Città Future · TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE ... adesso è importante poter dare una definizione...

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Rubriche 3 Lavoro, capitale e tecnica nella terza rivoluzione industriale (parte I)

Giulio Trapanese

Americanismo oggi 14 Il precariato. Alcuni cenni Maria Sole Fanuzzi

Americanismo oggi 18 DDl 1167-B destrutturazione dei diritti dei lavoratori. Arbitrato, certificazioni extragiudiziali, licenziamenti verbali… benvenuti nel far west. Claudia Pellegrino, Fabrizio Forte

Coscienza di classe e consenso oggi

21 Programmazione cognitiva Alessandro D'Aloia

inchieste 32 Campione del lavoro Valeria Spadini

Socialismo come fine 38 Il capitalismo invecchia? Nicola Marziale, Marco Amalfi

Socialismo come fine 45 L'Euro in crisi Luigi Bergantino

Questione meridionale 52 La città variante. Salerno e la morte del piano Redazione

Recensioni 57 Due passi nella città dei matti Paolo Fazzari

Recensioni 60 Slavoj Zizek. La violenza invisibile Francesco Palmeri

64 Bibliografia redazionale del numero

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Città Future Rivista politica on line quadrimestrale Redazione Massimo Ammendola (direttore responsabile) Alessandro D’Aloia Giulio Trapanese Sito: www.cittafuture.org Mail: [email protected] Anno I Num. 1 Periodico registrato presso il Tribunale di Napol, autorizzazione n. 25 del 12/04/2010i

Le immagini all’interno della Rivista sono produzione grafica della redazione

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Città Future 3 Lavoro, capitale e tecnica

Lavoro - non lavoro LAVORO, CAPITALE E TECNICA NELLA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (parte I) Giulio Trapanese L’articolo che qui presentiamo è la prima parte pensata all’interno d’un progetto che dovrebbe includere come parti successive gli approfondimenti sul tema del capitalismo cosiddetto «immateriale» e dei risvolti sulla coscienza della precarietà come nuova dimensione di vita.

A mo’ d’introduzione: su spazio e tempo È difficile probabilmente concepire la velocità del tempo storico. Così come quanto in certe sfere della vita umana si assista ad un’accelerazione, in alcuni momenti storici, e ad un rallentamento, in altri momenti: nel campo dello sviluppo delle tecniche o degli strumenti di produzione, come in quelli, invece, della cultura, delle arti e del pensiero. Paul Valery, nei primi anni trenta, nei suoi «Sguardi sul mondo attuale» ritorna continuamente sul tema di tempo e spazio nella nuova società industrializzata e di massa. E sulle conseguenze sulla sfera della sensibilità umana e della sua mente dell’irradiazione ubiquitaria dell’elettricità, del magnetismo, dell’analisi chimica che il livello di sviluppo della scienza e dell’industria nei primi decenni del secolo scorso portava con sé. Il mondo post - elettricità è concepito come incommensurabile rispetto a quello pre-elettricità. Il paragone ardito che Valery fa è addirittura con la periodizzazione convenzionale della storia occidentale nell’era prima di Cristo e dopo di Cristo. Tutto sta cambiando per Valery, velocemente, appunto. La velocità stessa è il cambiamento della nostra civiltà, che è, a sua volta, un cambiamento veloce, rapido, a tratti forsennato. Questa sta riducendo i limiti tradizionali delle distanze spaziali e, quindi, temporali fra gli uomini che abitano il pianeta terra e che da sempre, nelle loro relazioni private, come nei commerci, e, in ultimo, nella produzione industriale, si relazionano reciprocamente,

si confrontano, si aggregano, il tutto sulla base della distanza fisica che intercorre tra le diverse parti del globo, sulla base di distanze di chilometri intervallati dalle forme della geografia terrestre di mari, monti, zone oscure più o meno disabitate, affiancatesi da sempre a centri urbanizzati con maggiore concentrazione di vita umana e cultura. Con il Quattrocento in Europa si dà inizio alla grande stagione dei viaggi oceanici, della ricerca volta alla scoperta e alla conquista, ridisegnando le cartine del mondo su basi nuove, in forme nuove, assegnando di riflesso alla geografia il ruolo di ridefinire il senso delle identità sociali e culturali di popoli, in nuove commistioni e nuovi irrigidimenti. Al giorno d’oggi, invece, ciò che allora era il contenuto di aspettative di un gruppo ristretto di avventurieri e uomini di stato lungimiranti, di progetti d’impresa e di promesse di alcuni mercanti aperti al rischio della novità di mercati e mercanzie, oggi risulta come un elemento affermatosi universalmente, e percepito con la banalità del «sempre nuovo» dei nostri tempi, sugli schermi di qualsiasi, pur mediocre, personal computer, in grado oggi istantaneamente di fotografare la totalità della spazialità geografica della terra, e di permettere, più o meno istantaneamente, e con un dispendio di energia e forza lavoro quasi nulla, una comunicazione telefonica o informatica immediata in luoghi opposti della sfera terrestre. Così la percezione del tempo e dello spazio, che in qualche modo per la realtà umana, costituiscono già i «nostri» spazio e tempo, poiché sulla base di questa percezione percepiamo la vita e le nostre possibilità di movimento, e che sono state prese in esame da ogni sistematico tentativo filosofico della nostra tradizione come forme originarie della conoscenza, sono divenute oggi il presupposto d’ogni discorso possibile sulla produzione capitalistica nel suo sviluppo tecnologico e, con esso, del ruolo del lavoro umano nell’epoca del dominio internazionale delle tecnologie informatiche. Da questo punto di vista, il nostro secolo, e del nostro secolo in particolare gli ultimi due decenni (il periodo della cosiddetta «new economy») sono stati, senz’altro, più veloci di millenni scorsi in passato per la civiltà umana, nella stessa misura in cui la velocità di trasmissione d’una mail mediata dalla velocità degli elettroni è più veloce del carro dei vecchi corsari postali dell’età moderna o anche, pure, della nostra posta aerea degli ultimi settant’anni. Poiché però la verità d’un tempo appare solo quando questo ha assunto una sua consistenza più definita nell’essere divenuto il passato di se stesso, di sicuro ci è difficile adesso parlare di noi con un’oggettività proporzionata ai tempi dello sviluppo storico più complessivo, così come anche poter subito concordare con chi, come Andrè Jacob, filosofo e linguista francese, parla della rivoluzione informatica come la seconda più grande rivoluzione dell’homo sapiens dopo la comparsa della lingua1; dovremo aspettare per capire meglio, tuttavia, questo non toglie che può essere assolutamente utile per la nostra vita e la nostra attività politica di questi anni, agire con la coscienza del dubbio di stare vivendo un periodo particolare di trasformazioni epocali, le quali senz’altro però, grandi o meno grandi che siano, colgono purtroppo l’umanità impreparata ad utilizzarle e organizzarle al meglio delle loro 1 Definizione tratta da un suo discorso tenuto all’interno di un ciclo di seminari presso l’Istituto italiano studi filosofici tenutosi a Napoli dal 12 al 16 Aprile 2010

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potenzialità emancipatrici, e cioè al netto dell’irrazionalità odierna dello sviluppo sociale sulla base dell’economia fondata sulla proprietà privata dei grandi capitali. Le ragioni e il significato della tendenza post – fordista 1. Il post – fordismo è un termine che si trova ormai sempre più di frequente nel dibattito sulle nuove forme di lavoro ed anche, più in generale, in quello sul destino delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori. Come termine lo si trova tanto adoperato da autori di riferimento dell’area moderata ex socialdemocratica, come ad esempio da Accornero che ha trattato a fondo la questione del «nuovo lavoro» e delle nuove tutele dei diritti, quanto anche in autori di impostazione marxista come Vasapollo nel suo ultimo compendio «La crisi del capitale» in cui il paradigma post fordista è il tema del capitolo forse più significativo del libro. Soprattutto però è alla base delle analisi nuove di esponenti come Toni Negri e Michael Hardt, Andrè Gorz, influente in particolare in Francia, e, infine, anche Jeremy Rifkin che è riuscito con le sue analisi più recenti a suscitare un certo interesse tra chi negli ultimi anni, tra Stati Uniti ed Europa, si è trovato alla ricerca d’una descrizione nuova del presente e insieme di soluzioni per la sua trasformazione. Viviamo in un tempo che negli ultimi tre decenni è stato definito all’ombra del suo passato, di ciò che non sarebbe più, e che sarebbe tramontato come un’era conclusa. Dal punto di vista della cultura si è discusso molto dell’inaugurazione del post – moderno, e da quello, invece, dell’organizzazione sociale della produzione, di post – fordismo. Il moderno, da un lato, il fordismo, dall’altro, vivono ad oggi, in queste definizioni, spesso un po’ azzardate e astratte, come il termine del non più, attraverso il quale solo si intuirebbe il significato di ciò che li segue. La definizione avviene per contrapposizione, come d’altra parte è stato anche per movimenti passati, ma, a differenza di questi, si ferma, anche solo nella propria definizione, senza aggiungere il contenuto effettivo della sua prospettiva differente. Per Accornero, e per lo stesso Vasapollo, il post – fordismo si accompagna alla nascita di una nuova epoca, l’epoca della terza grande rivoluzione industriale, in cui la natura del capitalismo non muterebbe ma si troverebbe ormai fondata su basi qualitativamente differenti dal passato, in particolare rispetto al paradigma dell’industria pesante e organizzata secondo il modello fordista (in sintesi: quota prevalente di industria pesante, concentrazione della classe operaia in grandi centri di produzione, definizione dei ruoli lavorativi in schemi abbastanza definiti e stabili). Certo, il post – fordismo, ad esempio, viene anche considerato come toyotismo, e quindi, in senso positivo, come il tentativo dal punto di vista del capitale di «rispondere alle ristrettezze del mercato locale diversificando e personalizzando l’offerta» (Accornero), facendo in modo cioè di ridefinire la produzione su una scala diversa basata sulla penetrazione millimetrica e scientifica nel mercato attraverso la creazione del bisogno, il monopolio quanto più grande dell’offerta, l’elasticità assoluta, nei tempi di produzione e di circolazione rispetto ai flussi della domanda. Tuttavia siamo comunque in un momento evidentemente post, in cui il nuovo modello si è andato stabilizzando solo di recente, e che forse la stessa crisi economica rischia di minare, lasciando così ancora incerto il

destino dello sviluppo del nuovo nel presente. Detto questo, adesso è importante poter dare una definizione sintetica dei caratteri del post – fordismo in funzione soprattutto di comprendere le radici del fenomeno all’interno delle nuove esigenze del capitale. Dalle pagine del capitolo citato del libro di Vasapollo possiamo in qualche modo ricavare uno schema sintetico di questo tipo riguardo ai caratteri del post fordismo: 1. Tecnologia fondamentale alla base: i nuovi sistemi di comunicazione e informazione; 2. Organizzazione interna dell’impresa: frammentazione produttiva, esternalizzazione, delocalizzazione su scala internazionale e riappalto da aziende maggiori a quelle minori; 3. Modello sociale della fabbrica: fabbrica sociale generalizzata sul territorio e in grado di dirigere e influenzare i bisogni dei consumatori. Centralità del controllo degli indici del consumo e delle sue mode temporanee2; 4. Forme di lavoro salariato: lavoro flessibile, precario, part time, a progetto; 5. Nuovo carattere essenziale della profittabilità del capitale: il «lavoro della conoscenza». Insieme al ritrovamento di questi caratteri, abbastanza realistici nella descrizione della nuova realtà del mondo del lavoro e della riorganizzazione del capitale, vanno aggiunti gli elementi essenziali dello scenario mondiale come quadro necessario per ogni evento che accada in un qualche paese, lo statuto di precarietà del lavoro esteso, a volte come volatilità, altre come insicurezza, alla dimensione umana in genere e in relazione all’accelerazione dell’esperienza della vita di cui si diceva sopra. Oltre a questi, il ruolo che la disoccupazione continua ad avere rispetto alla dinamica economica dello sviluppo capitalistico, tanto all’interno dei confini dei paesi più industrializzati d’Occidente (vedi tabella)3, tanto quanto in un’ottica più globale come squilibrio

2 Da questo punto di vista il sistema toyotista d’organizzazione della fabbrica e della produzione punta alla coincidenza di produzione e domanda, riducendo al minimo la sovrapproduzione fisiologica al sistema capitalistico in sé e alla sua forma fordista. Lo sviluppo del capitalismo odierno avviene sulla linea della capacità di previsione e condizionamento della domanda in tempi rapidi. Interessante in un articolo comparso su InterMarx di Filippo Perazza il confronto tra il modello toyotista originale e la sua migliore applicazione italiana, la Benetton. «Innanzi tutto in entrambi c’è rovesciamento del processo di produzione: la sua attivazione non è più, come il fordismo, indipendente dalla domanda, ma ne è la conseguenza. Ambedue i sistemi prevedono infatti che a seconda delle richieste si metta in moto la produzione. Il sistema toyota ha addirittura eliminato i magazzini, e le merci vengono prodotte dall’azienda su commessa senza che sia necessario lo stoccaggio. Quello della Benetton, invece, prevede la permanenza di piccoli quantitativi in magazzino che, anche se fanno lievitare leggermente i costi, assicurano una risposta immediata ad improvvisi aumenti della domanda. I due metodi sono accomunati anche dalla possibilità di offrire una produzione più varia: per effetto della sincronizzazione, della divisione, della coordinazione della produzione è possibile ottenere merci diversificate […]. La Benetton, che utilizza filati non tinti e provvede alla colorazione dei capi solo una volta che sono stati completati, può variare i colori anche all’ultimo momento, a seconda dei dettami del mercato, e presentare abiti variegati».

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Città Future 5 Lavoro, capitale e tecnica

fra il troppo lavoro e il troppo poco lavoro, di cui dopo diremo meglio, venutosi a creare e in fase di aumento tra alcune fasce di lavoratori ed altre, e tra lavori e lavoratori di alcuni paesi rispetto a quelli di altri. Infine, ma assolutamente non per importanza, la radice più profonda dell’espulsione dei lavoratori dai grandi centri produttivi, della loro frammentazione in unità più piccole e dislocate, per quanto in perfetta comunicazione tra loro sulla base dei nuovi sistemi informatici e d’automazione, e del correlato sviluppo della

% Disoccupazione 3Stato

membro Marzo 2005

Marzo 2006

Marzo 2007

Marzo 2008

Marzo 2009

Austria 5.1 5.1 4.5 4.1 4.5

Belgio 8.4 8.2 7.7 6.9 7.3

Danimarca 5.4 4.3 4.1 3.0 5.7

Finlandia 8.5 7.9 7.0 6.3 7.4

Francia 9.7 9.1 8.6 7.6 8.8

Germania 9.8 8.7 8.6 7.4 7.6

Grecia 9.9 9.6 8.6 7.8 7.8

Irlanda 4.5 4.2 4.6 5.6 10.6

Italia 7.8 7.7 6.1 6.6 8.5

Lussemburgo 4.3 4.8 4.9 4.4 6.1

Paesi Bassi 4.9 4.0 3.4 2.8 2.8

Portogallo 7.4 7.6 8.2 7.6 8.5

Regno Unito 4.6 5.0 5.5 5.2 6.6

Spagna 9.9 8.7 8.1 9.5 17.4

Svezia 6.3 7.2 6.6 5.8 8.0

% Tasso di disoccupazione

Stato membro Marzo

2005 Marzo 2006

Marzo 2007

Marzo 2008

Marzo 2009

Bulgaria x x 7.5 6.1 5.9

Cipro 5.1 5.2 4.1 3.7 4.9

Estonia 8.8 5.3 4.9 4.0 11.1

Lettonia 9.1 7.6 6.4 6.1 16.1

Lituania 9.2 6.4 4.6 4.3 15.5

Malta 7.2 8.1 6.6 5.8 6.7

Polonia 18.0 16.8 10.3 7.4 7.7

Repubblica Ceca 8.0 7.7 5.6 4.4 5.5

Romania x x 6.6 6.2 5.8

Slovacchia 16.7 15.7 11.3 9.9 10.5

Slovenia 6.4 6.2 5.2 4.5 5.0

Ungheria 6.8 7.4 7.3 7.6 9.2

Unione europea 8.9 8.4 7.3 6.7 8.3

Stati Uniti 5.1 4.7 4.4 5.1 8.5

Giappone 4.5 4.1 4.0 3.9 4.4

tecnica (al giorno d’oggi come tecnologia software assai più che hardware) come elemento dominante del rapporto capitale - lavoro dei nostri giorni: vale a dire, cioè, la radice legata al carattere attuale della legge della caduta tendenziale del profitto, introdotta come chiave di analisi per la prima volta da Marx nelle pagine del terzo volume del Capitale. Il suo tentativo fu di indicare una traiettoria «oggettiva» nello sviluppo nei rapporti sociali di lavoro rispetto all’aumento della quota di produzione nelle singole merci attribuibile al lavoro «morto» delle macchine rispetto a quello «vivo» degli uomini, con il conseguente abbassamento di valore delle merci, la riduzione dell’impiego di forza lavoro umana nella produzione, e crollo progressivo, per quanto tendenziale e legato ad una serie di variabili, del saggio del profitto per unità di merce. Il tutto per via della contraddizione principale che si può così riassumere: con il passar del tempo il lavoro umano è sempre meno produttivo rispetto alle macchine, ma non per questo meno necessario, dal momento che la macchina non può sostituire del tutto l’operare umano (fosse anche nel programmare questa e revisionarla) e al tempo stesso, in particolare nelle società occidentali degli ultimi decenni, il costo del lavoro non può essere meno caro per il capitale, se questo non vuole incorrere in un probabile abbassamento del livello dei consumi. Dal punto di vista del capitale, diciamo così, la stessa terza rivoluzione industriale sarebbe la risposta ad un crollo della possibilità di profitto sul livello precedente delle forze di produzione e di strumenti tecnici. E lo stesso post – fordismo, con tutti i suoi correlati di precarietà, frammentazione, ricorso a forza lavoro immigrata e dequalificata, verrebbe fuori da questa stessa esigenza e da questo stesso impasse: l’abbassata redditività del denaro investito nella produzione di merci a fronte dell’aumentato (e necessario per lo stesso capitalismo) potere d’acquisto dei lavoratori dei paesi occidentali. La nuova produttività della nuova tecnologia e della nuova organizzazione del lavoro sarebbe la risposta al correlato aumento dei bisogni e del costo della forza lavoro nei paesi più avanzati economicamente. Per quanto oggi, lontani da una vera uscita dalla recente crisi economica e in un periodo di povertà crescente dei ceti popolari, può sembrare assurdo parlare di aumento della disponibilità economica dei lavoratori, il dato va preso nella macro dimensione dello sviluppo economico della seconda metà del secolo scorso, dimensione da cui forse oggi ci sentiamo già lontani, ma che è comunque all’origine in qualche modo di ciò che viviamo noi oggi. Fatta questa premessa, che dalla sua andrebbe certo approfondita, in particolare rispetto alla vexata quaestio della caduta del saggio del profitto, da molti economisti dopo Marx criticata, ma probabilmente mai veramente confutata, possiamo passare adesso al centro del tema della trasformazione del lavoro nella società degli ultimi vent’anni. 2. La ricerca di studi interessanti sul post fordismo, non è semplice all’inizio. Anzitutto ci sono i testi che, soprattutto in ambiente più politicizzato, e specialmente in Italia, si chiudono a riccio rispetto alla considerazione più profonda del mutamento in corso. La paura di trarre dalle analisi del presente conclusioni antimarxiste o riformiste o «nuoviste», che dir si voglia, li frena sulle colonne d’Ercole dell’«aveva

