consapevolezza che la scienza stessa è un fatto storico, tale consape-volezza è, anzi, tanto recente che neppure ai nostri giorni si può dire che essa non sia stata universalmente acquisita2.

Ed è, appunto, proprio in storia della scienza che ci porta alla luce l’au-tentico punto d’incontro tra rifl essione fi losofi ca e ricerca scientifi ca e cioè fra le cosiddette “due culture”, risolvendo almeno, in via di diritto, la co-esistenza e la collaborazione fra cultura umanistica e cultura scientifi ca. Perché la scienza è strutturalmente un fatto storico in più di un senso. In primo luogo, perché essa è ad un tempo un prodotto storico e un fattore di storia, in secondo luogo perché la sua stessa natura si può cogliere soltanto considerando le modalità storiche secondo cui è nata, in terzo luogo perché essa è stata e viene sottoposta a profonde trasformazioni storiche.

La storia della scienza è un fatto abbastanza nuovo, non solo perché la scienza nasce ai primi decenni del XVII secolo3 e, naturalmente, studiando il passato si ha bisogno che sia trascorso quel po’ di tempo che permette all’accaduto di diventare e di formarsi prima come “fatto o evento stori-co” e quindi, all’interno della teoria storiografi ca, come “dato storico”, ma anche perché si pensava che le res cognitae (i contenuti della conoscenza) diversamente dalle res gestae (i fatti e le azioni umane) non potessero di-ventare oggetto della storia.

L’idea aristotelica degli Analitici Posteriori traccia il cammino teoretico per cui dal primigenio atteggiamento conoscitivo empirico (la testimonian-za del dato di esperienza) conseguono l’arte e la scienza4. Nel primo caso

2 Evandro Agazzi, Valore epistemologico della storia della scienza, Civiltà delle macchine, I-1970, pp. 55-58.

3 Lynn Thorndike, Novità e innovazione nella scienza e nella medicina del Seicento (a cura di Philip P. Wiener e Aaron Noland), in Le radici del pensiero scientifi co, Feltrinelli, 1971, pp. 459-473.

4 Aristotele, Analitici Posteriori, II, 19. 1000 a 4: «... dalla sensazione si sviluppa quel che chiamiamo ricordo, dal ricordo ripetuto di un medesimo oggetto nasce l’esperienza e quindi ricordi che sono numericamente molteplici costituiscono una sola esperienza. Da tale esperienza, poi, o dall’intero concetto universale che si è formato nell’anima come unità che, al di là della molteplicità è una e identica in tutte le cose molteplici, consegue il principio dell’arte e della scienza: dell’arte rispetto al divenire, della scienza rispetto all’essere».

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Il signifi cato e il metodo della storia delle scienze di P. A. Rossi 13

siamo di fronte ad una forma di sapere in cui intervengono solo esperienza e memoria, nel secondo caso interviene anche la ragione o il logos. Per cui nella Poetica Aristotele dichiara che la storia descrive le cose come sono accadute, «che cosa fece Achille e che cosa gli capitò»5, cioè il particolare, il katà mèros, di cui non si dà scienza. Bisognerà attendere Giovan Battista Vico (1668-1744) per sentirci dire che il mondo umano è storia ed è com-prensibile perché è fatto dall’uomo e per l’uomo:

In tal densa notte di tenebre ond’è coverta la prima la prima da noi lonta-nissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verità la quale non si può ad alcun patto chiamare in dubbio, che questo mon-do civile è stato certamente fatto dagli uomini, onde se ne possono perché se ne debbono ritrovare i principi dentro le modi fi cazioni della nostra medesima mente umana6.

Voltaire scriveva nel 1740 a René-Louis, marchese d’Argenson:

Finora si è fatta solo la storia dei re, ma non quella della nazione. Sembra che per 1400 anni non si siano avuti nelle Gallie altro che re, ministri e gene-rali; e i nostri costumi, le nostre leggi, le nostre consuetudini, il nostro spirito non sono dunque nulla?7.

Nell’Essai sur l’histoire générale et sur les moeurs et l’esprit des na-tions, Voltaire scrive:

tutto ciò che appartiene intimamente alla natura umana è identico, da un capo all’altro del mondo, che tutto ciò che può dipendere dal costume è diverso e che, se esiste qualche rassomiglianza, è per caso. In effetti, l’impero della consuetudine è molto più vasto di quello della natura. Si estende ai costumi e ad ogni uso, sparge la varietà sulla scena dell’universo. La natura diffonde l’unità e stabilisce ovunque un piccolo numero di principi invariabili; così la base è ovunque la stessa e la cultura produce frutti diversi8.

5 Aristotele, Poetica, IX, 1451 b 2-10.6 G. B. Vico, La Scienza Nova, Rizzoli, Milano, 1963. Frase citata da F. Enriques.

op. cit. Trad. it. a cura di M. Castellana e A. Rossi, p. 36.7 Oeuvres de Voltaire LIII, Voltaire’s Correspondance. Ed. T. Baterman, Genève,

Lettera del 26 gennaio 1740 a René-Louis de Voyer, marquis d’Argenson, pp. 1552 e sgg; cfr. R. L. d’Argenson, Réfl exions sur les historiens françois et sur les qualités nécessaires pour composer l’histoire, in Mémoires de l’Académie des Inscriptions, t. XXVIII, 1761, pp. 627-646; D’Argenson, Journal et Mémoires, ed. Rathery, Paris, IV, 1862.

8 Voltaire, Essai sur l’histoire générale et sur les moeurs et l’esprit des nations, 2 voll., Paris, Gamier, 1963; trad. it. Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni,

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14 Il clamore della fi losofi a

Ed è qui che le res cognitae (la cultura) diventano oggetto della storia e Le siècle de Louis XIV del 1751 diventa, forse, «la prima opera storica moderna»9. E difatti dal XVIII secolo si incomincia a fare una storia del-lo “spirito”, vale a dire dell’ingegno, del pensiero, dell’intelligenza … o meglio della mentalità delle epoche passate; accanto alla storia politica e militare incominciano a farsi spazio una storia economica e sociale … ma anche una storia della mentalità e delle idee.

Sono gli stessi anni in cui, ad esempio, lo storico della matematica J. E. Montucla, che si occupò della geometria delle dissezioni o dei tagli10, scrisse l’Histoire des Mathématiques (1758) e il fi sico-chimico Joseph Priestley, amico di B. Franklin, compose una History and Present State of Electricity (1767) e una History and Present State of Discoveries Relating to Vision, Light and Colours (1772), opere che gli procurarono la nomina a membro della Royal Society. Ma portiamo un esempio italiano, ossia quando Marcello Malpighi11 discute delle varie Scuole di medicina antica e moderna: i razionali, gli empirici e i dogmatici, facendo invero un’effettiva “prima” storia della medicina (senza saperlo)12.

Tuttavia, pur non essendo delle raccolte De Viribus Illustribus (fra i qua-li vi sono famosi cultori di “scienze” di epoche antiche), queste opere non facevano ancor parte di una scienza storica, ma erano esposizioni, querel-les o polemiche, testimonianze, narrazioni, cronache o biografi e (ad es. le classiche vite delle “libraries”[1771-1782] di Haller e i ritratti di Newton, ad opera di D. Brewster nel 1831 e 1855) scritti con l’idea di un progres-so considerato come necessario e di una verità che segue uno sviluppo in continuo miglioramento. Ad esempio la History of the Royal Society, che T. Sprat pubblicò nel 1667, era una polemica politica; le già citate opere

Milano, Club del Libro, 1966, cap. 197.9 E. Fueter, Geschichte der neuren Historiographie, München-Berlin, Oldenbourg,

1936; trad. it. Storia della storiografi a moderna, Milano-Napoli, Ricciardi, 1970.10 J. E. Montucla, Histoire des Mathématiques (Paris, 1758).11 M. Malpighi, Risposta all’opposizioni registrate nel Trionfo dei Galenisti (Messi-

na, 1665), Risposta del dott. Marcello Malpighi alla lettera intitolata: De recen-tiorum medicorum studio dissertatio epistolaris ad amicum (Bologna 1689).

12 La Vitae germanorum medicorum (1630) di M. Adam è una storia patriottica senza una prospezione relativa al passato, mentre l’Histoire de la médecine di D. Leclerc in due volumi (quello del 1696 che si occupava della medicina antica e quello del 1723 che arrivava fi no al XVI secolo) potrebbe già essere una “disamina” storica. Ma le prime storie della medicina furono quelle di C.K. Sprengel, Versuch einer pragmatischen Geschichte der Arzneykunde (1792-1803), di H. Haeser, Lehrbuch der Geschichte der Medizin und epidemischen Krankheiten (1845) e di S. De Renzi, Storia documentata della Scuola Medica di Salerno, Napoli 1857.

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di J. Priestley considerano la storia della scienza unicamente al servizio della scienza contemporanea e, per fi nire, J. S.Bailly nella sua Histoire de l’astronomie moderne, uscita in tre volumi a Parigi nel 1782, considerava la storia della scienza come «le cose che abbiamo fatto e quel che dob-biamo ancora fare»13, ossia uno strumento di accrescimento della scienza. Tuttavia il termine “fenomeno storico” – così com’era per Bacone il notis-simo commercium mentis et rei – stava a signifi care un fenomeno concreto e realizzato, attuato e compiuto, e il vocabolo storia (della scienza) come un rendiconto della ricerca.

Furono gli studiosi della fi ne del XVIII e del XIX secolo, facenti parte della scuola di Gottinga, vero centro incomparabile di studi della Grün-dlicheit (la scienza tedesca nascente), coloro che scrissero le prime storie della scienza di età Romantica. Erano opere dense d’ingenuo ottimismo e alcune compatte nel loro nozionismo cronologico che andava a discapi-to della rifl essione storica, nella certezza però che una scienza, una volta emersa, andasse direttamente verso la propria conclusione, cioè la perfe-zione. Lo stesso G.W Leibniz (di professione storiografo della casa Braun-schweig-Lünenburg e bibliotecario dei duchi di Hannover) considerava la storia della scienza come:

il modo di riconoscere il contributo individuale di ciascuno (stabilendo la successione storica e obiettiva dei fatti), e può inoltre incoraggiare altri ad ac-quisire pari fama (il grande modello serve come incentivo), ma anche l’arte della scoperta (ars inveniendi) viene potenziata dal riconoscimento del cammi-no della ricerca in esempi importanti.14

Ma un certo inquadramento della scienza in una prospettiva temporale incominciava ad intravedersi: se anche nella scienza è esistito un passato, esisterà anche un futuro o, per meglio dire, vi è un divenire e uno sviluppo della cultura (e non sempre verso il meglio); di conseguenza lo storicizzare una disciplina o il fare storia della scienza è anche il fare scienza (anche quella storica)15.

13 J. S.Bailly, Histoire de l’astronomie moderne, Paris, 1782, vol, III, p. 315.14 G.W. Lebniz, Mathematische Schriften, Berlin, Halle, 1849-1863, vol. 5, p. 392.15 Nel pensiero dell’Occidente il termine storia è stato assunto almeno in tre grandi

classi di signifi cato: 1) la globalità del mondo umano (cultura, spiritualità, tradi-zione...) nel processo del suo divenire intesa sia come distinta, ma complemen-tare con il mondo della natura, sia come tout-court; 2) l’oggetto della “scienza” storiografi ca (la realtà storica come oggetto di conoscenza); 3) l’equivalente del concetto di «storicità», l’orizzonte in cui l’uomo confronta il suo progetto per l’avvenire con la memoria del proprio presente sia di individuo che di specie; la

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Mentre ferveva la disputa fi loso fi ca che avrebbe voluto esclu dere la storia non solo dall’ambito della scientifi cità, ma anche da quello della istruzione e forma zione scolastica, gli storici di pro fessione misero in campo una serie di attrezzature teoriche per lo studio dei documenti, che po trebbero essere considerate delle vere e proprie «metodiche di sfi ducia sistema tica» intenzionate alla costruzione di una nuova sto riografi a. Le loro tecniche di lettura, controllo e verifi ca del l’uni verso d’oggetti e della intelaiatura teo rica della disciplina in iziarono a raffi narsi e a specializ zarsi: fi lologia, paleografi a, di plomatica, lessicografi a, cronologia ...; momenti di indagine ap pena abbozzati nel secolo precedente, di vengono nel XVII se colo strumenti ordinari del lavoro dello sto rico e rap presentano mezzi per indagare una realtà non più termine a quo (consegnata una volta per tutte ai libri), bensì termine ad quem di una com plessa ri costru zione. Al di là, quindi, delle in terminabili querelles dei fi losofi , gli “storici di campo” portano a compimento una au ten tica rivolu zione nella prassi disciplinare, vere e proprie svolte metodo logi che che – come è accaduto nelle scienze empiriche – af fondano le proprie radici nell’età rinasci mentale, ma si svi-lup pano fra il XVII e il XVIII secolo.

Nasce così una storia che non è più di sciplina di memoria, giustifi catrice delle condotte, serba toio di esempi, ma è fondamentalmente una discipli-na di ri cerca16, un universo di sapere entro il quale ci si muove attra verso l’inda gine e l’investigazione guidate dalla ra gione. Quindi dalla metà del XVIII secolo in poi, accanto ai re e alle guerre, trovano posto anche la storia delle creazioni dell’intelligenza; quindi la storia è norma e misura del progresso e la liberazione della ragione umana (illuminismo) e il suo porsi come guida dell’uomo singolo e in società diventa via via inevitabile, tanto che la storia si trasforma, nel Romanticismo, in dottrina fi losofi ca che nell’Idealismo diventa «Nulla è come è perché Dio vuole arbitrariamente così, ma perché Dio non può manifestarsi altrimenti»17 e

Dio prevale e la storia del mondo non rappresenta altro che il piano della provvidenza. Dio governa il mondo: il contenuto del suo governo, l’esecuzione

funzione, comune a tutti gli uomini, che unifi ca l’io all’altro da sé nella percezione del tempo inteso come il luogo del vissuto.

16 Cfr. in particolare E. Feuter, Storia della storiografi a moderna, Milano, Ric ciardi, 1970, dove l’Autore tedesco mette in luce il complesso lavoro di ricostru zione storico-critica operatosi principalmente entro gli ordini religiosi, dai Bene dettini di San Mauro ai Gesuiti, e sfociato nelle grandi ricerche di Mabillon, Du cange, Montfaucon.

17 G. F. Ficthe, Werke, IX. Trad. it. di A. Cantoni, Caratteri dell’età contemporanea, p. 67. cfr. Filosofi a della storia, Principato, Milano-Messina, 1956..

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Il signifi cato e il metodo della storia delle scienze di P. A. Rossi 17

del suo piano è la storia universale ... La fi losofi a vuol conoscere il contenuto, la realtà dell’idea divina e giustifi care la realtà vilipesa. Infatti la ragione è la percezione dell’opera di Dio18.

In quest’epoca nasce un’ambiguità fondamentale: la storia è da un lato i “fatti” umani (compresi anche quelli della cultura) nella loro totalità e dall’altro la conoscenza di questi fatti (historia rerum gestarum). Quin-di la “storiografi a” come conoscenza del piano provvidenziale del mondo storico (la storia universale hegeliana quale esecuzione del piano divino) coincide senza resti con la fi losofi a19.

Dalla metà dell’Ottocento in poi, venendo a cambiare la nozione stessa di storia, ossia la realtà storica come oggetto di conoscenza, la scienza inco-mincia a diventare un “fatto” appartenente al mondo storico. Caratterizzare la storia come “mondo” signifi ca riconoscere come ontologicamente data una realtà, quale è appunto l’universo dei modi d’essere e delle creazioni dell’uomo, nel processo del suo divenire, riconoscendo a questo dei principi, cause, ragioni e leggi sue proprie. Il riconoscimento di una realtà sul piano ontologico pone, sul piano logico, il problema della sua conoscenza. In questa prospettiva il “mondo umano” nel processo del suo divenire diventa oggetto di un sapere o di una teoria che intende parlarne con verità. Tale teoria viene detta storiografi ca e l’universo d’oggetti di tale teoria è la “realtà storica”. Da un lato v’è l’idealismo per il quale la storia è rivelazione e realizzazione di Dio nel mondo, rivelazione dell’Assoluto che si presenta ininterrottamente, ma gradualmente e progressivamente, dall’altro, il positivismo comtiano che considerava la storia come “lo sviluppo progressivo dell’Umanità o Grande Essere” che è «l’insieme degli esseri passati, futuri e presenti che concorrono liberamente a perfezionare l’ordine universale»20.

È l’inizio del XIX secolo quando C. H. de Saint-Simon, maestro di Comte, scriveva:

la storia, sotto il suo rapporto scientifi co, non è ancora uscita dal limbo dell’infanzia. Questa importante branca delle nostre conoscenze non ha ancora

18 Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, I, pag. 55.19 «Storicismo, nell’uso scientifi co della parola – scrive il Croce – è l’affermazione

che la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia». Questa storiografi a universale (Weltgheschichte) si basa sul presupposto che «nessuna altra unità sussiste fuori di quella del pensiero stesso che distingue e unifi ca». La storia è opera del fi losofo, mentre lo storico altro non è – a detta di Hegel – un mero fi losofo. Anche il Croce contrappone la storia fi losofi ca a quella speculativa, indicando così nel “mestiere dello storico” una attività subordinata e accessoria alla “missione del fi losofo”.

20 Augusto Comte, Politique positive, 1854, IV, pag. 30.

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altra esistenza che quella di una collezione di fatti più o meno ben constatati. Questi fatti non sono legati da alcuna teoria; non sono concatenati in un ordine consequenziale; così la storia è ancora una guida insuffi ciente per i re come per i loro sudditi; non dà né agli uni né agli altri i mezzi di dedurre ciò che accadrà da ciò che è accaduto21,

mentre Hegel affermava che per riconoscere la realtà sostanziale della storia bisogna «portare con sè la coscienza della ragione: non occhi fi sici, non un intelletto fi nito, ma l’occhio del concetto, della ragione», ossia un procedere rigorosamente aprioristico22.

La nascita dello storicismo tedesco è la storia di una rottura e di un ritorno: il ritorno è verso l’impostazione romantica della storia, ovvero il punto di partenza di Dilthey e l’assioma relativistico di Splengler; la rot-tura è quella weberiana, che riprende l’eredità neocriticista e rompe con gli strumenti speculativi del romanticismo. Infatti, lo storicismo tedesco (nelle sue varie forme) polemizza contro la concezione che la cultura ro-mantica aveva della storia e contro la concezione positivistica del mondo, ponendosi l’intento (qui è l’aggancio con il neocriticismo) di determinare criticamente le condizioni di validità delle scienze storico-sociali. In realtà proprio questo storicismo si incontra con il neopositivismo. Il suo campo di indagine, allargato alle condizioni di validità della conoscenza storica e alle condizioni di oggettivazione (formazione dei concetti e conseguente costruzione della teoria) delle scienze storico-sociali, viene in contatto e in contrasto con l’epistemologia contemporanea, ponendo di fronte la logica delle scienze empiriche con la logica delle scienze storico-sociali.

Da questo momento in poi può nascere una “storia della scienza”, anche perché la cultura umanistica e il sapere scientifi co incominciano “in qualche modo” a “parlarsi” (a comunicare, a conversare, a collaborare…), e proprio su questo, che fi no agli anni ʼ30 del Novecento era un dato non ancora comu-nemente acquisito, anche perché non esistevano “due culture”23, ma una sola:

21 C. H. de Saint-Simon, Travail sur la gravitation universelle, Paris, 1813, in Oevres choisies, Bruxelles, 1859, vol. lI, pp. 195-196.

22 G. F. Hegel, Philosophie der Geschichte, I, p. 8. in Werke, Wolständige Ausgarbe, 1832-1845.

23 Charles Percy Snow, Le due culture, I fatti e le idee, Feltrinelli, Milano, 1964, pp. 7-12. «I non-scienziati hanno una radicata impressione che gli scienziati siano animati da un ottimismo superfi ciale e non abbiano coscienza della condizione dell’uomo. D’altra parte, gli scienziati credono che i letterati siano totalmente pri-vi di preveggenza e nutrano un particolare disinteresse per gli uomini loro fratelli; che in fondo siano anti-intellettuali e si preoccupino di restringere tanto l’arte quanto il pensiero al momento esistenziale […] È la cultura tradizionale che, in

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Il signifi cato e il metodo della storia delle scienze di P. A. Rossi 19

quella umanistica. Si è sempre detto che umanisti e scienziati vivono in mondi separati, disconoscendosi e disprezzandosi gli uni con gli altri e, quindi, è

pericoloso avere due culture che non possono o non sanno comunicare. In un tempo in cui la scienza determina gran parte del nostro destino, cioè se dobbiamo vivere o morire, è pericoloso nel senso più pratico. Gli scienziati possono dare cattivi consigli, e coloro cui spetta prendere decisioni non posso-no sapere se sono buoni o cattivi.

Ci riferiamo a due saggi (famosissimi e famigerati) di C. Percy Snow del 1959 e del 1963; sono gli stessi anni in cui la storia della scienza inco-mincia ad avere la sua specifi ca e fondamentale funzione di superamento della dicotomia fra “scienza” e “cultura” (o meglio fra “man of learning” e “learned man”).

Il termine “cultura” indica “non tanto il complesso delle “conoscenze” di una persona o di una collettività, non tanto l’insieme dei “contenuti” del sapere, quanto piuttosto la “consapevolezza” di questi contenuti, la quale si traduce in “idee”, in “principi” unifi canti, in “orientamenti di scelta” e, specialmente, in “criteri di giudizio” e in “capacità di comprensione” che la persona o la collettività hanno maturato in connessione con il contenuto del loro sapere (è su questa base, in fondo, che già tradizionalmente si di-stingueva il semplice erudito dal vero uomo colto).

Ed è proprio qui che l’indagine “storica” sulla scienza diventa il vero punto d’incontro fra l’umanesimo e la scienza proprio grazie al cammino parallelo dell’epistemologia e della storia delle scienze.

Ernst Mach (1838-1916), il fi sico e fi losofo austriaco, era convinto che:

Noi dobbiamo inoltre riconoscere che non solo le conoscenze che sono state col tempo accettate e coltivate dagli studiosi sono necessarie alla comprensione storica della scienza, ma anche i pensieri temporanei, abbandonati dai ricercatori, benché apparentemente erronei e fuorvianti, possono essere molto importanti e istruttivi. L’indagine storica sullo sviluppo della scienza è l’elemento più importante, affi n-ché i principi che la scienza racchiude non diventino un sistema di prescrizioni mal comprese o peggio un sistema di pregiudizi. L’indagine storica non solo stimola la comprensione del presente, ma ci illustra anche le possibilità future, mostrandoci ciò che in larga misura può essere convenzionale o accidentale. Da un punto di vista più elevato, nel quale convergono le diverse correnti di pensiero, possiamo avere una visione più libera e scoprire percorsi fi nora sconosciuti24.

una misura troppo poco limitata dall’emergere della cultura scientifi ca, governa il mondo occidentale».

24 Mach E., The Science of Mechanics: A Critical and Historical Account of its De-

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20 Il clamore della fi losofi a

Il chimico e fi sico, oltre che storico della scienza, Pierre Duhem (1861-1916) scriveva:

Quelle che in genere si ipotizzano come rivoluzioni intellettuali quasi sem-pre sono semplicemente delle lente evoluzioni a lungo preparate [...]Il rispetto per la tradizione è una premessa importante del progresso scientifi co25

e Federigo Enriques, pur essendo in disaccordo su quasi tutto rispetto al Duhem, su questo punto è perfettamente d’accordo, così da citare E. Boutroux:

Ma chi scruti più da vicino la produzione del pensiero scientifi co si accorge che la verità è ben lontana dall’anzidetto dilemma [scoperta o plagio]. Non vi è pensiero originale che non appaia prolungamento d’un pensiero precedente. La legge della continuità storica impera su tutto: nel passaggio dal maestro allo scolaro, lungo la successione del tempo, e nella propagazione delle idee da na-zione a nazione. Anzi la ricerca dell’originalità sembra una malattia dei nostri tempi e starebbe quasi ad attestare la consapevolezza di un diminuito potere creativo. «I grandi uomini del passato – ha detto Emile Boutroux – non cerca-vano di essere originali, essi cercavano la verità e mostravano la loro originalità nel modi in cui se ne sapevano servire»26.

Il grande epistemologo Gaston Bachelard (1854-1960), in esergo al Le Système du monde di Duhem, terminato di pubblicare da Hermann nel 1954, scriveva:

È l’opera di uno scienziato e di uno storico e non di uno scienziato divenuto storico e che avrebbe dimenticato la propria scienza. Ha davvero scoperto ed esposto la fi liazione fra scienza e la fi losofi a d’Aristotele e quella del Medio Evo. La sua opera è la sola che ingloba una tale estensione di tempo27.

È proprio questa richiesta fondamentale che la storia della scienza riven-dica e cioè che sia un lavoro fatto professionalmente da uno storico su una scienza alla quale ha preso parte con impegno e serietà (non è necessario che nella sua scienza abbia lasciato teorie che portano il suo nome o lasciti tecnici tali da farlo ricordare, ma non è possibile fare una storia di qualcosa che non si conosce). Così come vale il contrario: un grande scienziato non

velopment. LaSalle (Illinois), Open Court, 1960, p. 316.25 Pierre Duhem (1861-1916), Le Système du monde. Histoire des doctrines co-

smologiques de Platon à Copernic, pensato in dieci volumi, lasciato incompiuto all’ottavo per la morte dell’autore, pubblicato dal 1913 al 1954 con lunghi inter-valli. Vol 1, p. 111.

26 F. Enriques, Signifi cation de l’histoire de la pensèe scientifi ques, cit., p. 46.27 Le Système du monde, cit., esergo di Gaston Bachelard.

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Il signifi cato e il metodo della storia delle scienze di P. A. Rossi 21

può fare una storia quando non la padroneggia come settore di studio; al più può fare un racconto erudito, una biografi a polemica, testimonianze personali, narrazioni di come si ricerca, cronache o biografi e, ma la storia è una scienza che va trattata come tutte le scienze.

La storia della scienza, intesa nel modo anzidetto, – scriveva F. Enriques – come comprensione più alta del pensiero scientifi co nel suo divenire, non può evidentemente ridursi alla raccolta o alla collazione di testi e di notizie erudite, ma deve essere costruita dalla mente dello storico. Costruire vuol dire inter-pretare, ordinare, connettere i dati della letteratura mediante ipotesi e spiegarli con ragioni, in una parola integrare la realtà fi lologica bruta che costituisce il materiale di studio28.

È appunto in questi anni – fi ne anni ’30 e inizio anni ’60 – che la disciplina diventa fi nalmente autonoma. Paul Tannery (1843-1904) fu quasi certamente «il vero fondatore del movimento per la storia della scienza moderna», pen-sando alla storia della scienza non come ad una sottodisciplina di scienze specialistiche, ma di una parte integrante della storia dell’umanità.

Lo scienziato, in quanto tale, – egli scrive – si interessa solo alla storia della particolare scienza che studia; egli esige che questa storia sia scritta con ogni possibile dettaglio tecnico, perché solo così gli può fornire materiale di qualche utilità. Ma quel che particolarmente richiede è lo studio della trama delle idee e di interrelazioni delle scoperte scientifi che. Il suo scopo principale è di sco-prire l’autentica espressione del pensiero dei suoi predecessori nella sua forma originale per fare un confronto col suo; e di svelare i metodi che contribuirono alla costruzione delle teorie correnti, per scoprire a quale punto e con quale fi ne sia possibile fare uno sforzo ulteriore verso il rinnovamento29.

È con A. Koyré (1892-1964) che venne indicato quale compito basilare per lo storico della scienza quello di determinare, precisare, individuare le “intui-zioni profonde” che avevano indirizzato l’opera dei grandi scienziati del passa-to nella loro ricerca della verità, avvertendo lo scontro dialettico tra concezioni d’insieme del mondo e concetti scientifi ci specifi ci. Ma non va dimenticato che George Sarton (1884-1956)30 e Charles Singer (1876-1960) operarono inces-santemente per fare di tale disciplina un vero e proprio insegnamento accade-mico negli Stati Uniti e in Inghilterra (e già lo era in Francia ed in Germania).

28 Federigo Enriques, Signifi cation de l’histoire de la pensèe scientifi ques, cit., trad. it. a cura di M. Castellana e A. Rossi, p. 36.

29 Paul Tannery, Mémoires scientifi ques, 17 voll., Paris, Gauthier-Villars, vol 10, p. 106.30 «Lo storico – scriveva nel 1936 Hélène Metzger, sua collaboratrice indefessa –

deve farsi contemporaneo degli autori che indaga».

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22 Il clamore della fi losofi a

In primo luogo si tratta di riconoscere che la scienza è un fatto storico e che di conseguenza può diventare oggetto di una conoscenza specifi ca e cioè la storiografi a scientifi ca.

Ammesso questo se ne ricava che l’attuale quadro teorico di una deter-minata scienza è il risultato dello sviluppo storico di quella scienza e che di conseguenza farne la storia signifi ca capire attraverso quali passi essa è pervenuta ad essere quello che attualmente è.

Il che, detto in altre parole, signifi ca affermare che il fare storia della scienza non è un qualcosa di puramente accessorio al fare scienza; basti pensare al fatto che le grandi svolte concettuali che hanno permesso il pro-gresso del sapere non solo non possono essere comprese al di fuori della storia della cultura, ma sono proprio avvenute ogniqualvolta la scienza si è resa consapevole delle proprie radici e delle proprie vicende storiche.

Questo “rendersi conto” della propria storia rappresenta per ogni scienza (ivi compreso, è ovvio, anche la scienza storica) un momento insostituibile di autocomprensione e crescita.

Inizialmente di autocomprensione perché quando si fa una scienza è es-senziale conoscere che cosa essa è e questo essere attualmente è diretta conseguenza di quel che è stato: dalle motivazioni e strutture teoretiche e pratiche che ne hanno retto la genesi, attraverso i suoi declini e crescite, errori e scoperte, congetture, ipotesi, lezioni, confutazioni, spiegazioni, ve-rifi che ecc... fi no allo stato attuale il quale però non è stato fi nale, defi nitiva conclusione della ricerca, ma momento sincronico in cui ancora esistono questioni aperte, problemi metodologici ed epistemologici irrisolti, confl it-ti interpretativi, ecc..., i quali rimandano ad ulteriori sviluppi diacronici. In vista di questo divenire la prospezione storica diventa uno strumento inso-stituibile, oltre che di autocomprensione, anche di crescita della scienza.

Il riconoscimento della contingenza delle categorie scientifi che induce lo scienziato ad una costante vigilanza epistemologica nei confronti della propria disciplina e lo costringe ad assumere un atteggiamento mentale di feconda critica e quindi ad inserirsi in quella tipica dimensione di equili-brio dinamico nei confronti dell’informazione (condizione essenziale della sopravvivenza stessa della cultura).

Il rendersi conto esattamente del perché – concludo con Agazzi – si è fatto questo e del prezzo che si è volta a volta pagato per le scelte fatte può essere non solo istruttivo per comprendere a fondo la situazione in cui ci si trova, ma anche per riesaminare, talora, qualche vecchia scelta, per ritentare una strada già vista a suo tempo e poi abbandonata, e così via31.

31 Evando Agazzi, Valore epistemologico della storia della scienza, cit., p. 58.

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23

LUCA E. CERRETTI

HENRI-LOUIS BERGSON,TRA OTTO E NOVECENTO

I sistemi fi losofi ci non sono tagliati a misura della realtà in cui viviamo. Sono troppo larghi per essa. Esaminatene uno, scelto convenientemente tra que-

sti: vedrete che si applicherebbe bene a un mondo in cui non vi fossero piante, né animali, né tantomeno uomini; in cui gli uomini trascurassero di bere e di

mangiare; in cui non dormissero, né sognassero, né divagassero; in cui nasces-sero decrepiti per tornare lattanti; in cui l’energia risalisse la pendenza della

degradazione; in cui si camminasse al contrario e tutto andasse alla rovescia.H.-L. B., Sviluppo della verità, 1934

...eroi oscuri della vita morale che abbiamo potutoincontrare sul nostro cammino...

H.-L. B., Le due fonti della morale e della religione, 1932

Le coordinate anagrafi che di Henri-Louis Bergson – 1859/1941 – credo bene possano offrirsi per introdurre il signifi cato della sua opera: nel 1859 vede la luce la darwiniana Origine delle specie, mentre il 3 gennaio 1941 – «cette année», ricordava Paul Valéry, in cui sembra avverarsi «le désastre total»1 – si spegne l’ottantunenne fi losofo dopo che l’itinerario esistenzia-le lo aveva progressivamente avvicinato alle posizioni del cattolicesimo;

1 Cfr. P. Valéry, Henri Bergson (Allocution prononcée à l’Académie française le 9 janvier 1941), in «Les Cahiers du Rhône», Henri Bergson. Essais et témoignages receuillis par Albert Béguin et Pierre Thévenaz, Neuchatel, Éditions de la Bacon-nière, 1943, pp. 19-20: «Point de funérailles; point de paroles; mais sans doute, d’autant plus de pensée recueillie et de sentiment d’une perte extraordinaire chez tous ceux qui se trouvaient là. C’était une trentaine de personnes, réunies dans un salon, autour du cercueil, l’Etat français était représenté par M. l’Ambassadeur de Brinon; le ministre de l’Instruction publique par M. Lavelle. J’ai exprimé à M.me Bergson les condoléances de l’Académie, qu’elle m’a chargé de remercier en son nom. Aussitôt après, on est venue prendre le cercueil, et sur le seuil de la maison, nous avons salué une dernière fois le plus grand philosophe de notre temps».

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24 Il clamore della fi losofi a

Bergson, che, «pur venendo da una lontana discendenza hassidica», agli ebrei si sentiva unito «soprattutto nel dolore»2, sceglierà in quel frangente di non aderire alla conversione, preferendo essere ricordato «tra coloro che saranno domani perseguitati»3. Si estende tra queste due date la latitudine culturale della sua vita, dove curiosità (scientifi ca) e sensibilità (morale) rimangono a contrassegnarne il senso dell’impegno intellettuale: scandito, da una parte, da un’apertura, forse insolita, nei confronti delle ‘innovazio-ni’ che provenivano incessanti dal mondo delle scienze; dall’altra da una personale sensibilità che non poteva non trovare la propria ragion d’essere in una convinta opzione morale.

L’ampiezza dei motivi scientifi ci e la cura nel tenersi aggiornato con-corrono dunque a delineare quella che potremmo chiamare enciclopedia bergsoniana, dove psicologia, neurologia, medicina, matematica, fi sica, biologia, entomologia, sociologia, etnologia, letteratura, critica letteraria ecc. non rappresentano tanto saggi d’erudizione o dispersivi sconfi namenti disciplinari quanto l’occasione, nell’incertezza ontologica dei tempi, per applicare un preciso programma fi losofi co:

anche oggi che la molteplicità delle scienze particolari, la diversità e comples-sità dei metodi, la massa enorme dei fatti raccolti rendono impossibile l’accu-mulo di tutte le conoscenze umane in una sola mente, il fi losofo rimane l’uomo della scienza universale, nel senso che, se non può sapere tutto, non c’è niente che egli non si debba mettere in condizioni di apprendere…4

Tale deontologia permette a Bergson di attraversare i saperi, permean-doli di attenzione epistemologica nel tentativo di soddisfare quell’istanza unitaria che costituisce il tradizionale demone della Filosofi a: l’insoppri-mibile esigenza di una prospettiva, capace di considerare in modo davvero globale – o, come amerà dire, «integrale» – l’essere come il conoscere, si

2 Cfr. G. Cattaui, Témoignage, in ibidem, pp. 123-124, passim: «Lui stesso stimava, in un eccesso di modestia, che la sua conversione pubblica avrebbe costituito un misero premio per la chiesa militante, poiché la tarda età e le sue condizioni fi si-che avrebbero tolto valore apologetico alla sua testimonianza. Viceversa, temette di urtare, di ferire irrimediabilmente l’anima di molti ebrei già umiliati dolorosa-mente in queste ore di prova e che si sarebbero sentiti abbandonati da uno di loro; lungi da condurli a Cristo li avrebbe assai più allontanati» (trad. di P. Lazagna).

3 H. Bergson, [frammento di testamento, 8.2.1937], in A. Béguin e P. Thévenaz, Avant-Propos, in ibidem, p. 12 (cfr. pure F. Delattre, Les dernières années de H. Bergson, in «Revue philosophique de la France et de l’Étranger», a. 76, t. CXXXI, janvier/juin-1941, p. 136).

4 H. Bergson, L’intuizione fi losofi ca (1911), a cura di L.E. Cerretti, Torino, Thélè-me, 2000, p. 67.

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trova apertamente affermata nella sua conferenza italiana, giacché «il fi lo-sofo non è giunto all’unità, ne è partito…» (anche se, preciserà Bergson, egli «non parte da idee preesistenti; tutt’al più si può dire che ci arrivi»5).

Questa ‘preoccupazione’ per l’unità – del vero, dell’essere, del pensie-ro – non è tuttavia qualcosa che condizioni e fi ssi l’investigazione nel-la costruzione di un sistema concettuale: rappresenta piuttosto la segreta ispirazione metodologica perseguita attraverso varietà e diversità, e dove troviamo ricorrenti incoraggiamenti ad un ripensamento continuo del rea-le, avvertito in tutta la sua autonomia e indipendenza: «ci sono più cose in cielo e in terra…»6 Un Essere dalla natura intrinsecamente ed ‘inspiegabil-mente’ mobile7, che richiede un incessante sforzo di categorizzazione da parte di un’intelligenza raziocinante e/o intuitiva8, fl essibile ed automodel-lantesi, secondo quell’immagine dell’arte dialettica già celebrata da Plato-ne e spesso ripresa dal Francese9. La varietà è così solo uno dei modi per comprendere la vasta fenomenologia dell’Essere10, e la diversità il pretesto necessario per coglierne le radici profonde: varietà e unità, diversità e co-erenza nell’enciclopedismo bergsoniano, dunque, non come pure antitesi concettuali (tali in realtà solo superfi cialmente), bensì risvolti inevitabili, necessari, anche complementari di un Vero con più dimensioni, riscontra-bile a più livelli11, la cui continuità occorre ricercare per vie diverse:

5 Ibidem, pp. 70, 67, passim.6 «…Orazio, che non ne sogni la tua fi losofi a» (W. Shakespeare, Amleto, in Id.,

Teatro, v. III, a c. G. Melchiori, Torino, Einaudi, 1981, p. 671).7 Sulla ‘ripugnanza’ suscitata dal movimento, cfr. H. Bergson, La percezione del

mutamento (1911), in Id., Pensiero e movimento, a cura di F. Sforza, Milano, Bompiani, 2000, pp. 136, 140, passim: «Abbiamo istintivamente paura delle dif-fi coltà che susciterebbe al nostro pensiero la visione del movimento in ciò che vi è di mutevole; […]. Davanti allo spettacolo di questa mobilità universale, alcuni di noi saranno presi da vertigine. Sono abituati alla terra ferma, non possono abi-tuarsi all’ondeggiamento e al beccheggio».

8 Cfr. H. Bergson, ‘Fantasmi di viventi’ e ‘ricerca psichica’ (1913), in Id., L’energia spirituale, a c. G. Bianco, Milano, Cortina, 2008, p. 48: «[…] rimodellarsi senza posa sull’osservazione e l’esperienza, come deve fare una fi losofi a degna di que-sto nome».

9 Cfr. H. Bergson, L’evoluzione creatrice (1907), a c. di F. Polidori, Milano, Corti-na, 2002, p. 130: «Platone paragona il bravo dialettico a un abile cuoco che sappia tagliare l’animale senza rompere le ossa, seguendo le articolazioni disegnate dalla natura (Fedro, 265e). Un’intelligenza che agisse sempre in questo modo sarebbe effettivamente orientata alla speculazione».

10 Cfr. H. Bergson, Introduzione (seconda parte). La posizione dei problemi (1922), in Id., Pensiero e movimento, cit., p. 24: «[…] chi sa se il mondo è effettivamente uno? L’esperienza soltanto può dirlo».

11 Cfr. ibidem, p. 52: «il mondo in cui viviamo, con le sue azioni e reazioni delle sue

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il ruolo della fi losofi a non sarà proprio quello di condurci a una percezione più completa della realtà, attraverso un certo spostamento dell’attenzione? […] Tale conversione dell’attenzione è la fi losofi a stessa12.

Una genuina istanza metafi sica è dunque all’opera in Bergson lungo l’arco della sua fatica enciclopedica, per riguadagnare quell’unità capace di riconciliare le frammentate ricerche contemporanee: ricerche delimitate, possibilmente pratiche, auspicabilmente utili…

Un fi losofo degno di questo nome non ha mai detto che una sola cosa: sebbene abbia cercato di dirla più di quanto l’abbia detta veramente…13

Ammissione, questa, che ci aspetteremmo forse di sentir condivisa da ogni cultore di quell’(unica) scienza del vero che la tradizione individua nella fi losofi a. In tale passaggio, tanto esplicito quanto ‘clamoroso’, Berg-son non solo dichiara il proprio fi dente impegno circa la continuità tra branche fi losofi che distinte (ontologia gnoseologia etica estetica), ma sem-bra assumerne il carico della piena compatibilità – se non perfetta, perfetti-bile almeno – anticipando quella che oggi defi niremmo etica della ricerca (e/o della responsabilità): il compito che Bergson si assegna tra Otto e Novecento non è quello di rendere pensabili l’essere e il suo divenire, al di là delle specializzazioni indotte dal movimento positivistico?

Il titolo che si è scelto vorrebbe allora signifi care questa doppia appar-tenenza, non solo a due secoli o a due culture – scientifi ca e fi losofi ca

parti le une sulle altre, è ciò che è in virtù di una certa scelta operata sulla scala delle grandezze, scelta determinata dalla nostra potenza d’agire».

12 H. Bergson, La percezione del mutamento, cit., p. 129; cfr. pure p. 147: «Con la fi losofi a, possiamo abituarci a non isolare mai il presente dal passato che gli si trascina dietro. Grazie ad essa, tutte le cose acquisterebbero profondità, più che profondità, qualcosa come una quarta dimensione, che permette alle percezioni anteriori di restare solidali alle percezioni attuali e all’avvenire immediato di trat-teggiarsi in parte nel presente».

13 H. Bergson, L’intuizione fi losofi ca, cit., pp. 57-58; cfr. pure le pp. 54-55: «[…] Vi è in questo punto qualcosa di semplice, d’infi nitamente semplice, di così straor-dinariamente semplice che il fi losofo non è mai riuscito a dire. È per questo che ha parlato per tutta la vita. Non poteva formulare quello che aveva nell’animo senza sentirsi obbligato a correggere la sua formula, e a correggere poi la sua correzione: così, di teoria in teoria, rettifi candosi mentre credeva di completarsi, non ha fatto altro, per mezzo di una complicazione che richiamava complicazione e con degli sviluppi giustapposti a sviluppi, che rendere con crescente approssi-mazione la semplicità della sua originale intuizione. Tutta la complessità della sua dottrina, che andrebbe all’infi nito, non è dunque che l’incommensurabilità tra la sua intuizione semplice ed i mezzi di cui disponeva per esprimerla».

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– ma anche a storia e metafi sica: alla contemporanea socialità come pure all’intima e più riposta intemporalità. Il risultato di questo transito, che si qualifi ca per l’equilibrio dinamico e originale, certo ottenuto in virtù della personale sensibilità, connota l’esperienza bergsoniana col singolare privilegio di ciò che riconosciamo «classico» (e che Bergson, umanista no-vecentesco, dimostra di assorbire dalla lezione degli Alessandrini); e il suo classicismo, oltre che nella tensione intellettuale, potremmo così riscon-trarlo nella combinazione di densità concettuale e levigatezza del tratto, complessità delle trame e semplicità delle tesi, eleganza dell’argomentare ed arguzia di stile, calate in un lessico che, senza indulgere in tecnicismi tutti novecenteschi, rimane ancora ottocentesco.

Per una «fi losofi a dell’espressione» com’è stata defi nita quella bergso-niana14 (a dispetto di certi accostamenti, pur pertinenti, coll’impressioni-smo pittorico e musicale), presentare in sintesi l’esito delle sue indagini può risultare operazione facilitata, appunto, dalla natura espressiva, espli-cita e trasparente della sua scrittura: ben consapevole della differenza (on-tologica) tra pensiero in atto ed opera scritta, lo sforzo di Bergson fu teso costantemente a rendere effi cace lo stile di una prosa conscia di non potersi affi dare unicamente all’argomentazione logica, ma a dover ricorrere a dif-ferenti registri comunicativi. Leggere le sue opere può equivalere ad im-mergersi nel laboratorio attivo di un fi losofo, dove il concetto è immediata-mente individuato, sezionato, all’occorrenza rifuso in una sintesi diversa, e dove la pagina spesso è in dialogo con la tradizione fi losofi ca, più o meno personalmente interpretata – è vero – da questo originale pensatore di in-telligenza ebraica e lingua francese, formazione classica ma non estraneo alla cultura delle scienze.

I primi passi da studente – che a lungo aveva esitato tra classe di mate-matiche o di lettere – sono necessariamente positivistici, più in particolare spenceriani15; ma la propensione per le scienze esatte (o per la caratteri-stica esattezza della metodologia scientifi ca) non lo abbandoneranno più, almeno sotto il profi lo dell’abito intellettuale16. Henri Bergson è autore di

14 Cfr. M. Merleau-Ponty, Elogio della fi losofi a (1953), a cura di C. Sini, Roma, Editori Riuniti, 1985, p. 44.

15 Cfr. A. Thibaudet, Le bergsonisme (1923), Paris, Gallimard, 1939, v. I, p. 201: «M. Bergson dans l’Évolution créatrice parle de Spencer un peu comme le Socra-te de Phédon parle d’Anaxagore».

16 H. Bergson, ‘Fantasmi di viventi’ e ‘ricerca psichica’, cit., pp. 62-63: «[…] la pre-cisione, l’interesse per le prove, l’abitudine di distinguere tra ciò che è solamente possibile o probabile, e ciò che è certo. Non crediate che queste siano delle qualità

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quattro fondamentali volumi: il Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), con cui esordisce fi losofi camente, e Materia e memoria (1896), che custodiscono i fondamenti teoretici del suo pensiero; L’evoluzione creatri-ce (1907), opera della maturità, ed il conclusivo Le due fonti della morale e della religione (1932) contenente meditazioni e presentimenti sul mondo occidentale alla vigilia della catastrofe. Ma il fi losofo Bergson, a cui dob-biamo una serie di altri testi signifi cativi, più brevi ma altrettanto originali17 – insieme a numerosi interventi per congressi e conferenze, tutti ugual-mente agili e penetranti18 – non fu solo scrittore (anche se per questo verrà insignito del riconoscimento forse più prestigioso: il premio «Nobel» nel 1927); egli fu anche ‘uomo d’azione’: professore per lunghi anni (sedici nei licei19 ed altrettanti in istituti universitari20 – non però alla Sorbona…) e membro attivo di istituzioni ed accademie, non solo francesi21. Inoltre,

naturali dell’intelligenza […], forse esse non sarebbero mai apparse al mondo se una volta, in un angolo della Grecia, non fosse esistito un piccolo popolo al quale il pressappoco non bastava, e che inventò la precisione. […] L’abitudine d’introdurre, nello studio della realtà concreta, le stesse esigenze di precisione e di rigore che sono proprie del pensiero matematico, è dunque una disposizione che dobbiamo alle scienze della materia e che non avremmo avuto senza di esse».

17 Lucrezio (1883), L’idea di luogo di Aristotele (1889), Il riso (1900), Introduzione alla metafi sica (1903), Durata e simultaneità (1922, poi ritirato).

18 Tra gli scritti d’occasione ricordiamo: La specializzazione (1882), La buona edu-cazione (1885/1892), Il buon senso e gli studi classici (1895), Il sogno (1901), Lo sforzo intellettuale (1902), L’intelligenza (1902), Il posto e il carattere della fi lo-sofi a nell’insegnamento secondario (1902), Il cervello e il pensiero: un’illusione fi losofi ca (1904), La vita e le opere di Félix Ravaisson-Mollien (1904), Il ricordo del presente e il falso riconoscimento (1908), L’intuizione fi losofi ca (1911), La percezione del mutamento (1911), La coscienza e la vita (1911), Il pragmatismo di William James. Verità e realtà (1911), L’anima e il corpo (1912), ‘Fantasmi di viventi’ e ‘ricerca psichica’ (1913), La fi losofi a di Claude Bernard (1913), La fi -losofi a francese (1915), L’energia spirituale (1919, raccolta di saggi), Il possibile e il reale (1930), Gli studi greco-latini e la riforma dell’insegnamento secondario (1922), e infi ne Il pensiero e il movente (1934, raccolta di saggi con Introduzione (I pt.). Sviluppo della verità. Movimento retrogrado del vero e Introduzione (II pt.). La posizione dei problemi, già 1922).

19 Ad Angers (1881-1883), al «Blaise Pascal» di Clermond-Ferrand (1883-1888); poi a Parigi: al «Louis-le-Grand» e al «Collège Rollin» (1888-1890), infi ne al liceo «Henri-IV» (1890-1897).

20 Conferenziere all’Università di Clermont-Ferrand (1883-1888), maître de confé-rences all’Ecole Normale Supérieure (1898-1900), docente al Collège de Fran-ce (1900-1904, fi losofi a greca e latina; 1904-1924, fi losofi a moderna); dottore in Scienze all’Università di Oxford (1911) e Doctor of Letters all’Università di Cambridge (1920).

21 Accademia dei Lincei (1892); membro dell’Institut (1901) e dell’Académie des

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a lui furono affi dati incarichi importanti nei campi dell’istruzione e della diplomazia, a favore della pace internazionale22.

Più sopra si è ricorso al termine enciclopedismo per richiamare il con-testo di una rifl essione che avverte la responsabilità teoretica della propria epoca: la determinazione appare notevole nel compito di ripensare, rivisi-tandoli e rinnovandoli, temi e problemi ‘classico-annosi’ della tradizione fi losofi ca – come libertà/determinismo, materia/spirito, pensiero/linguag-gio, essere/apparenze ecc. – senza per ciò smarrire l’unità profonda della ricerca che trova il proprio fi lo rosso nella realtà-che-vive, in quella feno-menologia del vivere autentico che, tra Otto e Novecento, andava incontro a decisive trasformazioni.

Se le comode etichette storiografi che (via via «spiritualista», «vitalista», «evoluzionista», «intuizionista», «irrazionalista» ecc.) non esauriscono il signifi cato del suo pensiero, le pur numerose innovazioni concettuali da lui introdotte – a mo’ d’esempio: livelli di coscienza profonda/superfi ciale; attenzione psichica; durata come tempo creativo; memoria quale peculiare dinamismo psicologico; essere come mobilità; intuizione in quanto preci-pua conoscenza intellettuale23; vita come progresso, evoluzione, slancio; chiuso/aperto come dimensioni antropologiche -, tali nozioni lasciano in-travedere una sotterranea unità: a voler individuare quella sola cosa della fi losofi a di Henri Bergson la dovremmo riconoscere in quel qualcosa «che

sciences morales et politiques (1901); cavaliere della Legion d’Onore (1902), poi commendatore (1919), grande uffi ciale (1923) ed infi ne Grand-croix de la Légion d’honneur (1930); membro della British Society for Psychical Research (1913) e dell’Académie française (1918); premio «Nobel» per la letteratura 1927 (conse-gnato nel 1928).

22 Prima offi cier (1895-1914) e, successivamente, membro del Consiglio superiore dell’Istruzione pubblica (1919-1925); inviato in missione diplomatica in Spagna (1915-1916) e negli Stati Uniti d’America (1917-1918); presidente della Commis-sion internationale de coopération intellectuelle presso la Società delle Nazioni (C.I.C.I., 1921-1925).

23 Cfr. H. Bergson, Introduzione (seconda parte). La posizione dei problemi, cit., p. 79: «[…] Allo stesso modo ripudiamo la facilità. Raccomandiamo una certa maniera diffi coltosa di pensare. Apprezziamo sopra di ogni cosa lo sforzo. Come qualcuno ha potuto fraintenderci? Non diremmo nulla di colui che vorrebbe che la nostra ‘intuizione’ fosse istinto o sentimento. Non una riga di ciò che abbiamo scritto si presta a una simile interpretazione. E in tutto ciò che abbiamo scritto vi è l’affermazione del contrario: la nostra intuizione è rifl essione»; cfr. pure P.A. Rovatti (Introduzione, in H. Bergson, Opere 1889/1896, a cura di P.A. Rovatti, Milano, Mondadori, 1986, p. XXII): «intuizione [che] richiede un rigoroso pro-cesso analitico che non ha niente a che fare con un atto empatico».

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trae da se stesso più di quanto abbia»24 ovvero nello spirito – colto nella sua accezione più ampia, perciò solidale con ogni materia25 ed indagato speri-mentalmente al di fuori di qualsivoglia tradizione di scuola o confessione.

Il Saggio sui dati immediati della coscienza appare nel 1889, dieci d’an-ni dopo la creazione a Lipsia del primo laboratorio di psicologia sperimen-tale (1879) attorno al quale i vari esponenti del positivismo psicologico (Fechner, Wundt, E.H. Weber) ricercavano ‘dati’ certi per la realtà psichi-ca: dunque osservabili e quantifi cabili; se la nuova scienza psicologica, emancipandosi dalla tradizionale ancillarità fi losofi ca, mirava alla mate-matica formulazione di leggi capaci di esprimere il funzionamento della coscienza, il giovane fi losofo percepiva tutto il rischio di tale riduzionismo. Il confronto con l’approccio psico-fi sico e l’analisi di certa concettualità matematica rendono consapevole Bergson delle limitatezze contenute sia nel linguaggio corrente sia nell’apparato concettuale disponibile, entrambi debitori allo spazio più di quanto non si sospetti – ma qui vorrei aggiunge-re: ad una determinata concezione quantitativa, di derivazione newtonia-no-kantiana, di spazio.

La sua denuncia risulta di una analisi ‘alternativa’ di sensazioni, af-fezioni e sentimenti, colti anche nella loro signifi canza estetica, da cui, grazie ad una capacità di descrizione fenomenologica, emerge che la di-mensione qualitativa – quasi impercettibile, ai limiti dell’esprimibilità, ma essenziale ed eloquentissima per il soggetto che la prova – sfugge irrimediabilmente alla lettura delle scienze: per Bergson la coscienza è sì portatrice di «dati», ma questi appaiono non-mediabili scientifi camente. I «dati immediati della coscienza» si manifestano invece in determinate contingenze ed esibiscono modalità autonome, dalla caratteristica com-plessità (avvertibile come molteplicità, indistinzione, eterogeneità), se-condo una spontaneità indipendente dal circostante contesto materiale – e, comunque, descrivibili in termini di totalità, interezza, organicità: aspetti che diremmo gestaltici o, con terminologia più corrente, olistici. Gli equi-voci nascerebbero invece da questo misconoscimento, reo di trascurare

24 Considerato «che la spiritualità consiste precisamente in ciò, e che la realtà, im-pregnata di spirito, è creazione», in H. Bergson, Introduzione (seconda parte). La posizione dei problemi, cit., p. 27.

25 Cfr. ibidem, p. 33: «materia e spirito presentano un lato comune, perché alcune scosse superfi ciali della materia si esprimono nel nostro spirito, superfi cialmente, in forma di sensazioni; e d’altra parte lo spirito, per agire sul corpo, deve discen-dere di grado in grado verso la materia e spazializzarsi».

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quegli aspetti – magari profondi26 – che, al limite della comunicabilità, costituiscono tuttavia un ‘tutto-che-diviene’:

in realtà non ci sono né sensazioni identiche, né gusti molteplici, poiché sen-sazioni e gusti mi appaiono come cose solo quando le isolo e le nomino, e nell’animo umano ci sono solo progressi27.

Tale divergenza è quindi imputata al misconoscimento della natura psichica autentica la quale, in realtà, racchiude una pluralità di «piani di coscienza» interni all’io28; e la cifra che accomuna queste più profonde manifestazioni è quella del tempo, che Bergson esprime con la nozione di durata29: una temporalità non tanto che ‘tra-scorre’ ma che, al tempo stes-so, ‘dura-nello-scorrere’30. È così che, radicandosi nello spessore psichico della nostra personalità, quell’evento – indefi nibile! – che chiamiamo li-bertà diventa purtuttavia dimostrabile:

la decisione libera emana infatti dall’anima intera; e l’atto sarà tanto più libero quanto più la serie dinamica a cui si ricollega si identifi cherà con l’io fonda-mentale31.

I sette anni che separano il successivo Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito, sottotitolo di Materia e memoria, sono impiegati da Bergson ad approfondire questo problema classico, riproposto nella recentissima letteratura psico-fi siologica che tendeva a localizzare l’origine di determi-nati disturbi del linguaggio (le afasie) in lesioni cerebrali. Nell’elaborare

26 Cfr. ibidem, p. 79: «scavando al di sotto della superfi cie di contatto tra l’io e le cose esterne, penetriamo nelle profondità dell’intelligenze organizzata e vivente, assisteremo alla sovrapposizione o meglio alla fusione intima di altrettante idee che, una volta dissociate, sembrano escludersi sotto forma di termini logicamente contraddittori».

27 Ibidem, p. 76.28 Cfr. ibidem, p. 134: «ci sarebbero due io differenti, uno dei quali sarebbe come

la proiezione esterna dell’altro, la sua rappresentazione spaziale e, per così dire, sociale».

29 Cfr. ibidem, p. 69: «Ora, il fatto di essere continuamente in via di formazione fa parte dell’essenza stessa della durata e del movimento – così come essi si presen-tano alla nostra coscienza».

30 Relativamente a questo ‘tutto-che-si-tiene’ (alternativo all’idea di supporto) Bergson così si esprimerà in seguito: «ne accennammo nel nostro primo libro, in cui giungemmo a dei ‘movimenti di movimenti’, senza poter del resto precisare ulteriormente il nostro pensiero» (H. Bergson, Introduzione (seconda parte). La posizione dei problemi, cit., p. 64).

31 H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cit., p. 97.

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la sua originale concezione del funzionamento della memoria il fi losofo individua diverse modalità operative dell’‘organo del passato’, il quale, più o meno automaticamente ovvero secondo livelli differenti di tensione richiesti dalla ‘attenzione-alla-vita’, seleziona e trasmette le proprie infor-mazioni ai meccanismi senso-motori, legati alle necessità pratiche: più il bisogno è circoscritto maggiore sarà l’evidenza della traccia mnestica of-ferta (sopprimendo dalla coscienza le informazioni inutili); più la situa-zione sarà indeterminata maggiore sarà l’ampiezza delle possibili risposte (tendenzialmente coincidenti con la totalità stessa del passato).

Bergson, pur ammettendo che memoria e materia si danno in realtà sem-pre commiste, adotta una metodologia esplicitamente dualista che lo porta ad isolare alcune caratteristiche specifi che, in sé, della memoria (presenza dei ricordi sotto forma di immagini virtuali, conservazione spontanea ed integrale del passato, compatibilità passato-futuro, possibilità dell’oblio ecc.), caratteristiche che la qualifi cano come alcunché davvero indipen-dente. Ma in tal modo la concezione tradizionale, che considera il corpo come principale elemento vitale e la memoria come archivio passivo, vie-ne, dinamicamente – e, perciò, temporalmente – a capovolgersi: infatti, se «il nostro corpo è uno strumento d’azione, e d’azione soltanto», la sua «funzione essenziale [rimane allora] di limitare, in vista dell’azione, la vita dello spirito»32, mentre la memoria (pura), nella sua condizione di virtuali-tà (ovvero di presenza non immediatamente attuale), si propone come cen-tro di autonomia e di iniziativa. La presunta asimmetria ‘presente-passato’ si inverte e si arricchisce: dove l’inversione riguarda il ‘senso’ del presente (che solo arbitrariamente defi niamo «ciò che è, mentre esso è semplice-mente ciò che si fa»33), e dove l’integrazione interessa lo stesso modello di vita psichica, che appare così dotato di elasticità, capace di dilatarsi o con-trarsi34, condensarsi o espandersi secondo i gradi di tensione richiesti dalla

32 H. Bergson, Materia e memoria (1896), in Id., Opere 1889/1896, cit., pp. 315, 280, passim.

33 Cfr. ibidem, p. 258: pensando «il presente concreto e realmente vissuto, si può dire che esso consiste, in gran parte, nell’immediato passato. […] Noi non percepiamo, praticamente, che il passato, dal momento che il puro presente è l’inafferrabile progresso del passato che fa presa sul futuro».

34 Cfr. ibidem, p. 273: «In altri termini, la memoria tutta intera risponde all’appello di uno stato presente con due movimenti simultanei, uno di traslazione, mediante il quale si porta nella sua totalità incontro all’esperienza contraendosi così, più o meno, e senza dividersi, in vista dell’azione, l’altro di rotazione su se stessa, me-diante il quale si orienta verso la situazione del momento per presentarle l’aspetto più utile. Le varie forme di somiglianza corrispondono a questi diversi gradi di contrazione»..

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attenzione-alla-vita, e che imprimono alla stessa memoria una peculiare dinamicità, centrifuga verso la situazione futura.

Così, tra la materia bruta e lo spirito capace di rifl essione ci sono tutte le in-tensità possibili della memoria, o, il che è lo stesso, tutti i gradi della libertà. Nella prima ipotesi, quella che esprime la distinzione tra lo spirito e il corpo in termini di spazio, corpo e spirito sono come due strade ferrate che si incrociano ad angolo retto; nella seconda ipotesi [in cui la distinzione è espressa in termini temporali], le rotaie si raccordano in base a una curva, di modo che si passa impercettibilmente dall’una all’altra35.

Tra piano attuale della materia e piani virtuali della memoria sembra allora disegnarsi una relazione non-euclidea, di parallelismo imperfetto, dove detti ambiti – pur ontologicamente distinti: materia e coscienza, spa-zio e tempo (ma anche attenzione e inconscio, futuro e passato) – tendono, all’occorrenza, ad incontrarsi ed a fondersi: tutta una reciprocità di scambi diventa allora possibile, non più solo in direzione ‘presente-passato’ ma anche in quella ‘passato-futuro’, fors’anche ‘futuro/presente’. In tal modo, in questo caso la dimensione euristica risiede in una (più) corretta tridimen-sionalità temporale in quanto orientata verso un futuro che, altrove, aveva assunto sembianze di libertà (di novum, novità radicale), in opposizione, ancora una volta, a quel riduzionismo, del senso comune come della scien-za operativa, che tende a negare l’incidenza dell’invenzione del tempo (e/o del futuro36).

Con tale studio, «oscuro» e «geniale», la fi losofi a bergsoniana sembra capace alla vigilia del nuovo secolo di assicurare un senso, nuovo e diver-so, a realtà come l’inconscio psichico o la temporalità interna, mentre rive-la la memoria (‘progressista’ anziché ‘conservatrice’) come interlocutore ontologicamente non-banale, permettendoci di assimilare

la nostra vita intera, dal primo risveglio della nostra coscienza, [a qualcosa come un] discorso indefi nitamente prolungato37.

35 Ibidem, pp. 313-314.36 Cfr. H. Bergson, L’evoluzione creatrice, cit., pp. 276-277: «per quale motivo, in

altri termini, la totalità non è data tutta in una volta, come sulla pellicola del cine-matografo? Più approfondisco questo punto e più mi risulta chiaro che, se il futuro è condannato a succedere al presente anziché essere dato assieme, ciò signifi ca che esso attualmente non è affatto determinato». In altri termini, «il tempo è in-venzione, oppure non è assolutamente niente» (p. 278) - «Le temps est invention ou il n’est rien du tout» (H. Bergson, Œuvres, Paris, P.U.F., 1984, p. 784)!.

37 H. Bergson, Introduzione (seconda parte). La posizione dei problemi, cit., p. 67.

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Dopo che con i primi due testi Bergson aveva fondato la propria rifl es-sione (nella ‘memoria-che-dura’, potremmo dire), con i due successivi il fi losofo estende e verifi ca la portata delle proprie intuizioni in senso prima cosmo-biologico, e poi antropologico. Se L’evoluzione creatrice fu lo stra-ordinario successo editoriale che diede notorietà mondiale al suo autore, ad oltre un secolo dalla sua comparsa alcune ‘avvertenze alla lettura’ si potrebbero riformulare: infatti, lo sforzo di radicare l’opera nell’attualità culturale del tempo avrebbe portato oggi lo stesso Bergson a concepirne, laicamente, una nuova stesura (per via dei contesti scientifi ci necessaria-mente modifi cati), senza con ciò sminuirne il signifi cato culturale: non ri-mane quello di essere letto il migliore destino di ogni libro?

D’altra parte nemmeno possiamo considerare l’opera dell’élan vital un testo divulgativo, rassegnato ad entrare in una collana di classici per la scuola! Altra era la fi nalità originaria: si trattava di ripensare, questa volta in un orizzonte cosmologico, il fenomeno della vita, colto sia nelle forme storicamente prodottesi e sequenzialmente differenziatesi, sia nella comune appartenenza alla biodiversità; ma insieme – o forse soprattutto – L’evoluzione creatrice era uno studio della «struttura dell’intelligenza», letta attraverso «la storia dell’evoluzione della vita»38.

La tesi sostenuta da Bergson procedeva dalla convinzione che anche l’«universo dura»39: rintracciare lo spessore temporale nell’evoluzione della vita equivale a considerarne la «latitudine di creazione» che ha vi-sto, appunto, il succedersi di forme di vita sempre più complesse sino ad comprendervi Homo sapiens: cosmologia e psicologia (cosmica) sono allora le due facce di una vicenda adattativa che mantiene una sua unità40, vicenda di cui l’uomo rimane, nonostante tutto, parte integrante. Preoc-cupandosi di verifi care ed analizzare tali continuità e differenze – e al contempo cercando di restituire alla concezione darwiniana un più ap-propriato slancio evoluzionistico (correggendo così certe interpretazioni fi losofi che unilaterali, come il meccanicismo materialistico od il fi nalismo aprioristico), Bergson è portato ad individuare come principi generali – di

38 H. Bergson, L’evoluzione creatrice, cit., p. 1.39 Cfr. ibidem, p. 15: «il sistema solare nel suo insieme […] si muove trascinando

con sé i pianeti con i loro satelliti, in una direzione determinata. Il fi lo che lo collega al resto dell’universo è certo ben saldo. Pure, è lungo questo fi lo che si tra-smette la durata immanente al tutto dell’universo, e fi no alla più piccola particella del mondo in cui viviamo».

40 Giacché «la conservazione del passato nel presente non è altra cosa dall’indivisi-bilità del mutamento», in H. Bergson, La percezione del mutamento, cit., p. 145.

Di Miche Serres, oltre a Le origini della geometria (1993), Milano, Feltrinelli,

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portata metafi sica – le dimensioni della materia inerte e della vita, defi nite anche come «ordini» (geometrico e vitale) di cui si propone di rintracciare le rispettive logiche.

Non è certo qui il caso di ripercorrere nemmeno per sommi capi i pas-saggi di questo testo capitale del quarantottenne fi losofo: vorrei invece segnalare come alcune analisi (rifl uite nell’opera successiva) possano inserirsi in certa teoria antropologica, teoria che da lì a qualche anno si sarebbe costituita in autonoma disciplina fi losofi ca. Infatti, al di là delle preoccupazioni metafi siche (che possono apparire a volte un po’ forzate), è interessante rilevare l’attenzione che nel suo grande affresco Bergson ri-serva all’intelligenza, osservata nelle sue relazioni genetico-evolutive con la materia e con la vita41: le sue penetranti rifl essioni sulle forme adattative trovano infatti nel pensiero della geometria il loro emblema («tutte le ope-razioni dell’intelligenza tendono alla geometria, quale termine in cui tro-vano la loro perfetta compiutezza…»42), assumendo con ciò il signifi cato di un’antropologia dell’intelligenza – o di un’antropologia della geometria. Homo è sapiens in quanto faber, ma la sua arte è, in realtà, ‘artigianalmen-te’ forgiata su precisa ispirazione ‘geometrica’ dal momento in cui, chiari-sce Bergson, si è trattato

di creare con la materia, che è la necessità stessa, uno strumento di libertà, di fabbricare un meccanismo che riuscisse a spuntarla sul meccanicismo e di ser-virsi del determinismo della natura per passare attraverso le maglie della rete che esso aveva teso43.

Geometria naturale, geometria latente, geometria scientifi ca – e, perché no?, geometria evolutiva – sono espressioni ricorrenti nelle pagine berg-soniane e che, a dispetto di certa letteralità (anti-vitalistica), conservano, nella loro implicita e virtuale relazione, un segno di positività, quindi di libertà; attenzioni queste che trovano anche singolare corrispondenza con

41 Cfr. H. Bergson, L’evoluzione creatrice, cit., p. 134: «Logica e geometria, come vedremo tra poco, si generano a vicenda. La logica naturale è nata dall’estensione di una certa geometria naturale, è stata suggerita dalle proprietà generali e imme-diatamente percepibili dei solidi. Da questa logica naturale è nata a sua volta la geometria scientifi ca, che estende indefi nitamente la conoscenza delle proprietà generali e immediatamente percepibili dei solidi. Geometria e logica sono rigoro-samente applicabili alla materia: qui si trovano a casa propria, possono procedere da sole. Ma fuori da questo ambito, il ragionamento puro ha bisogno di essere sorvegliato dal buon senso, che è tutt’altra faccenda».

42 Ibidem, p. 174..43 Ibidem, p. 216.

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gli ultimi scritti del coetaneo Edmund Husserl44 – qui svolti forse con mag-giore consapevolezza – e capaci di appassionare pensatori come Jacques Derrida45 o Michel Serres46.

Con l’ultima opera il fi losofo dirige la propria attenzione al fenomeno associativo, caratteristico del mondo vivente, con l’obiettivo immediato di «ricercare i fondamenti della morale» – ma al tempo stesso verifi can-do la tenuta delle nozioni precedentemente messe a punto. Il cosmo della ‘socievolezza’ è così radiografato alla ricerca delle leggi immanenti alle tipiche forme coesive, di cui vengono individuate due, fondamentali ori-gini: una prima «fonte» è strettamente biologica, fi nalizzata alla sopravvi-venza, dell’individuo come del proprio gruppo identitario, e una seconda, culturale potremmo dire, ha invece la caratteristica di volgere in senso più avanzato e complesso l’assetto inter-individuale precedentemente raggiun-to, assecondando e prolungando il cammino evolutivo. Secondo un inno-vativo approccio antropologico forme e modelli di convivenza, di società e di politica, di visioni morali e di concezioni religiose sono passati in ras-segna, individuando via via la componente ‘biologica’ dominante – istinto, intelligenza, o intuizione. L’ottimismo della ragione tuttavia non è offu-scato dai possibili rischi rappresentati – paradossalmente – dall’evoluzio-ne tecnologico-industrialistica («bisognerebbe che l’umanità si mettesse a semplifi care la sua esistenza con la stessa frenesia con cui si è messa a complicarla…»47), mentre l’insegnamento dei grandi mistici viene fenome-nologicamente interpretato come dimensione pratica capace di anticipare relazioni ed atteggiamenti interpersonali gravidi di progressi e innovazioni.

44 Cfr., ad es., i vari testi raccolti in E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore, 1987: su tale tematica mi permetto di segnalare il mio La geometria come tema dell’ultimo Husserl, in «Glaux. Rivista annuale di fi losofi a», a. I, n. 1, 2000, pp. 301-332.

45 J. Derrida, Introduzione a L’origine della geometria di Husserl (1962), a cura di C. Di Martino, Milano, Jaca Book, 1987.

46 Di Miche Serres, oltre a Le origini della geometria (1993), Milano, Feltrinelli, 1994, si possono utilmente consultare anche: Hermès IV. La distribution, Paris, Les Editions de Minuit, 1977; Passaggio a Nord-Ovest (Hermès V) (1980), a cura di M. Porro, Parma, Pratiche, 1984; Le Parasite, Paris, Grasset, 1980; Genesi (1985), a cura di G. Polizzi, Genova, il melangolo, 1988; Il contratto naturale (1990), Milano, Feltrinelli, 1991; Il mantello di Arlecchino. ‘Il terzo-istruito’: l’educazione dell’era futura (1991), Venezia, Marsilio, 1992.

47 H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, Milano, Edizioni di Co-munità, 1979, p. 262.

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Se quest’ultima opera appartiene ormai di diritto al Novecento, una pre-ziosa eredità ottonovecentesca credo sia sempre rappresentata da quella ri-forma fi losofi ca del metodo scientifi co-positivo, capace di conciliare esprit de géométrie ed esprit de fi nesse, rigore e fl essibilità, dal momento che lo stesso Bergson, nel suo «spiritualismo critico»48, non si è stancato di raccomandare: «bisogna passare senza sosta dallo ‘spirito geometrico’ allo ‘spirito di penetrazione’ (esprit de fi nesse)…»49 Non potrebbe ciò costituire tuttora un’occasione per mettere in atto quella cooperazione intellettuale così tenacemente perseguita nella sua esistenza da Henri-Louis Bergson?