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Città Future 6 Lavoro, capitale e tecnica

già detto tutto Marx nei libri del Capitale», ruolo delle macchine, frammentazione dei lavoratori, e caduta del saggio del profitto, tutto incluso. Se adesso si fa una ricerca banale su internet, i primi articoli che si trovano, per lo più per questioni di visibilità informatica, sono di questo tipo, ad esempio «Post – fordismo e dintorni: quali prospettive per una ripresa autonoma di classe?». D’altra parte, per trarre il poco di positivo che è contenuto in questo tipo di elaborazioni si può dire che in un certo senso qualcosa di tutto ciò è vero. Le pagine del primo libro del Capitale sul ruolo delle macchine nella semplificazione e banalizzazione del lavoro sono precise, approfondite a tutto tondo e senz’altro esaurienti per l’analisi del fenomeno macchina – uomo – capitale – lavoro di quel periodo (tra prima e seconda rivoluzione industriale in Inghilterra avanguardia del capitalismo). Nelle stesse pagine dei Manoscritti economici – filosofici di vent’anni prima, la creatività umana dell’artigiano, la sua autonomia nella produzione, il suo lavoro ancora come esperienza umana si contrappongono alla rigidità del lavoro automatizzato delle nuove fabbriche nascenti sulla base del principio di parcellizzazione, semplificazione, ripetitività monotona delle attività. Dopo questi primi incontri, che non guastano del tutto, ma tendenzialmente chiusi fino al negazionismo rispetto alla trasformazione presente, ci imbattiamo in una serie di libri attuali, validi, interessanti ma fondamentalmente troppo poco fondati su una conoscenza storica complessiva del movimento di sviluppo del capitalismo e delle società borghesi e, in più, sradicati da categorie di pensiero più generali, in grado di riportare il destino di ciò che sta accadendo alla possibilità concreta dell’altro da venire, della trasformazione. Ad esempio uno dei testi più conosciuti a riguardo è senz’altro «La fine del lavoro» di Jeremy Rifkin del 1995. In questo tempo leggiamo di come la macchina della terza rivoluzione industriale stia modificando nell’essenza il lavoro umano su scala internazionale. L’automazione, l’informatizzazione, l’elettronica, per non parlare poi di Internet, ancora quasi inesistente ai tempi de «La fine del lavoro» ma invece già ai suoi inizi come fenomeno di massa nell’altro libro di Rifkin «L’era dell’accesso» (2001), stanno letteralmente sostituendo il lavoro umano con quello delle macchine, dal momento che il software si può riprodurre all’infinito e sembra, in Rifkin, progressivamente in modo indefinito anche sostituire l’attività umana. A partire dalle società più avanzate, i lavoratori scompaiono sempre di più come figure sociali, le fabbriche continuano a produrre ma si svuotano di uomini in carne ed ossa, al massimo vi rimangono i guardiani agli ingressi dei cancelli, non più a sorvegliare l’ingresso degli operai ma su degli schermi i diagrammi del perfetto funzionamento automatico della produzione robotica. La disoccupazione come nuovo fenomeno di massa si presenta negli Stati Uniti e in Europa come la nuova vera calamità di una ricchezza sociale che non si diffonde su tutti gli strati, ma che all’accrescere delle risorse potenziali affianca l’aumento delle mancanze, della povertà e dell’emarginazione. Leggiamo ad esempio in Rifkin nel primo dei suoi capitoli: «Le schiere dei disoccupati crescono quotidianamente in Nord America, in Europa e Giappone. Anche le nazioni in via di sviluppo stanno affrontando una crescente disoccupazione tecnologica, dal momento che le imprese multinazionali

stanno ammodernando i propri stabilimenti in tutto il mondo, eliminando milioni di lavoratori non qualificati, che non possono più competere con i costi, la qualità e la velocità di consegna raggiunte dalla produzione automatizzata. In un numero sempre crescente di Paesi, i giornali si riempiono di articoli che parlano di produzione leggera, re – engineering, qualità totale, post fordismo, decruiting e downsizing. Dovunque la gente è preoccupata del proprio futuro. I giovani hanno iniziato a dare sfogo alle proprie frustrazioni e alla propria rabbia con comportamenti sempre più antisociali. I lavoratori più anziani, in bilico tra un passato prospero e un futuro incerto, paiono rassegnati e si sentono sempre più intrappolati da forze sociali sulle quali hanno poco o punto controllo. Tutto il mondo è pervaso dalla sensazione che sia in corso un inarrestabile cambiamento tanto ampio nel suo raggio da renderci quasi incapaci di ipotizzarne l’impatto. La vita, così come la conosciamo, viene modificata nei suoi aspetti fondamentali» . Lo stesso Rifkin riporta poche pagine più avanti le parole di Attali, allora ministro e consulente del presidente francese Mitterand che fiduciosamente affermava: «Le macchine sono il nuovo proletariato. La classe lavoratrice è stata liberata». Certo, se la macchina lavora al posto dell’uomo, l’uomo progressivamente si libera dal lavoro, e così dalla alienante fatica che questo comporta. Il problema è che senza lavoro umano, nell’analisi di Rifkin, la produzione non diminuisce, anzi aumenta, ma dal punto di vista dell’individuo - lavoratore la produzione non è più la propria neppure oramai rispetto al salario. I lavoratori non lavorano, ma ovviamente non guadagnano neppure, perdono il lavoro, vanno ad ingrossare le fila già nutrite della leva dei disoccupati. La risposta classica, infatti, di quegli anni (e di questi?) era che il terzo settore avrebbe con il suo sviluppo creato al contempo nuovi posti di lavoro che avrebbero ricoperto ciò che l’industria nella sua nuova forma tecnologica lasciava fuori. Al giorno d’oggi senz’altro possiamo vedere come in quote percentuali i lavoratori impiegati nei diversi paesi dell’Europa occidentale nel terziario aumentano rispetto a quelli ancora impiegati nel secondo, per non parlare poi dei reduci del primo, quello dell’agricoltura, rispetto a cui Rifkin fa bene a dedicare un ampio approfondimento. È lo stesso Rifkin a notare l’insufficienza di questa prospettiva: il travaso non è (e non è stato infatti) automatico né dal punto di vista quantitativo né soprattutto da quello qualitativo. Una parte dei posti di lavoro complessivi senz’altro è stata persa, ma il dato più interessante è che la parte recuperata nei nuovi investimenti, in particolare nel terziario, o in aziende che a loro volta sono sorte come produttrici e gestori di software e nuova tecnologia, è passata attraverso il filtro delle nuove forme di lavoro impostesi negli ultimi anni con la compiacenza e l’iniziativa diretta dei principali governi, e cioè con la precarietà, la flessibilità e tutte le varie e variegate forme di contratto a termine. Il valore, quindi, del libro di Rifkin è proprio forse nella sua tempestività, e nel suo tener fermo alla dimensione dell’irrecuperabilità del vecchio sistema rispetto al nuovo inesorabile installarsi di tecnologie di potenza incomparabile rispetto al passato. Rifkin nota che qualcosa di importante sta cambiando, in un certo senso che nulla sarà più come prima, che la dimensione della trasformazione del mondo del lavoro incide in modo

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sostanziale sulla vita degli individui che la compongono in modo complessivo. E nel titolo, corrispondente d’altra parte alle sue analisi, fissa quest’ impressione in una dicitura forte, anche ambivalente, ad impressione immediata. Questo perché il sogno della fine del lavoro è divenuto, di contrappasso, oggi, l’incubo della perdita generalizzata della propria attività di vita e delle basi essenziali delle proprie risorse economiche. D’altra parte, quello che è assai chiaro è che il declino della forza lavoro su scala globale (sottotitolo del libro) non può di per sé giustificare l’ipotesi che siamo di fronte alla fine del lavoro in quanto tale. L’ipotesi sarebbe abbastanza ingenua; e, per quanto Rifkin non è così ingenuo da portarla alle sue estreme conseguenze, le sue analisi non sono supportate però da una visione d’insieme in grado di fargli prospettare un quadro più definito della società post – fordista. Il suo grido di preoccupazione per la rottura degli equilibri tradizionali a metà degli anni novanta si stempera in una visione nuova delle prospettive della società umana nei suo testi successivi, da «L’era dell’accesso» (2001) fino all’ultimo «La civiltà dell’empatia» (2009), in cui Internet e i nuovi sistemi di comunicazione sono posti alla base della possibile unificazione del genere umano su basi migliori. La questione però non secondaria della barbarie dell’esistenza effettiva degli ultimi decenni del capitalismo su scala globale, in termini di pressione sulla riduzione dei diritti dei lavoratori, questione ecologica, innesco di nuove guerre e tensioni, è trattata troppo superficialmente rispetto, invece, alle nuove, forse anche presenti, possibilità che la tecnologia delle reti offre alla civiltà umana impegnata in questo slancio verso nuove forme di relazioni sociali.

Il testo di Andrè Gorz edito nel 1988 «La metamorfosi del lavoro», è invece di uno spessore maggiore, ancorato alla conoscenza delle basi dell’economia politica, e orientato secondo una visione filosofica interessante, attenta a sfuggire ad incrostazioni dogmatiche. Alla base della sua considerazione del lavoro c’è la convinzione che lo sviluppo del capitalismo abbia ormai portato ad una separazione netta fra lavoro e vita rispetto alla formazione dell’ identità individuale. E questo come il risultato del processo di più lungo corso, attivatosi a partire dalla fine del lavoro domestico e del superamento progressivo del lavoro artigiano ad opera della manifattura industriale e sviluppatosi attraverso il crescente peso della macchina, la semplificazione del lavoro e con la relativa alienazione del lavoratore dal prodotto di lavoro. Nella spirale delle nuove tecnologie a servizio della produzione il lavoratore fa sempre meno, si identifica sempre meno con quello che fa e si avvia progressivamente a limitare la propria mansione alla progettazione, alla supervisione e al controllo del processo della macchina. Dalla prima alla terza rivoluzione industriale la macchina è venuta ad aumentare la durata della propria vita, lo spessore e l’ampiezza del proprio lavoro, la capacità di correggere da sé i propri errori, fino ad arrivare ultimamente ad essere programmata nel poter ricorrere all’aiuto in rete per il proprio aggiornamento e la propria manutenzione. L’uomo - lavoratore rimane sempre più alle spalle del processo effettivo di produzione in quanto «fare» manuale e sensibile, e diventa il tecnico della macchina, il guardiano del processo, lo spettatore della produzione. La «fine dell’umanesimo del lavoro» per Gorz è tutta qui: l’uomo – operaio non è più operaio né riconosce quella dimensione sociale come la principale della sua vita, piuttosto fa l’operaio, o ancora meglio, ha un posto di lavoro da operaio. Quando nel film di Bertolucci «Novecento» il patriarca della famiglia contadina inizia il giovane Olmo in piedi sulla tavola imbandita della famiglia (di diverse decine di membri tutti braccianti agricoli) le sue parole sono: «Dovunque andrai, qualunque cosa farai, chiunque sposerai, ricordati di essere Olmo Dal Cò, paisano». Egli è convinto, infatti, che il tempo non vincerà la sua appartenenza di classe, il suo destino è scritto in quella stessa tavola su cui, non a caso avviene la sua iniziazione, mangia la stessa minestra dei suoi parenti e degli altri che sono nella sua stessa dimensione, la dimensione di vita sacrificata dei braccianti e di lavoro faticato a contatto con la natura. Nella terza rivoluzione industriale, invece, il lavoro non possiede più, per forza di cose, la portata di questa identificazione di vita e lavoro, di lavoro e appartenenza sociale. Rispetto a questo Gorz cita gli autori di «Le travail et après» che rilevano come anche la richiesta salariale ormai è divenuta svincolata dalla vera e propria produttività individuale anche nell’immaginario dell’operaio, il quale più che come individuo produttore, reclama il suo stipendio in base al posto di lavoro più che al lavoro vero e proprio, dal momento che «l’operaio massa non contratta il valore del suo lavoro concreto, di cui coglie il carattere uniforme, universale. Egli chiede il massimo di retribuzione della sua forza lavoro in quanto elemento indifferenziato d’un processo collettivo produttore di ricchezza». In un certo senso, cioè, il lavoratore nelle società

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più avanzate riconosce effettivamente nel tempo il criterio principale di valutazione del suo lavoro. Non il prodotto in sé, ma il tempo di lavoro in quanto tale, sottratto al tempo della vita. Il tempo della vita ha assunto un significato simbolico più alto, è il vero tempo, il tempo per sé, il tempo del consumo, il tempo della vita privata. Questa astrazione del lavoro ha anche un’altra radice tuttavia, molto legata al discorso che stiamo facendo. Si tratta di quella che Gorz stesso definisce «la polivalenza dell’operaio di processo» e che si spiega con il fatto che «la loro (dei nuovi operai) mobilità potenziale è pertanto maggiore di quella degli operai professionali tradizionali: passare da una raffineria a una fabbrica di lampadine elettriche o da un cementificio a una fabbrica di spaghetti è cosa molto più facile che passare dal mestiere del meccanico a quello del’elettricista. Lo stesso vale per una parte significativa degli addetti alla manutenzione: meccanici, idraulici, elettricisti, periti elettronici di sistemi di produzione flessibili integrati col calcolatore, nonché per i programmatori». In questo modo, quindi, sostiene Gorz, il tempo della formazione professionale si è notevolmente abbassato per una gran parte dei lavoratori di tipo manuale e questo ha il suo effetto sul rapporto fra la vita e il lavoro di questi individui. In questo modo gli stessi autori de «Le travail et après» descrivono la situazione di alcuni operai chimici nella separazione che intercorre fra la loro cultura professionale e la loro cultura del quotidiano: «Qualcosa c’è da fare sempre, ma la produzione si fa in gran parte da sola e le regolazioni, le correzioni, i lavori di manutenzione che si svolgono possono essere difficilmente interpretati come un vero lavoro […] L’operaio non può nemmeno dire che ha un’influenza decisiva sulla qualità della produzione […]. Nonostante la sua qualificazione, egli ritiene di detenere solo un sapere professionale e non una capacità professionale che si possa tradurre in realizzazioni materiali: il pezzo costruito, l’apparecchio radio riparato». La banalizzazione del lavoro odierno nel post – fordismo non è per Gorz la semplice dequalificazione, l’abbassamento del lavoro a qualcosa di meccanico e noioso, ma corrisponde piuttosto all’ «ampia accessibilità della qualificazione richiesta dal lavoro», al fatto che una serie di mestieri, potremmo dire noi, mentre per Gorz sembra che riguardi la loro totalità, possono essere appresi in sempre meno tempo, senza una vera e propria formazione specifica a riguardo. Pensiamo ai call center di oggi ad esempio: quante conoscenze specifiche richiede lavorare lì, rispetto alla vecchia figura di operaio tradizionale, alle sue conoscenze dei materiali utilizzati, alle tecniche di produzione, alle variabili in campo? Ma possiamo anche fermarci al lavoro di tipo più tradizionale di fabbrica e alle sue più recenti trasformazioni: in questi giorni di fine Aprile (2010) l’amministratore delegato del gruppo Fiat dichiara in un piano quadriennale la possibilità di nuovi investimenti e aumento di produttività al vincolo della massima flessibilità da parte dei lavoratori. Nello stabilimento di Pomigliano ad esempio viene proposto ai lavoratori il ritorno al lavoro pieno e non parziale permesso dalla cassa integrazione in cui sono la maggior parte dei lavoratori da un anno e mezzo a patto della possibilità da parte dell’azienda di poterli dislocare continuamente in reparti e ruoli differenti, a riprova del nuovo

clima generato dalla contrazione economica ma anche, per quello che riguarda il nostro discorso, della rottura dell’indispensabilità di una conoscenza specifica sul posto di lavoro4. Consisterebbe in questo il nuovo esperimento della classe padronale per i prossimi anni. Tutto ciò dal punto di vista di Gorz interessa, tuttavia, un processo più ampio avvenuto nella nostra società: l’esclusività di certe conoscenze o di certi campi del sapere è stata superata a favore di un’estensione di queste conoscenze in una forma semplificata e più accessibile. «Una moltitudine di conoscenze, riservate in precedenza a delle èlite, sono state banalizzate negli ultimi vent’anni: la conoscenza delle lingue straniere, l’uso di un calcolatore, i principi della dietetica, della prevenzione di varie malattie, della contraccezione ecc; ma lo stesso può dirsi dello sci, del tennis, dell’equitazione, della vela, e così via». Lo stesso, anche, possiamo pensarlo della musica, ritornando col pensiero agli scritti di Adorno sul passaggio dalla musica classica alla musica leggera, proseguendo poi, arrivando ai giorni d’oggi, alla nuova musica dance, tecno, house, e in generale disco diffusesi a partire dagli anni novanta, tra i giovani soprattutto nelle società occidentali. La contraddizione, cioè, è più generale e sembra riguardare il concetto stesso di «democratizzazione» del consumo di beni materiali e immateriali nella società di massa. Adesso tutti ascoltano continuamente musica, nella loro casa, sul loro posto di lavoro, alle cuffie di Ipod, nelle metropolitane d’ogni città, la musica (per non parlare della nuova ars universalis della fotografia digitale) è praticata come hobby o semi professione da un numero crescente di individui, ma è senz’altro un tipo di musica più semplice, elementare, meno difficile da imparare a suonare e da imparare ad ascoltare rispetto a quella di uno o due secoli fa. La macchina e la macchina informatica nel particolare, cambiano la natura del lavoro, lo rendono più preciso, produttivo, ma anche più indipendente dai tempi d’apprendimento e di ritmo umani, più astratto, oggettivo, spersonalizzato, non nel significato tradizionale di alienato, ma in quello di praticabile da un numero maggiore di individui sulla base di una preparazione più bassa. Allora di fronte a ciò abbiamo diverse possibilità: la prima è quella di resistere a tutto questo, alzando la bandiera del vecchio lavoro d’una volta, che richiedeva professionalità e che conferiva a sua volta professionalità al lavoratore, che garantiva un’identificazione abbastanza stabile con il proprio ruolo sociale, che in cambio della fatica restituiva la possibilità di appartenere ad una certa dimensione sociale. Un’altra è quella di immaginare, un po’ ingenuamente, che più tecnologia significa meno fatica sul lavoro, e che meno fatica significa lavoro necessariamente migliore, e che la tecnologia a sua volta ci indichi un destino ineluttabile riguardo al mondo del lavoro. La posizione di Gorz, che è senz’altro interessante, è che non si può tornare indietro: la tecnica libera il lavoro da una parte del suo carattere opprimente, ma soprattutto libera tempo e risorse per il non lavoro, aumenta la produttività, rendendo l’attività umana in grado di conferire più valore in meno tempo alle merci prodotte, e liberare (in potenza) tempo per altro, per la vita. Lo sviluppo delle nuove

4 Vedi articolo di Loris Campetti comparso su il quotidiano Il manifesto del 22 Aprile 2010.

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forme di produzione, oggi di internet e delle reti informatiche non è un destino di tipo metafisico e sovraordinato ma senz’altro una direzione oggettiva del corso delle cose che non può essere ritrattata in alcun modo e soprattutto riguardo al seguente elemento: la macchina come lavoro «morto» si scambia con il tempo del lavoro «vivo», perché aumenta il volume dei beni possibili e riduce i tempi necessari alla loro produzione, e il tempo della vita potenziale degli individui si allunga arricchendosi di elementi materiali e di possibilità di vita nuove e più ampie. In un certo senso, il famoso regno della necessità è superabile proprio in virtù di questa dimensione tecnologica di rapporto nuovo fra l’uomo e le cose, il lavoro e le macchine, la società umana e la natura. Negli ultimi decenni si sono aperte delle possibilità incredibili da questo punto di vista: la produzione, i trasporti, le comunicazioni, la riproducibilità di elementi cosiddetti «immateriali» (software e files di qualunque genere) cambiano la natura dell’attività lavorativa e della vita umana. Tuttavia la tecnica per Gorz non è solo questo, anzi la tecnica in quanto tale non è affatto solo questo: la tecnica fatta di strumenti, a sua volta, è uno strumento, qualcosa di subordinato e che subordina a sé. Questo è vero per le prime macchine filatrici dai ritmi compulsivi della prima rivoluzione industriale, è vero per la mastodonticità di quelle più tarde della grande industria chimica e siderurgica, ma lo diventa paradossalmente ancora di più, da un altro punto di vista, per la macchine del nostro tempo, le macchine leggere e veloci della terza rivoluzione industriale. In pochi centimetri cubi, si racchiude un intero universo di informazioni, programmi, comandi, archivi, immagini, suoni, tutti a loro volta in connessione possibile con quelle di altri in qualunque altra parte del mondo. Lo spazio si ridimensiona, si estende nella geografia del mondo, e si approfondisce nel micro degli elettroni e dei fotoni, accelera nei chilometri appena visibili dai nostri occhi, perché è condizionato da interazioni in dimensioni infinitamente più piccole verso cui la scienza e la tecnica hanno condotto il nostro sguardo e le nostre parole, di noi che, per lo più però, seguiamo il corso del nostro tempo estranei alla comprensione di ciò che ci accade e da cui siamo trasportati come individui di questo mondo. Gli elettroni non si vedono, le informazioni bit neanche, le lettere che battiamo sui nostri programmi di scrittura sono eguali per forma a quelle di chiunque altro, la spersonalizzazione avviene come tratto della necessità d’una astrazione continua della nostra individualità senziente nel momento in cui ci relazioniamo ad un personal computer. La descrizione precedente dei lavoratori del settore chimico riportata da Gorz è già superata rispetto ai nuovi sviluppi. La fabbrica interamente guidata dal calcolatore è una realtà ormai già presente. Il lavoro umano diventa quello dei controllori delle macchine. Il lavoro vivo progetta, collauda e infine controlla l’opposto di se stesso nella forma dell’autoregolazione della macchina. «In una stanza tre persone sono sedute ciascuna davanti al proprio quadro di visualizzazione; ogni quadro ha due monitor. Una tastiera permette di dare, in codice, istruzioni al calcolatore – che integra 1500 parametri, 200 circuiti di regolazione e 600 dispositivi d’allarme – e d’interrogarlo sullo svolgimento del processo in corso. La materialità della produzione è messa tra parentesi, rinviata in un aldilà invisibile col quale l’operaio, diventato operatore,

comunica per mezzo di simboli numerici: batte numeri sulla tastiera, legge numeri sul video.» Il mondo sensibile si assottiglia, il corpo umano del lavoratore non si relaziona più a materie grezze, elementi chimici, tessuti, ferro, rame, cuoio, solventi ma a files e programmi dalla natura incorporea e a macchine animate da queste invisibili realtà che le sono state introdotte dalle oscure, e queste sì elitarie, figure di specialisti informatici. «Lo spessore sensibile del mondo è abolito. Il lavoro come attività materiale è abolito. Non resta che un’attività puramente intellettuale, o piuttosto mentale [...]. Il lavoro è scomparso perché la vita si è ritirata dall’universo. Non c’è più nessuno; solo numeri che in silenzio si susseguono a numeri, indiscutibili perché insensibili, muti. Alla fine della giornata l’operatore si alza. Di ciò che ha fatto non gli resta niente, nessun elemento materiale, visibile, misurabile: non ha realizzato niente. Ma questo niente lo ha inaridito: durante la giornata (o nottata) di lavoro, si è imposto un’ascesi che consiste nella repressione in se stesso dell’esperienza sensibile; si è costretto a esistere come puro intelletto, eliminando, reprimendo come altrettanti potenziali disturbi della sua funzione, tutto ciò che è in rapporto vivente con il mondo vissuto nel e col suo corpo». Nell’esperienza degli ultimi anni in qualunque dipartimento universitario italiano ed europeo di ingegneria, matematica, fisica, informatica ma anche medicina, biotecnologie, agraria, questi individui ancora non entrati come lavoratori li abbiamo già potuti incontrare: nella loro stessa dimensione fisica c’è una sproporzione della testa, del collo rispetto all’armonia degli altri muscoli, hanno sempre risposte pronte, ma mai una buona ragione per spiegare in termini di scelta individuale ciò che stanno facendo. Sono questi i nuovi tipi, ai livelli sociali più alti, prodotti dalla new economy , e continuano ad essere in netto aumento, quanto più dai centri ci spostiamo nelle periferie dove le minori resistenze culturali le rendono il laboratorio di sperimentazione privilegiato d’ogni innovazione.

Insomma, ci troviamo in un bel groviglio storico. Tante possibilità, ma infinita dispersività, la tecnica che da strumento potenziale di liberazione di tempi e risorse si sta trasformando in un meccanismo ubiquitario di degradazione delle facoltà umane e della sua condizione di essere sociale in relazione con altri individui, di svilimento del livello della comunicazione e abbassamento della individualizzazione dell’attività. Da un lato, da alcuni punti di vista, come lo

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stesso Gorz nota, oggigiorno siamo vicini quanto mai alla possibile rotazione dei lavori, e ad una divisione dei lavori non così rigida come era nel quadro delle rivoluzioni industriali e delle società che se ne svilupparono in cui il lavoro del figlio era la continuazione di quello del padre, del nonno e così via e le possibilità di cambiare e sfuggire ad un destino prefissato erano molto ridotte, in modo che le stesse pagine dell’Ideologia tedesca sulla divisione della giornata umana in diversi tipi di lavoro e di interessi non risultano più oggi così assurde per via della semplificazione di molte delle attività di lavoro contemporanee; dall’altro, la nostra vita si muove in un pieno irrigidimento delle sue prospettive, senza più slancio, identità in grado di resistere ai minimi passaggi di vita, coraggio di provare a trasformare le cose in corso, asserviti oramai ad un ritmo troppo veloce, ad un sistema articolatissimo al proprio interno, che travalica i confini di città e nazioni, che si dispiega lungo la trama della innovazione della forma capitalistica dei nostri giorni nel quadro del post – fordismo, che, d’altra parte, non è se non la storia del capitalismo dopo il suo mancato superamento negli eventi del secolo scorso. La storia, quella del capitalismo, che da molti punti di vista ha perso già la sua necessità, ma che non per questo si può dire sia vicino ad essere «oggettivamente» superata, come sostengono alcuni fra cui Toni Negri negli scritti dei primi anni di questo nuovo secolo. La critica che d’altra parte Gorz muove a Marx rispetto alla descrizione della liberazione del lavoro che egli avrebbe dato a partire da alcune pagine dei Manoscritti economico – filosofici fino ad alcuni scritti successivi, e cioè di un lavoro di per sé non alienato in quanto lavoro, e cioè in quanto attività in cui il soggetto uomo – lavoratore si riconosce, e riconoscendosi se ne appropria come ciò che lo fa essere quello che è in modo essenziale, riguarda per l’appunto la prospettiva presente della semplificazione del lavoro e della subordinazione della produzione di beni materiali al lavoro morto delle macchine. Esiste ancora oggi la possibilità, infatti, che alcuni lavori possano essere soddisfacenti, ma questo non cambia la finalità complessiva cui tende l’organizzazione del lavoro e del mondo del lavoro nel suo complesso. La quale rimane disarmonica e opprimente dello sviluppo umano potenziale. È quanto mai necessaria un’organizzazione nuova sulla base di un riequilibrio e di una razionalizzazione delle energie sociali disponibili, delle risorse presenti, dei tempi di lavoro effettivamente necessari alla produzione e allo sviluppo sociale contemporaneo. Gorz quindi affianca, senz’altro, Marx dal punto di vista della considerazione necessaria di una riorganizzazione del lavoro su scala globale e sulla base di un piano razionale, ma prova a farlo calandosi nella dimensione della nuova società in cui il fordismo è giunto al tramonto. In sostanza Gorz ritiene che non si possa tornare indietro, che il lavoro per come l’abbiamo conosciuto fino a qualche decennio fa stia, più o meno velocemente, scomparendo. Per quanto forse, e questo Gorz lo tralascia, ci siano delle differenze molto forti fra paesi occidentali e il resto dei paesi (e non è una questione da poco5), all’interno delle società occidentali 5 Scrive Sergio Bologna in un articolo presente su Intermarx a proposito di post fordismo e classi medie: «Prima domanda: che diavolo è questo post – fordismo? Per definirlo, per capire più o meno cosa intendo dire con questo termine, mi servirò di qualche esempio concreto. Se guardiamo le immagini

questa è la situazione. Il lavoro è svilito, non definisce più identità sociali e culturali stabili, il post fordismo fagocita la coscienza dei lavoratori in quanto soggetti sociali dotati d’una specificità, d’un ruolo, d’una cultura, e di qui anche, in potenza, d’una prospettiva politica. È una contraddizione lacerante: da un lato ci sono le possibilità d’una liberazione progressiva dal lavoro attraverso lo sviluppo delle macchine, dall’altro la situazione attuale non libera tempo ripartendo e razionalizzando il lavoro, ma aumenta le differenze fra lavoratori in preda a lavori frenetici ed ex lavoratori espulsi dal sistema oramai disoccupati senza salario e senza garanzie. In questo c’è l’irrazionalità del meccanismo capitalistico nel suo sviluppo attuale. Uno spreco infinito di energie, tempo, attività, in definitiva, vite, in cui il godimento delle possibilità raggiunte attualmente è reso difficile alla stragrande maggioranza degli attori in campo. Il lavoro necessario, da un certo punto di vista, è di gran lunga inferiore al lavoro di cui attualmente dispone e utilizza il sistema. Che utilità sociale hanno infatti i produttori di pubblicità? Quale ruolo i lavoratori di call center che rispondono ai centralini da altre parti della nazione ad ogni ora giorno e notte? I creatori di immagini? E i nuovi psicologi e filosofi assunti come neodirettori del personale con la mansione di gestire i conflitti conseguenti al taglio di posti di lavoro nelle ristrutturazioni aziendali con o senza l’ultima crisi? Tutti questi lavori non hanno alcun senso sociale. Lo sviluppo umano ne può e ne farebbe senz’altro a meno, dedicherebbe tempo, energie e risorse a tutt’altro. L’unico senso di molti di questi lavori del cosiddetto terzo settore è quello di garantire la massimizzazione del profitto delle aziende e dei monopoli aziendali basate unicamente (e molto spesso su base del tutto irrazionale) sugli assunti di una società fondata sull’immagine della merce e del prodotto, una società dello spettacolo in cui il consumatore è chiamato ad essere attore protagonista della farsa attuale del prolungamento in vita del sistema dominante. Il Marx del Capitale e Gorz su questo concordano in pieno: la liberazione umana è una liberazione progressiva dal giogo del lavoro in direzione di uno sviluppo differente della personalità umana. Se andiamo alla fine del cap. 15 del I volume del Capitale troviamo infatti, a questo riguardo, una pagina preziosa: «Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa, e, quanto più viene abbreviata la giornata lavorativa, tanto più potrà crescere l’intensità del lavoro (questo tra l’altro è un altro elemento fondamentale, e di contatto anche con Gorz, se si lavora meno, evidentemente, si fa meglio quel che si è chiamati a fare). Da un punto di vista sociale la produttività di una fabbrica cinese di oggi, come quelle scattate dal fotografo americano Burtynsky, ricordiamo una catena di montaggio portata all’estremo, quasi una caricatura di quella che in tutto il mondo industrializzato aveva portato la produzione di massa, quella delle grandi fabbriche che tutti noi abbiamo conosciuto e nelle quali si è costruita anche la storia del sindacato, la storia del movimento operaio. La cosiddetta cultura dell’operaismo si è formata lì dentro. Quindi, quando si dice postfordismo si vuole indicare un’epoca storica che è venuta dopo. Questo «dopo» si è verificato soprattutto nei paesi occidentali, mentre il vecchio fordismo sta impiantandosi pesantemente proprio nei paesi a basso costo del lavoro». Un discorso interessante da aprire sarebbe quanto il post fordismo di alcuni pochi paesi su scala globale si basa sul nuovo fordismo dell’industrializzazione della maggioranza degli altri. E, ancora, se e quanto, il fordismo sia destinato al tramonto progressivo anche in questi ultimi.

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del lavoro cresce anche con la sua economia. Quest’ultima comprende non soltanto il risparmio nei mezzi di produzione, ma l’esclusione di ogni lavoro senza utilità. Mentre il modo di produzione capitalistico impone risparmio in ogni azienda individuale, il suo anarchico sistema della concorrenza determina lo sperpero più smisurato dei mezzi di produzione sociali e delle forze – lavoro sociali oltre a un numero stragrande di funzioni attualmente indispensabili (al mantenimento del sistema per come è attualmente), ma in sé e per sé (cioè per lo sviluppo sociale in quanto tale) superflue. Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro, la parte della giornata lavorativa sociale necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata per la libera attività mentale e sociale degli individui sarà quindi tanto maggiore, tanto più il lavoro sarà distribuito proporzionalmente su tutti i membri della società capaci di lavorare, e quanto meno uno strato della società potrà allontanare da sé la necessità naturale del lavoro e addossarla ad un altro strato. Il limite assoluto dell’abbreviamento della giornata lavorativa è sotto questo aspetto l’obbligo generale del lavoro. Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe mediante la trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse». Non casualmente questo testo si trova alla fine del capitolo sulla produzione di plus valore relativo, cioè nell’aumento di ritmi e produttività all’interno degli stessi orari di lavoro. Spostandoci invece dalla biblioteca del British Museum negli anni sessanta del diciannovesimo secolo, verso la Francia poco più di un secolo dopo, ritroviamo Gorz e le sue seguenti conclusioni: «Possiamo ora vedere meglio ciò che si può e ciò che non si può chiedere alla tecnica. Le si può chiedere di accrescere l’efficienza del lavoro e di ridurne la durata, la penosità. Ma bisogna essere consapevoli che l’accresciuta potenza della tecnica ha un prezzo: essa separa il lavoro dalla vita e la cultura professionale dalla cultura del quotidiano [...]. Il prezzo della tecnicizzazione diventa accettabile solo nella misura in cui essa economizza il lavoro e il tempo. Questo è il suo scopo dichiarato. Non ne ha altri. È fatta perché gli uomini producano di più e meglio con meno sforzo e in minor tempo. In un’ora del suo tempo di lavoro, ogni lavoratore di tipo nuovo economizza dieci ore di lavoro tradizionale; o trenta o cinque, non importa. Se l’economia del tempo di lavoro non fosse il suo scopo, la sua professione non avrebbe senso. Se ha l’ambizione o l’ideale che il lavoro riempia la vita di ciascuno e ne sia la principale fonte di senso, è in completa contraddizione con quello che fa. Se crede in quel che fa, deve credere anche che gli individui non si realizzano soltanto nella professione. Se ama fare il suo lavoro, deve essere convinto che il lavoro non è tutto, e che ci sono cose altrettanto o più importanti. Cose per le quali la gente non ha mai abbastanza tempo, per le quali egli stesso ha bisogno di più tempo. Cose che il tecnicismo macchinale darà il tempo di fare, deve dare il tempo di fare, restituendo così alla gente, centuplicato, ciò che «l’impoverimento del pensiero come dell’esperienza» sensibile le ha fatto perdere». Della tecnica per il momento rischiamo di prenderci quasi solo il negativo se non procediamo ad una trasformazione sia dell’organizzazione sociale del lavoro che insieme della scala di valori della

nostra vita. Chiarite questi elementi fondanti, nella seconda parte del suo testo Gorz discute più nel concreto le possibilità e rischi che si aprono per il nostro futuro. La civiltà post – industriale, anziché ridimensionare il peso della forma merce, la estende alla totalità della vita, nelle manifestazioni originariamente meno assorbite dal meccanismo della profittabilità capitalistica: l’arte, la cultura, la comunicazione, e soprattutto quello che Gorz chiama il lavoro per sé. Il fatto che la ragione economica invada tutte queste altre sfere della vita da cui inizialmente era tenuta fuori dimostra «al negativo» quale sarebbe, invece, la possibilità storica dell’oltrepassamento d’una forma di produzione e di organizzazione sociale basata sull’arricchimento privato e su di una sostanziale disarmonia. La macina a vuoto dei lavori improduttivi e senza fine sociale (quando non addirittura con fini esplicitamente anti sociali come quello di imbonire i consumatori con la pubblicità) a sua volta ne nutre degli altri. Gorz osserva come il lavoro servile, stia aumentando nell’ultimo periodo (pensiamo soprattutto ai nuovi lavoratori immigrati in Occidente da altre nazioni). «Le schiere dei lavoratori domestici, uomini e donne, dei camerieri e cameriere, dei cuochi e degli aiutocuochi, dei fattorini chiamati a fare per noi le spese, le pulizie, la cucina, a portarci a casa piatti caldi, non impiegano meno (tenuto conto del tempo di lavoro accumulato negli impianti e nelle attrezzature di cui si servono) di quanti ne avremmo impiegato noi a fare da soli ciò che essi fanno al nostro posto. Il tempo che ci fanno guadagnare non è tempo produttivo ma tempo di consumo, di comodità». Il lavoratore che dopo una notte di lavoro ad un call center a spiegare quali sono i ristoranti più vicini a sperduti e a, loro volta, solitari viaggiatori notturni o a mandare mail promozionali da altre parti del mondo, torna a casa e, non senza ragioni, si fa portare la colazione a casa dal bar, fa senz’altro girare la macchina economica ma su di un binario fine a se stesso, e del tutto irrazionale. Il lavoro che svolge e quello che chiede è sostanzialmente superfluo allo sviluppo sociale. «Si mette così in opera una divisione sociale del lavoro completamente assurda. Gli uni sono talmente occupati nella sfera economica che non hanno il tempo per le loro mansioni domestiche; gli altri sono costretti ad assumersi i lavori di casa dei primi, i quali impediscono ai secondi, con la loro assiduità al lavoro, di trovare modi di guadagnarsi da vivere più interessanti. Solo la perseveranza ostinata nell’ideologia del lavoro impedisce ai sostenitori di questo modello di rendersi conto che se tutti lavorassero meno, tutti potrebbero assumersi i propri lavori domestici (nel senso anche più generico di cura di sé) e guadagnarsi da vivere lavorando». La verità del post fordismo è che siamo in un’epoca in cui gli uomini vengono costretti come criceti a girare a vuoto in ruote ferme su stesse così che qualunque elemento di profittabilità nel campo della produzione e in quello delle condizioni dell’orientamento del consumo può essere ben visto dagli stessi lavoratori, più o meno giovani, e più o meno precari, sulla base della promessa (e presunta) creazione di nuovi posti di lavoro. Lo stato di osmosi e oscillazione fra precarietà del lavoro e disoccupazione vera e propria sta intrappolando la dimensione di vita e di crescita delle nuove generazioni e portandoli a considerare qualsiasi lavoro come