…una fi losofi a di questo genere non potrà costituirsi in un giorno. […] essa potrà nascere solo dallo sforzo collettivo e progressivo di molti pensatori, e anche di molti scienziati, in un lavoro di reciproca integrazione, correzione e rettifi ca50.

48 V. Mathieu, Temi e problemi della fi losofi a contemporanea, Roma, Armando, 1977, p. 24.

49 H. Bergson, Introduzione (seconda parte). La posizione dei problemi, cit p. 30: «[…] non si sfugge a quel residuo metaforico che sopravvive nelle formule, per astratte che siano. È come se l’intelligenza fosse obbligata a trasporre lo psichico in fi sico per comprenderlo ed esprimerlo».

50 H. Bergson, L’evoluzione creatrice, cit., p. 5.

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EMANUELA MICONI

«LES PSYCHOLOGUES NE SAVENT PAS TOUT. LES POÈTES ONT SUR L’HOMME D’AUTRES LUMIÈRES»

Poetiche della memorianelle Rêveries di Gaston Bachelard

Ipotesi per un’ermeneutica della letteratura

Tout cela n’était ni une ville, ni une église, ni une rivière, ni de la couleur, ni de la lumière, ni de l’ombre; c’était de la rêverie.

Je suis resté longtemps immobile, me laissant doucement pénétrer par cet ensemble inexprimable, par la sérénité du ciel, par la mélancolie de l’heure.

Je ne sais qui se passait dans mon esprit et je ne pourrais le dire, c’était un de ces moments ineffables où l’on sent en sois quelque

chose qui s’endort et quelque chose qui s’éveille1.

La Rêverie

Gaston Bachelard pubblica La poétique de la rêverie nel 1960, a soli due anni dalla morte; un testo tardo, quindi, rispetto al precedente La psy-chanalyse du feu, con il quale aveva iniziato, nel 1938, l’esposizione della sua poetica2.

1 «Tutto questo non era né una città, né una chiesa, né un fi ume, né colore, né luce, né ombra; era rêverie. Sono rimasto a lungo immobile lasciandomi penetrare da questo insieme inesprimibile, dalla serenità del cielo, dalla malinconia dell’ora. Non so che cosa capitava nel mio spirito e non potrei dirlo, era uno di quegli istanti ineffabili in cui si sente in se stessi qualcosa che si sveglia». Riportiamo il brano, tratto da un rendiconto di viaggio di V. Hugo, così come citato in G. Bachelard, La poétique de la rêverie, Puf, Paris 1960, 20056, p. 11; trad. it. Dedalo, Bari 19932, p. 19. D’ora in avanti utilizzeremo la sigla PR per la citazione del testo in originale, riportando, tra parentesi, le pagine corrispondenti nella traduzione italiana.

2 La serie dei testi dedicati al concetto di rêverie viene inaugurata da La psycha-nalyse du feu, Gallimard, Paris 1938 (trad. it. Dedalo, Bari 19934 ) e prosegue, a completare la trilogia dedicata all’immaginazione della materia, con i successivi L’Eau et les Rêves. Essai sur l’imagination de la matière, Josè Corti, Paris 1942 ( trad. it. Red, Como 1987) e L’Air et les Songes. Essai sur l’imagination du mouvement, Josè Corti, Paris 1943 (trad. it. Red, Como 1988) fi no alle opere più tarde La poétique de l’espace, PUF, Paris 1957 ( trad. it. Dedalo, Bari 19995 ), La poétique de la rêverie, PUF, Paris 1960 (trad. it. Dedalo, Bari 19932 ) e, pubblicato postumo, La fl amme d’une chandelle, PUF, Paris 1970 (trad. it. La fi amma di una candela, SE, Milano 20052).

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Con il termine rêverie, il fi losofo francese ci presenta, fi n dall’inizio, l’impossibilità di codifi care ed esprimere un’idea che resterà appannaggio esclusivo della parola poetica, la sola in grado di darsi in immagini sottratte al giudizio di errore o verità, libere dalla mediazione razionale. Il poeta non compete con la scienza nel tentativo di costruire un cosmo logicamente spiegato, ma, al contrario, suo compito è creare, attraverso l’atto poetico, un mondo antitetico alle vessazioni di una ragione totalizzante che rifi uta l’ipotesi di altre categorie ermeneutiche della realtà.

Nel testo sopra citato, Victor Hugo riferisce di “moments ineffables”, “istanti” fugaci cristallizzati in quell’allentamento della coscienza che se, da un lato, consente al nostro io di scivolare nell’indeterminatezza del sonno, dall’altro ridesta in noi una capacità indefi nita di cogliere quel mondo opa-cizzato, consentendo all’io di accedere al dominio dell’immaginazione.

La dimensione crepuscolare, implicata nella rêverie, allude allora non tanto ad un decadere nella passività del sonno quanto ad un affi orare dell’io “immaginante” e tale, proprio in virtù del suo allontanarsi dalla realtà.

Molto lontana ci appare, in quest’ottica, una defi nizione che miri a as-similare la rêverie ad uno stato ipnotico e diventa per noi tanto più signifi -cativa, invece, la fondamentale distinzione, operata dallo stesso Bachelard, tra sogno e rêverie laddove, all’interno di quest’ultima, l’io non si inabissa nell’indistinto ma piuttosto si ricongiunge, nel profondo, con sé stesso, at-tuando un ritorno che consente il “riconoscimento di sé in una metafi sica del riposo”, immune dalla confl ittualità insita nell’ottica di una qualsiasi psicanalisi di stampo freudiano.

Se assumiamo la rêverie come condizione nella quale «la coscienza bat-te ad una intensità impercettibile»3 possiamo allora identifi carla con la di-mensione autentica dell’esercizio dell’immaginazione in cui, a differenza del sogno, permane la presenza di un cogito, di una facoltà razionale che, proprio perché “attenuata”, è in grado di cogliere il mondo non più come insieme di oggetti distinti ma come totalità cosmica.

Possiamo quindi intendere, in questo senso, la poesia – e, se vogliamo, più in generale ogni forma artistica – come mimesi: non esclusiva e mera rappresentazione di un dato di fatto ma, bensì, ripetizione e continuazione

3 Cfr. G. Sertoli, Le immagini e la realtà, La Nuova Italia, Firenze 1972, p.119. Questo accuratissimo studio rimane, a tutt’oggi, uno dei testi più esaustivi, all’in-terno del panorama critico italiano, sull’intera opera di G. Bachelard. Tra i testi più recenti si vedano anche G. Piana, La notte dei lampi. Quattro saggi sulla fi lo-sofi a dell’immaginazione, Guerrini e Associati, Milano 1988; C.Vinti, Il soggetto qualunque, ESI, Napoli 1997 e V. Chiore, Il Poeta, l’Alchimista, il Demone, Il Melangolo, Genova 2004.

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infi nita, nell’arte, dell’atto originario in virtù del quale la coscienza pone se stessa verso il mondo; essa riproduce quella rêverie, naturale alla mente umana, in cui ci è consentito identifi care l’origine delle immagini scaturen-ti dalla primigenia unità di uomo e cosmo4.

In questa prospettiva, ovviamente, le immagini si consegnano alla per-cezione in forme non riconducibili a immediati signifi cati razionali e, pro-prio per questo, si richiede al soggetto una sorta di epoché, una sospensione di qualsiasi facoltà giudicante, a favore di una predisposizione empatica.

L’immagine si confi gura, nell’ambito della poetica bachelardiana, come un qualcosa da vivere, piuttosto che da analizzare e descrivere tra-mite l’ausilio di quegli strumenti propri della dimensione scientifi ca che le sono completamente estranei. Bachelard parlerà di “atteggiamento fenomenologico”5, identifi cando in tale concetto la predisposizione a co-gliere i prodotti dell’immaginazione nella loro intrinseca vitalità e a con-sentire una discesa nei recessi dell’io in cui ritrovare non tanto un rimosso

4 A questo proposito ci appare fondamentale la distinzione operata da Bachelard tra l’atteggiamento fenomenologico del “rivivere”, contrapposto al “descrivere” che di nulla può rendere conto, se non di una mera elencazione di dati di fatto. Solo la poesia ha la possibilità di aprirci la via alla prima facoltà, quella appunto, di “rivivere”, attraverso l’immaginazione l’atto poetico che ha portato alla sua nascita; di qui la svalutazione del romanzo, defi nito polemicamente “facondo”, e il frequente riferimento ad immagini isolate; le sole, che a seguito della frantu-mazione dell’unità poetica originaria, consentano una successiva ricomposizione intorno a nuovi centri tematici.

5 Bachelard assume il concetto di “atteggiamento fenomenologico” in netta contrap-posizione a qualsiasi interpretazione psicanalitica delle opere poetiche; spiegare l’immagine in termini psicologici e risolverla in simboli che rimandano a dati di fatto relativi alle biografi a del poeta, signifi ca perderne l’intrinseca densità con la quale essa, indipendentemente dalla personalità da cui è scaturita, si da alla realtà. Porsi nell’ottica di una indagine psicanalitica equivale, per il fi losofo, a collocarsi in una posizione che preclude la possibilità di rivivere, nella interiorità di ciascu-no, l’atto poetico che ha generato l’immagine, ogni forma di analisi e di interpre-tazione porta con sé una limitazione alla superfi cie delle cose che impedisce di coglierne l’essenza e la potenzialità creativa, sempre “in atto”. Di qui la necessità di aderire ad un’idea di “atteggiamento”, di assumere, nei confronti della lettura dell’opera poetica, una posizione mentale equivalente a quella che adotteremmo con il nostro corpo; non un criterio “metodico” ma un principio empatico che ci consentirà di rivivere dall’interno l’atto poetico e di cogliere l’immagine da esso scaturita prima ancora che comprenderla e interpretarla. Soltanto il riconoscimen-to dell’autonomia e della specifi cità del fatto letterario ci permetterà di partecipare della sua intrinseca vitalità e di immedesimarci in esso. Su questa tematica si veda, in particolare, il contributo di G. Piana, I lavoro del poeta. Saggio su Gaston Bachelard, in Idem, La notte dei lampi, cit.

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da riportare alla luce quanto, piuttosto, un nuovo signifi cato completamen-te autonomo rispetto alle categorie razionali e da esse distaccato nella pro-pria profonda alterità.

In quest’ottica l’immaginazione, allora, non può che intendersi come Einfühlung, partecipazione, empatia non più scientifi camente teorizzata, quanto, piuttosto, concretamente praticata.

Rêveries della memoria

Nella trilogia dedicata alla “psicanalisi” degli elementi primordiali6 la memoria, intesa in senso positivistico, essenzialmente come memoria-ar-chivio7, deposito e accumulo di dati derivati dall’esperienza in una prospet-tiva storicistica, si contrapponeva all’immaginazione, concepita, invece, come facoltà creativa e possibilità di accedere ad una dimensione memo-riale mitica, pre-esistente alla mera cronologia storica e in grado di ricon-durci alle profondità dell’Essere cosmico.

Con La poétique de la rêverie, Bachelard sembra adire al recupero della forma attiva di una memoria considerata come principio di trasformazione in grado di vivifi care, nell’immaginazione presente, tutti gli atti del passa-to. In tal modo la coscienza del soggetto si fa parte attiva nel costituire quel felice connubio di invenzione e ricordo che andrà ad alimentare l’universo immaginario e realizzare, in tal modo, il recupero della propria dimensione originaria.

In quest’ottica di memoria funzionale alla riattualizzazione del passato si rivela fondamentale la dialettica tra memoria ed oblio dove il secondo termine si dimostra componente essenziale del primo e sottende alla di-mensione propria del ricordare, da intendersi non solo in qualità di una passiva accoglienza di ciò che riemerge, sopravvissuto, dal passato ma an-che come ricerca selettiva e riconoscimento di quanto, dapprima obliato,

6 Cfr. nota 27 Sulle diverse forme di memoria, le modalità di archiviazione e la fruizione del

passato si vedano in particolare, tra i molti, il volume di A. Assmann, Erinne-rungsräume. Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses, Rowohlt, Hamburg 1999 (trad. it. Ricordare Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna 2007) e E. Agazzi V. Fortunati (a cura di), Memoria e saperi Percorsi transdisciplinari, Meltemi, Roma 2007 oltre agli ormai classici M. Halb-wachs, Les cadres sociaux de la mèmoire, Librairie Félix Alcan, Paris 1925 (trad. it. I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli 1997) e P. Nora (a cura di), Les lieux de mémoire, 3 voll. Gallimard, Paris 1984.

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ora si apre su di un contesto di trasformazione e rigenerazione alla luce di una prospettiva futura8.

Per il fi losofo francese la memoria non può più identifi carsi con la mera eco di un passato che riaffi ora progressivamente nella coscienza dell’indivi-duo; egli pone una netta distinzione, a questo proposito, tra il signifi cato di re-sonance e il fondamentale concetto di retentissement. Quest’ultimo rimanda certamente a una sorta di riecheggiare del fenomeno originario tuttavia depu-rato dal senso di attenuazione, di indebolimento che, nella accezione consueta del termine, impedirebbe all’immagine di risuonare in noi con tutta la sua forza vitale; per contro la semplice risonanza non può che ridestare i ricordi di esperienze vissute, intesi come semplici ripercussioni sentimentali, spunti di rievocazione privi però dell’energia generativa delle vere immagini poeti-che. Siffatto approccio ci riporta ad un’altra basilare dicotomia bachelardiana: quella istituita tra fatti e valori immaginativi. Nella resonance sono richiamati solo determinati fatti – o elementari accidentalità della vita vissuta – mentre il retentissement consente percorsi nello spazio dei valori immaginativi.

La mémoire est (…) un bric-à-brac de souvenirs9.

Ricordi che non si confi gurano affatto come semplici aneddoti ma, nella prospettiva assunta dal fi losofo, ci introducono a quell’empatia nei confronti del cosmo di cui sono capaci i poeti; i ricordi, trasfi gurati nell’opera poetica,

8 Se per la psicanalisi la dialettica memoria \ oblio si esplica in quella di rimozione \ rammemorazione per la quale l’oblio, inteso come passato esperito, è reversibile e il dimenticare, nell’ottica del rimosso, viene assimilato più ad un’istanza di sostitu-zione che non alla perdita vera e propria, Marc Augé nel suo Les formes de l’oubli, Payot, Paris 1998, (trad it. Le forme dell’oblio, Il Saggiatore, Milano 2000) ravvede nella memoria e nell’oblio complementari forme di temporalità. Augé, a partire dalla suggestione agostiniana per cui memoria del passato, attenzione per il presente e attesa del futuro si intrecciano nella costruzione di una dimensione temporale, distin-gue tre “fi gure”, fi glie, dell’oblio: il ritorno che ambisce al recupero di un passato perduto, la sospensione che vorrebbe vivere solo il tempo presente, sospeso tra le altre due forme di temporalità e il re-inizio che ha l’ambizione di creare le condi-zioni di una rinascita aperta a tutti gli avvenire possibili. Per un approfondimento specifi co dell’approccio psicanalitico a questo tema si veda il testo, scritto nel 1914, da S. Freud, Erinnern, Wiederholen, Durcharbeiten in Idem, Gesammelte Werke, X, Fischer, Frankfurt 1913-1917, pp.126 -127. Relativi invece alla tematica sintetizzata da Augé si possono consultare anche P. Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seul, Paris 2000 (trad. it. La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003); P. Rossi, Il passato, la memoria, l’oblio. Otto saggi di storia delle idee, Il Mulino, Bologna 1991; H. Weinrich, Lethe. Kunst und Kritik des Vergessens, C. H. Beck, München 1997 (trad. it. Lete. Arte e critica dell’oblio, Il Mulino, Bologna 1999).

9 «La memoria è un rigattiere i ricordi» PR, p. 85 (p. 110)

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rievocano non esperienze ed oggetti ma la «melodia delle cose e degli esse-ri». L’esempio che il pensatore francese vuole riportare è connesso alla di-mensione olfattiva, primitiva testimonianza del nostro rapporto con il mondo che origina, nella parola poetica, le immagini più intraducibili.

Egli trascrive così, a titolo esplicativo, i versi di Milosz:

L’odeur moussue et somnolente des vieilles demeures est la même en tous pays, et fort souvent, dans le cours de mes solitaires pèlerinages aux lieux saints du souvenirs et de la nostalgie, m’avait-il suffi de fermer les yeux dans quelque logis ancien pour me reporter aussitôt à la sombre maison de mes ancêtres danois et pour revivre de la sorte, en l’espace d’un instant, toutes les joies et toutes les tristesses d’une enfance accoutumée à l’odeur tendre si pleine de pluie et de crépuscule des antiques demeures10.

A questo proposito noi vorremmo citare anche due testi di Nazim Hi-kmet, il grande poeta turco, che negli amari anni dell’esilio rivive, nel ri-chiamo agli odori della propria terra, la nostalgia della patria, il dolore del distacco e l’intimità dell’amore mentre gli stessi, al contempo, gli rendono possibile il superamento delle mere contingenze realistiche e la costituzio-ne, tramite la recondita forza creativa dell’immagine poetica, di una comu-nione fi nale con l’essenza più profonda della natura e del mondo.

Da Varna a Sofi a, amor mio \ lungo la strada tanti noci. \ Odor d’alcanna, odor di verde. \ Non è la strada che è fatta di noci \ o mio tesoro, noi siamo dei noci11.

Sono entrato a Sofi a un giorno di primavera, amor mio \ la tua città natale ha un profumo di tigli. \ Percorro il mondo senza di te \ tale è il mio destino \ che posso farci \ A Sofi a l’albero vien prima della pietra \ è più bello della pietra. \ A Sofi a, l’albero e l’uomo si mescolano \ soprattutto il pioppo \ sembra che voglia entrar nella stanza \ a sedersi sul tappeto rosso \ (…) \ Sono entrato a Sofi a un giorno di primavera, amor mio \ la tua città natale ha un profumo di tigli. \ La tua città natale è la casa accogliente di un fratello \ ma anche in casa del fratello \ la propria non si scorda \ E un duro mestiere l’esilio \ un duro mestiere…12

10 «L’odore muschioso e sonnolento delle vecchie dimore, è lo stesso in ogni paese, e spessissimo durante i miei solitari e frequenti pellegrinaggi ai luoghi santi del ricor-do e della nostalgia, mi era stato suffi ciente fermare lo sguardo su qualche ambiente vecchio, per riportarmi subito alla sobria casa dei miei nonni danesi e per rivivere, nello spazio di un breve istante, tutte le gioie e tutte le tristezze di una infanzia trascorsa all’odore leggero pieno di pioggia e di crepuscolo delle vecchie dimore », da O.W. Milosz, L’amoureuse initiation, Grasset, Paris; cit. in PR, p.119 (p. 149).

11 Da Varna a Sofi a, in N. Hikmet, Poesie d’amore, trad it. J. Lussu, Mondadori, Milano 2002, p. 46.

12 A Sofi a, ivi, p. 47.

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L’immaginazione si colloca, secondo Bachelard, in una dimensione anteriore a quella della semplice memoria e quest’ultima assume piut-tosto la funzione vivifi cante di quell’atto originario che verrà riproposto e trasformato in tutte le successive produzioni di immagini13. Non più considerata come pura eco di esperienza vissuta, essa stessa si fa stru-mento rielaborativo, azione, potenza in atto nella reinvenzione di quel passato che essendo già stato immaginato, all’origine, dalla coscienza del soggetto, va a porsi in un contesto completamente a-temporale, nel quale la distanza e la profondità del recupero memoriale agiscono nella sua trasformazione da storia a mito.

Se la storia può contemplare solo una successione cronologica di avve-nimenti, la rêverie, al contrario, consente una discesa più profonda in quel-lo che Furio Jesi denominava “tempo del segreto”, nell’ambito di quelle sue indagini rilkiane che in breve lo avrebbero condotto all’elaborazione di una concezione epistemologica della poesia quale strumento di cono-scenza e indagine dell’esistenza14, in sintonia con il poeta tedesco e, non ultime, con le tesi bachelardiane. Solo una dimensione mitica della tempo-ralità consente all’uomo di accedere alla conoscenza di un passato, non più semplice cronaca di eventi ma facoltà creatrice in grado di trascendere la singola esistenza e consentire all’individuo quella risalita alle origini che gli sono proprie, scaturite dall’incontro con il tutto cosmico.

13 Esplicita è, a questo punto, la critica a Henry Bergson: «Chez Bergson, il semble que le souvenirs purs soient des images encadrées. Pourquoi se souviendrait-on d’avoir appris une leçon sur le banc d’un jardin ? (..) Il faudrait au moins, puisqu’on est dans un jardin, redire les rêveries qui dérangeaient notre attention d’écolier. Le souvenir pur ne peut se retrouver que dans la rêverie. (…) Bergson (…) croit au fait psychique et sa doctrine de la mémoire reste, tout compte fait, une doctrine de l’utilité de la mémoire. Bergson, tout à sa volonté de développer une psychologie positive, n’a pas trouvé la fusion du souvenir et de la rêverie» (In Bergson sembra che i ricordi puri siano delle immagini incorniciate. Perché mai ci si ricorderebbe di aver imparato una lezione sul banco di un giardino? (…) Bisognerebbe almeno, dal momento che si è in un giardino, ridire le rêveries che disturbavano la nostra atten-zione di scolaro. Il ricordo puro si può trovare solo nella rêverie (…) Bergson (…) crede al fatto psichico e la sua dottrina della memoria rimane, in defi nitiva, una dot-trina dell’utilità della memoria. Bergson nonostante la sua volontà di sviluppare una psicologia positiva, non è riuscito a trovare la fusione del ricordo e della rêverie), in PR, p. 99 (p. 126). Per una introduzione generale si veda anche l’esaustivo volume di JJ. Wunenburger, Philosophie des images, Presses Universitaires de France, Paris 1997 ( trad it. Filosofi a delle immagini, Einaudi, Torino 1999).

14 Si veda in particolare F. Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, G. D’Anna, Messina 1976.

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Nell’istante in cui il mito è più “genuino” esso è totalmente estraneo al lin-guaggio, ed anzi gli si oppone. Nella sua fase originaria il mito è verità inespri-mibile, accessibile soltanto tramite la commozione che permette di entrare in contatto con un mondo super-umano. In tale fase il mito è la cosa dinnanzi alla quale la parola si arresta15.

La memoria della rêverie non si defi nisce nella parola del racconto; ciò equivarrebbe a ricercare in essa la logica di un senso razionale antitetico alle immagini colte nella profondità dell’io e delle quali solo il linguaggio conoscitivo della poesia potrà, piuttosto che renderne il signifi cato, ridona-re loro la potenza creativa dell’atto immaginante.

Rêveries dell’infanzia

All’interno della sfera segreta dell’uomo, preclusa ad ogni logos, fatto-si pretesa troppo raziocinante, e connessa alla dimensione del mito, per-mane un nucleo di potenzialità pure, istanze di nuove possibilità di vita, identifi cato nell’infanzia del soggetto che tramite i poeti, unici latori delle immagini di queste profondità, potrà rivivere e farsi speranza utopica e occasione di rinascita.

L’infanzia diviene quindi per eccellenza il tempo della rêverie; l’istante magico, e per l’adulto ancora pieno di mistero, in cui la coscienza si schiu-de al mondo senza tuttavia percepirlo come altro da sé, essendo ancora tutta compresa nella simbiosi con il cosmo. L’infanzia è il luogo nel quale il passato, ovvero quello stadio temporale disseccato della sua forza vitale, chiuso ad ogni prospettiva sul futuro, riacquista nuovamente – dice Bache-lard – la possibilità di un avvenire; un “avvenire di rêverie” che come una forza germinativa16 si schiude di fronte alle immagini ritrovate, create ma

15 Traiamo la citazione da alcuni inediti di F. Jesi, appunti sparsi spesso in fogli dat-tiloscritti, ora pubblicati all’interno del numero monografi co, dedicato al critico torinese, di «Cultura tedesca», 12, 1999, qui, in particolare, ci riferiamo al breve scritto Mito e linguaggio4, p. 84.

16 Walter Benjamin aveva già riconosciuto questa “forza germinativa” non solo nelle espressioni poetiche ma, più in generale, nella potenzialità di qualsiasi parola in grado di farsi racconto, nella voce di un narratore: «Erodoto (…) il suo racconto è il più asciutto che si possa immaginare. Perciò questa storia dell’antico Egitto è ancora in grado, dopo millenni, di produrre stupore e rifl essione. Somiglia ai chicchi di grano che sono rimasti ermeticamente chiusi per millenni nelle celle delle piramidi e che hanno conservato fi no ad oggi la loro forza germinativa», in W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1955, trad. it. Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1981, pp. 254-255.

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non vissute, rimaste allo stadio di pure e intatte potenzialità che “il destino non ha saputo utilizzare”.

Nulla hanno a che fare le rêveries infantili con l’istanza di una realtà reifi cata, depositata all’interno del magazzino della memoria e suscettibile di una possibile restaurazione nel contesto del presente. Al pari di ogni al-tra rêverie anche quella relativa all’ infanzia è una tensione creativa latente nel profondo dell’essere; è una “potenza in atto” pronta a dischiudersi ogni qual volta venga sollecitata dalle facoltà immaginative dell’individuo.

Les anecdotes sont souvent des accidents qui cachent la substance. Ce sont des fl eurs fanées. Mais nourrie par la légende, la force végétale de l’enfance subsiste en nous toute la vie. Le secret de notre végétalisme profond est là. Franz Hellens écrit: «L’enfance n’est pas une chose qui meurt en nous et se dessèche dès qu’elle a accompli son cycle. Ce n’est pas un souvenir. C’est le plus vivant des trésors, et il continue de nous enrichir à notre insu…17

Tuttavia non appena il bambino raggiunge “l’età della ragione” viene pri-vato di questo suo assoluto diritto di immaginare il mondo; gli adulti, tenden-zialmente dimentichi del dinamismo delle rêveries solitarie del loro passato, si sentono in dovere di confezionare per la loro piccola creatura una storia sociale pronta da raccontare, ne oggettivizzano i ricordi, approntando di già una vita futura conforme ad un ideale fi ttizio che, in breve tempo, consentirà di produrre una moltitudine omologata di uomini in miniatura.

L’enfance – cette pâte – est poussée dans la fi lière pour que l’enfant prenne bien la suite de la vie des autres18.

Jacques Prévert, il poeta francese oggi ingiustamente dimenticato, seppe descrivere al meglio questo processo in una delle sue poesie più celebri, Il bambino abbandonato:

È appena nato che già gli si accalcano intorno, proprio come attorno a un morto, i Siori e le Siore della famiglia (…) \ E tutti, senza sospettarlo, si metto-

17 «Gli aneddoti sono molto spesso accidenti che nascondono la sostanza. Sono dei fi ori appassiti, ma la forza vegetale dell’infanzia, nutrita dalla leggenda, resiste in noi tutta la vita. Questo è il segreto del nostro profondo vegetalismo. Franz Helles scrive: “L’infanzia non è una cosa che muore in noi e si rinsecchisce dopo aver compiuto il suo ciclo. Non è un ricordo. È il più vivo dei tesori, e continua a arricchirci a nostra insaputa…”» in PR, pp. 116 -117 (pp. 146-147).

18 «L’infanzia – questa materia plasmabile – è spinta in uno stampo perché il bambi-no prenda un’impronta e segua il corso della vita di tutti gli altri» in PR, pp. 91- 92 (p. 118)

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no a recitare l’assurda e singolare e minacciosa parodia dell’antichissima com-media delle fate intorno alla culla. (…) \ Ognuno dice la sua su quella bestiolina nuova nuova ed è un miscuglio d’auguri urbanamente odiosi, di squallide fa-cezie e di comiche predizioni \ (…) \ E presto gli insegnano a parlare. \ Allora chiama il cane bau-bau, il cavallo allo, e suo padre papà, fa ciao, àcie, dice le orazioni. \ Ben presto, viene trascinato nei giardini (…) per prendere aria e gio-care con altri bambini come lui perduti. \ Altri bambini, pallidi e tristi, come lui, che come lui portano, sopra le spalle da piccoli ragionieri, una grossa testa da saputelli senza sguardo. \ (…) \ Qualche volta, un bambino rifi uta d’andarsene (…) \ A un tratto, lui guarda gli alberi del giardino con occhi da far credere alla madre che il bambino non “sta bene”. Molto semplice, il bambino sogna il mare che gli hanno letto in un libro.\ (…) Ma il bambino abbandonato (…) non s’addormenta, si rialza in sogno e parla da solo ridendo, ma nessun altro lo sen-te . E per ore canta per sé incomprensibili lamenti, nei quali s’incontrano s’ac-cavallano parole inventate, parole vietate, parole sacre e d’improvviso buffe, parole rubate, parole negre e nude raccattate per strada. \ E sognando ride.19

Solo il bambino è ancora disponibile a farsi cogliere dallo stupore, ovve-ro dall’antica meraviglia di fronte al cosmo e alla vita che ha dato origine alla più alta delle realizzazioni dell’essere umano, l’avventura del logos e della fi losofi a. Ritroviamo tuttavia quello stesso stupore e quella stes-sa meraviglia anche alla radice di quella dimensione di assoluta creatività propria dell’infanzia che, secondo il fi losofo, è il contesto originario della cosmicità della rêverie. Solo nella coscienza del bambino che si schiude al mondo è insita la capacità di “stupirsi” e di comprendere ciò che in se-guito, nelle forme chiuse del linguaggio razionale, non sarà più possibile apprendere.

Lo stupore consente all’infanzia di liberarsi della dimensione sociale e temporale impostale dagli adulti e recuperare l’originario tempo cosmico, condizione “detemporalizzata”, priva del giogo del divenire del calendario e aperta alla noia che nella solitudine della rêverie, offre al bambino la pos-sibilità di percepire ancora il proprio mitico “essere per il mondo”.

Se il sonno è il culmine della distensione fi sica, la noia è quello della distensione spirituale. La noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza. Il minimo rumore nelle frasche lo mette in fuga. I suoi nidi – le attività intimamente collegate alla noia – sono già scomparsi nelle città, e decadono anche in campagna. Così si perde la facoltà di ascoltare, e svanisce la comunità degli ascoltatori20.

19 Jacques Prévert, Spectacle, Gallimard, Paris 1949, trad it. in Id., Il Prévert di Prèvert, Feltrinelli, Milano 198013, pp. 125-129.

20 W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 255.

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Walter Benjamin esprime, con metafora assai effi cace, la fragilità di questo effi mero stato di grazia nel quale il bambino può adire alla riscoper-ta della primordiale unità di essere e cosmo; è simile in questo al fanciullo divino del mito, richiamato dallo stesso Bachelard con chiari riferimenti al celeberrimo studio di Jung e Kérenyi21.

La solitudine a cui pare consegnata l’infanzia divinizzata ha in sé i germi della potenzialità creativa delle rêveries; il bambino è orfano, privo del mondo degli adulti, ma il suo isolamento non può assimilarsi al trauma di un abban-dono poiché è l’intero cosmo ad accoglierlo e a prendersi cura di lui. Quello stesso universo primordiale, anch’esso “giovane”, che, al di fuori della storia e del tempo, pone di fronte al fanciullo ancora intatte le infi nite potenzialità di rinascita; il bambino si riappropria allora, solo in questa dimensione, dell’ori-ginarietà mitica dell’essere umano e, al contempo, si protende verso l’utopia del futuro: il mondo nasce con lui e con lui si distrugge per poi rigenerarsi nella continua dialettica di nostalgia per un passato perduto e speranza utopica.

Il fanciullo del mito rimane in contatto con le forze della natura e se da un lato viene oggettivato come “altro” da esse, dall’altro si confi gura an-che come loro stessa emanazione; ed è in questa immagine che Bachelard riscontra il racconto mitico della nascita dell’universo e proprio nelle rêve-ries dell’infanzia egli rinviene “la storia della coscienza” nell’istante in cui, emergendo dal caos primordiale, si appronta a costruire il cosmos.

In simile prospettiva ogni rêverie dell’infanzia viene a defi nirsi come l’originario “atto immaginativo mitico”tramite il quale la coscienza si apre al mondo. Non una memoria-deposito ma la memoria connessa all’imma-ginazione ripercorre se stessa fi no a questo atto di mitico inizio in cui il fi losofo ravvede un archetipo; nulla a che fare con l’accezione junghiana di antico sostrato comune alle culture umane ma, piuttosto che una forma, Bachelard riconosce in esso un’azione, colta nel suo svolgersi, un atto con il quale il soggetto darà il via alla propria storia.

In questo senso l’archetipo dell’infanzia, in particolare, viene ad assu-mere il signifi cato di un principio vitale, un nucleo di energia psichica oc-cultato nel fondo dell’essere.

21 Alludiamo qui al volume, un classico degli studi sulla mitologia, di C. G. Jung K. Kérenyi, Einführung in das Wesen der Mythologie, Pantheon Akademische Ver-lagsanstalt, Amsterdam-Leipzig 1942, trad. it. Prolegomeni allo studio scientifi co della mitologia, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Il testo fu pubblicato per la prima volta in Italia da Einaudi, nel 1948, per volontà di Cesare Pavese e Ernesto de Martino che lo inclusero tra i primi titoli della allora neonata Collana viola, la prima collezione di studi antropologici nel panorama editoriale italiano del secon-do dopoguerra.

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Les archétypes sont (…) des réserves d’enthousiasme qui nous aident à croi-re au monde, à aimer le monde, à créer notre monde. (…) chaque archétype est une ouverture au monde, une invitation au monde. (…) L’eau de l’enfant, le feu de l’enfant, les arbres de l’enfant, les fl eurs printanières de l’enfant … que de principes véritables pour une analyse du monde! (…) A méditer sur l’enfant que nous fûmes, par delà toute histoire de famille (…) nous atteignons une en-fance anonyme, pur foyer de vie, vie première, vie humaine première. Et cette vie est en nous (…) un songe nous y ramène. Le souvenir ne fait que rouvrir la porte du songe. L’archétype est là, immuable, immobile, sous la mémoire, immobile sous les songes22.

Abbiamo già visto come la fenomenologia di questa infanzia primige-nia, recuperata alla coscienza dai suoi più profondi recessi, si esplichi nello stupore, facoltà che consente al bambino, e al poeta, di vedere le cose oltre il loro darsi superfi ciale nell’oggettività del mondo. Gli adulti hanno perso il linguaggio atto ad esplicare la meraviglia, pretendono di mostrarci l’uni-verso senza esperire il vero “vedere”; per contro l’infanzia è l’ambito del rapporto armonioso con il lato segreto dell’esistenza, laddove il bambino ci appare creatura capace di guardare nell’alterità delle cose e farsi ponte al mistero, contrapposto all’adulto al quale questa possibilità sembra defi niti-vamente preclusa. I poeti sapranno fornirci le immagini pregnanti che sole ci consentiranno di accedere a queste rêveries di memoria.

O ore dell’infanzia, quando \ dietro alle fi gure c’era più del semplice \ pas-sato, e a noi dinnanzi non il futuro. \ Crescevamo, certo, e talora ci davamo premura \ di crescere più in fretta, a metà per contentare quei grandi \ che tutto quel che avevano era d’esser grandi. \ Eppure nel nostro solitario andare \ quel che dura ci recava diletto e là \ stavamo, tra giocattolo e mondo, nello spazio \ intermedio che dal principio \ fondato fu per un evento puro.23

22 «Gli archetipi sono (…) delle riserve di entusiasmo che ci aiutano a credere al mondo, a amare il mondo, a creare il nostro mondo. (…) Ogni archetipo è una apertura al mondo, un invito al mondo. (…) L’acqua del bambino, il fuoco del bambino, gli alberi del bambino, i fi ori primaverili del bambino …quanti principi per una analisi del mondo. (…) Se meditiamo sul bambino che siamo stati, dopo aver appreso ogni storia di famiglia (…) Noi raggiungiamo una infanzia anonima, puro focolare di vita, vita prima, prima vita umana. E questa vita è in noi (…) un sogno vi ci riporta. Il ricordo non fa che riaprire la porta del sogno. L’archetipo è là, immutabile, immobile sotto la memoria, immobile sotto i sogni.», in PR, pp. 107-108 ( pp. 135-136).

23 R. M. Rilke, Duineser Elegien, in Samtliche Werke, 6 voll., besorgt durch E. Zinn, Insel Verlag, Frankfurt a.M. 1955, tr. it. Elegie Duinesi, a cura di A. L. Giavotto Künkler, Il Melangolo, Genova 1985, p. 61.

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Bachelard sostiene che l”evento puro” di cui parla Rilke, potrà verifi car-si solo nella dimensione astorica e mitica della rêverie; quella di un tempo cosmico, libero dalla durata, in cui nulla pare accadere nelle ore di non-vita che ci riconducono alla primigenia condizione di una “precedenza d’esse-re”. Un tempo che è insieme luogo del nascere e luogo del morire, dove la morte prelude alla rinascita così come, nella memoria, l’oblio permette al ricordo di riemergere alla coscienza, un tempo dell’ “eterno ritorno” nel quale l’essere dell’inizio coincide con quello della fi ne, dove al bambino, e con lui al poeta “veggente e ladro di fuoco”, si consente la ripetizione infi nita del gesto primordiale con il quale dal caos si è data forma al mondo e da cui sarà possibile far scaturire la parola pregnante atta ad esprimere il mistero dell’origine.

Un tempo infi ne identifi cato con la dimensione di un viaggio verso le archai primitive, vera e propria discesa alle Madri, in cui ritrovare le poten-zialità di una immaginazione creatrice in grado di attingere alla primigenia unità esperita nell’infanzia del nostro essere24.

Vogliamo concludere questo nostro breve testo con le parole di Furio Jesi: nelle memorie di uno dei suoi innumerevoli viaggi egiziani, il giova-ne studioso, inconsapevolmente ci fornisce quella che, alla luce di quanto scritto fi nora, ci pare delinearsi come la trasfi gurazione di una realtà con-tingente ad opera della pura potenza immaginativa di una rêverie bache-lardiana.

Parve allora di viaggiare sulle acque del Nilo verso una remota infanzia, ben più antica del tempio egizio. Il paesaggio solitario del fi ume e del deser-to fu nuovamente l’ora prima dell’uomo, cui l’uomo ritorna con meraviglia commossa come alle profondità di sé quotidianamente ignorante. E fu anche

24 Il cammino verso le origini può anche rivelarsi percorso arduo, diffi cile e talvol-ta pericoloso, è un procedere verso un grembo oscuro, un orizzonte profondo e notturno che resiste alla visualizzazione voluta dall’uomo contemporaneo nel suo tentativo di portare ad emersione questo occulto fondo dell’essere. Ci paiono si-gnifi cative, a tale proposito le considerazione di A. L. Giavotto nella Introduzione alla sua traduzione delle Elegie duinesi di R. M. Rilke, cit, p. 20: «Il procedere dell’uomo verso l’origine è un arduo cammino di trasformazione per compiere il quale si rende necessario comprendere la temporalità del rapporto dell’uomo col mitico (…) inoltratosi più a fondo nella notte del mito, nell’orizzonte mitico che è notturno negativo nel senso che, più profondo, resiste e si nega maggiormente alla visibilizzazione positiva (…) l’uomo contemporaneo indaga la fenomenologia dell’apparire mitico dall’oscuro». Soltanto l’esperire le rêveries del congiungi-mento cosmico con l’Uno primordiale rendono possibile il superamento di quella angoscia di morte che preclude alla coscienza l’accesso alla sua dimensione più occulta e profonda.

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un andare verso la morte, e cioè verso il limite della distruzione che coincide con l’ora della nascita (…) Quando si giunse ad Abu Simbel, di notte, i quattro colossi di Ramesse II (…) parvero sulle soglie di un tempio funerario in cui le sorgenti della vita attingessero al fl usso della morte nelle profondità della montagna.25

25 F. Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico, cit., pp. 22-24. Ferruccio Masini, a commento del brano citato, così sintetizza l’esperienza dell’allora giovanissimo archeologo: «Risalire lungo le ombre del tempo verso confi ni di luce mediterra-nea dove ogni esperienza diventa “originaria”, quasi potesse fecondarla quella “primordialità del buio” e quella fi oritura dei signifi cati che chiudono l’uomo e il suo steso destino effi mero nel cerchio delle sue epifanie interiori, nelle immagini intatte e inestinguibili del suo più profondo Sé» in F. Masini G. Schiavoni (a cura di), Risalire il Nilo. Mito, fi aba, allegoria, Sellerio, Palermo 1983, p. 16.

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ROBERTO MORANI

L’HEGELISMO FRANCESENEGLI ANNI TRENTA DEL NOVECENTO.

Grandezza e limiti

I. Nella sua opera intitolata Senso e non senso, pubblicata nel 1948, Merleau-Ponty ha riconosciuto in Hegel «l’origine di tutto quel che si è fat-to di grande in fi losofi a da un secolo a questa parte – per esempio del mar-xismo, di Nietzsche, della fenomenologia e dell’esistenzialismo tedesco, della psicanalisi»1. Per comprendere come sia possibile un simile giudizio negli anni Quaranta, bisogna tenere presente il grande lavoro della Hegel-Renaissance, cioè il lavoro di recupero della fi losofi a hegeliana verifi cato-si in Francia negli anni Trenta. Il movimento di riavvicinamento a Hegel inizia nel 1929 con la pubblicazione del volume di Jean Wahl La malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, si arricchisce dei saggi di Alexandre Koyré, prosegue con il celebre seminario tenuto da Alexandre Kojève all’École pratique des Hautes Études dal 1933 al 1939, termina con la traduzione di Jean Hyppolite della Fenomenologia dello spirito, apparsa nel 1939 presso la casa editrice Aubier di Parigi.

Il carattere che accomuna il metodo ermeneutico di questi autori è l’unio-ne di due diverse strategie: da un lato l’attivazione di un confronto serrato con i testi, la discesa nella loro profondità alla ricerca di quegli aspetti sepolti e dimenticati, il cui recupero avrebbe consentito l’emergere di un altro Hegel, irriducibilmente differente dal grigio pensatore sistematico trasmesso dalla storiografi a tradizionale (in questo si è favoriti dalla pub-blicazione degli scritti teologici giovanili all’inizio del secolo e soprattutto dall’edizione critica delle opere, apparsa negli anni Venti, che mette per la prima volta a disposizione degli studiosi gli scritti jenesi sulla logica, sulla fi losofi a della natura e sulla fi losofi a dello spirito, che precedono l’avvento della Fenomenologia e in cui si condensano i primi tentativi di esposizione del sistema); la secondo strategia ermeneutica è di leggere Hegel facendo-lo interagire con autori come Kierkegaard, Nietzsche, Bergson, Husserl,

1 M. Merleau-Ponty, L’existentialisme en Hegel, in Id., Sens et non-sens, Nagel, Paris 1948, pp. 109-121, a p. 109; tr. it. L’esistenzialismo in Hegel, in Id., Senso e non senso [1962], a cura di E. Paci, il Saggiatore, Milano 1982, pp. 87-94, a p. 87.

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Heidegger. L’unione di questi due procedimenti, l’uno di approfondimento minuzioso dei testi e l’altro di interazione con le punte più avanzate della fi losofi a contemporanea, produce un effetto inatteso: il sorgere di un nuovo Hegel, non più identifi cato con il sostenitore del razionalismo metafi sico e dell’ottimismo ontologico, ma con il narratore audace del divenire dello spirito e dell’avventura dell’uomo nella storia.

In questo contributo mi propongo di verifi care la grandezza e i limiti dell’operazione ermeneutica attivata dalla Hegel-Renaissance, analizzando l’interpretazione del tempo in Hegel proposta da Alexandre Koyré e Ale-xandre Kojève. Al termine dell’analisi si tenterà di mostrare in che senso il metodo interpretativo adottato da questi interpreti sia ormai superato e non costituisca più un modello di orientamento per l’attuale Hegel-Forschung; nello stesso tempo, si tenterà di individuare la ragione per cui le loro letture innovative rappresentino ancora oggi un’eredità preziosa per ogni studioso di Hegel.

II. Nel saggio intitolato Hegel a Jena, apparso nel 1934 nella Revue d’histoire e de philosophie religieuses, Koyré propone un’interpretazione originale del tempo in Hegel, prendendo come testo di riferimento la Na-turphilosophie del 1804-05. All’inizio dell’articolo egli sostiene che il si-stema di Hegel è ormai defi nitivamente consumato, per cui solo liberandosi dalla gabbia dell’esposizione sistematica la fi losofi a hegeliana si dimostra una fi losofi a del tempo e dell’uomo, strettamente congiunta con i più vitali interessi del presente e all’altezza degli indirizzi teorici che esercitano la loro indiscussa egemonia sull’epoca contemporanea, come il pensiero di Heidegger (Sein und Zeit, apparso nel 1927, stava godendo di una enorme diffusione e di una larga fortuna). Koyré tenta di riattualizzare Hegel, di riprodurne un’immagine conforme alle tendenze speculative più recenti, innovative e radicali, distinguendo passato e presente, ossia (per dirla con Croce) “ciò che è vivo e ciò che è morto” della fi losofi a hegeliana.

Questo modo di procedere si ripercuote anche sul modo in cui Koyré affronta la questione del tempo in Hegel, perché trascina con sé un giudizio severo sulla trattazione enciclopedica della Zeitlichkeit, implica il proget-to di affrancare la dottrina della temporalità dalla sua opprimente cornice sistematica, che impedisce di apprezzarne il valore speculativo. Koyré, in-fatti, valuta negativamente i §§258 e 259 dell’Enciclopedia berlinese, rite-nendoli aridi e incomprensibili, attribuendo interamente alla collocazione sistematica la ragione ultima della loro indecifrabilità. Per dischiuderne il signifi cato profondo occorre ripercorrere il cammino di pensiero che essi presuppongono e celano: gli scritti jenesi permettono di portare alla luce

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il sostrato fenomenologico delle analisi enciclopediche e si rivelano indi-spensabili per la loro comprensione.

La Filosofi a della natura del 1804-05 diventa la base testuale per enu-cleare il lato concreto della dialettica hegeliana della temporalità, illumi-nandone il risvolto umano e storico: è nella coppia concettuale di infi nito e fi nito, nella confi gurazione specifi ca che assume nell’inedito jenese, che Koyré individua il retroterra speculativo della trattazione del tempo svolta nell’Enciclopedia. Al rapporto tra Endlichkeit e Unendlichkeit appartiene il carattere dinamico dell’irrequietezza in quanto il fi nito aspira all’infi nito e negandosi si toglie per superarsi e coronare la sua destinazione ultima, ma anche l’infi nito, traendo verso di sé il fi nito, pone a sé un limite, e si afferma negandolo. Ogni termine non sta a sé, rimanda al suo opposto: si genera il movimento dell’incessante divenire altro da sé del fi nito nell’in-fi nito, che diviene il modello concettuale della dialettica temporale. Anche l’ora presente, infatti, è essenzialmente instabile, inafferrabile, perituro, già sempre trascorso. Non c’è mai: si trasfor ma perennemente in qualcos’altro, si rinnega e si sopprime da sé. Ma se si trasforma e si toglie, non è per rica-dere nel passato, sprofondando in quel che ora non è più. L’ora hegeliano, nonostante sia istantaneo e non implichi alcuna consistenza ontologica, è un istante diretto, orientato verso il futuro e non verso il passato. È proprio questo futuro che ci si presenta dapprima come “a-veni re” (Zu-Kunft) ri-cacciando verso il “non è più” quel che per noi era “ora”. In tal modo si nega, divenendo a sua volta “ora”, per esser poi anch’esso respinto, da un nuovo “a-veni re”, verso il “non è più”, trasformandosi in “già stato”. Nella preminenza del futuro tra le dimensioni del tempo consiste la grandezza della concezione hegeliana rispetto alla visione tradizionale del tempo:

quest’insistenza sul futuro e il primato ad esso conferito sul passato costitu-iscono, a nostro avviso, la maggiore originalità di Hegel. Il fatto è che il tempo hegeliano è, anzitutto, un tempo umano, il tempo dell’uomo. Anche l’uomo, in-fatti, è uno strano essere che “è quel che non è e non è quel che è”; che si rinnega in ciò che è a vantaggio di ciò che non è, o non è ancora; che rinnega il presente da cui parte cercando di realizzarsi nel futuro, e vive per il futuro trovandovi – o, almeno, cercandovi – la propria “verità”; che esiste solo in questa perpetua trasformazione del futuro nell’ora, e cessa di essere il giorno in cui non c’è più futuro, niente è più avvenire, tutto è già avvenuto o già “compiuto”. Potremmo anche dire che il tempo hegeliano è quello della ricerca e dell’aspirazione, o che l’uomo hegeliano è “faustiano”. Ed essendo umano, il tempo hegeliano è anche dialet tico, così come, essendo entrambi, è essenzialmente un tempo storico2.

2 A. Koyré, Hegel à Iéna [1934], in Id., Études d’histoire de la pensée philosophi-que [1961], Gallimard, Paris 1971, pp. 147-189, a p. 177; tr. it. Hegel a Jena, in

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Il tempo hegeliano

non è quello delle formule e degli orologi, ma il tempo storico, essenzialmente umano. Come infatti Hegel dice, siamo noi a proiettar ci nel futuro, negando il nostro presente e facendone un passato. E siamo noi che riprendiamo e ravvivia-mo nella nostra memoria questo passato morto e compiuto. È in noi, nella nostra vita, che si realizza il presente dello spirito. La dialettica del tempo è la dialettica dell’uomo. Solo perché l’uomo è essenzialmente dialetti co, ossia essenzialmente negatore, è possibile la dialettica della storia, anzi la storia stessa. È perché l’uo-mo dice di no al suo ora – o a se stesso – che ha un futuro. È perché si nega che ha un passato. È perché è tempo – e non soltanto temporale – che ha anche un presente. Un presente vittorioso sul passato (HJ, 187-188/165).

La conclusione di Koyré è sorprendente perché proprio ciò che desi-gna il motivo della grandezza della concezione hegeliana – l’apertura del tempo al futuro – decreta anche il fallimento integrale del suo progetto fi losofi co. Se il tempo è dialettico e si costituisce a partire dal futuro, non può che rimanere incompiuto, altrimenti non sarebbe più un tempo umano: il senso deve restare eternamente a venire, rivelandosi un dover-essere che impedisce la chiusura del tempo e del futuro. Pensare di poter ingabbiare questo divenire inquieto in un sistema rigido è la grande contraddizione in cui è precipitato il pensiero di Hegel:

solo il carattere dialettico del tempo rende possibile una fi losofi a della storia, ma nello stesso tempo il carattere temporale della dialettica la rende impossibi-le dal momento che, lo si voglia o meno, la fi losofi a della storia ne costituisce un arresto. Non si può prevedere il futuro, e la dialettica hegeliana non ce lo consente, poiché la dialettica, espressione del ruolo creativo della negazione, ne esprime insieme la libertà. La sintesi è imprevedibi le: è impossibile costruirla; si può solo analizzarla. La fi losofi a della storia, e – quindi – la fi losofi a hegeliana, il “sistema”, sarebbero possibili solo se la storia fosse terminata, se non ci fosse più futuro, se il tempo potesse fermarsi. Può darsi che Hegel l’abbia creduto. Può anche darsi che abbia creduto che fosse non solo la condizione essenziale del sistema – solo sul far del crepuscolo la nottola di Minerva inizia il suo volo – ma anche che fosse già realizzata, che la storia fosse effettivamente terminata e che proprio per questo egli potesse – avesse potuto – suggellarla (HJ, 189/166-167).

Passiamo adesso a considerare l’interpretazione del tempo in Hegel avan-zata da Kojève. Nel testo del seminario, trasmessoci grazie alla raccolta dei

AA.VV., Interpretazioni hegeliane, a cura di R. Salvatori, La Nuova Italia, Firen-ze 1980, pp. 133-167, a pp. 157-158. D’ora in avanti citerò questo saggio con la sigla HJ e a seguire il numero delle pagine dell’edizione francese e italiana.

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manoscritti e degli appunti approntata da Raymond Queneau nel 1947, è nell’ottava lezione del 1938-39 che Kojève si occupa specifi camente della dottrina hegeliana del tempo. In questo contesto egli ritiene che la Fenome-nologia, a differenza di altri scritti, presenta una visione molto più radicale della Zeitlichkeit perché identifi ca la natura con lo spazio e il tempo con la storia, negando l’esistenza del tempo naturale, cosmico: il tempo c’è solo in quanto esiste l’uomo. Negli altri scritti (in primis l’Enciclopedia) la teoria hegeliana appare molto meno radicale e convincente, perché sembra ammettere l’esistenza di un tempo naturale.

Se Hegel identifi ca i due Tempi – scrive Kojève –, se non ammette che un solo Tempo, noi possiamo applicare al Tempo storico (il solo che qui ci interessi) tutto quanto egli dice del Tempo in generale. La cosa curiosa è che il testo decisivo sul Tempo si trova nella “Filosofi a della Natura” della Jenenser Realphilo sophie. Questo testo è stato tradotto e commentato da Koyré in un articolo nato dal suo Corso sugli scritti giovanili di Hegel: articolo decisivo, che sta all’origine e alla base della mia interpretazione della PhG. Qui, mi limiterò a riprodurre succin-tamente i principali risultati derivanti dall’a nalisi di Koyré. Il testo in questione mostra chiaramente che il Tempo, a cui Hegel pensa, è quello che, per noi, è il Tempo storico (e non il Tempo biologico o cosmico). Difatti, questo Tempo è ca-ratterizzato dal primato dell’Avvenire. Nel Tempo che la Filosofi a pre-hegeliana prendeva in considerazione il movimento andava dal Passato verso l’Avvenire, passando per il Presente. Nel Tempo di cui parla Hegel, invece, il movimento prende origine nell’Avvenire e va verso il Presente passando per il Passato: Av-venire → Passato → Presente (→ Avvenire). Ed è appunto questa la struttu ra specifi ca del Tempo propriamente umano, cioè storico3.

Confessata la dipendenza della propria interpretazione da quella proposta dal proprio maestro nel saggio Hegel a Jena, Kojève affronta l’aporia sollevata da Koyré al termine del suo articolo, proponendone una soluzione originale: se Koyré ritiene che il tempo in Hegel non possa compiersi e dunque ogni pretesa sistematica si rivela vana, Kojève interpreta invece il sapere assoluto come la negazione del tempo, l’annullamento del primato del futuro, insomma “la fi ne della storia”. Il sapere assoluto si realizza mediante il tempo, ma una volta raggiunta questa meta suprema, il tempo fi nisce e all’uomo non rimane che ripetere eternamente il cammino che ha condotta alla sua fondazione:

3 A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel. Leçons sur la Phénoménologie de l’esprit professées de 1933 à 1939 à l’École des Hautes Études réunies et publiées par R. Queneau, Gallimard, Paris 1947, pp. 366-367; tr. it. Introduzione alla let-tura di Hegel, a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, pp. 456-457. D’ora in avanti citerò questo saggio con la sigla IH e a seguire il numero delle pagine dell’edizione francese e italiana.

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ciò si verifi ca quando il desiderio umano è pienamente e defi nitivamente sod-disfatto. Non c’è più allora azione negatrice: l’uomo è riconciliato con il mondo dato (che allora è il risultato del suo sforzo interamente compiuto) e con ciò che egli stesso è in e mediante questo mondo. Ma il desiderio, e l’azione che ne nasce, sono la manifestazione del tempo umano o storico, cioè del tempo pro-priamente detto. L’uomo riconciliato con ciò che egli è non oltrepassa più il reale dato. Cessa dunque di creare la storia, cessa, in altri termini, di essere il tempo. E se lo Stato universale e omogeneo, e la scienza che lo rivela, sono la conclusione della storia, lo sono anche del tempo. Nel momento in cui il concetto, e quindi di conseguenza il tempo, coincidono con la realtà-oggettiva e cessano di essere esterni all’uomo, il tempo cessa di essere un tempo storico o umano, cioè un tem-po nel senso proprio del termine. Il concetto e il tempo coincidono, nel, mediante e per il sapere assoluto o per il saggio. Certo, il saggio appare nel tempo, ma il suo avvento “alla fi ne del tempi” segna la fi ne del tempo (IH, 383/477).

Con la fi ne della storia, il tempo precipita nello spazio, la storia viene in-globata dalla natura, ossia dal dominio di una datità non più oltrepassabile da nessun desiderio, una presenza opaca che ormai non è più minacciata da nessuna libertà, una positività dell’essere defi nitivamente al riparo da ogni negatività e da ogni azione trasformatrice. Secondo Kojève la scomparsa dell’uomo alla fi ne della storia non è dunque una catastrofe cosmica: il mondo naturale resta quello che è da tutta l’eternità. E non è nemmeno una catastrofe biologica: l’uomo resta in vita come animale che è in accordo con la natura o con l’essere dato.

III. Esposte queste due grandi interpretazioni francesi della dottrina hege-liana della temporalità, occorre verifi carne la tenuta al cospetto del testo he-geliano stesso, mettendole a confronto con le recenti acquisizioni della Hegel-Forschung. Il primo aspetto da evidenziare è il ruolo determinante e occulto che ha svolto Heidegger: nel §82 di Sein und Zeit, infatti, si legge che la teoria hegeliana del tempo costituisce la più radicale e la meno studiata elaborazione concettuale della comprensione ordinaria del tempo, si staglia cioè come la confi gurazione più estrema della concezione volgare della temporalità che ha dominato la tradizione del pensiero occidentale da Aristotele in avanti. E ciò si ricava anzitutto dalla collocazione sistematica della dottrina hegeliana, dal fatto che, nell’Enciclopedia, il tempo, insieme allo spazio, al luogo, al mo-vimento, viene trattato nella prima sezione della Naturphilosophie e dunque, sulla scia di Aristotele, nel contesto di una “ontologia della natura”.

Evidente il tentativo di Koyré di rispondere alle critiche heideggeriane al tempo hegeliano: Koyré ha senz’altro ragione a prendere le distanze dal-le critiche ingenerose che l’autore di Essere e tempo avanza nei confronti di Hegel, tuttavia egli stesso fi nisce per cadere nella faziosità opposta, spiri-

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tualizzando e umanizzando senza residui la dottrina hegeliana. Che Hegel, nell’esposizione sistematica, collochi la trattazione del tempo nella “Filo-sofi a della natura” e che la intitoli Die Zeit senza ulteriori specifi cazioni, non autorizza a concludere che identifi chi il tempo della natura inorganica con il tempo überhaupt. Considerare il luogo in cui, nell’Enciclopedia, il tempo è tematizzato come il suo luogo sistematico equivale a semplifi -care enormemente la concezione hegeliana; tuttavia non si può neppure giungere a negare una forma di temporalità alla natura, sia pur astratta, vuota, quantitativa, seriale, dispersiva. Gli interpreti francesi hanno fi nito per commettere lo stesso errore di Heidegger, operando una intollerabile reductio ad unum, sia pur di segno opposto.

Sostenere – come Koyré e Kojève – che il tempo in Hegel è esclusiva-mente umano e storico signifi ca affermare troppo e insieme troppo poco. Troppo, perché in realtà il tempo nell’Enciclopedia non ha un signifi cato univoco, ma si presenta come una struttura che ritorna in vari punti del sistema e che si modalizza diversamente a seconda che compaia nella sfera della natura o in quella dello spirito. Non esiste allora “il tempo”, ma una pluralità irriducibile di “forme del tempo”. E questo vale sia per la natura, dove il tempo quantitativo della natura inorganica è differente dal tempo per sé dell’organismo animale, ma vale soprattutto per lo spirito, nel quale ogni grado possiede una forma specifi ca di temporalità. Da questo punto di vista, la tesi di Koyré ripresa da Kojève afferma persino troppo poco, perché accanto al tempo della storia, lo spirito presenta una pluralità di forme del tempo (il tempo dell’arte, della religione, della fi losofi a, dello spirito soggettivo, ecc.). Il tempo dello spirito è sempre un tempo per sé, è una forma di temporalità che segna il ritorno a sé dalla dispersione del divenire naturale: le forme in cui si articola questo ritorno sono però diver-se, e danno vita, ascendendo l’ordine dei gradi, a un processo graduale di trasformazione del tempo da forma dell’esteriorità a forma dell’interiorità dello spirito. Dalle forme del tempo in cui si articola il movimento di rea-lizzazione di sé dello spirito, va ulteriormente distinto il concetto del tem-po, che non è l’universale astratto ma la radice unitaria delle diverse fi gure della Zeitlichkeit della natura e dello spirito. Con l’espressione Begriff der Zeit Hegel allude al movimento eterno, ideale, necessario e teleologico, mediante cui lo spirito si produce nel suo concetto come un tutto4.

4 Ho approfondito il tema nei seguenti articoli: Tempo e dialettica dello spirito in Hegel, in AA.VV., Anima Tempo Memoria, a cura di G. Severino, FrancoAngeli, Milano 2000, pp. 121-142; Tempo e fi losofi a in Hegel, in AA.VV., Tempo e inter-pretazione. Esperienze di verità nel tempo dell’interpretazione, a cura di L. Pe-rissinotto e M. Ruggenini, Guerini & Associati, Milano 2002, pp. 193-214; Dalla

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Anche rispetto al presunto primato della dimensione del futuro, affer-mato da Koyré e Kojève, si coglie una risposta indiretta a Heidegger, o meglio, si coglie il tentativo di far interagire la dottrina hegeliana con quel-la di Essere e tempo, secondo cui «la temporalità originaria e autentica si temporalizza partendo dall’avvenire autentico in modo tale che esso, stato come ad-veniente, prima di tutto susciti il presente. Il fenomeno primario della temporalità originaria e autentica è l’avvenire»5. Sorge il sospetto che Koyré e Kojève abbiano proiettato sul testo hegeliano la dottrina hei-deggeriana della temporalità originaria per rispondere alla critica che l’au-tore di Essere e tempo ha formulato nei confronti della teoria hegeliana a causa della funzione privilegiata riconosciuta alla dimensione del presente puntuale. Per Heidegger, infatti, un tempo così concepito non solo si riduce a una successione lineare e irreversibile di istanti completamente unifor-mati e formalizzati, ma fi nisce anche per lasciare fatalmente irrisolto e non chiarito il problema della sua origine. Il primato assegnato alla Gegenwart rispetto al le altre dimensioni del tempo (passato e futuro) e le conseguenze livellanti che ne deriva no confermano che Hegel rientra a pieno ti tolo nel-la tradizione ontologica, ne condivide la comprensione dell’es sere come semplice-presenza (Vorhandenheit) e non può che ricadere nella concezio-ne volgare della temporalità.

Di fronte a questa lettura sommaria, gli esponenti della Hegel-Re-naissance si appellano al futuro, alla negazione della datità e della sempli-ce-presenza, operando un puro e semplice rovesciamento della prospettiva heideggeriana. Tuttavia anche in questo caso la loro lettura risulta estre-mamente problematica: nei testi hegeliani di Jena, infatti, la novità non è costituita dal ruolo conferito alla dimensione dell’avvenire, consiste piutto-sto nella centralità che viene ad assumere quella del passato, eletta a verità ultima della dialettica temporale. Hegel tratteggia il movimento circolare per cui l’ora trapassa nel futuro e questo a sua volta ritorna nel presente: si tratta però di un ora divenuto, che è la negazione del primo ora, per poi ricadere, in forza della sua intrinseca negatività, nel passato. La Vergan-genheit è dunque da una parte una delle dimensioni del tempo, dall’altra, in quanto le raccoglie tutte insieme, è il tempo come totalità e, come tale, si rivela la verità del Zeitbegriff. Koiré e Kojève hanno enfatizzato il ruolo della dimensione del futuro, ossia della prima negazione del presente, di-

natura alla storia. Il tempo nella “Fenomenologia dello spirito”, in “Annuario fi losofi co”, XXIII, 2007, pp. 331-364.

5 M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, 199317, p. 329; tr. it. Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, rivista da F. Volpi, Longanesi, Milano 2005, p. 391.

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L’hegelismo francese negli anni Trenta del Novecento di R. Morani 61

menticando il ruolo decisivo della seconda negazione, su cui ricade l’intera dialettica temporale.

Per quanto riguarda l’elevazione della Naturphilosophie jenese a testo guida della interpretazione del tempo in Hegel a scapito dell’Enciclopedia, Koyré ripete lo stesso errore compiuto da Heidegger, mettendo sullo stesso piano scritti appartenenti a contesti teorici differenti. Entrambi commettono l’errore di presupporre una continuità monolitica, priva di cesure e d’inter-ruzioni nella dottrina hegeliana del tempo, pertanto pensano di poter acco-stare senza particolari problemi due scritti cronologicamente distanti e fi lo-sofi camente eterogenei. Oggi invece, nell’ambito della Hegel-Forschung, è ormai accreditata l’idea che da Jena a Berlino la concezione hegeliana del tempo riveli dei notevoli punti di svolta, che però non riguardano il ruolo sempre più opprimente della dialettica, come vorrebbe Heidegger, né il presunto carattere esoterico del testo, come vorrebbe Koyré, attengono piuttosto al fatto che, nell’Enciclopedia, manca completamente la dialet-tica delle dimensioni temporali come condizione della realizzazione del Zeitbegriff, su cui invece insistono i testi jenesi. A Berlino Hegel non par-lerà più di passato e di futuro a proposito del tempo quantitativo, astratto, puntuale, spazializzato della natura, contraddistinto da una negatività man-chevole, da una successione seriale di istanti solo formalmente differenti, in realtà qualitativamente identici gli uni con gli altri, un Nacheinander che si rivela tanto un divenire dispersivo e distruttivo quanto una perenne e sterile ripetizione del medesimo ora, che compare e sparisce sempre di nuovo. Hegel modifi ca la sua concezione, perché intende maggiormente rimarcare l’abissale differenza ontologica tra il tempo della natura e il tem-po dello spirito: la natura non possiede passato e futuro, contiene solo il presente, essendo totalmente priva di una dimensione permanente in grado di raccogliere e di unifi care la molteplicità degli istanti, rendendo possibile l’esistenza di un orizzonte temporale, giustifi cando l’esperienza del prima e del poi. L’aspetto più sorprendente dell’esegesi di Koyré è che utilizzi il testo giovanile in cui prevale la dimensione del futuro – sia pure con le riserve che abbiamo precedentemente sollevato – per illustrare il §259 dell’Enciclopedia, in cui Hegel afferma a chiare lettere che «nella natura il tempo è l’istante e non si perviene a differenziare quelle tre dimensioni in modo da dar loro sussistenza separata». Oggi, nell’ambito della letteratura hegeliana, è ormai impossibile istituire una contrapposizione artefatta tra la ricchezza e la profondità dei testi giovanili e l’aridità e l’oscurità dell’espo-sizione sistematica, usando i primi come supporto per la comprensione dei secondi. Non è un caso che sia Heidegger sia Koyré, che adottano questo metodo ermeneutico a dir poco discutibile, fi niscano per sottacere il ruo-

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lo fondamentale che a Berlino assume la nozione di eternità, totalmente assente a Jena. Hegel giunge a identifi care la Ewigkeit con il concetto del tempo, con il tempo in quanto tale, e non con la sua negazione astratta.

IV. Evidenziati i motivi per cui la Hegel-Renaissance appare dal punto di vista metodologico ormai largamente superata, si tratta di metterne in luce il valore che essa continua a possedere per l’odierna Hegel-Forschung. Anzitutto il suo merito è quello di aver restituito cittadinanza fi losofi ca al pensiero hegeliano in Francia, dopo che per tre decenni era rimasto ai margini del dibattito fi losofi co. Oltre al merito storico, la grandezza inter-pretativa della Hegel-Renaissance consiste nella sua capacità di sottopor-re il testo hegeliano alle domande provenienti dalle tensioni irrisolte del presente, dai suoi problemi insoluti, facendolo interagire con le correnti più profonde e radicali del panorama fi losofi co contemporaneo, anzitutto – come detto – con il pensiero di Heidegger. Dell’apertura al confronto con il pensiero heideggeriano non bisogna cogliere solo i limiti ma anche le potenzialità, perché se oggi la letteratura hegeliana ha prodotto contributi di altissimo livello sul tema del tempo in Hegel è proprio non chiudendosi nel proprio angusto recinto specialistico. Ed è proprio questa la lezione che si può e si deve trarre oggi da quella appassionante stagione interpretati-va, che ha segnato profondamente la storia della fi losofi a del Novecento: la disponibilità a far dialogare il testo di un grande classico del pensiero occidentale con esperienze apparentemente difformi. Insomma la Hegel-Renaissance del secolo scorso ci insegna il principio ermeneutico secondo cui le grandi opere del pensiero fi losofi co non possiedono un senso uni-voco e un assetto consolidato una volta per tutte, non si presentano nella forma rigida del dato integralmente compiuto, defi nito, concluso a prescin-dere dai bisogni del presente e del futuro, ma rivelano inesauribili livelli di profondità, emergenti e attingibili in ragione proporzionale alla capacità dell’interprete di provocare il testo con domande autentiche e originarie, di disporsi all’ascolto del suo contenuto di verità, di strappare alla latenza la sua dimensione idealmente contemporanea.

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SIMONA LANGELLA

JACQUES MARITAINE I DIRITTI DELLA PERSONA

1. L’uomo: individuo e persona

Per Jacques Maritain l’uomo è contemporaneamente individuo e perso-na: come individuo è una parte della natura e della società; come persona è un tutto superiore alla natura e alla società1. Quest’ultima nozione implica quella di totalità e di indipendenza; infatti, per quanto povera e oppressa possa essere, una persona è, come tale, un tutto e, in quanto persona, sussi-ste in maniera indipendente2. Essa, poi, ha dignità assoluta, in quanto è in diretta relazione con Dio, nel quale trova il suo compimento: per Maritain è questo il mistero stesso della natura umana, al quale il pensiero religioso si richiama quando afferma che l’uomo è imago Dei3.

D’altra parte, l’uomo tende per natura anche alla vita sociale e alla co-munione. Questa “socialità” propria dell’uomo si spiega non solamente a causa dei suoi bisogni e delle indigenze della natura umana, a motivo dei quali ciascuno necessita degli altri per la propria vita materiale, intellettua-le e morale, ma anche per la radicale generosità inscritta nell’essere stesso della persona e per l’attitudine propria dello spirito alla comunicazione dell’intelligenza e dell’amore, che richiede la relazione con altre persone4. Si hanno così due movimenti nella vita dell’uomo, che si intersecano e si condizionano: uno verticale, verso la realizzazione della persona in Dio, e

1 A tale proposito Maritain insiste sul fatto che la persona reclama la società, pur tendendo, in quanto agente spirituale e libero, a sorpassarla con un movimen-to ascensionale. In altri termini, la persona umana trascende lo Stato, in quanto l’uomo ha un destino superiore al tempo. Cfr. J. Maritain, Les droits de l’homme et la loi naturelle, in Jacques et Raïssa Maritain, Oeuvres Complètes, vol. VII, Éditions Universitaires Fribourg Suisse - Éditions Saint-Paul Paris, Parigi 1988, pp. 666-670 (si ricorda che quest’opera uscì nel 1942 a New York e fu pubblicata nuovamente in Francia nel 1947).

2 Cfr. J. Maritain, Les droits de l’homme et la loi naturelle, p. 621.3 Cfr. ivi, pp. 621-622.4 Cfr. ivi, p. 622.

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uno orizzontale, verso la realizzazione della persona nella società. Ora, se, per Maritain, la persona è un tutto, e non un tutto chiuso, bensì «un tout ouvert»5, anche la società si presenta come un tutto, in cui le parti, a loro volta, sono ciascuna un tutto6.

Ciò signifi ca che, per Maritain, il bene comune della società non è né la semplice collezione dei beni privati, né il bene proprio di un tutto che sacri-fi ca a sé le parti; piuttosto esso è la buona vita umana della moltitudine. In altri termini, il bene comune della società è la comunione nel vivere bene, che si raggiunge attraverso lo sviluppo della dimensione morale e razionale dell’uomo7. L’essere umano, dunque, trova se stesso subordinandosi intera-mente al bene comune della società e questa, a sua volta, persegue il suo fi ne servendo l’uomo8. In particolare, per quanto riguarda la rifl essione sui diritti umani, queste due dimensioni saranno entrambe indagate dal fi losofo fran-cese in ragione del loro reciproco richiamarsi l’un l’altra9. Infatti, il compito principale della società consiste, per Maritain, nella liberazione dell’uomo

5 Ibidem.6 Cfr. F. Botturi, Il contributo del personalismo maritainiano nell’attuale dibattito

etico-politico, in Jacques Maritain, Rifl essioni su una fortuna, a cura di L. Malusa e A. Campodonico, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 119-126.

7 Cfr. Maritain, Les droits de l’homme e la loi naturelle, p. 624.8 Cfr. ivi, p. 628 e p. 631.9 La rifl essione sui diritti dell’uomo e sulla loro fondazione fi losofi ca a partire dal

diritto naturale è una costante del pensiero maritainiano. A tale proposito cfr. an-che Nove lezioni sulla legge naturale, a cura di F. Viola, trad. it., Jaca Book, Mi-lano 1985. Questo volume contiene la trascrizione postuma dei testi raccolti dagli uditori che assistettero al ciclo di lezioni che Maritain tenne nell’agosto del 1950 all’Eau-Vive di Soisy. Successivamente, sulla base degli appunti personali del fi -losofo francese ritrovati negli archivi di Kolbsheim, Georges Brazzola, con l’aiuto di Maurice Hany, ricostruì queste lezioni per le Oeuvres Complètes, integrandole con l’aggiunta di una decima lezione -Le Décalogue -, la quale, tuttavia, si ignora se fu realmente pronunciata nel 1950 a Soisy. Inoltre, cfr. Man and the State, University of Chicago Press, Chicago 1951, che raccoglie sei conferenze tenute dal fi losofo a Chicago nel 1949. La traduzione in francese, accuratamente rivista da Maritain, apparve nel 1953 per la prima volta nella Bibliotèque de la Science Politique col titolo: L’Homme et le État. Si ricorda, infi ne, il volume Autour de la nouvelle dèclaration universelle des Droits de l’homme, éd. du Sagittaire, Pa-ris 1949. Il tomo uscì il medesimo anno anche in lingua inglese: Human Rights: Comments and Interpretations, Columbia University Press, New York 1949 (trad. it. I diritti dell’uomo, Edizioni di Comunità, Milano 1952). Esso è il risultato di un’inchiesta fatta dall’UNESCO per individuare le ragioni che potevano giustifi care una Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, e raccoglie – oltre ad un’In-troduzione e a un contributo dello stesso Maritain Sur la philosophie des droits de l’homme – le rifl essioni di diversi fi losofi e intellettuali dei Paesi membri dell’ONU.

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dai condizionamenti fi sici e sociali in vista della sua piena libertà personale, poiché l’uomo ha uno scopo che trascende la stessa comunità politica10. Più precisamente, esso si realizza nel liberare l’uomo dagli asservimenti materia-li, economici, politici, affi nché ciascuno mediante un’opera comune di civi-lizzazione e cultura possa manifestare pienamente il suo essere persona 11.

2. Il diritto naturale

Secondo Maritain, per trattare in maniera fi losofi ca la questione dei di-ritti umani è necessario esaminare anteriormente la questione del diritto naturale. Vi sono, infatti, persone che reputano che il diritto naturale sia un’invenzione dell’Indipendenza americana e della Rivoluzione francese. Esse s’agganciano ad una falsa idea del diritto naturale – un fantasma usci-to da qualche cattivo manuale –, la quale, in realtà, è un’eredità del pen-siero cristiano ed ancor prima di quello classico. Infatti, «elle ne remonte pas à la philosophie du XVIIIe siècle, qui l’a plus ou moins déformée, mais à Grotius, et avant lui à François Suarez et à François de Vitoria; et plus loin à saint Thomas d’Aquin; et plus loin à saint Augustin et aux Pères de l’Église, et à saint Paul; et plus loin encore à Cicéron, aux Stoïciens, aux grands moralistes de l’antiquité, et à ses grands poètes, à Sophocle en par-ticulier. Antigone est l’héroïne éternelle du droit naturel, que les Anciens appelaient la loi non écrite»12.

Per il pensatore francese, l’uomo, avendo una natura, ha anche dei fi ni che rispondono alla sua costituzione naturale e che sono gli stessi per tutti. Ma, poiché l’uomo è dotato di intelligenza ed è in grado di determinare a se stesso i propri fi ni, deve autonomamente accordare se medesimo ai fi ni necessariamente voluti dalla sua natura13. Così, per virtù stessa della natura, vi è «un ordre ou une disposition que la raison humaine peut dé-couvrir et selon laquelle la volonté humaine doit agir pour s’accorder aux fi ns nécessaires de l’être humain»14. È grazie a questa conoscenza – sottoli-nea Maritain – che Antigone, eterna eroina del diritto naturale, invoca con

10 Cfr. Maritain, Les droits de l’homme et la loi naturelle, p. 629. 11 «La personne humaine en tant qu’individu est pour le corps politique, et le corps

politique est pour la personne humaine en tant que personne. Mais l’homme n’est à aucun titre pour le État. L’État est pour l’homme». J. Maritain, L’Homme et le État, in Jacques et Raïssa Maritain, Oeuvres Complètes, vol. IX, 1990, p. 495.

12 Maritain, Les droits de l’homme et la loi naturelle, p. 657.13 Cfr. Ivi, p. 658.14 Ibidem.

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forza una legge non scritta, della quale si ignora quando sia apparsa15. E sebbene, rileva il fi losofo, la credenza verso tale legge si presenti più forte e irremovibile in coloro che credono in Dio, tuttavia, è suffi ciente credere alla natura umana e alla libertà dell’essere umano per sapere che essa è qualche cosa di reale nell’ordine morale, così come le leggi della crescita e dell’invecchiamento lo sono nell’ordine fi sico16.

Ma c’è di più. La legge naturale deriva dalla legge eterna, che è la stessa saggezza creatrice: l’uomo, pertanto, è inscritto in virtù della legge naturale nello stesso ordine della saggezza creatrice. Tuttavia, nota il fi losofo fran-cese, la legge e la conoscenza della legge sono due cose differenti17. Ed è per dimenticanza di questa distinzione che molte legittime perplessità sono sorte nei confronti di tale legge. Infatti, – si dice – essa è scritta nel cuo-re dell’uomo, sebbene nelle sue profondità più nascoste18. Tale linguaggio metaforico, utilizzato per rappresentare il “luogo naturale” della legge non scritta, ha spinto a rappresentarla come un codice interamente presente nella coscienza di ciascuno e che ognuno non deve che “svolgere” per averne un’eguale conoscenza19. In realtà, la sola ed unica conoscenza pratica che tutti gli uomini hanno naturalmente e infallibilmente in comune è che biso-gna fare il bene ed evitare il male. È questo il preambolo e il principio della legge naturale, ma non è la legge stessa. In altri termini, la legge naturale «est l’ensemble des choses à faire et à ne pas faire qui suivent de là d’une manière nécessaire et du seul fait que l’homme est homme, et l’absence de toute autre considération»20. E siccome la sua conoscenza avviene per diversi gradi, così nella sua determinazione possono avvenire errori, ma ciò dimostra soltanto che la ragione umana può sbagliare e che innumerevoli accidenti possono corrompere il giudizio dell’uomo. Tali errori non provano nulla contro la legge naturale, non più di quanto un errore di addizione pro-va qualcosa contro l’aritmetica21. La conoscenza che l’uomo ha della legge naturale aumenta a poco a poco con i progressi della coscienza morale22.

15 Cfr. Sofocle, Antigone, in Tragedie e frammenti di Sofocle, a cura di G. Paduano, vol. I, UTET, Torino 1992, pp. 284-285.

16 Cfr. Maritain, Les droits de l’homme et la loi naturelle, p. 658.17 Cfr. ibidem.18 «Dando leges meas in mente eorum et in corde eorum superscribam eas». Eb 8,

10.19 Cfr. Maritain, Les droits de l’homme et la loi naturelle, p. 659.20 Ibidem.21 Cfr. ibidem.22 Come suggerisce Viola, i principi della legge naturale devono essere concepiti non

secondo il modello di un codice immutabile di contenuti giuridici scritto nel cielo, ma come una continua e inesauribile ricerca della ragione umana «sempre aperta

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Tale conoscenza, infatti, dapprima latente nei riti e nelle mitologie, si è dif-ferenziata tardivamente, passando per più forme e gradi diversi23. Dunque, secondo il fi losofo francese, la conoscenza che la coscienza morale dell’uo-mo ha di questa legge è senza dubbio ancora imperfetta ed è molto probabile che essa si svilupperà e s’affi nerà fi nché dura l’umanità24.

3. Legge naturale e diritti umani

La legge naturale non prescrive soltanto cose da fare e da non fare, ma riconosce anche dei diritti legati innanzi tutto alla natura stessa dell’uomo. L’essere umano ha così dei diritti per il fatto stesso di essere una persona25. In altri termini, l’essere umano è soggetto di diritto. L’uomo, infatti, signore di se stesso e dei suoi atti, non è soltanto un mezzo, ma un fi ne in se stesso, che deve essere trattato come tale. Ora, se l’uomo è obbligato moralmente a compiere il suo destino, ha anche diritto a ciò che è necessario per assol-vere il suo obbligo. D’altro canto, Dio stesso, pur non avendo obbligazio-ni morali verso le creature ed avendo diritto sovrano su di esse, deve a se stesso di dar loro ciò che è richiesto dalla loro natura. La legge naturale, pertanto, prescrive i fondamentali doveri dell’uomo, così come indica alcu-ni diritti umani inalienabili. Per Maritain, infatti, fondare i diritti soggettivi

per quanto riguarda l’identifi cazione dei princìpi primi e sempre controvertibile per quanto riguarda le conclusioni ultime». F. Viola, Diritti umani e Giusnaturalismo contemporaneo, in Genesi, Sviluppi e prospettive dei diritti umani in Europa e nel Mediterraneo, Atti del Convegno, 26-28 ottobre 2004, a cura di S. Langella, Guida, Napoli 2006 («Civiltà del Mediterraneo», Dicembre 2005-Giugno 2006), p. 275.

23 Nel suo scritto Le Décalogue, Maritain identifi ca nel codice babilonese di Ham-murabi la prima testimonianza di uno spontaneo affi orare alla coscienza della legge naturale. Cfr. Maritain, Le Décalogue (le contenu de la loi naturelle. Di-scussion sur le Décalogue), in Jacques et Raïssa Maritain, Oeuvres Complètes, vol. XVI, 1999, p. 905.

24 Cfr. Maritain, Les droits de l’homme et la loi naturelle, p. 660.25 Per Jacques Maritain, una giustifi cazione fi losofi ca dei diritti umani presuppone

un’adeguata antropologia, che richiami al valore assoluto della dignità della per-sona umana. Senza il suo previo riconoscimento, infatti, i diritti umani diventano astratte proposizioni giuridiche destinate ad infrangersi contro i soprusi di una politica intesa come lotta per il potere. È solo attraverso una metafi sica della per-sona che si può assicurare il rispetto autentico -e non solo verbale o strumentale- dei diritti umani. Il fi losofo francese reputa, infatti, che una fi losofi a positivista o idealista o materialista è impotente a stabilire l’esistenza di diritti naturalmente posseduti dall’essere umano, anteriori e superiori alla legislazione scritta e agli accordi fra i governi. Cfr. J. Maritain, Sur la philosophie des droits de l’homme, in Jacques et Raïssa Maritain, Oeuvres Complètes, vol. IX, p. 1086; e anche Ma-ritain, L’Homme et le État, pp. 592-593.

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sulla pretesa che l’uomo non è sottomesso ad alcuna legge, se non a quella della propria volontà e della propria libertà, porta alla stessa dissipazione dei diritti dell’uomo che vengono concepiti come infi niti, poiché sfuggono ad ogni misura oggettiva26. In altri termini, come ha rilevato Brian Tierney, per il fi losofo francese la nozione di obbligazione morale e la nozione di diritto sono correlative27. Se, infatti, si dimentica questa correlatività la guerra di un diritto contro l’altro diventa inevitabile con la conseguente perdita di fi ducia nell’idea stessa dell’esistenza di diritti soggettivi28.

4. L’ordito del diritto naturale

Il diritto naturale concerne i diritti e i doveri che derivano dal primo prin-cipio –bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandum- in ma-niera necessaria e, dunque, sciolti da ogni altra considerazione. Essi sono in sé -o nella natura delle cose- universali e invariabili ma, come già rilevato, non nella conoscenza che l’uomo ha di essi. A sua volta, il diritto delle genti è l’intermediario fra la legge naturale e la legge positiva. Esso concerne, così come il diritto naturale, i diritti e i doveri che derivano dal primo prin-cipio in maniera necessaria, ma prende anche in considerazione certe con-dizioni di fatto come, ad esempio, le relazioni fra i popoli. Tuttavia, esso è

26 Cfr. Maritain, Les droits de l’homme et la loi naturelle, p. 662.27 Brian Tierney mette in luce come i diritti naturali e il diritto naturale, sebbene non

siano derivati gli uni dall’altro, derivino dalla stessa visione della persona umana e, pertanto, debbano essere pensati come correlativi. Mostrando come le idee di lex naturalis, ius naturale e diritti soggettivi possano essere pensate come corre-lative, Tierney ha confutato l’interpretazione storiografi ca che, contrapponendole, in un certo qual modo, priva i diritti soggettivi di un qualsiasi riferimento a un ordine di giustizia oggettivo, per farne mere fi nzioni. Cfr. B. Tierney, L’idea dei diritti naturali. Diritti naturali, legge naturale e diritto canonico 1150-1625, trad. it., il Mulino, Bologna 2002, pp. 19-20.

28 Circa la correlatività fra questi due concetti, Maritain ha argomentato che se è vero che i diritti dell’uomo sono basati sulla legge naturale, che è la fonte prima sia dei diritti che dei doveri, appare chiaro che una dichiarazione dei diritti dovrebbe di norma essere completata da una dichiarazione degli obblighi e delle responsabilità dell’uomo: «s’il est vrai que les droits de l’homme ont leur fondement dans la loi naturelle, laquelle est à la fois source de devoirs et de droits, – ces deux notions étant du reste corrélatives, – il apparaît qu’une déclaration des droits devrait nor-malement se compléter par une déclaration des obligations et responsabilités de l’homme envers les communautés dont il fait partie, notamment envers la société familiale, la société civile et la communauté internationale». Cfr. J. Maritain, Sur la philosophie des droits de l’homme, p. 1088.

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universale, almeno in quanto tali condizioni di fatto sono dei dati universali di ogni civiltà29. Il diritto positivo, poi, concerne anch’esso i diritti e i do-veri che derivano dal primo principio, ma in maniera contingente, in ragio-ne delle determinazioni poste dalla ragione e dalla volontà dell’uomo che stabilisce le leggi e i costumi di una particolare comunità. In altri termini, le regolamentazioni del diritto positivo perfezionano tutto ciò che la legge naturale lascia indeterminato30.

Il diritto delle genti e il diritto positivo hanno forma di legge e si impongo-no alla coscienza, tuttavia, solo in virtù del diritto naturale. Essi sono infatti un’estensione dello ius naturale, poiché è la stessa legge naturale a far sì che ciò che essa lascia indeterminato venga ulteriormente determinato, sia come un diritto o un dovere esistente per tutti gli uomini in ragione di un determi-nato stato di fatto, sia come un diritto o un dovere esistente per alcuni a causa di regole stabilite dall’uomo inerenti alla comunità di cui essi sono parte31. Vi è, pertanto, un dinamismo intrinseco alla stessa legge naturale, che fa sì che essa si prolunghi nella legge umana col fi ne di renderla progressivamente più perfetta e più giusta nel campo delle determinazioni contingenti.

Ed è in virtù di questo dinamismo che i diritti umani prendono forma poli-tica e sociale nella comunità32. Ad esempio, il diritto dell’uomo all’esistenza, alla libertà personale e al perseguimento della perfezione della vita morale derivano tutti dal diritto naturale. Ugualmente il diritto alla proprietà privata dei beni materiali è radicato nel diritto naturale, sebbene le sue modalità par-ticolari siano determinate dalla legge positiva. Infatti, il diritto alla proprietà privata dei beni materiali si riferisce alla persona umana, poiché essa, sotto-posta ai vincoli della materia e senza protezione naturale della sua esistenza e della sua libertà, ha bisogno, per supplire a quella protezione che la natura non le fornisce, di poter acquistare e possedere. Tuttavia, rileva Maritain, l’uso della proprietà privata deve sempre essere fi nalizzato al bene comune, poiché la natura ha attribuito al genere umano in quanto tale i beni materiali. Il diritto alla proprietà privata dei beni materiali, dunque, si radica nel diritto naturale, sebbene le modalità particolari di esso siano determinate dalla legge positi-va33. Il diritto a perseguire la perfezione della vita umana morale e razionale, il diritto alla libertà di coscienza, il diritto all’integrità corporale sono tutti ugualmente diritti radicati nella stessa dignità della persona, agente spirituale e libero e con un destino da compiere in una dimensione superiore al tempo.

29 Cfr. Maritain, Les droits de l’homme et la loi naturelle, p. 664.30 Cfr. ibidem.31 Cfr. ibidem.32 Cfr. ibidem.33 Cfr. ivi, pp. 665-666.

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Per Maritain, la coscienza dei diritti della persona ha la sua origine nella concezione dell’uomo e del diritto naturale stabilito da secoli di fi losofi a cristiana. Il razionalismo, avendo fatto della legge naturale una rivelazione della ragione a se stessa – e non già un rifl esso della saggezza creatrice di Dio-, ha trasformato la legge naturale in un codice di giustizia assoluta e universale inscritto nella natura e decifrato dalla ragione come un insieme di teoremi geometrici o di evidenze speculative, privo di ogni dinamismo, dunque, cristallizzato e, pertanto, estraneo ad ogni progresso della coscien-za umana nel tempo34.

Per Maritain, è in nome di una sempre più perfetta conformità della legge umana alla legge naturale che la prima attraversa gradi sempre più elevati di giustizia e perfezione. Infatti, il diritto positivo esprime delle esi-genze che, a un livello più profondo, sono quelle della legge naturale stes-sa. Gli stessi diritti politici, pertanto, che derivano direttamente dalla legge positiva, dipendono indirettamente dal diritto naturale. L’uomo, infatti, non soltanto è naturalmente portato a vivere in società, ma domanda natural-mente anche di partecipare attivamente alla vita della comunità politica35.

Alla luce di ciò, Maritain interpreta l’affermazione aristotelica secondo cui l’uomo è un animale politico come il presupposto sul quale riposano gli stessi diritti politici, ad iniziare dal diritto al suffragio universale, per il quale ogni persona umana adulta ha in quanto tale il diritto di pronunciarsi sugli affari della comunità e di esprimere il suo voto nell’elezione dei rap-presentanti del popolo e dei dirigenti dello Stato36. Per Maritain, i diritti della persona civica sono la radice della vera democrazia politica37. Questi diritti della persona civica sono, d’altra parte, gli stessi diritti del popolo. Il diritto del popolo a darsi la costituzione e la forma di governo di sua scelta è il primo e fondamentale dei diritti politici, sottoposto unicamente alle esigenze della legge naturale38.

34 Cfr. ivi, pp. 670-671.35 Cfr. ivi, pp. 672-673.36 È su questo postulato della natura umana che riposano le libertà politiche e i diritti

politici, specialmente il diritto di suffragio. A tale proposito, Maritain rileva che a volte può apparire più facile rinunciare a partecipare attivamente alla vita politica. Tale rinuncia, tuttavia, signifi ca abbandonare un privilegio che conviene alla stes-sa natura dell’uomo, «un de ces privilèges qui font en un sens la vie plus dure et apportent avec eux plus ou moins de labeur, de tension et de souffrance, mais qui correspondent à l’humaine dignité». Ivi, p. 673.

37 Cfr. ivi, p. 675.38 A tale proposito, Maritain sottolinea che, quando la persona è impegnata in un

gruppo, i diritti che le sono riconosciuti sono nello stesso tempo anche i diritti del gruppo. Cfr. ibidem.

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Jacques Maritain e i diritti della persona umana di S. Langella 71

Vi sono, poi, altri diritti della persona civica che possono essere riassunti nelle cosiddette tre uguaglianze: uguaglianza politica, che assicura ad ogni cittadino la sua sicurezza e le sue libertà nello Stato; uguaglianza di tut-ti dinanzi alla legge, la quale implica un potere giudiziario indipendente; ed infi ne uguale possibilità d’ammissione di tutti i cittadini agli impieghi pubblici e libero accesso per tutti alle diverse professioni, senza discri-minazione sociale e razziale39. In altri termini, per Maritain i diritti della persona civica sono il privilegio di ogni uomo, cittadino o straniero, che, per il solo fatto di risiedere in un paese rispettoso del diritto delle genti, è chiamato a fare parte della vita civile40. Egli insiste particolarmente su tali diritti civili, poiché, come egli stesso avverte, sono l’antidoto effi cace contro ogni forma di totalitarismo e paternalismo, fertile humus per ogni vera democrazia politica.

Nella sua analisi, il fi losofo non trascura poi di puntualizzare che ciò che si chiama comunemente libertà di espressione andrebbe meglio designata come diritto alla libertà di ricerca e di discussione. Tale libertà, sebbene appartenga in primis alla persona come tale, ha un valore propriamente politico, poiché essa è necessaria ad accrescere e a diffondere il vero e il bene nella comunità. La libertà di ricerca è, infatti, un diritto natura-le fondamentale, in quanto la ricerca della verità è inscritta nella natura stessa dell’uomo41. Tuttavia, nonostante la libertà di propagare idee che si credono vere risponda a un’aspirazione della natura, essa è sottoposta alle leggi del diritto positivo, poiché non è vero che ogni pensiero come tale, e per il solo fatto di essere frutto di un’intelligenza umana, ha il diritto di essere divulgato nella comunità politica. Quest’ultima, infatti, ha il diritto d’opporsi alla diffusione della menzogna, che corrode i fondamenti della vita comune42. Maritain puntualizza, inoltre, che la censura e le misure di

39 Cfr. ibidem.40 Cfr. ivi, p. 676.41 «La liberté de recherche est un droit naturel fondamental, car la nature même de

l’homme est de chercher la verité. La liberté de propager les idées qu’on croit vraies répond à une aspiration de la nature». Ibidem. Si ricorda che, per Tommaso, la legge naturale è quella regolamentazione degli atti umani che la ragione ricava direttamente dalla natura umana, esaminando ciò per cui l’uomo ha un’inclinazione naturale e che, di conseguenza, afferra come buono e, dunque, da tradurre in azione. Secondo l’Aquinate (cfr. Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 2), ci sono tre livelli di inclinazioni naturali: quelle che l’uomo ha in comune con tutti gli esseri esistenti; quelle che ha in comune con gli animali; quelle sue specifi che. Conoscere la verità o fuggire l’ignoranza corrispondono appunto al terzo tipo di inclinazione, propria-mente specifi ca dell’uomo e conforme alla natura della ragione.

42 Cfr. Maritain, Les droits de l’homme et la loi naturelle, pp. 676-677.

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polizia sono il mezzo peggiore per assicurare un’opposizione valida ad ogni forma di menzogna, tuttavia reputa che una società democratica non sia necessariamente una società disarmata e che essa debba saper rispon-dere con le garanzie istituzionali della giustizia e del diritto agli attacchi di coloro che vogliono distruggere i fondamenti del vivere civile, che si fonda sulla libertà, sulla cooperazione e sul mutuo rispetto43. La società, dunque, per farsi garante di tali diritti deve essere organica e pluralistica, fondata non sulla fecondità del denaro e sui segni del possesso, ma sul valore e sulla fi nalità umana del lavoro44.

In linea generale, i diritti che una nuova èra di civiltà dovrà riconoscere e defi nire sono, per Maritain, i diritti della persona civica, ossia, i diritti dell’essere umano nelle sue funzioni sociali, economiche e culturali, in quanto il progresso dell’organizzazione politica e il progresso della co-scienza sono due movimenti simultanei45. Tutti, infatti, in quanto eredi del bene comune, hanno parte, gratuitamente, ai beni materiali e spirituali della civiltà nella misura in cui la comunità può darne. L’uso gratuito di tali beni deve aiutare tutte le persone che la costituiscono a liberarsi dalle necessità della materia e a progredire nella vita della ragione e della virtù. Il contra-stato progresso dell’umanità va nel senso della emancipazione e non sol-tanto nell’ordine politico, ma anche nell’ordine economico e sociale: ciò permette, pertanto, di supporre il passaggio a una coscienza migliore della dignità della persona umana in tutti e in ciascuno di noi.

43 Cfr. ivi, p. 677.44 Cfr. ibidem.45 Cfr. ivi, p. 678.

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MATTEO ZOPPI

PROSPETTIVE STORIOGRAFICHE NELL’OPERA FILOSOFICO-TEOLOGICA DI HENRI DE LUBAC:

CATTOLICITÀ, PARADOSSO E MISTERO

Nella pur vasta bibliografi a dedicata allo studio dell’opera del gesuita francese Henri Marie-Joseph Sonier de Lubac, nato a Cambrai il 20 feb-braio del 1896 e morto a Parigi il 4 settembre 1991, solo un contributo si occupa espressamente dello studio della sua intensa attività di storiografo. Si tratta del breve articolo di Mario Fois, intitolato Il Pico della Mirandola di Henri de Lubac. Un modello di metodo storiografi co e pubblicato in La Civiltà Cattolica del 1977, appena pochi anni prima che il religioso fosse creato cardinale da Giovanni Paolo II, nel concistoro del 2 febbraio 1983. Il saggio, lungi dal voler fornire una panoramica a tutto tondo della storio-grafi a delubachiana, offre nondimeno un signifi cativo esempio del tipo di approccio e delle metodologie seguiti dal gesuita francese in uno dei tanti frammenti della sua vasta produzione.

In poche pagine, infatti, Fois presenta e investiga l’originale opera di rilettura storiografi ca riservata da de Lubac al pensiero e all’opera di uno degli esponenti di spicco dell’Umanesimo, per riconoscere e così valoriz-zare, per la prima volta, l’importante apporto che fu dato dal cristianesimo al loro sviluppo. Secondo Fois tale aspetto è stato fi nora ignorato per il fat-to che «più di uno storico, del secolo scorso come di questo, affrontò l’in-terpretazione del pensiero religioso (cioè cristiano) di un grande umanista rinascimentale senza una suffi ciente preparazione scritturistica, patristica e teologica, senza una informazione precisa sui problemi teologici dibat-tuti dall’autore preso in esame e sul quadro delle polemiche vive, dentro il quale gli scritti analizzati sviluppano dialetticamente istanze teologiche o fi losofi co-teologiche oltre che umanistiche; senza tener presente, infi ne, la fondamentale e imprescindibile distinzione tra la sfera della Fede o del dogma e quella della sistemazione teologica o dei problemi ancora liberi per la ricerca e la discussione. Più di una volta viene confusa la speculazio-ne teologica scolastica con la Fede cattolica»1.

1 M. Fois, Il Pico della Mirandola di Henri de Lubac, «La Civiltà Cattolica», 128 (1977), vol. 4, p. 574 [pp. 574-580].

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A questi limiti culturali, che hanno reso vana fi nora un’adeguata rilettura storiografi ca dell’Umanesimo, vanno aggiunte anche le indebite forzature che sorgono dalle letture unilaterali e parziali, che sul pensiero religioso di Pico e degli altri umanisti in genere avanzano giudizi e conclusioni non conformi né al dictatus operis né alla mens auctoris: «avanzare poi giu-dizi e conclusioni sul pensiero religioso dell’umanista studiato in base a qualche frase avulsa dal contesto anche immediato, non tenendo presente l’impostazione dialettica dello scritto, specialmente se questo è dialogico, e il pensiero fondamentale espresso sia nello scritto stesso in questione sia nelle altre opere del medesimo autore, signifi ca presentare al lettore una esegesi fantasiosa e, più di una volta, la contraffazione dell’autentico pensiero dell’umanista»2.

Secondo Fois, appunto il ponderoso volume di de Lubac su Pico della Mirandola, pubblicato nel 19743, presenta la prima lettura dottrinalmente adeguata e metodologicamente corretta del suo pensiero, realizzando così un vero modello di Geistesgeschichte o di storia culturale, un testo indiriz-zato, anzitutto, a colmare una lacuna della storiografi a culturale francese, ma anche molto utile al lettore italiano per integrare con aspetti nuovi la monografi a italiana di riferimento su questo tema, il volume di Giovanni di Napoli, Giovanni Pico della Mirandola e la problematica dottrinale del suo tempo (Desclée et Cie, Roma 1965)4.

Come rileva Fois, de Lubac nel libro, anzitutto, espone e sottopone ad analisi critica le interpretazioni e i giudizi maturati sul tema dal secolo XVIII fi no ai suoi giorni, per poi sviluppare il suo studio diretto dell’autore e della sua opera, che suddivide in tre parti. Nella prima di queste, egli esa-mina i tre diversi contesti culturali e religiosi di riferimento della rifl essio-ne dell’umanista emiliano, che assieme permettono di ben comprendere, nelle sue diverse sfaccettature, la dottrina della libertas o della dignitas hominis: quello dell’opera complessiva di Pico, quello della cultura a lui contemporanea (sia umanistica sia averroistica) e quello, infi ne, della tra-dizione cristiana. Appunto questo terzo quadro culturale si rivela essere centrale nella ricomprensione delubachiana della genesi e degli sviluppi del pensiero di Pico, di cui per la prima volta sono adeguatamente e pun-tualmente segnalati i legami con la tradizione biblica, patristica e, perfi no,

2 Ibidem.3 H. de Lubac, Pic de la Mirandole, Éd. Aubier Montaigne, Paris 1974 (trad. it.:

Pico della Mirandola. L’alba incompiuta del Rinascimento, a cura di E. Guerrie-ro, Jaca Book, Milano 1977).

4 M. Fois, Il Pico della Mirandola di Henri de Lubac, pp. 575-576.

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medievale5. In tal modo, conclude Fois, «de Lubac vuol provare unicamen-te a non pochi storici distratti o impreparati che la tendenza interpretativa degli autori pagani del giovane Umanista non era nuova nel Cristianesimo, ma antica quanto i primi tentativi e le prime esposizioni apologetiche della verità cristiana»6.

Lo stesso criterio è adottato nella seconda parte del libro, intitolata Me-tamorfosi, dedicata allo studio dei concetti e dei simboli utilizzati da Pico per descrivere la dignitas hominis e la sua visione antropocentrica. Pure di quest’ultimo peculiare aspetto della sua rifl essione de Lubac non manca di produrre la densa rete di legami con la tradizione cristiana, a lui precedente e successiva; di essa egli cerca di far vedere, per così dire, la persistente attualità storica, in cui antropocentrismo e teocentrismo possono così ar-monicamente sussistere l’uno nell’altro. Dal momento che vi può essere unione tra religione e sapienza umana, come si può riscontrare fi n dal cri-stianesimo dei primi secoli, sono numerosi gli scrittori cristiani precedenti a Pico che presentano la stessa visione dell’uomo7.

Nella terza parte, intitolata Pace, è studiata l’opera culturale pichiana, ispirata dal pensiero di Raimondo Lullo, a favore della concordia tra cri-stiani, ebrei e musulmani. Essa può avvenire solo per gradi, anzitutto a livello fi losofi co, mediante una convergenza delle diverse scuole (plato-nica e aristotelica) verso l’unica verità, che per Pico si identifi ca con la teologia, a ribadire ancora una volta la portata fortemente teologica della sua rifl essione sull’uomo. Può così aver luogo la pace religiosa, che per Pico non consiste nello stabilire una sorta di denominatore comune tra le diverse fedi, come avverrà poi nelle rifl essioni dei secoli successivi circa la religione naturale, né mediante il vano tentativo di conciliare in un’esi-stenza impossibile doppie verità, né tanto meno mediante proposte ireniche di stampo sincretistico o relativistico, in cui si fondono i diversi aspetti dell’una o dell’altra fede o se ne segue indifferentemente il credo, al di fuori di una consapevole ricerca della verità. Annota Fois: «il fattore uni-fi cante o ‘il principio di discernimento e di sintesi’ per costruire una reale unità religiosa degli uomini è Cristo, ‘la stessa verità’. L’Autore non vede la proposta pichiana inserita nella corrente naturalistico-razionalista che va

5 Ivi, pp. 576-577. Cfr. anche E. Salmann, Henri de Lubac, stile sapienziale e para-dosso teologico, «Gregorianum», 78 (1997), pp. 614-615 [pp. 611-625].

6 M. Fois, Il Pico della Mirandola di Henri de Lubac, p. 577.7 Cfr. ivi, p. 578. De Lubac fa riferimento ai Padri della Chiesa, specialmente greci,

ad autori medievali e rinascimentali, ai santi della Riforma cattolica (Ignazio di Loyola, Giovanni della Croce) e ad autori contemporanei come Claudel e von Balthasar.

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dall’averroismo agli illuministi del secolo XVIII, ma piuttosto in quella che va dal Cusano a Pascal e passa per Erasmo e Luis Vivès. L’unità proposta non è irenismo ad ogni costo. Essa comporta anzitutto lo sgombero degli errori e delle deviazioni opposte alla fede e alla prassi della Chiesa»8. Al di là della già esposta novità metodologica propria di questa rilettura occorre anche osservare che lo studio di de Lubac non si è limitato ad instaurare un confronto soltanto tra Pico e la tradizione a lui precedente, della quale peraltro sono considerati anche quegli scrittori a cui egli non fa mai riferi-mento; esso instaura un confronto anche con la tradizione cristiana poste-riore, nell’intento di rivedere defi nitivamente il giudizio storiografi co che considerava l’umanista emiliano uno dei padri della concezione moderna dell’uomo, considerato autonomo da Dio, in cui dignità e libertà fi nirebbe-ro col denotare un “titanismo pagano” o un “pelagianismo di ritorno”, con la libertà di autodeterminarsi nella propria essenza9.

Il contributo di Fois permette di fi ssare alcune costanti che costituiscono una sorta di Leitmotiv della storiografi a di de Lubac: l’attenzione alla storia, sia in senso diacronico che sincronico, e il confronto con la ricchezza degli scritti della tradizione cristiana, lo studio problematizzante delle tematiche che presentano collegamenti con il pensiero contemporaneo, il confronto con la modernità, in particolare l’interesse per l’antropologia e per l’ateismo. Eppure, occorre sottolineare che nessuna delle opere di de Lubac intendeva confi gurarsi in prima istanza come contributo storiografi co, giacché con esse lo studioso francese mirava ad offrire nuovi apporti alla teologia contempo-ranea, considerandosi, per giunta, “un teologo d’occasione”. I suoi lavori, infatti, non furono programmati in ordine ad un piano di studio organica-mente preordinato10. Eppure, innovativamente rispetto alla metodologia del-la ricerca teologica del suo tempo, la prospettiva storica si impone appunto quale aspetto qualifi cante dell’intera sua opera dottrinale. Scrive al riguar-do Antonio Russo: «sembra cosa ardua orientarsi nell’intera mole dei suoi scritti – in apparenza a carattere prevalentemente storico e pressoché tutti redatti a seguito di circostanze impreviste ed in ordine sparso e individuare un proprium speculativo. Tuttavia, nella sua rifl essione è possibile trovare la traccia di un sentiero che ne costituisce l’unità interna e lega, sin dagli inizi, l’intera sua produzione e la sua attività. Essa è l’intento di voler ristabilire il contatto tra la teologia cattolica e il pensiero contemporaneo, o perlomeno

8 Ivi, p. 579.9 Cfr. ivi, p. 580.10 Cfr. N. Ciola, Il recente pensiero di H. De Lubac, «Rassegna di teologia», 23

(1982), pp. 278-283 [pp. 277-293].

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di eliminare un ostacolo di base a questo contatto, per ritrovare per un’altra via le soluzioni della fi losofi a classica cristiana. Da qui la necessità di una ricostruzione del suo pensiero, calato nel suo contesto e messo in relazione con le più importanti vicende della sua vita»11.

Effettivamente l’attenzione alla storia è uno dei tratti salienti del rinno-vamento teologico sviluppatosi in Francia a partire dagli inizi del secolo scorso, che prese poi il nome dispregiativo di nouvelle théologie, binomio in cui “nuova” fi gura come sinonimo di rottura con la tradizione teologica neoscolastica, e per qualcuno, addirittura, sospetta di qualche infi ltrazione modernista. Erano grandi, infatti, le riserve e i sospetti che investirono le scuole teologiche francesi, a partire da fi ne Ottocento e, ancor più, in seguito alla condanna ecclesiastica di inizio Novecento di Alfred-Firmin Loisy, uno dei maggiori esponenti, appunto, del modernismo francese. Gli obiettivi pro-grammatici propri della nouvelle théologie, peraltro, erano estranei al movi-mento modernista; per quanto pure essa tentasse vie nuove di ricerca, prefe-rendo alla inveterata “teologia delle conclusioni”, giudicata eccessivamente deduttiva e concettualista, la “teologia del rinnovamento”. Tale sensibilità maturò all’interno della Facoltà teologica dei Gesuiti di Lyon-Fourvière (a cui vanno associati i nomi di Auguste Valensin, discepolo di Blondel, Victor Fontoynont, Pierre Teilhard de Chardin, Henri Bouillard, Jean Daniélou e, appunto, de Lubac) e del rinnovato Studium domenicano, che prese il nome di Le Saulchoir (a cui vanno associati i nomi di Marie-Dominique Chenu e Yves Congar). In un noto articolo del 1946, Jean Daniélou traccia le linee direttrici di questo rinnovamento teologico, che pur condannando il moder-nismo e facendo proprie le misure cautelative del Magistero, cercava nondi-meno nuove vie di apertura, individuate nei seguenti punti: 1. il ritorno alle fonti (Bibbia, padri della Chiesa, liturgia), considerate linfa vitale della fede, previe e non alternative rispetto al neotomismo e alla teologia scolastica; 2. il dialogo con il pensiero contemporaneo (dimensioni della storia e del sogget-to); 3. l’attenzione alla vita concreta12.

Appunto il legame del Cristianesimo con la storia fu l’interesse che animò de Lubac nella realizzazione della sua prima, grande opera: Cattolicismo,

11 A. Russo, Henri de Lubac e il rinnovamento della teologia. Verso una sintesi di nova et vetera, «Gregorianum», 83 (2002), p. 482 [pp. 481-505].

12 Cfr. J. Daniélou, Les orientations présentes de la pensée religieuse, «Études», (1946), vol. 249, pp. 6-14 [pp. 5-21]. Si vedano anche: R. Gibellini, La teologia del XX secolo (Biblioteca di teologia contemporanea, 69), Queriniana, Brescia 1996, pp. 173-183; A. Doni, La riscoperta delle fonti, in Storia della teologia. Da Vitus Pichler a Henri de Lubac, a cura di R. Fisichella, Edizioni Dehoniane, Bologna 1996, pp. 443-451 [pp. 443-471].

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signifi cativamente sottotitolata: Gli aspetti sociali del dogma. Tale espres-sione, per la sensibilità del neotomismo allora dominante, poteva senz’altro suonare come un ossimoro. Dogma e storia, ordine soprannaturale e ordine naturale, infatti, erano da esso rigorosamente scissi, nel solco delle interpre-tazioni del pensiero di Tommaso elaborate dalla neoscolastica dei secoli XV e XVI. Scrive Nicola Ciola al riguardo: «de Lubac superava a pié pari la teologia deduttivistica delle distinzioni infi nite, infl uenzata – è onesto rico-noscerlo – da un certo intellettualismo che aveva trovato spazio nel mondo culturale cattolico. Egli appariva un teologo asistematico, poco tomista, poco preoccupato di rispondere a certi problemi della teologia dell’epoca come il rapporto fede-ragione letto nella distinzione dei piani naturale-soprannatura-le, così come la neo-scolastica si studiava di risolverlo»13.

Secondo Ciola, tuttavia, non è semplicemente l’attenzione per la storia il fi l rouge che permette di ricomprendere in una sintesi organica l’opera di de Lubac, bensì la categoria di mistero, che assieme a quella di paradosso, costituisce il cuore della rivoluzione metodologica da lui maturata in seno alla teologia francese del Novecento, che ebbe tanta parte nella promo-zione e nella ricezione del rinnovamento dottrinale e pastorale proprio del Concilio Vaticano II, attuato nel tentativo di ripensare la fede, aprendosi al dialogo e al confronto con la modernità. Egli così superava una concezione concettualista e assiomatica del sapere teologico, cogliendo la dogmatica nel suo dinamismo storico e nel suo rapporto vitale con l’uomo concre-to14. Superava in tal modo i pregiudizi, invalsi nella teologia moderna, nei confronti della dimensione storica, che, al contrario, egli riconosce pro-pria del cristianesimo, «l’ubi consistam della sua struttura ontologica e del suo realizzarsi nel tempo»15: «Le ricerche di De Lubac hanno aiutato la teologia a liberarsi defi nitivamente dai retaggi di un certo illuminismo e razionalismo, che tendevano a far vedere il mistero come il limite o la mor-tifi cazione della ragione umana. Al contrario così come è nell’accezione biblica il μυστήριον richiama il disegno di Dio sull’umanità: il mistero è Dio stesso. Esso non è oggetto di nessuna scienza sperimentale, la sua profondità sfugge ai nostri sguardi, è intellegibile ma non comprensibile

13 N. Ciola, Il recente pensiero di H. De Lubac, p. 279.14 Cfr. Id., Il contributo di H. De Lubac alla teologia sistematica, «Lateranum», 61

(1995), p. 86 [pp. 79-106]. 15 Cfr. ibidem. Si veda, per questo aspetto, H. de Lubac, La rivelazione divina e il

senso dell’uomo: commento alle Costituzioni conciliari «Dei Verbum» e «Gau-dium et Spes», Jaca Book, Milano 1985 (edd. or.: La révélation divine, Éd. du Cerf, Paris 1968; ried. aumentata: Éd. du Cerf, Paris 1983; Athéisme et sens de l’homme, Éd. du Cerf, Paris 1968).

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in modo defi nitivo; il nostro spirito di fronte a esso rimane sempre ina-deguato. L’analogia è lo strumento per meglio comprenderlo al fi ne però di accoglierlo e accettarlo come la profondità chiaroscurale che spinge ad adorare e accogliere. Inoltre il mistero ci si presenta sempre sotto forma apparentemente contraddittoria, è paradosso. Agli occhi della ragione pare sempre opporsi, ma la sua grandezza consiste appunto in questo contrasto, in realtà solo apparente»16.

Si può osservare che, per questo aspetto, de Lubac si inserisce in quel vasto movimento, peraltro molto articolato al suo interno, della fi losofi a francese di fi ne Ottocento e di inizio Novecento, che reagisce al riduzioni-smo di stampo positivistico, tendente a ricondurre i saperi a quello proprio delle scienze empirico-sperimentali.

Queste considerazioni non sono altro che una succinta sintesi di quanto Ciola, in modo capillare, ha modo di esporre nella monografi a Paradosso e mistero in Henri De Lubac17. A questo approccio, di carattere speculati-vo, ma con sensibilità storica, se ne affi ancano anche altri più profi lati dal punto di vista storico18. Di rilievo per la nostra ricerca sono le conclusioni che Ciola, nel citato articolo, propone a riguardo del suo metodo teologico; esse forniscono al contempo una pista di approfondimento per comprende-re anche la peculiarità del relativo approccio storiografi co:

«‘Paradosso’ non si riferisce solo al linguaggio brillante, ma può anche benissimo essere visto come la ricchezza fontale dell’analogia che sa com-prendere il diverso nell’uno ed esprime l’uno nel diverso. Sa presentare la realtà non univocamente, ma ci popone l’et-et cattolico che si oppone alle tendenze tipicamente ereticali che mettono in luce una sola delle verità soprannaturali. Il paradosso non va contro la logica, ma la supera; non si confonde con la dialettica la quale è sintesi di opposti unifi cati. Il parados-so si burla dell’esclusione del ‘contro’ da parte del ‘pro’: esso fa simultane-amente parte dell’uno e dell’altro e fa perdere al ‘pro’ e al ‘contro’ la loro identità; se non fosse così scadrebbe nella volgare contraddizione»19.

In fondo, a ben vedere, con buona pace di un certo neotomismo, quello appunto a cui qui Ciola fa riferimento, il principio dell’et-et era seguito da Tommaso d’Aquino e dagli altri grandi maestri della Scolastica, come si può evincere dalla stessa struttura delle loro opere. La Summa theologiae di Tommaso, ad esempio, esposti i pro e i contra in riferimento alla quaestio

16 N. Ciola, Il recente pensiero di H. De Lubac, p. 280.17 Libreria Editrice della Pontifi cia Università Lateranense, Roma 1980.18 Cfr. A. Russo, Henri de Lubac, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1994;

I. Morali, Henri de Lubac, Morcelliana, Brescia 2002.19 N. Ciola, Il recente pensiero di H. De Lubac, pp. 280-281.

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posta, dopo il respondeo, che prende posizione, nella solutio obiectorum riesamina una per una le tesi apparentemente non seguite, riconoscendone sempre il valore di verità, ma in un senso diverso rispetto a quello prece-dentemente escluso.

Come si vede, Ciola di storiografi a non parla affatto, non essendo questo l’argomento della sua ricerca, nondimeno è indubbio che le sue rifl essioni contengono in nuce un suggerimento prezioso per la nostra indagine: il criterio appunto dell’et-et, che costituisce, peraltro, anche il presupposto dottrinale fondamentale dell’ermeneutica teologica delubachiana. Coglie chiaramente questo aspetto Rosino Gibellini quando, nell’esposizione del-la novità metodologica dell’opera di de Lubac, fa espressamente riferimen-to alla peculiarità della sua storiografi a:

«La cattolicità non è unilateralità, bensì concerto di voci: “La cattolicità perfetta è un concerto, le cui più diverse voci si completano e, in caso di bisogno si correggono vicendevolmente” [H. de Lubac, La preghiera di Padre Teilhard de Chardin (1964), p. 105]. È questo senso della cattolicità che porta de Lubac a studiare fi gure controverse della tradizione cristiana per ricuperarle, al di là di facili luoghi comuni, sommari e ingiusti – e, ancor prima, gretti –, all’ampiezza della cattolicità con un’attività di rivisitazione storiografi ca, che è una delle caratteristiche di de Lubac. Si devono citare, a questo proposito, l’esemplare studio Storia e spirito (1950) dedicato a Ori-gene, la puntigliosa analisi e l’appassionata difesa de Il pensiero religioso del padre Teilhard de Chardin (1962), il “grande libro” (L. Bouyer) su Pico della Mirandola (1970), oltre ad una costante attenzione per gli epistolari di Blondel. La cattolicità non si sottrae al confronto, e de Lubac lo pratica sia in direzione degli umanesimi moderni e contemporanei, al cui antitei-smo imputa, in Il dramma dell’umanesimo ateo (1944) – il suo bestseller, che secondo la bibliografi a del 1964, aveva raggiunto le 33mila copie –, di sfociare nell’antiumanesimo; sia – con un lavoro pioneristico – in direzio-ne delle religioni orientali, con Aspetti del Buddismo (I, 1951; II, 1956) e con Buddismo e Occidente (1952), dove il confronto con il cristianesimo è condotto soprattutto sui grandi temi della carità e della grazia»20.

Occorre precisare che questi tratti storiografi ci caratterizzano, oltre che gli scritti di de Lubac, anche la prestigiosa collana Sources chrétiennes, da lui fondata e diretta insieme a Jean Daniélou, per rendere disponibili in traduzione francese, con testo originale a fronte, gli scritti della patristi-ca. Il primo volume, contenente La vita di Mosé di Gregorio di Nissa, fu pubblicato nel 1943. Così facendo, si rendevano maggiormente accessibili,

20 R. Gibellini, La teologia del XX secolo, pp. 196-197.

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valorizzandole, opere poco frequentate dalla rifl essione teologica uffi ciale, che diversamente prediligeva assieme ai trattati della Scolastica e massi-mamente agli scritti di Tommaso d’Aquino, le sintesi in seguito approntate su questi ultimi. In tal senso non va poi dimenticata l’opera delubachiana Exégese médiévale, les quatre sens de l’Écriture21. Risalivano al 1914 Le 24 tesi della fi losofi a di s. Tommaso, che approvate dalla Congregazione dei seminari e delle università erano destinate a guidare lo studio tanto della fi losofi a quanto della teologia, essendo una delle tante risposte alle prescrizioni cautelative contenute nell’enciclica Pascendi di Pio X con-tro il modernismo (1907). Benedetto XV aveva cercato in vario modo di ridimensionare questo tipo di prassi, che non sempre riusciva a realizzare il programma di promozione della fi losofi a e della teologia di Tommaso secondo il dettato dell’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII (1879)22. Progressivamente il Magistero cattolico cercò di attenuare tali rigidità. La pubblicazione il 12 agosto del 1950 dell’enciclica Humani generis di Pio XII, che di fatto, con opportuni aggiornamenti e, comunque, evitando di utilizzare il termine “errore/i”, sostituito con l’espressione “concezioni pericolose”23, ripropose gli orientamenti cautelativi della Pascendi, sem-brò frenare tale lento, inesorabile processo, culminato appunto nel rinno-vamento teologico del Vaticano II. Come scrive Ciola, l’Humani generis – che coincise con l’allontanamento di de Lubac dall’insegnamento – va contestualizzata nel suo tempo: un’apertura alla modernità e alle sue istan-ze richiedeva un’opera di discernimento e di maturazione teologica tale da coinvolgere tutta la Chiesa, e che ebbe luogo appunto col Vaticano II24, a cui de Lubac prese parte attiva da subito, a partire dalla fase organizzativa, su invito di Giovanni XXIII, dapprima, come membro della Commissione preparatoria e, successivamente, come teologo perito, portando peraltro un contributo determinante25.

21 Éd. Aubier-Montaigne, Paris: I/1-2, 1959; II/1, 1961; II/2, 1964 (trad. it.: a cura di E. Guerriero, 4 voll., Jaca Book, Milano 1986-2006).

22 Si vedano: G. Calabrese, La continuità della tradizione scolastica, in Storia della teologia. Da Vitus Pichler a Henri de Lubac, cit., pp.165-169; 175-176 [pp. 159-178]; L. Malusa, Lo studio della fi losofi a di San Tommaso nelle scuole cattoliche durante il pontifi cato di Benedetto XV, in Benedetto XV. Profeta di pace in un mon-do di crisi, a cura di L. Mauro, Minerva Edizioni, Bologna 2008, pp. 239-270.

23 Cfr. H.J. Pottmeyer, Il Vaticano II. Tra Pio XII e Paolo VI, «il Regno», 53 (2008) n. 18, p. 641 [pp. 639-650].

24 Cfr. N. Ciola, s.v. Humani generis, in Enciclopedia fi losofi ca, vol. 6, Bompiani, Milano 2006, pp. 5359-5360.

25 Cfr. K.H. Neufeld, Vescovi e teologi al servizio del Concilio Vaticano II, in Vati-cano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), a cura di R.

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Già in Cattolicismo, la sua prima opera, nella parte intitolata Teologia e controversia, de Lubac giudica lo scontro allora in corso tra il Magistero cattolico e la modernità una conseguenza della mancanza di questo ap-proccio alla realtà. Erano, infatti, ancora grandi il timore di un confronto e il conseguente tentativo del neotomismo di ritagliare con i concetti di natura e di sopranatura due ambiti di realtà, che garantissero una possibile coesistenza dei due diversi approcci all’uomo, uno proprio della scienza sperimentale e della fi losofi a tout court, l’altro proprio della fede cristiana e massimamente della teologia. Tale strategia di difesa sarebbe poi mi-seramente fallita, per giunta concedendo ulteriore spazio e linfa vitale a tutti quei movimenti culturali che contriburono a delineare il tentativo di affermare l’uomo e le sue capacità prescindendo da Dio, e che de Lubac in seguito avrà modo di considerare ed approfondire appunto nell’opera Il dramma dell’umanesimo ateo:

«La fedeltà perfetta alle decisioni della Chiesa in materia di fede non può essere che un punto di partenza. “Tagliare le strade all’errore, diceva S. Cirillo di Gerusalemme, per avanzare quindi per la sola via reale” [Ca-techesi, 16, c. 5 (PG 33, 924)]. Di più, cosa meno comunemente notata “per un fenomeno storico assai frequente, per una nuova applicazione e una nuova verifi ca d’una vecchissima legge degli antagonismi” [Péguy, L’Argent (ed. opere complete, p. 395)], l’opposizione stessa tra le due dot-trine, non sussiste senza implicare certi presupposti comuni. Di qui un altro pericolo per il teologo che sacrifi ca troppo alle necessità della controversia. Nella sua lotta contro l’eresia, più o meno si mette sempre, che egli lo vo-glia o no, nel punto di vista dell’eretico. Accetta spesso le questioni come egli le pone, di modo che, senza partecipare ai suoi errori, gli può accadere di fare implicitamente al suo avversario delle concessioni tanto più gravi quanto più esplicitamente lo contraddice»26.

Al cuore di tali concessioni si situa appunto, secondo de Lubac, la sepa-razione tra naturale e soprannaturale, sviluppata da un’indebita forzatura degli scritti di Tommaso d’Aquino, che con perizia storica egli studia in ben tre monografi e ed in un corposo articolo, sviluppati nell’arco di un ven-tennio circa, dal 1949 al 1965: il volume Soprannaturale (1946), l’articolo Il mistero del soprannaturale (1949), che ne approfondisce la conclusione in prospettiva teoretica, il volume Agostinismo e teologia moderna (1965), che ne riprende, invece, la parte storica, e, infi ne, il volume Il mistero del

Latourelle, vol. 1, Cittadella Editrice, Assisi 1987, pp. 96-107 [83-109].26 H. de Lubac, Cattolicisimo. Aspetti sociali del dogma, Jaca Book, Milano 1978, p.

236 (ed. or.: Catholicisme, les aspects sociaux du dogme, Éd. du Cerf, Paris 1938).

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soprannaturale (1965), che del tema offre un ulteriore e più organico ap-profondimento speculativo, nel solco dell’omonimo articolo del ‘4927.

È illuminante quanto scrive, al riguardo, Gibellini: «con la tesi illustra-ta da Cattolicismo, commenta von Balthasar, “si prende posizione con-tro ogni limitazione giansenista della redenzione riservata agli ‘eletti’, ma anche contro ogni individualismo soterico. Se la chiesa avesse impedito di continuo queste deviazioni, probabilmente il marxismo sarebbe stato superfl uo” [H.U. von Balthasar, Il padre Henri de Lubac, p. 40]. Dalla tesi seguono alcune conseguenze, che l’autore sviluppa nella seconda parte. Il cristianesimo non è una dottrina di evasione, come lo sono altre culture (per esempio, il platonismo), o altre religioni (per esempio, le religioni orientali), con il cristianesimo muta la concezione del tempo e nasce una teologia della storia: il Dio della bibbia è “il Dio della coscienza, ma anche il Dio della storia” [H. de Lubac, Cattolicismo, p. 110]»28.

Come è noto, de Lubac rifi uta l’estrinsecismo, per seguire e applicare in teologia il metodo dell’immanenza, da lui assimilato nella meditazione dell’opera fi losofi ca di Blondel. In tal senso, come si è visto a proposito del suo studio su Pico della Mirandola, la prospettiva da lui seguita si muove su due versanti: quello storico, atto a mettere in luce le forzature e le letture parziali, quello teoretico, atto a proporre e a valorizzare una diversa, inno-vativa prospettiva di lettura, capace di offrire spunti ed elementi di dialogo con il pensiero moderno, recuperando ad un differente livello, quello ap-punto del paradosso e del mistero, la vexata quaestio dell’esistenza di Dio. La prospettiva da lui seguita non è tanto quella fi losofi ca tradizionale di stampo metafi sico-cosmologico, che peraltro giudica buona, eterna, più so-lida del più solido acciaio, più che un’invenzione della ragione: la ragione stessa29; egli segue, invece, la via agostiniana dell’interiorità, più consona appunto al metodo dell’immanenza, che permette di rivisitare il pensiero e l’opera di autori i quali, diversamente, sono classifi cati estranei a questo tipo di tematica, o addirittura incompatibili con essa. È questa, ad esempio, la prospettiva seguita in Il dramma dell’umanesimo ateo:

«Nella vita reale delle coscienze si producono molte dissociazioni, tan-to che quelli che si professano e che sono forse in larga parte positivisti, o marxisti o nietzschiani, non per questo sono atei. Alcuni, per esempio, lasciando aperto il problema metafi sico, abbracciano il marxismo solo in

27 Cfr. R. Gibellini, La teologia del XX secolo, pp. 197-198.28 Ivi, p. 194.29 H. de Lubac, Sulle vie di Dio, Edizioni Paoline, Alba 1959 (ed. or.: Sur les che-

mins de Dieu, Aubie-Editions Montaigne, Paris 1956), p. 98.

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forza del suo programma sociale, oppure, senza esaminare nei dettagli questo programma, perché spinti dalle proprie aspirazioni sociali; a volte sono più cristiani di quelli che li combattono, e spesso anche interpreti più lungimiranti della storia. Certe massime di origine comtiana sono servite a esprimere ciò che vi è di più sano negli ambienti conservatori. E ancor più: noi sappiamo pure che molte idee di impronta più o meno marxista, nietzschiana o positivista, possono trovare posto in questo o quell’abbozzo di sintesi nuove, di cui non possiamo del resto contestare né l’ortodossia, né il valore e nemmeno l’opportunità. L’opera di assimilazione non fi nisce mai nella Chiesa, e non è mai troppo presto per iniziare! E tuttavia i siste-mi, quali sono stati creati e mantenuti vivi dalla loro ispirazione profonda, non mancano di una logica interiore. È questo che è indispensabile tenere innanzi tutto presente se non si vuole correre il rischio di pericolose sban-date. Nel triplice caso da noi considerato, questa ispirazione e questa logica spingono con forza la nostra umanità lontano da Dio, e nello stesso tempo la immettono nelle vie di una doppia schiavitù, sociale e spirituale»30.

Secondo Elmar Salmann, de Lubac, così facendo, «accompagna le sue fi gure con un’ansia insieme preoccupata e gioiosa; si compiace delle loro invenzioni, condivide la felicità del loro crescere, intuire, conquistare, e si lascia toccare e scalfi re dalle loro sconfi tte e dalle loro deviazioni aleatorie o tragicamente infl itte»31. Secondo Salmann, alla base di questo sguardo benevolo, proprio dell’ermeneutica delubachiana, vi sarebbe la spiritualità del gesuita francese, fedele alle indicazioni degli Esercizi spirituali di Igna-zio di Loyola, che al n. 22 prescrivono: «“che ogni buon cristiano debba essere più disposto a salvare l’affermazione del prossimo che a condannar-la; e se non la possa salvare, cerchi di sapere quale signifi cato egli le dia: e se le desse un signifi cato erroneo, lo corregga con amore; e se non basta cerchi tutti i mezzi adatti perché, dandole il signifi cato giusto si salvi”. È come se assistessimo al lavoro interpretativo di de Lubac. Le sue premure attorno a Teilhard, Proudhon, Pico, Nietzsche e tanti altri non sono altro che applicazioni e trasposizioni di questa regola d’oro. L’archeologo del testo, il teologo e il pastore d’anime si uniscono in questo compito erme-neutico che riveste e conserva così qualcosa della sua radice e indole sacra, divina: è un’ermeneutica all’impronta della gratia elevans, del tocco che sa intonarsi alla situazione altrui, mettersi nei suoi panni, pur rimanendo di-

30 Id., Il dramma dell’umanesimo ateo, a cura di E. Guerriero, Jaca Book, Milano 1992, (ed. or.: Le drame de l’humanisme athée, Éd Spes, Paris 1944; ried. aumen-tata: Éd. Du Cerf, Paris 1983) pp. 12-13.

31 E. Salmann, Henri de Lubac, stile sapienziale e paradosso teologico, p. 616.

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staccati, per poter anche rilevare le verità nascoste che non erano nemmeno presenti all’autore; un pregiudizio favorevole, anzi affettuosamente incline all’accettazione, abbinato all’attenzione per la differenza tra testo, autore e la verità che vuole prestarsi in essi – in favore di quest’ultima, nella quale si incontrano (e si vedono giudicati) l’autore e il suo esegeta. Un ethos e una metodologia di lettura che mi pare sia all’altezza, se non sia superiore a quelle di Gadamer e della sua scuola ermeneutica»32.

Anche alla luce di queste ultime considerazioni, possiamo a giusto titolo ritenere che, se l’esigenza di un rinnovamento teologico è l’istanza ad intra sottesa all’opera storiografi ca di de Lubac, il contesto storico-culturale del suo tempo ne sia, in un certo senso, l’istanza ad extra. Non bisogna, infatti, dimenticare la particolare situazione di ristrettezza della libertà religiosa che maturò in Francia a partire dal 1904, quando, nel contesto dell’Affaire Drey-fus, si ebbe una ripresa della politica anticlericale, che portò alla rottura delle relazioni diplomatiche tra Francia e Santa Sede (riprese poi nel maggio del ‘21), all’espulsione delle congregazioni religiose dal territorio francese e alla relativa abolizione degli istituti di istruzione cattolici (de Lubac svolse il suo noviziato in collegi gesuitici inglesi), all’abrogazione del Concordato napo-leonico del 1801 e alla promulgazione della legge di Separazione tra Stato e Chiesa del dicembre 1905. In questo contesto si intensifi cò l’Action française, un movimento di opposizione monarchico e nazionalista, il cui ispiratore fu lo scrittore Charles Maurras (1868-1952); essa strumentalizzava l’alleanza con la Chiesa a fi ni politici, proponendo di fatto un cattolicesimo scristianizzato. L’Action, per questo, fu più volte condannata dal Magistero, segretamente nel 1914 (anno di ingresso di de Lubac nella Compagnia di Gesù), e nel 1926, con l’Allocuzione del 20 dicembre di Pio XI. Nonostante questa ferma condanna, che pose fi ne peraltro al sostegno dei cattolici a questo movimento, la situa-zione di diffi coltà e tensione del rapporto Stato-Chiesa Cattolica in Francia continuò a caratterizzare il contesto politico-sociale in cui visse de Lubac. Essa persistette pur in presenza di quelle signifi cative aperture che ne resero “amichevole” la separazione, perfi no contestualmente ad una ulteriore, rigida affermazione della laicità dello Stato nella Costituzione del 1958, e al conse-guente clima di “concordia senza concordato”, vigente tutt’oggi33.

32 Ivi, p. 620.33 Cfr. É. Fouilloux, Tradizioni ed esperienze francesi, in Storia del cristianesimo.

Religione-Politica-Cultura, vol. 12: Guerre mondiali e totalitarismi (1914-1958), a cura di J.-M. Mayeur, trad. it. Borla – Città Nuova, Roma 1997, pp. 438-509, in particolare, pp. 448-452 (ed. or.: Histoire du christianisme des origines à nos jours, tome 12: Guerres mondiales et totalitarismes (1914-1958), Éditions De-sclée-Fayard, Paris 1990)

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Alla luce di queste considerazioni, si può comprendere che, la ricerca delubachiana di aperture a Dio nelle correnti del pensiero moderno e con-temporaneo più ostili e critiche verso il Cristianesimo, quali appunto quelle sorte da Comte, Marx e Nietzsche, o dalle sue molteplici correnti raziona-listiche, di cui individua la comune matrice nei due volumi di La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore (1979)34, è un tentativo di applicazione, appunto ad extra, dell’ermeneutica propria della sua storiografi a, che vuole cercare con onestà quelle petizioni di principio (anche buone) nelle ragioni dell’‘altro’, anche quando si dissente dagli esiti cui quei principi possono condurre.

34 I. Dagli Spirituali a Schelling; II. Da Saint-Simon ai nostri nostri, trad. it. a cura di E. Guerriero, Jaca Book, Milano 1981 e 1984 (ed. or.: La posterité spirituelle de Joachim de Flore, I. De Joachim à Schelling, Lethielleux, Namur-Paris 1979; II. De Saint-Simon à nos jours, Lethielleux, Namur-Paris 1981).

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PAOLO VIGNOLA

LA NIETZSCHE RENAISSANCETRA DELEUZE E DERRIDA

Nella comparsa alle stampe delle edizioni critiche di Nietzsche, curate da Colli e Montinari e pubblicate nel 1964, si è soliti individuare le condi-zioni di possibilità, fi lologiche e fi losofi che, di una “rinascita nietzscheana” o, per dirla alla francese, di una “Nietzsche renaissance”. Ma se gettiamo uno sguardo sul panorama transalpino di quegli anni ci rendiamo conto che una riscossa nietzscheana era già in atto, grazie soprattutto al diffondersi di una linea interpretativa radicalmente antidialettica, che ha in Gilles De-leuze uno dei maggiori promotori. Se vogliamo comprendere le ragioni di questa rinascita dobbiamo però portarci sicuramente più indietro della lettura deleuziana di Nietzsche, ed osservare il percorso per così dire gene-rale del panorama fi losofi co francese tra gli anni Venti e la fi ne degli anni Cinquanta del secolo scorso.

La parabola francese

In un libro indispensabile per l’interpretazione della fi losofi a francese del secondo Novecento, Le même et l’autre, Vincent Descombes descrive il movimento che, come una parabola, a partire dagli anni ‘40 fi no alla fi ne degli anni ‘70, conduce prima a una rivalutazione della fi losofi a hegeliana contro il kantismo ed il bergsonismo, per superarla poi durante gli anni ’60 tramite una riabilitazione di Nietzsche, attuata in vista di una critica radica-le della dialettica e del ruolo fondamentale che il negativo avrebbe in essa1. Si può intendere la motivazione di questa parabola, che da Kant giunge a Nietzsche, come la ricerca sempre più urgente di un pensiero che si rivol-gesse direttamente ai processi e ai confl itti che attraversavano la società nel suo complesso. Per Descombes infatti, tanto la fenomenologia quanto il bergsonismo, per non parlare dell’idealismo universitario, erano incapaci

1 Cfr. V. Descombes, Le même et l’autre, Minuit, Paris 1978, p. 22.

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di portare la rifl essione teorica a diretto contatto con la storia dell’umanità, mentre una rilettura “atea e antropologica”2 di Hegel sembrava avere le carte in regola per questo compito.

Se il primo a rispondere a tale urgenza è stato Jean Wahl, con La co-scienza infelice nella fi losofi a di Hegel3, il ruolo cardine all’interno della parabola spetta sicuramente a Alexandre Kojève, poiché, tramite i corsi tenuti all’Ecole Pratique des Hautes Études dal 1933 al 19394, ha dato il contributo decisivo per una “antropologizzazione” del pensiero hegeliano, giungendo tramite la dialettica servo-padrone ad un’interpretazione radica-le dei confl itti novecenteschi.

Il tema portante dei seminari kojèviani è dato dall’intreccio tra “deside-rio di riconoscimento” – proveniente direttamente dalla trama della Feno-menologia dello spirito – e “valorizzazione del lavoro di classe” teorizzato da Marx. Ma la formidabile “molla” kojèviana, che ha consentito al proces-so di giungere a Nietzsche, risiede nella capacità del professore moscovita di portare la fi losofi a su territori a lei inconsueti, come il cinismo politico, le guerre e i massacri, mostrando l’aspetto paradossale ed inconciliabile della ragione, vale a dire l’origine irrazionale del razionale5.

Tra gli studiosi che partecipavano ai seminari di Kojève, i nomi di spic-co erano quelli di Bataille, Merleau-Ponty e Lacan, affascinati dalle inten-zioni kojèviane di lavorare sugli aspetti eccessivi e paradossali del pensiero di Hegel, piuttosto che sui momenti razionali e pacifi canti6. Descombes ha mostrato come la lettura di Hegel da parte di Kojève desse modo di rintrac-ciare le origini non razionali della ragione, nella direzione di una “ragione

2 Cfr. ivi, p. 43.3 J. Wahl, Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, Rieder, Paris

1929; trad. it. di F. Occhetto, Id., La coscienza infelice nella fi losofi a di Hegel, ISEDI, Milano 1972.

4 Il seminario di Kojève, che si svolgeva ogni lunedì pomeriggio e durò 5 anni, divenne ben presto leggendario, «le discussioni che esso suscitava scavalcavano le mura delle aule universitarie per prolungarsi nei circoli letterari, nei laboratori politici e sociologici in cui si incubava una estrema rifl essione sulla crisi del mo-derno», M. Vegetti, La fi ne della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Jaca Book, Milano 1998, p.17. Al seminario parteciparono, tra gli altri, Raymond Queneau, Georges Bataille, Jacques Lacan, Alexandre Koiré, Eric Weil, Maurice-Merleau-Ponty, André Breton, Roger Caillois e Raymond Aron.

5 Cfr. V. Descombes, Le même et l’autre, cit., p.26. Per una interpretazione del pensiero di Kojéve, oltre al già citato M. Vegetti, La fi ne della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojéve, si segnala D. Auffret, Alexandre Kojéve: la philosophie, l’état, la fi n de l’histoire, Grasset, Paris, 1990; cfr. inoltre R. Dati, Alexandre Kojéve interprete di Hegel, La Città, Napoli 1998.

6 Cfr. V. Descombes, Le même et l’autre, cit., p. 25.

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La Nietzsche renaissance tra Deleuze e Derrida di P. Vignola 89

allargata”, capace di offrire nuova linfa alle speculazioni fi losofi che, ab-bracciando le tematiche scottanti del periodo:

la realtà è la lotta mortale tra gli uomini, per degli obiettivi derisori – si mette in gioco la propria vita per difendere una bandiera, per ottenere riparazione da un’in-giuria, etc – ogni fi losofi a che ignora questo fatto fondamentale è una mistifi cazio-ne idealista: tale è, messo sotto una forma brutale, l’insegnamento di Kojève7.

Inoltre, un altro carattere fondamentale della lettura kojèviana di He-gel è fornito dalla «umanizzazione del nulla»8, secondo la quale propria dell’uomo, e solo di esso, è la negatività, concepita tanto dal punto di vista antropologico quanto metafi sico. Se ogni azione, per Kojève, è da inten-dersi come opposizione ad un avversario, dunque negazione dell’altro, e se non vi può essere novità che non sia prodotto di un agire, ne consegue che sarà la negazione ad introdurre il nuovo nell’antico9. Non solo, ma la ne-gatività sarà allora l’essenza stessa della libertà, ciò che distingue l’uomo dall’animale10 in una lotta per il riconoscimento in cui l’uomo manifesta la necessità di affermarsi attraverso l’appropriazione del desiderio altrui e della sua riconduzione al proprio, dunque al di là della mera ed immediata conservazione animale11. Queste considerazioni permettono a Kojève di abbandonare la Filosofi a della natura hegeliana, conducendo il professo-re moscovita ad una ontologia dualista per cui l’essere proprio della na-tura viene inteso nel senso dell’identità, mentre l’essere storico, proprio dell’uomo, viene inteso nel senso della differenza, in quanto negazione ed alterazione dell’ordine costituito. Per Descombes però l’ontologia di Kojève non è poi così dualistica, infatti l’identità e la differenza non sono totalmente irriducibili l’una all’altra, ma, proprio grazie alla dialettica, tro-veranno la loro zona d’indiscernibilità nella fi ne della storia, ovvero nel dispiegamento defi nitivo dello spirito hegeliano12.

7 Ivi, pp. 26-27.8 È il titolo del primo capitolo de Le même et l’autre.9 Cfr. ivi, p. 46.10 Cfr. A. Kojéve, Introduzione alla lettura di Hegel, trad. it. e postfaz. G. Frigo,

Adelphi, Milano 1996, p.492.11 Cfr. R. Bodei, Il desiderio e la lotta, introd. ad A. Kojève, La dialettica e l’idea

della morte in Hegel, trad. it. P. Serini, Einaudi, Torino 1991, pp. X-XI.12 Nella post-fazione all’introduzione alla lettura di Hegel di Kojève, G.F. Frigo

mostra come “le fi ne della storia” comporti l’esaurimento dell’agire antropogeno, caratterizzato dalla lotta per il riconoscimento, e quindi conduca ad una “morte dell’uomo” intesa come l’esaurirsi delle possibilità di sviluppo umano; cfr. G.F. Frigo, Postfazione (trad. it. e c.) ad A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel,

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I corsi di Kojève terminano nel ’39, e irradieranno il pensiero francese per alcune decine di anni, fi no all’emergere di nuove esigenze in seno alla fi losofi a d’oltralpe. Per Descombes infatti, «se dopo il corso di Kojève tutto ciò che è moderno giunge da Hegel, dopo il ’68 tutto ciò che è moderno è ostile a Hegel»13, e la causa di ciò deve essere ricercata nell’interpretazione della parola “dialettica”. Se la dialettica ha per compito di estendere la ragione, è necessario pensare a cosa signifi chi una ragione “allargata”. Si può pensare ad un’estensione “quantitativa” dell’impero della ragione su zone sconosciute, oppure si può intendere un’estensione dimensionale, o qualitativa, che conduce ad una totale metamorfosi del pensiero. In questo ultimo caso il compito della ragione sarebbe quello di spingersi in direzio-ne dell’altro, di ciò che inesorabilmente le sfugge e compromette perfi no la sua conoscenza. Ancora con Descombes:

tutta la questione è allora sapere se, in questo movimento, è l’altro che sarà stato condotto allo stesso, oppure se, per sbarazzarsi simultaneamente del ra-zionale e dell’irrazionale, dello stesso e dell’altro, la ragione avrà dovuto meta-morfi zzarsi, cessare di essere la stessa e farsi altra/o con l’altro14.

Anche se la lettura kojèviana di Hegel presenta alcuni tratti che potreb-bero sedurre il pensatore nietzscheano, come il senso del rischio o il peri-colo della perdita di identità, ciò che, per la generazione defi nita post-strut-turalista, andava criticato e rimpiazzato con uno strumento più radicale era proprio il sistema della mancanza o della negatività, da sostituirsi con la nozione di produzione o di creazione. Il desiderio inteso come negazione, ma anche come mancanza o assenza è precisamente ciò che Kojève pro-verà a mettere in evidenza nel IV capitolo della Fenomenologia dello spi-rito di Hegel. Deleuze, da parte sua, combatterà la dialettica proprio sulla mancanza e sulla negazione, poiché egli porterà avanti la concezione di un desiderio essenzialmente affermativo, produttivo e creatore di realtà.