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un lavoro, ed ogni attività come un mero mezzo di sostentamento. «Qualunque cosa andrebbe bene» è la frase che si sente dire spesso. Al livello di sviluppo della macchina e del capitale l’uomo con le sue capacità si trova di fronte al lavoro come una semplice variabile dipendente. Non potendo più rivendicare la vecchia identificazione dell’individuo col proprio lavoro, avvertiamo il bisogno di pensare diversamente e nuovamente al senso dell’attività politica di oggi. 3. Nella parte finale del libro, Gorz prova a tracciare alcuni caratteri per la nuova sinistra. Sulla base dell’analisi della realtà, prova a definire in cosa e come le prerogative di liberazione possono divenire concrete nel punto in cui siamo arrivati. In accordo con Touraine, crede che alcune vecchie categorie, anziché rendere possibile la trasformazione, diventino esse stesse nuovi ostacoli oggettivi alla presa di responsabilità verso il rivoluzionamento del presente. Non si tratta di buttar via Marx, e nessun marxista dovrebbe impaurirsi o sentirsi attaccato da tali posizioni. Marx è senz’altro il primo vero e più grande critico della natura del sistema capitalistico. Ma non basta accontentarsi di ciò che di Marx ci è arrivato dalla storia di centocinquanta anni del marxismo tra interpretazioni, rielaborazioni, adattamenti. Abbiamo bisogno di grimaldelli attuali rispetto all’onnilateralità del sistema d’oggi, alla coincidenza di produzione e creazione del bisogno, di potere dell’economia e potere politico, oppressione nel lavoro e controllo sistematico dei flussi d’opinione e coscienza. Siamo, come si diceva all’inizio, di fronte ad un’accelerazione della vita sociale, delle sue possibilità distruttive e delle sue potenzialità d’emancipazione. C’è bisogno in tempi rapidi d’armarsi di strumenti adeguati. Se «l’ideologia dello sforzo e del merito individuale, la difesa dell’occupazione, l’identificazione con il lavoro sono così diventati temi di destra che permettono di conquistare settori della classe operaia a una nuova alleanza nazionalproduttivistica (specialmente in tempi di ripresa dell’economia) a favore d’una modernizzazione liberalcapitalista», la lotta della sinistra, dalla sua, dovrà invece tendere al fine principale «della riappropriazione sociale e individuale del tempo di lavoro» e cioè «lottare per l’espansione degli spazi di autonomia sottratti ai fini economici e alla logica mercantile: rendere lo sviluppo economico, tecnico, organizzativo, urbano ecc. favorevole alla riappropriazione da parte degli individui del tempo, dell’ambiente di vita, del modello di consumo e del modo di cooperazione sociale: questa è grosso modo la prospettiva che si apre (o che si aprirebbe) a un sinistra che si definisse con la scelta di cogliere le potenzialità della civiltà post industriale». Per quanto questo riguarda necessariamente in primo luogo i paesi più avanzati capitalisticamente e quindi in questo senso più de – industrializzati, il ragionamento ha un senso forte. Non si tratta più di rivendicare la piena occupazione stabile all’interno del quadro capitalistico, come è accaduto nel fordismo in un momento in cui ancora era in auge l’etica del lavoro e un legame forte fra gli appartenenti alla stessa classe, ma di avviarsi a sganciare l’elemento del reddito dal lavoro, in modo da rendere effettivamente disponibile all’individuo il tempo che lo sviluppo tecnologico libera

dall’applicazione al lavoro. Se non si può tornare indietro dall’odierna volatilità del sistema del consumo e di ciò che questo ha innescato rispetto alla produzione e all’adattamento del capitalismo a criteri differenti rispetto a quelli del fordismo6, bisogna provare a concepire la trasformazione del carattere discontinuo del salario impostosi per le nuove generazioni a partire dalla flessibilizzazione del lavoro nel nuovo diritto di poter avere un reddito di base indipendente dallo stare o meno lavorando, di essere cioè inserito o meno in quel momento nel ciclo di lavoro o di esserne stati invece temporaneamente esclusi per le necessità del mercato. Il reddito di cittadinanza, che è una proposta che si è fatta strada a partire dalla metà degli anni novanta in Europa a partire da alcuni intellettuali francesi, tra cui Gorz, e italiani, tra cui ad esempio Fumagalli, incarna nel concreto questa idea di una nuova garanzia sociale7. Nella prima stesura delle sue dieci tesi sul reddito di cittadinanza, Fumagalli, ad esempio, nel 1998 introduce realisticamente la questione e la considera un’esigenza alla portata dello sviluppo economico raggiunto sulla base del nuovo modello di produzione flessibile8. Da un lato, infatti, la capacità tecnologica informatica consente di aumentare la produzione senza che aumenti necessariamente l’occupazione e dall’altro, il salario del lavoro dipendente è oggi sempre più sganciato dalle capacità produttive effettive del singolo lavoratore, sia fisiche che intellettuali. Questo rapporto, infatti, si fa più astratto, e proprio per questo, in un certo senso, si avvicina all’espressione di ciò che è nell’essenza, e cioè uno scambio fondamentalmente di tempo, prima che di qualunque altra capacità. Il tempo così, nella terza rivoluzione industriale, torna al centro. Il valore della forza lavoro di ciascun individuo è legata all’irrecuperabilità del tempo perduto quotidianamente da ciascuno nel proprio lavoro a scapito dello sviluppo di sé e della propria personalità. Il tempo non si può fermare ed è rispetto alla vita

6 Guardiamo ancora al caso italiano esemplare della Benetton per come ce lo descrive Perazza. Riguardo al rapporto tra produzione e commercializzazione scrive infatti: «Non è solo grazie al ricorso alla subfornitura (il primo degli elementi strutturali del post fordismo) che la Benetton è riuscita a imporsi: altro punto cardine per il suo successo è il rovesciamento del rapporto tra produzione e commercializzazione. Con la realizzazione di negozi monomarca che sono costantemente in contatto, attraverso una rete informatica, con villa Minelli, dove inviano gli ordini, l’azienda trevigiana ha potuto infatti, avere una percezione in tempo reale degli orientamenti del mercato. Le è stato così possibile far conseguire la produzione alla domanda, riuscendo ad ottenere una produzione praticamente sul venduto, che le ha permesso di risparmiare sui costi di magazzino, anche se in realtà la Benetton preferisce mantenere delle scorte di merce, sia pur molto limitate, per rispondere molto prontamente a eventuali richieste improvvise della clientela». 7 Rispetto al tema del reddito di cittadinanza si può consigliare per approfondire Reddito per tutti, edito da Derive Approdi nel 2009. 8 Lo stesso Fumagalli nel suo articolo tiene a precisare da un lato, nella Tesi 3 che «Il reddito di cittadinanza è una misura di politica economica riformistica e radicale e non di modificazione strutturale dell’organizzazione capitalistica intervenendo sul lato della distribuzione e non sul lato del conflitto capitale – lavoro» e dall’altro, nella Tesi 4, che «Il reddito di cittadinanza è una proposta di politica economica parziale, non esaustiva e non in contraddizione con altre proposte di riformismo radicale (quali riduzione di orario di lavoro, sviluppo dell’autorganizzazione sociale, attivazione di lavori concreti, ecc.)». Il punto non è quindi intendere questa proposta come una rivendicazione già socialista, proprio perché di per sé non intacca la proprietà privata degli strumenti di produzione, ma senz’altro però come un elemento da introdurre nel catalogo delle rivendicazioni transitorie nella lotta anticapitalistica odierna.

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Città Future 13 Lavoro, capitale e tecnica

il criterio supremo di valutazione d’ogni altra cosa. Perder tempo a chi più sa più spiace. E, ad oggi, l’eterogenesi stessa dei fini dello sviluppo della società capitalistica porta le persone ad essere molto più coscienti di quanto tempo il lavoro sottragga alla propria vita, di quante possibilità ed esperienze sprecate comporta, di quanto potrebbe essere fatto se solo se ne avesse il tempo. Il tempo libero dal lavoro e il tempo del lavoro. Si contrappongono nella coscienza media dell’individuo occidentale come due spazi separati da una linea netta. Il rapporto fra fini e mezzi emerge in superficie in qualche modo più chiaramente9. La strumentalità di ogni valore imposta dal regime capitalistico e dalla tecnica che con esso si sviluppa porta a degradare il lavoro stesso per fasce crescenti di individui dall’essere un’attività formatrice a divenire un mero elemento di sostentamento e guadagno. Sganciare il reddito dal lavoro, significherebbe, invece, aprire la possibilità, in ultimo, di avviarsi su una strada differente, di avviare nella coscienza umana la separazione fra ciò che è necessario e ciò che è strumentale, di ridimensionare l’influenza che oggi il cinismo o l’indifferenza presenti nel lavoro hanno nella dimensione della vita in termini di rapporti sociali reificati e subordinati alla logica della difesa di interessi e posizioni. Sarebbe un discorso interessante: aprirebbe la possibilità di iniziare a riflettere su come, quando oggi la gente crede di stare guadagnando di più dai suoi comportamenti sociali, sia in verità il momento in cui più (si) sta perdendo. APRILE 2010

9 Tornano alla mente anche le parole di Foucault in Volontà di sapere quando scrive: «È la vita, molto più del diritto, che è diventata la posta in gioco delle lotte politiche, anche se queste si formulano attraverso affermazioni di diritto. Il «diritto» alla vita, al corpo, alla salute, alla felicità, alla soddisfazione dei bisogni, il «diritto» a ritrovare, al di là di tutte le oppressioni o alienazioni, quel che si è e tutto quel che si può essere, questo «diritto» così incomprensibile per il sistema giuridico classico, è stato la replica politica a tutte queste nuove procedure di potere che, a loro volta, non partecipano del diritto tradizionale della sovranità».

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Città Future 14 Il precariato. Alcuni cenni

Lavoro - non lavoro IL PRECARIATO Alcuni cenni (Articolo pubblicato in Dossier sulla scuola a cura dell’Istituto Italiano studi Filosofici, Maggio 2010 e riprodotto in questa rivista per concessione dell’autrice) Maria Sole Fanuzzi «Hanno fatto forse qualcosa di più che pagare le spese di una mezza dozzina di commissioni d’inchiesta, i cui voluminosi rapporti sono condannati a dormine in perpetuo tra cataste di cartacce negli scaffali del Home Office?» F. Engels Studi e indagini L’ultima Commissione d’inchiesta istituita presso gli organi del Parlamento italiano ad aver aperto un’indagine conoscitiva sul fenomeno preso qui ad esame risale alla XV Legislatura (periodo di riferimento: 2006-2007)1. Pertanto, è d’obbligo premettere che ancor’oggi non esiste nel panorama italiano alcuna stima sintetica, fornita in sede ufficiale e scientificamente attendibile, quanto a valutazione qualitativa e quantitativa del precariato, ciò che crea ostacoli di non poco momento finanche all’autorità competente per l’espletamento delle funzioni di garanzia nei confronti della categoria lavorativa cosiddetta «precaria». Dalle audizioni stenografate nella Indagine citata in nota n. 1 si rileva, anzi, una vera e propria incapacità informativa nel raccogliere gli elementi precipui e necessari alle valutazioni quanto meno di statistica da parte delle Pubbliche Amministrazioni, in quanto la figura del «precario» manca di un’adeguata veste statutaria, in ambito giuridico e sociale, che possa orientare lo studio nel processo di identificazione del fenomeno e dei suoi soggetti; tanto che l’appellativo stesso di precari/ato pare essere una mera convenzione di fatto2. 1 Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, commissione XI – lavoro pubblico e privato (2006-2007) fonte internet: http://legxv.camera.it/_dati/lavori/bollet/chiscobollt.asp?content=/_dati/lavori/stencomm/11/indag/precariato/elenco.htm 2 Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – lavoro pubblico e privato, seduta del 7 novembre 2006, audizione di Luigi Biggeri (Presidente Istat): «Le opinioni e le valutazioni sull’impatto, cioè sull’efficacia, l’entità e la qualità del lavoro mancante di stabilità, sono però differenti. Ciò non sorprende, perché molto spesso, quando nelle legislature si prevedono determinate politiche, non c’è poi nessun elemento per poter effettuare una valutazione del loro impatto. Manca, cioè, un sistema informativo che consenta di valutare qual è l’impatto della politica che si vuole attuare. […] Per il settore in esame siamo scoperti: non è possibile effettuare un’analisi di impatto. […] Al momento, quindi, non è possibile dare una risposta a tutti i quesiti che si è posta la commissione». Cfr. anche la seduta del 18 gennaio 2007, audizione di Giuseppe Lucibello (Ispettore generale capo dell’ispettorato generale per gli ordinamenti del personale e l’analisi dei costi del lavoro pubblico della Ragioneria generale dello Stato): «Purtroppo, la rilevazione del conto annuale, nata negli anni Novanta, non è finalizzata a gestire tutte le informazioni in materia, laddove invece le informazioni risultano anche eccessive per quanto concerne il lavoro a tempo indeterminato. Non disponiamo, infatti, di informazioni relative al titolo di studio, all’anzianità, alla specifica tipologia del rapporto, e, per esempio, per quanto concerne le collaborazioni coordinate e continuative, disponiamo dei dati dal 2003 e, per quanto riguarda l’incarico di studio, consulenza e ricerca, dal 2004». In ultima analisi, importante è la dichiarazione del presidente della XI

A fronte di ciò, si rende, dunque, necessario, nell’esposizione che seguirà, procedere innanzitutto per via negativa ed analogica. La categoria lavorativa analoga di immediato riferimento è identificabile nel cosiddetto «lavoro flessibile»: con la locuzione si intende, nel dibattito italiano, una figura «atipica» – cioè non rispondente ad uno standard riproducibile sempre e solo secondo eguali modalità, quanto piuttosto declinabile, in sede di stipulazione di contratto per prestazioni lavorative, con varianti in merito alla durata complessiva dell’incarico, alla qualità o anche alla sua intensità nell’arco della giornata lavorativa etc. (es.: si considera come lavoro flessibile il cosiddetto part-time)3 – contemplata dal diritto del lavoro, ossia dotata delle tutele e delle garanzie di ordine previdenziale, civile, penale e tributario. La classificazione di lavoro precario, invece, è utilizzata in particolare laddove, alla temporaneità del contratto – che rappresenta una costante, inoltre, di qualsiasi nuova figura lavorativa introdotta a partire dalla metà del XX secolo ad oggi – si associno pure peculiarità, quali: «in primo luogo [...] una ridotta o assente copertura previdenziale; (la) mancanza di ammortizzatori sociali per la copertura dei periodi di vacanza contrattuale; una scarsa probabilità di transitare verso contratti stabili; […] una maggiore frammentazione del percorso lavorativo; (la) brevità dei contratti (tanti piccoli contratti che si rinnovano continuamente); un sottoinquadramento contrattuale rispetto al titolo di studio; lunghezza della permanenza nella situazione di incertezza contrattuale [...]»4.

commissione, Gianni Pagliarini: «[…] non ho alcuna certezza, anzi nutro una serie di dubbi sul metodo di rilevazione, per due ragioni. innanzitutto, in base al sistema di rilevazione che applichiamo in italia, è considerato occupato chiunque svolga un’ora di lavoro nella settimana precedente a quella della rilevazione; in secondo luogo, la rilevazione avviene per interviste. Non vi è un sistema codificato che obblighi i datori di lavoro a trasmettere, in questo caso all’ente pubblico, i dati relativi agli occupati ed alle loro caratteristiche. Se vogliamo svolgere un ragionamento serio e precisare il significato del termine «precario», forse sarebbe bene riflettere sul sistema di rilevazione. Un conto è il numero delle persone che hanno un lavoro, un conto sono le ore complessivamente lavorate in un paese» (Cfr. seduta del 2 maggio 2007, p. 12). 3 Riguardo alla classificazione del lavoro «flessibile», cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – lavoro pubblico e privato, seduta del 7 novembre 2006, audizione di Luigi Biggeri (Presidente Istat): «È quindi opportuno distinguere almeno fra «flessibilità oraria» e «flessibilità contrattuale» (in tal caso si parla di «lavoro temporaneo»: al riguardo, vedi sotto), tenendo separate le due cose, in quanto solo la seconda sembra associarsi – non sempre, ma comunque con maggiore frequenza – anche a una condizione di precarietà. […] a livello internazionale si riconosce che l’andamento e le caratteristiche dei contratti a termine – che sono chiamati temporary contracts – rappresentano una solida base, sulla quale appoggiare una riflessione riguardante le trasformazioni del mercato del lavoro, in quanto si riferiscono ad un universo «potenziale» di possibili situazioni di precarietà del lavoro. […] Un’occupazione viene considerata temporanea se la durata del lavoro è contrattualmente determinata da condizioni oggettive». Cfr. anche il verbale della seduta del 6 dicembre 2006, audizione di Luigi Marchione (direttore generale dell’Inpdap): «Vi è poi una figura, quella dei lavoratori interinali; voi sapete che costoro non hanno un rapporto diretto con l’istituto che invece stipula contratti per la prestazione di servizi da parte di società le quali, quindi, forniscono tale personale». 4 Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – lavoro pubblico e privato, seduta del 7 novembre 2006, audizione di Luigi Biggeri (Presidente istat), p. 5.

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Città Future 15 Il precariato. Alcuni cenni

Quel che preme, tuttavia, qui sottolineare è appena fatto intendere dallo stesso Biggeri nel prosieguo della sua relazione, di cui è riportato di seguito un significativo stralcio: «[…] Se le forme di lavoro flessibile rappresentano solamente una prima tappa dell’ingresso di nuovi soggetti (giovani, o meno) nel mercato del lavoro, che successivamente sono destinati ad essere stabilizzati, si rimane nell’ambito degli obiettivi posti dalle politiche del lavoro. Non sono quindi da considerare precarie»5. Confronto Italia - Europa É, infatti, in merito alla considerazione della reale possibilità di stabilizzazione del lavoratore precario che deve concentrarsi l’attenzione, soprattutto nell’ottica di tracciare un profilo di confronto tra la situazione italiana e quella europea continentale. Come rileva lo stesso Biggeri, mentre in Italia «[…] dall’indagine condotta dall’Istat sulle forze di lavoro, risulta che l’80 per cento dei lavoratori titolari di un contratto di lavoro a termine ha affermato di avere un contratto di lavoro a termine non per propria scelta volontaria di temporaneità, ma perché hanno trovato solo quel tipo di offerta»6, in quanto «La domanda da parte delle imprese era di lavoro precario e di conseguenza i lavoratori hanno accettato quel tipo di contratto»7, si deve, diversamente, notare che «[...] nel resto dei paesi dell’Unione europea la percentuale è del 55 per cento [...]»8. Ad esempio, «[...] in Germania [...] il lavoro flessibile riguarda circa un terzo dei giovani tra i 20 e i 29 anni, ma solo il 6,5 per cento degli adulti tra 30 e 54 anni. In questo caso, il lavoro a termine sembra effettivamente essere utilizzato come via d’accesso al lavoro, che porta a situazioni contrattuali standard in tempi relativamente brevi»9. Normativa di riferimento All’altezza circa degli anni Settanta del Novecento, infatti, a livello europeo si è assistito ad una rivalutazione complessiva del processo di regolamentazione dei fenomeni economici e sociali, tale che, in nome di un liberismo ottimista quanto contingente nelle sue manovre, si credé di poter dare avvio senza particolari preoccupazioni ad una progressiva deregolarizzazione (deregulation) di tutti gli ambiti della

5 ibidem. 6 Ibidem. 7 Ibidem. 8 Ibidem. 9 Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 7 novembre 2006, audizione di Luigi Biggeri (Presidente Istat), p. 7.