Così, continuando a seguire la parabola, ciò che prenderà il nome di “fi losofi a del desiderio” marcherà il passaggio dall’attualità di Hegel alla sua vecchiaia. Eppure, in tale dinamica, è ancora Hegel, anche se indiret-tamente, a fare da battistrada. Infatti, ancorando il pensiero di Hegel alle contraddizioni della ragione, Kojève si è mosso lontano dal carattere di mediazione che la dialettica hegeliana dovrebbe avere, aprendo dunque la via, seppur ancora tutta da descrivere, per un’accettazione tragica dell’esi-

Adelphi, Milano 1996, pp. 764-765. 13 V. Descombes, Le meme et l’autre, cit., p. 24 (trad. nostra).14 ivi, p. 25 (trad. nostra).

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stenza che troverà il suo compimento nella concezione dell’eterno ritorno, così come viene interpretata da Deleuze, ossia accettazione incondizionata dell’esistenza in quanto affermazione dei valori vitali. E proprio in Niet-zsche la fi losofi a francese degli anni sessanta troverà le armi per andare all’attacco della negatività, in nome di un pensiero della differenza dagli esiti eterogenei tra i vari autori che l’hanno portato avanti, ma deciso a riabilitare defi nitivamente il fi losofo di Röcken.

Nietzsche renaissance

Per giungere alla Nietzsche renaissance che a partire dai primi anni ses-santa, e per più di un ventennio, ha segnato numerevoli produzioni edi-toriali nonché grandi convegni internazionali come quelli di Royamount (1964) e Cerisy-la-Salle (1972), è necessario comprendere il ruolo di alcu-ne importanti tendenze interpretative che si sono prodotte in merito al cor-pus nietzscheano attorno alla metà del Novecento in Europa. La storia della lettura e della ricezione di Nietzsche nel Novecento, nella sua interezza e complessità, è sicuramente uno sterminato paesaggio di interpretazioni inconciliabili tra loro, ma possiamo riscontrare una ‘linea di inattualità’ che attraversa la ricezione tedesca e quella francese, mostrando – in par-ticolar modo con Löwith, Jaspers, Bataille – l’intempestività del pensiero nietzscheano di fronte agli esiti della metafi sica occidentale e davanti allo scenario storico-politico che andava profi landosi.

Sia pure con le dovute distinzioni, i fi losofi della Nietzsche renaissance hanno trovato diversi punti in comune nelle loro esigenze di portare il pen-siero al di là della dialettica e dell’esistenzialismo, prediligendo in Nietz-sche l’aspetto inattuale, vitalistico ed affermativo, il metodo a-sistematico, e lo stile della sua scrittura come evasione dalle categorie classiche della metafi sica e dell’argomentare fi losofi co rigoroso.

Inoltre, se concepiamo la storia della fi losofi a contemporanea non come una successione lineare ed un semplice avvicendamento di teorie e pro-blematiche, ma piuttosto come una condensazione di strati eterogenei, la cui provenienza è dislocata in sentieri concettuali che possono ricondurre a svariate dottrine di pensiero, possiamo osservare come Nietzsche non sia stato necessario solo per una evasione dalla dialettica, ma anche per una critica fi losofi ca delle posizioni strutturaliste. Il fi lo conduttore tra queste due esigenze risiede in una interpretazione della genealogia e del sistema delle forze nietzscheano completamente intrecciati, per ricercare, nel corso dell’evoluzione di un concetto o di un’istituzione, le “forze reattive” che

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hanno contribuito alla sua formazione. Non solo, per quanto riguarda que-sto altro aspetto, non bisogna uscire dalla Francia, ma gli stessi autori che compiono il passaggio da Hegel a Nietzsche sono anche coloro che dallo strutturalismo giungono a ciò che, soprattutto per esigenze storiografi che, si suole chiamare post-strutturalismo. Quest’ultimo si caratterizza essen-zialmente, come dichiarò Foucault, nell’applicazione di alcune istanze del-lo strutturalismo in ambito fi losofi co – in primis la questione di una critica del protagonismo del soggetto – venutesi ad intrecciare con il ritorno a Nietzsche degli anni Sessanta15.

Ora, e questo è il carattere del post che allontana il movimento dai suoi predecessori – poiché inserendo Nietzsche nella struttura quest’ultima ten-de a saltare –, se lo strutturalismo aveva sostituito al soggetto e alla libertà umana la forza della struttura intesa come l’ordine delle relazioni di signi-fi cato nelle quali l’uomo è inserito, il post-strutturalismo mette in dubbio l’immutabilità di tale ordine, concentrandosi attorno al concetto di genesi e di produzione di tali strutture. In più, ed ecco l’intreccio, se il metodo gene-alogico di Nietzsche sarà dunque ciò che più potrà interessare il post-strut-turalismo, il carattere vitalistico ed energetico della fi losofi a nietzscheana verrà a sostituire il formalismo e la staticità dello strutturalismo, tramite i concetti appunto di “energia”, “forza” e “produzione”. Se le differenze, per lo strutturalismo, erano ciò che poteva permettere la conoscibilità della struttura, per i post-strutturalisti esse determinano la genesi stessa degli ordini simbolici. Una genesi, una produzione impersonale, lavorerebbe incessantemente producendo la stessa soggettività non più immutabile, ma reinscritta in processi di soggettivazione temporanei. In tal maniera i rapporti sociali, così come il linguaggio e, nel caso di Deleuze e Guattari, la psicanalisi, vengono valutati in termini energetici, cosicché il pensiero dovrà andare alla ricerca di ciò che imprigiona o canalizza il libero fl usso delle energie produttive. Tra gli agenti imprigionatori si ritrovano – oltre la struttura –, la dialettica, la soggettività e, in particolare per Deleuze, l’economia negativa del desiderio. Dato l’intreccio tra ermeneutica niet-zscheana ed elaborazione concettuale singolare, possiamo allora dire che l’interpretazione di Nietzsche da parte di questi autori, in particolare De-leuze, Foucault e Derrida, per ciò che concerne queste quattro tematiche, risulti al tempo stesso caratterizzante e caratterizzata da il superamento dello strutturalismo.

15 Cfr. l’intervista rilasciata da Foucault Structuralism and Post-structuralism, in «Telos», XVI, n.55; trad. it. M. Bertani, in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino 2001, pp. 301-332.

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In realtà, un ruolo a parte viene giocato da Derrida che, pur riattivando il pensiero di Nietzsche in diversi testi, non solo non rifi uta in blocco, come De-leuze, la dialettica hegeliana, ma attinge buona parte delle sue risorse teoriche da pensatori controcorrente rispetto al movimento descritto da Descombes, come Husserl e Heidegger. Il percorso alternativo di Derrida sembra voler di-mostrare, implicitamente, ciò che egli si pone come compito a livello teoretico: la messa in dubbio di qualsiasi linearità, storica o processuale16.

Se però la Nietzsche renaissance ha dimostrato di essere una riattivazione, a più livelli, del pensiero nietzscheano, è indubbio che Derrida si inscriva in questo movimento, producendo degli effetti sulla fi losofi a contemporanea che hanno chiamato in causa più volte il fi losofo della volontà di potenza. Basti pensare alla Grammatologia, testo autenticamente programmatico del pensiero di Derrida, incentrato sul ruolo della scrittura come strumento di messa in discussione di tutta la metafi sica occidentale logocentrica, in cui Nietzsche è uno degli ispiratori, e per quanto riguarda i fi losofi tout court l’unico ispiratore che non viene decostruito: «Nietzsche ha scritto quel che ha scritto. Ha scritto che (la sua) scrittura non è soggetta al logos e alla verità»17. Il progetto di una scienza del gramma, seppur problematica e rischiosa, rap-presenta la via per rendersi conto del potere logocentrico della linguistica e della tradizione fi losofi ca, e l’impresa stilistica di Nietzsche viene contrappo-sta all’interpretazione heideggeriana del fi losofo di Röcken.

Deleuze e il suo Nietzsche

Rispolverando la problematica che ha visto protagonista l’interpretazio-ne lukacsiana, ossia il preteso irrazionalismo su cui si baserebbe l’opera di Nietzsche, la risposta più esauriente a tale lettura sembra provenire da Deleuze, nei suoi Nietzsche e la fi losofi a e Nietzsche, comparsi a distanza di tre anni l’uno dall’altro. Secondo Deleuze, in merito al pensiero di Niet-zsche, non è lecito parlare di irrazionalismo, in quanto non è il rifi uto della razionalità a guidare il progetto nietzscheano ma semmai il bisogno di ap-prodare ad un pensiero critico radicale, in grado di riconoscere gli autoin-ganni radicati nell’immagine razionalistica del pensiero. Ciò signifi ca che la critica non si baserà più sulle istanze “reattive” della coscienza e della

16 Il concetto stesso di linearità, nella sua estensione storica, viene osteggiato da Derrida, come vedremo, in tutte le fasi della sua opera.

17 J. Derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, p.33; Id., Della grammatologia, trad. it. AA.VV., Jaca Book, Milano 1998, p. 39. Dalla prossima citazione di questo testo indicheremo tra parentesi le pagine che si riferiscono all’originale francese.

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ragione, ma sulle analisi delle forze che soggiacciono a quest’ultime e, in maniera generale, sull’affermatività della volontà di potenza. Una critica del genere è volta, secondo la lettura deleuziana, ad introdurre come ogget-to fondamentale della fi losofi a i concetti di senso e valore, tramite i quali è possibile conferire alla volontà di potenza una funzione al tempo stesso ermeneutica e creatrice. La critica allora, indirizzandosi verso lo scaturire creativo del senso e dei valori, raggiunge le dimensioni di una genealogia, volta a smascherare i procedimenti che hanno condotto ai valori presenti nella cultura all’epoca di Nietzsche:

Genealogia vuol dire valore dell’origine e, al tempo stesso, origine dei va-lori. Genealogia si contrappone tanto al carattere assoluto dei valori quanto al loro carattere relativo e pratico. Genealogia signifi ca elemento differenziale dei valori da cui deriva il loro stesso valore. Genealogia vuol dire dunque origine e nascita dei valori, ma anche differenza e distanza nell’origine […] l’elemento differenziale non è mai critica del valore dei valori senza essere anche elemento positivo di una creazione. Perciò Nietzsche non considera mai la critica come reazione ma come azione18.

Ubaldo Fadini evidenzia che nella lettura deleuziana «l’elemento diffe-renziale dei valori, da cui deriva il loro stesso valore, è oggetto di una pro-cedura disvelante singolare, quella genealogica, che non può che ribadire infi ne come esso sia elemento differenziale della forza, volontà di potenza come affermazione della propria differenza»19. È proprio su questo punto che si concentrano le peculiarità dell’interpretazione deleuziana di Nietz-sche, infatti l’importanza della genealogia come critica radicale disvela il ruolo cardine della differenza e dell’affermazione nel pensiero. Deleuze vede nella differenza la possibilità di evadere dalle maglie della rappre-sentazione e dal gioco di mediazione della dialettica, nella direzione di un pensiero affermativo che non abbia più a che fare con la negazione e la contraddizione, ma che sia principio di creazione, tanto assiologica quanto concettuale. L’affermazione è l’essenza delle forze attive, plastiche e crea-trici ma è anche ciò che Nietzsche chiama il “sì alla vita”, l’affermazione-accettazione dionisiaca del caso nella molteplicità delle sue forme. Ora,

18 G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, PUF, Paris 1962, pp. 2-3; Id., Nietzsche e la fi losofi a, trad. it. S. Tassinari, introd. e cura di G. Vattimo, Colportage, Firenze 1978. Nuova edizione a cura di F. Polidori, trad. it. F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1992, p. 5. Dalla prossima citazione di questo testo indicheremo tra parentesi le pagine che si riferiscono all’originale francese.

19 U. Fadini, Deleuze plurale, per un pensiero nomade, Pendragon, Verona 1999, p. 39.

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nell’ottica di Deleuze, l’affermazione concerne allo stesso tempo l’accetta-zione e la creazione, due modi di dire “sì alla vita”. Inoltre, poiché l’accetta-zione della vita è accettare, innanzitutto, la morte di Dio, del mondo “vero” e di quello apparente, l’impossibilità dunque di qualsiasi trascendenza, la creazione da parte dell’umanità (o della volontà di potenza) dei valori im-manenti alla vita signifi ca la confi gurazione di un nuovo tipo di uomo, un übermensch ‘disintossicato’ dall’infl usso delle forze reattive, dal risenti-mento e dalla cattiva coscienza, composto da un’enorme concentrazione di forze attive, capace di muoversi in un mondo interamente fatto di una molteplicità di interpretazioni. In questo senso, la distinzione nietzscheana tra forze reattive e forze attive è un altro cavallo di battaglia dell’interpre-tazione deleuziana, peraltro legato a doppio nodo con la genealogia e la differenza. Se il nichilismo rappresenta (ed è dettato da) il trionfo delle forze reattive, per Deleuze bisognerà comprendere fi n dove possa spingersi questo genere di forze, in modo tale da invertirne il senso e lavorare in direzione dell’eterno ritorno che, secondo l’ottica del fi losofo francese, fa ritornare solo ciò che è in grado di essere affermato, ossia ciò che è attra-versato dalle forze attive. Tramite la distinzione delle forze si può allora comprendere la duplice natura della volontà di potenza, di cui Deleuze ha saputo mostrare gli aspetti indubbiamente più teoretici, tralasciando però le interpretazioni à la Heidegger che sembrano con ogni evidenza sminuire la ricerca singolare dell’autore a favore di un’istanza sedicente originaria, quella di un’ontologia fondamentale, armata della capacità retroattiva di scorgere l’oblio dell’Essere in quanto tale come oggetto fondamentale di indagine, di cui la fi losofi a occidentale si sarebbe resa partecipe.

La volontà di potenza, e questo non solo per il Nietzsche di Deleuze, non è da intendersi come volontà di dominio se non nell’epoca del nichilismo, nella quale sono state condotte, ormai da tempo quasi immemorabile, le coscienze umane. Se in Heidegger, e in qualche modo anche in Lukacs, è proprio la concezione della volontà di potenza intesa come “volere il po-tere” ad essere erede della storia della fi losofi a, ciò che Nietzsche avrebbe inteso, a parere di Deleuze, si contrappone a tale prospettiva:

La fi losofi a della volontà secondo Nietzsche deve sostituire la vecchia me-tafi sica: la distrugge e l’oltrepassa. Nietzsche ritiene di aver fatto la prima fi lo-sofi a della volontà […] La potenza, come volontà di potenza, non è ciò che la volontà vuole, ma ciò che vuole nella volontà20.

20 G. Deleuze, Nietzsche e la fi losofi a, cit., (pp. 95-96), pp. 125-126.

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Nella concezione deleuziana la volontà di Nietzsche non è un insieme unitario, ma espressione della molteplicità del reale e della pluralità di forze in lotta tra loro, «elemento differenziale da cui derivano le forze presenti»21, dispositivo primario nell’organizzazione del senso e del valore.

Il nocciolo della questione, ciò che fa dell’interpretazione di Deleuze un’autentica introduzione al pensiero di Nietzsche in quanto sistema fi -losofi co coerente e programmatico, è che stando a Nietzsche e la fi losofi a non sarebbe la volontà a volere la potenza, ma quest’ultima semmai appa-rirebbe come il soggetto stesso del volere, mai unitario e predefi nito, ma risultante dal gioco antagonistico delle forze. Questo soggetto, sicuramen-te non umanista, non è appunto nemmeno unitario, non è cioè capace di radunare in sé le diverse istanze della ragione, e dunque non è riducibile ad un rapporto di elementare appropriazione dell’oggetto. La cifra radica-le dell’intuizione nietzscheana va individuata dunque, secondo Deleuze, nell’essenziale pluralismo che sottostà alla concezione della volontà; un tale pluralismo, portato agli eccessi proprio da Nietzsche, conduce la do-manda fondamentale del “che cos’è?”, tesa a conoscere un’essenza immu-tabile dietro all’apparenza fenomenica, al “Chi è?”, ovvero all’indagine rivolta a conoscere la forza predominante, in grado di conferire il senso di un enunciato, o di risalire alle circostanze dell’istituzione di un valore. Ancora con Fadini possiamo dire che «Deleuze mette bene in evidenza il carattere “aggressivo”, “agonistico” del pensiero nietzscheano, soprat-tutto là dove sfocia in un radicale anti-hegelismo: alla base di tale esito c’è una concezione del rapporto tra (due o più) forze che non lo specifi ca come essenzialmente negativo. Una forza che entra in rapporto con un’al-tra forza, che le obbedisce, non nega quest’ultima, ma afferma la propria differenza»22. La contestazione del negativo fa tutt’uno allora con il valore cardine della differenza, nella misura in cui il primo risulta essere il motore della dialettica hegeliana, mentre la seconda sussiste sempre in base ad una sua affermazione, come forza singolare sulle altre.

Il rapporto tra le forze sarebbe proprio il carattere essenziale dell’afo-risma nietzscheano, in quanto «gioco di forze, uno stato di forze sempre esteriori le une alle altre»23. L’interpretazione dell’aforisma sulla base di

21 Ibidem.22 U. Fadini, Deleuze plurale, cit., p. 115.23 G. Deleuze, Pensée nomade, in AA. VV, “Nietzsche aujourd’hui”, UGE, Paris

1973 [atti del convegno di Cerisy-la-Salle], ora in G. Deleuze, L’île déserte, textes et entretiens, cit., pp. 357; Id., Pensiero nomade, trad. it. D. Tarizzo, in Nietzsche e la fi losofi a, Einaudi, Torino 2002, p. 315. Dalla prossima citazione di questo testo indicheremo tra parentesi le pagine che si riferiscono all’originale francese.

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questo gioco di forze è ciò che permette a Deleuze un’acuta risoluzione del problema posto da alcuni testi nietzscheani, tacciati di più o meno larvato antisemitismo o accusati di essere propedeutici ai fascismi. Lo stesso me-todo nietzscheano della distinzione delle forze e del loro ruolo all’interno dell’interpretazione offrirebbe la chiave di lettura dell’aforisma, così come di tutti gli altri scritti, non consegnando il pensiero del fi losofo di Röcken a nessun ideologia politica se non sulla base delle reali forze in grado di impadronirsene.

Un aforisma è un gioco di forze, uno stato di forze che restano esterne le une alle altre. un aforisma non vuol dire nulla, non signifi ca nulla, e non possiede né signifi canti né signifi cati. Altrimenti non faremmo che restaurare l’interiorità di un testo. Un aforisma è uno stato di forze, l’ultima delle quali, la più recente, la più attuale e la provvisoriamente ultima è sempre la più esterna24.

Per Deleuze è necessario trovare la forza o le forze esterne che conferisca-no all’aforisma di Nietzsche «un senso liberatorio, un senso di esteriorità»25. Nietzsche sarebbe quindi rivoluzionario soprattutto per il suo metodo:

è il metodo nietzscheano a rendere il testo di Nietszche non più qualcosa sul quale domandarsi «è fascista? È borghese? È rivoluzionario in sé?», ma un campo di esteriorità in cui si fronteggiano forze fasciste, forze borghesi e forze rivoluzionarie26.

Come è avvenuto per la volontà di potenza, la metodologia stessa della scrit-tura nietzscheana è espressione del confl itto tra le forze. Qualsiasi pregiudiziale che abbia il compito di stendere un’interpretazione defi nitiva è allora destinata a frantumarsi di fronte al gioco delle forze soggioganti l’aforisma.

L’operazione deleuziana, densa di signifi cato nel suo voler attribuire una concreta e ben oliata sistematicità al pensiero nietzscheano, ha gettato le basi per una concezione di Nietzsche non solamente estranea, dal punto di vista costitutivo, all’imperialismo occidentale o al nazionalsocialismo, ma addirit-tura capace di offrire suggestivi spunti per una chiave rivoluzionaria del pen-siero e dell’etica. Tuttavia, l’inattualità costitutiva della fi losofi a nietzschea-na può solamente offrire degli spiragli, peraltro problematici, al fi ne di una elaborazione etico politica. Tali spiragli, nel momento in cui un interprete cerca di trasferirli sul proprio piano di rifl essione, sono destinati ad eclissare la fi gura da cui provengono, ossia il pensiero stesso di Nietzsche.

24 Ivi, (p. 357) pp.315-316.25 Ibidem.26 Ibidem.

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Per Vattimo, altro illustre lettore di Nietzsche, la concezione anti-dialet-tica, che Deleuze ravvisa nel carattere differenziale della volontà di poten-za, conduce ad un materialismo anti-metafi sico come molteplicità irriduci-bile di forze, ma non può comunque servire per rimpiazzare il materialismo storico-dialettico di matrice marxiana, poiché Nietzsche «non si limita a dire che bisogna fondare miti nuovi, che bisogna fondare una società nuo-va. Vuole giungere alla fondazione ontologica di questa capacità mitolo-gica, di questa capacità “mitopoietica” dell’uomo. Per questa ragione la storia non è per lui così importante come lo è per Marx. Nietzsche non è un rivoluzionario, egli mira piuttosto a teorizzare la possibilità di rivolu-zione. Nella sua fi losofi a c’è qualcosa di più profondo della rivoluzione»27. Del medesimo avviso sembra essere Masini, per il quale tanto la distruzio-ne della metafi sica, quanto la decostruzione genealogica del soggetto non coincidono con il materialismo in quanto pratica rivoluzionaria, poiché esso potrebbe emergere solo sulla base storico-reale di una teoria eman-cipatrice della società che avrebbe la sua condizione nella comprensione dialettica del movimento immanente alla prassi storico-sociale28.

Che il pensiero di Deleuze, così come appare nelle opere in cui l’au-tore fa valere la propria fi losofi a, sia orientato dalla possibilità di una tale sperimentazione a proposito delle concezioni nietzscheane, come ad esempio nella teoria dell’inconscio elaborata nell’Anti-Edipo, è un fatto emblematico. Nietzsche, ad un certo punto dell’elaborazione concettuale e precisamente dopo aver svolto il ruolo di ispiratore, si eclissa, offrendo comunque tutta la sua portata energetico-concettuale, man mano che l’ar-gomentazione deleuziana (e guattariana) si volge alle relazioni tra politica ed inconscio, o, come recita il sottotitolo, tra capitalismo e schizofrenia. Ma a nostro avviso, il rigore che sottostà all’interpretazione offerta nei due testi consacrati a Nietzsche è tale da mantenere l’interprete sulla soglia di quegli spiragli emancipativi che il pensiero di Nietzsche offre. L’oltre-passare gli spiragli, anche se implica un ausilio esterno offerto da fi losofi come Bergson e Spinoza, risulta sempre essere un passare per il ciglio dei monti in cui il pensatore dell’eterno ritorno amava passeggiare. In altri termini Deleuze sente di essere in qualche maniera violentato29 dal pen-siero di Nietzsche, ma al tempo stesso, la triplice alleanza deleuziana di Hume-Bergson-Spinoza dovrà essere coronata dall’autentico ed essenziale

27 G. Vattimo, all’interno della Discussion in Nietzsche, Cahiers de Royamount [atti del convegno di Royamount del 1964], Ed. Minuit, Paris 1967, p. 220 (trad. nostra).

28 cfr. F. Masini, Lo scriba del caos, Il Mulino, Bologna 1978, p. 24.29 Cfr. G. Deleuze, Pourparlers, Minuit, Paris 1990, p. 15; Id., Pourparler, trad. It.

S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 15.

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“sì alla vita” della differenza in grado di affermare se stessa. Tuttavia, a nostro parere, l’effettivo ruolo del fi losofo di Röcken all’interno di ogni singolo concetto deleuziano va messo in relazione con le altre sue com-ponenti provenienti da altri fi losofi , ed il risultato di tale commistione, in quanto autentica creazione concettuale, appartiene unicamente agli esiti del pensiero deleuziano.

Un’ultima constatazione riguarda la concezione dell’inattualità che sot-tostà all’interpretazione di Nietzsche fornita da Deleuze, il quale riconosce nell’evidenziare il carattere metastorico, intempestivo del pensiero nietz-scheano le ragioni di un “ritorno a Nietzsche” quale la Francia degli anni Sessanta ha conosciuto. Ma l’intempestività di cui parla Deleuze non è concepita solamente in quanto comprensione della storia estranea sia alla fi losofi a classica che a quella dialettica, bensì anche come “allergia” ad ogni codifi cazione tramite cui potersi appropriare del pensiero nietzsche-ano. Inoltre Deleuze si sforza di concepire l’intempestività a partire dalle sue potenzialità di creazione, come forze di produzione dell’evento. Niet-zsche avrebbe quindi consegnato ai fi losofi dell’avvenire non soltanto un metodo per porsi al di là della storia, ma uno strumento per sormontarla e creare il presente. Sulla stessa linea si situa Michel Foucault che, pro-prio per ciò che riguarda il carattere intempestivo ed inattuale del pensiero nietzscheano, individua nell’indagare le forze che intercorrono durante il divenire storico lo scaturire evenemenziale necessario a creare il presente come attualità del senso.

Possiamo concepire l’operazione di Deleuze come un proseguimento del pensiero nietzscheano, una continuazione trasformatrice in grado di sviluppare una fi losofi a propria a partire dalle indicazioni del fi losofo di Röcken, il quale aveva pensato all’immagine della freccia, scagliata da un pensatore in una data epoca e ripresa da altri in epoche successive, per illustrare la dinamica relativa all’evolversi del pensiero.

Derrida e la decostruzione della renaissance

Di fronte ad un certo ‘orgoglio’ nietzscheano esibito da Deleuze, che ca-ratterizza la sua strategia di riattivazione del fi losofo della volontà di po-tenza, appare interessante far valere le istanze di un altro protagonista del dibattito francese attorno a Nietzsche. Un grande protagonista del Convegno Internazionale di Cerisy-la-Salle e al tempo stesso un pensatore che, con le dovute e profonde differenze, ha condiviso molte delle tematiche deleuziane: Jacques Derrida, i cui testi e interventi su Nietzsche potrebbero descrivere

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l’altra faccia della Nietzsche renaissance. Una rinascita di determinate istan-ze nietzscheane o, per meglio aderire alla superfi cie derridiana, di determina-ti “stili” nietzscheani che reclamano la loro importanza strategica nell’opera del fi losofo di Röcken nonché nella fi losofi a contemporanea.

Derrida, in Nous autres Grecs, ha affermato che la propria lettura di Nietzsche «rimane molto differente da quella di Deleuze: dal suo stile, dal-le sue traduzioni, dal suo trattamento del testo e del linguaggio, dal suo in-sistente passaggio attraverso Heidegger e attraverso le questioni “critiche” poste da Heidegger e dal Nietzsche di Heidegger»30. La lettura derridiana di Nietzsche non si presenta infatti sotto forma di un commentario esau-stivo delle tematiche e dei concetti elaborati da Nietzsche, ma si manifesta tramite incursioni, privilegiando piuttosto aspetti apparentemente margi-nali – lo stile di scrittura, l’ambiguità di alcuni luoghi testuali e la vena po-lemica caratteristica del pensiero nietzscheano – e facendoli risuonare, fi no all’iperbole, nel corso di un ricco itinerario fi losofi co, da Della Grammato-logia fi no a Politiche dell’amicizia. Così Derrida, nei due testi consacrati a Nietzsche, Sproni e Otobiographies, non mira a fornire un’interpretazione accurata e sistematica come quella deleuziana, bensì mette direttamente in gioco la propria maniera di riattivare il pensiero nietzscheano, lasciando dispiegare, tramite la scrittura di Nietzsche, una forza lacerante tanto l’er-meneutica tradizionale quanto l’impianto metafi sico del Logos. L’obiettivo derridiano risulta allora essere quello di cogliere nel fi losofo dell’Eterno Ritorno gli elementi per una introduzione ‘sovversiva’ e destabilizzante nel dibattito fi losofi co contemporaneo. Inoltre, con Derrida si giunge ad uno stadio iperbolico dell’inattualità, o intempestività, nietzscheana, tramite il suo Otobiografi e. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome pro-prio. Intempestività in grado di far tremare le fondamenta politiche della Nietzsche renaissance.

In Sproni. Gli stili di Nietzsche, la mossa principale di Derrida consiste nel controeffettuare la lettura heideggeriana di Nietzsche ed il metodo er-meneutico a partire dal problema della donna, ritrovando nello stile di scrit-tura nietzscheano la radicalità ‘sovversiva’ volta al fi ne del “superamento del platonismo”, inteso derridianamente come decostruzione dell’idea di verità. Come già era stato teorizzato in Della Grammatologia,31 la lettura e la scrittura del testo divengono operazioni originarie e creatrici del senso,

30 J. Derrida, Nous autres Grecs, In Nos Grecs et leurs modernes, ed. B. Cassin, Paris 1992, p. 258 (trad. nostra).

31 Cfr. J. Derrida, Della Grammatologia, cit., (pp. 30-33) pp.36-39.

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il quale non sarebbe già presente nella sua purezza e solamente da scoprire, ma da inventare o da trasformare soprattutto grazie allo stile – di scrittura e di lettura –, ogni volta diverso, di un particolare fi losofo. In questo primo testo dedicato a Nietzsche, Derrida riprende diversi aforismi della Gaia Scienza e del Crepuscolo degli idoli per mostrare il singolare rapporto che lo stile di scrittura nietzscheano intrattiene con la fi gura della donna e con il tema della verità. Lo stile stesso sarebbe espresso sia in questo rapporto tra donna e verità, nella plurivocità del senso e dei sensi, sia nell’utilizzo dell’aforisma e delle fi gure che in quanto maschere avrebbero un ruolo squisitamente fi losofi co, non riconosciuto nella sua profondità da Heideg-ger. Il rovesciamento del platonismo, che dovrebbe coincidere con un suo superamento, non consiste nella semplice inversione dei valori, e dunque nel conferire alla donna l’essenza della verità. Si tratterà piuttosto di mo-strare, tramite la strategia della scrittura e la fi gura stessa della donna, una non-verità della verità, il che signifi ca una “verità plurale”:

Modello della verità [la donna], essa è dotata di un potere di seduzione che regola il dogmatismo, fuorvia e prende in giro gli uomini, i creduli, i fi losofi . Ma siccome, per quanto la riguarda, essa non crede alla verità, anche se ripone il proprio interesse in questa verità che non la interessa, la donna è ancora il modello: stavolta, il buon modello, o piuttosto il cattivo modello in quanto buon modello: si esercita nella dissimulazione, nel vezzo, nella menzogna, nell’arte, nella fi losofi a artiste: è un potere di affermazione.32

Heidegger sembrerebbe dimenticare il problema della donna, la quale è fondamentale che in Nietzsche possa essere vista sotto diversi aspetti: con-dannata come fi gura della menzogna, oppure degradata e disprezzata ma in quanto “verità”, per essere infi ne «riconosciuta e affermata quale potenza affermativa, dissimulatrice, artistica, dionisiaca»33. In questo modo non po-trebbe darsi una essenza della donna, ma a guidare il senso del rapporto tra donna e verità sarebbe il fenomeno della propriazione:

La propriazione del proprio viene precisamente denominata ciò che non appartiene a nulla, e quindi a nessuno, ciò che non decide più dell’appropria-zione della verità dell’essere, e rinvia nel senza-fondo dell’abisso la verità come non-verità, lo svelamento come velamento, la simulazione come dissi-

32 J. Derrida, Eperons les styles de Nietzsche, Flammarion, Paris 1978, p.28; Id., Sproni. Gli stili di Nietzsche, trad. it. di S. Agosti, Adelphi, Milano 1991, p. 40. Dalla prossima citazione di questo testo indicheremo tra parentesi le pagine che si riferiscono all’originale francese.

33 J. Derrida, Sproni, cit., (p. 79) p. 90.

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mulazione, la storia dell’essere come storia nella quale nulla, nessun essente si produce, ma solo il processo senza fondo dell’Ereignis, la proprietà dell’abis-so che è necessariamente l’abisso della proprietà ed anche la violenza d’un evento che si produce senza essere.34

Il signifi cato della propriazione, intesa come indecidibile tra il dare e il prendere, tra il possedere e il posseduto, viene ripreso dalla stessa lettura heideggeriana di Nietzsche ed è per Derrida una problematica capace di comprendere il senso della volontà di potenza, così come dell’eterno ritor-no; una problematica “più grande” ancora della questione della verità o del senso dell’Essere, i quali vi si troverebbero inscritti.

L’operazione di interpretazione messa in atto da Derrida si rivela allora soprattutto una decostruzione della lettura heideggeriana di Nietzsche, lad-dove il fi losofo di Marburgo designava Nietzsche come l’ultimo metafi sico, e la volontà di potenza come culmine della tradizione metafi sico-nichilistica occidentale. Per Derrida l’indecidibilità della propriazione viene espressa da Nietzsche mediante l’eterogeneità del senso manifestata dalla polivalenza che egli conferisce alla fi gura della donna. Questa eterogeneità, che per Derrida è “lo stile di Nietzsche”, garantisce al rovesciamento del platonismo di non con-cludersi in una mera opposizione simmetrica, ossia in una semplice inversione della gerarchia dei valori. La condizione per uscire dal platonismo si ritrova invece nell’eterogeneità del senso capace di produrre una reale trasformazio-ne della gerarchia dei valori. La donna dunque, recando in sé il movimento della propriazione, rappresenta per Derrida la possibilità di un nuovo rapporto tra la fi losofi a e la verità. Mancando di attenzione nei riguardi del tema della donna in Nietzsche, Heidegger vieterebbe di fatto alla sua lettura nietzscheana di comprendere il superamento della questione della verità.

L’interpretazione nietzscheana mediante una decostruzione di altre inter-pretazioni, che in Sproni ha il suo primo esempio, mostrerà nei testi derri-diani successivi la natura del rapporto tra Nietzsche e Derrida. Si può quindi parlare di una riattivazione di Nietzsche da parte di Derrida nella misura in cui quest’ultimo, mediante l’ausilio del fi losofo di Röcken, controeffettua, decostruisce e critica le tesi di altri fi losofi ed in particolare le loro letture nietzscheane.

Otobiografi e. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio è la pubblicazione della relazione presentata a Chicago nel 1984 in cui, inve-ce che leggere, come l’uditorio si aspettava, un testo inerente la costituzione

34 Ivi, (p. 98) p. 109.

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americana, Derrida lesse un denso e acuto discorso su Nietzsche, che mette-va in campo diverse problematiche legate all’indecidibilità di un senso stabi-le da offrire alle letture nietzscheane. Un gesto, quello di Derrida, che nella sua prassi, nel suo essere effettuato in tale forma, si può defi nire realmente intempestivo. Ma intempestivo forse fi no all’iperbole è anche il contenuto del testo, in cui si sottopone la scrittura, e non le intenzioni o il “voler dire” di Nietzsche35, di fronte al problema del nazionalsocialismo. Derrida si mostra allora inattuale rispetto ad una “attualità” della critica e dell’esegesi francese in merito a Nietzsche, mettendo in atto una decostruzione della renaissan-ce, cercando cioè di disarmare lo slancio politico di un discorso collettivo che trova la sua maggior forza nell’interpretazione deleuziana. E, seguendo l’analisi di Derrida, le ragioni di una decostruzione sono sicuramente ben calibrate dal punto di vista politico. Derrida si pone infatti l’obiettivo di mo-strare il senso che le conferenze di Nietzsche Sull’avvenire delle nostre scuo-le hanno di fronte alla storia ed in merito all’ascesa nazista in Germania. In particolare, Nietzsche nella quinta conferenza accenna in maniera esplicita al bisogno, per i tedeschi, di una guida, di un führer, che abbia il compito di risollevare le sorti di una cultura decadente e ostile alla vita.

Qui si sviluppa la contro-effettuazione derridiana della Nietzsche renaissan-ce. Se da un lato è sicuramente riduttivo sbandierare un’affi nità calzante tra quel che può signifi care führer per Nietzsche ed il führer hitleriano, dall’altro lato per Derrida è comunque “politicamente insuffi ciente” pensare che Nietz-sche non avesse mai voluto riferirsi ad un ordine sociale e politico in qualche modo simile al nazionalsocialismo. Il grande problema fi losofi co però, secon-do Derrida, è un altro, e non riguarda “ciò che Nietzsche avrebbe voluto dire” o ciò a cui alludeva, poiché tanto dal punto di vista storico che da quello del testo della quinta conferenza non sono il “voler dire” o l’intenzionalità dell’autore a guidare gli esiti dei suoi enunciati, ma un certo effetto di scrittura nel quale il nome proprio di Nietzsche rimane incatenato e da cui non può più slegarsi:

Anche se il voler-dire di uno dei fi rmatari o degli azionisti della grande società anonima “Nietzsche” non c’entrasse per niente, non può essere soltanto un caso che il discorso che porta il suo nome, nella società e secondo le norme civili ed editoriali, sia servito come legittimo riferimento agli ideologi; e il fatto che la sola politica che lo abbia effettivamente assunto come portabandiera sia stata la politica nazista non ha niente di contingente36.

35 Cfr. J. Derrida, Otobiographies, Galilée, Paris 1984, p. 59; Id., Otobiografi e, l’in-segnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio, trad. it. di R. Panettoni, Il poligrafo, Padova 1993, p. 79.

36 Ibidem.

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Ora, se si pensa al Nietzsche ‘di’ Deleuze, il contrasto con la tesi derri-diana è lampante. Sembra palese che la controeffettuazione di Derrida vada a colpire un’immagine – almeno potenzialmente – emancipatoria di Nietz-sche, che Deleuze ed altri autorevoli esponenti della Nietzsche renaissance costruiscono. Il problema, per Derrida, non è quello di individuare una ideologia “di destra” o (virtualmente) “di sinistra” nel pensiero di Niet-zsche, ma intessere il suo nome nella trama della scrittura ed osservarne gli effetti di cortocircuitamento e disseminazione del senso, così come gli effetti politici. Non sarà più (soltanto) l’intenzione di Nietzsche a compiere il destino politico di un proprio messaggio, ma il suo voler dire verrà fran-tumato in una rete eterogenea di sensi che si articolano a partire dal loro differimento spazio-temporale.

La distanza che Otobiographies misura dalla critica deleuziana è allora segnata dalla volontà di ripensare tutti i possibili effetti fi losofi ci, etici e politici legati all’opera di Nietzsche, a partire dal movimento di dissemina-zione del senso attuato dalla scrittura, che è différance, ossia “differimento e differenziazione”. Si può dire che, mentre Deleuze cerchi di far passare attraverso Nietzsche una sua visione fi losofi ca, Derrida inscriva gli esiti del testo nietzscheano proprio all’interno del movimento di différance. Se pen-siamo a Nietzsche come “una macchina di scrittura”, il cui senso interiore, come per la scrittura derridiana, non sarebbe presente, le implicazioni con il nefasto futuro sarebbero in qualche maniera condotte a partire proprio dall’avvenire, consegnando, come ciò è avvenuto, l’opera di Nietzsche al pericolo più cieco. Ma d’altra parte, per Derrida, è proprio il metodo di scrittura nietzscheano, se compreso nel suo stile radicalmente intempesti-vo, ad offrire la chance per non farsi ingabbiare tanto dal nazismo quanto dall’irrazionalismo. È a partire dalla comprensione di questa radicalità che Derrida si pone in defi nitiva l’obiettivo di destabilizzare ogni critica ed ogni interpretazione del “voler dire” di Nietzsche, rilanciando una volta di più l’enigmaticità del suo pensiero.

Non potendo in questo lavoro descrivere un confronto approfondito sul rapporto che, rispettivamente, Deleuze e Derrida intrattengono con Niet-zsche, ci limiteremo ad indicare una comune esigenza di riattualizzazione del pensiero nietzscheano da parte dei due fi losofi francesi. Tale esigenza, come abbiamo potuto osservare, ha in realtà motivi differenti e viene ‘sod-disfatta’ con metodi assai diversi, che testimoniano anche l’inconciliabilità dei due modi di fare (e di intendere la) fi losofi a. Se infatti per Deleuze la fi losofi a è innanzitutto creazione di concetti, Derrida ha fatto della deco-struzione – dei concetti, delle categorie e delle tematiche della tradizione

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– il proprio metodo fi losofi co. Il fatto che entrambi i fi losofi francesi abbia-no sviluppato un pensiero nietzscheano della “differenza”, dell’“evento” e dell’“esteriorità” non può essere tuttavia fonte di confusione tra le inten-zioni di Deleuze e quelle di Derrida.

Tra le due concezioni della “differenza”, ad esempio, non vi è una sem-plice differenza di grado, ma semmai una differenza di natura, dal momen-to che con Deleuze la “differenza”, ricercata nella sua “purezza ontologi-ca”, appartiene ad una sorta di empirismo metafi sico, mentre con Derrida la “differenza” diviene “différance”, rigorosa custode di un’economia testuale incapace di cedere a qualsiasi pretesa purezza, e a qualsivoglia ontologia. La différance derridiana non potrebbe “poggiarsi” sul piano di immanenza che Deleuze stabilisce per la creazione dei concetti, così come la distinzione tra forze attive e forze reattive, centrale per quanto riguarda l’intero orizzonte etico politico deleuziano, non esprimerebbe nulla all’in-terno dell’economia testuale di Derrida. Un altro punto di “scostamento” proviene dal problema del vitalismo: una fi losofi a vitalistica come quella deleuziana, che si sforza di non contemplare minimamente la mancanza sul piano di immanenza – intendendo quest’ultima, l’immanenza, come la meraviglia della vita, vale a dire la sua molteplicità costitutiva, slegata da ogni trascendenza –, non può che chiudersi a riccio di fronte alla decostru-zione della metafi sica della presenza e del presente vivente messa in atto da Derrida praticamente in tutti i suoi lavori.

Se la grandezza di Nietzsche di fronte alla fi losofi a contemporanea può essere rintracciata nel suo stile che permette una pluralità di attualizzazione, il merito di Deleuze e di Derrida è stato però sicuramente quello di indicare due vie interpretative in grado non solo di comprendere ma anche di far pro-seguire il pensiero nietzscheano. L’immagine suggerita da Nietzsche che più si presta a questa attualizzazione è quella – usata per descrivere il movimento del pensiero lungo la storia – della freccia scagliata da un fi losofo per essere raccolta da un altro pensatore in un’epoca successiva37. È un’immagine al tempo stesso di alleanza e di discontinuità, che permette anche la pluralità delle interpretazioni che un fi losofo può ricevere dai pensatori dell’avvenire.

La teoria nietzscheana della freccia per Deleuze descrive «l’immagine del fi losofo, offuscata da tutti i travestimenti di cui ha bisogno, [che] deve trovare un nuovo ambito di attività nell’epoca successiva»38. Pensare la ri-

37 Cfr. F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, trad. it. di S. Giammetta, M. Montanari, in Id., Opere, Adelphi, Milano 1964, vol. III, t. II, p. 433; Id., La fi losofi a all’epoca tragica dei greci, trad. it. di F. Masini, in Id., Opere, cit., vol. III, t. I, p. 271.

38 G. Deleuze, Nietzsche e la fi losofi a, cit., (p. 122) p.160.

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attivazione secondo una dinamica sagittale non conduce ad una continuità lineare, ma rappresenta uno sforzo creativo di attualizzazione del senso: «la catena dei fi losofi non è l’eterna catena dei saggi e meno ancora la con-catenazione della storia: è una catena spezzata, il susseguirsi delle comete, la loro discontinuità e la loro ripetizione»39. La freccia, nel suo percorso “spezzato”, illustra così tanto le affi nità che si possono contrarre con un fi -losofo come Nietzsche, quanto una ri-attivazione plastica e trasformatrice del suo pensiero. In questo senso allora, Deleuze e Derrida hanno raccolto, ciascuno a proprio modo, la freccia – o le frecce – di Nietzsche e, sempre in maniera singolare, hanno cercato di proseguirne il tragitto.

39 Ibidem.

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GIUSEPPE ZUCCARINO

BLANCHOT, IL NEUTRO, IL DISASTRO

Nel primo dei suoi testi esplicitamente volti a commentare i libri blan-chotiani, Emmanuel Levinas esordisce in questi termini: «La rifl essione di Maurice Blanchot sull’arte e la letteratura ha le più alte ambizioni. L’inter-pretazione di Hölderlin, Mallarmé, Rilke, Kafka, René Char, che egli offre nella sua ultima opera [L’espace littéraire], va più in profondità rispetto a qualunque critica vigorosa, e l’opera si situa in effetti al di là di ogni critica e di ogni esegesi. E tuttavia egli non tende alla fi losofi a. Non che il suo proposito sia inferiore a una tale misura – ma Blanchot non vede nella fi losofi a l’ultima possibilità»1. Chi meglio di Levinas poteva sapere che la formazione iniziale di Blanchot era stata quella di un fi losofo? I due, infat-ti, si erano conosciuti e avevano avviato la loro lunga amicizia nel 1926, all’Università di Strasburgo, dove entrambi si interessavano soprattutto di fi losofi a. Levinas ricorda che le sue conversazioni con l’amico «dipende-vano anche dall’interesse che egli ha avuto molto presto per quelle cose fenomenologiche di cui mi sono occupato»2, e Blanchot riconosce di do-vere al suo interlocutore «l’approccio a Husserl e anche ad Heidegger»3. Altrove è più preciso: «Grazie a Emmanuel Levinas, senza cui, fi n dal 1927 o 1928, non avrei potuto cominciare a capire Sein und Zeit, la lettura di questo libro ha provocato in me un vero e proprio choc intellettuale»4. E tuttavia, nonostante il forte interesse per i nuovi sviluppi del pensiero,

1 E. Levinas, Blanchot / Le regard du poète (1956), in Sur Maurice Blanchot, Mon-tpellier, Fata Morgana, 1975, p. 9 (tr. it. Blanchot / Lo sguardo del poeta, in Su Blanchot, Bari, Palomar, 1994, p. 45; si avverte che i passi delle traduzioni italia-ne cui si rimanda vengono spesso citati con modifi che).

2 E. Levinas, in François Poirié, Emmanuel Levinas. Essai et entretiens, Arles, Actes Sud, 1996, p. 73.

3 M. Blanchot, N’oubliez pas (1988), in Écrits politiques, Paris, Lignes & Mani-festes - Léo Scheer, 2003, p. 166 (tr. it. Non dimenticate, in Nostra compagna clandestina. Scritti politici (1958-1993), Napoli, Cronopio, 2004, p. 186).

4 M. Blanchot, Penser l’apocalypse (1987), in Écrits politiques, cit., p. 162 (tr. it. Pensare l’apocalisse, in Nostra compagna clandestina, cit., p. 184).

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Blanchot sceglie di intraprendere una carriera non di studioso o insegnante di fi losofi a ma dapprima di giornalista e poi di narratore e critico. Appare quasi emblematico, in tal senso, il fatto che egli abbia concluso la propria fase formativa conseguendo nel 1930, alla Sorbona, un diploma di studi superiori con una tesi dal titolo lievemente paradossale: La conception du dogmatisme chez les sceptiques5.

D’altro canto sarebbe improprio voler confi nare il lavoro di Blanchot nello spazio letterario, fosse pure per proclamare la sua eccellenza in esso, per rimarcare quella capacità di esplorarlo e dominarlo concettualmente che ha fatto di lui, secondo le parole di Michel Foucault, «l’Hegel della letteratura»6. E già il fatto che non solo Foucault, ma anche altri pensatori francesi di rilievo – come Bataille, Deleuze, Derrida e Nancy – abbiano parlato di Blanchot coll’ammirazione e il rispetto dovuti a un interlocutore autorevole basta a farci capire che la sua opera presenta forti implicazioni teoriche. Sarebbe anzi un compito necessario, benché alquanto impegnati-vo, quello di ricostruire il dialogo intercorso fra lui e i vari autori citati (ma-gari con l’aggiunta di altri, come Sartre). Tale dialogo è stato affi dato non solo ad opere di carattere monografi co, ma anche a una moltitudine di sag-gi, articoli e perfi no semplici note a piè di pagina. Questo vasto materiale, se considerato nel suo insieme, mostrerebbe come la portata del pensiero di Blanchot sia stata ben percepita dai fi losofi suoi contemporanei.

Eppure resta vero il fatto che egli non ha mai avanzato la pretesa di essere accolto fra essi, anzi ha espresso dei dubbi sulla specifi cità della loro disciplina. In un testo intitolato Le «discours philosophique», pensato come omaggio postumo a Merleau-Ponty, Blanchot fi nge per un attimo di accettare una certa concezione tradizionale, ma solo per farla seguire senza transizione da un’altra che la dissolve e la nega: «La fi losofi a è il suo discorso, il discorso coerente, storicamente connesso, concettualmente unifi cato, che forma sistema ed è sempre in via di compimento oppure un discorso, non soltanto molteplice e interrotto, ma lacunoso, marginale, rapsodico, ripetitivo e dissociato da ogni diritto ad essere parlato»7. Privi-legiando la seconda parte della defi nizione, egli fi nisce coll’intendere la fi -

5 Cfr. Christophe Bident, Maurice Blanchot, partenaire invisible. Essai bio-graphique, Seyssel, Champ Vallon, 1998, p. 49.

6 M. Foucault, Folie, littérature, société (1970), in Dits et écrits, II, Paris, Gal-limard, 1994, p. 124 (tr. it. Follia, letteratura, società, in Archivio Foucault. 1. 1961-1970: Follia, scrittura, discorso, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 281-282).

7 M. Blanchot, Le «discours philosophique» (1971), in La Condition critique. Ar-ticles, 1945-1998, Paris, Gallimard, 2010, pp. 332-333 (tr. it. Il «discorso fi losofi -co», in «aut aut», 273-274, 1996, p. 69).

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losofi a come ricerca di «un modo indiretto di espressione». A questo punto, però, può ricordare che esiste «un ambito in cui l’indiretto, il non-diritto, è in qualche modo di rigore: è, naturalmente, quello della letteratura»8. I due diversi modi di impiegare il linguaggio non si confermano e rassicurano a vicenda, bensì sono accomunati dal fatto di essere coinvolti in un processo destabilizzante che mina l’identità di entrambi, e che forse la letteratura sopporta meglio rispetto alla fi losofi a. Certo, esiste sempre qualcuno che tiene un discorso fi losofi co, ma «dietro a ciò che dice, c’è qualcosa che gli sottrae la parola, quel dis-corso che per l’appunto è senza diritto, senza se-gni, illegittimo, non qualifi cato, di cattivo augurio e quindi osceno, sempre di delusione o di rottura, e al tempo stesso, superando ogni interdetto, è il più trasgressivo»9.

Che queste non siano soltanto considerazioni di ordine generale, è quanto risulta chiaro da un testo più tardivo, in cui, trovandosi ad onorare l’amico Levinas, Blanchot è indotto a parlare anche di sé: «Filosofi , lo siamo tutti, indegnamente, gloriosamente, per abuso, per difetto, e soprattutto sottopo-nendo il fi losofi co (termine scelto per evitare l’enfasi della fi losofi a) a una messa in questione così radicale che occorre tutta la fi losofi a per sostener-la. […] La fi losofi a sarebbe la nostra compagna per sempre, di giorno, di notte, foss’anche perdendo il proprio nome, divenendo letteratura, sapere, non-sapere, o assentandosi»10. Per Blanchot, non si tratta di giudicare la fi losofi a da una posizione di estraneità rispetto ad essa, e neppure di con-fonderla con la letteratura, alla maniera di Valéry11. Se l’una trapassa, quasi insensibilmente, nell’altra, è solo nel momento in cui si apre a qualcosa che la priva di ogni stabilità e certezza. Per designare questo qualcosa, visto che sta commentando il pensiero di Levinas, Blanchot ricorre a un’espres-sione tipica del fi losofo lituano. «Ma che ne è appunto di ciò che Levinas chiama il y a, al di fuori di qualsiasi riferimento allo es gibt di Heidegger e persino ben prima che questi ce ne proponesse un’analisi strutturalmente del tutto diversa? L’il y a è una delle proposte più affascinanti di Levinas,

8 Ibid., pp. 333-334 (tr. it. p. 70).9 Ibid., p. 334 (tr. it. p. 71).10 M. Blanchot, Notre compagne clandestine (1980), in La Condition critique, cit.,

pp. 357-358 (tr. it. Nostra compagna clandestina, nel volume dallo stesso titolo, cit., pp. 147-148).

11 Alludiamo a passi celebri, come il seguente: «La fi losofi a, defi nita dalla sua opera che è opera scritta, è obiettivamente un genere letterario particolare, caratterizza-to da certi soggetti e dalla frequenza di certi termini e di certe forme» (Paul Valéry, Léonard et les philosophes, testo del 1929 ora in Œuvres, I, Paris, Gallimard, 1957; 1997, p. 1256). Non a caso, proprio in Notre compagne clandestine Blan-chot prende le distanze da altre affermazioni di Valéry riguardo alla fi losofi a.

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ed è anche la sua tentazione, come il rovescio della trascendenza, e dunque indistinto da essa, che può essere descritto in termini di essere, ma come impossibilità di non essere, l’insistenza incessante del neutro, il brusio not-turno dell’anonimo»12.

Ecco dunque che le parole di Blanchot, in questo testo del 1980, ci ripor-tano indietro di vari decenni. Era infatti in un libro del 1947, De l’existence à l’existant, che Levinas aveva introdotto il concetto di il y a. Partendo da situazioni particolari come quella dell’insonnia, egli aveva notato come esse ci diano la sensazione di una sorta di ineliminabilità dell’essere: «La notte è l’esperienza stessa dell’il y a. Quando le forme delle cose si sono dissolte nella notte, l’oscurità della notte, che non è un oggetto né la qualità di un oggetto, invade come una presenza. Nella notte in cui siamo inchio-dati ad essa, non abbiamo a che fare con niente. Ma questo niente non è quello di un puro nulla. Non c’è più né questo né quello, non c’è “qualco-sa”. Ma quest’universale assenza è, a sua volta, una presenza, una presenza assolutamente inevitabile»13. Siamo molto lontani, come nota il fi losofo, dall’angoscia heideggeriana, perché «mentre in Heidegger l’angoscia rea-lizza l’“essere per la morte”, che in qualche modo viene colta e compresa, l’orrore della notte “senza via d’uscita” e “senza risposta” è l’esistenza irremissibile»14. Non si tratta più di mettersi in rapporto con la propria morte, perché anzi l’esperienza a cui l’il y a ci espone è quella opposta, «l’impossibilità della morte, l’universalità dell’esistenza persino nel suo annientamento»15. Da questa situazione però, secondo Levinas, occorre as-solutamente trovare il modo di uscire, attraverso un recupero del soggetto, della dimensione del tempo, e soprattutto attraverso l’apertura all’altro.

Pur considerando l’analisi (e l’esperienza) dell’il y a come semplice tap-pa di un itinerario più complesso, il fi losofo sa di essere vicino a Blanchot in merito a questa particolare tematica. Egli rinvia infatti al primo romanzo dell’amico, Thomas l’Obscur, sostenendo che «si apre sulla descrizione dell’il y a» e che «la presenza dell’assenza, la notte, la dissoluzione del soggetto nella notte, l’orrore di essere, il ritorno dell’essere in seno a tutti i

12 Notre compagne clandestine, cit., p. 366 (tr. it. pp. 157-158).13 Cfr. E. Levinas, De l’existence à l’existant, Paris, Éditions de la revue Fontaine,

1947; Paris, Vrin, 1963; 1990, p. 94 (tr. it. Dall’esistenza all’esistente, Casale Monferrato, Marietti, 1986, p. 50). Il tema della notte verrà poi sviluppato in modo profondo e originale da Blanchot in L’espace littéraire, Paris, Gallimard, 1955 (tr. it. Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1967).

14 De l’existence à l’existant, cit., p. 102 (tr. it. p. 55).15 Ibid., p. 100 (tr. it. p. 53).

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movimenti negativi, la realtà dell’irrealtà, vi sono mirabilmente descritti»16. Può sembrare strana l’attribuzione di valore fi losofi co ad un libro che, per quanto insolito e complesso, resta pur sempre un romanzo, ma questa dif-fi coltà viene superata dallo stesso Blanchot, che a molti anni di distanza mostra di rileggere la propria opera adottando la stessa chiave di Levi-nas: «Thomas l’Obscur […] incontrava nella ricerca dell’annientamento (l’assenza) l’impossibilità di sfuggire all’essere (la presenza) – il che, in verità, non era nemmeno una contraddizione, ma l’esigenza di un’infelice perpetuità nel morire»17. Il tema della morte impossibile si ritrova del resto in molti saggi blanchotiani, come ad esempio La littérature et le droit à la mort18. In esso, la letteratura viene defi nita come una «cieca vigilanza che, volendo sfuggire a se stessa, s’immerge sempre più nella propria osses-sione, è la sola traduzione dell’ossessione dell’esistenza, se quest’ultima è l’impossibilità stessa di uscire dall’esistenza»19. Detto questo, Blanchot rimanda in nota all’opera dell’amico: «Nel suo libro De l’existance à l’exi-stant, Emmanuel Levinas ha messo in “luce” sotto il nome di il y a questa corrente anonima e impersonale dell’essere»20. E più oltre torna a chiamar-lo in causa, proprio in rapporto all’idea, a prima vista paradossale, secondo cui gli esseri umani sono intimoriti dall’esistenza «non a causa della morte che potrebbe mettervi un termine, ma perché esclude la morte, è ancora là al di sotto della morte, presenza in fondo all’assenza»21.

Gli esempi fi n qui forniti, prelevati all’interno di una serie assai più va-sta di riconoscimenti reciproci, non devono però indurci a pensare che i due autori in questione siano sempre concordi fra loro. In tal senso resta valida l’avvertenza fornita da Jacques Derrida: «Qualsiasi cosa Levinas e Blanchot abbiano detto o lasciato apparire riguardo al loro accordo, alla loro alleanza, li separa un abisso che potrebbe, se si volesse dedicarsi a

16 Ibid., p. 103 (tr. it. p. 56). Thomas l’Obscur è stato pubblicato dall’editore pari-gino Gallimard nel 1941; per gli stessi tipi, l’anno successivo è apparso un altro romanzo, Aminadab, anch’esso citato da Levinas in De l’existence à l’existant, p. 164 (tr. it. p. 87).

17 M. Blanchot, Après coup (1983), in Après coup, précédé par Le ressassement éternel, Paris, Éditions de Minuit, 1983, pp. 92-93 (tr. it. L’eterna ripetizione e «Après coup», Napoli, Cronopio, 1996, p. 83).

18 M. Blanchot, La littérature et le droit à la mort (1947-1948), in La part du feu, Paris, Gallimard, 1949; 1984, pp. 291-331 (tr. it. in M. Blanchot, La follia del giorno - La letteratura e il diritto alla morte, Reggio Emilia, Elitropia, 1982, pp. 61-123).

19 Ibid., p. 320 (tr. it. p. 106).20 Ibidem (la nota viene omessa nella traduzione italiana).21 Ibid., p. 324 (tr. it. p. 112).

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quest’esercizio, dar luogo a dissidi inconciliabili, talvolta ad opposizioni frontali o esplosive: sul “neutro”, per esempio, su un certo “anonimato”, e persino nella forma che assume la loro rispettiva distanza dal pensiero heideggeriano»22. Se abbiamo insistito sulla fase iniziale dei due itinerari teorici, è proprio perché coincide col momento di maggiore convergenza, dopo il quale essi andranno distinguendosi con nettezza. Ciò vale anche sul piano terminologico, perché per indicare qualcosa di simile a ciò che Levinas chiamava il y a, Blanchot ricorre a un vocabolo differente, quello di «neutro». E non è certo un caso se il fi losofo può concludere la propria opera più nota, Totalité et infi ni, segnando un netto distacco: «Noi abbiamo così la convinzione di aver rotto con la fi losofi a del Neutro: con l’essere dell’ente heideggeriano di cui l’opera critica di Blanchot ha tanto contri-buito a far emergere la neutralità impersonale»23. È evidente infatti che, dopo aver esplorato il momento dell’il y a, Levinas si sforza in tutti i modi di lasciarselo alle spalle, inoltrandosi su un terreno di tipo etico-religioso. Blanchot all’opposto, proprio rimanendo fedele all’il y a, ci fa capire che, nonostante l’attenzione che continua a rivolgere al percorso dell’amico, non può condividerne le scelte di fondo24.

Proprio per questo motivo, invece di insistere oltre sul parallelismo fra i due autori, cercheremo piuttosto di focalizzare meglio le idee blanchotiane, almeno limitatamente ad alcuni punti essenziali. Il primo di essi concerne la scrittura, cui non viene più assegnato il ruolo di strumento di elabora-zione e registrazione di concetti, teorie ed opere – come accade di norma nei testi fi losofi ci –, ma una funzione assai diversa. Nella nota che apre il suo libro più corposo, L’entretien infi ni, Blanchot segnala al lettore quale perdita delle usuali coordinate debba attendersi dalle pagine che seguiran-no: «Non più la scrittura che (per una necessità inevitabile) s’è sempre messa al servizio della parola o del pensiero cosiddetti idealisti, ossia mo-ralizzatori, ma la scrittura che, con la sua forza lentamente sprigionantesi

22 J. Derrida, in Derrida avec Levinas: entre lui et moi dans l’affection et la confi an-ce partagée, intervista di Alain David, in «Magazine littéraire», 419, 2003, p. 31.

23 E. Levinas, Totalité et infi ni. Essai sur l’extériorité, La Haye, Martinus Nijhoff, 1961; Paris, L.G.F., 1990, p. 332 (tr. it. Totalità e infi nito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca Book, 1980, p. 306).

24 Per un confronto delle rispettive posizioni, si rinvia ai saggi di Jacques Rolland, Pour un approche de la question du neutre, in «Exercices de la patience», 2, 1981, pp. 11-45 (tr. it. Per un approccio al problema del neutro, in «aut aut», 209-210, 1985, pp. 155-191) e di Françoise Collin, La peur. Emmanuel Levinas et Maurice Blanchot, in «L’Herne», 60, 1991, pp. 313-327 (tr. it. La paura. Emmanuel Levi-nas e Maurice Blanchot, in AA. VV., Il vivente. Differenze ed espressioni, Napoli, Filema, 1994, pp. 85-118).

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(forza aleatoria d’assenza), sembra non consacrarsi ad altro che a se stessa, restando senza identità e aprendo poco a poco possibilità sempre diver-se, un modo anonimo, distratto, differito e disperso d’essere in rapporto, modo che mette in discussione tutto e prima di tutto l’idea di Dio, dell’Io, del Soggetto, poi quella della Verità e dell’Uno, poi quella del Libro e dell’Opera»25. È chiaro che una scrittura così rinnovata e responsabilizza-ta può essere defi nita, quasi indifferentemente, di tipo letterario, critico e anche fi losofi co (purché si pensi a una fi losofi a impegnata a contestare le proprie tradizionali premesse). A partire da questo volume, Blanchot sce-glie dunque di rendere incerti i generi di discorso utilizzati, alternando parti dialogiche di tipo rifl essivo e commenti riferiti ad opere di letterati e pen-satori. Pur operando dunque un complessivo avvicinamento alle problema-tiche e al linguaggio della fi losofi a, Blanchot sembra rimproverare ad essa le sue pretese sistematiche e magistrali, che la conducono a marginalizzare o reprimere quell’esigenza di discontinuità che dovrebbe invece caratte-rizzare un pensiero inteso come ricerca. Per fortuna esiste, quale modello alternativo, l’eccezione costituita da una «letteratura di frammento». Essa è presente fi n dai tempi più remoti, ma «Pascal, Nietzsche, Georges Batail-le, René Char ne mostrano la persistenza essenziale»26. L’entretien infi ni, opera troppo ricca di spunti nelle più diverse direzioni per poter essere qui analizzata in dettaglio, culmina infatti in una serie di capitoli che associano strettamente l’idea del frammentario a quella del neutro.

Va detto che Blanchot, in coerenza con le sue premesse, non esordisce proponendo una precisa defi nizione di ciò che intende col termine di «neu-tro» e sviluppando poi il concetto in maniera analitica, ma procede piutto-sto per accenni e variazioni (in senso musicale). Occorre quindi cogliere, nel corso della lettura e man mano che vengono introdotti nel discorso, gli spunti relativi alle diverse situazioni che coincidono col manifestarsi della dimensione del neutro. L’autore sostiene ad esempio che non è possibile entrare in contatto con essa, cioè con qualcosa di assolutamente estraneo, mantenendo intatta la propria identità: «Uno dei tratti caratteristici di que-sta esperienza consiste nel non poter essere assunta come soggetto in prima persona da colui che la subisce, e nel suo compiersi solo introducendo nel campo della sua realizzazione l’impossibilità del compimento. Una simile esperienza sfugge ad ogni possibilità dialettica e nello stesso tempo rifi uta qualsiasi evidenza e comprensione immediata, ignora ogni partecipazione

25 M. Blanchot, L’entretien infi ni, Paris, Gallimard, 1969, p. VII (tr. it. L’infi nito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977, pp. IX-X).

26 Ibid., p. 6 (tr. it. p. 10).

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mistica. In essa pertanto è non già superato ma lasciato da parte il contrasto tra mediato e immediato, tra soggetto e oggetto, tra conoscenza intuitiva e conoscenza discorsiva»27.

Non occorre però immaginare che ciò si verifi chi solo in condizioni rare ed estreme, perché è possibile esperire il neutro già nella circostanza più comune e quotidiana, quella dell’incontro con l’altro. Certo, per Blanchot non si tratta di un faccia a faccia con Altri inteso, alla maniera di Levinas, come esposizione a una presenza che ci trascende e ci impone doveri e responsabilità assoluti nei suoi riguardi. In un certo senso, non è in causa neppure il rapporto con un essere umano, bensì «un’alterità in virtù della quale egli non è per me […] né un altro io, né un’altra esistenza, né una modalità o un momento dell’esistenza universale, né una superesistenza, dio o non-dio, bensì l’ignoto nella sua infi nita distanza. Alterità che cade sotto la denominazione del neutro»28. E altrove Blanchot è esplicito nel se-gnalare che, all’opposto, «il pensiero di E. Levinas si separa radicalmente dall’esperienza dell’altro come neutro»29.

Quando accennavamo a condizioni estreme, non pensavamo, tanto per fare un esempio, al pericolo, davanti al quale è anche possibile scoprire in sé un coraggio e una vitalità inaspettati. Alludevamo invece a circostanze che collocano chi le subisce al di sotto dell’esistenza comune: «L’uomo completamente infelice, l’uomo annientato dall’abiezione, dalla fame, dal-la malattia, dalla paura, si trasforma in qualcosa che non ha più nessun rap-porto con se stesso, né con chicchessia, una neutralità vuota, un fantasma vagante in uno spazio dove non accade niente, un vivente caduto al di sotto dei bisogni. […] Esiste una stanchezza da cui è impossibile riposarsi […]: non si può più essere stanchi, distaccarsi dalla propria fatica per dominarla, spogliarsene e raggiungere il riposo. Così accade con la miseria: la sven-tura. Diventa invisibile e quasi dimenticata. Sparisce in colui che ha fatto sparire (senza pregiudicarne l’esistenza), è insopportabile eppure la si sop-porta sempre, perché chi la sopporta non è più presente a provarla in prima persona»30. Queste situazioni-limite conducono a sperimentare il neutro, benché non vi sia più un «io» a poter rifl ettere su di esse e a scegliere, ad esempio, di porvi fi ne con la morte. Proprio allora, infatti, l’evasione tra-mite il decesso si rivela più che mai preclusa, sostituita da un’interminabile sopravvivenza.

27 Ibid., p. 32 (tr. it. p. 32).28 Ibid., p. 109 (tr. it. pp. 102-103).29 M. Blanchot, L’étrange et l’étranger (1958), in La Condition critique, cit., p. 287.30 L’entretien infi ni, cit., pp. 258-259 (tr. it. p. 235).

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Il neutro emerge anche in relazione alla scrittura, intesa come movimento del pensiero. Per Blanchot, infatti, è lecito chiedersi se «scrivere non equi-valga a mantenersi, sin dall’inizio e preventivamente, […] in rapporto con il Neutro (o in un rapporto neutro), senza alcun riferimento al Medesimo, all’Uno, fuori da ogni visibile e invisibile»31. L’autore accetta, fi no a un certo punto, di tematizzare il neutro, ma anche quando sembra disposto a chiarire ciò che intende con questo vocabolo ne offre solo una defi nizione in nega-tivo: «Il neutro è ciò che non rientra in alcun genere: il non generale, il non generico, il non particolare. Rifi uta l’appartenenza alla categoria dell’oggetto come a quella del soggetto. E ciò non vuol dire soltanto che è ancora indeter-minato e quasi esitante fra i due, ma signifi ca che presuppone una relazione diversa, che non dipende né dalle condizioni oggettive né dalle disposizioni soggettive»32. Tutto questo è in accordo con l’etimo del vocabolo, ossia il latino neuter, che signifi ca appunto: né l’uno né l’altro33.

Sembra lecito chiedersi se tale nozione così diffi cile da circoscrivere si possa accostare all’essere inteso al modo di Heidegger. Lo stesso Blanchot affronta la questione, ma al fi ne di evitare indebite confusioni o assimila-zioni: «La fi losofi a heideggeriana potrebbe essere intesa come una risposta a questa domanda del neutro e un tentativo di avvicinarsi ad essa in maniera non concettuale. […] La rifl essione sulla differenza tra l’essere e l’essente […] sembra invitare il pensiero e il linguaggio a riconoscere nel Sein una parola fondamentale per il neutro. Ma bisogna subito rettifi care dicendo che la dignità riconosciuta all’essere nell’appello che ci verrebbe da esso, tutto ciò che avvicina ambiguamente l’essere al divino, la corrispondenza tra il Sein e il Dasein, il fatto provvidenziale che essere e comprensione dell’essere vadano insieme, […] il rapporto del Sein con la verità, velatura che si svela nella presenza di luce, tutto ciò non ci predispone alla ricerca del neutro»34. Per quanto la distinzione che si trova alla base del pensiero

31 Ibid., p. 384 (tr. it. p. 347). Cfr. anche M. Blanchot, La veille, in L’Amitié, Paris, Gallimard, 1971, pp. 249-251 (tr. it. La veglia, in L’amicizia, Genova-Milano, Marietti, 2010, pp. 259-261).

32 L’entretien infi ni, cit., p. 440 (tr. it. p. 399).33 Lo scrittore ha ben presente l’origine della parola: «Il neutro deriva, nel modo

più semplice, da una negazione a due termini: neutro, né l’uno né l’altro» (M. Blanchot, Le pas au-delà, Paris, Gallimard, 1973, p. 104; tr. it. Il passo al di là, Genova, Marietti, 1989, p. 60).

34 L’entretien infi ni, cit., p. 441 (tr. it. p. 400). Si veda un altro passo signifi cativo: «Levinas afferma che l’Essere di Heidegger è il Neutro. L’Essere non è un essen-te, né il tutto di ciò che è. L’Essere non è Dio, un trascendente personale, malgrado gli sforzi degli interpreti cristiani per tirare dalla loro parte questa fi losofi a. Hei-degger “mette al di sopra dell’uomo un Neutro” “che illumina e comanda il pen-

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heideggeriano possa sembrare originaria, ha ragione Derrida nell’osservare che «il neutro, ciò che Blanchot chiama così, si situa (se almeno si può parlare qui di luogo e di topologia) prima e al di là di questa differenza tra l’essere e l’essente»35, dunque su un piano diverso.

Come si è visto, il linguaggio fi losofi co risulta inabile ad accostarsi al neutro, e anche l’attitudine di tipo mistico viene esplicitamente messa fuori causa. Perché allora proprio la scrittura letteraria dovrebbe costituire una via privilegiata d’approccio? Alla domanda Blanchot risponde dicendo che fra i caratteri della letteratura c’è quello «di perseguire indefi nitamente l’epochè, il compito rigoroso di sospendere e di sospendersi, senza che per questo tale movimento possa essere attribuito alla negatività. […] Neutro sarebbe l’atto letterario che non è né di affermazione né di negazione e che (in un primo momento) libera il senso come fantasma, ossessione, simulacro di senso»36. Dunque tale forma di scrittura è più consona alle esigenze del neutro non per ciò che dice, ma per la sua capacità di asserire in maniera obliqua.

Ciò vale sia per la poesia che per la prosa, anche se esistono delle moda-lità di scrittura che godono, agli occhi di Blanchot, di un certo privilegio. Ad esempio, nei testi di alcuni autori moderni – da Kafka a Beckett a Marguerite Duras – sembra si possa rilevare la presenza di una «voce narrativa» anoni-ma e neutra. Tale voce, distinta da quella del narratore, «non dice nulla, non solo nel senso che non aggiunge nulla a quello che c’è da dire (non sa nulla), ma perché sottende quel nulla […] in cui la parola è già adesso coinvolta. […] Essa è radicalmente esterna, viene dall’esteriorità stessa»37.

Ma la forma espositiva, e di pensiero, che appare più valorizzata in L’en-tretien infi ni è quella del frammento. Innanzitutto occorre evitare di con-fondere fra loro la scrittura aforistica e quella frammentaria. Blanchot risa-le all’indietro fi no ai primi teorici di quest’ultima, i romantici tedeschi, in particolare Friedrich Schlegel e Novalis, mostrando che in essi si riscontra-no due diverse concezioni del frammento, per un verso considerato come chiuso su se stesso e strettamente legato all’individualità (quindi assimila-

siero e rende intelligibile”. Tuttavia, non si tratta di un Neutro un po’ vergognoso? Anche se l’oblio dell’essere è in certo modo essenziale all’esperienza dell’essere, è l’oblio che si fa carico della realtà dell’alienazione, lasciando l’Essere nella sua oscura purezza d’apoteosi» (L’étrange et l’étranger, cit., p. 287). Su ciò che di-stingue la posizione teorica blanchotiana da quella di Heidegger e di altri fi losofi , come Hegel e Husserl, è incentrato il volume di Marlène Zarader, L’être et le neutre. À partir de Maurice Blanchot, Lagrasse, Verdier, 2001.

35 J. Derrida, «Maurice Blanchot est mort», in Parages, nuova edizione ampliata, Paris, Galilée, 2003, p. 299.

36 L’entretien infi ni, cit., p. 448 (tr. it. p. 406).37 Ibid., p. 565 (tr. it. p. 512).

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bile all’aforisma), per l’altro inteso come parola plurale, collettiva, volta alla ricerca del nuovo38. Un’oscillazione in certo modo analoga si ritrova in Nietzsche. È vero che il fi losofo si considerava un maestro nell’arte di comporre aforismi, ossia testi che, pur avendo rinunciato al valore pedago-gico e alla rassicurante levigatezza della massima, restano stilisticamente curati e concettualmente autosuffi cienti. Tuttavia, criticando l’unità e la totalità, egli entrava di fatto nella dimensione del frammentario, ossia quel-la di una parola caratterizzata dalla discontinuità e dalla separazione, una parola «non compiuta (perché estranea alla categoria del compimento)»39.

Un caso esemplare di pratica del frammento, nella letteratura contem-poranea, sembra a Blanchot quello offerto dal poeta René Char. Molti suoi testi, infatti, risultano suddivisi non in versi e strofe, ma in brevi passi, scritti in una prosa ad un tempo lirica ed enigmatica, di grande densità. Nell’ottica blanchotiana, si tratta di frammenti, non di aforismi, perché ciò che è «importante ed esaltante nella serie di “frasi” quasi separate che tan-ti dei suoi poemi ci propongono [...] è il fatto che, sebbene interrotte da uno spazio bianco, isolate e dissociate al punto che è impossibile passare dall’una all’altra, oppure possibile con un salto e prendendo coscienza di un diffi cile intervallo, tuttavia, nella loro pluralità, danno il senso di una di-sposizione che destinano ad un avvenire di parola […]. Qui c’è uno stretto legame tra rigore e neutro»40.

Negli anni che seguono la pubblicazione di L’entretien infi ni, Blanchot avrà meno bisogno di cercare riscontri esterni a sostegno della sua idea di scrittura frammentaria, perché comincerà a praticarla in proprio, come di-mostrano due importanti volumi: Le pas au-delà e L’écriture du désastre41. Benché il primo sia senz’altro meritevole di attenzione e contenga parec-chie rifl essioni di rilievo (ad esempio sui temi del neutro e della morte),

38 Su tutto ciò, cfr. ibid., pp. 525-527 (tr. it. pp. 476-478).39 Ibid., p. 229 (tr. it. p. 209); più in generale, si vedano le pp. 227-230 (tr. it. pp.

207-209).40 Ibid., pp. 452-453 (tr. it. pp. 410-411). Quest’interpretazione dei testi di Char

convince solo in parte, e non a caso ha suscitato riserve da parte del poeta stesso. Riferisce infatti il critico Jean-Claude Mathieu che «Char, pur ammirando la pro-fondità di Blanchot, non era soddisfatto della nozione di “parola di frammento” che esclude la totalità: ciascuno dei suoi brevi testi era, ai suoi occhi, “un tutto concentrato, a partire dal quale c’è un’infi nità di reticoli”, e ciascuno “sottintende il tutto”» (J.-C. Mathieu, Trente ans après, nel catalogo René Char, Paris, Biblio-thèque nationale de France - Gallimard, 2007, p. 248; le espressioni che il critico riporta fra virgolette sono quelle usate dal poeta nel corso del loro dialogo).

41 Le pas au-delà, cit., e L’écriture du désastre, Paris, Gallimard, 1980 (tr. it. La scrittura del disastro, Milano, SE, 1990).

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per brevità passeremo subito a considerare il secondo. Questo ci interessa perché introduce un nuovo concetto, quello appunto di «disastro». Parlare di concetto è quasi una forzatura, perché, anche se la nozione non si pre-senta come un sinonimo di «neutro», la tecnica retorica con cui Blanchot ne parla rimane quella che già conosciamo. Nel libro, infatti, sono nume-rose le frasi di apparente aspetto defi nitorio, ma che si rivelano costruite in modo da negare all’istante ogni affermazione che in esse venga avanzata. Per vedere all’opera questo procedimento, basta leggere le prime righe del frammento di apertura: «Il disastro rovina tutto lasciando tutto immutato. Non colpisce questo o quello, “io” non sono sotto la sua minaccia. Nella misura in cui, risparmiato, lasciato da parte, il disastro mi minaccia, esso minaccia in me ciò che è fuori di me, un altro da me che divento passiva-mente altro. Il disastro non colpisce. Chi è minacciato da esso, se da vicino o da lontano è impossibile dirlo, è fuori tiro – l’infi nito della minaccia in un certo senso ha infranto ogni limite. Noi siamo sull’orlo del disastro senza che lo si possa situare nell’avvenire: esso è piuttosto sempre già passato, e tuttavia ne siamo sull’orlo o sotto la minaccia, espressioni, queste, che implicherebbero tutte l’avvenire se il disastro non fosse ciò che non viene, ciò che ha interrotto ogni venuta»42. Sarebbe agevole prelevare dal volume esempi analoghi a questo, ma se si vuol comprendere cosa Blanchot inten-de quando parla di disastro, occorre cercare indizi di altro tipo.

Una prima implicazione del termine è di ordine vagamente etimologico: Blanchot infatti interpreta désastre come se alludesse non a una «cattiva stella», ma a una «rottura con l’astro»43. Egli ha presente il celebre verso del Tombeau d’Edgar Poe di Mallarmé in cui il poeta, alludendo – in un contesto metaforico – ad un meteorite, lo defi niva «calmo blocco caduto quaggiù da un disastro oscuro»44. Blanchot varia in due modi l’espressione appena citata, sia riprendendola allusivamente («rotola oscuro, l’astro del disastro»), sia negandone l’effetto implicito: «È il disastro oscuro che porta la luce»45. Questa luce non è però quella dell’illuminazione religiosa, giac-ché il distacco dall’astro allude proprio alla defi nitiva separazione da ogni sopramondo, in conseguenza della quale siamo ormai posti «sotto il cielo dell’assenza», «al di fuori dello spazio siderale»46.

42 L’écriture du désastre, cit., p. 7 (tr. it. p. 11).43 Ibid., pp. 92 e 121 (tr. it. p. 72 e 93).44 S. Mallarmé, Le Tombeau d’Edgar Poe, in Poésies, in Œuvres complètes, I, Paris,

Gallimard, 1998, p. 38 (tr. it. La tomba di Edgar Poe, in Poesie, in S. Mallarmé, Poesia e prosa, tr. it. Milano, Guanda, 1982, p. 99).

45 L’écriture du désastre, cit., pp. 77 e 17 (tr. it. pp. 61 e 18).46 Ibid., p. 84 (tr. it. p. 66).

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Sarebbe lecito obiettare che non si tratta di una novità, perché a partire quanto meno da Nietzsche la fi losofi a ha rinunciato sia all’idea di una tra-scendenza divina, sia a quella di un cosmo ordinato e, per così dire, diretto dall’alto. Inoltre, come abbiamo visto, già in L’entretien infi ni Blanchot proclamava la propria distanza da nozioni maiuscole come quelle di Dio, dell’Uno, del Vero. Bisogna allora porre il problema su un piano diverso: in quali condizioni ci si trova a sperimentare il disastro, o perlomeno ad avvicinarsi a una simile percezione? Blanchot infatti nega che esso possa entrare nell’ambito dell’esperibile: «Noi sentiamo che non potrebbe esserci esperienza del disastro, anche se l’intendessimo come esperienza-limite. È questo uno dei suoi tratti: destituisce ogni esperienza, le toglie autorità»47.

Vale quindi anche per il disastro ciò che già valeva per il neutro: non si tratta di uno spazio a cui si abbia accesso, entro cui ci si possa stabilmente situare. Inoltre il fatto di approssimarsi ad esso non va inteso come il risultato della decisione di un io, ma piuttosto come qualcosa che viene subìto, e che anzi destruttura il soggetto percipiente. Infatti, «rispetto al disastro siamo passivi» e «nella pazienza della passività, l’io esce dall’io in modo tale che in questo fuori, là dove l’essere manca senza che sia designato il non essere, il tempo della pazienza, tempo dell’assenza di tempo, […] non ha più un supporto, non trova più qualcuno che lo porti»48. Anche se una simile condizione non si la-scia descrivere facilmente, «possiamo evocare delle situazioni di passività, la disgrazia, l’annientamento fi nale dello stato concentrazionario, la servitù dello schiavo senza padrone, caduto al di sotto del bisogno, il morire come disatten-zione all’esito mortale. In tutti questi casi possiamo riconoscere, sebbene con un sapere falsifi cante, approssimativo, dei tratti comuni: l’anonimato, la perdi-ta di sé, la perdita di ogni sovranità ma anche di ogni subordinazione»49.

Come si vede, Blanchot non esita ad evocare il caso-limite, quello rap-presentato dai campi di sterminio, in cui «immobili, camminando con pas-so uguale e lento, vanno e vengono gli uomini distrutti», in cui persino il lavoro coatto perde ogni senso, giacché per l’internato «cessa d’essere il suo modo di vivere e diventa il suo modo di morire»50. È noto infatti che il tema dello sterminio degli Ebrei svolge un ruolo di primaria importanza nella tarda produzione teorica (e politica) di Blanchot, al punto che l’olo-causto si confi gura ai suoi occhi come l’«evento assoluto della storia», la «bruciatura-totale in cui l’intera storia si è incendiata»51.

47 Ibid., p. 85 (tr. it. p. 67).48 Ibid., pp. 9 e 35-36 (tr. it. pp. 12 e 31-32).49 Ibid., p. 34 (tr. it. pp. 30-31).50 Ibid., pp. 34 e 129 (tr. it. pp. 30 e 99).51 Ibid., p. 80 (tr. it. p. 63). Ciò spiega la ricorrente polemica contro uno dei suoi

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Tuttavia conviene ricondurre l’idea del disastro ad una dimensione meno estrema, più compatibile con l’esistenza comune. In tal caso la passività può presentarsi semplicemente come spossatezza, scoraggiamento, perdita della forza e della volontà di procedere. Se chi avverte una condizione di questo tipo è uno scrittore, ciò non mancherà di rifl ettersi sulle sue possibi-lità di espressione52. Per lui si tratterà ormai di «leggere, scrivere, come si vive sotto la sorveglianza del disastro», e anzi di fare appello «a tutta la sua energia per non scrivere, affi nché, scrivendo, scriva per debolezza, nell’in-tensità della debolezza»53. La forma del frammento diventa allora la più congeniale, perché gli consente di condurre (o meglio, di lasciarsi condurre da) un discorso breve, discontinuo, irrelato: «Quando tutto è stato detto, re-sta da dire il disastro, rovina della parola, cedimento attraverso la scrittura, brusio che mormora: ciò che resta senza resto (il frammentario)»54. Si tratta infatti di una modalità espositiva che, a differenza di quella aforistica, aspi-ra ad essere plurale e non presuppone un io fortemente assertivo: «Il fram-mento, in quanto frammenti, tende a dissolvere la totalità che presuppone e che trascina verso quella dissoluzione da cui (propriamente parlando) non si forma, a cui si espone, scomparendo – e con esso ogni identità – al fi ne di conservarsi come energia di sparizione»55.

Nonostante ciò, e per quanto lo si possa considerare come l’ultimo libro di Blanchot (essendo seguito solo da plaquettes o ristampe in volume di vecchi testi), L’écriture du désastre ci pone di fronte ad un pensiero capace di aprirsi a molti temi e interessi diversi, sempre pronto ad accogliere la parola altrui, non per ripeterla o trarne autorizzazione, bensì per ripensarla modifi candola. A questo proposito, va detto che in tutto il libro Blanchot intesse un serrato dibattito con i fi losofi : soprattutto, e come sempre, Niet-zsche, Heidegger e Levinas. Ciò non ci autorizza certo a spostare la sua opera su un terreno che non le è proprio, ma ci impone di ribadire la sua prossimità a quest’ambito. Tanto più che, pur essendosi occupato in pre-valenza di letteratura, Blanchot non ha mai mostrato di volerla opporre alla fi losofi a: «Scrivere nell’ignoranza e nel rifi uto dell’orizzonte fi losofi -

maestri, perché, oltre che nell’adesione al nazismo, «la colpa irreparabile di Hei-degger sta nel suo silenzio sullo Sterminio» (Penser l’apocalypse, cit., p. 162; tr. it. p. 184).

52 Occorre almeno accennare al fatto che L’écriture du désastre presenta una forte componente autobiografi ca e che Blanchot fi n dalla giovinezza, ma soprattutto negli ultimi decenni della sua vita, ha avuto gravi problemi di salute.

53 L’écriture du désastre, cit., pp. 12 e 24 (tr. it. pp. 14 e 23).54 Ibid., p. 58 (tr. it. p. 47).55 Ibid., p. 99-100 (tr. it. pp. 77-78).

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Blanchot, il neutro, il disastro di G. Zuccarino 121

co, tratteggiato, raccolto o disperso attraverso le parole che lo delimitano, signifi ca necessariamente scrivere nella facilità del compiacimento (la let-teratura dell’eleganza e del buon gusto). Hölderlin, Mallarmé, e tanti altri, non ce lo permettono»56.

Possiamo dunque concludere osservando che la duplice esigenza di spo-starsi al di là, o a lato, rispetto al discorso fi losofi co, e nel contempo di tenerlo sempre bene in vista, di interrogarlo destabilizzandolo, è proprio ciò che caratterizza i rapporti che legano Blanchot alla fi losofi a. E ricordia-mo che non a caso egli ha voluto defi nire quest’ultima – con una formula che lascia trasparire modestia ma, a ben vedere, anche orgoglio – come la propria «compagna clandestina».

56 Ibid., p. 160 (tr. it. p. 121).

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IGNAZIO SEMINO

J.- F. LYOTARD E IL POSTMODERNO

La fama di Jean-Francois Lyotard è indissolubilmente legata a quella del concetto di “postmoderno” e quindi al titolo di quell’opera che ha avuto una notevole fortuna, La condizione postmoderna, risalente al 1979. Ma tutti i critici riconoscono che ridurre il pensiero di Lyotard a quest’unico libro è un grave errore: esso rappresenta un’ opera “minore” nel panorama della produ-zione del fi losofo; altri testi sono molto più importanti, ad esempio Il dissidio – che Lyotard stesso giudicava la sua opera più notevole dal punto di vista fi losofi co. Dobbiamo rilevare che gli interessi e le concezioni di Lyotard si sono sviluppati attraverso un percorso molto ricco e variegato e hanno porta-to alla pubblicazione di una molteplicità di opere, per cui è scorretto ridurre la fi gura di Lyotard a quella di semplice divulgatore di un concetto di moda come quello di “postmoderno”. Con queste avvertenze tuttavia, da un punto di vista storico, bisogna riconoscere che effettivamente il ruolo di Lyotard nel successo del termine e del concetto è stato notevole. Ciò è innegabile, anche se tale “successo”, dovrebbe essere più attentamente valutato: consideriamo, ad esempio, che Habermas, nella sua opera di critica del postmoderno1, non ritiene di dover discutere le tesi di Lyotard. C’è poi chi ha sostenuto che Lyo-tard abbia lanciato il concetto di postmoderno in fi losofi a, ma poi sia stato Vattimo l’effettivo teorico di punta del concetto 2. È ovvio che a questo punto si dovrebbe ampliare il discorso sulle diverse interpretazioni del concetto di “postmoderno”, cosa che qui non faremo.

Accenniamo solo al problema della equivocità del termine. Qualcuno ha sostenuto che “postmoderno” è una contraddizione in termini: che cosa infatti ci può essere ‘dopo’ il “moderno”? Come altri termini caratterizzati dal “post”, “postmoderno” rimane parassitario del concetto rispetto al qua-le costituisce il “post”, in questo caso il concetto di “moderno”; forse da

1 Jürgen Habermas, Il discorso fi losofi co della modernità, Roma-Bari, Laterza 1987 (1985).

2 È la tesi di Fornero. Cfr. Postmoderno e fi losofi a, in N. Abbagnano, Storia della fi losofi a, UTET, Torino 1994, vol. IV, p. 394.

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questo punto di vista il “post” di “postmoderno” è più legittimo di altri: in effetti, come si è detto, non si può andare oltre il moderno. Inoltre una delle caratteristiche del postmoderno è che esso rifi uta la categoria (propria della modernità) del ‘superamento’, del ‘progresso’. È chiaro che non possiamo qui prendere in considerazione tutte le varie declinazioni del postmoderno all’interno delle diverse discipline in cui è stato impiegato (architettura, critica letteraria) e neppure le diverse valenze del postmoderno fi losofi co (Vattimo, Rorty ecc.). Per restare alla terminologia, accenniamo al fatto che Lyotard, come molti altri pensatori francesi della sua epoca, è stato assegnato alla corrente del “postrutturalismo”: tuttavia è assai dubbio che tale termine abbia una effettiva rilevanza storiografi ca, anche se lo si può sempre usare – come noi stessi faremo – per la sua praticità. Infatti, autore-voli critici hanno affermato che lo stesso termine “strutturalismo” – usato per indicare un supposto movimento fi losofi co – è poco più di un’etichetta. Ma se “strutturalismo” è solo un’etichetta di comodo, fi guriamoci quale portata cognitiva può avere un termine come “postrutturalismo”!

In questo breve scritto, intendiamo ripercorrere velocemente le tappe dello sviluppo del pensiero di Lyotard per poi soffermarci un po’ più a lun-go sull’opera dedicata al postmoderno per la sua importanza da un punto di vista storico e culturale.

L’itinerario di Lyotard

La formazione di Lyotard è nell’ambito della fenomenologia, da Husserl a Merleau-Ponty: è del 1954 la sua prima opera, in cui pone in relazione la fenomenologia con il marxismo, evidenziando però l’insuffi cienza del-la prima nei confronti di una considerazione dell’oggettività propria del secondo, capace a sua volta di inglobare in sé anche l’elemento soggetti-vo. L’analisi della fenomenologia prosegue anche nell’opera successiva, Discorso, fi gura (1971). Peraltro qui si usa anche la psicoanalisi, ma cri-ticando gli sviluppi in senso strutturalistico che la disciplina aveva avuto per opera di Lacan. Il testo si basa sulla dicotomia tra il testo scritto, il discorso, e la fi gura, cioè l’immagine visiva. Il privilegio che è stato tradi-zionalmente attribuito nella fi losofi a all’elemento del discorso, all’aspetto più propriamente concettuale, contrapposto all’elemento sensibile, visivo, è ciò a cui si oppone Lyotard; l’obiettivo polemico è anche la riduzione, da parte dello strutturalismo, dell’elemento fi gurale in termini di discorso.

Dopo il sempre più marcato allontanamento dalle posizioni marxiste (cfr.:A partire da Marx e Freud, 1973), Lyotard verrà elaborando una fi lo-

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J.- F. Lyotard e il postmoderno di I. Semino 125

sofi a della differenza che interpreta la realtà come un’insieme di eventi sin-golari che non possono essere compresi in una teoria. Negli anni settanta questa concezione viene espressa da quella che egli chiama una fi losofi a li-bidinale (Economia libidinale, 1974): essa si basa sul concetto freudiano di libido, interpretato però su un piano più generale come energia che sottende gli eventi; si tratta perciò di una rielaborazione originale del concetto, che l’autore stesso defi nisce come una «fi nzione teoretica»: tale energia si artico-la in «intensità» (i sentimenti) e «affetti» (i desideri), intese come forze che agiscono a livello dell’individuo e della società. Vi è così una dialettica tra la struttura – che rappresenterebbe qui il nichilismo – e le intensità libidinali.

Val la pena di menzionare un’opera che precede di due anni l’opera sul postmoderno: i Rudimenti pagani (1977) Il termine paganesimo indica il riferimento ad una molteplicità di divinità, e quindi all’impossibilità di ri-durre le differenze all’uno, il molteplice all’universale. Lyotard defi nisce “terrorismo del teorico” il tentativo di eliminare le differenze e la mol-teplicità che molte fi losofi e hanno compiuto nella ricerca della riduzione all’unità di una totalità differenziata.

Nel 1979 Lyotard pubblica La condizione postmoderna: nella interpre-tazione di Lyotard, il concetto di “postmoderno” designa, da un punto di vista fi losofi co, l’incredulità verso le meta-narrazioni, in particolare verso le visioni totalizzanti della storia che hanno lo scopo di legittimare il sapere delle scienze e l’attività sociale. Mentre nel moderno si formulavano tali le-gittimazioni (la storia come progresso, la conoscenza come totalizzazione) nel postmoderno ciò non è più possibile: non rimarrà che la frammentazione ed il pluralismo. Queste idee rimarranno fondamentali anche nell’ulteriore sviluppo del pensiero di Lyotard. Ciò in particolare si ritrova ne Il dissidio (1984) che, come si è già detto, molti critici e lo stesso Lyotard considerano l’opera fi losofi ca maggiore del fi losofo francese. Il concetto di “dissidio” indica un confl itto tra due parti che non può essere composto mediante il ricorso a regole di giudizio accettate da entrambe. Si tratta di riconoscere l’esistenza di una molteplicità di tipi di discorso, ciascuno basato su proprie regole, senza che sia possibile trovare una meta-regola che sovrintenda a tutti i discorsi quando questi entrano in confl itto tra di loro. La necessità di ripensare in chiave plurale la realtà ha portato Lyotard a confrontarsi con il pensiero kantiano, rifacendosi in particolare alla Critica del giudizio. Tale riferimento al pensiero di Kant sarà ripreso attraverso la trattazione del con-cetto di “sublime” nella elaborazione di una estetica della «presentazione dell’impresentabile»(Lezioni sull’analitica del sublime, 1991).

Non possiamo qui soffermarci sugli sviluppi successivi del pensiero di Lyotard, peraltro molto articolati. Notiamo però che da una parte il discorso

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sul postmoderno sembra essere passato in second’ordine nelle analisi del fi losofo francese, anche se ritornerà a discuterne specifi camente nel Postmo-derno spiegato ai bambini (1991). Lyotard ha visto nel successo della sua opera del 1979 quasi un aspetto negativo, come se avesse portato a ridurre tutto il suo pensiero nei ristretti termini di quella tematica specifi ca. D’altra parte non si può dire che le concezioni elaborate in quell’opera siano state abbandonate in seguito. Ciò potrebbe sembrare a chi leggesse le successive opere di Lyotard alla luce della vulgata del postmoderno affermatasi in se-guito. Ad esempio non si può imputare al fi losofo francese, come si può fare nei confronti di altri autori cosiddetti “postmoderni” una tendenza antiscien-tifi ca: anzi la fi ducia nella scienza e nella tecnologia sarà alla base di quelle originali rifl essioni riguardanti il “post-umano” sviluppate in “Una favola postmoderna” (in Moralità postmoderne, 1993). Come si vedrà, già nella Condizione postmoderna la critica del sapere non implica una opposizione alla scienza ed alla tecnica, ma anzi una sua valutazione positiva.

La condizione postmoderna

È curioso notare che il libro più noto di Lyotard, La condizione postmo-derna, che ora ci accingiamo ad analizzare, in realtà era solo una breve opera di occasione, commissionata al fi losofo dal governo canadese. Il tema speci-fi co che era stato proposto riguardava la condizione del sapere nelle società avanzate: tale condizione è indicata con il termine “postmoderno”, già ado-perato in sociologia e nella critica letteraria. Lyotard interpreta il termine per indicare un aspetto fondamentale della cultura contemporanea, ciò che egli chiama la “crisi delle narrazioni”. Le scienze, nel periodo moderno, da una parte si sono trovate in confl itto con le narrazioni tradizionali, dall’altra pure esse non hanno potuto evitare di ricorrere ad un discorso che legittimasse le proprie regole: questo è il discorso fi losofi co, un grande metadiscorso che via via ha assunto aspetti diversi come «la dialettica dello Spirito, l’ermeneutica del senso, l’emancipazione del soggetto razionale o lavoratore»3. Il concetto di “postmoderno” indica appunto la sfi ducia ormai diffusa nei confronti della validità di queste metanarrazioni: ciò corrisponde all’abbandono di qualsiasi fi losofi a metafi sica e ad una dispersione «in una nebulosa di elementi lingui-stici narrativi, ma anche denotativi, prescrittivi»4. Alla fi ne rimangono molti

3 J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, trad. it. di Carlo Formenti, Feltrinelli, Milano 1985, p. 5.

4 Ivi, p. 6.

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giochi linguistici differenti. Il “sistema decisionale”, però, mira ad ottenere l’ottimizzazione delle prestazioni del sistema stesso: tutto deve ridursi all’ef-fi cacia. Ma se non ci si vuole arrendere al principio di prestazione, ad un criterio puramente operativo, e d’altra parte si riconosce la fi ne delle meta-narrazioni, come si costituisce e quale ruolo può avere un sapere che sia anche in grado di «giudicare del vero e del giusto»?5. Lyotard esclude subito che la soluzione si possa trovare nel consenso ottenuto attraverso la discus-sione, come auspica Habermas; tale concezione mira ad eliminare ciò che costituisce l’aspetto centrale del postmoderno: il riconoscimento delle diffe-renze, di ciò che non ammette l’unanimità. Il sapere contemporaneo procede attraverso la “paralogia”, il dissenso. Il problema è vedere come si possa, in tale situazione, trovare una legittimazione al legame sociale, concepire una società giusta: il paradosso consiste nel fatto di cercare di costituire un lega-me sociale basato sul dissenso, il quale può disgregare tale legame.

Lyotard ritiene che si debba partire dalla considerazione fondamentale che il sapere è cambiato radicalmente quando, a partire dalla fi ne degli anni Cinquanta, la cultura è entrata nella cosiddetta fase “postmoderna”, paral-lela al passaggio, dal punto di vista dello sviluppo economico, nell’età “po-stindustriale”. Negli ultimi decenni, dice Lyotard, le scienze e le tecnologie più avanzate riguardano il linguaggio: linguistica, cibernetica, informatica, telematica ecc. Il fi losofo prevede che tutto ciò modifi cherà in maniera profonda la ricerca e la trasmissione delle conoscenze: la ricerca si baserà sull’estensione in vari ambito del modello del linguaggio. La trasmissione del sapere sarà determinata dalla moltiplicazione esponenziale delle mac-chine per il trattamento dei dati informativi; ma la sola conoscenza che potrà circolare attraverso i nuovi mezzi di comunicazione sarà quella tra-ducibile in quantità di informazione. Si assisterà perciò ad una egemonia da parte dell’informatica, la quale determinerà quali saranno gli enunciati che costituiranno ‘il sapere’. Quindi vi saranno dei mutamenti radicali nel-la forma del sapere; ad esempio, il sapere sarà sempre più “esternalizzato”: tenderà a scomparire la fi gura del “sapiente” che incarna l’idea di un sa-pere che si sviluppa nello spirito di un individuo attraverso un processo di formazione (Bildung). Il sapere non sarà considerato qualcosa come fi ne a se stesso, ma come qualcosa che verrà prodotto per essere venduto e reim-piegato all’interno del circuito produttivo: esso non viene ridotto, ma anzi, nella moderna società esso diventa il più importante fattore produttivo. È logico che gli Stati cercheranno di accaparrarsi il dominio del sapere, ma proprio la caratteristica di questo tipo di sapere può mettere in questione il

5 Ivi, p. 7.

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ruolo degli Stati-nazione: è un tipo di sapere che, se vuol essere effi cace, presuppone la libera e completa circolazione delle informazioni. Lo Stato così appare come qualcosa che può limitare questa ‘trasparenza’ della co-municazione. Già precedentemente la diffusione delle imprese multinazio-nali ha messo in discussione il ruolo degli Stati nella direzione e il control-lo dell’economia. Questo aspetto si accentuerà ancor di più con lo sviluppo delle tecnologie per il trattamento e la trasmissione delle informazioni. Chi controllerà questi canali di assoluta importanza? La trasformazione della natura del sapere ha innegabili rifl essi politici, soprattutto riguardo ai rap-porti tra Stati e società civile. Tutto questo si accentuerà nel futuro, prevede Lyotard: «la riapertura del mercato mondiale, la ripresa di una competizio-ne economica assai vivace, la fi ne dell’egemonia esclusiva del capitalismo americano, la probabile apertura del mercato cinese agli scambi, e molti altri fattori, hanno già contribuito, in questa fi ne degli anni Settanta , a preparare gli stati ad una revisione del ruolo che si erano abituati a giocare a partire dagli anni Trenta, e che era un ruolo di protezione e guida, e anche di pianifi cazione degli investimenti»6.

Data per scontata una sempre più massiccia estensione dell’informatiz-zazione della società, si pone a questo punto il problema della legittima-zione. Ora si può mettere in discussione l’idea tradizionale e semplicistica del progresso delle scienze e delle tecniche e il suo carattere cumulativo. Innanzitutto si tratta di osservare che il sapere scientifi co non costituisce la totalità del sapere e che accanto ad esso vi è un tipo di sapere che Lyotard defi nisce “narrativo”: questo tipo di sapere riguarda la questione della le-gittimazione. In generale la legittimazione è il processo in virtù del quale un legislatore determina una norma che regola un certo tipo di azione. Nel caso del discorso scientifi co il “legislatore” deve stabilire le regole di tale discorso, cioè quelle norme che stabiliscono l’ammissione di certi enun-ciati alla discussione scientifi ca. Il problema della legittimità delle regole si trasferisce nel problema della legittimazione di chi stabilisce le regole, del “legislatore”: ciò è accaduto nella tradizione fi losofi ca fi n dai tempi di Platone: il vero non è indipendente dal giusto, vi è un ‘gemellaggio’ tra scienza ed etica (e politica). Il problema della legittimazione secondo Lyo-tard pone comunque questa domanda: «chi decide cos’è il sapere, e chi sa cosa conviene decidere?».

Lyotard intende affrontare la questione attraverso l’analisi del linguaggio, soprattutto a livello pragmatico: vengono riprese le distinzioni di Austin tra enunciati denotativi e performativi e soprattutto viene posta in primo piano la

6 Ivi, p. 15.

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nozione wittgensteiniana di “giochi linguistici”: il linguaggio è costituito da una molteplicità di attività – i “giochi linguistici” – che si strutturano in base a regole; non esiste un gioco senza regole, ma le regole non contengono una loro legittimazione, in quanto sono semplicemente «oggetto di un contratto più o meno esplicito fra i giocatori»7. Ogni enunciato è come una mossa fatta nell’ambito di un gioco. «Parlare è combattere, nel senso di giocare, e gli atti linguistici dipendono da un’“agonistica” generale»8. Ora è un altro elemento da tenere in considerazione: il fatto che il legame sociale che si può osservare è proprio costituito da mosse linguistiche.

Lyotard ritiene che i modi in cui vengono rappresentate le società con-temporanee possano essere ridotti a due modelli generali: la società come un insieme funzionale (Talcott Parson, Luhmann), e la società come divi-sa in due (Marx). Il primo modello interpreta la società come un sistema che si autoregola e come un tutto organico: è questo il punto centrale del modello funzionale, al di là delle varietà dei modi in cui l’organizzazione sociale viene rappresentata dai diversi teorici (da Comte a Luhmann). Il pericolo insito in questo modello è quello di portare a posizioni totalitarie, all’eliminazione di tutto ciò che possa essere visto come un intralcio, visto che l’unico scopo è quello di arrivare alla massima effi cienza del sistema. Ad esso si è opposto il marxismo con la lotta di classe, in vista di una costruzione di una società liberata. Tuttavia il risultato sul piano storico dell’ideologia marxista si è rivelato fallimentare: da una parte si è assistito ad una trasformazione della lotta e dell’azione dei partiti socialisti in un semplice ruolo di regolazione del sistema nei paesi liberali occidentali; nei paesi comunisti, invece, il marxismo è stato trasformato nell’apparato ideologico di una forma assai cruda di totalitarismo. Neppure la “Teoria critica della società” (la Scuola di Francoforte) ha saputo presentare un’al-ternativa credibile, essendo rimasta legata al principio della lotta di classe, alla ricerca di un nuovo ed improbabile soggetto rivoluzionario (il terzo mondo, gli emarginati, gli studenti rivoluzionari) e con la fuga quindi verso l’utopia; lo stesso vale per il “principio speranza” di E. Bloch. Ora quale può essere il destino del sapere in questa situazione: «l’alternativa sembra chiara, omogeneità o dualità intrinseca del sociale, funzionalismo o critici-smo del sapere»9. Una soluzione sembrerebbe quella di tenere distinti due tipi di sapere: uno positivista, legato all’effi cienza produttiva, l’altro critico o ermeneutico.

7 Ivi, p. 23.8 Ibidem.9 Ivi, p. 30.

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Lyotard però ritiene che si possa sfuggire all’alternativa precedente. I mutamenti della società, diventata società dell’informazione implicano il problema del possesso e del controllo dell’informazione e quindi il pro-blema del quadro politico. La nuova classe dirigente è ormai diversa dalla classe politica tradizionale e molto più composita In tale contesto «i vecchi poli di attrazione costituiti da Stati-nazione, partiti, professioni, istituzioni e tradizioni storiche perdono il loro potere di centralizzazione. Né sembra che essi debbano essere sostituiti»10. Quello che emerge soprattutto è la mancanza di punti di riferimento, di modelli politici ‘forti’, di fi gure in cui potersi identifi care. Né in tale situazione si può indicare una direzione, uno scopo di vita: questo è lasciato alla buona volontà individuale: «ognuno è rinviato a sé: e ognuno sa che questo sé è ben poco»11. Tuttavia, se il sé è poco, esso non è isolato, ma è coinvolto in un tessuto di relazioni più complesse e mobili, situato in posizioni attraversate da messaggi di na-tura diversa. Il rapporto sociale deve venire indagato al livello dei diversi giochi linguistici che lo attraversano: si tratta di una molteplicità di giochi linguistici in competizione; così l’atomizzazione del sociale si organizza in una rete elastica di giochi linguistici. Si dirà che vi sono le istituzioni che pongono dei limiti ai giochi linguistici: Lyotard però non ritiene che tale li-mite delle istituzioni al potenziale linguistico sia totalmente vincolante: «il limite che l’istituzione oppone al potenziale linguistico misurato in ‘mosse’ non è mai stabilito rigidamente (anche quando lo sia formalmente). Esso è piuttosto a sua volta il risultato provvisorio e la posta delle strategie lingui-stiche messe in atto dentro e fuori dall’istituzione»12. Notiamo anche qui che la posizione di Lyotard va nella direzione del superamento della rigi-dità delle strutture e quindi anche verso il cosiddetto “postrutturalismo”.

Riprendendo la critica della concezione strumentale del sapere, Lyotard sottolinea come il sapere non si identifi chi totalmente con il sapere di tipo scientifi co; inoltre la scienza ha pur sempre un problema di legittimità. Il sapere non si riduce alla sua forma scientifi ca e neppure alla sola cono-scenza. La scienza è solo un sottosistema della conoscenza: un insieme di enunciavi denotativi, caratterizzati da condizioni di osservazione esplicite; deve essere possibile in ogni occasione decidere se i singoli enunciati ap-partengono al linguaggio considerato pertinente dagli esperti. Il sapere è però qualcosa di più ampio: esso comprende anche il saper fare, il saper vivere, l’ascoltare: è il sapere come formazione e cultura, il sapere legato al

10 Ivi, p. 31.11 Ibidem.12 Ivi, p. 36.

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costume ed alla tradizione. In tale sapere tradizionale predomina la forma narrativa: si tratta, ad esempio, di storie popolari che raccontano di eroi che vincono o perdono e tali vittorie o sconfi tte rendono legittime, spiegano perché sono sorte certe istituzioni (i miti); o costituiscono dei modelli di integrazione nelle istituzioni (le leggende e le favole). La forma narrativa comprende una molteplicità di giochi linguistici (vi sono enunciati deno-tativi, deontici, interrogativi, valutativi) e sottostà a regole che ne determi-nano la pragmatica: ad esempio, il narratore si dichiara «competente a rac-contare la storia solo per averla egli stesso ascoltata. Il destinatario attuale del racconto, ascoltandolo, acquista potenzialmente la stessa autorità»13. Ciò che viene trasmesso con i racconti è l’insieme di regole pragmatiche che costituisce il legame sociale. La dimensione temporale del sapere nar-rativo costituisce pure una sua caratteristica peculiare; ma forse l’aspetto più importante consiste nel fatto che non c’è qui un problema concernente il riconoscimento dell’autorità delle narrazioni e di chi le compie: l’autorità è immanente ai racconti stessi. La pragmatica narrativa popolare è imme-diatamente legittimante e ciò la distingue radicalmente dal tipo di discorso scientifi co che invece richiede una legittimazione.

Passando ad analizzare la pragmatica del sapere scientifi co, occorre di-stinguere tra il “gioco” della ricerca e quella dell’insegnamento. Per quanto riguarda la ricerca, chi propone una determinata teoria, si deve dimostrare capace di addurre delle prove a favore e confutare enunciati contrari a ciò che si sostiene. Il “referente” è appunto ciò che può costituire oggetto di prova. In secondo luogo, si presuppone che il referente non possa fornire una pluralità di prove contraddittorie; si tratta di un presupposto metafi sico: Dio non inganna, la natura è univoca. Questi presupposti sono ciò su cui si fonda l’epistemologia contemporanea, sia che essa identifi chi il marchio della scienza autentica nella verifi cazione o nella falsifi cazione. Il risultato deve essere quello del raggiungimento del consenso: questo però non è in-dice di verità, ma al contrario è proprio la verità dell’enunciato scientifi co, il fatto che esso sia stato provato, a suscitare il consenso.

La ricerca è poi collegata all’insegnamento: funzione fondamentale del-la didattica è quella di riprodurre la competenza, cosicché lo studente che inizialmente non sa quello che sa il docente, possa essere portato al suo stesso livello di competenza. Lyotard chiama «destinatore» chi ha il com-pito di fornire le conoscenze, mentre chi deve riceverle è il «destinatario».

Si possono quindi individuare i seguenti tratti distintivi del sapere di tipo scientifi co rispetto a quello narrativo: mentre il sapere narrativo comprende

13 Ivi, p. 41.

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vari giochi linguistici, il sapere scientifi co isola solo quello denotativo; il criterio di accettabilità di un enunciato è dato dalla sua verità (non così nel sapere narrativo). Tale sapere è isolato dagli altri giochi linguistici: dà origine ad una professione e a delle istituzioni; il sapere si “esteriorizza” rispetto alla società. Al destinatario non si richiedono competenze parti-colari. Un enunciato scientifi co non trae alcuna validità dal fatto di essere riferito. Il sapere scientifi co è cumulativo: il destinatore è a conoscenza del sapere precedente, cioè della bibliografi a relativa all’argomento indagato. Se il sapere narrativo e quello scientifi co si svolgono in base a regole diffe-renti, se sono costituiti da giochi linguistici diversi, non dovrebbero esserci propriamente delle relazioni tra l’uno e l’altro e tanto meno dei contrasti; in realtà, mentre il gioco linguistico narrativo che si legittima semplicemente attraverso la pragmatica della sua trasmissione non comprende, ma può tollerare quello scientifi co, non è vero il contrario; cioè il gioco linguistico scientifi co giudica quello narrativo: quest’ultimo non sopporta argomenta-zione o prova e viene quindi considerato come espressione di una mentalità arretrata, incapace di produrre autentica conoscenza.

Prima di giungere allo stadio – che si potrebbe chiamare “positivismo” – in cui la scienza non sembra avere bisogno di legittimazione, in passato la scienza è ricorsa sempre a legittimazioni da parte del sapere narrativo. Anche ai nostri tempi, si potrebbe dire che si ricorre sempre a legittima-zioni, ad esempio presentando la scienza come un’epopea e gli scienzia-ti come moderni eroi. Sembrerebbe quindi che il discorso narrativo fosse quasi inevitabile. Ciò è sempre accaduto a partire da Platone: i sistemi fi losofi ci del passato da Aristotele a Cartesio e oltre sono stati dei grandi discorsi che hanno avuto la funzione di legittimare il sapere scientifi co (cioè il vero sapere della propria epoca). Con la scienza moderna compaio-no nuovi problemi di legittimazione: chi decide delle condizioni del vero? Sembrerebbe la risposta fosse che le condizioni del vero fossero immanenti al gioco scientifi co stesso. Ma si deve riconoscere che il discorso scienti-fi co moderno si è sempre accompagnato ad una «reintegrazione della di-gnità delle culture narrative (popolari)»: con l’umanesimo, l’illuminismo, la fi losofi a classica tedesca, «il sapere narrativo ricompare in Occidente per offrire una soluzione alla legittimazione delle nuove autorità»14. Ora il problema sembra piuttosto: chi ha il diritto di decidere per la società? Il protagonista diventa il popolo: il segno della legittimità è il consenso popo-lare. Però questa nozione di “popolo” indica qualcosa di diverso rispetto a quel “popolo” implicato nei saperi tradizionali. Abbiamo a che fare con un

14 Ivi, p. 5.

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soggetto astratto che ha esistenza reale nelle istituzioni in cui si incarna e quindi coincide con lo Stato. «La questione dello Stato e quella del sapere scientifi co si trovano strettamente intrecciate»15. Ovvero il problema della legittimazione si sviluppa in due direzioni, «a seconda che si consideri il soggetto della narrazione come cognitivo o pratico»16.

Lyotard prende in considerazione, in particolare, due grandi narrazio-ni legittimanti moderne. La prima è quella che ha per soggetto l’umanità rappresentata come eroe della libertà. Si parte dall’idea che tutti i popoli hanno diritto alla scienza: a questo ideale corrisponde un tipo di educazio-ne che privilegia l’insegnamento primario a scapito di quello secondario o universitario, come, ad esempio, la politica educativa della III Repubblica francese. Le istituzioni di insegnamento superiore sono fi nalizzate in que-sta prospettiva solo alla formazione dei quadri dello Stato. Una seconda narrazione legittimante è quella che ha portato alla fondazione dell’Uni-versità di Berlino ai primi dell’ ‘800. Secondo l’idea di von Humboldt, non si deve mirare solo «all’acquisizione di conoscenze individuali, ma anche alla formazione di un soggetto pienamente legittimato del sapere e della società»17; ma tale soggetto del sapere non è il popolo ma lo spirito specu-lativo; non si incarna nello Stato, ma in un Sistema fi losofi co. È la fi losofi a speculativa che riunisce le conoscenze disperse nelle scienze particolari; ci troviamo di fronte al grande metaracconto dell’Idealismo tedesco, basato su un metaprincipio che fonda lo sviluppo della conoscenza, della società e dello Stato: la Vita di un Soggetto, la Vita dello spirito. È la metanarrazione di questo Soggetto a costituire la legittimità di ogni sapere. Sulla stessa linea di legittimazione del sapere, secondo Lyotard, si pone l’ermeneutica contemporanea, il cui discorso garantisce «l’esistenza di un senso da cono-scere e che conferisce ugualmente legittimità alla storia, in particolare alla storia della conoscenza»18.

Ma ora che è venuto meno l’ideale dell’unità speculativa, il percorso della legittimazione può ricorrere all’altra procedura, laddove il sapere cerca la propria validità, non in se stesso, ma in un soggetto pratico che si identifi ca con l’umanità. Questa modalità di legittimazione per autonomia della volontà – che è quella del popolo – privilegia il gioco linguistico che Kant chiamava “imperativo” e noi “prescrittivo”. Il sapere non si identifi ca con il soggetto, ma è al suo servizio, è un mezzo che deve solo «consentire

15 Ivi, p. 58.16 Ibidem.17 Ivi, p. 61.18 Ivi, p. 65.

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alla moralità di diventare realtà»19. Una caratteristica che si deve sottoline-are in questa visione è quella dell’indipendenza degli enunciati prescrittivi, rispetto a quelli scientifi ci

Il marxismo ha oscillato tra le due modalità di legittimazione preceden-ti. Se formiamo certe equivalenze: partito=università, proletariato=popolo, materialismo dialettico=idealismo speculativo, allora abbiamo lo stalini-smo, con l’equivalenza tra la marcia verso il socialismo e la vita dello spirito Oppure il marxismo si può sviluppare nella direzione critica (come nella Scuola di Francoforte): il socialismo si realizza nella costituzione del soggetto autonomo; le scienze devono fornire al soggetto i mezzi della sua emancipazione dall’alienazione.

Il punto fondamentale è che nella società contemporanea le grandi nar-razioni hanno perso credibilità: è proprio questo che Lyotard indica come caratteristico della condizione postmoderna. Quali ne sono le cause? Una risposta superfi ciale è quella che lo ritiene come un effetto delle trasforma-zione delle tecniche e tecnologie dopo la seconda guerra mondiale che ha spostato l’accento sui mezzi, piuttosto che sul fi ne delle azioni; altrettanto superfi ciale è la risposta che afferma che con lo sviluppo del capitalismo avanzato, una volta liquidata la prospettiva comunista, l’ideologia del go-dimento individuale, del consumismo, non ha bisogno di alcuna giustifi -cazione o legittimazione. Anche se tali fattori hanno il loro peso, Lyotard ritiene che ci siano motivazioni più profonde: «i germi di “delegittima-zione” e di nichilismo […] erano già immanenti alle grandi narrazioni del XIX secolo»20. Secondo il concetto della fi losofi a speculativa la scienza positiva non è un vero sapere; un enunciato scientifi co è autentico sape-re se si situa in un processo generativo universale: la Vita dello spirito è il presupposto del gioco linguistico della speculazione. Il presupposto, dice Lyotard, potrebbe essere interpretato, in chiave postmoderna, come riguardante il «gruppo di regole che devono essere accettate per gioca-re il gioco speculativo»21. Da una parte si accetta “come forma generale del linguaggio del sapere quello delle scienze “positive’”22, dall’altro si ritiene che tale linguaggio implichi dei presupposti che bisogna esplicita-re. Qui abbiamo una situazione come quella che Nietzsche ha individuato come radice del nichilismo europeo: esso «discende dall’autoapplicazione dell’esigenza scientifi ca di verità all’esigenza stessa»23: la verità crolla per

19 Ivi, p. 66.20 Ivi, p. 70.21 Ivi, p. 71.22 Ibidem.23 Ibidem.

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lo stesso amore di ricerca della verità. In ogni caso è il concetto fondante di Vita dello spirito che ha perso tutta la sua credibilità e non può costituire la legittimazione del sapere.

Anche la procedura di legittimazione fondata sull’idea di emancipazione (Illuminismo) è venuta meno: essa si scontra con l’impossibilità di passare dall’enunciato denotativo (vero) a quello prescrittivo (giusto); in conclu-sione non si può «fondare la legittimità della scienza, la verità, sull’autono-mia degli interlocutori impegnati nella prassi etica, sociale e politica»24.

La scienza alla fi ne appare come un gioco linguistico dotato di proprie regole che non può essere legittimato, né legittimare altri giochi linguistici, né autolegittimarsi. Inoltre, lo stesso soggetto sociale si dissolve in una “disseminazione” di giochi linguistici. Il gioco della scienza appare costi-tuito da una molteplicità di giochi linguistici, taluni anche nuovi. Il fatto cruciale è che non si trova un metalinguaggio universale: «il progetto del sistema-soggetto è fallito, quello emancipatorio non ha nulla da spartire con la scienza, siamo immersi nel positivismo delle singole conoscenze particolari»25. A parere di Lyotard però, questo fallimento dei processi di legittimazione non deve spingerci ad accettare passivamente la performati-vità come unico criterio, ed è la nozione wittgensteiniana di giochi lingui-stici che può indicarci una nuova possibilità di legittimazione.

Per intravederne le linee, dobbiamo partire da una analisi della pragma-tica della ricerca scientifi ca attuale. Vediamo che vi sono oggi due impor-tanti modifi cazioni che riguardano «l’arricchimento delle argomentazioni e la complicazione dell’amministrazione delle prove»26. Per quanto riguar-da il primo punto, si deve osservare che la moderna ricerca scientifi ca ha messo da parte le metodologie tradizionali, basandosi su delle regole prag-matiche che fi ssano un’ assiomatica; o meglio ci troviamo di fronte ad una pluralità di sistemi formali ed assiomatici: le singole scienze sono regolate da norme di ammissibilità degli enunciati su cui si trova il consenso da parte degli esperti. Per quanto riguarda l’amministrazione delle prove, la scienza moderna ha posto come centrale il rapporto tra il sapere e la tecni-ca, in virtù dell’uso sempre crescente di strumenti tecnici di ricerca; questo implica, a sua volta, costi sempre crescenti della ricerca alla quale perciò sarà richiesto di dimostrare la sua effi cacia nel produrre conoscenze utili. Si determina così «un’ equazione fra ricchezza, effi cienza, verità […] nien-

24 Ivi, pp. 72-73.25 Ivi, p. 74.26 Ivi, p. 76.

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te tecnica senza ricchezza, ma anche niente ricchezza senza tecnica»27. La scienza diventa un’essenziale forza produttiva. Questo non vuol dire che la subordinazione del sapere a quello dell’investimento tecnologico sia sem-pre immediato, in quanto puntare solo sul successo immediato può rivelar-si, alla lunga, controproducente proprio ai fi ni economici: ed in effetti gli Stati sostengono accanto alla ricerca applicata, quella di base. Tuttavia alla fi ne conta la performatività, il miglior rapporto tra input ed output. A que-sto punto, su un piano più generale, la legittimazione si realizza attraverso la potenza: «questa non è solo la buona performatività, ma anche la buona verifi cazione ed il buon giudizio. Essa legittima la scienza ed il diritto at-traverso la loro effi cienza, e la seconda attraverso i primi»28.

Il criterio di performatività coinvolge anche la trasmissione del sapere, l’insegnamento: l’insegnamento superiore deve dare il suo contributo al miglioramento della performatività del sistema sociale. Vi sarà sempre più una crescente richiesta di esperti nei settori di punta; ma soprattutto non si tratterà di trasmettere degli ideali quanto delle competenze: «la trasmissio-ne del sapere non appare più destinata a formare un’élite in grado di guida-re la nazione nel suo processo di emancipazione, bensì a fornire al sistema i giocatori in grado di capire convenientemente i ruoli legati alle posizioni pragmatiche di cui le istituzioni hanno bisogno»29. L’università democrati-ca, dagli accessi non selettivi, appare al giorno d’oggi poco performativa. L’insegnamento si indirizza da una parte alla formazione dei “professioni-sti”, poi i quadri tecnici; al di fuori di queste due categorie «gli altri giovani universitari sono per la maggior parte disoccupati non registrati»30. Trat-tandosi sostanzialmente di trasmettere uno stock di conoscenze acquisite, si può prevedere che la didattica possa essere affi data a delle macchine. Tuttavia non basta aumentare la banca dei dati, ma occorrerà essere capaci di dare una nuova organizzazione ai dati: la performatività implica anche la creatività, la possibilità, mediante l’immaginazione, di cambiare le re-gole del gioco. Vi sarà la formazione di ristretti gruppi di ricerca avanzata, dove si eserciterà una didattica distinta da quella destinata a trasmettere le conoscenze già acquisite. Questo fatto, insieme all’affermarsi sempre più della interdisciplinarità e del lavoro di equipe porteranno ad una riduzione del ruolo del professore di tipo tradizionale.

27 Ivi, p. 82.28 Ivi, p. 86.29 Ivi, pp. 88-89. 30 Ivi, p. 90.

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Lyotard però non ritiene che il prevalere del criterio di performatività sia qualcosa di assoluto, anzi ritiene che proprio dagli sviluppi del sapere contemporaneo si possa prevedere l’emergere di qualcosa di diverso. In-fatti, rifl ettendo sullo stato attuale della ricerca scientifi ca, si vede che il problema è quello di uscire dalla situazione che si può defi nire come “la crisi del determinismo”. Ma il determinismo è proprio l’ipotesi su cui si basa la legittimazione attraverso la performatività: si tratta di un rapporto tra input e output, dove il primo deve essere stabile. Ora, secondo Lyotard, la pragmatica del sapere scientifi co postmoderno tende ad abbandonare l’obbiettivo della performatività: l’espansione della scienza contempora-nea non si produce grazie al positivismo dell’effi cienza; si va invece alla ricerca del contro-esempio, del paradosso. Come si è detto, il principio di prestazione implica quello di sistema ad elevata stabilità: deve essere possibile prevedere l’evoluzione delle prestazioni del sistema; ma, come è noto, con la meccanica quantistica – per fare un solo esempio –, ciò diven-ta diffi cile: la defi nizione dello stato iniziale del sistema sarebbe, se non impossibile, estremamente dispendiosa. Il controllo perfetto di un siste-ma andrebbe contro la sua performatività. Diventa problematica, in queste condizioni, la possibilità di una misurazione precisa e di previsione dei comportamenti degli oggetti. Lyotard cita altri esempi come la teoria dei frattali (Mandelbrot) e la teoria delle catastrofi (Thom). Questo non vuol dire che il determinismo sia del tutto escluso, ma piuttosto che esistono solo delle “isole di determinismo”. Tutte queste ricerche mostrano che «il primato della funzione continua derivabile come paradigma della cono-scenza e della previsione è in via di estinzione»31.

La scienza postmoderna costruisce la teoria della propria evoluzione come discontinua, catastrofi ca, paradossale. Il modello di legittimazione «non è quello della migliore prestazione ma quello delle differenze com-prese come paralogia». Con Feyerabend addirittura si arriva ad affermare che non esiste il metodo scientifi co.

La performatività quindi non basta. Si è gia visto che non si può tornare alle grandi narrazioni – nei confronti delle quali ormai prevale l’increduli-tà. Tuttavia bisogna chiedersi come sia possibile una legittimazione fondata sulla paralogia. Innanzitutto dobbiamo «mettere l’accento sul dissenso»32. Lyotard chiama “terrore” «l’effi cienza ottenuta attraverso l’eliminazione o la minaccia di eliminazione di un interlocutore dal gioco linguistico in cui si

31 Ivi, p. 105.32 Ivi, p. 111.

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era impegnati con lui»33. «In quanto differenziante la pratica scientifi ca offre l’antimodello di un sistema stabile. Qualsiasi enunciato deve essere conser-vato nel momento in cui comporti una differenza rispetto a ciò che è noto, e sia argomentato e provabile»34. Il sistema deve rimanere aperto: non c’è un metalinguaggio generale che consenta di valutare tutti gli altri linguaggi.

Possiamo a questo punto chiederci se l’antimodello della pragmatica scientifi ca possa essere applicato anche alla società: Nella scienza l’attività differenziante, immaginativa, paralogica può portare alla messa in discus-sione delle metaprescrizioni, cioè i presupposti, giungendo a farli cambiare e producendo un consenso momentaneo e sempre rivedibile. Nella prag-matica sociale ciò è diverso: non vi sono qui metaprescrizioni che possano diventare comuni, né quindi che possano essere rimesse in discussione per giungere poi ad un consenso rivedibile. Lyotard rifi uta l’idea di Habermas di cercare la legittimazione tramite il consenso universale, il discorso, il dialo-go. Infatti non vi può essere un accordo su regole universalmente accettate per tutti i giochi linguistici che sono eteromorfi . Inoltre il fi ne del dialogo non è il consenso: il fi ne delle discussioni è la paralogia. Rimane però il problema della giustizia. Sembra che non si possa arrivare ad una pretesa di giustizia che non sia legata al consenso. Innanzitutto, per Lyotard, si può af-fermare la giustizia attraverso il riconoscimento della eteromorfi a dei giochi linguistici. Lyotard ammette però che vi possano essere delle regole su cui costruire il consenso, ma tanto le regole quanto il consenso valgono solo a livello “locale”, non possono pretendere di essere assolute.

Sul piano sociale questo corrisponde al prevalere di quelli che potrem-mo chiamare contratti limitati nel tempo; questa è una caratteristica della postmodernità: la limitazione a tutti i livelli; non vi sono più istituzioni permanenti: a livello professionale, affettivo, sessuale, culturale, pratico; è il trionfo della precarietà.

Un aspetto da tenere in particolare considerazione, per completare il qua-dro, è quello dell’informatizzazione della società. Essa può essere vista ne-gativamente come uno strumento di regolazione del sistema: chi controlla l’informazione controlla tutto. Lyotard ritiene però che vi sia un aspetto po-sitivo: l’informatizzazione può essere uno strumento per aiutare i gruppi di discussione sulle metaprescrizioni. Occorre però che vi sia un libero acces-so alle memorie e alle banche dati. I giochi linguistici possono così diventa-re dei giochi ad informazione completa. Lyotard sembra qui preannunciare quella che poi sarà l’idea di Internet come strumento di liberazione.

33 Ivi, p. 116.34 Ibidem.

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Questo quadro dello sviluppo del sapere nella condizione postmoderna, sviluppato da Lyotard nell’opera del 1979, ha ottenuto un notevole suc-cesso, anche se sovente colto attraverso una lettura superfi ciale in cui ne sono messi in evidenza solo alcuni aspetti. Altrettanto numerose però sono state le critiche alle tesi del fi losofo. Bisogna riconoscere che qui sono presenti solo alcuni – anche se fondamentali – temi che costituiranno il centro della discussione sul postmoderno. Inoltre numerosi aspetti sono stati difesi e chiariti da Lyotard nel successivo Il postmoderno spiegato ai bambini. Un aspetto interessante potrebbe essere quello di valutare l’effi -cacia previsionale di alcune tesi del libro, accanto alla considerazione di come e perchè certe cose si siano svolte differentemente dalle previsioni. Per quanto riguarda invece la collocazione dell’opera nello sviluppo del pensiero dell’autore, si può osservare che quello che emerge in genera-le dal discorso di Lyotard, sviluppato ne La condizione postmoderna, e che rimarrà costante nel suo pensiero, è l’idea che l’obiettivo conoscitivo, morale, politico, fi losofi co, deve essere quello di rendere giustizia a tutti i discorsi, di evitare il “terrore del teorico”, addirittura di dare uno spa-zio all’irrapresentabile, all’“inumano” – come cercherà di fare Lyotard in opere successive – a ciò che sfugge a qualsiasi tentativo di rinchiuderlo in un’ontologia, se non in quella ontologia, prefi gurata dal fi losofo, di eventi non correlati ed inesauribili.

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FILIPPO DOMENICALI

FOUCAULT E L’ONTOLOGIA DELL’ATTUALITÀ

1. In questo intervento mi propongo di analizzare il concetto di ontologia dell’attualità in Michel Foucault. Questa ricerca si rende oggi necessaria dal momento che sono in circolazione, nel panorama fi losofi co internazio-nale, differenti ontologie dell’attualità (penso, per rimanere in ambito ita-liano, alle opere di Gianni Vattimo e di Maurizio Ferraris), che registrano la ricchezza, ma anche i limiti, dell’intuizione foucaultiana. Il fatto però che circolino differenti versioni di questo speciale tipo di ontologia, non signifi ca che queste ultime abbiano un legame diretto con quella elaborata da Foucault. Pertanto, si rende necessario un chiarimento e una delimita-zione di oggetto in modo da rendere conto della ricchezza di signifi cato e dell’obiettivo primo del lavoro compiuto da Foucault stesso, così da pote-re, in un secondo momento, valutare criticamente i tentativi di altri fi losofi che ad esso si sono ispirati. Ci troviamo quindi di fronte all’esigenza di circoscrivere e di specifi care il senso assunto dall’espressione “ontologia dell’attualità” all’interno del pensiero di Foucault. Questo concetto ha una speciale rilevanza, in quanto sembra riassumere, a posteriori, il signifi cato della sua personale interpretazione della ricerca fi losofi ca, nel suo senso e nella sua fi nalità.

2. Il riferimento all’ontologia dell’attualità appare durante la prima le-zione del corso tenuto al Collège de France nel 1983 (Le gouvernement de soi et des autres1). La prima lezione, in genere, aveva per Foucault una funzione introduttiva, egli la utilizzava per defi nire la prospettiva generale del corso ed indicarne gli obiettivi. Il corso del 1983, che è quello che ci interessa in questa sede, è centrato interamente sulla nozione di parresia

1 M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France (1982-1983), Paris, Gallimard-Seuil, 2008, da adesso GSA. Una trascrizione par-ziale di questa prima lezione è stata pubblicata una prima volta in “Magazine lit-téraire”, n. 207, mai 1984, pp. 35-39 (Ora in Dits et écrits – d’ora in avanti DE – II, Gallimard, Paris, 2001, pp. 1498-1507).

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(l’atto di dire la verità nella Grecia antica), letta attraverso le Tragedie di Euripide e le Lettere di Platone. Questo esordio, tenutosi il 5 gennaio 1983, in apparente contrasto con il contenuto del corso, fu dedicato all’analisi dello scritto di Kant su Che cos’è l’illuminismo?2. Foucault vuole mettere in evidenza, fi n da subito, una particolare prospettiva, che taglia trasversal-mente la storia della fi losofi a, poiché la parresia antica viene interpretata come il nucleo genealogico dell’attitudine critica manifestata dalla fi loso-fi a moderna, che trova una delle sue prime formulazioni proprio nel testo di Kant3. Il corso sulla parresia si rivela quindi una «genealogia dell’at-teggiamento critico»4 in Occidente. In questo movimento Foucault trova l’occasione di collocare anche se stesso, mediante un giudizio retrospettivo sulla propria impresa fi losofi ca. Egli afferma:

Mi sembra [che Kant] abbia fondato le due grandi tradizioni critiche in cui si è divisa la fi losofi a moderna. Nella sua grande opera critica Kant ha fondato quella tradizione della fi losofi a che pone il problema delle condizioni in cui è possibile una conoscenza vera e, a partire da ciò, un intero indirizzo della fi losofi a moderna si è presentato e si è sviluppato, sin dal secolo XIX, come analitica della verità.

Ma, nella fi losofi a moderna e contemporanea, esiste un altro tipo di problema, un altro modo dell’interrogazione critica: quello che vediamo nascere proprio con la questione della Aufklärung e nel testo sulla rivoluzione; quest’altra analisi critica si domanda: “Che cos’è la nostra attualità? Qual è il campo attuale delle esperien-ze possibili?” Non si tratta di un’analitica della verità, ma di quella che potrebbe essere defi nita un’ontologia del presente, un’ontologia di noi stessi, e mi sembra che la scelta fi losofi ca con cui, oggi, dobbiamo confrontarci sia la seguente: optare per una fi losofi a critica che si presenterà come una fi losofi a analitica della verità in generale, oppure optare per un pensiero critico che avrà la forma di un’ontologia di noi stessi, di un’ontologia dell’attualità: è questa forma di fi losofi a che, da Hegel alla Scuola di Francoforte, passando per Nietzsche e Max Weber, ha fondato una forma di rifl essione all’interno della quale ho cercato di lavorare5.

2 I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è illuminismo? in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 45-52.

3 «se ho cominciato il corso di quest’anno con Kant, è nella misura in cui mi sembra che questo testo sulla Aufklärung scritto da Kant è una certa maniera, per la fi lo-sofi a, di prendere coscienza, attraverso la critica della Aufklärung, dei problemi che erano tradizionalmente nell’Antichità quelli della parresia, e che stanno rie-mergendo così nel corso del XVI e del XVII secolo, e che hanno preso coscienza di sé nella Aufklärung, e in particolare in questo testo di Kant» (GSA, p. 322). Le traduzioni dai testi in francese, ove non diversamente indicato, sono da ritenersi mie.

4 Per questa espressione si veda anche M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, Donzelli, 1996, p. 112.

5 GSA, pp. 21-22.

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Foucault include esplicitamente la propria ricerca in quella linea fi loso-fi ca che va «da Hegel alla Scuola di Francoforte»6: l’ontologia dell’attua-lità è una «ontologia critica di noi stessi»7, dirà in un testo successivo. Il progetto dell’ontologia dell’attuale fa così parte, a pieno titolo, della gran-de tradizione critica del pensiero occidentale, ed è un’eredità che Foucault assume consapevolmente, indicando gli obiettivi verso cui muovere e fab-bricando categorie fi losofi che all’altezza del tempo presente.

Ma questo concetto, così come viene presentato durante la prima lezione del corso del 1983, è caratterizzato da una strana ambiguità di statuto8. Appa-re infatti a prima vista singolare questa tarda rivalutazione dell’ontologia da parte di Foucault, un fi losofo che ha sempre cercato di pensare al di fuori delle categorie fi losofi che classiche ed in modo “non-cartesiano”. Si pone quindi, come è stato notato, «il problema della validità teorica di una tale “ontologia del presente”» in quanto «Tradizionalmente, l’ontologia è un campo di analisi delimitato dalle strutture metafi siche dell’essente. Fare l’ontologia del presen-te vuol dire congiungere due dominî – la storia e la metafi sica – che sembrano incompatibili»9. Di quale ontologia si tratta? E soprattutto, quale metodologia essa utilizza? Ci troviamo di fronte ad una serie di interrogativi che rendono inizialmente problematico e di diffi cile attuazione il nostro desiderio di chia-rimento. Il primo problema che dobbiamo porci è quello dell’uso, da parte di Foucault, del termine “ontologia”, che ricorre più volte nei testi appartenenti all’ultima fase del suo pensiero.

Nell’incipit della stessa lezione, Foucault afferma che la “storia del pensiero”10, alla quale egli fa riferimento come modo peculiare di condurre la ricerca fi losofi ca, ha come proprio oggetto la descrizione di “esperienze” storicamente singolari. Ma è chiaro fi n da subito che non si tratta di descri-vere, posivisticamente, queste esperienze in se stesse, quanto invece, par-tendo dalla loro singolarità, di illuminare il campo di eventi che le ha rese possibili. In questo senso, la storia del pensiero si rivolge alle condizioni di

6 Altrove Foucault include in questa linea teorica anche la fi losofi a di Heidegger (cfr. M. Foucault, La technologie politique des individus, in DE, II, p. 1633).

7 M. Foucault, What is Enlightenment? pubblicato originariamente in The Foucault Reader (P. Rabinow ed.), London, Penguin Books, 1984; ora in DE, II, p. 1396.

8 Così G. Marramao, il quale ha affermato che «l’espressione “ontologia del pre-sente” [...] tradisce una persistente ambiguità di statuto» (in Id., La passione del presente, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 9).

9 F. P. Adorno, La tâche de l’intellectuel: le modèle socratique, in (a cura di) F. Gros, Foucault. Le courage de la vérité, Paris, PUF, 2002, p. 46.

10 Non dimentichiamo che la cattedra tenuta da Foucault al Collège de France, appo-sitamente istituita per lui, era quella di “Storia dei sistemi di pensiero”.

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possibilità che permettono l’accadere di un’esperienza, che, in Foucault, è di volta in volta quella della follia (Storia della follia), quella del crimine (Sorvegliare e punire) o quella della sessualità (Storia della sessualità)11. Oggetto della storia del pensiero sono – dice Foucault – i «focolai di espe-rienza», le coordinate per ogni esperienza concreta che si effettua in un de-terminato intervallo di tempo. Esse derivano, secondo lo schema elaborato dal fi losofo francese, dall’interazione di «forme di un sapere possibile», «matrici normative di comportamento» e di «modi di esistenza virtuali per dei soggetti possibili»12. Il sapere, il potere e il sé costituiscono quindi i “tre assi” portanti della sua rifl essione. I primi due rappresentano le condizio-ni di possibilità di un’esperienza singolare, di soggettivazione, situata in un determinato momento storico. L’ontologia dell’attualità si confi gura, in primo luogo, come storia delle condizioni di possibilità della nostra espe-rienza attuale.

In una lezione successiva, Foucault chiarisce che l’ontologia dell’attua-lità non è una ontologia singolare, in quanto «la storia del pensiero [...] dev’essere concepita come una storia delle ontologie13» (plurali). Qui con il termine ontologia si intende “modo di essere” storico dei dispositivi di potere, dei discorsi veri e dei modi di soggettivazione. L’ontologia non è quindi una categoria trascendentale, ma storicamente determinata, della quale cioè si può ricostruire la genesi materiale. Se la storia del pensiero, correttamente intesa, si fa attraverso la genealogia, allora – dice Foucault:

Sono possibili tre campi di genealogia. In primo luogo, una ontologia stori-ca di noi stessi nei nostri rapporti con la verità, attraverso la quale costituiamo noi stessi come soggetti di conoscenza; in secondo luogo, una ontologia storica di noi stessi, nei nostri rapporti con un campo di potere attraverso il quale ci costituiamo come soggetti che agiscono su altri; in terzo luogo una ontologia storica dei nostri rapporti con l’etica attraverso la quale ci costituiamo come agenti morali14.

11 Si tratta in tutti i casi di analizzare quelle che M. Blanchot ha defi nito le “espe-rienze-limite” (cfr. Id., L’infi nito intrattenimento. Scritti sull’insensato gioco di scrivere, Torino, Einaudi, 1981) nelle quali il soggetto sembra debordare dai limiti di se stesso per incontrare il “fuori”, l’alterità radicale.

12 GSA, pp. 4-5.13 GSA, p. 285, corsivo mio.14 M. Foucault, À propos de la généalogie de l’éthique. Un aperçu du travail en

cours, in DE, II, p. 1212.

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In questo senso, parlare di una storia delle “esperienze” equivale a deter-minare l’essere – oggetto dell’ontologia – nella sua costituzione storica15, riaffermando la sua radicale immanenza.

Il percorso di ricerca intrapreso da Foucault si confi gura, retrospetti-vamente, come studio delle diverse dimensioni dell’esperienza (elaborate in relazione agli assi del sapere, del potere e del sé) dapprima analizza-te singolarmente, poi nella loro interazione reciproca. Fin dagli anni ‘60, in studi come Le parole e le cose e L’archeologia del sapere16, la ricerca delle condizioni di accesso ad un “a-priori storico” appare come la cifra caratteristica dell’intera sua rifl essione17, il problema che guida le tappe, e le impasses, del suo itinerario di pensiero. Già allora, Foucault è consa-pevole che «Giustapposte, queste due parole producono un effetto un po’ stridente»18. È il problema del “trascendentale storico”.

3. Alcuni commentatori, sulla scorta di due interviste rilasciate da Fou-cault negli anni immediatamente precedenti la sua morte19, hanno intravi-

15 B. Cassin, in un testo in cui mette a confronto Foucault e Heidegger, ha affermato che l’esperienza, in Foucault, equivale alla «costituzione “storica” dell’essere»; cfr. Id., Foucault, Heidegger e l’antichità, in (a cura di) M. P. Fimiani, V. G. Ku-rotschka, E. Pulcini, Umano, post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale, Roma, Editori Riuniti, 2004, p. 244.

16 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1967 e Id., L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1971.

17 Cfr. B. Han, L’ontologie manquée de Michel Foucault. Entre l’historique et le transcendental, Grenoble, Millon, 1998. Anche Giorgio Agamben ha recentemen-te affermato, basando la sua tesi su un confronto con i “paradigmi” di Kuhn, che la fi losofi a di Foucault è una «ontologia paradigmatica», in quanto «il paradigma defi nisce [...] il metodo foucaultiano nel suo gesto più caratteristico» (Id., Signa-tura rerum. Sul metodo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 19 e 34).