Pubblica Amministrazione – politica, questa, meglio conosciuta nella nostra penisola col nome di semplificazione amministrativa (e, all’occorrenza, legislativa)10. A questo proposito, nell’audizione del 17 gennaio 2007, l’allora Commissario straordinario dell’ARAN (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni), Massimo Massella Ducci Teri, spiegava alla Commissione come «Specialmente negli anni Settanta e Ottanta, si vennero però a costituire in vari ambiti forme di lavoro precario che richiesero da parte del Parlamento e del legislatore interventi che venivano qualificati come provvedimenti di sanatoria»11. Dapprima «La riforma del lavoro pubblico e la privatizzazione del rapporto di lavoro, intervenute con il decreto legislativo n. 29 del 1993, hanno innovato profondamente anche la materia delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale nelle pubbliche amministrazioni. In particolare – continua il Commissario –, è stato l’articolo 36 dell’originario decreto legislativo n. 29 ad estendere alle Pubbliche Amministrazioni la possibilità di avvalersi delle norme contrattuali flessibili […]. La stessa norma ha demandato ai contratti collettivi nazionali di lavoro la disciplina della materia dei contratti a tempo determinato, dei contratti di formazione lavoro e degli altri rapporti formativi, nonché la fornitura del lavoro temporaneo»12. In seguito, l’accesso alle Pubbliche Amministrazioni per il lavoro flessibile fu, in gran parte, escluso, tanto che nella legge del 14 febbraio 2003, n. 3013, conosciuta come «legge Biagi» (vedi nota n. 10), all’articolo 3 (Delega al Governo in materia di riforma della disciplina del lavoro a tempo parziale) si può leggere: «Il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro

10 Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 7 novembre 2006, audizione di Luigi Biggeri (Presidente Istat): «[…] il fenomeno ha incominciato a manifestarsi [...], anche perché si è verificata una marcata deregolamentazione, non solo a livello italiano, anzi inizialmente al livello OCSE e poi come strategia dell’occupazione a livello di Unione europea. A partire dal 1997, tale deregolamentazione ha condizionato certamente, in modo rilevante, le politiche del lavoro e dell’occupazione nei vari paesi dell’Unione». È chiaro che in questo passo della sua relazione, Biggeri fa riferimento alla cosiddetta «Legge Treu» (Legge del 24 giugno 1997, n. 196: Norme in materia di promozione dell’occupazione), che può a giusta ragione essere considerata come la disposizione che complessivamente introduce palesemente in Italia la realtà del lavoro flessibile e delle sue varie degenerazioni, fra cui possiamo includere quella del «precariato». Con la legge del 14 febbraio 2003, n. 30 (cosiddetta «Legge Biagi») il Parlamento italiano ha portato ad ulteriore approfondimento la fattispecie del lavoro flessibile, tanto che la legge in esame viene considerata erede e continuatrice della Treu. 11 Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 17 gennaio 2007, audizione di Massimo Massella Ducci Teri (Commissario straordinario dell’ARAN), p. 4. 12 Ibidem. 13 La legge Biagi presenta aspetti interessanti anche per i rilevanti risvolti in materia di mercato del lavoro nel settore agricolo; non essendo questa la sede per approfondire tale punto, si rimanda alla lettura integrale dell’art. 3.

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Città Future 16 Il precariato. Alcuni cenni

del lavoro e delle politiche sociali [...] uno o più decreti legislativi, con esclusione dei rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, recanti norme per promuovere il ricorso a prestazioni di lavoro a tempo parziale, quale tipologia contrattuale idonea a favorire l’incremento del tasso di occupazione e, in particolare, del tasso di partecipazione delle donne, dei giovani e dei lavoratori con età superiore ai 55 anni, al mercato del lavoro, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi [...]»14. L’osservazione del ruolo che il lavoro flessibile ha avuto nella pubblica amministrazione riconduce a considerazioni ulteriori, in particolare sul rapporto tra lavoro flessibile e blocco del turnover. Come dichiara, tra molte altre voci concordi, il Presidente della XI Commissione – Lavoro pubblico e privato, Gianni Pagliarini, «spesso le forme di lavoro atipiche sono state utilizzate per raggirare il blocco delle assunzioni, del turnover»15. L’osservazione di ciò induce a non poter prestare più oltre fede alle molte e molto spesso fraseologiche dichiarazioni di principio, le quali vorrebbero far intendere simili complicati meccanismi di alternanza alle «maestranze» come fine strumento per la realizzazione di «un sistema efficace e coerente di strumenti intesi a garantire trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro e a migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di una prima occupazione, con particolare riguardo alle donne e ai giovani»16, poiché è chiaro ormai, e giova citare a questo punto ancora il Presidente Pagliarini, che «i 10 occupati di trenta anni fa oggi (risultano) 20, solo perché in realtà si stanno dividendo esattamente le ore dei 10 occupati di trenta anni fa. Ho il sospetto che le cose stiano effettivamente così – continua il Presidente –, altrimenti non si spiegherebbe perché in questo paese si avverte un problema salariale enorme e il livello delle retribuzioni è basso (se anziché 36 o 40 ore si lavora 15, 18 o 20 ore, è evidente che c’è anche un problema di salario e di retribuzione)»17. Interpretazione che viene confermata da un precedente storico-giuridico di importanza rilevante e che emerge nell’Indagine durante l’audizione del 17 gennaio 2007, quando Massimo Massella Ducci Teri (Commissario

14 Cfr. anche l’art. 6: «Le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate». 15 Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 17 gennaio 2007, p. 9. 16 Cfr. legge del 14 febbraio 2003 n. 30, art. 1, comma 1. 17 Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 2 maggio 2007, audizione di Cesare Damiano (Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale), p. 12.

straordinario dell’ARAN), completando la sua illustrazione della portata del decreto legislativo n. 29/1993, precisa: «L’altra norma fondamentale già presente nel decreto legislativo n. 29, che non è stata modificata ed è stata addirittura ritenuta fondata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee con due recenti sentenze del 2006, prevede comunque il divieto della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato»18. E a nulla o pochissimo è valsa la disposizione contenuta nella finanziaria 2007 (legge del 27 dicembre 2006, n. 296), quando al comma 519 dell’art. 1 disponeva che «il personale interessato alla stabilizzazione debba essere in possesso dei seguenti requisiti: essere in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, ed essere stato assunto mediante selezione concorsuale o altre modalità previste dalla legge. Qualora le unità in attesa di stabilizzazione fossero state assunte a tempo determinato tramite selezioni diverse da quella concorsuale, si rende necessario l’espletamento di apposite prove selettive»19, poiché essa tendeva inevitabilmente, per le caratteristiche richieste agli «interessati», a rivolgersi ad un numero estremamente esiguo di soggetti, come poi, in effetti, è stato denunciato a mezzo stampa da numerose inchieste giornalistiche (vedi soprattutto articoli de L’Unità). Conseguenza ultima è stato il perdurare di una situazione ambigua in cui una percentuale elevatissima di lavoratori, calcolata in modo molto approssimativo, nel corso dell’Indagine, in vari milioni, si è ritrovata costretta ad operare.

18 Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 17 gennaio 2007, audizione di Massimo Massella Ducci Teri (Commissario straordinario dell’ARAN), p. 5. 19 Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 30 maggio 2007, audizione di Luigi Nicolais (Ministro per le Riforme e le Innovazioni nella Pubblica Amministrazione), p. 5.

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Città Future 17 Il precariato. Alcuni cenni

Lavoro precario e lavoro sommerso Tuttavia, la gravità della vicenda non riceverebbe giustizia se non ci si soffermasse sui suoi effetti in relazione ad un ulteriore aspetto: il cosiddetto «lavoro sommerso»20. Si può, anzi, affermare, in prima istanza, che il rapporto tra lavoro precario e lavoro sommerso è di parentela: alcune quote di lavoro precario possono, cioè, essere intese propriamente come lavoro sommerso, non visibile, ossia, nella sua completezza giuridica, sociale, economica. «Sommersa» è, infatti, qualsiasi tipologia di impiego lavorativo non assistito da tutela, o meglio, i cui soggetti agenti non sono titolari di fatto dei diritti di garanzia e di tutela né dei diritti previdenziali previsti, innanzitutto, in sede costituzionale: e simile – per gran parte della categoria precaria – è tale descrizione21. E ciò in conseguenza del fatto che, come è stato anticipato sin dall’inizio, la figura del precario non è «visibile», ossia non si posseggono ad oggi le categorie di riferimento per mettere a fuoco con precisione i contorni e la fisionomia delle sue vicende, cosicché la ricerca resta invogliata nella confusione di una visione meramente analitica. A livello risolutivo, dunque, è importante prendere in considerazione le politiche di controllo sul lavoro. Tra i precedenti storici, presi in esame nell’Indagine, interessante è il riferimento all’art. 1, comma 1198 della legge del 27 dicembre 2006, n. 296 (finanziaria 2007)22, menzionato dal prof. Alberto Burgio durante la seduta del 2 maggio 2007 per l’audizione del ministro del lavoro e della previdenza sociale, Cesare Damiano, di cui riportiamo la parte essenziale: «Una questione che mi permetto di sollevare riguarda l’ormai famosa parte del comma 1198 del maxi-emendamento all’articolo 16 (se non sbaglio) della finanziaria, che prevede un anno di sospensione di tutte le attività ispettive (ivi comprese quelle che concernono la materia della sicurezza e della tutela della salute dei lavoratori) alle imprese che accedono al percorso di regolarizzazione»23. E immediatamente dopo il prof. Burgio sottolinea quanto viene riportato: 20 Molto spesso si tende ad eguagliare la dizione «lavoro sommerso» con l’espressione «lavoro nero»: in effetti si tratta di concetti teoricamente differenti, anche se di frequente, nell’osservazione concreta, intrecciati. Per «lavoro nero» si intende precisamente l’impiego nella cui esplicazione si riscontrano irregolarità sul piano tributario; per «lavoro sommerso» possiamo, invece, intendere una categoria anche più estesa di quella inquadrata nella definizione di cui sopra, in quanto «sommersa» può essere qualsiasi occupazione lavorativa che, pur rispettando formalmente i crismi ordinamentali, è sostanzialmente irregolare nell’aspetto contrattuale, gestionale o di altra natura concreta (come appunto sovente è stato rilevato per il precariato). 21 Vedi nota n. 4. 22 Legge del 27 dicembre 2006 n. 296, art. 1, comma 1198: «Nei confronti dei datori di lavoro che hanno presentato l’istanza di regolarizzazione di cui al comma 1192, per la durata di un anno a decorrere dalla data di presentazione, sono sospese le eventuali ispezioni e verifiche da parte degli organi di controllo e vigilanza nella materia oggetto della regolarizzazione anche con riferimento a quelle concernenti la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori». 23 Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 2 maggio 2007, audizione di Cesare Damiano (ministro del lavoro e della previdenza sociale), p. 7.

«Inevitabilmente questa disposizione […] rischia di essere interpretata come un avallo o addirittura come un’esortazione, per non dire un’istigazione, a violare quelle norme, giacché si prevede che, anche in caso di violazione, per un anno nessuno sarà chiamato a svolgere i controlli e a comminare sanzioni. Credo che sarebbe opportuno cancellare quanto prima quella norma per trasmettere un segnale positivo al paese»24. In Parlamento non seguirono il consiglio ed oggi il comma 1198 è ancora al suo posto. Né si è cambiato rotta col cambio di Legislatura. Il Documento di programmazione dell’attività di vigilanza per l’anno 200925, stilato nel febbraio dell’anno scorso dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali – Direzione generale per l’Attività Ispettiva, sotto la direzione del dott. Paolo Pennesi, infatti, in nome di un decentramento dai colori secessionistici delle funzioni e degli uffici dell’Amministrazione Pubblica, prevede «Rispetto al numero delle aziende da ispezionare programmate nel 2008 il cambiamento «di rotta» dell’azione di vigilanza (che) comporterà la realizzazione di un minor numero di interventi ispettivi – circa il 17%»26. Neppure si creda, tuttavia, che quanto stabilito nel paragrafo Coordinamento con Enti previdenziali27 possa rappresentare un valido strumento di risoluzione dei tanti problemi connessi al fenomeno del precariato, in quanto gli Enti previdenziali, se anche riuscissero – in futuro, poiché ad oggi nulla è ancora migliorato – a fornire aiuti preziosi nella gestione dei lavoratori flessibili, poco o nulla potranno fare per i precari, che, non essendo destinatari di politiche di previdenza sociale, non sono iscritti negli albi degli Enti previdenziali, che, quindi, non ne hanno, se non in modo approssimativo e indiretto, alcuna contezza precisa. Tutto ciò in un contesto europeo che continua a vedere nel processo di deregulation il rimedio principale alle patologie del mercato unico, confondendo visibilmente la causa con uno degli effetti. A buon diritto, dunque, il presidente della Commissione XI, Pagliarini, commentava: «Altra cosa è invece la precarietà. Essa non è l’utilizzo temporaneo di lavoratori per cogliere una opportunità di mercato, ma è un uso distorto della buona flessibilità in funzione di un inferiore costo del lavoro»28. FEBBRAIO 2010

24 Ibidem. 25 Fonte internet: http://www.casaportale.com/public/uploads/14012-pdf1.pdf 26 Cfr. Documento di programmazione dell’attività di vigilanza per l’anno 2009, p. 5. 27 Cfr. Documento di programmazione dell’attività di vigilanza per l’anno 2009, p. 6-7. 28 Per il rapporto tra precariato e immigrazione clandestina, vedi Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 29 maggio 2007, audizione di Paolo Ferrero (Ministro della solidarietà sociale).

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Città Future 18 Destrutturazione dei diritti dei lavoratori

Lavoro - non lavoro DDL 1167-B: DESTRUTTURAZIONE DEI DIRITTI DEI LAVORATORI. Arbitrato, certificazioni extragiudiziali, licenziamenti verbali… benvenuti nel far west. Claudia Pellegrino, Fabrizio Forte Abbiamo l’impressione di assistere e di essere travolti da un fenomeno che ha assunto ormai le dimensioni e la potenza di una calamità naturale: una bufera di sabbia e detriti. I detriti provengono dalla demolizione di quelle poche ma solide costruzioni comunemente definite garanzie, sono quindi il frutto dell’erosione. I granelli sono i fattori erodenti e rischiano di consumare la nostra capacità di agire, reagire, entusiasmarci, unirci e difendere con fermezza la solidità di un edificio, quello dei diritti fondamentali, che non può essere in alcun modo compromessa. Immaginiamoci allora dotati, nel bel mezzo della tempesta, di una lente di ingrandimento. È il primo strumento cui possiamo ricorrere per resistere alla violenza di un attacco che giunge da tutte le direzioni, è il filtro attraverso cui leggere, interpretare, conoscere la natura del fenomeno in atto e determinare poi la scelta degli ulteriori strumenti di cui avvalersi per arrestarlo. Ogni granello ha una forma, un nome. Fra i tanti ne afferriamo uno che scopriamo chiamarsi «disegno di legge n.1167-B». Il decreto, quali proposte di riforma? È stato approvato in via definitiva dal Senato il 3 marzo 2010, come collegato lavoro alla Finanziaria e si colloca in un contesto di interventi volti, in vari settori, alla realizzazione del progetto di destrutturazione dell’impianto di garanzie costituzionalmente sancite di cui ancora (forse per poco) godono quanti vivono da onesti cittadini e lavoratori nel nostro Paese. Il Presidente della Repubblica, ricevuto il testo dal Parlamento, lo ha rinviato alle Camere affinché queste procedano ad una nuova deliberazione. Ha quindi rifiutato, esercitando i poteri conferitigli dall’art. 74 della Costituzione, di promulgare una legge che presenta, in più punti, evidenti profili di incostituzionalità. I rilievi del Capo dello Stato concernono principalmente l’art.31 (conciliazione e arbitrato) del disegno di legge, ma problematico, tra gli altri, risulta essere anche l’art.30 (clausole generali e certificazione del contratto di lavoro). Quali sono le ragioni di tanta preoccupazione da parte di Napolitano, dei sindacati (in particolare della CGIL), dei lavoratori, di autorevoli giuslavoristi e di un’opposizione parlamentare che tuttavia si mostra possibilista, limitandosi ad avanzare timide proposte di correttivi che per nulla intaccano il nucleo del provvedimento? Ad agitare gli animi è semplicemente «la malafede di chi vuole accendere tensioni sociali», come sostiene il Ministro del Lavoro Sacconi, o al contrario la buona fede di chi comprende il pericolo di effetti disastrosi insito nelle previsioni del DDL, ed avverte il dovere morale di esprimere con forza la propria contrarietà?

Non è così difficile darsi una risposta, è sufficiente una lettura costituzionalmente orientata degli articoli contestati. La nuova disciplina introdotta dal decreto in questione contempla la possibilità per lavoratore e datore di lavoro di pattuire, all’atto dell’assunzione, clausole compromissorie, attraverso cui le parti rinunciano preventivamente alla tutela giurisdizionale nel caso in cui sorgessero controversie relative al rapporto lavorativo, e si impegnano a devolvere la risoluzione delle stesse e la garanzia dei propri diritti, ad una decisione, eventualmente equitativa, di arbitri privati. Trattasi in tutta evidenza non di una opportunità in più riconosciuta al lavoratore ma, al limite, di una previsione che privilegia l’esigenza di celerità (soddisfatta dall’istituto dell’arbitrato in quanto il lodo deve essere pronunciato entro il termine di 60 giorni), finendo però per comprimere inevitabilmente il fondamentale ed inderogabile diritto ad agire in giudizio riconosciuto dall’art 24 della Costituzione. L’arbitrato ha ragion d’essere come forma di giustizia privata tra soggetti che hanno la stessa forza contrattuale. È evidente che questo presupposto non ricorre nei rapporti di lavoro, essendo di immediata intuibilità che il lavoratore è, al momento della stipulazione del contratto, nella condizione di massima debolezza. È soprattutto questa considerazione che ha motivato la decisione di rinvio da parte del Capo dello Stato il quale ha sottolineato, nel messaggio alle Camere che «occorre verificare attentamente che le disposizioni siano pienamente coerenti con la volontarietà dell’arbitrato e la tutela del contraente debole». La natura vessatoria di una clausola arbitrale stipulata nella fase genetica del rapporto, sarebbe dal lavoratore presumibilmente tollerata in ragione di una valutazione di mera necessità: lavorare seppur rinunciando ad un diritto che non è più così indisponibile o non lavorare affatto? In questo bilanciamento l’ago rischierebbe di pendere nella prima direzione. Il correttivo proposto dall’opposizione, in particolare dall’ex Ministro del Lavoro Damiano, consiste nell’accordare al lavoratore la facoltà di scelta tra arbitrato e ricorso giurisdizionale ogni qual volta sorga un contenzioso, non a priori, vincolandolo in tal modo a decidere una volta per tutte. Ciò consentirebbe, nelle intenzioni manifestate dai proponenti, di accogliere l’utilità, in termini di rapidità della decisione, dell’arbitrato anche in materia di lavoro, facendo leva sulla professionalità e competenza degli arbitri (che sono solitamente scelti tra professori universitari e avvocati cassazionisti, come sottolineato da Arturo Maresca in un articolo del Sole 24 ore del 3 Aprile), rimanendo entro i confini della costituzionalità. In realtà è evidente che la proposta non fa che spostare il problema: anche in costanza di rapporto infatti, il lavoratore è spesso soggetto ai ricatti più vari, la questione investendo la stessa possibilità di rinunciare e transigere su diritti (dal diritto alla stabilità del rapporto a quello alla sicurezza nei luoghi di lavoro, dal diritto ad una retribuzione adeguata e dignitosa a quelli che riguardano i modi e i tempi del lavoro, fino al diritto di sciopero) dei quali non dovrebbe poter disporre. Le modifiche apportate in merito dalla maggioranza, a seguito del rinvio, non hanno tenuto conto tuttavia dell’emendamento Damiano e si limitano a differire la

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decisione dal momento dell’assunzione al momento della conferma del contratto (cioè dopo il periodo di prova) o dopo 30 giorni dalla stipula, senza mutare quindi nella sostanza la precedente previsione, ed escludono dalle clausole compromissorie soltanto la risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò è valso a tranquillizzare CISL e UIL sulla salvezza dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Non altrettanto può dirsi per la CGIL di Epifani per il quale è l’arbitrato in sé ad essere incostituzionale in questa materia. Così, nell’imminenza di uno sciopero generale indetto dal primo sindacato italiano contro il «collegato lavoro», CISL e UIL si affrettavano a stipulare con la confindustria un’intesa separata, con la quale in sostanza davano il loro assenso all’intervento di riforma. Licenziamento verbale, «nostalgico» ritorno al passato. Come se ciò non bastasse (e quasi a «compensare» l’espunzione dell’art. 18 dai diritti compromettibili in arbitrato), si è proposto di reintrodurre il «licenziamento verbale». È da una legge del 1966 che questa fattispecie viene considerata inefficace ed, in quanto tale, non soggetta a termini per l’impugnazione, che sono invece di 60 giorni dalla comunicazione scritta, in caso di licenziamento comunicato per iscritto (il solo «efficace», per intenderci). Adesso l’impugnativa varrà anche per i licenziamenti inefficaci, il termine è precisamente di 90 giorni, che decorre dalla data della presunta comunicazione orale al lavoratore da parte del datore. Salta agli occhi l’equazione oralità/incertezza, risultando per il lavoratore estremamente difficile dimostrare di non essere incorso in decadenza ed esercitare, in definitiva, il suo diritto di agire in giudizio.