18 M. Foucault, L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1971, p. 170.19 La più signifi cativa è quella a sfondo biografi co, intitolata Le retour de la morale,

che è anche l’ultima rilasciata dal fi losofo, in cui affermava: «Heidegger è sempre stato per me il fi losofo essenziale. Ho cominciato col leggere Hegel, poi Marx, e mi sono messo a leggere Heidegger nel 1951 o 1952; e nel 1953 o 1952, non mi ricordo più, ho letto Nietzsche. Ho ancora qui le note che avevo preso su Heideg-ger nel momento in cui lo leggevo – ne ho dei quintali! -, ed esse sono molto più importanti di quelle che avevo preso su Hegel o su Marx. Tutto il mio divenire fi losofi co è stato determinato dalla mia lettura di Heidegger. Ma riconosco che l’ha spuntata Nietzsche. Non conosco a suffi cienza Heidegger, praticamente non conosco né Essere e tempo, né le cose pubblicate recentemente. La mia conoscenza di Nietzsche è sicuramente migliore di quella che ho di Heidegger; nondimeno, sono le due esperienze più fondamentali che ho fatto. Probabilmente, se non avessi letto Heidegger, non avrei letto Nietzsche. Avevo provato a leggere Nietzsche negli

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sto nella scelta, problematica, del termine “ontologia” un tributo fi nale alla rifl essione di Heidegger, autore con il quale egli sembra intrattenere una specie di silenzioso dialogo a distanza, ma che, come è stato correttamente messo in evidenza20, non va al di là di una semplice assonanza di temati-che, senza mai tradursi in un confronto serrato. Già Hubert Dreyfus, nel suo intervento al Convegno Internazionale Michel Foucault Philosophe aveva messo in evidenza un’affi nità tra Foucault e il “secondo” Heideg-ger, soprattutto a proposito del concetto di Lichtung, tanto da affermare che quest’ultima verrebbe rielaborata dal fi losofo francese nel senso di una Lichtung sociale21. Beatrice Han ha in seguito ripreso la questione aperta da Dreyfus sostenendo che «l’ontologia heideggeriana si può leggere come l’impensato dell’opera di Foucault»22, soprattutto per quanto riguarda la problematizzazione della coppia concettuale ontico/ontologico. Ma si trat-ta, ancora una volta, di una semplice assonanza tematica, in quanto un’ana-lisi approfondita dei testi conduce alla conclusione che abbiamo a che fare

anni cinquanta, ma Nietzsche da solo non mi diceva nulla, mentre Nietzsche e Heidegger insieme sono stati uno shock fi losofi co! Ma non ho mai scritto nulla su Heidegger e su Nietzsche ho scritto solo un breve articolo; tuttavia, sono i due autori che ho letto di più. Credo che sia importante avere alcuni autori con cui si pensa, con cui si lavora, ma su cui non si scrive. Forse un giorno scriverò su di loro, ma, a quel punto, per me non saranno più degli strumenti di pensiero. In sostanza, esistono, per me, tre categorie di fi losofi : i fi losofi che non conosco, i fi losofi che conosco e di cui ho parlato e i fi losofi che conosco e di cui non parlo» (DE, II, p. 1522). L’incontro con Heidegger risale agli anni in cui Foucault si occupava di Ludwig Binswanger, fi gura di primissimo piano di quell’indirizzo psicologico esistenziale che si richiama direttamente alla Daseinsanalyse e alla fenomenologia di Husserl (cfr. M. Foucault, Introduction a L. Binswanger, Le rêve et l’existence, Paris, Desclée de Brouwer, 1954; ora anche in DE, I, pp. 93-147).

20 Cfr. G. Deleuze, il quale è del parere che, nonostante le apparenti affi nità, i due «percorrono sentieri completamente diversi» (G. Deleuze, Un ritratto di Fou-cault, in Id., Pourparler. 1972-1990, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 151).

21 «il modo in cui noi comprendiamo l’Essere apre quello che Heidegger chiama una Lichtung, una radura. Heidegger chiama “potenza non costringente” il modo discreto in cui questa Lichtung contemporaneamente limita e dispiega gli oggetti suscettibili di manifestarsi e le azioni suscettibili di essere intraprese. Un buon numero di complesse osservazioni che Foucault enuncia a proposito del pote-re prendono il loro senso nel momento in cui si considera che egli accede ad una Lichtung sociale analoga sottolineando il modo in cui le pratiche concrete, quotidiane, producono, perpetuano e circoscrivono quello che gli individui pos-sono pensare e fare.» (H. Dreyfus, De la mise en ordre des choses. L’Être et le Pouvoir chez Heidegger et Foucault, in Michel Foucault Philosophe. Rencontre Internationale, Paris, 9, 10, 11 Janvier 1988, Paris, Éditions du Seuil, 1989, pp. 102-103).

22 B. Han, L’ontologie manquée de Michel Foucault, cit., p. 27.

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tutt’al più con un «omaggio»23 reso da Foucault ad Heidegger. L’ontologia dell’attualità intrattiene dunque rapporti solamente indiretti con l’ontolo-gia fondamentale, in quanto Foucault è autore rigorosamente pluralista. Egli non parla di ontologia al singolare, bensì di “ontologie”. L’ontologia dell’attualità infatti si compone, come abbiamo visto, di almeno tre onto-logie differenti, e per di più storiche, che, come ha notato Barbara Cassin, sarebbero «sequenze impensabili in termini heideggeriani, poiché in Hei-degger il sapere, il potere e il sé dipendono rigorosamente da un’ontologia singolare che varia non con la storia, ma istorialmente»24.

4. Ontologia signifi ca quindi analisi delle condizioni di possibilità dell’attualità. Di qui le domande che Foucault vede all’opera nel testo di Kant sull’illuminismo: «Che cos’è la nostra attualità? Qual è il campo at-tuale delle esperienze possibili?». L’ontologia dell’attualità è una interro-gazione sul momento presente, volta ad indicare il suo senso e la sua dire-zione25, non per contemplarlo, ma per spingerci all’azione.

Occorre stare ben attenti a non confondere il presente con l’attualità. Come hanno notato Gilles Deleuze e Félix Guattari, Foucault non utilizza le formule “ontologia del presente” e “ontologia dell’attualità” come sino-nimi, in quanto «per Foucault ciò che conta è la differenza tra il presente e l’attuale. Il nuovo, l’interessante è l’attuale. L’attuale non è ciò che noi siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, ossia l’Altro, il nostro divenir-altro. Il presente, al contrario, è ciò che siamo e, proprio per questo, ciò che già non siamo più. L’attuale è [...] l’adesso del nostro divenire»26. Presente è dunque solamente un segmento del tempo compreso tra il passato e il futuro. Non è altro che la continuità che ci lega alla nostra storia, nella quale l’istante si trova catturato. Attuale è invece, secondo Foucault, l’evento, ciò che scuote la teleologia, la pura disconti-nuità. L’ontologia dell’attualità pensa il presente come evento da decifrare fi losofi camente.

23 Ivi, p. 307.24 B. Cassin, Foucault, Heidegger e l’antichità, cit., p. 256.25 In un testo molto noto, Kant cerca nel presente un segno che sia «rememorativum,

demonstrativum, prognostikon», capace cioè di indicare la direzione del processo storico in corso (cfr. I. Kant, Riproposizione della domanda: se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in Id., Scritti di Storia, politica e diritto, cit., p. 228).

26 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la fi losofi a?, Torino, Einaudi, 1996, p. 106.

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Nel testo di Kant appare, secondo Foucault, «la questione del presente come evento fi losofi co al quale appartiene il fi losofo che ne parla»27, e questo presente coincide con la «questione della sua appartenenza [...] a un certo “noi”, a un “noi” che si rapporta, secondo un’estensione più o meno larga, ad un insieme culturale caratteristico della sua propria attualità. È questo “noi” che deve diventare per il fi losofo, o ciò che sta diventando per il fi losofo, l’oggetto della sua propria rifl essione»28.

Se il presente riguarda la domanda su “chi siamo noi oggi?”, l’attualità è invece una relazione con il fuori, la messa a rischio della propria identità aperta al suo divenire-altro, e per questo si deve porre una domanda di-versa: chi stiamo diventando? L’attuale è la differenza che scava dentro il presente e lo espone all’Altro da sé, ed è la condizione di possibilità della trasformazione. Sia il presente che l’attuale sono, in un certo senso, eventi, soltanto che uno lo è sotto il segno della Ripetizione (presente), mentre l’altro inaugura la Differenza (attuale). Come nota Judith Revel «Kant non dice presente, dice attualità [...] rompere con il presente (la permanenza dell’episteme nel tempo) e [...] inaugurare l’attualità. Vuol dire porsi il pro-blema dell’azione»29. L’attualità è quindi, alla lettera «il tempo dell’atto»30. Che senso avrebbe dire le condizioni del presente, diagnosticare l’attualità, se non per intervenire su di essa, mediante un atto di creazione, di sé e del mondo? Questo è possibile, sembra dire Foucault, soltanto nell’attualità, nell’evento che rompe il presente e, sottraendolo ad ogni teleologia, gli restituisce la libertà.

5. L’attualità è quindi un evento da decifrare fi losofi camente. Ma che cosa intende Foucault con il termine “evento”? In un’intervista del 1978 egli si esprime in questi termini:

noi siamo attraversati da processi, dei movimenti, delle forze; questi proces-si e queste forze, noi non li conosciamo, e il ruolo del fi losofo, è di essere senza dubbio il diagnostico di queste forze, di diagnosticare l’attualità

perché, continua Foucault

27 GSA, p. 14.28 Ibidem.29 J. Revel, Michel Foucault: un’ontologia dell’attualità, Soveria Mannelli, Rub-

bettino, 2003, p. 143. Kant dice Jetzt (adesso, ora); cfr. I. Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? in Kant’s Werke, 8, Abhandlungen nach 1781, Berlin-Leipzig, de Gruyter, 1923, p. 40.

30 Ivi, p. 144.

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non c’è una sola storia, ve ne sono molte, molti tempi, molte durate, molte velocità, che si incontrano le une con le altre, si incrociano e formano precisa-mente gli eventi. Un evento non è un segmento di tempo, è in fondo il punto di intersezione tra due durate, due velocità, due evoluzioni, due linee di storia31

È chiaro che Foucault non concepisce l’evento soltanto in termini tem-porali, ma anche spaziali. L’evento è lo spazio in cui si incrociano le forze, è il punto a partire dal quale nascono le forme che costituiscono il reale. È il punto di congiunzione del dentro con il fuori, una linea mobile che subito si cristallizza. L’evento è il luogo della libertà. L’ontologia dell’at-tualità come evento si confi gura quindi come analisi topologica, spaziale, cartografi ca32. Ma a quali forze si riferisce Foucault? Nell’evento, ha notato Bruno Moroncini, si affrontano almeno due diverse linee di forza «quella della matrice sapere/potere e quella dell’estetica dell’esistenza»33. L’evento si produce nell’interazione tra un dispositivo di sapere/potere e un processo di soggettivazione. La velocità del potere si scontra con la velocità della linea del sé, la quale si attualizza individualizzandosi. L’ontologia dell’at-tualità è allora una «fi losofi a dell’evento»34.

Ma, dicevamo, non solo l’evento è il luogo della libertà, esso ne è an-che il tempo. Nell’evento qualche cosa si crea, perché esso è il tempo di produzione delle differenze. L’ontologia dell’attualità è «temporalità dell’inizio»35, e, in quanto tale, è il tempo della libertà.

6. Appare chiaro a questo punto, che l’analitica della verità e l’ontologia dell’attualità non devono corrispondere, per Foucault, a due linee di ricerca separate. Esse si completano a vicenda, fi no a diventare complementari. Così in Kant, egli nota, «l’impresa critica e il processo dell’Aufklärung si completano, si richiamano e si rendono necessari l’un l’altro»36. Que-

31 M. Foucault, La scène de la philosophie, in DE, II, pp. 573 e 581.32 Philippe Artières afferma che «Foucault disegna progressivamente la carta della

situazione, una carta topografi ca [...] la carta dell’attualità» (cfr. Id., Dire l’Actua-lité. Le travail de diagnostic chez Michel Foucault, in Foucault. Le courage de la vérité, cit., p. 27).

33 B. Moroncini, La scène du présent. Historicisme et Fin de l’histoire chez Michel Foucault, in (a cura di) L. D’Alessandro e A. Marino, Michel Foucault. Trajectoi-res au coeur du présent, Paris, L’Harmattan Italia, 1998, p. 127.

34 M. Foucault, La scène de la philosophie, cit., p. 573.35 L. Daddabbo, Tempocorpo. Forme temporali in Michel Foucault, Napoli, La città

del sole, 1999, p. 248. Si veda anche, dello stesso autore, Inizi: Foucault e Arendt, Bari, Graphis, 2003.

36 GSA, p. 30.

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sta complementarietà appare chiaramente nel secondo scritto di Foucault sull’illuminismo (What is Enlightenement?), in cui l’ontologia dell’attua-lità è caratterizzata sia come un “atteggiamento-limite” (in quanto dice i limiti e le fratture del presente) che come un atteggiamento “sperimentale” (poiché, dopo aver individuato le fratture, tenta nuovi modi di vita, nuove possibilità di libertà). Vi è una relazione logica tra le due linee critiche iniziate da Kant, quella trascendentale e quella storica. La linea analitica orienta e dirige la linea critica, ne è la guida indispensabile. È in questo passaggio che possiamo rinvenire il punto di rovesciamento del progetto critico di Foucault, il legame che egli istituisce tra teoria e prassi:

non bisogna considerare l’ontologia critica di noi stessi come una teoria o una dottrina, e nemmeno come un corpo permanente di sapere che si accumula; bisogna concepirla come un atteggiamento, un ethos, una vita fi losofi ca in cui la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del loro superamento possibile37.

Queste indagini, egli aggiunge, «trovano la loro coerenza teorica nella defi nizione delle forme storicamente singolari in cui sono state problema-tizzate le generalità del nostro rapporto con le cose, con gli altri e con noi stessi. Trovano la loro coerenza pratica nell’attenzione che viene prestata a mettere la rifl essione storico-critica alla prova delle pratiche concrete»38. Il soggetto presupposto dall’ontologia dell’attualità si trova quindi situato allo stesso livello delle esperienze e delle pratiche che descrive. Egli non è un soggetto trascendentale, ma, inevitabilmente, un soggetto vivente inserito in una situazione. Come ha notato Maria Paola Fimiani, il fi ne dell’ontologia critica di noi stessi è una épreuve d’événementialisation, e cioè «una prova di produzione di eventi»39. È a questo livello che il signifi cato del termine ontologia acquista una caratterizzazione ulteriore, in quanto non si confi -gura più in senso descrittivo, ma produttivo. Ciò che si tratta di produrre e d’inventare è il sé, il proprio modo di essere. L’ontologia dell’attualità non è una semplice descrizione dell’essere, ma mira ad incrementarlo, attraverso la produzione di soggettività, pensata su un piano ontologico. Negli ultimi scritti, Foucault descrive l’etica dei Greci come etopoiesi: libera fabbricazio-ne di sé attraverso l’utilizzo di una tecnica di vita in grado di condurre ad uno “stile”, un certo equilibrio delle forze, che abbia anche un valore estetico.

37 M. Foucault, What is Enlightenment?, cit., p. 231.38 Ivi, p. 232.39 M. P. Fimiani, Foucault e Kant. Critica, Clinica, Etica, Napoli, La città del sole,

1997, pp. 33-34.

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«Ethopoiein – dice Foucault – signifi ca fare dell’ethos, produrne, modifi care o trasformare l’ethos, il modo di essere, la modalità d’esistenza di un indivi-duo [...] fabbricare dell’ethos»40. Di qui l’insistenza sulla necessità, oggi, di un’estetica dell’esistenza. Abbiamo allora, oltre ad un’ontologia del sapere e del potere, anche un’ontologia di sé, produzione di nuovi modi di essere. La produzione di nuove soggettività è ciò che Foucault fa giocare contro il tempo presente, i suoi limiti e le sue cristallizzazioni41.

7. A questo punto è giunto il momento di porre alcune domande conclu-sive, intese a verifi care l’utilità, oggi, di un’analisi come quella proposta da Foucault. È necessario infatti tentare di attualizzare la sua rifl essione, chiedendosi: «A) Che cos’è attuale per Foucault? B) Ciò che costituisce l’attualità di Foucault [...] può essere anche la nostra attualità?»42.

Queste domande sono tanto più urgenti dal momento che ci troviamo di fronte ad un pensiero che mira a comprendere la struttura profonda del no-stro presente, le possibilità di distaccarsi da esso, un pensiero che ha l’am-bizione di donare alla rifl essione fi losofi ca alcune categorie per una sua in-terpretazione. L’ontologia dell’attualità è per Foucault qualcosa di diverso da una semplice posizione teorica. Egli, nel testo su Kant, la caratterizza infatti come un ethos, un modo di vita, una scelta fi losofi ca di fondo, in grado di infl uenzare e determinare la condotta. È uno sguardo sul mondo, e contemporaneamente una prospettiva di vita. Non bisogna dimenticare che nel prosieguo dello stesso corso del 1983 e in quello dell’anno successivo (Le courage de la vérité43) viene posto il problema della “vita fi losofi ca”.

40 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 209-210.

41 L’aspetto ontologico della costituzione del sé, nel suo signifi cato biopolitico, è stato recentemente analizzato da Antonio Negri, che ne ha fatto l’elemento fon-damentale su cui elaborare una biopolitica attiva, in nome della vita e contro il potere. Egli ha affermato che «la “produzione di soggettività” è una reinvenzione della libertà all’interno delle condizioni postmoderne del dominio e dell’assogget-tamento», questo è possibile, sempre secondo Negri, perché «Foucault reinserisce l’ontologia della produzione all’interno del tessuto biopolitico. L’archeologia e la genealogia foucaultiane divengono allora parte pregnante di una teoria della produzione dell’essere. È un’intuizione formidabile» (in Id., Fabbrica di porcel-lana. Per una nuova grammatica politica, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 87). Si vedano anche: A. Negri, M. Hardt, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, BUR, 2001, pp. 38-54, e A. Negri, Pour une défi nition ontologique de la multitude, in “Multitudes”, 9, mai-juin 2002.

42 Così come si chiede correttamente Moroncini (cfr. Id., La scène du présent, cit., pp. 93-94).

43 Paris, Gallimard-Seuil, 2009.

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Gli studi sul potere44, la grande questione affrontata durante i lavori degli anni ‘70, indicano che l’attualità per Foucault è caratterizzata dalla que-stione del bíos. Il concetto di biopolitica, che viene defi nendosi in quegli anni in opere come La volontà di sapere (ma anche nei corsi dello stesso periodo tenuti al Collège de France45) e la successiva problematizzazio-ne di una tecnica di vita soggettivante messa a tema a partire dai primi anni ‘8046, costituiscono infatti una risposta al nostro primo interrogativo (che cos’è attuale per Foucault?). Alla domanda sull’attualità del discorso di Foucault per il tempo presente rispondono oggi l’interesse crescente e l’ampiezza del dibattito sulla biopolitica47. Vorrei sostenere che Foucault rappresenta ancora la nostra attualità, è un autore divenuto indispensabile, in un’epoca in cui sembrano esaurirsi le capacità ermeneutiche della fi lo-sofi a politica moderna. La rifl essione biopolitica si confi gura infatti come uno sguardo trasversale e sagittale nei confronti delle categorie politiche tradizionali, capace di mostrarne i limiti e le aporie. Al lessico della politica classica mancano i concetti all’altezza del reale, in grado cioè di interpre-tarne il senso e la razionalità. La questione biopolitica è infatti impossibile da porre all’interno del vocabolario fi losofi co classico. Roberto Esposito sintetizza effi cacemente in questi termini: «la biopolitica è contemporane-amente la “situazione concreta” in cui da tempo ci muoviamo e l’orizzonte fi losofi co destinato a interpretarla [...] è un modo, o forse il modo, di fare fi losofi a oggi» questo perché è urgente «sbarazzarsi di tutte le griglie inter-

44 Come ha notato Sandro Chignola, la domanda posta da Foucault sull’attualità deve essere tradotta nella seguente: «che cosa marca l’oggi? Come funzionano i dispositivi di potere che in esso agiscono?» al fi ne di «tracciare quindi i limiti del dispositivo di potere che ci ha fatto diventare ciò che siamo e che assegna precisi confi ni al nostro esercizio della libertà»; cfr. Id., L’impossibile del sovrano. Governamentalità e liberalismo in Michel Foucault, in (a cura di) S. Chignola, Governare la vita. Un seminario sui corsi di Michel Foucault al Collège de Fran-ce (1977-1979), Verona, Ombre Corte, 2006, pp. 46 e 41.

45 Mi riferisco ai corsi intitolati Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), Milano, Feltrinelli, 1998; Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, Feltrinelli, 2005; Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2005.

46 M. Foucault, Storia della sessualità II e III (L’uso dei piaceri e La cura di sé, entrambi Milano, Feltrinelli, 1984), e i corsi L’ermeneutica del soggetto, cit., GSA e Le courage de la vérité, cit.

47 La bibliografi a sulla biopolitica è ormai vastissima. Imprescindibili sono le inter-pretazioni fornite da G. Agamben (Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1994), A. Negri (Impero, cit.) e R. Esposito (Bíos. Biopolitica e fi losofi a, Torino, Einaudi, 2004), autori che mettono alla prova, da prospettive diverse, la capacità ermeneutica del concetto foucaultiano.

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pretative [...] per costruire un nuovo lessico [...] un nuovo spazio di inter-rogazione fi losofi ca. A ciò alludeva Foucault quando parlava di “ontologia dell’attualità”»48.

8. Riprendendo la questione posta all’inizio, cioè la domanda relativa a che cosa contraddistingue l’ontologia di Foucault nei confronti delle altre ontologie dell’attualità oggi in circolazione, siamo ora nella condizione di poter dare una risposta. L’ontologia dell’attualità, foucaultianamente in-tesa, è ontologia biopolitica, indaga cioè le condizioni di un’esperienza del soggetto in quanto essere vivente, determinato dal bíos; essa non è né fenomenologica (Vattimo) né un’ontologia della scrittura (Ferraris). I due autori italiani giungono all’ontologia dell’attualità partendo da presupposti diversi e inconciliabili rispetto a quelli di Foucault: l’uno partendo dalla rifl essione di Heidegger, l’altro da Searle e Derrida. Le loro prospettive di ricerca, pur interessanti, poco hanno a che fare con il progetto foucaultia-no. Vattimo infatti, facendo riferimento soprattutto alla rifl essione dell’ul-timo Heidegger, concepisce il proprio progetto come il modo di praticare la ricerca fi losofi ca nell’epoca della fi ne della metafi sica49. Egli ne fornisce un concetto meno connotato fi losofi camente, in quanto si tratta di pensare una «ontologia negativa»50 («non più metafi sica») che conduca «all’oltre-passamento della fi losofi a nell’etica»51. L’elemento signifi cante è, secon-do Vattimo, il linguaggio. In opere come La società trasparente52, egli si propone quindi di indagare le implicazioni fi losofi che delle odierne società della comunicazione. In questo senso, l’ontologia dell’attualità assume i caratteri di una «sociologia fi losofi ca»53 di matrice ermeneutica, che non si propone soltanto di descrivere l’esistente, ma che pretende di affermare «come l’essere dovrebbe darsi»54.

Ferraris invece, portando al limite le analisi di Vattimo, giunge anch’egli ad elaborare una propria versione dell’ontologia dell’attualità. Partendo

48 R. Esposito, Storia dei concetti ed ontologia dell’attualità, in “Filosofi a politica”, n. 1, aprile 2006 (numero monografi co dedicato al tema “Materiali per un lessico politico europeo: Biopolitica”), p. 12.

49 G. Vattimo, Ontologia dell’attualità, in (a cura di) G. Vattimo, Filosofi a ‘87, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 201.

50 Ivi, p. 223.51 Ibidem.52 G. Vattimo, La società trasparente, Milano, Garzanti, 1989.53 G. Vattimo, La fi losofi a come ontologia dell’attualità. Intervista biografi co-teori-

ca, in “Iride”, a. XIX, n. 49, settembre-dicembre 2006, p. 495.54 Intervista di M. Assalto a G. Vattimo apparsa su “La stampa” del 12 dicembre

2007.

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dal presupposto che il presente sia segnato profondamente dal fenomeno della globalizzazione, intesa come una vera e propria «esplosione della scrittura»55 (in quanto dipende da essa e allo stesso tempo la intensifi ca e la espande come pratica sociale generalizzata), Ferraris cerca di defi nire una “ontologia degli oggetti sociali” ispirata a Searle, quegli oggetti cioè che, a differenza degli oggetti fi sici, esistono soltanto previo accordo dei parteci-panti ad un determinato gioco linguistico, ma che, nondimeno, assumono una propria materialità capace di infl uenzare la nostra vita quotidiana. Que-sta diagnosi dell’attualità è radicalmente opposta, e forse in polemica, con quella condotta da Foucault, e Ferraris ne è consapevole quando afferma che «non si capisce proprio perché la biopolitica sarebbe particolarmente importante adesso: anzi, sembrerebbe che oggi più che mai la vita sia tutta infi ltrata di dati e di documenti, di iscrizioni, di incisioni, cioè sia più ve-stita che mai»56. Egli oppone alla “nuda vita” dei teorici della biopolitica una “vita vestita”, intendendo con ciò il fatto che le attività sociali che hanno luogo all’interno delle società tecnologicamente avanzate sarebbero impossibili senza le forme di registrazione e di documentalità che invece proteggono e custodiscono le semplici esistenze biologiche, trasformando-le da vite comuni, vite senza qualità, in vite iper-qualifi cate e controllate.

Non è questa la sede adatta per approfondire un confronto tra le diverse posizioni oggi disponibili relative al tema del nostro intervento, basti per il momento constatare che il problema dell’ontologia dell’attualità sollevato da Foucault è declinabile in molti modi, tra loro anche opposti, a seconda degli elementi che si ritengono signifi canti per una diagnosi del presente. Che si sia favorevoli, o contrari, al taglio specifi co accordato da Foucault all’indagine sul presente (e cioè il paradigma biopolitico), non si può ne-gare che essa ha infl uenzato e continua ad infl uenzare, oggi più che mai, la rifl essione fi losofi ca sul mondo in cui viviamo.

55 M. Ferraris, Sans papier. Ontologia dell’attualità, Roma, Castelvecchi, 2007, p. 117.

56 Ivi, p. 56. Il limite della critica di Ferraris è legato al fatto che egli sembra ridurre la portata del dibattito sulla biopolitica alle sole tesi di Agamben (Foucault non ha mai utilizzato l’espressione “nuda vita”), neutralizzandone così le caratteristiche più feconde, messe in luce, per esempio, nelle interpretazioni di Esposito e di Negri.

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LETTERIO MAURO

PIERRE HADOT:LA FILOSOFIA COME MODO DI VITA

In memoriam

1. È suffi ciente scorrere le pagine autobiografi che del suo volume di conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson1, per rendersi con-to della vera e propria miniera di rapporti e di incontri di cui si è intessuta la vita di Pierre Hadot. Spiccano tra i tanti quelli con René Le Senne e Jean Hyppolite, i cui corsi ha seguito alla Sorbonne a partire dal 1945; con Henri-Irénée Marrou, Nicolaj Berdjaev e Albert Camus, dei quali ha ascol-tato le conferenze a Parigi in quegli stessi anni; con Gabriel Marcel, il cui circolo parigino ha frequentato, restando peraltro negativamente colpito dalla «verbosità artifi ciale» che caratterizzavano sia lui sia «le persone che lo circondavano»; con Paul Henry, autore (con Schwyzer) di una impor-tante edizione delle Enneadi plotiniane, che lo ha indirizzato allo studio di Mario Vittorino; con Henri-Charles Puech, Pierre Courcelle, André-Jean Festugière, dei quali, alla École Pratique des Hautes Études, ha seguito i corsi rispettivamente sullo gnosticismo, sugli scrittori latini e su Proclo; e infi ne con Paul Ricoeur e Jean-Pierre Vernant, i cui centri di ricerca ha fre-quentato negli anni 1958-60, e con Jean Wahl, che ha contribuito (insieme alla celebre monografi a di Alphonse de Waelhens2) a introdurlo al pensiero di Heidegger.

A questi nomi andrebbero poi aggiunti quelli degli studiosi che, a mo-tivo dei suoi interessi neoplatonici, Hadot ha avuto modo di conoscere e frequentare, anche grazie agli Entretiens della Fondation Hardt a Vando-euvres3: da Arthur Hilary Armstrong a Vincenzo Cilento, Eric R. Dodds,

1 Cfr. P. Hadot, La fi losofi a come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Car-lier e Arnold I. Davidson, trad. it. Einaudi, Torino 2008, pp. 3 – 71 (ed. or. Albin Michel, Paris 2001).

2 A. de Waelhens, La philosophie de Martin Heidegger, Publications de l’ Univer-sité, Louvain 1942.

3 Contributi di Hadot sono apparsi nei volumi V (Les sources de Plotin, Fondation Hardt, Vandoeuvres-Genève 1957, pp. 105-141) e XII (Porphyre, ivi, 1966, pp. 125-163) degli Entretiens sur l’Antiquité classique; essi sono dedicati rispettivamente a Être, Vie, Pensée chez Plotin et avant Plotin, e a La métaphysique de Porphyre.

Francesco
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Heinrich Dörrie, Hans-Rudolf Schwyzer, Willy Theiler, per citarne solo al-cuni. E ancora dovrebbero essere ricordati quanti (da Maurice de Gandillac a Pierre-Maxime Schuhl, Jean Daniélou, Claude Mondésert, René Roques, Michel Foucault), in particolare nel periodo seguito al suo abbandono della vita ecclesiastica, lo hanno sostenuto in vario modo e grazie al cui appog-gio è stato ammesso in diverse importanti istituzioni culturali francesi: nel 1949 al Centre National de la Recherche Scientifi que (dove ha lavorato come ricercatore sino al 1964); successivamente alla École Pratique des Hautes Études, di cui è stato dal 1964 al 1986 Directeur d’études alla V sezione, di scienze religiose (la sua cattedra, intitolata «Patristique latine», è poi divenuta «Théologies et mystiques de la Grèce hellénistique et de la fi n de l’Antiquité»); e infi ne al Collège de France, dove è stato titolare dal 1983 al 1990 della cattedra di Storia del pensiero ellenistico e romano.

Se non è facile dipanare lo sterminato reticolo di rapporti che ha infl uito su Hadot, neppure è agevole circoscrivere la ricca varietà di interessi e di temi da lui coltivati all’interno di un arco temporale che spazia signifi ca-tivamente «da Socrate a Foucault»4; vi si rifl ettono una curiosità che si direbbe inesauribile (basti qui ricordare le sue recenti ‘aperture’ in chiave comparativista alle fi losofi e di altre culture, in particolare a quella cinese) e una attività di ricerca che appare davvero instancabile (si pensi all’ampio e originale studio, frutto di indagini trentennali, incentrato sul tema del velo della natura5, che egli, nato a Parigi il 21 febbraio 1922, ha pubblicato ancora nel 2004).

In essa è, comunque, possibile individuare due fondamentali nuclei te-matici: da un lato, la tradizione neoplatonica, a cui è stato avviato dal suo giovanile interesse per la mistica e alla cui migliore conoscenza ha dato un contributo di straordinaria importanza attraverso una copiosa serie di interventi (edizioni critiche, traduzioni, monografi e e saggi6). Oltre che del

4 Cfr. P. Hadot, La fi losofi a come modo di vivere, trad. cit., pp. 163-193.5 Cfr. P. Hadot, Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura, trad. it. Einaudi, Torino

2006 (ed. or. Gallimard, Paris 2004). 6 Si vedano al riguardo almeno i seguenti volumi e contributi: Marius Victorinus,

Traités théologiques sur la Trinité, I, texte établi par P. Henry et P. Hadot, Intro-duction, traduction et notes par P. Hadot (SC 68), Cerf, Paris 1960; Marius Victo-rinus, Traités théologiques sur la Trinité, II, Commentaire par P. Hadot, (SC 69), Cerf, Paris 1960; P. Hadot, Christlicher Platonismus. Die theologischen Schriften des Marius Victorinus, übersetzt von P. Hadot und U. Brenke, eingeleitet und erläutert von P. Hadot, Artemis Verlag, Zürich-Stuttgart 1967; P. Hadot, Porfi rio e Vittorino, trad. it. Vita e Pensiero, Milano 1993 (ed. or. Études Augustiniennes, Paris 1968, 2 voll.; il testo di Hadot comprende anche una nuova edizione critica degli ampi frammenti di un Commento al Parmenide di Platone, pervenutici in

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suo interesse per il pensiero di Plotino7, essi sono frutto delle ricerche da lui avviate nel 1946 (e portate avanti per più di vent’anni) su Mario Vittorino, che gli hanno consentito, come è noto, di ridisegnare il quadro concettuale della storia del neoplatonismo postplotiniano, ridefi nendovi in particolare il ruolo di Porfi rio in rapporto sia a Plotino, sia alla successiva tradizione neoplatonica latina. L’abbandono degli studi su Vittorino, peraltro non cor-rispondenti ai più profondi interessi di Hadot (e a proposito dei quali Mar-rou ebbe scherzosamente a osservare: «On peut se demander quels péchés vous avez commis dans une vie antérieure pour être condamné à pareil travail!»8) non ha peraltro signifi cato quello delle indagini sulla mistica neoplatonica e in generale su Plotino. Risale infatti ai primi anni Cinquanta del secolo scorso la sua ‘scoperta’ del pensiero di Wittgenstein e delle sin-golari tangenze tra la nozione wittgensteiniana di «limiti del linguaggio» e la radicale teologia negativa di un esponente di rilievo della scuola neo-platonica di Atene, il siriano Damascio9; grazie a questi studi egli ha fatto chiarezza, tra l’altro, circa l’erronea (e assai diffusa) identifi cazione della

forma anonima e che egli dimostra essere opera di Porfi rio: cfr. ivi, vol. II, pp. 60-113. La versione italiana di questa edizione è stata pubblicata in un volume a parte: cfr. Porfi rio, Commentario al Parmenide di Platone, Saggio introduttivo, testo con apparati critici e note di commento a cura di P. Hadot, Vita e Pensiero, Milano 1993); Marii Victorini opera. Pars Prior, Opera theologica, recensuerunt P. Henry et P. Hadot, (CSEL 83/1), Hoelder-Pichler-Tempsky, Vindobonae 1971; P. Hadot, Marius Victorinus. Recherches sur sa vie et ses oeuvres, Études Augus-tiniennes, Paris 1971; Le Néoplatonisme, Actes du Colloque International de Royaumont (9-13 juin 1969), éd. par P.M. Schuhl et P. Hadot, Introduction par P. Hadot, Éditions du C.N.R.S., Paris 1971; Ambroise de Milan, Apologie de David, Introduction, texte latin, notes et index par P. Hadot, traduction par M. Cordier, (SC 239), Cerf, Paris 1977; P. Hadot, Structure et thèmes du Traité 38 (VI, 7) de Plotin, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, Teil II: Principat, Bd. 36: Philosophie, Wissenschaften, Technik, 1. Teilband: Philosophie (Historische Einleitung; Platonismus), De Gruyter, Berlin-New York 1987, pp. 624-676 .

7 Cfr. tra gli altri: P. Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, trad. it. Einaudi, Torino 1999 (ed. or. Gallimard, Paris 1963, 19974) ; Id., Plotin, Porphyre. Études néoplatoniciennes, Les Belles Lettres, Paris 1999.

8 Citato in P. Hadot, Plotin, Porphyre, cit., p. 19.9 Cfr. P. Hadot, Réfl exions sur les limites du langage, à propos du Tractatus lo-

gico-philosophicus de Wittgenstein, «Revue de Métaphysique et de Morale», 63 (1959), pp. 469-484; Jeux de langage et philosophie, ivi, 67 (1962), pp. 330-343. Insieme ad altri due saggi sullo stesso autore (Wittgenstein philosophe du langage I, «Critique», 149 (1959), pp. 866-881; Wittgenstein philosophe du langage II, ivi, 150 (1959), pp. 972-983), questi studi sono poi confl uiti nel volume Wittgenstein et les limites du langage, Vrin, Paris 2004 (trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2007).

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mistica con la teologia negativa, dovuta con tutta probabilità al titolo dello scritto pseudo-dionisiano Teologia mistica, che svolge, come è noto, una rigorosa teologia negativa. E ancora al suo interesse per il neoplatonismo va ricondotto il progetto di una traduzione commentata di tutti i trattati che compongono le Enneadi plotiniane, presentati in ordine cronologico e sen-za il testo greco, avviato nel 1988 sotto la sua direzione presso le Éditions du Cerf con il titolo generale Les écrits de Plotin10.

L’altro grande nucleo tematico, a cui Hadot si è dedicato soprattutto a partire dalla fi ne degli anni Settanta dello scorso secolo11, è costituito dalla descrizione della fi losofi a antica come un’arte o una tecnica di vita, ovvero come una guida del comportamento, volta quindi a formare (più che a infor-mare) e a orientare; in breve, per usare la formula da lui resa celebre, come un complesso di «esercizi spirituali», propri cioè dell’intelligenza e della vo-lontà, aventi per scopo la trasformazione del modo di vedere il mondo e di stare in esso, e, quindi, non riducibili a una semplice tecnica o a una ricetta, ma confi gurabili piuttosto come la ricerca di una disposizione, ovvero di un atteggiamento. Anche in questo caso importante è risultata la lettura di Wit-tgenstein; grazie infatti alla ‘scoperta’ della sua idea dei «giochi linguistici» Hadot ha dichiarato di avere avuto «per la prima volta l’idea che la fi losofi a fosse anche esercizio spirituale perché, in fondo, l’esercizio spirituale è mol-to spesso un gioco linguistico: si tratta di dire una frase per provocare un ef-fetto, sia negli altri sia in se stessi, dunque in certe circostanze e con un certo scopo»12. E anche in questo caso egli si è in qualche modo ricongiunto agli inizi del suo interesse per la fi losofi a, addirittura alla dissertazione per il suo esame di maturità di fi losofi a nel 1939, dedicata al commento di questa frase

10 Di questa traduzione sono già apparsi i seguenti volumi: Traité 38 (VI 7), Paris 1988; Traité 50 (III 5), Paris 1990 Traité 9 (VI 9), Paris 1994 (tutti a cura di P. Hadot); Traité 54 (I 7) Paris 2004 (a cura di A. Pigler); Traité 53 (I 1), ivi, 2004 (a cura di G. Aubry); Traité 4 (IV 2), ivi, 2006 (a cura di M. Chappuis); Traité 1 (I 6), ivi, 2007 (a cura di A.L. Darras-Worms); Traité 5 (V 9), ivi, 2007 (a cura di A. Schniewind).

11 Cfr. in particolare P. Hadot, Théologies et mystiques de la Grèce hellénistique et de la fi n de l’Antiquité. I. Philosophie et exercice spirituel: Les Pensées de Marc Aurèle; II. Dialectique, rhétorique et philosophie dans l’Antiquité, «Annuaire de l’École Pratique des Hautes Études. Section des Sciences Religieuses», 85 (1976-1977), pp. 297- 309. Su questo tema si vedano inoltre, tra gli altri numerosi interventi di Hadot, almeno i due seguenti: Esercizi spirituali e fi losofi a antica, trad. it. Einaudi, Torino 1988 (ed. or. Études Augustiniennes, Paris 1981); Id., La cittadella interiore. Introduzione ai “Pensieri’’ di Marco Aurelio, trad. it. Vita e Pensiero, Milano 1996 (ed. or. Fayard, Paris 1992).

12 P. Hadot, La fi losofi a come modo di vivere, trad. cit., p. 181. Cfr. Id., Wittgenstein e i limiti del linguaggio, trad. cit., pp. 11-12.

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di Bergson: «La philosophie n’est pas une construction de système, mais la résolution, une fois prise, de regarder naïvement en soi et autour de soi»13. È indubbio, tuttavia, che all’adozione di tale linea interpretativa, senz’altro tra le più stimolanti e chiarifi catrici tra quelle avanzate dalla storiografi a fi loso-fi ca contemporanea, ha contribuito in maniera decisiva la ricca pratica esege-tica condotta da Hadot sui testi fi losofi ci antichi (soprattutto sulle particolari ‘tecniche’ di scrittura, miranti a produrre nel lettore un certo effetto, adottate appunto sia da Plotino che da Vittorino). Essa è stata poi da lui applicata, come si preciserà più avanti, anche ad altri segmenti della storia del pen-siero14. Anzi, con un contributo signifi cativo pure sul piano teoretico15, egli ha riproposto espressamente, mostrandone il valore e l’interesse per l’oggi, alcuni degli «esercizi spirituali» antichi: dalla «meditazione della morte», intesa come piena concentrazione sul presente, allo «sguardo dall’alto», alla «preoccupazione per la comunità umana», alla «meraviglia di fronte al mi-racolo inaudito dell’esistenza del mondo»16. Attraverso essi, praticabili «in-dipendentemente dai discorsi che li giustifi cano o che li raccomandano»17, egli non ha inteso proporre naturalmente un anacronistico ritorno all’una o all’altra scuola fi losofi ca antica, quanto ribadire la centralità, appunto anche per l’oggi, di una idea di fi losofi a capace di trasformare il proprio modo di vita e la comprensione del proprio ruolo all’interno della realtà18.

È forse opportuno, a questo punto, richiamare un ulteriore nesso esisten-te tra questi due ambiti di ricerca privilegiati da Hadot; esso è costituito dall’uso da lui fatto del procedimento della «ricerca delle fonti» (Quellen-forschung) nei confronti di quelli che possono essere defi niti topoi, ovvero «luoghi comuni» della storia del pensiero, identifi cando con precisione il posto e la forma da essi occupati nei diversi «intermediari» che ne hanno assicurato la trasmissione e, quindi, i differenti signifi cati da essi assunti in relazione alle problematiche successive in cui sono stati integrati19.

13 Citata in P. Hadot, Plotin, Porphyre, p. 20.14 Cfr. P. Hadot, Che cos’è la fi losofi a antica?, trad. it. Einaudi, Torino 1998, pp.

250-259 (ed. or. Gallimard, Paris 1995).15 Sul contributo portato da Hadot, grazie alla sua riscoperta dell’idea di esercizio

spirituale, alla concezione contemporanea dell’etica si veda quanto osserva A. I. Davidson, Etica, fi losofi a ed esercizi spirituali. Da Plotino a Wittgenstein, in appendice a Hadot, La fi losofi a come modo di vivere, pp. 259-273.

16 Cfr. P. Hadot, La fi losofi a come modo di vivere, trad. cit., pp. 217-233.17 Ivi, p. 215.18 Cfr. H. Putnam, Jewish Philosophy as a Guide to Life. Rosenzweig, Buber, Levi-

nas, Wittgenstein, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 2008, pp. 12-13.

19 Cfr. P. Hadot, Porfi rio e Vittorino, trad. cit., pp. 21-30.

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Dell’acquisizione di questo rigoroso metodo di lavoro, attento sia al ge-nere letterario a cui un testo appartiene sia al contesto nel quale è stato composto, come pure di tutto il bagaglio di conoscenze e di pratiche che l’esame scientifi co di un testo antico richiede Hadot si è sempre con molta riconoscenza dichiarato debitore al sodalizio con Paul Henry20. E di questo metodo ha sempre rivendicato la piena validità, in polemica con la disin-volta sicurezza mostrata da molti esegeti contemporanei, di formazione puramente fi losofi ca, nei confronti dei testi antichi. Ricordando, ad esem-pio, l’«attitude très spéciale de Victorinus et d’une manière générale des Anciens à l’égard des mots» e il fatto che, per loro, «il n’est pas indifférent d’employer tel ou tel mot dans tel ou tel contexte, car les mots ont une va-leur sacrée»21, egli ha severamente richiamato chi oggi si accosti allo studio del retore africano appunto «au respect des mots»22.

In tal modo, affi ancando alla propria intensa attività di ricerca una impegnata rifl essione sul lavoro storiografi co, Hadot si è costantemente dichiarato convinto della oggettività di esso e della possibilità di perve-nire in tale ambito a risultati certi e indiscutibili; come ha espressamente affermato, «un même texte ne tolère pas toutes les exégèses; certaines sont valides, d’autres inadmissibles»23. D’altra parte, egli ha anche ri-conosciuto il senso personale, paideutico, esistenziale che deve essere proprio di ogni ricerca sul passato, prendendo in tal modo le distanze, non diversamente da Marrou24, dal modo particolare di intendere l’ogget-tività dello storico e della storia che aveva caratterizzato il positivismo storiografi co del secolo XIX.

20 Cfr. P. Hadot, Plotin, Porphyre, pp. 12-15; Id., La fi losofi a come modo di vivere, trad. cit., pp. 27, 43-44.

21 P. Hadot, Un vocabulaire raisonné de Marius Victorinus Afer, in Studia Patristi-ca, I, Papers presented to the Second International Conference on Patristic Studies (Oxford, 24-29 September 1955), ed. by K. Aland and F.L. Cross, Akademie Ver-lag, Berlin 1957, pp. 194-208 (la citazione è tratta da p. 207).

22 «Chaque mot de Victorinus a été choisi avec respect, peut-être avec amour. Il n’est peut-être pas hors de propos, pour nous autres modernes, de nous rappeler nous-mêmes au respect des mots». Ivi, p. 208. Un illuminante esempio, da parte di Hadot, dell’uso di questo metodo nei confronti di Vittorino è costituito, tra gli altri, dal suo saggio De lectis non lecta conponere (Marius Victorinus, adversus Arrium II 7). Raisonnement théologique et raisonnement juridique, in Studia Pa-tristica, I, cit., pp. 209-220.

23 P. Hadot, Plotin, Porphyre, p. 13.24 Cfr. H.-I. Marrou, Tristezza dello storico. Possibilità e limiti della storiografi a,

trad. it. Morcelliana, Brescia 1999 (ed. or. «Esprit», Ier avril 1939, Paris); Id., La conoscenza storica, trad. it. il Mulino, Bologna 1962 (ed. or. Seuil, Paris 1954).

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2. Come si è detto, le indagini di Hadot sul neoplatonismo hanno contribu-ito in maniera rilevante a ridisegnare l’evoluzione della sua fase postplotinia-na, in particolare in relazione a Porfi rio, visto non più come erudito e sempli-ce volgarizzatore del maestro ma come pensatore originale, capace di infl uire con la sua ontologia, oltre che sulla teologia trinitaria di Vittorino, Sinesio e Agostino, anche sulla scolastica medievale e sulla fi losofi a moderna25; non meno rilevanti sono stati gli esiti della sua caratterizzazione globale della fi -losofi a antica come complesso di «esercizi spirituali»26. In primo luogo, essa ha consentito di precisare che cosa abbia signifi cato, per i pensatori antichi, fare fi losofi a: non elaborare una trattazione teorica dei problemi, ma eserci-tarsi nella pratica quotidiana della cura di sé, di una terapia dell’anima, così da giungere a una radicale trasformazione della propria mentalità e condotta di vita. Un chiaro esempio in proposito è fornito dai Pensieri di Marco Au-relio: come Hadot ha effi cacemente mostrato, essi non costituiscono affatto la riproposizione, più o meno originale, di un sistema, quello dello stoicismo (benché vi si riferiscano di continuo), ma piuttosto i concreti esercizi spiri-tuali di un uomo, «colti nel vivo, nell’istante stesso in cui sono praticati»27. Attraverso l’esame di se stesso e la critica di se stesso riguardo ad alcuni valori propri appunto dello stoicismo (l’assolutezza della coscienza morale e la purezza dell’intenzione, il valore assoluto della persona, l’appartenenza di ognuno a un Tutto, costituito dalla totalità degli uomini e del cosmo), egli «ci chiama a una scelta di vita, alla trasformazione di noi stessi, a una revisione totale del nostro atteggiamento nei confronti degli uomini e del mondo»28.

Secondariamente, portando al centro dell’attenzione le regole e gli sche-mi codifi cati che fanno da sfondo, nell’Antichità, alla composizione let-

25 Cfr. P. Hadot, Porfi rio e Vittorino, trad. cit., pp. 63-121, 401-435. Cfr. anche sull’ar-gomento P. Hadot, La distinction de l’être et de l’étant dans le “De hebdomadibus” de Boèce, in Die Metaphysik im Mittelalter. Ihr Ursprung und ihre Bedeutung, Vor-träge des II. Internationalen Kongresses für mittelalterliche Philosophie (Köln 31. August-6. September 1961), hrsg. von P. Wilpert, De Gruyter, Berlin 1963, pp. 147-153; Id., Dieu comme acte d’être dans le néoplatonisme. A propos des théories d’É. Gilson sur la métaphysique de l’Exode, in Dieu et l’être. Exégèses d’Exode 3,14 et de Coran 20,11-24, Études Augustiniennes, Paris 1978, pp. 57-63.

26 Come è noto, Hadot non è stato il primo a sostenere la tesi secondo cui la fi losofi a antica sarebbe basata essenzialmente sull’idea di guida spirituale e di cura di sé; già Paul Rabbow (Seelenführung. Methodik der Exerzitien in der Antike, Kösel, München 1954) aveva infatti raccolto su questo tema un notevole materiale, senza peraltro pervenire alla luce di esso a una caratterizzazione appunto globale della fi losofi a antica.

27 Hadot, La cittadella interiore, trad. cit., p. 286.28 Ivi, p. 283.

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teraria, ossia il contesto, nel senso più ampio del termine, in cui questa si situa, la tesi di Hadot ha evidenziato con effi cacia come solo la conoscenza di tale contesto renda possibile una comprensione dei testi fi losofi ci antichi che eviti di proiettare su di essi preoccupazioni o intenzioni che sono loro estranee. Ancora una volta, è suffi ciente richiamare l’esempio dei Pensieri di Marco Aurelio; come afferma Hadot, essi «non sono l’effusione sponta-nea di un’anima che vorrebbe esprimere immediatamente i suoi sentimenti, ma […] un esercizio realizzato secondo alcune regole ben defi nite»29, quel-le proprie a un tipo di scritto che nell’Antichità veniva chiamato hypom-néma, ossia l’appunto personale preso giorno per giorno. Con i Pensieri Marco Aurelio ha inteso praticare, in tal modo, nei confronti di se stesso una vera e propria «terapia della scrittura», riproponendo attraverso conti-nue variazioni un ristretto numero di dogmi, di verità, dello stoicismo. Le riprese e ripetizioni, a volte quasi letterali, degli stessi temi, che risulte-rebbero incomprensibili se l’opera fosse stata destinata alla pubblicazione, si spiegano invece molto bene alla luce del suo essere appunto una sorta di promemoria, che consente di avere sempre presenti al proprio animo tali dogmi e regole di vita. Questi ultimi, precisa infatti Hadot, «non sono regole matematiche ricevute una volta per tutte e applicate meccanicamen-te. Devono diventare, se così si può dire, prese di coscienza, intuizioni, emozioni, esperienze morali che hanno l’intensità di un’esperienza mistica […]. Ma questa intensità spirituale e affettiva svanisce velocemente. Per risvegliarla non è suffi ciente rileggere ciò che si è già scritto. Le pagine scritte sono già pagine morte. […] Ciò che importa è formulare di nuovo, è l’atto dello scrivere, di parlare a se stessi, nell’istante, in quell’istante preciso in cui si ha bisogno di scrivere»30.

Da ultimo, applicando anche alla rifl essione di molti autori moderni e contemporanei (da Montaigne a Descartes e Spinoza, da Kant a Schopen-hauer e Kierkegaard, da Nietzsche a Marx e Bergson, da Husserl a Hei-degger e Wittgenstein, per limitarsi ai più rilevanti) la concezione antica della fi losofi a, Hadot non ha soltanto evidenziato, secondo un modulo er-meneutico a lui caro, il riproporsi con variazioni nella longue durée di un tema importante31, ma ha dato inoltre un notevole apporto alla possibilità

29 Ivi, p. 5.30 Ivi, p. 54.31 Esemplifi cativo di questo modulo ermeneutico è, tra gli altri, P. Hadot, La sur-

vie du Commentaire de Simplicius sur le Manuel d’Épictète du XVe au XVIIe siècles: Perotti, Politien, Steuchus, John Smith, Cudworth, in Simplicius. Sa vie, son oeuvre, sa survie, Actes du colloque international de Paris (28 sept.-1er oct. 1985), éd. par I. Hadot, De Gruyter, Berlin-New York 1987, pp. 326-367.

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di intraprendere nuove letture di questi pensatori, diversi tra loro ma acco-munati appunto dalla concezione della fi losofi a «come una attività concreta e pratica e come una trasformazione del modo di vivere o di percepire il mondo»32. A suo dire, anzi, questa maniera di intendere e di praticare la fi losofi a sarebbe venuta meno, nella storia del pensiero, solo con la sco-lastica medievale; in questo periodo, infatti, la fi losofi a avrebbe smarrito sia lo stretto contatto con l’esistenza, sia la natura di «esercizio spirituale» mirante a una «conversione», ovvero alla trasformazione della propria vi-sione globale della realtà. In seguito a ciò, essa si sarebbe progressivamen-te trasformata, da modo di vivere, in attività meramente teorica e astratta, distinta e separata dalla dimensione religiosa; non più scienza suprema ma ‘ancella della teologia’ (divenuta a sua volta vertice del sapere), essa sareb-be stata insegnata non a caso all’interno dell’università, istituzione assai più rigidamente strutturata rispetto alla scuola del mondo antico e, a diffe-renza di questa, mirata non alla formazione globale dei suoi membri, ma a quella, specialistica, di «funzionari» o professionisti del sapere. In breve: nel Medioevo scolastico la concezione della fi losofi a come modo di vita, implicante una ben precisa opzione esistenziale e quindi anche la capacità di ‘mettersi in gioco’ radicalmente, sarebbe stata soppiantata da una conce-zione di essa come professione, come gestione accorta di un sapere di tipo specialistico, privo, quindi, di qualsiasi risvolto esistenziale ed escludente ogni diretto coinvolgimento personale. La fi losofi a avrebbe in tal modo rinunciato agli esercizi spirituali antichi, divenuti in seguito a ciò parte in-tegrante (come nel caso di quelli di Ignazio di Loyola) della spiritualità33.

A queste tesi non si è mancato di obiettare da parte soprattutto (anche se non soltanto) di autorevoli storici del pensiero medievale che in realtà non pochi testi rappresentativi della scolastica, dal Proslogion di Anselmo d’Aosta al De tribus diebus di Ugo di S. Vittore, all’Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura da Bagnoregio, possono essere considerati, almeno per ampie parti, opere fi losofi che nel senso di Hadot. In essi vengono infatti suggeriti degli «esercizi fi losofi ci» capaci di trasformare la propria visio-ne della realtà e, comunque, di orientare in un nuovo modo l’esistenza, conformemente appunto a tale nuova visione; si tratta dunque di esercizi fi losofi ci, che sono per l’anima qualcosa di analogo a una terapia medica o all’allenamento per l’atleta (immagini spesso ricorrenti, del resto, anche ri-

32 P. Hadot, Che cos’è la fi losofi a antica?, trad. cit., p. 259. 33 Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali, trad. cit., pp. 155-167; Id., Che cos’è la fi losofi a

antica?, trad. cit., pp. 227-259.

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guardo alla educazione cristiana alla santità)34. È stato inoltre rilevato come non sia corretto, da un lato, ridurre la fi losofi a medievale alla scolastica, emarginando tradizioni, quale quella cistercense o quella della mistica te-desca, che hanno mantenuto vivo l’antico ideale di prassi in parte addirit-tura sotto la denominazione di fi losofi a (basti pensare alla dettagliata prassi prescritta da Eckhart per la guida fi losofi ca dell’anima); dall’altro, ritenere che il mutamento di paradigmi tra il pensiero antico e quello medievale si sia verifi cato in modo repentino e completo: in questo senso si potrebbe-ro citare autorevoli esponenti della scolastica del secolo XIII, ad esempio Ruggero Bacone, Boezio di Dacia e Robert Kilwardby, che si sono espres-samente attenuti appunto al legame di teoria e prassi in fi losofi a35.

3. In una recente intervista, riproponendo sinteticamente quanto soste-nuto nel già citato volume di conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold Davidson, Hadot ha ricordato la grande importanza, per il sorgere e il de-fi nirsi della sua vocazione fi losofi ca, dell’esperienza del proprio puro esi-stere da lui vissuta durante l’adolescenza, contemplando il cielo stellato, e poi altre volte nel corso della sua vita dinanzi allo spettacolo della natura36. Tale esperienza, che egli ha chiamato, con le parole di Romain Rolland, «sentimento oceanico» e, con quelle di Michel Hulin, «mistica selvaggia», non andrebbe confusa né col sentimento della natura, presente anche nella tradizione cristiana, pur implicando, al pari di questo, una intensa perce-zione del mondo naturale attorno a noi; né con la meraviglia dinanzi al darsi delle realtà del mondo, posta, come è noto, da Platone (Theaet. 155d) e Aristotele (Met. I 2, 982b 12-13) all’origine del far fi losofi a37, pur con-

34 Cfr. R. Imbach, Philosophie als geistige Übung. Zu einem Aufsatzband von Pierre Hadot, «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 30 (1983), pp. 179-187; J.A. Aertsen, Mittelalterliche Philosophie: ein unmögliches Projekt? Zur Wende des Philosophieverständnisses im 13. Jahrhundert, in Geistesleben im 13. Jahrhundert, hrsg. von J.A. Aertsen und A. Speer, (Miscellanea Mediaevalia Bd. 27), De Gruyter, Berlin-New York 2000, pp. 12-28. Su questo punto mi sia permesso rinviare al mio saggio Esercizi spirituali e fi losofi a medievale: l’Itine-rarium mentis in Deum di Bonaventura da Bagnoregio, in Pensare il medesimo II, Studi in onore di Edoardo Mirri, a cura di A. Pieretti, Edizioni Scientifi che Italiane, Napoli 2007, pp. 269-280.

35 Cfr. Ch. Horn, L’arte della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai neo-platonici, trad. it. Carocci, Roma 2004, pp. 213-214 (ed. or. Beck, München 1998).

36 Cfr. «Face au ciel étoilé, j’ai vraiment éprouvé le sentiment brut de mon exis-tence», propos recueillis par M. Legros, «Philosophie magazine», 21 (juillet-août 2008), p. 54; Hadot, La fi losofi a come modo di vivere, pp. 8-13.

37 Cfr. E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della fi losofi a antica, Laterza, Roma-Bari 2007.

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Pierre Hadot: la fi losofi a come modo di vita di L. Mauro 165

dividendo con questa il senso di stupore di fronte alle cose. Essa si iden-tifi cherebbe piuttosto con la combinazione di angoscia e di meraviglia di esserci provocata «dal sentimento della presenza del mondo, o del Tutto, e di me in questo mondo», dalla piena «presa di coscienza del mio essere immerso nel mondo»38 e, per la intensa consapevolezza del proprio esistere che la caratterizza, costituirebbe il livello autentico di esso, contrapposto agli automatismi abitudinari del vivere quotidiano.

Ben si comprende perciò che, in questa nuova, più cosciente percezione di sé e del mondo, e di sé nel mondo, Hadot abbia visto il punto di svolta della sua concezione della fi losofi a, intesa da allora precisamente come trasformazione della percezione della realtà, e quindi come modo di vita, prima (e piuttosto) che come fabbrica di concetti. Ciò, d’altra parte, non equivale a contrapporre o a separare la fi losofi a come modo di vivere, da un lato, dal discorso fi losofi co destinato a restare in qualche maniera ad essa esterno, dall’altro, ovvero a credere che sia possibile fare a meno della rifl essione fi losofi ca. Come egli ha infatti espressamente precisato, «que-sto discorso è inseparabile dal modo di vita. […] Sarà dunque necessario sforzarsi di spiegare le ragioni per cui si agisce in tale o talaltro modo, e rifl ettere sulla propria esperienza e su quella degli altri. Senza questa rifl es-sione, la vita fi losofi ca rischia di cadere nella banalità o nell’insipienza, nei buoni sentimenti o nell’aberrazione»39.

38 P. Hadot, La fi losofi a come modo di vivere, trad. cit., p. 9. Anche su questo punto Hadot rinvia, tra gli altri a Wittgenstein (cfr. ivi, pp. 232, 240; Wittgenstein e i limiti del linguaggio, trad. cit., pp. 16-17).

39 P. Hadot, Che cos’è la fi losofi a antica?, trad. cit., p. 269; cfr. ivi, pp. 6-7. Sulla fi -losofi a come discorso critico e, insieme e indissolubilmente, trasformazione di sé si veda anche Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, trad. cit., pp. 23-24.

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MARCO DAMONTE

CREDENZA RELIGIOSAE VIRTÙ EPISTEMOLOGICHE.

Il contributo di Pouivet alla fi losofi a analiticadella religione in Francia

Gli ambiti di ricerca di Roger Pouivet, attualmente professore all’Uni-versité de Nancy 2, sono disparati: egli si occupa di fi losofi a analitica, di metafi sica, di estetica, di fi losofi a dell’arte, di fi losofi a della religione e di fi losofi a polacca. Vari anche gli autori a cui intende riferirsi: Aristotele, Tommaso d’Aquino, Reid, Wittgenstein, Goodman e i membri del Circo-lo di Cracovia1. Questa varietà rivela una capacità eclettica, ma nasconde due tesi, una storiografi ca e una teoretica, che rendono la sua fi losofi a una unità coerente, fruibile nel dibattito contemporaneo per interesse, attualità e originalità. Il mio scopo è quello di palesare queste due tesi, facendole emergere dal particolare approccio di Pouivet alla fi losofi a della religione.

Nel XX secolo, in Francia, le credenze religiose hanno risentito delle dure critiche dei maestri del sospetto (Nietzsche, Marx e Freud in primis) che le hanno screditate fi no a renderle illegittime de jure. Questo discredito è stato ritenuto un contributo fondamentale ed indiscutibile del pensiero moderno, accettato persino da infl uenti teologi. Una volta concessa l’ingiu-stifi cabilità di principio delle credenze religiose, alla rifl essione fi losofi ca sono rimaste due sole strade percorribili: o studiare l’esperienza religio-sa da un punto di vista fenomenologico (Stein, Lévinas, Ricoeur, Marion, Henry, Janicaud nella linea Husserl-Heidegger), oppure dedicarsi a ciò che storicamente è stato detto dai grandi pensatori sulla religione. Dio, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere l’oggetto di una storia delle idee: gli intellettuali contemporanei dovrebbero chiaramente vedere che la no-zione di Dio si spiega a partire dalla debolezza psicologica umana o da condizionamenti sociali. Ad essi è concesso avere una cultura religiosa, ma non delle convinzioni religiose organizzate fi losofi camente; viene loro permesso di ricorrere a testi religiosi, ma solo se sono capaci di dare prova di autentico agnosticismo e di considerare le eventuali loro convinzioni

1 Per la bibliografi a completa degli scritti di Pouivet rimando alla sua pagina perso-nale http://poincare.univ-nancy2.fr/Presentation/?contentId=1512.

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religiose un affare strettamente privato2. Dopo vari decenni è però leci-to chiedersi se la fi losofi a della religione non possa tornare ad essere un ambito di indagine prettamente teoretico, il che equivale a chiedersi se il principio dell’illegittimità delle credenze religiose non sia un pregiudizio da abbandonare. Questa questione ha portato alcuni fi losofi francesi ad in-teressarsi della fi losofi a analitica della religione, dove fi losofi teisti quali Swinburne, Plantinga, Alston, Helm, Van Inwagen, Trigg, Haldane, Craig e fi losofi agnostici o addirittura atei quali Smart, Mackie, Kenny, Le Pou-devin, da una trentina di anni dibattono a proposito dell’esistenza di Dio e dei Suoi attributi. Le due tappe fondamentali del confronto francese con la fi losofi a analitica della religione sono stati il convegno intitolato Analisi e teologia. Credenze religiose e razionalità organizzato nel settembre 1998 presso l’Université de Nantes e quello su Le norme della credenza reli-giosa tenuto nell’ottobre 2000 all’Université de Rennes 13. Tali convegni hanno reso palese la differenza tra la fi losofi a della religione francese e quella analitica: quest’ultima si occupa di teologia naturale e considera la questione della legittimità epistemica delle credenze religiose un settore dell’epistemologia degno di essere indagato. In ambito analitico la reli-gione, prima ostracizzata dal verifi cazionismo neopositivista, è stata poi analizzata nelle sue espressioni linguistiche, quindi è stata studiata episte-micamente ed infi ne apprezzata per il contributo che può portare in campo ontologico e metafi sico a proposito della natura stessa della realtà4. A Wit-tgenstein spetta il merito di aver permesso, forse indirettamente addirittura promosso, questo slittamento di indagine5.

2 Cfr. R. Pouivet, Introduction, «Revue de Théologie et de Philosophie», 134 (2002), p. 113 e Id., Épistémologie de la croyance religieuse, in S. Bourgeois-Gironde, B. Gnassounou, R. Pouivet (èd.), Analyse et Théologie. Croyances religieuses et rationalité, Vrin, Paris 2002, pp. 11-2. Sul rapporto tra cultu-ra francese e religione rimando inoltre al discorso tenuto da Benedetto XVI al Collège des Bernardins il 12 settembre 2008, pubblicato sul sito http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2008/september/documents/hf_ben-vi_spe_20080912_parigi-cultura_it.html.

3 Gli atti sono pubblicati rispettivamente in S. Bourgeois-Gironde, B. Gnassounou, R. Pouivet, Analyse et Théologie. Croyances religieuses et rationalité, cit., e in R. Pouivet, B. Gnassounou (èds.), Les normes de la croyance religiouse, «Revue de Théologie et de Philosophie», 134 (2002).

4 Cfr. R. Pouivet, Introduction, «Revue Internationale de Philosophie», 57 (2003), pp. 219-227.

5 Cfr. Id., s.v. Wittgenstein Ludwig, 1889-1951, in J.Y. Lacoste (dir.), Dictionna-rie critique de théologie, Presses Universitaires de France, Paris 2002 (2), pp. 1253-5. Cfr. inoltre J.P. Cometti, Philosopher avec Wittgenstein, PUF, Paris 1996 e Id., La Maison de Wittgenstein, PUF, Paris 1998.

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Pouivet si è interessato a quanto accadde in Polonia negli anni trenta del XX secolo6. I fi losofi Bochenski, Salamucha, Drewnowski e Sobocinski, accolsero le esigenze metodologiche del Circolo di Vienna, ma l’anti-ir-razionalismo, la precisione e il rigore argomentativo, l’evitare confusioni linguistiche e il ruolo della logica, anziché sfociare nel materialismo, si-gnifi carono il recupero della metafi sica pre-kantiana. Si convinsero della possibilità di trattare scientifi camente argomenti, quali natura del reale, l’esistenza di Dio, la libertà e la teodicea, attingendo dai testi di Tommaso. Nacque così il Circolo di Cracovia, il cui progetto era quello di un pensiero cattolico in relazione con la logica moderna. Una volta riusciti a rifor-mulare la logica medievale con i simboli della logica formale moderna, “matematizzarono” le prove dell’esistenza di Dio, la dottrina dell’analogia, spingendosi fi no alla dottrina dell’esse e della partecipazione. Tale sfor-zo fu possibile soffermandosi sulle caratteristiche sintattiche delle opere di Tommaso a scapito di quelle semantiche, ad esempio considerando il verbo essere come un quantifi catore esistenziale, identifi cazione piutto-sto rischiosa e fuorviante. Tale prospettiva è però datata e non ha attirato l’attenzione di Pouivet. Egli predilige porre al centro della sua rifl essione l’aspetto epistemologico: non gli interessa tanto giustifi care una determi-nata verità religiosa (peculiarità della fi losofi a della teologia), quanto mo-strare la razionalità delle credenze religiose7. La sua indagine inizia da una valutazione del fondazionalismo moderno8, il quale ammette la legittimità delle credenze religiose solo in presenza di evidenze, cioè dimostrazioni probanti a partire da verità chiare e distinte. La teologia naturale moderna nasce come risposta a questa esigenza: il credente avrebbe il dovere e la responsabilità morale di detenere le sue convinzioni religiose solo se dotate di uno standard epistemico alto, quale quello richiesto dall’evidenzialismo fondazionalista. Tale standard sarebbe però talmente esigente da risultare pretestuoso e assurdo, irrimediabilmente infi ciato di scetticismo. Questa concezione è frutto dell’identifi cazione cartesiana tra validità e certezza, declinata poi in chiave idealista dai razionalisti e in chiave verifi cazionista dagli empiristi. L’epistemologia cartesiana postula aspetti atomistici, deon-

6 Cfr. R. Pouivet, Le Thomisme analytique, à Cracovie et ailleurs, «Revue Interna-tionale de Philosophie», 57 (2003), pp. 251-270 e Id., Faith, Reason and Logic, in T.L. Smith (ed.), Faith and Reason, St. Augustine’s Press, South Bend 2000.

7 Cfr. R. Pouivet, Épistémologie de la croyance religieuse, in S. Bourgeois-Gi-ronde, B. Gnassounou, R. Pouivet, Analyse et Théologie. Croyances religieuses et rationalité, cit., pp. 11-30.

8 Cfr. R. Pouivet, Théologie naturelle et épistémologie des croyances religieuses, «Revue des Sciences Religieuses», 81 (2007), pp. 156-8.

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tologici, internalisti e privatisti che Wittgenstein ha contestato in maniera cogente a partire dal suo ormai classico argomento contro il linguaggio privato. Il dubbio di Cartesio e la teoria della conoscenza che ne deriva sarebbero una patologia della fi losofi a. Reid, Audi e l’interpretazione di Tommaso da parte di Kretzmann rifi utano l’idea che una proposizione di fede sia l’espressione di una credenza privata: una credenza infatti ha es-senzialmente un carattere disposizionale e non lo statuto ontologico di un oggetto mentale.

Questa predilezione per l’aspetto epistemologico e la propensione verso un’epistemologia esternalista e affi dabilista, hanno portato Pouivet a consi-derare la corrente analitica denominata “epistemologia riformata” e la pro-posta classica di Tommaso9. Egli mette a confronto queste due prospettive alla luce delle seguenti affermazioni:1. la credenza che Dio esiste è una credenza di base che non può essere

inferita da credenze più fondamentali;2. la credenza che Dio esiste è inferita da altre credenze.

Plantinga, esponente di rilievo dell’epistemologia riformata, accetta la 1 e rifi uta la 2, mentre Tommaso accetta la 2, ma non rifi uta la 1. Poui-vet sonda questo rapporto, imputando a Plantinga una troppo frettolosa identifi cazione tra fondazionalismo ed evidenzialismo e ricordando come Tommaso proponga gli argomenti di teologia naturale non per legittimare la fede (dono di Dio), ma pre dare alla teologia dignità di scienza. Al di là del suo contributo specifi co al riguardo, mi interessa sottolineare come Pouivet identifi chi due distinti principi della giustifi cazione razionale: per il primo tutto ciò che non è esplicitamente permesso, è proibito; per il se-condo tutto ciò che non è espressamente proibito, è permesso. Su di essi si basano due paradigmi epistemici alternativi: il primo, tipico della moder-nità e a priori, considera la giustifi cazione una sorta di esame previo delle nostre conoscenze capace di distinguere quelle da trattenere da quelle da rigettare (ciò presuppone che le credenze siano volontarie); il secondo, a posteriori, considera la giustifi cazione un processo successivo al possesso di credenze, la cui cifra epistemica più rilevante non è la giustifi cazione, ma la garanzia, cioè il fatto che siano state acquisite (1) da un funziona-mento corretto della facoltà conoscitive umane, (2) fi nalizzate alla verità e (3) in un ambiente appropriato. In gioco c’è la razionalità delle nostre

9 Cfr. Id., Épistémologie thomiste et épistémologie réfermée, in S. Bourgeois-Gi-ronde, B. Gnassounou, R. Pouivet, Analyse et Théologie. Croyances religieuses et rationalité, cit., pp. 125-141. Su una valutazione critica della tesi di Plantinga cfr. R. Pouivet, Théologie naturelle et épistémologie des croyances religieuses, cit., pp. 161-5 e 167-169.

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credenze, che non deriverebbe da un loro esame preliminare, ma che sa-rebbe garantita dalla loro stessa formazione: la nozione disposizionale di credenza viene qui ulteriormente chiarita e resa immune dai controesempi di Gettier. La nozione di credenza disposizionale come credenza affi da-bile e teleologica10 è suggerita anche, inaspettatamente, da Wittgenstein, soprattutto in Sulla certezza. Il fi losofo austriaco non attribuisce a queste credenze, in parte sovrapponibili alle proposizioni del senso comune, il carattere di indefettibilità o indubitabilità, ma riconosce ad esse la capacità di attribuire sensatezza ai nostri giochi linguistici11. La teologia naturale dunque non dovrebbe mirare a dimostrare in maniera coercitiva ed apo-dittica l’esistenza di Dio, né potrebbe essere il risultato della costruzione di una teoria esplicativa, bensì ha il compito (necessario, considerati i pro-cessi cognitivi umani) di mostrare come la credenza nell’esistenza di Dio intrattenga un rapporto vincolante con altre credenze ritenute vere, anzi ovvie (la principale delle quali è l’intelligibilità del reale, condizione della stessa possibilità del dubbio radicale): quest’ultimo compito coinciderebbe proprio con il progetto tomista delle cinque vie. La proposta tomista di teologia naturale non incorre nelle aporie moderne di questa disciplina e dunque è quanto mai attuale e fruibile per una concezione non fondaziona-lista della teologia naturale12.

La tappa successiva della rifl essione di Pouivet circa le credenze religio-se concerne la loro formazione. Esse sono spesso acquisite nell’infanzia e pertanto da facoltà conoscitive che ancora non hanno raggiunto una con-sapevolezza critica, che non sono ancora state giudicate dal tribunale della ragione. Questa loro caratteristica rende le credenze religiose inaffi dabili? La risposta è negativa: come ha mostrato Thomas Reid, esiste un principio di credulità dotato di un proprio valore epistemico13. Abbandonato il razionali-smo cartesiano e accettata una teoria esternalista e affi dabilista quale quella di Tommaso e di Plantinga, il soggetto conoscente è autorizzato a ritenere vera una credenza acquisita tramite l’autorità di un educatore in cui ripone fi ducia. A maggior ragione il credente che si fi da della rivelazione di Dio e si affi da al Dio che si rivela, affermando almeno implicitamente una serie

10 Cfr. R. Pouivet, Le réalisme esthétique, PUF, Paris 2006, pp. 52-60.11 Cfr. Id., Qu’est-ce que croire?, Vrin, Paris 2006 (2), pp. 108-124.12 Cfr. Id., Théologie naturelle et épistémologie des croyances religieuses, cit., pp.

158-161.13 Cfr. Id., Croyance religieuse, crédulité et vertu, «Revue de Théologie et de Philo-

sophie», 134 (2002), pp. 161-173; Id., L’épistemologie du témoignage et les vertus, «Philosophie», 88 (2005) ; Id., Théologie naturelle et épistémologie des croyances religieuses, cit., pp. 165-7 e Id., Qu’est-ce que croire?, cit., pp. 86-108.

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di verità proposizionali, è autorizzato a farlo: non è a lui che spetta l’onus probandi di dimostrare la sua fi ducia; egli è epistemicamente innocente, in quanto naturalmente e, in un certo senso, passivamente portato ad assentire a quel tipo di credenze, prima fra tutte quella che concerne l’esistenza di Dio. Negare legittimità alle credenze religiose presuppone l’accertamento preliminare della non esistenza di Dio in modo chiaro e distinto. Il deonto-logismo epistemico, la sua pretesa universalista e la sua astrattezza, lasciano il posto ad una conoscenza più umana, cioè personale e situata, nella quale è preponderante la fi ducia nelle proprie facoltà e in quelle degli altri, il che non esclude, anzi implica e valorizza una consapevolezza dei propri limiti e un discernimento critico14. Una credenza ha un carattere irriducibilmente personale (cioè anche morale), chiama in causa la responsabilità di chi la detiene ed è espressione di una motivazione e di un interesse. Dal principio di credulità ad una epistemologia delle virtù il passo è breve:

la fi ducia epistemica è un’attitudine naturale, ma essa ammette dei gradi che sono funzioni delle virtù intellettuali. Tra queste virtù: la saggezza, la prudenza intellettuale, la comprensione, il discernimento, l’amore per la verità, l’onestà intellettuale, la capacità di intuire conseguenze remote, la pazienza dello stu-dio, ecc.15

Ad esse si oppongono i vizi intellettuali quali la follia, la limitatezza di spirito, la volgarità concettuale, la chiusura mentale, l’indifferenza per la verità, la disonestà intellettuale, la curiosità malsana, la precipitazione, ecc.

La garanzia di una credenza riposa pertanto sul carattere virtuoso di chi la afferma; ciò ha almeno cinque importanti conseguenze:

1. viene evitato il rischio di un lassismo epistemico senza regole, per cui avere una credenza coinciderebbe con l’essere legittimati a ritenerla vera: detto altrimenti la teoria delle virtù epistemologiche arricchisce di un imprescin-dibile elemento normativo l’affi dabilismo che, abbandonato a se stesso, ri-schierebbe di adagiarsi sull’aspetto meramente descrittivo e causale;

2. la garanzia di una credenza si dà per gradi;3. una credenza garantita è tale fi nché non ne venga mostrata l’evidenza

contraria (l’onus probandi non spetta a chi possiede una credenza vir-

14 Id., Théologie naturelle et épistémologie des croyances religieuses, cit., pp. 165-7.

15 Id., Croyance religieuse, crédulité et vertu, cit., p. 167 (trad. mia). Cfr. Id., Le réalisme esthétique, cit., pp. 83-91 e 98.

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tuosa, ma a chi la nega), dunque la teoria epistemologica corrispondente ha un carattere fallibilista, coerente con la nostra esperienza personale;

4. l’educazione ricopre un ruolo fondamentale nell’acquisizione di creden-ze e di virtù epistemologiche;

5. le emozioni estetiche hanno un valore cognitivo e pertanto le immagini e le metafore religiose di carattere letterario o iconografi co non possono essere tacciate di superstizione o bigottismo, ma vanno rivalutate; ana-logamente le narrazioni mitiche non possono essere lasciate alla mercè del decostruzionismo razionalista16.

L’autorità umana, l’autorevolezza dei maestri e la tradizione culturale precedono sempre la verità a livello di apprendimento, anche se a livello logico la preminenza spetta alla verità. Questo implica, come ha spesso ribadito Tommaso nelle sue opere, l’importanza di formarsi nelle virtù della prudenza e della docilità, rifuggendo dai vizi dell’orgoglio e della pigrizia, autentici peccati originali della razionalità umana. Più estesamen-te Tommaso presenta una lista di virtù intellettuali, che sono proprio gli abiti dell’intelletto speculativo, quali la scienza, l’intelligenza, la saggezza, il consiglio, il giudizio e la prudenza. Ciascuna di esse va rafforzata con l’esercizio delle virtù cardinali e teologali così da raggiungere l’imparziali-tà, la sobrietà, il coraggio, la pertinenza e il ponderato equilibrio intellettua-li (o epistemici o conoscitivi)17. Solo così il desiderio di verità insito in ogni esistenza autenticamente umana può essere, almeno parzialmente, appaga-to. Il farsi misura di tutte le cose, compresa la volontà di ritenere vere solo le credenze che rispondono a criteri autoreferenziali di certezza soggettiva, e il rifi uto dell’autorità di Dio Creatore sono, non a caso, le interpretazioni che più comunemente i fi losofi hanno dato del racconto biblico sul pecca-to originale di Adamo ed Eva. Pouivet evita l’anacronismo di considerare Tommaso un epistemologo delle virtù ante litteram e riconosce che questa teoria della conoscenza è nata come risposta all’epistemologia della regola (altro nome riservato al fondazionalismo evidenzialista); inoltre egli rico-nosce come questo cambiamento di prospettiva sia radicale:

16 Cfr. Id., On the Cognitive Functioning of Aesthetic Emotions, «The MIT Press», 33 (2000), pp. 49-53; Id., Le réalisme esthétique, cit., pp. 91-8 e Id., Religious Imagination and Virtue Epistemology, in www.arsdisputandi.org/publish/arti-cles/000054/index.html.

17 Cfr. Id., Aquinas on Knowledge and Virtue Epistemology, in http://poincare.univ-nancy2.fr/Presentation/?contentId=1512. In questo articolo Pouivet si confronta con l’nterpretazione di Tommaso della Stump.

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alcune persone potrebbero forse dire che l’”epistemologia delle virtù” non è affatto un’epistemologia, perché non dà gli strumenti per giustifi care le nostre credenze. Non è una tecnologia epistemologica, né un catechismo epistemolo-gico. Essa semplicemente afferma che la comprensione che noi abbiamo è la migliore che gli esseri umani possono avere, sulla basi delle abilità che Dio o l’evoluzione ci hanno dato e che è urgente coltivare le nostre virtù epistemiche. Ciò non ci assicura il raggiungimento della perfezione: la virtù epistemica non è santità epistemica18.

Questa proposta epistemologica richiede una fondazione antropologica. Pouivet fa propria la tesi aristotelico-tomista per cui l’anima umana manife-sta la vita umana, non la sola consapevolezza19. Tale tesi è prettamente anti-cartesiana ed è il fulcro della fi losofi a della mente così come la concepiscono alcuni autori analitici sulla scorta delle intuizioni di Wittgenstein: l’intelletto non si esaurisce nell’auto-coscienza, ma si defi nisce sulla base della sua ca-pacità linguistica, cioè della sua razionalità dialogica e sulla base della sua capacità di intenzionare il reale, cioè nel suo avere per oggetto il mondo degli esistenti così come sono. Di fronte al fallimento del progetto moderno, Poui-vet non si abbandona al relativismo o alla caccia alle streghe condotta dal post-moderno nei confronti delle presunte meta-narrazioni, ma cerca alleati che gli permettano di evitarne le aporie. La matrice cartesiana è più diffusa di quanto si possa presumere. Alcuni pensatori francesi, tra cui Descombes e Bouveresse, non esitano a giudicare la stessa fenomenologia una corrente cartesiana, inutilizzabile per allontanarsi dalla modernità:

[…] come dice Descombes, “la differenza fra un’esperienza (per esempio, vedere Venezia) e un’altra (immaginarla) è la differenza tra il senso della pri-ma e il senso della seconda, proprio perché essa è la differenza tra il senso

18 Id., Aquinas on Knowledge and Virtue Epistemology, cit., p. 9 (trad. mia). Sul rapporto tra questa posizione e la fi losofi a del senso comune, cfr. Id., Le réali-sme esthétique, cit., pp. 37-52 e 63-82. In conclusione a questo volume Pouivet si interroga sulla convenienza di rendere grazie a Dio per le nostre capacità di interagire con il mondo, ipotizzando di fatto una rielaborazione della quinta via tomista, ma, nell’economia del libro si limita a non scoraggiare tale prospettiva: Est-ce une bonne raison de parler, comme Reid, d’un “Sage Auteur de la nature”? La dernière conclusion serait-elle alors qu’il convient de rendre grâce à Dieu ? Dans ce livre, le constat de nos capacités et de nos vertus ne présuppose pas ni n’implique la thèse d’une intention divine dans la nature. Mais il ne fait rien pour la décourager (p. 234).

19 Id., Aristotle and Aquinas on Soul, in http://www2.nd.edu/Departments/Maritain/ti00/pouivet.htm. Cfr. Id., rec. a G. De Anna, Realismo metafi sico e rappresenta-zione mentale. Un’indagine tra Tommaso d’Aquino e Hilary Putnam, Il Poligrafo, Padova 2001, «Dialectica», 58 (2004), pp. 233-7.

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dell’enunciato che esprime l’una e il senso dell’enunciato che esprime l’altra. Ciò equivale a dire che la realtà data non è che l’insieme dei vissuti. È l’insieme dei modi di parlare”. Per questo più che a Husserl, è a Wittgenstein che bisogna prestare attenzione per una fenomenologia dell’intenzionalità –a colui che sotto un certo aspetto“può essere considerato l’anti-Husserl”. Aggiunge Descombes “la descrizione di un atto mentale è la descrizione del linguaggio di tale atto” […] Di conseguenza possiamo considerare cartesiano anche ogni movimento fenomenologico, che è così viziato dalla parentesi internalista. Tutto il progetto della fi losofi a della conoscenza come fi losofi a prima (e in particolare lo studio della percezione come vissuto di una coscienza) è raggiunto nella versione di Cartesio, così come in quella di Husserl, da una lettura retrospettiva di Tomma-so attraverso Wittgenstein20.

Per Wittgenstein e per Tommaso l’intenzionalità e la volontà non sono degli stati mentali, ma delle capacità e delle disposizioni. Pouivet si occupa pertanto di temi tipici della fi losofi a della mente e lo fa avvalendosi del contributo di alcuni fi losofi analitici esperti di Tommaso e di Wittgenstein, quali Geach, Anscombe e Kenny. Benefi ciando dell’ormai cospicua lette-ratura secondaria sul tomismo analitico, Pouivet introduce la nozione di tomismo wittgensteiniano. Nel suo Après Wittgenstein, saint Thomas ne parla come di una corrente capace di riportare l’attenzione della rifl essione fi losofi ca sull’anima (principio dell’attività del vivente), prima ricondotta da Cartesio a mente (sostanza delle capacità tipiche dell’uomo, identifi cate con la consapevolezza) e poi oscurata nella modernità a vantaggio esclu-sivo dell’Io (spiritualismo). Il tomismo wittgensteiniano avrebbe questa potenzialità, in quanto ancorato all’esternismo, tesi secondo la quale l’atti-vità razionale dell’uomo non appartiene all’ordine della rappresentazione, ma all’esercizio del concetto. L’intenzionalità non è una proprietà degli atti di coscienza, ma è relativa alla descrizione dell’attività delle persone: detto altrimenti, le attività conoscitive e volitive dell’uomo si riferiscono ad azioni umane, non ad universi interiori e soggettivi. La fi losofi a della mente di Tommaso ha proprio come prospettiva un’analisi dell’esercizio delle facoltà della mente, non una mera analisi dei contenuti soggettivi del-la coscienza in quanto tali. Nel caso specifi co della conoscenza, questa non dovrebbe interrogarsi su quali siano le sue possibilità, i suoi fondamenti, i suoi limiti, ma su che cosa effettivamente conosca: in quanto realtà natura-

20 Id., Après Wittgenstein, saint Thomas, Presses Universitaires de France, Paris 1997, pp. 64-5 (trad. mia); questo saggio è stato tradotto in inglese da M. Sherwin: After Wittgenstein, saint Thomas, St. Augustine’s Press, South Bend 2006. Tra le varie recensioni a questo testo segnalo quella di Gochet in «Revue Internationale de Philosophie», 57 (2003), pp. 354-6.

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le, spontanea, non si manifesta primariamente nella forma del dubbio. La ferma opposizione di Wittgenstein all’impostazione cartesiana, diventereb-be così propedeutica ad una lettura di Tommaso, la cui speculazione avreb-be il vantaggio di evitare, precedendolo, l’internismo della modernità.

Le considerazioni epistemologiche ed antropologiche fi n qui analizzate ci permettono di comprendere che cosa Pouivet intenda quando, in analo-gia con la morale, parla di un passaggio da una epistemologia basata sulle regole ad una epistemologia basata sulle virtù21. Conoscere non è assogget-tarsi a dei criteri a-priori, ma af-fi darsi alle proprie capacità di rispondere in modo responsabile agli stimoli provenienti dalla realtà.

A questo punto, quale il ruolo della teologia naturale? Un’epistemologia basata sulle virtù la riscatta dal progetto fondazionalista, le evita di limi-tarsi a difendere le credenze religiose di fronte al tribunale della ragione e le permette di salvaguardarne il valore esistenziale, come auspicava Witt-genstein. Pouivet osserva acutamente che l’interpretazione fondazionalista della teologia naturale ha avuto due conseguenze: la pretesa di fondare la credenza nell’esistenza di Dio su proposizioni non religiose e la pretesa di accettare la teologia rivelata solo sulla base della teologia naturale, come se i praeambula fi dei fossero una sorta di premessa necessaria e indipenden-te per la considerazione dei contenuti rivelati22. A differenza di Plantinga, però, Pouivet non considera le credenze religiose credenze di base e dun-que attribuisce alla teologia naturale un compito di assoluta rilevanza:

esiste una differenza tra alcune credenze, identifi cabili con i principi stessi della nostra razionalità e le credenze che non giocano questo ruolo costitutivo della razionalità. Le credenze religiose, per quanto rilevante possa essere la loro importanza esistenziale, appartengono alla seconda categoria. Per questo, il progetto di legittimare la razionalità delle seconde resta fi losofi camente per-tinente, a differenza dello stesso progetto a proposito delle prime. È in questo che la teologia naturale può consistere23.

21 Cfr. R. Pouivet, Moral and Epistemic Virtues : a Thomistic and Analytical Per-spective, in http://poincare.univ-nancy2.fr/Presentation/?contentId=1512, pp. 1-12; è il testo della conference au Colloque Epistemic Agency, Givevra, 25-6 aprile 2008. Pouivet si rifà a Pascal Engel e a Linda Zagzebski, ma oppone quattro argomenti contro l’affermazione di quest’ultima secondo cui l’epistemologia sa-rebbe una branca dell’etica: sono l’argomento dalla differenza tra dovere morale ed epistemico; l’argomento dalla differenza categoriale; l’argomento dalla confu-sione tra ambito teoretico e pratico e l’argomento dal merito morale delle creden-ze non giustifi cate. Cfr. inoltre Id., Le réalisme esthétique, cit., pp. 98-131.

22 Cfr. Id., Théologie naturelle et épistémologie des croyances religieuses, cit., pp. 155-6.23 Ivi, p. 168 (trad. mia).

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Resta assodato che un argomento formale non è mai una ragione per credere qualcosa24: nel linguaggio tomista credere qualcosa implica un oggetto della credenza e una buona ragione per detenerla (consideratio), e contemporane-amente la volontà e il desiderio di accettarla (assentire). Questa distinzione tra ragionevolezza e consenso merita di essere argomentata con quello che Plantinga chiama l’argomento dell’amico intelligente e non credente25. Può una persona comprendere le ragioni del credente e ciò nonostante rimanere agnostico? La risposta è negativa sia per chi sostiene una teologia naturale di matrice fondazionalista, sia per chi discredita la teologia naturale. Nel primo caso, infatti, la comprensione dovrebbe essere necessariamente accompagnata da un assenso coartato e convinto; nel secondo gli argomenti del credente non possono mostrare ragionevolezza alcuna e neppure possono essere compresi a livello intellettuale. Dal punto di vista di Pouivet invece le ragioni del credente possono essere comprese in quanto razionali, ma non risultare convincenti: ciò è possibile perché nessun argomento fi losofi co è coercitivo. La sola logica non dice nulla circa i motivi che abbiamo per credere nella verità di una pro-posizione26: anzi, le stesse ferre regole della logica devono essere credute e di solito lo sono perché le consideriamo gli strumenti propri del nostro pensiero (hardwired)27. Come aveva osservato Wittgenstein nel Tractatus, il mondo e il pensiero condividono la medesima forma logica.

La teologia naturale è dunque necessaria a comprendere a fondo le cre-denze religiose, ma è contemporaneamente di ausilio all’assenso dato ad esse28, le integra, le sostiene, le corrobora. In questo senso è in stretta re-lazione con il progetto dell’epistemologia delle virtù: in entrambi i casi si tratta di sottolineare l’originaria armonia e intelligibilità tra il mondo e l’uomo mediata dalle pratiche doxastiche di una comunità. Così Pouivet:

uno studio logico delle prove tradizionali [circa l’esistenza di Dio] è sicura-mente una cosa positiva. Ma questo studio non può essere del tutto disinteres-sato da un approccio più ampio che includa la questione della fede e delle sue relazioni con la ragione. La razionalità della credenza è oggetto dell’epistemo-logia, ma il suo trattamento deve includere una fi losofi a della spiritualità uma-na; non è un oggetto che possa essere trattato da mezzi puramente logici29.

24 Cfr. Id., Faith, Reason and Logic, cit. e Id., Théologie naturelle et épistémologie des croyances religieuses, cit., pp. 169-171.

25 Cfr. Id., Théologie naturelle et épistémologie des croyances religieuses, cit., pp. 169-170.

26 Cfr. Ivi, p. 170 dove Pouivet rimanda alla rifl essione di Pascal Engel.27 Cfr. Ivi, pp. 171-2 dove si richiamano Reid e Van Inwagen.28 Cfr. Ivi, pp. 172-3.29 Id., Faith, Reason and Logic, cit., p. 4 (trad. mia).

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Con la dizione fi losofi a della spiritualità umana si intende anzitutto la fi losofi a della mente e l’antropologia metafi sica30, senza però escludere il contributo della rivelazione dopo che la fi losofi a ne abbia mostrato l’accet-tabilità o, almeno, non ne abbia dimostrato l’inaccettabilità. Con disincan-tata modestia così termina Pouivet:

la mia conclusione non ha nulla di originale: le nostre credenze nell’esi-stenza di Dio non saranno mai costrette da un argomento. Nessun argomento ci obbligherà mai a credere nell’esistenza di Dio. Ma questo non ha nulla a che vedere con la debolezza dell’argomento. Quello che interessa è la natura della credenza e la sua formazione. Le nostre credenze non sono il risultato di uno sforzo di volontà. Ciò non implica assolutamente che le nostre credenze siano irrazionali. Da una parte noi possiamo avere degli argomenti in loro favore, anche se noi stessi non ci siamo formati tali credenze su tali argomenti. Inoltre gli argomenti a loro contrari non implicano sempre l’obbligo di rinunciarci, a meno che non vietino totalmente l’adesione ad esse31.

Avendo restituito valore di legittimità alle proposizioni della teologia naturale, e avendo riconosciuto ad esse quel valore cognitivo di cui Kant le aveva private, Pouivet si schiera a favore del realismo epistemico, ma ciò lo porta a prendere posizione anche circa il realismo ontologico32: le credenze religiose garantite sono anche vere, cioè parlano di una realtà che esiste indipendentemente dei nostri schemi concettuali? Le asserzioni del Credo o la preghiera del Padre nostro, ad esempio, descrivono almeno allu-sivamente degli stati di cose oppure si limitano a prescrivere delle condotte di vita o a suggerire un modo di vedere il mondo? La risposta suppone un confronto con la posizione di Wittgenstein. Suoi autorevoli interpreti, da Malcolm a Phillips ai fi deisti wittgensteniani, ritengono infatti che il carat-tere disposizionale delle credenze implichi un atteggiamento antirealista per il quale sono rilevanti solo gli atteggiamenti e le pratiche religiose, non la loro verità. Pouivet argomenta la non cogenza di tale implicazione33 par-tendo da una attenta esegesi di due nozioni tipicamente wittgensteiniane:

1. la credenza religiosa è una forma di vita, cioè consiste in una pratica ed ha una rilevanza esistenziale;

30 Kenny non esita a parlare di metaphysics of mind. 31 Cfr. R. Pouivet, Théologie naturelle et épistémologie des croyances religieuses,

cit., p. 172 (trad. mia).32 Cfr. Id., Le réalisme esthétique, cit., pp. 11-35.33 Cfr. Id., Wittgenstein et les croyances religieuses, «Revue d’Histoire et de Philo-

sophie Religieuses», 86 (2006), pp. 357-375.

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2. la teologia (analogamente alla matematica) è una grammatica, cioè un linguaggio capace di organizzare le nostre disposizioni e non un qualco-sa che descrive degli stati di cose.

La pratica religiosa però non esclude, anzi implica delle verità propo-sizionali; inoltre la forma di vita ha una valenza sociale, ma soprattutto antropologica, il che esclude l’incommensurabilità tra la posizione del cre-dente e quella del non credente, sebbene il dialogo tra i due sia alquanto diffi cile in quanto l’esperienza religiosa che fonda la credenza ha un ca-rattere più emotivo che percettivo. Per ribadire l’importanza della teolo-gia naturale, Pouivet propone l’analogia tra credere nell’esistenza di Dio e credere nell’esistenza di un mondo esterno: entrambe non sono giustifi -cabili, cioè non sono riducibili ad altre credenze, né qualcuno può essere coartato a ritenerle vere; ciò però non signifi ca rinunciare a mostrarne la ragionevolezza, incrementarne la comprensione e la rilevanza, chiarirne le implicazioni e la coerenza e a rispondere a chi le metta in dubbio, nel solco del motto agostiniano fi des quaerens intellectum.

Avviandomi verso la conclusione ritengo opportuno segnalare gli argo-menti principali trattati da Pouivet nella sua vasta rifl essione sull’estetica34. Un sintetico elenco è suffi ciente a mostrare come essi ricalchino alcuni temi analizzati nella fi losofi a della religione:- importanza del contributo della fi losofi a angloamericana, non per este-

rofi lia, ma per garantire il pluralismo fi losofi co in nome di un sano spi-rito teoretico;

34 Cfr. J.P. Cometti, J. Morizot, R. Pouivet, Le sfi de dell’estetica. Momenti e pro-blemi della contemporaneità, Utet, Torino 2002 (ed. or. Questions d’esthétique, PUF, Paris 2000). L’accostamento tra temi religiosi e quelli estetici si trova anche nell’epistemologo riformato Nicholas Wolterstorff che si è occupato tanto di ques-tioni di epistemologia della religione, quanto di questioni estetiche in chiave onto-logica e di questioni di ermeneutica testuale : cfr. N. Wolterstorff, On Universals : an Essay in Ontology, The University of Chicago Press, Chicago 1970; Id., Works and Worlds of Art, Oxford University Press, Oxford 1980; Id., Reason within the Bounds of Religion, Eerdmans, Grand Rapids 1984 (2); Id., The Migration of the Theistic Arguments: From Natural Theology to Evidentialist Apologetics, in R. Audi, W.J. Wainwright (eds.), Rationality, Religious Belief & MoralCommint-ment, Cornell University Press, Ithaca 1986, pp. 38-81; Id., Divine Discourse: Philosophical Refl ections on the Claim that God Speaks, Cambridge University Press, Cambridge 1995; Id., John Locke and the Etichs of Belief, Cambridge Uni-versity Press, Cambridge 1996 e Id., Resurrecting the Author, «Midwest Studies in Philosophy», 27 (2003), pp. 4-24.

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- riabilitazione della prospettiva antropologica a partire da temi soggetti-vistici (Schaeffer e Genette) o pragmatistici (Goodman);

- valore conoscitivo delle emozioni estetiche35;- analisi del rapporto tra concetti e segni naturali e, in particolare, tra rap-

presentazione e somiglianza pittorica36;- questioni di ontologia in estetica (intenzionalità, identità, proprietà, uso, so-

pravvenienza) a partire dalla considerazione che gli oggetti di cui si occupa l’estetica sono un terreno privilegiato per l’ontologia, in quanto l’estetica, essendo “artefatta”, vive di proprietà relazionali ed intenzionali37 irriducibili alla riproduzione da parte dell’artista di un suo disegno mentale privato;

- le questioni ontologiche non vanno trattate in maniera essenzialista: come ha insegnato Goodman la domanda slitta da “che cos’è l’arte?” a “quando c’è arte?”;

- distinzione tra un’estetica delle norme e un’estetica delle virtù38;- analisi su realismo ed anti-realismo in estetica39;- attenzione alle sollecitazioni di Wittgenstein, la cui nozione di “gioco

linguistico” è usata per la “defi nizione” dell’opera d’arte, per valorizza-re gli aspetti antropologici e per sottolineare come un gioco linguistico sia comprensibile solo nella totalità degli altri nostri giochi linguistici in quanto ciò che appartiene a un gioco linguistico è un’intera cultura.

35 Cfr. R. Pouivet, Esthétique et logique, Margada, Liège 1996 e Id., Compétence, survenance et émotion esthétique, «Revue internationale de philosophie», 1996, pp. 635-649 e Id., Le réalisme esthétique, cit., pp. 185-9. A partire dalla nota affer-mazione di Goodman per cui le emozioni funzionano cognitivamente, Pouivet ha analizzato, ad esempio, le opere di danza contemporanea le quali offrirebbero una prospettiva che avrebbe ripercussioni ontologiche (analisi di proprietà spaziali e modi di esistenza delle cose intorno a noi) e di fi losofi a della mente (quale ruolo giocano le emozioni nella percezione della realtà che ci circonda?).

36 Cfr. Id., Plaidoyer pour les signes, «Les Cahiers du Musée national d’art mo-derne», 38 (1991).

37 Cfr. Id., L’ontologie de l’œuvre d’art, Chambon, Nîmes 2000 ; Id., L’ontologie du faux, in www.interdisciplines.org/artcognition/papers/2; Id., Frank Sibley, Peter Geach et les adjectifs esthétiques, in «Revue Francophone d’estétique», 1 (2003), pp. 101-110 e Id., Le statut ontologique des œuvres musicales, «Nordic Journal of Philosophy», 3 (2002).

38 Cfr. Id., Normes et vertus esthétiques, «Cahiers de Philosophie de l’Universtité de Caen», 37 (2001), pp. 405-417 e Id., Le réalisme esthétique, cit., pp. 179-184.

39 Cfr. Id., Le réalisme esthétique, cit., pp. 133-178; Id., Réalisme et anti réalisme dans l’attribution des proprietés esthétiques, in R. Piétra, Des Goûts et des cou-leurs, Actes du colloque international tenu à Grenoble les 16, 17 et 18 septembre 1997, Groupe de Richerches Pilosophies, Language et Cognition, Grenoble 1998 e Id., Manières d’être, in V. Carraud, S.Chauvier (éds.), Le réalisme des univer-saux, Presses Universitaires de Caen, Caen 2002.

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Il lavoro di Pouivet non si presenta solo una lodevole operazione cul-turale con lo scopo di far conoscere in Francia la fi losofi a analitica della religione; i suoi testi non vanno annoverati tra la letteratura secondaria: il suo contributo è originale e determinante nel dibattito in corso. Tra i pregi della sua posizione di studioso francese della fi losofi a analitica vi è quello di evitare le alternative concettuali in cui la fi losofi a anglo-americana è tal-volta ingabbiata. Ciò è emblematico in tre casi: alla scelta tra l’internismo individualista e l’esternismo meramente causale egli preferisce riferirsi alla nozione di comunità di persone40. Analogamente Pouivet evita di schierarsi con un progetto di naturalizzazione o con il suo contrario, osservando che la natura a cui egli fa riferimento non ha connotazioni materialiste, bensì è la natura umana con tutto ciò che la caratterizza41. Infi ne egli distingue il rigore dal mero formalismo logico, garantendo alla fi losofi a analitica un approccio adeguato a molteplici questioni fi losofi che42.

Nel corso del presente studio sono emersi i contributi puntuali di Poui-vet al dibattito in corso e all’interpretazione dei singoli autori. Di estrema importanza la proposta di declinare la teoria epistemologica dell’affi dabili-smo nei termini di una epistemologia delle virtù irriducibile ad una branca dell’etica e pertanto in alternativa ai progetti degli epistemologi riformati e a quello della Zagzebski. Ciascuno di tali contributi potrebbe essere og-getto di discussione; i nodi più problematici che mi permetto di rilevare concernono la tesi circa il rifi uto netto da parte di Plantinga della teologia naturale; la questione dell’anti-realismo religioso di Wittgenstein e il ruolo attribuito alla nozione di sopravvenienza.

Concludendo vorrei segnalare le due tesi più ampie del pensiero di Poui-vet, fruibili in vari ambiti. La prima tesi è storiografi ca e si basa sulla propo-sta del principio di ricorsività in base al quale non possiamo comprendere un fi losofo se non riscopriamo il suo pensiero per noi, se non quando questa riscoperta ci può aiutare a dare una forma adeguata ai nostri pensieri43. Tale principio diventa una chiave ermeneutica per studiare i fi losofi del passato e per approfondire degli inediti fi loni di ricerca accostando autori in modo non consueto; come abbiamo visto Pouivet contrappone alla linea Agostino-Cartesio-Locke-Hume-fi losofi a dei Lumi-Kant-idealismo-fenomenologia, la linea Aristotele-Tommaso-Reid-Wittgenstein per quanto riguarda l’epi-

40 Cfr. R. Pouivet, Qu’est-ce que croire?, cit., pp. 38-40.41 Cfr. Ivi, pp. 35-7 e Id., Le réalisme esthétique, cit., pp. 85-6.42 Cfr. Id., Faith, Reason and Logic, cit., p. 3.43 Id., Aquinas on Knowledge and Virtue Epistemology, cit., p. 1. Cfr. Id., Philoso-

phie contemporaine, PUF, Paris 2008.

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stemologia, la fi losofi a della mente e l’antropologia, mentre contrappone la linea Platone-Agostino-Tommaso-Newman alla linea Tertulliano-Kierkega-ard-Wittgenstein per quanto riguarda il rapporto fede-ragione.

La seconda tesi è più teoretica e si presenta come il tentativo di superare le aporie della modernità, senza cedere alle lusinghe del post-moderno. Nel ristretto ambito della fi losofi a della religione, abbiamo visto come Pouivet inizi la sua speculazione da una valutazione epistemologica, per poi proporre una teoria della conoscenza basata sulla virtù con inevitabili ricadute antropologiche. Evitando le secche del fi deismo, ha ampliato la nozione di razionalità, spostando infi ne l’attenzione dal dibattito tra teisti ed ateisti a quello tra realisti ed anti-realisti. Si tratta di non abbandonare la razionalità, ma di ripensarla con categorie che le impediscano di scade-re nel razionalismo. Ciò implica rispondere all’interrogativo: da che cosa dipende la mutazione delle forme dialettica della modernità? Una volta appurato che lo snodo centrale sia quello della teoria della conoscenza, si tratta di ripensarla radicalmente e di ripercorrere pazientemente a ritroso la via sulla quale si trovano, frammentate, le diverse discipline fi losofi che. Ripensare l’epistemologia signifi ca rifl ettere sulla fi losofi a della mente e sull’antropologia fi losofi ca; fare ciò implica valorizzare le tesi del realismo ontologico e del realismo epistemologico fruibili nei vari settori fi losofi ci, quali la fi losofi a della religione, l’estetica, l’etica. In questo senso quella di Pouivet non è una semplice tesi, ma una provocazione intellettuale, una sfi da e un’opportunità.*44

* Ringrazio il prof. Pouivet per la disponibilità a fornirmi materiale e commenti utili alla stesura del presente articolo.

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LUISELLA BATTAGLIA

SIMONE DE BEAUVOIR:LA PASSIONE DELLA LIBERTÀ

La donna libera sta nascendo solo oraSimone de Beauvoir, Il secondo sesso

Sono passati più di 60 anni dalla pubblicazione de Il secondo sesso (1949), un libro che appartiene alle donne (e non solo) come analisi, come provo-cazione, come cruciale testimonianza storica. Testo scandaloso, destinato a suscitare fi n dal suo apparire le reazioni più indignate da destra come da sini-stra, criticato da François Mauriac come da Albert Camus, messo all’indice dei libri proibiti, può considerarsi una delle opere principali della saggistica del Novecento per l’ampiezza della visione e la portata teorica, fi losofi ca ed etica. Insieme ad Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf è probabilmente il libro che ha esercitato il maggior impatto sull’elaborazione di teorie e pra-tiche dei movimenti delle donne nella seconda metà dello scorso secolo.

Quale eredità lascia al femminismo contemporaneo? L’opera della de Beauvoir – che spazia dalla sessualità alla maternità, dalla famiglia al lavoro salariato, dall’alienazione alla compromissione della donna nella propria liberazione – può collocarsi senz’altro nell’alveo del cosiddetto femminismo ‘umanistico’ al cui centro è il valore guida dell’eguaglianza, secondo la tradizione emancipazionistica più classica. Una tradizione che nega l’esistenza di una ‘natura’ femminile intesa come un’identità diffe-rente: la donna è l’eguale dell’uomo, è una persona razionale, ha valore di fi ne, non di mezzo – è la tesi centrale della Vindication of Rights of Women (1792) di Mary Wollstonecraft – e deve pertanto godere dei diritti pieni della cittadinanza, da cui è stata arbitrariamente esclusa. Sarà Olimpia de Gouges a chiedere – in polemica con Rousseau che vagheggia un ideale femminile esemplato dalla docile Sophie, contraltare di Emile – l’esten-sione alle donne della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamata dalla Rivoluzione francese. Nel 1869 ne La servitù della donna John Stuart Mill affermerà con assoluta nettezza che ciò che si defi nisce ‘natura’ femminile è in realtà un prodotto culturale, il frutto di un costume e di un’educazione che ha mirato nei secoli a plasmare il carattere delle donne, deprimendone forzatamente taluni tratti, come l’intraprendenza e l’ambizione, per esaltarne invece altri, come la docilità e l’abnegazione. La de Beauvoir porta in certo modo a compimento la linea di pensiero pro-

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pria dell’emancipazionismo liberale attingendo a fonti letterarie, storiche, antropologiche, fi losofi che per la sua opera di decostruzione di un mito, l’eterno femminino, equivalente, per molti aspetti, a suo avviso, all’anima negra e al carattere ebraico. Lungi dal designare una differenza radicale e naturale, l’essenza della femminilità non sarebbe che un mito che traduce l’angoscia degli uomini dinanzi all’ambiguità dell’esistente e la loro volon-tà di confi nare la donna in un mondo chiuso e diverso, identifi candola con l’inessenziale e il non essere. «La donna – scrive – si determina e si diffe-renzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei: è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro»1.

Qual è dunque l’umanità della donna? Da un lato appare quasi sovra-umana in talune idealizzazioni – si pensi a Jules Michelet che la pone su un altare, come una dea destinata a celebrare i sacri misteri della natura o a Au-guste Comte che la esalta come il “sesso affettivo”, apportatrice d’amore per l’intera umanità; dall’altro si direbbe quasi sub-umana nella sua vicinanza al mondo naturale e animale, non pienamente razionale, comunque destinata ad essere guidata da un ‘autorità maschile – paterna, fraterna, maritale -: sexus sequior, appunto, come nella classica visione misogina di Aristotele e Tom-maso d’Aquino. Mai comunque solo umana, mai chiamata a condividere con l’uomo i diritti e le responsabilità della politica e della storia.

Da qui prende le mosse l’analisi della de Beauvoir che trova il suo rife-rimento teorico, oltre che nella dialettica hegeliana e marxiana, nella fi loso-fi a esistenzialistica al cui centro è il tema della ‘trascendenza’. Si tratta di una sintesi che presenta indubbi aspetti di originalità. Dalla fi losofi a hege-liana deriva la dialettica servo/padrone che sottolinea la natura relazionale del processo di riconoscimento per cui è l’esistenza dell’altro che consente a ogni uomo di ‘riconoscersi’, emergendo dall’immanenza e realizzandosi come trascendenza. La de Beauvoir osserva che la donna è stata storicamente esclusa da tale processo secondo cui si oppongono dialetticamente, e dunque si ‘riconoscono’ reciprocamente come esseri umani dotati di autocoscienza, sia il padrone che si oppone al servo da lui sfruttato, sia il servo che rivol-tandosi gli si contrappone. Questo spiega, a suo avviso, la natura diversa dell’oppressione femminile: la donna rappresenta il totalmente Altro e, per liberarsi, deve entrare nella dialettica servo/padrone, e quindi partecipare al processo produttivo lottando per il suo riconoscimento. La donna infatti è stata estromessa dalla storia perché inchiodata al suo ruolo biologico che la vincola alla riproduzione, escludendola dalla produzione: il concetto marxia-

1 S.de Beauvoir, Il secondo sesso, tr.it. di R. Cantini e M. Andreose, Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 16.

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no di lavoro produttivo, inteso come attività per defi nizione extra familiare, è utilizzato pertanto dalla de Beauvoir per indicare la possibilità per la donna di uscire dall’immanenza e compiere la propria trascendenza. Infi ne, il riferi-mento alla fi losofi a esistenzialistica di matrice sartriana le consente di sotto-lineare l’esigenza etica primaria di affermarsi come soggetto, resistendo alla tentazione di fuggire la propria libertà e di evitare l’angoscia di un’esistenza autenticamente vissuta. Ne discende il costante appello alla responsabilità e all’impegno di creare se stessa attraverso atti e scelte di valore che defi nisca-no la propria irriducibile essenza individuale.

In questo quadro si colloca la ‘questione femminile’. Pur essendo come ogni individuo una libertà autonoma, la donna si scopre in una società in cui le viene imposta la parte dell’Altro. Il dramma della sua condizione consi-ste nel confl itto tra la rivendicazione fondamentale di ogni soggetto che si pone sempre come essenziale e le esigenze di una situazione che fa di lei un’inessenziale. Come potrà dunque rivendicare la sua piena umanità? Solo a condizione che accetti il rischio potrà profi larsi per lei una possibilità di conversione: anziché arrestarsi atterrita alle soglie della realtà dovrà rispon-dere alla sfi da del mondo e “fare nell’angoscia e nell’orgoglio il noviziato della sua trascendenza”. Anziché vegetare nell’immanenza, la donna dovrà accedere alla trascendenza oltrepassando il dato della sua condizione natu-rale e assumendo la libertà e la responsabilità delle sue scelte. Ma – avverte la de Beauvoir – è un cammino tutt’altro che agevole: se la borghesia con-servatrice seguita a vedere nell’emancipazione della donna un pericolo che minaccia la sua morale e i suoi interessi, uno dei benefi ci che l’oppressione assicura agli oppressori è che il più umile di loro si sente superiore e così il maschio più mediocre di fronte alle donne si sente un semi-dio.

Il mito della femmina è caro a tutti per molte ragioni: la donna stessa spesso si compiace nella parte dell’Altro, assecondando quella tendenza di ‘fuga dalla libertà’ che è inerente alla natura umana, e l’uomo trova in lei, mediante svariati privilegi e compensazioni, una complicità profonda. D’altra parte, nella costruzione di situazioni di inautenticità per le donne, gli uomini hanno creato senza accorgersene le condizioni per la loro stessa illibertà: secondo la sua analisi, avrebbero infatti cercato di sfuggire alle domande sull’esistenza attraverso l’oppressione delle donne, senza doversi assoggettare alle domande di un’altra libertà.

“Donna non si nasce, si diventa”. La celebre frase con cui si apre la seconda parte del saggio e ne sintetizza, con una formula destinata a diven-tare popolare, la tematica di fondo, prefi gura con largo anticipo il concetto di genere e la nozione della costruzione sociale dei sessi. La cosiddetta femminilità non è un dato di natura ma un prodotto della storia e della

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civiltà e, come tale, non appartiene alla sfera dei ‘progetti’ dell’individuo ma alla ‘situazione’ con cui si trova suo malgrado a fare i conti e che è chiamato a trascendere.

La credenza nella piena umanità della donna e nel suo diritto a defi nire se stessa – al centro del femminismo ‘umanistico’ – è parsa tuttavia alle odierne esponenti del ‘femminismo differenzialista’ una visione legata ad un modello di emancipazione omologante, prettamente maschile. Numero-se sono le critiche rivolte al Secondo sesso dalle teoriche del pensiero della differenza. La de Beauvoir, in sostanza, additerebbe alle donne un ideale di persona umana di tipo universalistico e di ascendenza kantiana, senza av-vedersi che si tratta di un universalismo fi ttizio di cui resta celata la natura sessuata e androcentrica. «In modo quasi perverso – scrive, ad esempio, Mary Evans – non argomenta a favore di un separatismo femminile; al contrario, consiglia alle donne di diventare piuttosto uomini: di assumere le caratteristiche – di razionalità, di autonomia e indipendenza personale – che presume essere tipiche degli uomini»2.

Ciò spiegherebbe la sua sottostima delle tradizionali attività di cura delle donne e soprattutto la sua svalutazione della procreazione, ritenuta ‘funzione’ meramente naturale. Com’è noto nella maternità e, soprattutto, nella mistica che l’accompagna, la fi losofa francese ravvisa una delle cause principali della dipendenza della donna, la cui ‘disgrazia’ è di essere desti-nata a riprodurre la vita.

La maternità e l’etica della cura

Nel femminismo degli anni Settanta, sulla scia della lezione di Simo-ne de Beauvoir, la maternità è vista come pesante fardello, come desti-no biologico da cui emanciparsi. Nelle nuove tecnologie (e in particolare nell’utero artifi ciale) si ravvisa la possibilità di un riscatto dalla “tirannia della riproduzione”. È soprattutto Shulamite Firestone ne La dialettica dei sessi3 – l’opera più radicale del femminismo americano – a elaborare la te-oria per cui lo sviluppo delle tecnologie riproduttive ha un valore liberante per le donne, le quali “biologicamente distinte dagli uomini, sono cultu-

2 M.Evans, Simone de Beauvoir: Dilemmas of a Feminist Radical in D. Spender, ed, Feminist Theorists. Three Centuries of Women’s Intellectual Traditions, The Women’s Press, London 1983, pp. 355-356.

3 S. Firestone, La dialettica dei sessi, a cura di Lucia Personeni, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1971. Il libro è signifi cativamente dedicato a “Simone de Beauvoir che sopporta”.

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ralmente distinte dagli umani”. La grande speranza – l’utopia – è che la scienza e la tecnologia riescano a modifi care quella natura che ha prodotto l’ineguaglianza fondamentale: metà della specie umana è destinata a parto-rire e ad allevare bambini affi nché l’altra metà possa dedicarsi liberamente agli “affari del mondo”. Si tratta dunque di stabilire un equilibrio artifi ciale al posto di quello naturale, considerato ingiusto, per realizzare il fi ne ori-ginario della scienza empirica: il completo dominio sulla natura. Dominare la natura – in questa prospettiva – signifi ca realizzare la giustizia; occorre liberare l’umanità dalla tirannia della biologia.

Il fi ne ultimo della rivoluzione femminista è una società senza sessi (cioè in cui si sia eliminata ogni distinzione tra i ruoli sessuali), così come il fi ne ultimo della rivoluzione socialista è una società senza classi. Programma eversivo, dunque, giacché liberare le donne dalla loro biologia signifi ca at-taccare l’unità sociale che è organizzata attorno alla riproduzione biologica e alla soggezione femminile.

In questa rivendicazione la de Beauvoir era innegabilmente in anticipo sulla sua epoca. Malgrado lo scandalo suscitato dalla sua comparsa, non si può sottovalutare l’impatto esercitato da Il secondo sesso in Francia sulla nascita dei movimenti femministi e, negli Stati Uniti, l’infl uenza su studio-se come Betty Friedan e Kate Millett, le quali hanno tratto spunti conside-revoli, nell’impianto generale delle loro opere, dalla lettura di quel testo4.

Col sorgere del pensiero della differenza e il prevalere nel femminismo della dimensione culturale su quella ideologica, si privilegiano, nel frat-tempo, i temi relativi al corpo, alla sessualità, alla fi siologia, riguardati come specifi ci delle donne. Adrienne Rich, in Nato di donna5 distingue tra maternità come istituzione, controllata dalla società patriarcale e fonte di oppressione, e maternità come esperienza originaria, forza unifi catrice del movimento femminista. Studiose di psicanalisi e di psicologia sociale – la più celebre è Carol Gilligan col suo libro Con voce di donna 6 – rifl ettono

4 B. Friedan, La mistica della femminilità, tr.it., Comunità, Milano,1970. K. Mil-lett, La politica del sesso, tr.it., Rizzoli, Milano, 1971. Occorre tuttavia segnalare che entrambe non riconoscono esplicitamente il loro debito nei confronti de Il secondo sesso, a differenza della Firestone che non nasconde la sua ammirazione per de Beauvoir, da lei defi nita “la più profonda tra tutte le teoriche femministe e quella che va più lontano, collegando il femminismo con le idee più profonde della nostra cultura”. La dialettica dei sessi, cit., p. 21.

5 A. Rich, Nato di donna, tr. di M. T. Marenco, Milano, Garzanti 1977; E. Badinter, The Myth of Motherhood. An Historical View of the Maternal Instinct, London, Souvenir Press 1981; A. Daly, Inventing Motherhood. The Consequences of an Ideal, Boston, Beacon Press, 1978.

6 C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, tr. it., Fel-

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sul “pensiero materno”, esaminando le capacita e le attitudini che l’esser madre avrebbe sviluppato nella donna. La sensibilità per i bisogni altrui, la disponibilità a prendersi cura del prossimo, la capacità empatica di mettersi al suo posto, indurrebbero le donne a prestare ascolto a voci diverse dalle loro, laddove gli uomini tenderebbero a vedere se stessi in separazione e in opposizione agli altri, stabilendo regole produttrici di diritti e di doveri. L’etica della cura – funzione a un tempo della biologia e del destino storico femminile – contrapposta all’etica maschile dei diritti diviene il nucleo di una morale della responsabilità più adeguata – si afferma – ai bisogni della società in cui viviamo.

Da qui una rivalutazione del ruolo e del signifi cato della maternità, considerata come valore primario da affermarsi nei confronti della cultura patriarcale e fonte potenziale di potere per le donne. Emerge il concetto di “coscienza riproduttiva”, che fa leva sul sentimento e l’esperienza di-retta di partecipazione al processo del “dar la vita”, da cui gli uomini sono esclusi. La coscienza riproduttiva, intesa come ciò che unisce e accomuna tutte le donne, madri o no, si fonda sul riconoscimento dell’essenzialità del ruolo femminile nella “continuità di vita”. Profondi sono dunque i richiami alla psicologia, alla biologia, alla cosiddetta “natura” femminile. Gli uomi-ni – secondo tale visione – avrebbero un rapporto discontinuo col processo riproduttivo che si sviluppa al di fuori del loro corpo e del loro controllo. Da qui un’invidia del potere di generare, proprio delle donne, e il desiderio di dominarle e di espropriarle di tale potere.

Se nel capitolo sulla biologia, nel Secondo sesso, la de Beauvoir scrive-va che la donna «deve scegliere tra l’affermarsi come trascendenza e l’alie-narsi come oggetto», giacché il suo asservimento poggiava su fondamenti biologici, nel femminismo contemporaneo vi è un’esplicita teorizzazione della biologia come risorsa, non più come destino. Il privilegiamento di temi relativi alla corporeità, alla sessualità, alla biologia – ritenuti speci-fi ci delle donne – ha fi nito col localizzarsi intorno all’individuazione di un’etica femminile, alternativa rispetto a quella vigente. Su questa linea hanno assunto un rilievo crescente, nel discorso femminista, le immagini e le metafore legate alla maternità, considerata come un valore primario

trinelli, Milano, 1982. Sul pensiero materno si veda, in particolare, S. Ruddick, Maternal Thinking, “Feminist Studies” 6, 1980, pp. 342-367; e N. Chodorow, The Reproduction of,,Mothering, Psychoanalysis and Sociology of Gender, Berkeley, University of California Press 1978. Sulla “coscienza riproduttiva” v. M. O’Brien, The Politics of Reproduction, Boston, Routledge & Kegan Paul, 1981.Sull’etica della cura e le sue implicazioni sul piano fi losofi co rinvio a L. Battaglia, Bioetica senza dogmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.

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da affermare nei confronti della cultura patriarcale, e fonte potenziale di potere per le donne.

Tale concezione poggia – come si è rilevato – su un’esplicita revisione delle teorie della de Beauvoir la quale, col suo rifi uto della maternità, in-tendeva additare la via dell’emancipazione. La disgrazia delle donne – è una delle tesi fondamentali del Secondo sesso – è che esse sono biologi-camente destinate a riprodurre la vita. «Il generare, l’allattare non sono attività, sono funzioni naturali in cui non è impegnato alcun fi ne essenziale: perciò la donna non vi trova motivo per un’orgogliosa affermazione della sua esistenza; subisce passivamente un destino biologico» 7. Se la de Be-auvoir scriveva: «la futura madre è pianta e bestia […] è un essere umano, coscienza e libertà, che è diventato uno strumento passivo della vita», a tale visione ora si obietta che la riproduzione umana è sempre diversa da quella delle piante e degli animali, perché è suscettibile delle interpretazio-ni di una coscienza razionale. La biologia, in tal senso, determina che siano soltanto le donne a generare fi gli, ma ciò che le donne fanno di quest’espe-rienza non può essere determinato biologicamente.

Ma ciò che più conta, la riproduzione, svalutata dalla de Beauvoir come funzione meramente naturale, viene rivalutata come lavoro. Secondo Mary O’Brien la condizione della liberazione per la donna sta in una adeguata comprensione del processo riproduttivo e, più particolarmente, nella presa di coscienza della contraddizione tra la natura di tale «lavoro» e le misti-fi cazioni ideologiche maschili su di esso8 . Si tratta, quindi, di distinguere tra la maternità come istituzione, controllata dalla società patriarcale e fonte di oppressione, e la maternità come esperienza originaria, forza unifi catri-ce del movimento femminista. La coscienza riproduttiva femminile sorge da un lavoro che conferma, ad avviso della O’Brien, la coerenza genetica e la continuità di specie, in contrasto con la coscienza riproduttiva maschile, che è spezzata e discontinua. Questa diversa coscienza riproduttiva sarebbe all’origine della relazione di ostilità maschile nei confronti sia della donna, sia del mondo naturale. Nel bisogno di dominare, la studiosa americana rav-visa – con un ingegnoso adattamento della fi losofi a hegeliana – il desiderio maschile di trascendere l’alienazione dai mezzi di riproduzione della specie.

Infi ne, se de Beauvoir additava alla donna il modello maschile della produzione – il solo che avrebbe potuto sottrarla alla tirannia della riprodu-

7 S. de Beauvoir, Il secondo sesso, cit., tomo 1, p. 93.8 M. O’ Brien, The Politics of Reproduction, Routledge & Kegan Paul, London

1981. Sui mutati atteggiamenti della cultura femminista nei confronti della ma-ternità rinvio al mio saggio Il punto di vista delle donne sulle nuove tecnologie riproduttive, in C. Romano, M. Grassani, Bioetica, Utet, Torino 1992.

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zione, facendo della sua vita un progetto – ora, con un netto ribaltamento di prospettiva, è la riproduzione a essere rivalutata come paradigma culturale alternativo alla produzione. Potremmo anzi aggiungere che, nel femmi-nismo contemporaneo, decisiva è l’assimilazione tra potere generativo e capacità creativa: la femminilità, come l’arte, si compirebbe senza passare attraverso la mediazione strumentale, connessa al processo di oggettivazio-ne che caratterizza la mascolinità e la sua cultura.

All’interno di una teoria post-marxista del lavoro, su cui porre i fon-damenti epistemologici di una scienza femminista, studiose come Nancy Hartsock e Hilary Rose affermano che l’esperienza femminile della ripro-duzione rappresenta una unità con la natura che va al di là dell’esperienza proletaria di interscambio con essa9. La scienza femminista sarà anticar-tesiana, giacché si situa in opposizione alle dicotomie di pensiero e prassi create dalla divisione tra spirito e materia. L’immersione della donna in concreti processi materiali appare dunque più completa di quella dell’uo-mo: il lavoro riproduttivo è infatti un atto sintetizzatore e mediatore tra donna e natura.

Non solo. A causa del ciclo riproduttivo, sarebbe più diffi cile per le don-ne sfuggire a un senso di connessione col mondo naturale: l’esperienza corporea della donna, oltre a dare un limite ineludibile alla sua esistenza fi sica, le renderebbe diffi cile coltivare un senso smisurato dell’io e dei suoi poteri. Da qui un’alternativa rispetto all’ethos prometeico, in cui si perpe-tua l’appello baconiano al dominio della natura. Le esperienze riproduttive della donna – esperienze di limitazione, di orientamento verso gli altri e di accudimento – avrebbero come risultato atteggiamenti più positivi verso la natura e, in particolare, darebbero origine a un’attitudine di cura, di prote-zione, una sorta di maternage al pianeta.

9 N. Hartsock, The Feminist Standpoint: Developing the Ground for a Specifi cally Feminist Historical Materialism, in S. Harding, M. Hintikka ,ed., Discovering Reality: Feminist Perspectives on Epistemology Methodology and Philosophy of Science, Reidel, Dordrecht 1983; H. Rose, Hand, Brain and Heart : a Feminist Epistemology for the Natural Sciences, in «Signs», n. 9, 1983; H. Rose, J. Hanmer, Womens Liberation, Reproduction and the Technological Fix, in D.L. Barker, S. Allen, eds., Sexual Divisions and Society: Process and Change, Tavistock, London 1976. La letteratura sull’epistemo-femminismo è ormai vastissima. Mi limito a segnalare: S. Harding, The Science Question in Feminism, Open University Press, 1986 e Feminism and Methodology, Indiana University Press, Bloomington 1987; R. Bleier, Science and Gender, Pergamon Press, Oxford 1984. Per una visione d’insieme di tale corrente e dei suoi principali indirizzi, v. l’utile Introduzione di E. Donini a Donne, tecnologia, scienza, Rosenberg & Sellier, Torino 1986.

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Trascendenza e immanenza. La critica al femminismo umanistico

Attorno al nodo del rapporto donna/cultura è in atto, da alcuni decenni, un cambiamento profondo. Dalla fase in cui si rivendicava il diritto alla parità e un eguale accesso ai beni della cultura, con la richiesta di una sem-pre più ampia partecipazione, si è passati a quella della progettazione di una cultura specifi camente femminile. Per riprendere una distinzione, già richiamata, della storica Iris Marion Young, dal femminismo umanistico – la cui idea guida è l’eguaglianza – si è giunti al femminismo differenzia-lista, la cui idea guida è quella di diversità, intesa non più come disvalore, sinonimo di diseguaglianza, ma assunta come valore, riconoscimento della propria alterità, ricerca di modelli alternativi10.

La femminilità non è più vista come mito o come limite naturale da superare o negare (sulla scorta della lezione di Simone de Beauvoir), ma rivendicata come punto di riferimento in base a cui ridescrivere la scala dei valori della società contemporanea. Una società – si afferma – in cui alla competizione si sostituisca la cooperazione, alla diseguaglianza l’ugua-glianza reale.

Il termine androcentrismo sta a sottolineare la mascolinità intrinseca della cultura in cui viviamo: in essa valori, credenze, atteggiamenti caratte-risticamente maschili verrebbero assunti come assoluti e universali, innal-zati a una validità sovrasessuale, adottati come il parametro dell’umanità stessa. Morale, diritto, scienza, arte – la cultura oggettiva della società oc-cidentale – rappresenterebbero, secondo questa analisi, la trasvalutazione normativa dell’egemonia maschile. La cultura patriarcale avrebbe, da un lato, represso e svalutato l’esperienza femminile e, dall’altro, assolutiz-zato e universalizzato quella maschile. Questo pensiero darebbe origine a una logica di dominio che, spiegando e mantenendo la subordinazione dei gruppi giudicati inferiori da parte dei gruppi cosiddetti superiori, ser-virebbe a trasformare la diversità in ineguaglianza e, quindi, a legittimarla. Infi ne, proprio del pensiero patriarcale in quanto gerarchico, è il procedere per opposizioni e dualismi normativi. È in particolare l’ecofemminista Ro-semary Ruether a defi nire «dualismo trascendentale» quella visione, pro-pria della fi losofi a classica11, che svaluta l’esistenza materiale e corporea

10 I.M. Young, Humanism, Ginocentrism and Feminist Politics, in «Hypatia. A Jour-nal of Feminist Philosophy», n. 3, 1985. Un’interessante analisi delle tendenze del femminismo contemporaneo è contenuta in H. Eisenstein, Contemporary Femi-nist Thought , G. K. Hall & Co., Boston 1983 e H. Eisenstein, A. Jardine (a cura di), The Future of Difference, Rutgers University Press, New Brunswick 1985.

11 Secondo R. Ruether la tradizione dualistica, che si sviluppa principalmente con

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come ontologicamente inferiore alla spirituale, ravvisando altresì in essa la radice del male morale. Il dualismo è caratterizzato dalla contrapposizione polare di diverse sfere: maschile e femminile, ragione ed emozione, spirito e materia, umano e non-umano, e così via. Da qui il rifi uto della natura e della donna, identifi cate con la sfera della fi nitezza che si deve negare se si vuole accedere alla trascendenza. Ne deriva, inoltre, una visione della realtà che enfatizza gli aspetti di disgiunzione anziché la continuità e com-plementarità: di conseguenza, si afferma, appaiono separati e mutualmente escludentisi aspetti del reale che sono invece inseparabili.

È dunque la cultura della gerarchia a collegare concettualmente il domi-nio della natura e quello della donna: entrambe rappresenterebbero l’altro da cui il soggetto trascendente (maschile) si distingue per ristabilire il con-trollo. Il paradigma gerarchico, che ha prodotto il rifi uto della natura e della corporeità, ha portato con sé il rifi uto della donna, vista come determinata dalla natura e dal corpo in misura maggiore rispetto all’uomo. Le eco fem-ministe sostengono infatti che la maggior parte delle teorie morali è legata a un modo di pensare ‘androcentrico’. Il dualismo razionalistico soggetto/oggetto si rispecchierebbe in sistemi etici astratti e atomistici, carenti – si afferma – di quella sensibilità relazionale necessaria per un nuovo ethos in cui venga superata la dicotomia umanità/natura.

Si può valutare, alla luce di tali rilievi critici, la distanza dell’ecofem-minismo dal cosiddetto femminismo umanistico, secondo cui la «natura» femminile è una costruzione sociale e la femminilità deve pertanto consi-derarsi come uno dei principali strumenti di oppressione per le donne. Se-condo Simone de Beauvoir «il femminismo è semplicemente una credenza nella piena umanità della donna e nel suo diritto a defi nire se stessa». Ma che cosa s’intende propriamente per «piena umanità» della donna? Si tratta di una nozione neutrale e univoca oppure essa risulta, a una più attenta analisi, ambigua e tributaria di un modello maschile dell’umano?

Nella prospettiva esistenzialistica la donna, come l’uomo, realizza la sua umanità distanziandosi dalla natura e trascendendola. Ciò che caratte-rizza l’umanità è dunque non solo la distanza dalla corporeità, ma altresì la capacità di negarla e andar oltre, nel continuo superamento del dato. Sennonché, a parere delle ecofemministe, tale impostazione tradizionale si rivela ancora prigioniera di quella struttura dualistica, propria della cultura

la fi losofi a del tardo platonismo, si fonde con la tradizione ebraica e in seguito col cristianesimo per giungere fi no alla scienza e alla tecnologia moderne. sul rapporto tra ideali della ragione e concezione del maschile e del femminile nella fi losofi a occidentale rinvio a G. Lloyd, The Man of Reason. Male and Female in Western Philosophy, Methuen, London 1984.

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patriarcale, che oppone mente a corpo, spirito a materia. L’imperativo di trascendere il femminile, identifi cato con la sfera della fi nitezza che si deve negare, appare infatti come una delle condizioni fondamentali per accedere al modo universale di pensiero.

Certo, si riconosce, de Beauvoir ha dato un importante contributo nel mostrare il processo attraverso cui la donna è considerata come «altro» e assimilata alla natura, soggetto da possedere e da dominare12. E tuttavia, se per molti aspetti le analisi delle ecofemministe si richiamano alla sua opera, le conclusioni non potrebbero essere più diverse. Nella visione di Si-mone de Beauvoir la donna «pur essendo come ogni individuo umano una libertà autonoma […] si scopre e si sceglie in un mondo in cui gli uomini le impongono di assumere la parte dell’Altro» 13. Il mito dell’eterno femmi-nino nasce dalla volontà degli uomini di confi nare la donna in un mondo chiuso e diverso: essa diventa l’Altro, è identifi cata con l’inessenziale, con il non essere. Pertanto, solo a condizione che accetti il rischio e trovi le ragioni autentiche del suo gesto potrà profi larsi per lei una possibilità di conversione: anziché arrestarsi «atterrita alle soglie della realtà», dovrà ri-spondere alla sfi da del mondo e «fare nell’angoscia e nell’orgoglio […] il noviziato della sua trascendenza»14. La studiosa francese nega recisamente che esista un’essenza della femminilità: quest’ultima, lungi dal designare una differenza radicale e naturale, non sarebbe che un mito che traduce l’angoscia degli uomini dinanzi all’ambiguità dell’esistenza. Essi proiet-tano infatti nella donna, identifi cata con l’Altro, il loro disorientamento e la loro impotenza. Se una differenza deve essere ancora riconosciuta tra l’uomo e la donna, essa si connette con l’educazione e l’ambiente sociale: «Donna non si nasce, lo si diventa […] È l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna»15.

Il punto di maggiore divaricazione dell’ecofemminismo rispetto al fem-minismo umanistico riguarda tuttavia la critica all’idea di trascendenza – quell’idea che nella fi losofi a esistenzialistica assume un rilievo centrale, specie in riferimento alla tematica della liberazione femminile. Se la con-dizione dell’uomo è di superare ogni dato, in quanto libertà aperta sull’infi -nito, la donna, in quanto essere oppresso, deve più di ogni altro spezzare le barriere dell’immanenza per defi nirsi come essere libero: «Ogni individuo

12 Sul contributo teorico di Simone de Beauvoir si veda quanto scrive Y. KING, Per un femminismo cit., pp. 178-79.

13 S. de Beauvoir, Il secondo sesso, cit. tomo I, p. 27.14 Ivi, tomo II, p. 503.15 Ivi, tomo I, p. 15.

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che vuol dare un signifi cato alla sua esistenza la sente come un bisogno in-fi nito di trascendersi […] Ogni volta che la trascendenza ripiomba nell’im-manenza, v’è uno scadere dell’esistenza nell’ “in sé”. 16Come ogni essere umano, la donna deve assumere la propria libertà attraverso un movimento costruttivo: alla presa di coscienza deve seguire un progetto di prassi, giac-ché «non si esiste senza fare».

L’insistenza della de Beauvoir sulla necessità, per la donna, di trascen-dere la natura e di integrarsi nel mondo della cultura si oppone all’esplicita valorizzazione, da parte delle ecofemministe, dell’immanenza e del raffor-zamento del legame con la natura. Se per l’una la trascendenza è un pro-cesso insieme inevitabile e auspicabile, in quanto modalità autenticamente umana, valida per entrambi i sessi, per le altre si tratta di una modalità di autorealizzazione tipicamente maschile, connessa a una mentalità dualisti-ca. La de Beauvoir resterebbe, dunque, ancora all’interno della dicotomia natura/cultura, laddove le ecofemministe intendono scalzare tale dicoto-mia. Il suo sarebbe dunque un femminismo mascolinizzato, impegnato a rifare la nuova donna secondo un modello androcentrico e basato sull’as-sunto della superiorità della cultura sulla natura.

Alla trascendenza si contrappone pertanto l’immanenza, non più intesa, in termini esistenzialistici, come un «male assoluto», ma viceversa assunta nel senso positivo di immersione nella natura e di recupero della fi sicità. Rivalutazione della natura è quindi, insieme, rivalutazione del femmini-le. E viceversa. «L’immanenza simbolizzata dalla donna – scrive Ynestra King – è ciò che può ricondurre l’uomo indietro e che gli ricorda costan-temente ciò che egli vuole dimenticare: cioè il suo stesso legame con la natura, che egli deve rimuovere e superare per acquisire l’umanità»17.

E ancora, se per de Beauvoir la grandezza dell’essere umano sta nello scegliere di trascendere la propria vita verso un’esistenza costruita come valore, nel mettere in gioco la propria vita per un’idea (esplicito è il richia-mo all’homo faber), la Ruether ravvisa nello sforzo di «negare la propria mortalità, di identifi care l’umanità essenziale (maschile) con una sfera di-vina trascendente, al di là del divenire e del perire»18, il tentativo patriar-

16 Ivi, tomo I, p. 27.17 Y. King, Per un femminismo cit., p. 178. S. Morandi – v. Ecofemminismo: la

natura delle donne, in F. Giovannini, a cura di, Le radici del verde. Saggi critici sul pensiero ecologista, Dedalo, Bari 1991- scrive che «Y. King prosegue con decisione sulla strada dell’identifi cazione donna/natura proposta da Simone de Beauvoir» (p. 119) laddove, in realtà, la King prende le mosse dalle tesi della de Beauvoir ma per rovesciarne il signifi cato.

18 R. Radford Ruether, op. cit., p. 195. Sull’atteggiamento patriarcale nei confronti

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cale di rifi utare le proprie origini, negando la fi nitezza rappresentata dalla donna, dal corpo, dal mondo. Alla svalutazione esistenzialistica del corpo subentra una piena rivalutazione della corporeità. Il corpo, secondo l’ana-lisi della de Beauvoir, avvicina la donna al mondo delle cose, alla datità, e la identifi ca col regno dell’immanenza: «La donna – scrive – è il suo corpo ma il suo corpo è altro da lei». Minato da forze oscure, che appartengono a «una fi nalità che la strappa da se stessa», opposto alla coscienza chiara, alla libertà, il corpo femminile è uno strumento al servizio della specie. Secon-do l’analisi delle ecofemministe, invece, è il patriarcato che ha usato il cor-po femminile come una prigione, una fonte di disprezzo. Adrienne Rich, ad esempio, sottolinea il diffi cile rapporto delle donne col proprio corpo: o identifi cate con esso – rese natura, materia inerte – o da esso espropriate, in obbedienza alle teorie maschili. Anche molte femministe nel passato, si ri-leva, sostenendo che le donne sono esseri umani innanzitutto e «femmine» solo incidentalmente, hanno minimizzato la loro fi sicità. Bisogna invece, al fi ne di vivere una vita pienamente umana, ritrovare il legame con l’ordine naturale, «il peso corporeo della nostra intelligenza».

La posizione delle ecofemministe può inscriversi nel quadro di un essen-zialismo che postula una differenza originaria e intrascendibile tra uomo e donna. Sarebbe una diversa natura, piuttosto che determinate condizioni di esistenza, a produrre una diversa maniera di vedere il mondo. A questa visione essenzialista della diversità, vicina alle elaborazioni teoriche della Irigaray19, se ne può opporre un’altra, di tipo storicista, che anziché affer-mare il carattere ontologico della differenza tra i sessi fa leva, per defi nire il femminile, su una marginalità di origine socioculturale. Non ci si appella a una natura, bensì a una condizione: l’«essenza» femminile non è dunque biologica ma storica, consistendo nell’esperienza della separatezza e della estraneazione20.

della natura cfr. S. B. Ortner, Is Female to Male as Nature is to Culture?, in M. Rosaldo, L. Lamphere (a cura di), Woman, Culture and Society, Stanford Un-íversíty Press, Stanford 1974.

19 L. Irigaray, Etica della differenza sessuale, trad. it., Feltrinelli, Milano 1985, p. 11. Cfr. altresì della stessa autrice: Questo sesso che non è un sesso, ivi, 1978; Passioni elementari, ivi, 1983; Parler n’est jamais neutre, Ed. de Minuit, Paris 1985; Sessi e genealogie, La Tartaruga, Milano 1989. Per un’introduzione al fem-minismo differenzialista cfr. AA.VV., Diotima. Il pensiero della differenza ses-suale, La Tartaruga, Milano 1987; R. Tong, Feminist Thought. A Comprehensive Introduction, Unwin Hyman, “London 1989; C. Duchen, Feminism in France: from May ‘68 to Mitterrand, Routledge & Kegan Paul, London 1986.

20 Per un’esauriente rassegna delle tesi elaborate dal pensiero femminista cfr. J. Grimshaw, Philosophy and Feminist Thinking, University of Minnesota Press,

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Simone de Beauvoir era ben consapevole del carattere oppressivo dell’idea di una natura femminile. Postulare una misteriosa «essenza» avreb-be rischiato di accreditare una metafi sica della differenza portata a ignorare quella complessa interazione, costitutiva dell’esperienza umana, tra biologia, storia e ambiente, per cui ci si costruisce a partire da quelle condizioni, anzi-ché semplicemente rispecchiarle o subirle. In realtà, ogni tentativo di defi nire un’essenza – in ambito sia sessista che femminista – cela nel profondo un progetto prescrittivo. Individuare la natura di un sesso, identifi carne qualità, attitudini, valori peculiari, contrapponendoli a qualità, attitudini, valori ca-ratteristici dell’altro sesso, signifi ca imprigionarlo in un destino, assegnargli autoritariamente un dover essere. Pensare, invece, la differenza come frutto di un processo storico e culturale può contribuire a problematizzare le stes-se identità sociali di genere, demistifi cando ogni essenza con lo svelarne il carattere di costruzione ideologica. L’ecofemminismo ha l’indubbio merito di aver contribuito a una problematizzazione del concetto di umanità, de-nunciando la neutralità apparente di tale nozione e insieme i limiti di un’an-tropologia egualitaria. Che cosa signifi ca «umanità» per la donna? Che cosa intende il femminismo umanistico allorché si batte perché vengano restituite alle donne tutte le prerogative dell’essere umano? La de Beauvoir restava, in effetti, ancorata a un concetto convenzionale di universale umano, di genere neutro, senza un’adeguata problematizzazione di tale rappresentazione ma-schile, e quindi parziale e incompleta, dell’umanità. «Il fatto è – affermava – che la cultura, la civiltà e i valori universali sono stati tutti creati da uomini, poiché gli uomini rappresentano l’universalità» 21.

Certo, il limite dell’approccio esistenzialistico è la svalutazione della natu-ra, il disprezzo della corporeità. La de Beauvoir resta, come si è rilevato, pri-gioniera della dicotomia natura/cultura, laddove le ecofemministe intendono superarla. Sennonché, a ben rifl ettere, anziché un superamento del pensiero dualistico, nell’ecofemminismo si ha l’approdo a un altro dualismo, questa volta di segno rovesciato: dalla parte del valore stanno la vita, la natura, la

Minneapolis 1986.21 A. Schwartz, After the Second Sex: Conversations with Simone de Beauvoir, Pan-

theon, New York 1984, p. 43Non si dimentichi che Il secondo sesso, pur se scritto al di fuori di un contesto collettivo, ha svolto un ruolo di primo piano nelle lotte civili femministe – dalla battaglia per il divorzio a quella per la legalizzazione dell’aborto e per i diritti delle madri nubili – e che la stessa de Beauvoir è stata tra le socie fondatrici della “Lega dei diritti della donna” e, oltre a dirigere la rivista Questions feministes, ha tenuto una rubrica fi ssa, “Le sexisme ordinaire”, su Les temps modernes per denunciare il sessismo nei suoi diversi volti. Sull’impegno politico della de Beauvoir, v. Danièle Sallenave, Castor de guerre. Un portrait de Simone de Beauvoir, ed. Gallimard, Paris, 2008.

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corporeità, dalla parte dei disvalori la cultura, la scienza, la razionalità. È il capovolgimento simmetrico delle «verità» della civiltà patriarcale, a comin-ciare dall’assunto della superiorità della cultura e della storia sulla natura. Laddove, per scalzare la logica del pensiero dicotomico (oppositional thin-king), sarebbe necessario metterne in questione la stessa struttura dualistica, anziché limitarsi a un semplice ribaltamento dei suoi termini.