Arbitrato secondo equità, quanto equo è? Molto preoccupante è anche la novità dell’arbitrato secondo equità che entra, senza lasciare più dubbi,nella disciplina del diritto del lavoro. Il «senso del buono e del giusto», secondo quanto ritenuto dall’arbitro, si sostituirebbe inesorabilmente ai diritti legislativamente previsti e frutto di decenni di lotte e conquiste dei lavoratori. In realtà risale al 2006 un intervento legislativo che abrogò la parte dell’art.808 del C.P.C. in cui era prevista la nullità della clausola compromissoria contenuta in contratti o accordi collettivi o in contratti individuali di lavoro ove autorizzasse gli arbitri a pronunciare secondo equità. Il decreto 1167 addirittura prevede espressamente questa

possibilità. La pattuizione di clausole compromissorie che autorizzino gli arbitri a decidere secondo equità è consentita solo ove ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. La clausola compromissoria, a pena di nullità, deve essere certificata. Le commissioni di certificazione accertano l’effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controversie che dovessero insorgere in relazione al rapporto di lavoro. Il problema è che l’art 31 prosegue precisando che «in assenza dei predetti accordi interconfederali o contratti collettivi, trascorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali definisce con proprio decreto, sentite le parti sociali, le modalità di attuazione e di piena operatività delle disposizioni» di cui sopra. Appare a questo punto evidente che se le parti sociali (imprese e sindacati confederali, con la sola eccezione della CGIL dato lo strappo consumatosi con CISL e UIL) non raggiungeranno entro un anno un accordo interconfederale sull’arbitrato, sarà il governo a decidere. Ciò significa che «la contrattazione potrebbe diventare l’unica vera base legale minima per consentire l’arbitrato di equità in materia di lavoro e che nel giro di qualche anno si è passati da vietare tassativamente l’arbitrato di equità per le controversie individuali di lavoro a consentirne la previsione anche solo attraverso una clausola del contratto individuale» (L.Zoppoli, Certificazione dei contratti di lavoro ed arbitrato, in wp «Massimo D’Antona.it»-102/2010). In contrasto con l’art 24 Cost. è anche la previsione che sottrae al giudice la facoltà di pronunciarsi nel merito circa le valutazioni tecniche, organizzative e produttive dei datori di lavoro in tutti i casi in cui le leggi «contengono clausole generali, comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso». L’unico sindacato ammesso resterebbe quello di legittimità. Se quindi formalmente non risulta esserci violazione di sorta, il giudice avrà le mani legate: non potrà rilevare eventuali violazioni sostanziali, non potrà provvedere a reprimerle con gli strumenti del diritto, laddove è evidente che la maggior parte di esse non avviene nella fase di qualificazione formale del rapporto, bensì in costanza di esso, durante il suo svolgimento. Non finisce qui. Commissioni di certificazione e ruolo dei giudici. L’articolo 101 della nostra Costituzione sancisce che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». L’art. 30 del DDL invece vincola il giudice ad attenersi, quanto alla qualificazione del contratto, alle certificazioni, extragiudiziali, elaborate da commissioni a ciò deputate e gli fa espresso divieto di interpretare le clausole negoziali in maniera difforme rispetto alle valutazioni espresse dalle parti nei contratti certificati. Ma innanzitutto queste certificazioni sono provvedimenti ben diversi dalla legge, hanno la natura di provvedimenti amministrativi. In secondo luogo il contratto così come eseguito potrebbe

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non rispecchiare il contratto così come concluso; in una simile ipotesi il giudice nulla può. Infine si introduce la possibilità di derogare a livello individuale alla disciplina di legge o del contratto collettivo. Anche se attraverso lo strumento delle commissioni di certificazione si alleggerisce il carico giudiziario in materia di lavoro e si mira formalmente alla valorizzazione dell’autonomia individuale, non mancano critiche stringenti che vertono soprattutto sulla ambiguità ed approssimazione di questa disciplina introdotta nel 2004 dall’allora Ministro Maroni. Il Capo dello Stato, sempre in virtù dell’art 74 Cost. sarà obbligato a promulgare la legge se le Camere la approvano nuovamente, come sicuramente accadrà. Il rischio è che questa sarà arricchita di emendamenti peggiorativi. Non essendo contemplato nel nostro ordinamento il sindacato preventivo di legittimità costituzionale, il passaggio ulteriore potrebbe essere l’attesa che divenga legge per sollevare poi la questione di incostituzionalità. Opposizione dove sei? Il quadro dell'attuale situazione non sarebbe tuttavia completo (e, forse, nemmeno comprensibile, perché non ci si spiegherebbe la facilità e la quasi totale assenza di resistenze con cui certe proposte attraversano la sede politica), se non facessimo nemmeno un breve accenno a quelle che sono le posizioni in merito del più grande partito di opposizione. In un clima di generale nascondimento del lavoro dagli spazi angusti della contesa politica, in cui non è più sulla base della rappresentanza e della tutela del mondo del lavoro che si determinano le appartenenze e si dispongono gli schieramenti, traspare una comune convinzione: questa non tanto riguarda le concrete soluzioni prescelte – per quanto anche su di esse non è raro che si riescano ad individuare inedite convergenze – quanto la presunta impossibilità di fare marcia indietro nella moltiplicazione delle figure contrattuali in vario modo precarie e sprovviste di tutele. Così, ad esempio, accade che 48 senatori del PD presentino una proposta di legge (primo firmatario l’ex CGIL Paolo Nerozzi) per l’introduzione di un Contratto Unico d’Ingresso, che intenderebbe superare la miriade di figure contrattuali atipiche introdotte dalle riforme del 1997 e del 2003 (solo conservando i contratti a tempo determinato e le collaborazioni coordinate e continuative), prevedendo però per tutti una fase di ingresso della durata di tre anni durante la quale non sarebbe garantita alcuna stabilità del rapporto lavorativo: il datore sarebbe cioè libero di licenziare ad nutum il lavoratore, salvo indennizzarlo con una somma di danaro pari a cinque giorni per ogni mese di prestazione lavorativa. Quasi che l’aspetto ingiusto e inaccettabile della precarietà sia non tanto la precarietà in sé, ma il fatto che finora non abbia toccato tutti (convinzione, tra l’altro, più volte apertamente confessata in sede politica). Si tratta di una proposta in tutto simile a quel CPE, contratto di primo impiego, contro cui in Francia nella primavera del 2006 scesero in piazza tre milioni di studenti e lavoratori, mettendo a rischio la stessa tenuta del governo di Chirac, che fu alla fine costretto a fare marcia indietro. Nel nostro Paese, nel

momento di massima ripercussione degli effetti della crisi sull’economia reale, tra licenziamenti, casse integrazioni, chiusura di interi stabilimenti, questa proposta viene da quel che resta della sinistra in Parlamento. Se il mantra delle non meglio specificate «esigenze delle imprese» da salvaguardare vuol significare che i parametri umani della vita debbano ulteriormente adeguarsi a quelli disumani di un’attività economica privata che si vuole sempre più libera (e la gravità e il portato ideologico della proposta di riforma dell’art. 41 della Costituzione non è probabilmente stata ancora compresa a fondo), allora è il momento che ci si dica chi è d’accordo e chi intenda invece ribaltare questo assunto. MAGGIO 2010

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Città Future 21 Programmazione cognitiva

Coscienza di classe e consenso oggi PROGRAMMAZIONE COGNITIVA Alessandro D’Aloia «Fine della Neolingua non era soltanto quella di fornire un mezzo di espressione per la concezione del mondo e per le abitudini mentali proprie ai seguaci del Socing, ma soprattutto quella di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Era sottinteso come, una volta che la Neolingua fosse stata definitivamente adottata, e l’Archeolingua, per contro, dimenticata, un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso. Il suo lessico era costituito in modo tale da fornire espressione esatta e spesso assai sottile a ogni significato che un membro del Partito potesse desiderare propriamente di intendere. Ma escludeva, nel contempo, tutti gli altri possibili significati, così come la possibilità di arrivarvi con metodi indiretti. Ciò era stato ottenuto in parte mediante l’invenzione di nuove parole, ma soprattutto mediante la soppressione di parole indesiderabili e l’eliminazione di quei significati eterodossi che potevano essere restati e, per quanto possibile, dei significati in qualche modo secondari. Daremo un unico esempio. La parola libero esisteva ancora in Neolingua, ma poteva essere usata solo in frasi come «Questo cane è libero da pulci» ovvero, «Questo campo è libero da erbacce». […] La Neolingua era intesa non ad estendere, ma a diminuire le possibilità del pensiero; si veniva incontro a questo fine appunto, indirettamente, col ridurre al minimo la scelta di parole. […] Le parole in Neolingua erano distinte in tre classi distinte, che prendevano il nome di Vocabolario «A», Vocabolario «B», (detto anche delle parole composte), e infine Vocabolario «C». (George Orwell, 1984, appendice I principi della neolingua).

L’avvento della Neolingua Orwell non riesce ad immaginare un potere totalitario senza conseguenze sul modo di esprimersi e di pensare della massa. Il totalitarismo come affermazione dell’assurdo non può persistere senza la distruzione della razionalità nello stesso luogo in cui questa si forma, ovvero nella mente umana sotto forma di pensiero. I concetti si manifestano mediante la comunicazione del loro significato con parole. Il

linguaggio è in tal senso lo strumento attraverso il quale i concetti possono essere comunicati. Un pensiero povero non ha bisogno di molte parole o di parole complicate. Da questo punto di vista si può senz’altro stabilire una relazione diretta fra impoverimento linguistico e regressione socio-politica. Se in Orwell la relazione suddetta viene portata agli estremi, trattando di un regime totalitario che mira al dominio permanente, la questione della degenerazione linguistica non attiene per forza solo ai regimi classici. Per questo motivo molti autori, oltre Orwell, hanno dedicato attenzione critica alle modificazioni del linguaggio e dei vocabolari. Non è a caso che Gramsci nella trattazione delle forme in cui si presenta la coscienza comune pone l’accento, fra le altre cose, alle strutture ricorrenti con cui si esprime il linguaggio delle masse. Dopo Gramsci, si può fare riferimento a quanto sostenuto da Marcuse in proposito nella parte finale della sua opera L’uomo a una dimensione nella quale afferma con chiarezza che: «Le parole si rivelano come termini […]; vale a dire, come limiti che definiscono il significato ed il suo sviluppo - i termini che la società impone al discorso, ed al comportamento. […] Nel parlare il proprio linguaggio, la gente parla altresì il linguaggio dei suoi padroni, dei benefattori, degli agenti pubblicitari. Cosicché gli individui non esprimono soltanto se stessi, […] ma anche qualcos’altro diverso da sé»1. Con Gilles Deleuze, in collaborazione osmotica con Felix Guattari, abbiamo infine l’approdo alla tesi che «Si mette il linguaggio nella bocca dei bambini esattamente come si mettono pale e picconi nelle mani degli operai», dato che esso rappresenta: «un sistema d’ordine, un sistema di comando, che permetterà o costringerà, gli individui a formare enunciati conformi agli enunciati dominanti. […] Quindi il linguaggio deve essere in primo luogo concepito non in termini di informazione, ma in termini d’ordine. […]»2 3.

1 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi. 2 Una testimonianza diretta di questa tesi è contenuta nei filmati delle lezioni di G. Deleuze (in collaborazione con Felix Guattari) tenute all’Università di Vincennes (fondata nel 1969, vedi nota successiva), fra il 1975-1976 e trasmesse sulla Rai, nell’ambito della programmazione notturna di Fuori orario nelle notti fra il 19 ed il 27 Maggio del 2006 con il titolo: Chi pensa il cinema. Il senso in meno. Sottotitolo: Gilles Deleuze a Vincennes (1975-1975). 3 A proposito dell’Università di Vincennes su Wikipedia si legge quanto segue: «La storia di Paris VIII cominciò a Vincennes, alla fine degli anni ’60 con l’installazione di una facoltà sperimentale dove insegnarono intellettuali all’avanguardia come Michel Foucault, Gilles Deleuze, Jean-François Lyotard, Frank Popper. L’idea di aprire un’università fuori dal centro di Parigi fu una conseguenza dei fatti del maggio ’68 e fu avanzata da un collettivo di professori della Sorbona impegnati politicamente. Il generale De Gaulle e il ministro dell’educazione Edgar Faure videro di buon occhio la proposta, probabilmente perché permetteva di allontanare gli studenti dal centro della città e controllare meglio l’ordine pubblico dopo i recenti moti di piazza. Il decreto di creazione di un centro di studi sperimentale fu firmato nel dicembre 1968 e l’università cominciò a funzionare dal gennaio 1969 a Vincennes. L’istituzione era progettata in modo da rivoluzionare i tradizionali rapporti fra professori e studenti e fra università e mondo esterno. L’ambiente di insegnamento era marcato da una forte volontà anti-accademica e con una grande apertura al politico e al sociale. Gli ambienti universitari erano aperti agli stranieri e a chi lavorava e a questo scopo vennero istituiti numerosi corsi serali. I corsi insegnati a Paris VIII erano spesso innovativi per la Francia: si aprirono dipartimenti di cinema, psicanalisi, arti plastiche, teatro, urbanistica e anche intelligenza artificiale. Anche le scelte pedagogiche erano innovative: introduzione dei crediti, eguaglianza dei servizi tra diverse

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Città Future 22 Programmazione cognitiva

Il linguaggio è cioè, prima di tutto, un sistema volto a permettere l’impartizione di ordini (comandi) e solo in seconda istanza uno strumento di trasmissione di informazioni. Questa posizione va intesa in tutte le sue sfumature. Se il linguaggio fosse «solo» uno strumento di comando, come spiegare la filosofia, la poesia e la letteratura? È chiaro che esso presenta diversi livelli. Un livello elementare esprimibile con poche parole e utilizzabile per le operazioni più banali in cui le proposizioni più semplici conservano una loro efficacia piuttosto netta e definita (come nel vocabolario A della Neolingua) e via via livelli più articolati in cui la comunicazione di concetti meno immediati e imperativi necessita di un aumento di quantità di informazioni in una determinata direzione di senso generale. Deleuze parla di «ridondanza» come del mezzo attraverso il quale nel linguaggio si può aumentare la quantità di informazione volta a superare il contenuto informativo minimo dell’imperatività del discorso, ridondando appunto gli enunciati. Cioè se si deve dare un ordine o un comando, il linguaggio nelle sue forme elementari risulta già sufficiente (vai là, prendi questo, chiudi quello ecc..), non appena diventa necessario esprimere un’intenzione diversa da un ordine, bisogna aggiungere parole, articolare frasi, costruire senso. Queste complicazioni necessarie denunciano l’inadeguatezza del linguaggio al di fuori del suo ambito primario (funzionale) del comando. Il linguaggio nella sua forma storica essendo il mezzo di comunicazione principale di società gerarchiche esprime in se stesso tali gerarchie e implica una società in cui se c’è chi comanda deve esserci chi esegue. Se in Marcuse abbiamo l’invito esplicito alla definizione di termini di analisi distaccati dai termini analizzati, quindi alla creazione di termini necessariamente esterni al linguaggio comune, per poter capire cosa c’è dietro tale apparato linguistico, con Deleuze l’invito implicito alla sua posizione è quello di superare completamente la concezione di un linguaggio come sistema di comando. Se la comunicazione è alla base stessa della società ed esso è sostanzialmente ordine dall’alto, nessuna società potrà essere definitivamente liberata dai comandi, dunque dalle gerarchie a meno che, una nuova società non sia capace di costruirsi a partire dalla rivoluzione del linguaggio stesso, a meno che cioè una società non sappia inventarsi un nuovo linguaggio. Un nuovo modo di comunicare e di esprimere il pensiero è dunque in qualche modo un fatto connaturato alla nascita di una nuova società, mentre al contrario qualsiasi semplificazione di un

classi di professori, niente lezioni di massa, etc.. L’innovazione più importante fu certamente l’interdisciplinarità che permetteva la collaborazione fra insegnanti e ricercatori di discipline molto diverse come filosofia, matematica, sociologia, letteratura e storia. Uno dei tratti caratteristici dell’università di Vincennes era la sua forte politicizzazione, a volte con eccessi ideologici. Comunisti, maoisti e altre correnti di sinistra si trovavano ben radicate nei diversi dipartimenti universitari, particolarmente a filosofia e sociologia, il che non restò senza conseguenze per quanto riguarda i rapporti fra professori, fra studenti, fra dipartimenti e con lo stesso ministero dell’educazione. All’inizio degli anni ’70 il dipartimento di lingue e letterature anglo-americane si strutturò sul modello delle università americane, con unità didattiche e corsi con programmi definiti. Le lauree concesse dall’università furono finalmente riconosciute a livello nazionale. La linguistica cominciò ad occupare un ruolo importante per merito di studiosi come John Lyons, Noam Chomsky e Julia Kristeva».

linguaggio per sua natura già inadeguato ad esprimere sentimenti diversi dal comando (ammesso che questo sia un sentimento) denuncia nient’altro che una regressione di umanità nella comunicazione stessa. La Neolingua orwelliana è la prima lingua in cui l’assottigliamento dei vocabolari, anziché il loro arricchimento, costituisce un obiettivo politico dichiarato. Oggi non è il controllo statale sull’uso delle parole e dei loro significati, ma la prassi informativa quotidiana a produrre lo stesso effetto, in combinazione con l’aumento puramente quantitativo dell’informazione. L’accrescimento degli strumenti mediatici, causa per riflesso, un impoverimento qualitativo delle informazioni circolanti. Analisti di linguistica concordano nell’affermare, anche se è difficile fornire cifre esatte, che l’utilizzo concreto dei vocaboli contenuti nei dizionari si impoverisce progressivamente4. Se una statistica è possibile rispetto al numero di parole utilizzate, più difficile è fare conteggi in relazione ai significati che esse veicolano. Quello che si può intravedere è una tendenza al ribasso. Non solo diminuisce il numero di parole utilizzate, ma i vocaboli si tecnologizzano degradandosi per l’effetto di diversi fattori. Cioè la difficoltà crescente di utilizzare correttamente il linguaggio in tutte le sue sfumature e potenzialità è direttamente legata alla presenza di più tecnologia nelle attività quotidiane. Un primo fattore è la limitazione dei caratteri nell’utilizzo di SMS, dove l’articolazione corretta di un pensiero qualsiasi semplicemente costa di più in termini monetari qualora venga superato il limite di caratteri stabilito. Il controllo ortografico non è mai stata una preoccupazione delle multinazionali della telefonia mobile, la monetizzazione al contrario sì. Un secondo fattore è la mancanza di tempo, (corollario della moltiplicazione puramente quantitativa dei contatti) così le mail sono scritte sempre di fretta e furia senza rilettura, con una quantità di refusi impressionante e costruzioni sintattiche per lo più malsicure. Quando si scriveva a mano le proposizioni erano prima pensate e poi trascritte, la possibilità di scrivere e poi correggere, semplicemente si traduce nello scrivere senza pensare, men che meno correggere. Un terzo fattore è la verbalizzazione della scrittura nelle chat, dove si scrive per parlare, combinando insieme i problemi sia del primo che del secondo fattore (ridurre al minimo i caratteri, scrivere senza pensare) aggravata dall’incapacità di massa di utilizzare la tastiera con 10 dita invece che con 2 o 3. Un quarto fattore, ma probabilmente ve ne sono altri, è rappresentato dall’inquietante presenza dei testi automatici, che non sono frutto della «scrittura automatica» surrealista, ma molto più spesso dell’altrettanto «artistica» traduzione automatica di Google o dell’intera costellazione di traduttori meccanici. Neanche i futuristi avrebbero potuto desiderare tanto e perfino il Joyce del Finnegans Wake sarebbe in imbarazzo di 4 Alcuni numeri che circolano sparsi in rete sullo stato di cose in fatto di lingua e sua conoscenza sono i seguenti, da prendere con le dovute accortezze: un lessico della lingua italiana che include circa 150.000 parole di uso consolidato, con alcuni dizionari che arrivano addirittura ad 800.000 lemmi (Treccani); una conoscenza media dei vocaboli della propria lingua, intorno al 55-58 % (da uno studio danese in materia); con non più di 5.000 parole di uso quotidiano nella lingua parlata; uso che se si considerano gli adolescenti scende a circa il 12%.