La problematizzazione ecofemminista dell’idea di umanità avrebbe do-vuto condurre non a una metafi sica essenzialistica ma a una visione più ricca e complessa, in grado di ricomporre la frattura tra mente e natura, integrando quegli aspetti oscurati e rimossi nella concezione maschile dell’umano cui si riferisce, ad esempio, Carol Gilligan. La quale, occorre sottolineare, non intende contrapporre rigidamente due tipi di moralità né, tanto meno, assegnare all’uno – quello femminile – il primato sull’altro. L’ecofemminismo – si è detto – intende riallacciare quei legami con la natura che il femminismo umanistico aveva spezzato. Si deve tuttavia ri-levare che la critica assai aspra della de Beauvoir nei confronti dell’idea di natura si fonda sulla tesi che ogni essere non è una realtà determinata, ma un’avventura, il cui progetto è la vita: ciascuno crea se stesso ed è pie-namente responsabile di ciò che fa. In tal modo de Beauvoir, col porre al centro della sua visione fi losofi ca il tema della trascendenza, tratteggiava le linee di una «morale della volontà» il cui signifi cato, per il femminismo contemporaneo, mi sembra ben lungi dall’essere esaurito.

Etica e femminismo nell’esistenzialismo di Simone de Beauvoir

Nella morale esistenzialista ogni soggetto si pone concretamente come trascendenza attraverso una serie di fi nalità, attuando la propria libertà in un perpetuo passaggio ad altre libertà: la sola giustifi cazione dell’esisten-za presente è dunque la sua espansione verso un avvenire indefi nitamente aperto. Defi nendo l’uomo come un essere che non è dato, ma un essere che si fa, l’esistenzialismo sottolinea che la donna non è una realtà fi ssa, ma un divenire, un essere che è trascendenza e superamento le cui capacità si manifestano con evidenza solo quando giungono a realizzarsi. Per la de Beauvoir, l’esistenzialismo è una fi losofi a della libertà, apportatrice di una nuova etica tanto nella sfera individuale che in quella pubblica. È una fi losofi a dell’impegno, che vede uniti mondo e individuo e che postula che la liberazione dell’essere umano non può essere trovata nel solipsismo, per non divenire illusoria, ma solo affrontando e sciogliendo il nodo del rapporto Io-mondo, Io-altri.

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Hic et nunc, qui ed ora: oggi noi dobbiamo salvare la nostra esistenza, non rinviare la soluzione dei problemi a un Paradiso di là da venire, in cui tutti sarebbero riconciliati nella morte. L’esistenza è ambigua, il suo senso va continuamente conquistato: l’essere umano muove da una situazione di insicurezza ontologica che deve riconoscere per giustifi care autenticamente se stesso e il mondo. In tal senso, problema etico e problema politico diven-gono due facce della stessa medaglia. La morale, lungi dal fornire ricette, può proporre soltanto dei metodi, nella consapevolezza che il bene non è qualcosa che possa essere deciso a priori; l’esistenza concreta sfugge infatti ad ogni categorizzazione giacché, per l’ambiguità ontologica, il rapporto tra contenuto e senso di un’azione va verifi cato caso per caso e la situazione de-cide la sorte di ogni valore. Ciò non signifi ca affatto che “poiché Dio è morto tutto è lecito”, è anzi vero il contrario: nulla è lecito se non è giustifi cato.

«L’assenza di Dio – si legge in un brano particolarmente signifi cativo di Per una morale dell’ambiguità – è lungi dall’autorizzare ogni licenza: viceversa, proprio perché l’uomo è abbandonato sulla Terra, i suoi atti sono impegni defi nitivi, assoluti. Egli porta la responsabilità di un mondo che non è opera di una potenza estranea bensì la sua stessa opera, un mondo in cui si inscrivono tanto le sue sconfi tte quanto le sue vittorie. Un Dio può perdonare, cancellare, ricompensare; ma se Dio non esiste, gli errori degli uomini sono in espiabili»22.

La prospettiva esistenzialistica in cui si muove la de Beauvoir esige un impegno assoluto perché privo di ogni garanzia trascendente, di ogni pos-sesso defi nitivo della verità, di qualsivoglia attesa palingenetica del futuro e, per questo, aperto alla lotta, alla realizzazione di sé, pur nel riconosci-mento dei propri limiti. Ecco forse il motivo per cui il Secondo sesso è mol-to duro con le donne, non le giustifi ca, non le spinge alla commiserazione ma le incita alla lotta, alla presa di coscienza che la vita va vissuta fi no in fondo, ricercando il proprio essere autentico. Tutta l’educazione della don-na congiura infatti per sbarrarle la strada della ribellione e dell’avventura, tutta la società la inganna esaltando l’alto valore dell’amore, della devo-zione, del dono di sé; d’altro lato, il narcisismo dell’adolescenza continua nella sua vita da adulta, trasformandosi in un ‘culto dell’io’ che ha sempre bisogno di uno sguardo venuto dall’alto a svelarne e consacrarne il valore. Situare la donna in un mondo di valori – che non esistono in astratto ma si incarnano nella struttura economica e sociale – signifi ca dunque dare al suo comportamento una dimensione di libertà, capace di creare soluzioni fornite di una gerarchia etica.

22 S. de Beauvoir, Per una morale dell’ambiguità, tr. it. Garzanti, Milano, 1975, p. 13.

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Sarebbe pertanto un errore, a mio avviso, ritenere che rivalutare la natu-ra signifi chi, per ciò stesso, rifi utare la trascendenza, giacché non è possi-bile elaborare un contro-universo di valori se non attraverso un movimento costruttivo che superi il dato in un progetto di prassi.

Potremmo dire, conclusivamente, che se il mito della donna come Altro era per la de Beauvoir uno dei principali ostacoli alla realizzazione della donna come persona, ora tale alterità non è più vissuta dal femminismo post-moderno come una condizione che deve essere trascesa, bensì come una peculiarità da rivendicare orgogliosamente: un modo d’essere e di pen-sare che signifi ca estraneità rispetto alla cultura dominante e ai suoi valori, ma che è insieme condizione privilegiata per avviarne una critica radicale. La donna dunque è l’Altro, ma questa affermazione è, per così dire, rove-sciata di senso rispetto a come era intesa ne Il secondo sesso.

La distanza tra i due femminismi non potrebbe essere più netta. In ef-fetti, l’obiettivo della lotta della de Beauvoir era di garantire alle donne l’accesso al mondo dei valori creato dagli uomini nella convinzione che “l’avvenire non potrà che condurre ad una loro assimilazione sempre più profonda nella società una volta maschile”. In tal modo, veniva negata una specifi ca creatività femminile capace di esprimere le esperienze peculiari – storiche, sociali, biologiche – delle donne e le loro particolari letture del mondo. Non si deve tuttavia dimenticare che l’auspicio generoso che guida la sua visione è quello di un incontro fraterno tra i sessi che consenta di ri-conoscersi reciprocamente nella scoperta di un’alterità fi nalmente positiva: un incontro che signifi chi dialogo paritetico, nella dialettica della differen-za e della somiglianza. Occorre aggiungere che, a differenza di Sartre, sul cui pensiero troppo spesso è stata appiattita (basti pensare al sarcasmo di chi l’ha defi nita ‘la grande Sartreuse’), de Beauvoir – più volte rimprovera-ta per aver derivato in modo acritico dal suo preteso ‘gemello intellettuale’ concetti centrali come la libertà assoluta della nostra condizione o l’ostilità irrimediabile delle relazioni umane – intravvede la possibilità di ricono-scimento reciproco nell’incontro di entrambi come soggetti, in cui ognuno tuttavia rimarrà per l’altro un altro.

È degna di nota, al riguardo, la sua affermazione: «Io ero indipendente da Sartre perché scrivevo i miei libri, i miei racconti. Persino Il secondo sessso, con il suo sfondo fi losofi co dell’esistenzialismo sartriano, era co-munque esclusivamente la creazione della mia visione delle donne. Era come lo avevo sperimentato io»23.

23 Intervista a Alice Schwarz, in A. Schwarz, Simone de Beauvoir Today. Conversa-tions 1972- 1982, Chatto & Windus, The Hogarth Press, 1984, p. 72.

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Se dunque la fi losofi a di Sartre rappresenta un invito pressante alla re-sponsabilità di esistere, de Beauvoir articola questo invito in riferimento ad un’esperienza vissuta e ad un soggetto concreto: le donne. Si potrebbe dire che i concetti cruciali dell’esistenzialismo – situazione e riconoscimento – assumono un nuovo, inedito rilievo in riferimento al soggetto femminile: la questione della libertà si pone in modo singolarmente diverso dal momento che, nella sua visione, le nostre libertà, anziché contrapporsi e ostacolarsi necessariamente, si sostengono e si incrementano reciprocamente, “come le pietre di un arco”. Il principio della connessione prevale su quello della separazione: la realizzazione di sé – se ne desume – può avvenire solo in un contesto intersoggettivo, attraverso gli altri, che non rappresentano dunque un limite ma una condizione per compiere la propria trascendenza.

Lamentando che la nostra mancanza di immaginazione impoverisca sempre l’avvenire, scrive: «nasceranno tra i sessi nuovi rapporti sessuali e affettivi di cui non abbiamo idea: già sono apparse tra uomini e donne ami-cizie, rivalità, complicità, dimestichezze, caste o sessuali, che i secoli pas-sati non avrebbero potuto immaginare […] Anzitutto, rimarranno sempre tra uomo e donna alcune differenze; poiché l’erotismo della donna, e per-ciò il suo mondo sessuale, ha un aspetto particolare, deve necessariamente generare in lei una sensualità, una sensibilità particolari: i suoi rapporti col proprio corpo, col corpo maschile e col fi glio; coloro che parlano tanto di “eguaglianza nella differenza” non possono non concedermi che possano esistere delle differenze nell’eguaglianza»24.

In tal modo, la dimensione dell’alterità resta ma non ha più carattere ostile, in quanto i due esseri che insieme affermano e negano appassionata-mente i loro limiti sono simili e tuttavia diversi.

Un pensiero dunque, quello della de Beauvoir, di cui si comincia solo ora a cogliere l’estrema ricchezza e che si applica, ad esempio, altrettanto bene alla condizione della donna che alla condizione della vecchiaia. Ne La terza età, il libro che forse più di ogni altro ha rotto la ‘congiura del silenzio’ su un moderno tabù, la fi losofa francese, ancora una volta pio-niera, si avvale della categoria dell’alterità per esaminare la condizione senile. L’analisi intrapresa ne Il secondo sesso trova in certo modo qui il suo compimento: come la donna, l’anziano è consegnato ad un’immagine sublimata o degradata, in ogni caso al di fuori dell’umano. «I vecchi sono esseri umani? A giudicare dal modo in cui sono trattati nella nostra società è lecito dubitarne. […] Per tranquillizzare la coscienza della collettività, gli ideologi hanno forgiato miti, del resto contraddittori, che incitano l’adulto

24 S. de Beauvoir, Il secondo sesso, cit., p. 522.

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a vedere nell’anziano non un suo simile ma un ‘altro’: il saggio venerabile che domina dall’alto il mondo terrestre o il vecchio folle stravagante e vanesio»25. Questo ostracismo è spinto talmente oltre da arrivare addirittu-ra a rivolgerlo contro noi stessi, rifi utando di riconoscerci nel vecchio che diventeremo: la vecchiaia è qualcosa che riguarda solo gli altri. Quali sono allora le strade per uscire dall’inganno sociale e dal nostro stesso autoin-ganno? Per vedere nei vecchi non degli ‘altri’ ma dei nostri simili, è neces-saria, a suo avviso, un’identifi cazione prospettica, il riconoscimento, cioè, della nostra identità in anticipo sui tempi della nostra vita. «Smettiamola di barare: nell’avvenire che ci aspetta è in gioco il senso della nostra vita. Non sappiamo chi siamo se ignoriamo chi saremo. Dobbiamo riconoscerci in quel vecchio, in quella vecchia: è necessario, se vogliamo assumere nella sua totalità la nostra condizione umana»26. Ancora una volta vengono sma-scherati, con spietata determinazione, i tentativi illusori di ricomporre le antinomie dell’esistenza in superiori unità di senso: i paradossi del vivere si presentano nella loro irriducibile verità.

Oggi, sia pure tardivamente, si è giunti a rinvenire nell’opera di de Be-auvoir una versione della fi losofi a esistenzialista che presenta aspetti di sicura originalità, come ha mostrato tra le prime Eva Lundgren-Gothlin, rilevando che, ne Il secondo sesso : «in contrasto con il primo Sartre, un essere umano non è una passione inutile, la libertà non è assoluta e le rela-zioni umane non sono necessariamente cariche di confl itto»27.

‘Fraternità’ è la parola con cui si conclude il volume: davvero parola chiave, dal momento che nell’uno come nell’altro sesso si svolge lo stesso dramma, della carne e dello spirito, del fi nito e del trascendente: «ambedue sono rosi dal tempo, spiati dalla morte, hanno lo stesso bisogno essenziale l’uno dell’altro e possono trarre dalla loro libertà la stessa gloria; se sapes-sero goderne non sarebbero tentati di disputarsi falsi privilegi e la fraternità potrebbe nascere tra loro»28.

25 S.de Beauvoir, La terza età, tr. it., Einaudi, Torino, 1971 p. 9. Per un’analisi det-tagliata dell’opera della de Beauvoir rinvio al mio “L’età si impadronisce di noi di sorpresa... La senescenza tra rifl essione fi losofi ca e indagine bioetica, Annali dell’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa, 3, 2002-2003.

26 S. de Beauvoir, La terza età, cit., p. 15.27 E. Lundgren-Gothlin, Simone de Beauvoir”The Second sex”, The Athlone Press,

London, 1966, p. 2.28 S. de Beauvoir, Il secondo sesso, cit., p. 520.

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La seconda vita de Il secondo sesso

Al di là dei punti controversi che si sono evidenziati – fortemente de-terminati, a mio avviso, dal momento storico e dalla situazione sociale in cui Il secondo sesso è apparso – non si può non riconoscere l’importan-za di un’opera grazie alla quale si è cominciato a discutere seriamente di quella che può defi nirsi ‘l’unica utopia non fallita del Novecento’. Scritto in solitudine, in un tempo in cui i diritti delle donne non erano certo una questione prioritaria, ha contribuito in modo decisivo all’emergere di una coscienza femminile capace di superare la fatalità della propria condizione – ciò che è il senso stesso dell’esistenzialismo –, dando voce unica a tutte le rivendicazioni sparse nei secoli da coloro – da Olimpia de Gouges a Mary Wollstonecraft a Virginia Woolf – che avevano inventato il femminismo prima che se ne coniasse il termine. Juliet Mitchell ha visto a ragione ne Il secondo sesso «il principale studio ‘totalizzante’ sull’oppressione della donna […] Esso rappresenta, per così dire, la linea di partenza da cui pren-dono il via le altre opere […] a prescindere da quanto queste opere se ne di-stacchino per il loro particolare interesse o per le loro analisi conclusive»29.

Oggi che i pensieri più audaci espressi in quel testo ci sembrano così ovvii da sfi orare il senso comune, tanto che, per riprendere l’espressione di Rosi Braidotti, si potrebbe parlare di una «transizione dal blasfemo al banale» – chi mai oserebbe sostenere che il destino della donna debba ob-bligatoriamente ridursi a quello di moglie e di madre o che le sue capacità in campo intellettuale e professionale siano inferiori a quelle dell’uomo? – è venuto il momento di ammettere un debito di riconoscenza. «Un omaggio alla donna – ha scritto in occasione del centenario della nascita Bernard Henry Lévy – grazie alla quale tutte le donne sono, ovunque nel mondo, anche sotto il burka o in stato di schiavitù, un po’ più donne, un po’ più li-bere, un po’ più sovrane di quanto sarebbero state senza di lei e senza il suo libro»30. Con le sue ambiguità e le sue diffi coltà – rileva a sua volta Julia Kristeva – Simone de Beauvoir «ha dato origine a importanti adattamenti che non hanno smesso di plasmare la libertà femminile, la nostra, che sta ‘nascendo solo ora’: questo signifi ca che le dobbiamo perfi no la libertà di pensare, con lei o contro di lei»31. Non si può, infi ne, non citare il giudizio di Luce Irigaray, una delle critiche più dure, con Julia Kristeva, del ‘fallo-

29 J. Mitchell, Pscicoanalisi e femminismo, tr.it., Einaudi, Torino, 1976, p. 348.30 B. H. Lévy, La donna che uccise Madame Bovary, ‘Corriere della Sera’, 13 mag-

gio 2008. 31 J. Kristeva, Pref. a Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 10.

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gocentrismo’ di derivazione sartriana, che avrebbe inquinato la teoria della liberazione de Il secondo sesso: «Simone de Beauvoir è stata tra le prime […] a incoraggiare ogni donna a sentirsi meno sola e più decisa a non sot-tomettersi e a non lasciarsi turlupinare [….] Rispettare Simone de Beauvoir signifi ca continuare il lavoro teorico e pratico di giustizia sociale che ha condotto alla sua maniera, signifi ca non chiudere l’orizzonte di liberazione che lei ha aperto per molte donne e per molti uomini»32.

Ma, soprattutto, ritornare a Il secondo sesso può consentire di scoprire nuovi percorsi teorici nel femminismo. Mi limito a due soli esempi recenti. In Philosophy and Feminism, Nancy Bauer, dopo aver instaurato un pa-rallelo critico tra l’opera della de Beauvoir e quelle di Descartes, Hegel e Sartre, rileva come la fi losofa francese elabori un nuovo metodo di pensie-ro: ponendo la propria situazione di donna al centro del progetto fi losofi co de Il secondo sesso e svolgendo i suoi argomenti metafi sici su materiali empirici (biologici, psicologici, storici e giuridici) rende la sua fi losofi a più effi cace. In altri termini, offre ai fi losofi nuovi mezzi per stabilire una re-lazione razionale tra categorie e principi astratti, da una parte, e una realtà complessa, dall’altra33.

In Sex, Gender and the Body, Toril Moi avanza l’esigenza di equilibrare l’universalismo dei diritti con la considerazione delle specifi cità delle si-tuazioni concrete. Nella sua lettura de Il secondo Sesso, si sottolinea come Simone de Beauvoir tratti il corpo come una situazione che costringe e modella la vita delle donne senza determinarla, non trascurando tuttavia di riconoscere l’infl uenza di fattori come la classe, la razza, l’educazione, il carattere e anche la biologia. Se la biologia moderna e la fi losofi a della biologia sono approdate al determinismo e al riduzionismo, l’attenzione fi losofi ca al dettaglio biologico della vita delle donne – è la sua conclusio-ne – non ci deve distogliere dalla ricerca della libertà e dell’eguaglianza34.

La più nota teorica del genere, Judith Butler, ha messo in evidenza come de Beauvoir, concependo il corpo come ‘situazione’, non sia lontana dalla sua stessa decostruzione tra sesso e genere. Benché siano diversi i presup-posti di fondo, senza la concettualizzazione fi losofi ca offerta ne Il secondo sesso, è verosimile che tale teoria non sarebbe oggi così avanzata. In effetti, il fatto che de Beauvoir abbia parlato dell’uomo e della donna nei termini hegeliani del Soggetto e dell’Oggetto, dell’Uno e dell’Altro, pur se tale

32 L. Irigaray, Io, tu, noi. Per una cultura della differenza, Bollati Boringhieri, Tori-no, 1992, p. 9, p. 13.

33 N. Bauer, Philosophy and Feminism, Columbia University Press, 2001.34 T. Moi, Sex, Gender and the Body, Oxford University Press, 2005.

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dialettica possa oggi apparirci superata, non può farci dimenticare che per la prima volta si è elaborato un registro fi losofi co capace di pensare la re-lazione tra i sessi in modo diverso che in termini empirici, conferendole la dignità necessaria per farne l’oggetto di un discorso teorico più generale.

Probabilmente la sfi da che sta dinanzi alla cultura femminista oggi con-siste nella ricerca di una nuova sintesi che sappia coniugare le istanze inno-vative espresse dal pensiero della differenza con l’eredità irrinunciabile del femminismo umanistico, espressa esemplarmente da Simone de Beauvoir, donna in perenne rivolta, forse maestra ‘cattiva’, come è stata talora defi ni-ta, per la sua severità e intransigenza, non certo ‘cattiva maestra’35.

35 È la stessa de Beauvoir a dichiarare in un’intervista: “Il secondo sesso è più cattivo nei confronti delle donne di quanto non si creda … Le dirò quello che rimprovero alle donne, in sostanza. Pensano troppo a se stesse. Per diventare una Marie Curie, bisogna pensare ad altro che a se stesse. Quant’è ingombrante quell’’io’ delle don-ne!”. V. Intervista di Maria Crepeau, in C. Francis et F.Gontier (a cura di), Simone de Beauvoir. Quando tutte le donne del mondo, Einaudi, Torino 1982, p. 26.

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ALESSANDRO ESPOSITO

L’AMBIVALENZA DEL DEMOCRATICONote sul senso della democrazia

in Claude Lefort e Jean-Luc Nancy

1. A partire dai primi anni ottanta in Francia si è messa all’ordine del giorno un’interrogazione sul senso della democrazia.

Già nel 1982 in occasione dei lavori del “Centre de recherches philo-sophiques sur le politique”, fondato a Parigi da Jean-Luc Nancy e Philip-pe Lacoue-Labarthe nel 1980, Claude Lefort intitola signifi cativamente il proprio intervento La question de la démocratie1. Siamo negli anni ottanta, l’Unione Sovietica non è ancora implosa e il pensiero intorno alla demo-crazia sembra non ricevere una rifl essione libera e approfondita, come se fosse anch’esso stretto tra i due blocchi, ovvero tra l’aprioristica difesa della democrazia contro il totalitarismo e la critica di stampo marxista che continua a vedere nella democrazia il dominio borghese e lo sfruttamento di classe. Nella conclusione del proprio saggio, Lefort si dichiara sbalordito dal fatto che la maggior parte dei suoi contemporanei non faccia dell’espe-rienza democratica un tema da riesaminare a fondo: «Mi sembra strano che la maggior parte dei nostri contemporanei non percepisca il debito della fi -losofi a nei confronti dell’esperienza democratica, che essi non ne facciano un tema della loro rifl essione, […] e non la esplorino a fondo»2.

In tale dichiarazione ci sembra di leggere non tanto, o non solo, una sconcertata presa d’atto, quanto un appello, un invito. Un appello a pensare la democrazia. A pensarne il senso. A pensarla dunque, in senso stretto, fi losofi camente.

Che la nostra ipotesi dell’appello sia in qualche modo pertinente, lo possiamo riscontrare nei numerosi lavori di altri pensatori francesi che, in particolar modo a partire dagli anni novanta, incominciano a mettere più o meno esplicitamente a tema la democrazia. Come se l’appello fosse stato

1 C. Lefort, La question de la démocratie (1982), in Aa.Vv., Le retrait du politique, Galilée, Paris 1983 e in C. Lefort, Essais sur le politique. XIX-XX siècles, Seuil, Paris 1986; (C. Lefort, La questione della democrazia, in Id., Saggi sul politico. XIX-XX secolo, trad. it. di B. Magni, Il Ponte, Bologna 2007).

2 Ivi, p. 30.

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accolto. Con ciò non vogliamo dire che la dichiarazione di Lefort fosse co-scientemente programmatica, ma che in essa risuonasse un’anticipazione che coglieva un’urgenza e una necessità per il pensiero.

Certo, in quel periodo la necessità di interrogare la democrazia è so-stenuta dalla congiuntura storica (il crollo del muro di Berlino) e, bisogna sottolinearlo, si tratta spesso di lavori molto eterogenei e mai riducibili l’uno all’altro. “Selvaggia” (Lefort), “a-venire” (Derrida), “capital-par-lamentare” (Badiou), “insorgente” (Abensour), “egualitaria” (Rancière), “nietzschiana” (Nancy): la democrazia è stata pensata, declinata e qualifi -cata in molteplici modi.

Sarebbe qui impossibile ricostruire la trama di questa interrogazione francese della democrazia, e sarebbe complesso seguire le affi nità e le di-vergenze tra i singolari approcci alla questione. Il nostro obbiettivo, in que-sta occasione, è quello di trattare il senso della democrazia a partire dalle rifl essioni di Claude Lefort e di Jean-Luc Nancy, facendole incontrare ed evidenziandone soprattutto gli aspetti comuni: quasi cercando di disegnare un arco che permetta di far comunicare le analisi di Lefort di trent’anni fa con quelle più recenti e recentissime di Nancy.

2. Ci sembra che la rifl essione di Nancy sulla democrazia si possa col-locare nel solco tracciato da quella di Lefort. Sono due le osservazioni di Lefort che secondo noi Nancy condivide.

Da un lato, il riconoscere nella democrazia moderna un momento di crisi, di fragilità, di radicale indeterminatezza: «La società democratica moderna, di fatto, mi sembra quella società in cui il potere, la legge, la co-noscenza, vengono sottoposti alla prova di una radicale indeterminatezza»3 (Lefort) ed «è per questo che facciamo tanta fatica a trovarle la sua giusta o buona determinazione»4 (Nancy); dall’altro, proprio a partire da ciò, i due fi losofi sono accomunati da una considerazione del totalitarismo moderno come risposta alle debolezze della democrazia: la necessità di mettere in questione il senso della democrazia signifi ca che «non possiamo più per-metterci di ignorare le trappole e i mostri generati dalle perplessità sulla

3 C. Lefort, L’image du corps et le totalitarisme (1979), in Id., L’Invention démo-cratique. Les limites de la domination totalitaire, Fayard, Paris 1981; (C. Lefort, L’immagine del corpo e il totalitarismo, trad. it. di L. Savarino, in Aa. Vv., La fi losofi a di fronte all’estremo: totalitarismo e rifl essione fi losofi ca, a cura di S. Forti, Einaudi, Torino 2004, p. 122).

4 J.-L. Nancy, Vérité de la démocratie, Galilée, Paris 2008; (J.-L. Nancy, Verità della democrazia, trad. it. di R. Borghesi e A. Moscati, Cronopio, Napoli 2009, p. 65).

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democrazia»5 (Nancy), in quanto è nell’indeterminatezza democratica che sono da rintracciare «le condizioni della formazione del totalitarismo»6 (Lefort).

Le voci di Lefort e Nancy, concatenandosi, quasi si confondono: occorre rimarcare con forza che né per l’uno né per l’altro si tratta di ricusare la democrazia7, bensì di metterla in questione nella sua ambivalenza.

3. La comprensione della democrazia, del totalitarismo e del passaggio dall’una all’altro non deve partire, per Lefort, dall’analisi di mutamenti empirici ed economici, ma dall’analisi di mutamenti simbolici: si tratta di analizzare, in maniera comparativa, l’immagine del loro rispettivo luogo del potere. Per essere ancora più precisi, è possibile cogliere e decifrare pienamente la natura della democrazia confrontando la fi gura del potere democratico non solo con quella successiva del potere totalitario, ma anche con la fi gura del potere della precedente società sulle rovine della quale è succeduta – l’Ancien Régime.

La società monarchica dell’Antico Regime rappresenta la propria unità e la propria identità come un corpo, la cui fi gura si incarna nel corpo del re. L’immagine del corpo del re appare come l’immagine di un corpo doppio: politico e teologico, mortale e immortale, individuale e collettivo (Kan-torowicz8). Nell’immagine del corpo del re la comunità trova la propria sostanza, la propria integrità, la propria organicità, la propria incorporazio-ne; vi riconosce il principio incondizionato della generazione e dell’ordine

5 J.-L. Nancy, Des sens de la démocratie, “Transeuropéennes”, n. 17, Paris hi-ver 1999\2000; (J.-L. Nancy, Tre frammenti su nichilismo e politica, trad. it. di D. Tarizzo, in Aa. Vv., Nichilismo e politica, a cura di R. Esposito, C. Galli, V. Vitiello, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 19). Sui sensi della democrazia è il terzo frammento.

6 C. Lefort, La questione della democrazia, cit., p. 30.7 Si pensi per esempio a quando Lefort osserva criticamente che spesso il pensiero

«si rifi uta di scoprire la libertà nella democrazia, defi nendola ancora come bor-ghese, e fatica a scoprire la schiavitù nel totalitarismo» (C. Lefort, La questione della democrazia, cit., p. 19), o a quando Nancy scrive: «Non si tratta quindi di compiere un “critica” della democrazia in un senso convenzionale (e soprattutto non “anti-democratico”!), ma non può trattarsi neppure di limitarsi a una semplice “evidenza” democratica» (J.-L. Nancy, La communauté désœuvrée, Christian Bourgois Editeur, Paris 1986; (J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, trad. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2003, p. 191).

8 Cfr. E. Kantorowicz, The king’s two bodies. A study in mediaeval political theo-logy, Princeton University, Princeton (NJ) 1957; (E. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medioevale, trad. it. di G. Rizzoni, Einaudi, Torino 1989).

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gerarchico del regno, così come l’unità del Potere, del Sapere e della Leg-ge. È il “grande corpo” simbolico de re a produrre e garantire l’integrità e l’unità del corpo sociale, nel quale dei “piccoli corpi” (ranghi e ordini) forniscono agli individui i vincoli di dipendenza9.

4. Il tratto rivoluzionario della democrazia si delinea rispetto alla sud-detta forma di società. Riprendendo le analisi di Tocqueville, Lefort vede il motore della rivoluzione democratica – iniziata in Francia sotto l’Ancien Régime – nella progressiva uguaglianza delle condizioni sociali10.

Uno dei fenomeni di tale processo è il dissolversi dell’unitarietà e dell’or-ganicità sostanziale del corpo politico e sociale: «La rivoluzione democrati-ca, a lungo sotterranea, esplode quando il corpo del re viene distrutto, quando cade la testa del corpo politico, e, in un sol colpo, la corporeità del sociale si dissolve»11. Le conseguenze di questa “esplosione” seguono a catena.

La distruzione del corpo del re corrisponde alla scomparsa di un fon-damento certo dell’ordine sociale: vengono meno il centro gerarchico di identifi cazione/appartenenza e gli antichi vincoli di dipendenza, si produce un processo di disincorporazione degli individui.

Le idee del numero, della massa e del suffragio universale si sostituisco-no a quelle della sostanza e dell’identità, la frattura e la divisione del socia-le all’unità del corpo politico-sociale: «Il pericolo del numero è qualcosa di più di un pericolo dell’ingresso delle masse sulla scena politica; l’idea del numero come tale si oppone a quella della sostanza della società. Il numero decompone l’unità, annienta l’identità […]: l’unità non può più cancellare la divisione sociale»12.

9 C. Lefort, La questione della democrazia, cit., pp. 26-27. 10 A. Tocqueville, La democrazia in America (1835), a cura di N. Matteucci, UTET,

Torino 2007. Le analisi di Tocqueville sono tese ad evidenziare le ambiguità e le contraddizioni della democrazia in riferimento a quello che è il suo princi-pio – l’uguaglianza delle condizioni sociali. Tocqueville sottolinea, per esempio, come alla libertà degli individui, eguali perché non più assoggettati a vincoli di dipendenza gerarchici, possa conseguire il loro isolamento, il loro anonimato e addirittura una nuova forma schiavitù; o come al potere, non più identifi cabile e rappresentabile secondo un ordine naturale o trascendente (potere dunque di nessuno o, astrattamente, del popolo), possa conseguire il rischio di un potere illimitato, non controbilanciato da alcun’altra autorità, esteso ed estendibile ad ogni aspetto della vita sociale. In fondo Lefort, nella sua analisi della democrazia, non cerca altro se non di far sorgere tale antinomia – per rintracciare in essa la fonte del totalitarismo moderno ma anche, come vedremo, per rilanciare lo stesso pensiero democratico.

11 C. Lefort, L’immagine del corpo e il totalitarismo, cit., p. 120.12 Ivi, pp. 120-121.

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A tutto ciò segue l’incapacità del Potere di condensare in sé l’unità del Sapere e della Legge: queste sfere si sfaldano, si separano le une dalle altre, ciascuna si afferma secondo una propria irriducibilità e nell’impossibilità di determinare una propria essenza e un proprio fondamento certo.

La società nel suo complesso risulta inafferrabile e indefi nibile, sottopo-sta a una molteplicità di discorsi che tentano di comprenderla nell’impos-sibilità di riuscirci in maniera esaustiva.

In particolare il potere non è più un luogo legato a un corpo e a una sostanza rappresentabile, nessun individuo e nessun gruppo gli possono es-sere consustanziali, né possono appropriarsene o identifi carsi con esso e in esso. Il luogo del potere diventa un luogo vuoto (lieu vide), de-localizzato, non occupabile se non temporaneamente e attraverso una procedura che istituzionalizza la competizione formale, il confl itto, e dunque la rimessa in gioco periodica del suo esercizio.

Insomma, per Lefort, la democrazia si istituisce e si mantiene nella dis-soluzione dei punti di riferimento certi, inaugurando una società sottoposta alla prova di una radicale indeterminatezza. Si tratta di «una società di-venuta teatro di un’avventura incontrollabile, nella quale tutto ciò che si istituisce non è mai stabilito, il noto rimane minato dall’ignoto; una società nella quale il presente si rivela multiforme, frammentato in tempi sociali discordanti gli uni rispetto agli altri […]; teatro di un’avventura tale per cui la ricerca dell’identità non è separabile dall’esperienza della divisione»13.

Il potere – che per Lefort è sempre e soprattutto istanza simbolica di legittimità e identità – nella misura in cui è lieu vide, nella misura in cui si proclama potere di nessuno e accenna a una propria origine immanente nel popolo, «rischia di vedere annullata la sua dimensione simbolica e di assumere lo statuto di realtà e contingenza, all’interno delle rappresenta-zioni collettive, nel momento in cui i confl itti si inaspriscono e conducono la società al limite della frattura»14.

5. Con la democrazia affi ora dunque l’immagine di una società irrappre-sentabile e indeterminata, “al limite della frattura” e in balia della divisione sociale. È in questo tipo di società fragile che Lefort rintraccia le condizio-ni di uno sfasamento della logica democratica in una logica totalitaria:

Quando aumenta l’insicurezza degli individui, in seguito ad una crisi econo-mica o alle devastazioni di una guerra; quando il confl itto tra le classi e i gruppi si esaspera senza trovare una soluzione simbolica nella sfera politica; quando

13 Ivi, p. 122.14 Ibidem.

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il potere sembra decadere sul piano del reale, fi no ad apparire qualcosa di par-ticolare al servizio degli interessi e degli appetiti di ambizioni volgari […], e quando allo stesso tempo la società si mostra come frammentata, è allora che si sviluppa il fantasma del popolo-Uno, la ricerca di un’identità sostanziale, di un corpo sociale saldato con la sua testa, di un potere incarnatore, di uno Stato affrancato dalla divisione15.

Dunque alla disincorporazione democratica succede nuovamente, con il totalitarismo moderno, l’immagine del corpo.

Le indagini di Lefort si concentrano sulla variante socialista del tota-litarismo, il quale risponde ad una doppia logica convergente di identi-fi cazione e di incorporazione. Nell’ideologia totalitaria «si innesca una logica dell’identifi cazione governata dalla rappresentazione di un potere incarnatore»16. L’identifi cazione avviene come incarnazione, l’incarnazio-ne come identifi cazione; oltre al corpo e all’identità torna dunque una logi-ca sostanzialista. Seguiamone la concatenazione.

All’immagine dell’indeterminato e inafferrabile popolo democratico si sostituisce l’immagine di un Popolo presente a sé, identico a sé e traspa-rente a sé. La divisione del sociale così come il confl itto in seno alla società sono dunque negati e sublimati nella rappresentazione di un popolo-Uno, indiviso ed omogeneo. Nulla gli è esterno, se non l’Altro, il nemico.

Stato e società civile si confondono, sono l’integrità di un unico corpo. Il Potere è detenuto da un Partito unico. Ma il Partito non è nella società, bensì è la società, cioè è il Popolo la cui quintessenza è il Proletariato.

Potere, Legge e Sapere si condensano: solo il Potere conosce i principi, le norme e i fi ni ultimi delle pratiche sociali. Il Potere, onnisciente ed on-nipotente, può così enunciare il reale in quanto tale, diffondendo la propria ideologia e i propri sistemi di socializzazione in ogni ambito della società17.

Il totalitarismo può dunque essere considerato una risposta all’impasse offerta dalla “crisi democratica” o dalla “democrazia in quanto crisi”, come ben osserva Jean-Luc Nancy, attento lettore di Lefort18.

15 C. Lefort, La questione della democrazia, cit., p. 30.16 Ivi, p. 22.17 Per Lefort, una delle caratteristiche che distingue il totalitarismo moderno da altre

precedenti forme di dispotismo è per esempio la scomparsa della logica del dop-pio corpo del re e del potere. Il potere non è più anche al di là del sociale (non è più anche trascendente, anche invisibile, anche separato…): ora è totalmente immanente, integrato in un corpo politico-sociale – il corpo del Popolo in defi ni-tiva – che funziona come un organismo il cui movimento è teleologico, teso verso la produzione di un “uomo nuovo” e di un’umanità compiutamente emancipata.

18 «Qui il totalitarismo è pensato ogni volta come il tentativo di una ri-sostanzia-

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6. Le rifl essioni sulla democrazia fi nora presentate non sono fi nalizzate ad un rifi uto della stessa. Il fatto che la società democratica inauguri l’espe-rienza di una radicale indeterminatezza e la dissoluzione di ogni fonda-mento non rende ineluttabile il rifl usso totalitario, con tutto il suo “corpo” di verità, identità e certezze totalizzanti. Che Lefort e Nancy scorgano nel totalitarismo una risposta alle diffi coltà della democrazia, non impedisce loro di vedere nel senso della democrazia – proprio nella radicale inde-terminatezza e nella dissoluzione di ogni fondamento – un’altra apertura e un’altra istanza politica, precisamente democratica e anti-totalitaria. In-somma la democrazia può essere pensata, e rilanciata, altrimenti. Perlome-no ci sembra che la rifl essione politica dei pensatori francesi, a cui prima abbiamo accennato, si concentri, in un modo o nell’altro, nella difesa di una tale apertura “democratica” o, quando tale nome è inaccettabile per alcuni (Badiou19), radicalmente “egualitaria”.

lizzazione forsennata – di una re-incorporazione o di una re-incarnazione, di una ri-organizzazione nel senso più forte e differenziato – del “corpo sociale”. Quasi sempre ciò equivale a dire che il totalitarismo è la risposta o il tentativo di uscire dall’impasse offerta dalla, nella e come ciò che si potrebbe chiamare “crisi de-mocratica”: la democrazia in quanto crisi. Cioè: la sparizione del trittico autorità-tradizione-religione, la disincarnazione del potere, la dissoluzione del fondamento o la perdita della trascendenza (mitico-religiosa o fi losofi ca: ragione, natura, etc.), lo sconvolgimento delle gerarchie e dei modi di differenziazione sociale, la delo-calizzazione del politico (il “luogo vuoto” del potere, secondo Lefort) e la regola dell’alternanza, la desostanzializzazione del corpo politico che non fa più uno se non nella pura dispersione del suffragio, la cosa politica consegnata infi ne al gioco degli interessi, etc.» (J.-L Nancy, P. Lacoue-Labarthe, Le “retrait” du politique (1982), in Aa. Vv., Le retrait du politique, cit., pp. 189-190, trad. nostra).

19 In realtà le rifl essioni di Badiou intorno alla democrazia ci sembrano ambiva-lenti. Da un lato, qualifi candola come “capital-parlamentare”, la critica radical-mente; dall’altro, identifi candola col concetto di comunismo e col deperimento dello Stato, ne conserva un uso positivo. Come per Platone la democrazia è un regime anarchico abbandonato alla sfrenatezza egoistica dei desideri individuali e all’equivalenza generale, così per Badiou la democrazia è una fi gura del ni-chilismo nel suo identifi carsi con l’economia capitalistica secondo la quale “tut-to si equivale”. Oltre a rinviare al Capitale, dice Badiou, la democrazia rinvia, nell’attuale propaganda, ad una particolare forma di Stato – il parlamentarismo. È per questo che la defi nisce “capital-parlamentare” (cfr. A. Badiou, D’un désastre obscur. Droit, État, Politique, Éditions de l’Aube, La Tour d’Aigues 1991; A. Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, Circonstances , 4, Nouvelles Éditions Lignes, Paris 2007; (A. Badiou, Sarkozy: di che cosa è il nome?, trad. it. di L. Boni, Cronopio, Napoli 2009). La democrazia capital-parlamentare, così intesa, non sembra affatto essere estranea al regime totalizzante dell’Uno. «Noi siamo, politicamente, nel regime dell’Uno, e non in quello del molteplice. Il capital-par-lamentarismo è il modo tendenzialmente unico della politica, il solo a combinare

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Si potrebbe dire, semplifi cando, che tutti questi fi losofi sostengano un pensiero che fa di tale indeterminatezza – che la si colga come originaria divisione del sociale oppure come originaria indeterminatezza ontologica: potremmo dunque parlare di indeterminatezza politico-ontologica – la fon-te, e la forza, di un pensiero radicalmente egualitario e vigile: “egualitario” nel senso dell’eguaglianza di tutti con tutti di fronte all’assenza di certezze e di fondamenti, e dunque nel senso anche dell’eguaglianza nella differen-za e nella libertà di ciascuno; “vigile” invece nei confronti di ogni forma di chiusura, che questa assuma la fi gura totalizzante del corpo totalitario o la fi gura dello Stato come forma dell’Uno e dell’ordine costituito.

Tuttavia bisogna precisare che le loro idee seguono ciascuna una propria articolazione e che non tutti questi pensatori fi niscono per assumere delle posizioni iper-radicali nel senso, di ispirazione marxiana, di un rifi uto ca-tegorico dello Stato20.

l’effi cacità economica (quindi il profi tto di chi detiene la proprietà) e il consenso popolare. […]. Bisogna ormai sostenere che il capital-parlamentarismo serve da defi nizione politica all’umanità intera» (A. Badiou, D’un désastre obscur, cit., p. 37, trad. nostra). Tuttavia, precisato questo, Badiou si dichiara favorevole ad un uso positivo della parola “democrazia”, se con essa non si intende una forma dello Stato e dell’Uno. Ne conserva infatti una valenza positiva se ricondotta ad un senso “comunista”: vale a dire al senso di una politica radicalmente “egualitaria”, quella che si è avviata a partire dall’universalismo egualitario della Rivoluzione francese e che, come un’invariante, persiste in ogni lotta per l’emancipazione. «Cosa signifi ca “comunista” in assoluto? Cosa può pensare la fi losofi a sotto que-sto nome? La passione egualitaria, l’Idea di giustizia, la volontà di rompere con gli accomodamenti del servizio dei beni, il superamento dell’egoismo, l’intolleranza verso le oppressioni, il desiderio di abolire lo Stato. […]. La tenace ostinazione militante […] a volersi attenere ai propositi […] di un’infi nità indeterminata e senza gerarchia immanente, a ciò che chiamo il generico, e che è – quando la sua procedura è politica – il concetto ontologico della democrazia, o, è la stessa cosa, del comunismo» (A. Badiou, D’un désastre obscur, cit., pp. 13-14, trad. nostra). In quest’ultimo passaggio, in cui sembra di sentire Lefort e la sua concezione del-la democrazia come “radicale indeterminatezza”, risulta evidente l’ambivalenza con la quale Badiou tratta la democrazia. Forse sarebbe più corretto dire che da tutte queste rifl essioni risulta innanzitutto l’ambivalenza della stessa democrazia, quell’ambivalenza a partire dalla quale, prima Lefort, e poi Nancy, hanno sentito l’urgenza di rimetterne in questione il senso.

20 Sarebbe interessante rintracciare e rilevare, in questi fi losofi , le diverse sfumature delle loro rifl essioni in merito al concetto di Stato e alla fi gura ontologico-politica dell’Uno. Da tali rifl essioni emergerebbero utili indicazioni sul loro pensiero della democrazia. Qui vale la pena di ricordare la critica marxiana dello Stato, che riteniamo abbia parecchio infl uenzato le loro considerazioni sulla democrazia: per Marx, la strategia rivoluzionaria che porta alla società comunista prevede la dissoluzione dello Stato, cioè il venir meno di quella sfera separata dall’esistenza

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Ad ogni modo, per Lefort, bisogna pensare positivamente la democra-zia: essa è il solo regime che, assumendo l’indeterminatezza e l’originaria divisione del sociale, legittima il confl itto, le differenze e la competizione per il potere; in una parola, permette la libertà.

Come ha fatto notare Miguel Abensour, l’essenza della democrazia le-fortiana è di essere selvaggia. Scrive infatti Lefort:

È vero che nessuno possiede la formula della democrazia e che essa realizza più profondamente se stessa essendo democrazia selvaggia. Forse è proprio questo che costituisce la sua essenza; dal momento in cui non c’è più un punto di riferimento ultimo, a partire dal quale l’ordine sociale potrebbe essere con-cepito e fi ssato, quest’ordine sociale è costantemente in cerca di fondamenti, della sua legittimità, e la democrazia trova la sua risorsa più effi cace nella con-testazione e nella rivendicazione di coloro che sono esclusi dai suoi benefi ci21.

Il termine “selvaggia” consegna la democrazia all’idea di indipendenza da ogni principio (arché) e da ogni autorità data, rivelandola come indoma-bile. L’essenza selvaggia della democrazia consiste dunque nel non essere né addomesticata né addomesticabile, ovvero nella resistenza e nella non sottomissione all’ordine stabilito.

Al discorso sulla democrazia come resistenza si dovrebbe poi accom-pagnare un discorso sul diritto22: nella sua indomabilità, la democrazia designa anche l’insieme delle lotte e delle rivendicazioni egualitarie per la difesa dei diritti acquisiti o non ancora riconosciuti. La lotta politica si confi gurerebbe dunque come una lotta permanente per il diritto e quindi per un rapporto sociale orientato ad un ordine non-stabilito, cioè né co-strittivo né gerarchico – “contro lo Stato”, secondo un’espressione cara ad Abensour23.

concreta degli individui che è la sfera alienante, astratta e illusoria della politica. È in questo contesto che viene messo in gioco il suo concetto di democrazia come auto-determinazione, auto-appropriazione e presentazione di sé del popolo con-creto (K. Marx, Critica della fi losofi a hegeliana del diritto pubblico (1843), trad. it. di G. Della Volpe, Quodlibet, Macerata 2008, pp. 69-71).

21 C. Lefort, La communication démocratique, intervista di P. Thibaud, “Esprit”, n. 9-10, Paris Septembre-Octobre 1979, p. 34. Questo passo è citato in M. Abensour, La Démocratie contre l’État. Marx et le moment machiavélien (1997) suivi de “Démocratie sauvage” et “principe d’anarchie” (1993), Édition du Félin, Paris 2004; (M. Abensour, “Democrazia selvaggia” e “principio d’anarchia”, in Id., La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, trad. it. di M. Pezzella, Cronopio, Napoli 2008, p. 178).

22 M. Abensour, “Democrazia selvaggia” e “principio d’anarchia”, cit., pp. 178-180.23 La democrazia selvaggia «potrebbe essere una fi gura possibile, un nome, della

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7. Si tratta ora di fare qualche cenno alle rifl essioni di Jean-Luc Nancy intorno al senso della democrazia. Per fare ciò, qui, non possiamo che ri-tagliare il pensiero nancyano del politico, semplifi candolo, come se fosse possibile circoscriverlo dall’ambito del suo intero percorso fi losofi co, il quale riteniamo si mantenga in una dimensione essenzialmente ontologico-politica, di cui bisognerebbe render conto, ma che lasceremo sullo sfondo.

Abbiamo visto che l’approccio di Lefort alla questione della democrazia si tiene soprattutto su un piano simbolico: l’immagine della democrazia che ne emerge è quella della radicale indeterminatezza. Potremmo dire lo stesso dell’approccio di Nancy che, assieme a Lacoue-Labarthe, nel 1990, pongono anch’essi il problema dell’immagine della democrazia: «Pensia-mo […] che la democrazia pone – o deve porre – il problema della propria “immagine”»24. Dunque ci chiediamo: qual è l’immagine della democrazia per Nancy? O meglio, come si confi gura, come si traccia, come si disegna una politica democratica?

8. Il nostro tempo, scrive Nancy, è contrassegnato dalla generalizzata «impresentazione di tutto quanto poteva costituirsi come senso, verità o fondamento»25. Si tratta di fare i conti, in una parola, con la sentenza nietz-schiana sulla “morte di Dio” e con il risvolto politico che ne consegue.

Tutto ciò implica infatti la sospensione di ogni fondazione fi losofi co-metafi sica del politico: «Questa fondazione rappresenta questo: che il poli-tico sia il luogo dell’effettuazione di un’essenza»26. Che il politico si possa “fondare” vuole dire pensare il politico come lo spazio in cui sia da realiz-zare l’essenza di una comunità; o meglio, vuol dire considerare lo spazio politico come lo spazio in cui sia da realizzare una comunità che identifi ca il legame sociale dei propri membri in una trascendenza (essenza, Idea,

democrazia contro lo Stato […], essa sembra diffi cilmente compatibile con lo Stato, la cui esistenza richiede fondamento, certezza e riferimento a un principio primo» (M. Abensour, La democrazia insorgente, in Id., La democrazia contro lo Stato, cit., p. 19).

24 J.-L. Nancy, P. Lacoue-Labarthe, Le mythe nazi, Éditions de l’Aube, La Tour d’Aigues 1991; (J.-L. Nancy, P. Lacoue-Labarthe, Il mito nazi, trad. it. di C. An-gelino, Il melangolo, Genova 1992, p. 20).

25 J.-L. Nancy, La comparution (De l’existence du “communisme” à la communauté de l’“ existence”), in J.-L. Nancy, J.-C. Bailly, La comparution (politique à venir), Christian Bourgois Éditeur, Paris 1991; (J.-L. Nancy, La comparizione (Dall’esis-tenza del “comunismo” alla comunità dell’“esistenza”), trad. it. di M. Armano, in Aa. Vv., Politica, Cronopio, Napoli 1993, p. 13).

26 J.-L. Nancy, Rien que le monde, intervista di S. Grelet e M. Potte-Bonneville, “Vacarme”, n. 11, Paris 2000, p. 5 (trad. nostra).

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etc.), fi nendo così per fare della comunità una totalità chiusa e organica. Vuol dire insomma pensare che una tale comunità “ingenita” possa darsi o destinarsi.

Ma, se l’essenza metafi sica del politico consiste nel realizzare l’essenza di una comunità, cioè nel sussumere ogni sfera dell’esistenza e di ciò che è “comune”, allora un tale pensiero non ci sembra affatto privo di rapporti con le rifl essioni di Lefort sul totalitarismo.

Il totalitarismo moderno (Lefort) e l’essenza metafi sica del politico (Nan-cy) sono dei tentativi di sostanzializzazione ed essenzializzazione dello spa-zio politico, attraverso un processo di identifi cazione mediante il quale una comunità si identifi ca e si rappresenta nell’immagine di un Uno – che sia l’Idea trascendente di Popolo o di Razza, di Proletariato o di Stato, etc.

Dunque, cosa signifi ca l’importante espressione nancyana retrait du po-litique?

Ciò che deve essere considerato “ritratto” (abbandonato27, impossibile) è la fondazione fi losofi co-metafi sica del politico, cioè appunto le politique inteso come donazione di un’essenza o di una destinazione comune, tota-lizzante e trascendente: «Il ritrarsi appare in primo luogo come il ritrarsi della trascendenza»28.

Non si tratta però di rendere presente ciò che si è ritratto, non si tratta di recuperare la trascendenza ritirata. Non si tratta di ri-fondare il politico, ma di ri-pensarlo.

Bisogna pensare che il politico è, essenzialmente, retrait du politique: bisogna pensare l’essenza del politico in quanto essenziale ritrarsi di ogni fondamento della comunità: «Non c’è da “uscire” dal ritrarsi, ma da fare la prova di questo, che il politico s’articola senza dubbio come un “ritrarsi” essenziale o secondo un “ritrarsi” essenziale, che è forse il ritrarsi dell’uni-tà, della totalità e della manifestazione effettiva della comunità»29 – e quin-di anche di ogni determinazione del politico.

Ancora una volta notiamo che le rifl essioni di Nancy sono in conso-nanza con quelle di Lefort: all’“indeterminatezza democratica” di Lefort si accorda l’“indeterminatezza del politico” di Nancy, l’impossibilità di

27 L’aggettivo “abbandonato” ci sembra particolarmente pertinente per comprendere il concetto di retrait. Potremmo infatti sovrapporre il concetto di retrait du politi-que a quello di être abandonné (cfr. J.-L. Nancy, L’être abandonné (1981), in Id., L’impératif catégorique, Flammarion, Paris 1983; (J.-L. Nancy, L’essere abban-donato, in Id., L’imperativo categorico, trad. it. F. Palese, Besa, Lecce 2007).

28 J.-L. Nancy, P. Lacoue-Labarthe, Le “retrait” du politique, cit., p. 192 (trad. nostra).

29 Ivi, p. 195 (trad. nostra).

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determinarne la specifi cità: «Il politico si ritira, nella sua specifi cità deter-minabile e presentabile, […] in questa indeterminazione»30.

Alla luce di tutto ciò, chiediamoci: quale politica31 può essere pensata all’altezza di una tale concezione del politico in quanto retrait du poli-tique? O detto altrimenti, in che modo è pensabile la distinzione di una politica, a partire dallo sfondo indeterminato del politico?

9. Il fatto che al retrait del politico consegua l’indeterminatezza onto-logica del politico, non signifi ca che una politica non si possa pensare e ri-tracciare (re-tracer), non signifi ca che non si possa disporre di un’“im-magine” di una politica possibile – sebbene tale immagine debba essere concepita come un “tracciato”, piuttosto che come un “volto” determina-bile ed identifi cabile.

È la politica democratica ad essere pensabile all’altezza del ritrarsi e dell’indeterminatezza del senso del politico: «La “democrazia” […]: è il ritrarsi del politico»32; «“La democrazia” rappresenta soltanto il senso in-determinato […], consistendo proprio in ciò la sua verità, una verità asso-lutamente vuota [vérité résolument vide]»33.

In quest’ultimo brano, le voci di Nancy e Lefort sembrano incrociarsi nuovamente: associate alla democrazia, ritornano le immagini dell’indeter-minatezza ontologica e del vuoto (vide) – vuoto è il luogo del potere demo-cratico (Lefort), vuoto è il senso (la verità) della democrazia (Nancy).

Ma, se il senso della democrazia consiste nell’indeterminatezza e nel vuoto, allora, il principio stesso della democrazia – la sovranità del popolo (demos) – è infondato. In ciò consistono l’aspetto anarchico della demo-crazia e il suo scandalo.

Da un lato, infatti, la sovranità del popolo non si deposita in nessuna fi gura, essenza o forma determinabile. La democrazia implica dunque

30 Ibidem (trad. nostra).31 Siamo costretti a lasciare completamente sullo sfondo le differenti sfumature e gli

slittamenti concettuali del modo in cui Nancy tratta il rapporto tra il politico (le politique) e la politica (la politique). In ogni caso, grosso modo, con “il politico” indichiamo l’essenza della “cosa” politica, con “la politica” l’esercizio e l’azione politica (o il “potere” politico). Tale distinzione in realtà è molto più problematica e labile di quello che può sembrare – lo stesso Nancy l’ha recentemente criticata. Tuttavia, a titolo meramente orientativo, qui la conserviamo.

32 J.-L. Nancy, Changement de monde (1998), in Id., La pensée dérobée, Galilée, Paris 2001; (J.-L. Nancy, Cambiamento di mondo, in Id., Il pensiero sottratto, trad. it. di M. Vergani, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 158).

33 J.-L. Nancy, Le sens du monde, Galilée, Paris 1993; (J.-L. Nancy, Il senso del mondo, trad. it. di F. Ferrari Lanfranchi, Milano 1997, p. 113).

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qualche cosa dell’anarchia: «La politica democratica rinuncia a darsi una confi gurazione» e un’Identifi cazione34; la democrazia «non è, per essenza, fi gurale»35; o ancora: «Se il popolo è sovrano, deve farsi carico di ciò che Bataille intende quando scrive che la sovranità non è niente. Essa non si depone in nessuna persona, non si delinea [ne se fi gure] in nessun contorno, non si erige in nessuna stele: essa è, semplicemente, il supremo. Niente al di sopra. Né Dio né Maestro. In questo senso democrazia vale anarchia»36.

La stessa parola “democrazia”, nota Nancy, non rinvia nel proprio suf-fi sso all’archia – cioè ad un principio che fonda e legittima il potere, come per esempio avviene per le parole “monarchia”, “oligarchia”, “gerarchia” –, ma semmai al kratos – cioè ad una potenza e ad un potere infondato: «La parola “democrazia” sembra tenere ciò che designa lontano dalla possibili-tà di un principio fondatore. E di fatto, bisogna dire che la democrazia im-plica per essenza qualcosa di un’anarchia che si vorrebbe quasi dire di prin-cipio […]. Non c’è “demarchia”: il “popolo” non costituisce principio»37.

34 J.-L. Nancy, Verità della democrazia, cit., p. 54.35 Ivi, p. 55.36 Ivi, pp. 62-63. Il cenno a Bataille si riferisce a G. Bataille, La Souveraineté (1953-

1954), in Id., Œuvres complètes, VIII, Gallimard, Paris 1976; (G. Bataille, La sovranità, trad. it. di L. Gabellone, SE, Milano 2009).

37 J.-L. Nancy, Démocratie fi nie et infi nie, in Aa. Vv., Démocratie, dans quel état?, La fabrique, Paris 2009; (J.-L. Nancy, Democrazia fi nita e infi nita, trad. it. di C. Milani, in Aa. Vv., In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma 2010, p. 105). Bisognerebbe ricostruire le rifl essioni di Nancy intorno alla “sovranità” e al “popolo”, alla “sovranità del popolo”. Tutto ciò esula dal nostro lavoro, ma pos-siamo darne un’idea richiamandoci ad un saggio che Nancy scrive per un colloque su Derrida nel 2002. Il “niente” della sovranità del popolo signifi ca che nella democrazia il popolo non rinvia a null’altro – né a Dio, né al Re, etc. – che a sé stesso. Ma il Sé (stesso) del popolo è appunto “niente”, cioè è introvabile, irrap-presentabile ed inappropriabile (“le ‘peuple’ ne fait pas principe”, è senza identità e proprietà). Come se il popolo, dichiarandosi e rap-presentandosi, cercasse di trovarsi, di farsi Soggetto – mancandosi ogni volta, all’infi nito; mancando ogni volta, sovranamente, la propria Sovranità (la sua è “sovranità senza Sovranità”: in ciò, in tale “mancar-si”, sta forse la sua incommensurabile libertà sovrana). Tutta-via, per Nancy, il popolo è la cosa più concreta e reale che ci sia, esiste e non è da fondare: si presenta in tutto ciò che, sempre ogni volta, c’è, ovvero in quel “noi” che è la nostra esistenza esposta ed abbandonata alla condivisione dell’assenza di ogni senso e di ogni identità rap-presentabile. In ogni dire del popolo, in ogni suo dirsi e appellarsi (vox populi), vi è un siffatto irrappresentabile – ma, proprio per questo, vi è anche la potenza, la distinzione e la resistenza contro il “grido dei dittatori”, contro coloro che vogliono conquistare per sé stessi l’enunciazione del popolo, la “nostra” voce. Ma “noi” chi? La risposta a tutto questo impegna l’intera rifl essione ontologica di Nancy sull’essere-in-comune e sull’être-avec (J.-L. Nan-cy, (Senza titolo), in Aa.Vv., La démocratie à venir. Autour de Jacques Derrida,

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Dall’altro lato, è proprio il fondamento anarchico della democrazia a fare di essa uno scandalo: la radicale uguaglianza democratica risiede nel fatto, scandaloso, che non esiste alcun arché legittimante il potere del go-verno democratico. Il governo si fonda sul potere di chiunque, e non di un Padre, come si evince, per esempio, dalla procedura del sorteggio utilizzata dagli ateniesi per decidere la distribuzione dei ranghi: il sorteggio non solo garantisce che il potere non sia esercitato da chi lo desidera o ne è interes-sato per fi ni privati, ma permette il “potere degli uguali”, cioè «il potere di coloro che non hanno nessuna ragione naturale per governare su coloro che non hanno nessuna ragione naturale per essere governati»38 (Rancière).

10. Tutto ciò – la democrazia: la sua indeterminatezza, il suo vuoto, il suo scandalo anarchico, la sua radicale uguaglianza –, tutto ciò ci dice che la democrazia, prima ancora di impegnare una “forma” politica39, impegna ontologicamente l’uomo.

“Democrazia”, scrive Nancy, «è il nome […] di un’umanità che si trova espo-sta all’assenza di ogni fi ne dato [absence de toute fi n donnée]»40. La democrazia rinvia all’uomo, nel senso che sottrae all’uomo ogni determinazione e ogni de-stinazione che non siano la propria (umana) determinazione e destinazione, lo proclama libero ed emancipato. «Ma liberando l’uomo, l’ha liberato in primo luogo anche da ogni determinazione e da ogni destinazione in generale»41: la propria determinazione è dunque anch’essa indeterminata, non vi è una “natu-ra” umana, l’uomo è sempre in difetto, o in eccesso, rispetto ad essa – è sempre “snaturato”. La democrazia, «non potendo essere fondata su un principio tra-scendente, è necessariamente fondata, o infondata, sull’assenza di una natura umana»42: l’uomo supera infi nitamente l’uomo43, conclude allora Nancy.

Ma a quale rischi si espone lo snaturato ed emancipato uomo democra-tico?

sous la direction de M.-L. Mallet, Galilée, Paris 2004). 38 J. Rancière, La haine de la démocratie, La Fabrique, Paris 2005; (J. Rancière,

L’odio per la democrazia, trad. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2007, p. 58).39 Se una “forma” politica può essere impegnata: «La verità della democrazia è que-

sta: essa non è una forma politica tra le altre [...]. Non è affatto una forma politica, o almeno non è in primo luogo una forma politica. È per questo che facciamo tanta fatica a trovarle la sua giusta o buona determinazione» (J.-L. Nancy, Verità della democrazia, cit., p. 65).

40 J.-L. Nancy, Democrazia fi nita e infi nita, cit., p. 117.41 J.-L. Nancy, La liberté vient du dehors, in Id., La pensée dérobée, cit.; (J.-L.

Nancy, La libertà viene dal di fuori, in Id., Il pensiero sottratto, cit., p. 140).42 J.-L. Nancy, Democrazia fi nita e infi nita, cit., p. 106. 43 J.-L. Nancy, Verità della democrazia, cit., p. 23.

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11. L’“indeterminato” uomo democratico si espone oggi allo spazio in-determinato per eccellenza, lo spazio dell’economia capitalistica. Diciamo che tale spazio è indeterminato, nel senso che si tratta dello spazio in-sen-sato di un’indeterminatezza nichilistica. Come si può leggere in Marx44, il movimento del Capitale è affrancamento da ogni senso, da ogni valore e da ogni fi ne dati e certi – il suo movimento realizza una volatilizzazione di tutto ciò che è stabilito e sostanziale (classi, relazioni sociali e storiche, sovranità nazionali, etc.). Ma tale affrancamento risulta essere nichilisti-co: l’enunciato dello spazio capitalistico è “tutto si equivale”: sensi, valori e fi ni si equivalgono, sono indistinguibili, interscambiabili o comunque transitori: l’unico valore che il capitalismo conosce è dunque il principio di commensurabilità, di equivalenza generale, cioè, marxianamente, la produzione della forma-merce e del valore di scambio e, come corolla-rio, l’accumulazione del capitale e le relative disuguaglianze reali. «Non siamo forse “liberati” che per essere “liberamente” spediti nell’in-sensato dell’equivalenza generale (e della sua disuguaglianza mortifera)?»45.

Malgrado tale rischio, insiste Nancy, «non possiamo rinunciare all’af-francamento che ci ha emancipato dai principi e dai fi ni, e sappiamo che questa emancipazione è stata proprio quella dell’uomo»46, dell’uomo, ap-punto, in quanto infi nito superamento di se stesso.

Il senso dell’uomo è dunque all’infi nito – né in un Dio, né in una propria natura, né nella nichilistica circolazione dell’equivalenza capitalistica, ma ne-anche nella sfera del governo o della politica democratica –, è insomma incom-mensurabile: «Si tratta di pensare che l’uomo, decisamente solo, senza Princi-pe né Dio, deve avere il suo senso altrove, all’infi nito, al di là del governo»47.

Qual è allora il compito della politica democratica?

44 Cfr. K. Marx, Manifesto del partito comunista (1848), trad. it. di B. Lotti e M. Monaldi, BUR, Milano 2001, in particolare pp. 53-59.

45 J.-L. Nancy, La libertà viene dal di fuori, cit., p. 141.46 Ibidem. Si può dunque dire che sia l’indeterminatezza della democrazia, sia il

movimento del capitale posseggano una spinta emancipatrice e di affrancamento. Ma dobbiamo precisare, ancora una volta, che tale spinta è ambivalente: per quanto riguarda la democrazia abbiamo visto il rischio di una deriva totalitaria come risposta alla sua crisi, alla sua fragilità; per quanto riguarda il capitalismo, l’affrancamento del capitale tende a confi gurarsi come nichilistico, in ogni caso portatore di una disuguaglianza conseguente all’accumulazione della ricchezza e alla privatizzazione del profi tto.

47 J.-L. Nancy, Le désir des formes, intervista di G. Michaud, “Europe”, n. 960, Paris avril 2009, p. 215 (trad. nostra).

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12. Lefort e Nancy ci insegnano che la politica democratica non può es-sere il luogo dell’assunzione e della realizzazione del senso e dei fi ni della comunità (tale luogo è vide); non può sussumere ogni sfera dell’esistenza e di ciò che è “comune” (è indeterminata e senza principio); non può essere “tutto” secondo l’espressione “tutto è politica”.

Ciò detto, una tale politica non può che essere al di qua di quello che è l’infi nito incommensurabile senso dell’uomo e del mondo, cioè non può che essere una sfera distinta e separata rispetto a ogni altro ambito non politico dell’esistenza.

Per dirla con le parole di Nancy: la politica democratica è «politica che si ritrae dall’assunzione [politique en retrait d’assomption]. […]. Pone come assioma che né tutto (né il tutto) è politica. Che tutto (o il tutto) è molteplice, singolare-plurale, inscrizione in frammenti fi niti di un infi nito in atto (“arti”, “pensieri”, “amori”, “gesti”, “passioni”, possono essere al-cuni nomi di questi frammenti)»48.

La democrazia deve dunque essere compresa nella propria distinzione e, a partire da qui, deve essere pensata come il luogo dell’esercizio di un “potere” il cui compito è proprio quello di non realizzare alcun senso o valore, e di non porre alcun(a) fi ne (o misura) alla(e) incommensurabilità dell’uomo e del mondo.

Detto altrimenti, all’opposto della calcolabilità nichilistico-capitalistica, la politica democratica deve rendere possibile e far esistere l’incalcolabi-lità di ogni sfera dell’esistenza; deve sempre permettere l’apertura delle sfere del senso, «quelle che designano più o meno bene le parole “arte”, “pensiero”, “amore”, “desiderio” o tutti gli altri possibili nomi del rapporto all’infi nito»49.

Permettere l’apertura delle sfere del senso, signifi ca accogliere la singo-larità di ogni affermazione di senso e di valore: la politica democratica

non fa che disegnare il contorno o i contorni plurali di un’indeterminazione nella cui apertura possono aver luogo delle affermazioni. La politica non af-ferma, accoglie le esigenze dell’affermazione. Non produce né il “senso” né il “valore”, permette che essi trovino posto e che questo posto non sia quello di un signifi cato compiuto, realizzato e reifi cato che abbia la pretesa di essere una fi gura compiuta del politico […]: rende possibile una proliferazione di fi gure affermate, inventate, create, immaginate, e così via50.

48 J.-L. Nancy, Verità della democrazia, cit., p. 66. 49 J.-L. Nancy, Democrazia fi nita e infi nita, cit., p. 103.50 J.-L. Nancy, Verità della democrazia, cit., pp. 53-54.

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È allora evidente che la politica democratica, facendosi carico di di-segnare i contorni indeterminati affi nché possa affermarsi l’incommensu-rabilità, vale a dire la differenza e la distinzione di ogni senso e di ogni valore, non può essere confusa con la prassi nichilistica dell’equivalenza (indistinzione) generale. Al contrario.

Se l’enunciato nichilistico dello spazio capitalistico è “tutto si equivale” – principio di equivalenza –, la democrazia invece ci richiama ad un com-pito di distinzione e all’affermazione dell’enunciato “niente si equivale” – principio di inequivalenza.

Tale compito, dice Nancy, confi gura il bisogno di una democrazia “nietzscheana”51, la quale sola – pensabile come l’affermazione della diffe-renza nella (e come) uguaglianza – può permettere la fuoriuscita dall’indi-stinzione nichilistica: «Il destino della democrazia è legato alla possibilità di una trasformazione del paradigma di equivalenza. Introdurre una nuova inequivalenza che, ovviamente, non sia quella del dominio economico (il cui fondamento resta l’equivalenza) […]. Non si tratterà di introdurre un altro sistema di valori differenziali»52, si tratterà di offrire «a ciascun gesto di valutazione – di decisione d’esistenza, d’opera, di contegno – la possibi-lità di non essere già misurato in anticipo da un sistema dato, ma di essere invece ogni volta, l’affermazione di un “valore” – o di un “senso” – unico, incomparabile, insostituibile»53. L’uscita dal nichilismo non consiste dun-que nell’introdurre o riattivare dei valori, ma nel permettere l’affermazione del valore singolare di tous et chaque un de tous – affermazione che, sullo sfondo dell’indeterminatezza, valga ogni volta per tutti e per ciascuno in-commensurabilmente e infi nitamente.

Tutti e ciascuno, uguali nella propria infi nita differenza: «L’uguaglianza rigorosa è il regime in cui si condividono questi incommensurabili»54, dice Nancy, nella cui voce, ancora una volta, sentiamo risuonare con forza an-che quella di Lefort.

51 Ivi, p. 45.52 Ivi, p. 49.53 Ibidem.54 Ivi, p. 51.

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AUTORI

LUISELLA BATTAGLIA, professore ordinario di Filosofi a Morale e Bioetica. Insegna presso le Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Genova e dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Direttore scientifi co dell’Istituto Italiano di Bioetica. Dal 1999 è membro del Comitato Nazionale per la Bioetica.

LUCA E. CERRETTI, docente di fi losofi a, dottorando presso l’Università di Genova, membro del comitato di redazione di “Glaux. Rivista annuale di fi losofi a”, è autore di saggi e traduzioni sul pensiero contemporaneo.

MARCO DAMONTE, dopo il Bacellierato in Teologia, ha ottenuto il titolo di Dottore di Ricerca in Filosofi a. È membro della redazione di Philosophical News e collabora a diverse riviste fi losofi che.

FILIPPO DOMENICALI, dottore di ricerca in fi losofi a, studioso del pensiero francese contemporaneo, attualmente svolge attività di ricerca come borsista post-doc presso l’Università di Ferrara.

ALESSANDRO ESPOSITO, dottorando in fi losofi a (Università di Genova), ha svolto un periodo di ricerca all’Université Sorbonne Paris III. È studioso della fi losofi a francese contemporanea, con particolare attenzione al pensiero politico.

SIMONA LANGELLA insegna, come professore a contratto, Storia della Filosofi a medievale nell’Università di Genova, ha svolto le sue ricerche in Italia e all’estero come borsista Marie Curie (Università di Genova e Universidad de Salamanca).

LETTERIO MAURO è professore ordinario di Storia della fi losofi a nell’Università di Genova. Si è occupato di varie fi gure del pensiero medievale e contemporaneo riguardo al tema del rapporto tra ragione e fede, e delle relazioni tra musica e fi losofi a tra tardo medioevo e prima età moderna.

EMANUELA MICONI, laureata in Lingue e Letterature straniere e in Filosofi a all’Università di Genova, è attualmente dottoranda di Letterature Comparate presso la stessa università.

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ROBERTO MORANI, dottore di ricerca in Storiografi a e teoresi fi losofi ca, è autore di numerosi saggi sul pensiero di Hegel e Nietzsche.

PAOLO ALDO ROSSI, è professore ordinario del settore scientifi co disciplinare M-STO/05: Storia della scienza e delle tecniche. Insegna Storia del Pensiero Scientifi co, Storia del Pensiero Medico e Biologico e Comunicazioni Scientifi che, Facoltà di Lettere, Dipartimento di Filosofi a - Sezione di Epistemologia - Università degli Studi di Genova.

IGNAZIO SEMINO, ricercatore confermato, insegna Storia della fi losofi a contemporanea presso il Dipartimento di Filosofi a dell’Università di Genova.

PAOLO VIGNOLA, dottore di ricerca in fi losofi a, autore di saggi sul pensiero francese contemporaneo, attualmente è borsista post-doc presso il dipartimento di Filosofi a dell’Università di Genova.

MATTEO ZOPPI, dottore di ricerca, è professore a contratto di Storia della fi losofi a nell’Università di Genova, ha successivamente ottenuto il baccellierato in s. teologia nella Pontifi cia Università Lateranense di Roma.

GIUSEPPE ZUCCARINO è critico e traduttore. Ha pubblicato numerosi volumi saggistici e tradotto, fra l’altro, opere di Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.

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