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fronte a tanta creatività. Google il nuovo genio del non-sense. Infine si può evidenziare un fattore, forse quello più preoccupante, legato alla presunta «pesantezza» dei discorsi. Gli scambi verbali sono nella stragrande maggioranza, prettamente funzionali o al contrario semplicemente ornamentali, come le frasi fatte di cortesia. Quasi mai il linguaggio viene davvero utilizzato per comunicare idee e farle crescere nel percorso verbale. Ogni discorso che evada dalla pura funzionalità o dalla cortesia è subito etichettato come «pesante», ogni domanda a cui dovrebbe seguire una relativa risposta, rischia sempre di restare isolata. Così si configura una costellazione di domande senza risposte, tanto che sembra sempre più scontato che le risposte siano confinate nel silenzio. I dialoghi sono una forma dialettica in scomparsa di fronte al trionfo dei monologhi, che per questo stesso motivo diventano progressivamente più deliranti. La conclusione è che nonostante l’invasione di varie forme di mezzi di comunicazione, per stare sempre in contatto con gli amici, questi amici se comunicano più di prima (e anche questo sarebbe da dimostrare) di certo non discutono, mentre realizzano un narcisistico berciare a senso unico come riflesso collettivo del grande monologo del capitale. Se poi è vero che i libri stampati li legge sempre meno gente sarà anche lecito aspettarsi che qualcuno legga invece questa vastissima produzione letteraria in Neolingua. Siccome la macchina fa tutto in meno tempo dell’uomo, c’è da stare sicuri che la produzione di testi meccanici supererà in breve tempo quella umana, che a sua volta, per i motivi visti, va via via meccanizzandosi. L’orizzonte naturale di questa tendenza è l’opera letteraria prodotta dalla macchina senza mediazione umana, esattamente come accadeva in Nuovo mondo di Aldous Huxley. Nella coesistenza uomo-macchina, non è la macchina ad umanizzarsi, ma l’uomo che comincia sempre più a parlare e a pensare come una macchina. Non a caso negli studi sull’intelligenza l’analogia con la macchina è diventata un vero e proprio paradigma5.

5 «Il successo crescente dei computer ha incoraggiato l’uso di linguaggi orientati al computer e i paragoni mente-computer. La metafora computazionale – la comparazione biunivoca fra mente/cervello e programma/computer – è al momento lo strumento di analisi dominante della maggioranza delle scienze comportamentali. Con il successo del computer, sono aumentati anche i rapporti circa disturbi fisici legati al suo utilizzo e disfunzioni psico-sociali fra utenti di computer e lavoratori. Questo scritto sostiene che le relazioni fra uomo e computer sono diventate problematiche, principalmente a causa della confusione fra ciò che è umano è ciò che è meccanico. La metafora computazionale ha catturato l’immaginazione di molti al punto che essi rifiutano il presente meno perfetto del mondo attuale per il futuro perfetto del mondo del computer. Il problema è esacerbato dall’accettazione della metafora computazionale nella maggioranza dei trattamenti e utilizzi circa i computer da parte di operatori e lavoratori. Alcuni scienziati e pensatori hanno cominciato ad esplorare e suggerire metafore alternative al fine di comprendere meglio l’intelligenza umana e la sua struttura con l’obiettivo di migliorare l’insegnamento e l’abilità nel pensare degli studenti. Comunque, la metafora computazionale non può essere superata facilmente. Essa ha un supporto teorico e scientifico formidabile, come testimoniato dalla forza del movimento dell’intelligenza artificiale e del dibattito irrisolto sull’AI. Questo scritto conclude che la nuova disciplina del computer criticism offre la possibilità di cominciare a situare il dibattito circa il computer e la metafora computazionale all’interno del più largo ambito culturale relativo al linguaggio ed al pensiero». Tratto da: Ronald M. Biron, The computational metaphor and computer criticism

La macchina si umanizzerà solo dopo aver reso l’uomo simile a sé. Nel mezzo di questo processo in atto non ha senso sforzarsi di determinare forzosamente la nascita e il dominio di una Neolingua quando questa vive già di vita propria e soppianterà naturalmente l’Archeolingua nel giro di una generazione. Una seconda caratteristica dei linguaggi attuali è quella della loro progressiva separazione e cioè la nascita di vocabolari separati, settoriali, adeguati ad utilizzi specifici e professionali, ma non alla normale comunicazione. Se la Neolingua era basata su tre vocabolari, le nostre lingue ne presentano di fatto già più di tre. Per Deleuze-Guattari il «crollo semiologico» è appunto quel processo di confinamento del linguaggio nelle sue varie famiglie, nei suoi diversi codici: il linguaggio convenzionale, quello scolastico, accademico, professionale, professorale, politico e via dicendo. Questo settorializzarsi del linguaggio, la sua segmentazione progressiva in più dialetti professionali, coincide con un impoverimento delle possibilità espressive e generaliste dello stesso. Quindi assottigliamento e divisione dei vocabolari come sintomo del crollo semiologico, che rimanda ad un inaridimento complessivo dei pensieri e delle idee comunicate fra gli uomini. La divisione del lavoro non poteva restare senza conseguenze sugli stessi modi di pensare, almeno non a lungo. Ammirevole, da questo punto di vista, la produzione di quelle che si configurano come vere e proprie «macchine concettuali», da parte del duo Deleuze-Guattari, capaci di attraversare queste barriere linguistiche, di innescare ragionamenti trasversali, prendendo a prestito concetti di discipline specifiche per spiegare fenomeni extradisciplinari e generali, per infrangere letteralmente le barriere artificiali imposte al pensiero, insomma tutto quello che la politica dovrebbe fare e che non fa. Questa trasversalità concettuale del pensiero è un attributo profondamente politico di un ragionare che si oppone ostinatamente al confinamento specialistico dei saperi contemporanei, mentre quest’ultimo oggi si istituzionalizza perfino nelle Università, in cui le formazioni sono in piena divaricazione. Viviamo un’epoca in cui all’estrema preparazione in un settore professionale qualsiasi corrisponde la speculare e disarmante incapacità di collegare le esperienze, di capitalizzare le cognizioni. Alla raffinatezza analitica specialistica fa eco un vero e proprio tribalismo intellettuale della società nell’insieme. «Gli specialisti agiscono in un ambito già codificato sulla loro specialità, se si chiede qualcosa agli specialisti è escluso che sappiano rispondere. Gli specialisti sono terribili» 6, ci dice Deleuze. «Assume il suo pieno significato il duplice ritratto che Andrè Gorz traccia del «lavoratore scientifico e tecnico», padrone d’un flusso di conoscenza, d’informazione e di formazione, ma così ben assorbito nel capitale da coincidere con il riflusso d’una fesseria organizzata, assiomatizzata; cosicché, la sera, rientrando a casa, trova le sue macchinette desideranti armeggiando su un televisore, […]»7. 6 La fonte è la stessa specificata nella nota 3 7 G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002

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Linguaggio espressione cosciente Ma perché tanta attenzione al linguaggio? L’unica risposta interessante è che esso rappresenta una parte importante della formazione stessa della coscienza umana intesa come luogo di definizione del rapporto attivo fra intenzioni ed azioni. Coscienza come luogo di formazione dell’azione consapevole, e quindi del senso stesso dell’agire. Un’azione razionale è tale quando si è capaci di definirne le motivazioni che la determinano e gli effetti attesi (e nulla è definibile senza il linguaggio). La razionalizzazione degli eventi, vale a dire la consapevolezza dell’agire (anche politico), implica la possibilità di spiegarne il senso verbalmente. Ciò che non si sa spiegare esula dal dominio del razionale. Per questo motivo il linguaggio è la soglia della coscienza, inteso come termine (limite) dell’inconscio, il luogo in cui si forma il senso dell’operare, la sua parte consapevole. Impoverimento dei vocabolari e loro divisione sono elementi che militano contro una corretta autocoscienza dell’azione, dunque contro qualsiasi pratica guidata dalla teoria. Ma a questo punto siamo ancora solo alla creazione di caos, siamo ancora nella pars destruens della coscienza. Infatti limitare il pensiero sfasciando il linguaggio comune rappresenta ancora un livello arretrato del controllo. Più arguto e attuale è il passo successivo, quello dell’incanalare l’azione umana nella macchina e mediante il controllo totale di quest’ultima limitare la prima. Qui l’obiettivo non è neanche più la coscienza, ma direttamente l’azione cosciente, cioè l’eventuale effetto della coscienza. Proviamo a ragionare. Da un lato l’umano viene macchinizzato, erodendo progressivamente le facoltà raziocinanti della mente attraverso una lenta ma continua sottrazione concettuale. Da un lato, cioè, si distrugge con aggiunta e non sottrazione di tecnologia (la perversione del capitalismo è in effetti nella sovrapproduzione non nella sottoproduzione) il linguaggio comune, dall’altro si monopolizza il più settoriale dei saperi, il più specialistico e meccanico dei linguaggi, quello delle macchine, appunto. Si obietterà che il linguaggio delle macchine non è interessante per l’uomo, dato che il problema è nel degrado del pensiero, non nel monopolio del non-pensiero, ma le cose purtroppo stanno in modo un po’ diverso. Il problema infatti è nel rapporto che intercorre fra non-pensiero e pensiero, nei termini in cui il primo condiziona effettivamente il secondo e non viceversa (il non-pensiero non è «condizionabile»). La costruzione delle conoscenze Ma prima di affrontare questo tema è necessario soffermarsi sul concetto di «artefatto cognitivo», introdotto da Seymour Papert, un matematico sudafricano impegnato da pioniere negli studi riguardo l’intelligenza artificiale negli anni sessanta e sostenitore di un utilizzo critico dei computer in opposizione ad un modo di pensare «tecnocentrico». Su Wikipedia a suo proposito si legge quanto segue: «[…] secondo Papert, il processo di apprendimento è un processo di costruzione di rappresentazioni più o meno corrette e funzionali del mondo con cui si interagisce. Rispetto al «costruttivismo», il «costruzionismo» introduce il concetto di artefatti cognitivi, ovvero oggetti e dispositivi che facilitano lo sviluppo di specifici apprendimenti.

L’essere umano, a prescindere dall’età, ha bisogno di avere a disposizione materiali concreti affinché la conoscenza acquisita sia tanto più vicina alla realtà. Papert parte dall’osservazione di attività di alcune civiltà africane in cui i bambini costruivano case in scala o manufatti in giunco. Secondo Papert, la mente ha bisogno di materiali da costruzione appropriati, esattamente come un costruttore: il prodotto concreto può essere mostrato, discusso, esaminato, sondato e ammirato. La lentezza dello sviluppo di un particolare concetto da parte del bambino non è dovuta alla maggiore complessità o formalità, ma alla povertà della cultura di quei materiali che renderebbero il concetto semplice e concreto. Il bambino apprende così con l’aiuto di artefatti cognitivi. In particolare, Papert sostiene l’uso del computer come supporto all’istruzione e ambiente d’apprendimento che aiuta a costruirsi nuove idee. Il computer viene così usato come macchina per simulare. Realizza anche il LOGO, un linguaggio di programmazione formalmente molto rigoroso, derivato dal LISP, orientato alla gestione delle liste ed alla grafica della tartaruga (mutuata dal Pascal), comprensibile ed usabile anche da bambini delle scuole elementari, dimostrando tra l’altro l’utilità del computer come supporto per l’apprendimento anche per i più piccoli. […] È un modo per dare ai bambini, e anche a chiunque altro, il controllo del computer». In sostanza un artefatto cognitivo è un qualsiasi strumento capace di stimolare l’apprendimento, qualsiasi mezzo attraverso il quale l’uomo impara ad agire. Il computer non è certo l’unico artefatto cognitivo, per secoli l’uomo ne ha fatto a meno apprendendo comunque, esso rappresenta oggi però sicuramente l’artefatto cognitivo per eccellenza. Nessun’altro strumento è in grado di fornire esperienza concreta su un panorama tanto, e sempre più, vasto di fenomeni. Da un punto di vista storico la tecnologia informatica odierna, che è nel presente sempre la più attuale, ci sembra il massimo ottenibile, ma è evidente che siamo solo alla preistoria dell’era informatica, pensando in prospettiva storica. Tuttavia l’estrema velocità con cui la tecnologia si sviluppa, nel soppiantare secolari modi di fare e di apprendere, pone nuovi problemi. Già oggi l’esistenza di una grossa fetta di operatori e di settori lavorativi è inimmaginabile senza l’ausilio del computer. Praticamente, fatto salvo ciò che sopravvive dei lavori manuali e di quelli squisitamente artigianali, in cui la manualità è proprio l’elemento di valore, niente si realizza senza computer, dalla banale scrittura di un testo alla realizzazione delle opere colossali, ogni processo produttivo concreto, e ogni merce, dall’immateriale al materiale, passano attraverso il computer. I lavori manuali sono, nella grande maggioranza dei casi, soltanto pezzi di processi produttivi controllati digitalmente. Se da un lato un PC estende esponenzialmente le possibilità individuali (e potenzialmente quelle sociali), dall’altro proprio per questo assume una posizione via via più centrale nell’esistenza quotidiana. La versatilità d’impiego che un PC offre lo rende una sorta di «macchina universale», la macchina per eccellenza, e in definitiva una vera e propria estensione delle facoltà coscienti dell’uomo, un suo organo esterno, un’estensione della sua mente, ma anche dei suoi arti (e quindi delle sua arti).

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«Da una parte, Butler non si accontenta di dire che le macchine prolungano l’organismo, ma aggiunge che sono realmente membra e organi che giacciono sul corpo senza organi della società, che gli uomini si appropriano secondo la loro potenza e la loro ricchezza, e di cui sono privati dalla povertà come se fossero organismi mutilati. […]»8. Si ci provi ad immaginare la propria attività quotidiana privata all’improvviso dei computer, o la perdita improvvisa di tutti i dati accumulati negli ultimi anni. Sarebbe una situazione da vero e proprio panico esistenziale. La memoria rigida del proprio PC è diventata la propria memoria, perdere l’hard disk senza aver salvato i dati su altri supporti, sarebbe come perdere una parte di sé, come un’amputazione. Il PC non è allora una macchina come le altre, ma una macchina attraverso la quale la nostra esistenza lascia tracce del suo passaggio, anche senza che questo sia un obiettivo, un’intenzione consapevole di chi lo utilizza. Fra qualche anno le nuove generazioni non riusciranno neanche a concepire un’era pre-informatica, in cui l’uomo ricordava il suo passato «a mente», invece di affidarlo ad una memoria esterna al suo cervello, oggettiva e dotata di precisione fotografica. C’è del male in questo? Probabilmente no, per quanto non si possa affermare semplicemente che alcune facoltà di memorizzazione mentali possano risentirne, anche se non è questo il punto centrale. Il punto centrale è che tutti utilizziamo una macchina così totalizzante e potente da poter essere considerata un nostro organo esterno, senza però averne il controllo. In sostanza il computer funziona e funziona sempre in un qualche modo, ma il suo modo di funzionare, e attraverso di esso il nostro, non dipende da noi. Il problema è che quando un prodotto dell’uomo funziona al di fuori del suo controllo individuale, questo crea contraddizioni e soprattutto dipendenza. In sostanza quello che ancora non facciamo con un PC è ciò che ancora non si può fare, il che significa per converso che quello che invece ci facciamo è appunto ciò che è consentito fare. La domanda è: ciò che è consentito fare tecnicamente? Cioè il limite è puramente tecnico o al limite tecnico sono coestensivi altri tipi di limite? La risposta non è certo semplice, tuttavia ci sono degli elementi abbastanza evidenti che permettono di abbozzare una parziale risposta.

8 Ibidem.

La programmazione del controllo La questione di interesse in tutto questo discorso è rappresentata dal fatto che attraverso il controllo informatico dei processi produttivi, cui il capitalismo post-analogico sottopone la produzione, si ottiene come corollario necessario il controllo digitale delle facoltà creative della società. Non è in discussione il fatto che l’uso dei PC aumenti la creatività sociale, ma che tale aumento di creatività sia sostanzialmente possibile solo secondo direzioni precostituite. Deleuze e Guattari nella critica della società del controllo usano l’esempio dell’autostrada dove, in opposizione ad esempio alle ferrovie, la gente viaggia in «totale ed autonoma libertà» lungo percorsi perfettamente irreggimentati. In che modo il capitalismo ottiene questa possibilità di controllo, offrendo in definitiva maggiori e non minori potenzialità di azione alla società? Nel caso delle autostrade è indubbio che la loro esistenza permette all’uomo motorizzato di muoversi infinitamente di più che in passato, ma comunque solo in ambiti particolari non decisi dagli automobilisti, bensì dalle politiche infrastrutturali. Nel caso dei computer, il controllo dall’alto è ottenuto in ragione del sostanziale monopolio dei linguaggi di programmazione. È l’industria a decidere quali applicazioni mettere o non mettere sul mercato oltre che le facoltà stesse delle applicazioni concesse. Se per andare in alcuni luoghi non serviti dall’autostrada si può alla fine accontentarsi di andarvi a piedi, non si potrà fare lo stesso nell’ambito dei sistemi informatici. Da un punto di vista sociale ha poca importanza, ad esempio, che il sistema operativo ed il programma che permette il funzionamento di una «macchina a controllo numerico» per la produzione di artefatti industriali sia questione specialistica, ma i termini di interesse cambiano del tutto quando si parla delle possibilità di far funzionare delle macchine che utilizzano tutti in un ambito sempre crescente delle proprie occupazioni quotidiane, da quelle lavorative a quelle del tempo libero. L’obiezione che tutti potrebbero imparare a programmare i loro PC è infondata, dato che la programmazione informatica è considerata una formazione professionale, cioè specialistica e non una «cultura generale», come il leggere e lo scrivere, mentre non è operazione diversa dal leggere e lo scrivere. In sostanza nella questione della programmazione informatica il problema particolare della separazione del lavoro evidenzia la sua generalità, cioè il suo costituire ormai un limite che colpisce tutte le discipline a partire da una di esse in particolare. Vale a dire che siamo ad un punto in cui la specializzazione di una disciplina professionale crea problemi alle altre discipline e per estensione alle facoltà cognitive degli utenti/operatori, portando, a cascata, a tutta una serie di distorsioni corollarie. Le promesse di prima dell’alba Ma non doveva essere così. Chi infatti ricordi ancora l’alba della diffusione di massa del PC, ricorderà bene che all’inizio il lancio sul mercato di queste strane macchine, di cui era difficile capire il senso dato che potevano fare niente di particolare ma tante cose a seconda degli interessi di chi le acquistava, accanto alla vendita dell’hardware (il mitico commodore 64, ad esempio), si promuoveva la conoscenza

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del linguaggio di programmazione in BASIC, poiché se non venivano programmate tali macchine potevano servire a ben poco. Nelle scuole medie superiori, di taglio tecnico, accanto alla matematica e la fisica, venivano introdotti corsi sperimentali di programmazione, (ad esempio in PASCAL) mai avviati in modo serio, del resto. Da un certo punto in poi, sono nate, in sordina, le software house che fornendo esse i programmi specifici, permettevano la vendita e della macchina e dei sistemi per farle funzionare, fino ad arrivare al punto che l’allora nascente industria della programmazione informatica è divenuta addirittura più potente di quella della produzione dei componenti rigidi dei PC, in funzione della quale è nata. Oggi i computer non funzionano senza uno dei due o tre sistemi operativi in circolazione a livello mondiale. Anche qui l’obiezione in merito all’esistenza di un sistema operativo «aperto», come LINUX, che «tutti» possono implementare, è priva di fondamento concreto, dato che è difficilissimo pensare, in una società spaccata dagli specialismi, che un utente/operatore medio, magari anche espertissimo in un suo settore particolare, possa sapere dove mettere le mani per gestire e migliorare i propri utensili informatici, senza conoscere neanche l’ABC della programmazione. Inoltre chi pure volesse installare un sistema operativo aperto sul proprio PC, dovrebbe poi fare i conti con il fatto che molti programmi sono fatti in modo da non «girare» su sistemi operativi liberi. Inoltre al di là del sistema operativo la soglia principale del problema è nell’operatività a valle, cioè quella permessa dalle applicazioni, non nell’ambiente di tali applicazioni (il sistema operativo appunto). È utile notare, di passata, come nel mondo attuale, le funzioni sociali dei fenomeni di interesse collettivo al momento della loro affermazione siano sempre diverse, e spesso opposte, a quelle che questi avevano alla loro comparsa. Un’industria nata per consentire la vendita dei PC, è diventata un’agenzia che permette agli Stati di ottenere il controllo sociale spontaneo da parte dei controllati, così come una macchina che serve a liberare potenzialità umane, quindi a fornire autonomia operativa finisce per creare dipendenza operativa. L’esempio che Semyor Papert fa per spiegare il modo corretto di utilizzare gli strumenti è quello della canna da pesca. «Se un uomo ha fame gli puoi dare un pesce, ma meglio ancora è dargli una lenza e insegnargli a pescare. Naturalmente, oltre ad avere conoscenze sulla pesca, è necessario anche disporre di buone lenze, ed è per questo che abbiamo bisogno di computer e di sapere dove si trovano le acque più ricche [...]»9. Si può aggiungere che possedere un’automobile per andare da A a B implica la capacità di guidare, ma anche la conoscenza del percorso fra A e B, inteso come l’insieme di vari fattori fra cui la conoscenza delle diverse possibilità per giungere dal luogo di partenza a quello di arrivo, la valutazione critica delle diverse possibilità per la scelta migliore a seconda del caso, le insidie potenziali e, volendo, l’interesse diverso che i vari percorsi possibili offrono. Se ho 9 Silvano Tagliagambe, Dal cognitivismo al Costruzionismo. Fonte: http://www.mce-fimem.it/ricerca/eduscientifica/Silvano%20Tagliagambe/Costruzionismo(1).doc

l’autista, posso andare da A a B senza porre attenzione a tutti questi aspetti del contorno, quindi più comodamente, ma anche più disinteressatamente, con la contropartita che ad un certo punto diventerò incapace di fare un qualsiasi percorso in autonomia quando l’autista (o il moderno surrogato artificiale: il navigatore) non sia disponibile. La presenza dell’autista mi rende passivo rispetto ai problemi connessi ai miei spostamenti. Allo stesso modo l’utilizzo del PC unicamente attraverso pacchetti software già belli e fatti, mi permette, ad esempio, di risolvere problemi attraverso l’utilizzo di concetti matematici e di cognizioni scientifiche che posso anche ignorare completamente mentre però le utilizzo. Da questo punto di vista la potenza operativa cresce a scapito della conoscenza dei fenomeni che la sottendono. Questa interposizione dell’industria informatica fra i problemi specifici delle attività quotidiane e gli operatori, costituisce a tutti gli effetti una sottrazione di conoscenza generale dei fenomeni trattati e delle relazioni che intercorrono fra essi. Non dovrai occuparti di comprendere il perché delle cose, basterà che tu sappia far eseguire determinate procedure alla macchina. Non è necessario che tu conosca le soluzioni dei tuoi problemi, te le forniremo noi. È in questo modo che l’accrescimento delle possibilità offerte dalla presenza del PC si ripercuote potentemente sul processo di disgregazione delle coscienze, che è un fenomeno non indotto unicamente dall’industria informatica, ma da essa sfruttato ed aggravato. Ed è ancora in questo modo che la macchina mentre offre più possibilità operative in generale, allo stesso tempo reintroduce l’alienazione non propriamente fra l’operatore ed il suo prodotto intellettuale, ma fra l’operatore e le sue conoscenze riguardo la realtà, le sue cognizioni circa i fenomeni materiali della vita, la sua percezione del mondo. La realtà della clava informatica Si potrebbero fare svariati banalissimi esempi di come l’interposizione informatica rappresenti ormai un problema pratico in molti settori lavorativi, a dispetto di un’apparentemente aumentata varietà di possibilità offerte dall’elettronica. Nella normale attività professionale ogni problema specifico prevede una particolare applicazione valida solo per quel determinato ambito. Così le attività fortemente specializzate sono avvantaggiate dalla necessità di acquistare un numero limitato di applicazioni che formano un certo pacchetto software, mentre le attività più generaliste avrebbero necessità di acquistare svariati pacchetti per far fronte alle mille richieste che un mercato impazzito fa al professionista, per di più solamente una tantum. In pratica nelle attività più generaliste, comunque in scomparsa, il concetto di ammortamento del software acquistato è privo di fondamento. Inoltre specializzare all’estremo l’offerta software serve anche ad innovare il prodotto continuamente ad ogni nuova aggiunta di qualche piccola funzione, o al momento dei cambi di normativa, come accade per i manuali di diritto che diventano sempre vecchi molto in fretta. Qui però il problema è che un cambio di normativa significa l’impasse tecnica di una certa attività professionale almeno fino a quando il software non sia adeguato alle nuove direttive. Cioè l’operatore non può operare prima che gli sia restituita questa facoltà dall’esterno e i suoi pacchetti, per

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quanto funzionanti, non possono essere utilizzati a causa di un loro 1% da modificare. Ma almeno un altro esempio può essere utile. Le automobili moderne sono piene all’inverosimile di elettronica, con menù e schermi sempre più ricchi di funzioni e controlli. Ma si provi ad andare da un normale elettrauto quando un bottone di accesso ad un menù non funzioni più. Il poveretto sarà costretto a fare spallucce e a dirottare chiunque alla concessionaria ufficiale, la quale è l’unica in grado di individuare il problema software che non fa funzionare un qualche congegno vitale dell’automobile. La conseguenza è che tutto un cosmo di piccole attività di meccanica legate alla motorizzazione della società saranno costrette a chiudere e gli automobilisti costretti a sborsare cifre indicibili per sostituire una centralina o semplicemente un bottone che non funziona più, ma che non si vende mai separatamente da tutta la plancia. Qui si osserva la progressiva sofisticazione di tutti i funzionamenti meccanici mediante controlli elettronici centralizzati in complicatissimi cervelletti software da cui passa il controllo anche di funzioni secondarie banalissime che non necessiterebbero di nessun controllo computerizzato. Si noterà come questa dipendenza dalla tecnologia industriale sia un combinato di due movimenti opposti. Da un lato la separazione esasperata dei pacchetti software, dall’altra l’accorpamento crescente delle parti hardware. Scissione del soft ma fusione dell’hard, mentre la cosa ragionevole sarebbe quella esattamente opposta. Nelle automobili di oggi, se il lettore cd non funziona più si è costretti a lasciare l’autoveicolo intero dal concessionario per un paio di giorni, perché questo meraviglioso (ma banalissimo) lettore è integrato nella plancia e non è estraibile. In questa situazione ridicola da dipendenza tecnologica senza precedenti, l’atteggiamento generale è di crescente e meravigliata compiacenza per la tecnologia. I TG sono colmi di notizie/pubblicità degli ultimi progressi/prodotti, e non esiste uno straccio di critica dei processi in corso. Non si nota che nella maggioranza dei casi non si tratta di progressi tecnologici sostanziali, ma semplicemente di un rivestimento tecnologista della merce in generale. Magari le novità importanti sono completamente lasciate in sordina. Tutto ciò che è tecnologico è meraviglioso a prescindere. La tecnologia è l’ultima indiscutibile e fascinosa autorità che il capitale vuole indossare. Gli esempi fatti sono tuttavia delle conseguenze abbastanza innocenti di questo dominio tecnologico sulle attività umane, in un rapporto in cui l’attività è subordinata alla tecnologia mentre il contrario non è neanche immaginabile. La mitizzazione tecnologica implicita in questo tipo di rapporto è però alla base anche di altre distorsioni sociali soprattutto in campo giovanile, che è quello assolutamente più sovraesposto ad una vera e propria dipendenza. La prima e più evidente distorsione è quella che subisce il gioco. Il gioco tradizionalmente inteso è il principale fattore di socializzazione giovanile libero, cioè svolto in ambienti non controllati e reclusivi come la scuola. Oggi la tecnologizzazione del gioco virtualizza la socializzazione e nel migliore dei casi i giovani giocano insieme senza stare insieme, oppure rifiutano consapevolmente il rapporto con

l’esterno per ripiegare tutto il tempo libero disponibile sul gioco individuale che assorbe sempre più completamente la loro energia creativa e i loro desideri, in molti casi raggiungendo forme antisociali patologiche. Se i giovani realizzano le proprie pulsioni desideranti nel mondo virtuale dei giochi tecnologici e solo in esso, la conseguenza è che il mondo reale perde progressivamente interesse per loro. Non è che essi siano all’improvviso diventati apatici, semplicemente il loro interesse viene canalizzato massicciamente in un mondo immateriale, in una specie di metafisica però molto concreta e colorata che assorbe completamente le energie mentali10. L’esempio più calzante, ma non l’unico di quanto detto è rappresentato da Second life, spesso pubblicizzato perfino dai TG. Il videogioco è probabilmente il principale strumento di programmazione del tempo libero giovanile, con conseguenze però proprio sulle facoltà «fisiche» dei giovani reclusi in cameretta e sempre più estranei ad un mondo materiale fatto di relazioni corporali con l’altro, di odori, sforzi muscolari, sensazioni ed emozioni non relegate nel «purovisibilismo» di uno schermo virtuale. Il secondo livello di occupazione virtuale del tempo libero è rappresentato da tutto l’insieme di attività di fruizione della rete mediante applicazioni «sociali» ad alto assorbimento temporale, che mentre affollano le linee sfollano le vie. La rete in questo contesto. Monkey’s net. Anni prima dell’avvento di internet Deleuze e Guattari parlavano di strutturazione «rizomatica» in contrapposizione alla strutturazione ad albero. Il «rizoma» in botanica è una modificazione del fusto con principale funzione di riserva. È ingrossato, sotterraneo con decorso generalmente orizzontale. «Deleuze-Guattari contrappongono la concezione rizomatica del pensiero a una concezione arborescente, tipica della filosofia tradizionale, la quale procede gerarchicamente e linearmente, seguendo rigide categorie binarie ovvero dualistiche; il pensiero rizomatico, invece, è in grado di stabilire connessioni produttive in qualsiasi direzione». (da Wikipedia alla voce: rizoma). Il rizoma ha dunque un significato più ampio di quello di rete, fatto sta però che è una metafora abbastanza calzante del funzionamento di internet. 10 «I paesaggi virtuali del digitale divide (divario digitale) contemporaneo promettono la realizzazione della felicità (intesa come una perfetta integrazione nell’universo della comunicazione) e sostengono l’idea del cyberspace come luogo di perfetta equità e totale libertà, mettendo tra parentesi il suo essere, innanzitutto, uno spazio economico o, almeno, regolato dalle leggi dell’economia e del controllo degli accessi. Nella pretesa dell’architettura digitale di offrirsi come totalmente visibile e di trasformare l’opacità della realtà in un rendering «trasparente» e lucido, l’esperienza fisica (a cominciare dal corpo) si configura come pratica di rottura, perché le sue reazioni non possono essere controllate o previste in maniera determinata e lo stesso desiderio – al di fuori dei canoni suggeriti dal format digitale – non può essere automaticamente deviato verso semplici forme di consumo. La tecnologia rende oggi possibile l’utopia, ma non ne spiega le ragioni: resa praticabile nelle sue forme esteriori, l’utopia si rivela priva di speranza, cioè di ogni possibilità di «incontro con se stessi». Prefigura un paesaggio idilliaco da cui è cancellato lo sforzo, rimossa ogni traccia di difficoltà: lungo le sue superfici traslucide, tutto scorre senza essere veramente trattenuto. Lo «sporco» del disegno non ne contamina la persuasiva suggestione di levigatezza e le sue promesse di libertà cadono come suadenti parole in un vuoto non più modificabile, ma solo occupabile». Testo tratto da: Fulvio Irace, La nuova Utopia, Domus n. 935, Aprile 2010.

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La rete è un flusso continuo di informazioni e di varie forme mediatiche in cui una parte da leone è svolta appunto dai testi. Ci sono però almeno due forme parallele di flussi testuali che viaggiano in rete. Il primo è il contenuto manifesto, la forma evidente in cui le pagine web si rendono visibili e fruibili agli utenti, la seconda è la struttura in codice (HTLM) che rende possibile il trasferimento di tutte le informazioni visualizzate nel browser, che noi utilizziamo per navigare in rete. Ogni pagina ha una struttura in codice, che è un testo con una propria sintassi e proprie regole. Esso è in qualche modo il linguaggio per eccellenza, quello che serve a nient’altro che ad impartire comandi alla macchina, comandi logici circa le operazioni da eseguire al fine di comunicare il contenuto (il significato) della pagina all’utente, che di certo non può desumerlo dalla lettura diretta del codice, come non si può valutare una musica da uno spartito a meno di non essere un musicista diplomato al conservatorio. In rete tutto è un flusso ininterrotto di codici, proprio letteralmente. Accanto al flusso di informazioni per gli uomini, vi è dunque un parallelo flusso, praticamente invisibile, di codici informatici, informazioni per la macchina, del quale l’utenza finale ignora le regole, se non l’esistenza. Si può senz’altro dire che i contenuti mediatici che viaggiano in rete stanno al codice informatico che li sottende, nello stesso rapporto generale che intercorre nel linguaggio tradizionale fra significato e significante11. Da questo punto di vista utilizzare la rete mediante un PC, senza padroneggiare gli elementi di codice non è molto diverso dal voler comunicare concetti senza conoscere parole, vocaboli e sintassi corrette per esprimerli. Cioè si può fare, ma non è una bella cosa. La situazione è simile a quella di chiunque abbia una conoscenza solo parziale di una lingua, ad esempio qualcuno che può ascoltare una discussione in lingua straniera, comprendendo anche una buona percentuale di significati, ma che tuttavia non ha la padronanza per esprimere esso stesso dei concetti in quella lingua. Questo qualcuno potrà ascoltare quanto gli pare, ma non parlare, ricevere informazioni ma non darne, anche se nessuno glielo impedisce fisicamente, infatti è proprio lui ad esservi impedito. I codici informatici servono sì a comunicare ordini alla macchina ma al fine di trasmettere informazioni fra gli uomini, non per instaurare un «discorso» con la macchina, per questo non si possono ritenere indifferenti. Se quindi la rete è un mezzo di socializzazione della produzione immateriale dell’uomo senza precedenti e potenzialmente rivoluzionario, è anche vero che tale mezzo è fortemente limitato e qualitativamente diverso da ciò che potrebbe essere nel caso tutti i suoi utenti fossero messi 11 Ferdinand de Saussure chiama semiologia la «scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale». Il segno linguistico non unisce una cosa ed un nome ma «un concetto ed un’immagine acustica». Concetto ed immagine acustica sono entità psichiche unite strettamente tra loro. Per evitare ambiguità terminologiche, Ferdinand de Saussure chiama queste due entità psichiche significato e significante […]. Hjelmslev introduce, inoltre, i concetti di espressione e contenuto al posto di quelli di significante e significato. Espressione e contenuto sono piani legati solidarmente tra loro, sono funtivi di una funzione segnica. Secondo Hielmslev, il pensiero, se non espresso, non è contenuto linguistico e dei suoni emessi senza pensare non sono espressione linguistica. Tratto da: www.bolognadue.it/angelorizzi/tecap21.htm.

sullo stesso piano di partecipazione. In una divisione fra utenti dotati di padronanza di codici informatici e utenti sprovvisti di questa padronanza, anche ciò che sembra il massimo delle potenzialità va in definitiva a fondarsi su un’estrema sperequazione delle possibilità espressive che la rete come medium offre alla società intera. Questo è qualcosa di diverso dal «digitale divide», esso è un «cognitive divide», una divisione cioè fra chi è messo nelle condizioni di avere un rapporto cognitivo attivo con la rete e chi sostanzialmente è costretto ad un rapporto cognitivo passivo con essa, una camicia di forza calata sul funzionamento stesso della rete una volta superato il problema materiale della sua assenza. «La scrittura non è mai stata retaggio del capitalismo. Il capitalismo è profondamente analfabeta. La morte della scrittura, come la morte di Dio o del padre, è cosa fatta da un pezzo, benché l’avvenimento ci metta un pezzo a giungere a noi, e benché sopravviva in noi il ricordo di segni scomparsi coi quali continuiamo a scrivere»12. Se è vero che la scrittura e il linguaggio storicamente conosciuti sono sostanzialmente già in stato catatonico con l’avvento della Neolingua, d’altra parte è prevedibile che l’unica lingua scritta con prospettiva di crescita esponenziale nel futuro prossimo sarà proprio quella informatica, cioè quella costituita dall’insieme dei linguaggi di programmazione per le macchine, per i computer intesi come estensione mentale e manuale dell’uomo. Se questa prospettiva è reale, è ancora possibile pensare che le facoltà di comunicazione con la macchina possano restare prerogativa di un settore specialistico della società come i programmatori informatici? Questa situazione non rappresenta invece un vizio, non della rete ma del modo di utilizzarla, che fin dalla sua origine lavora contro la sua natura stessa, in cui i contenuti viaggeranno, a dispetto della multi direzionalità potenziale, sempre e comunque in una direzione mediata professionalmente e dunque determinata gerarchicamente? Nei cortei del nuovo potere giuristi, sacerdoti, sindacalisti e portavoce letterati saranno scalzati dai nuovi divinatori del dio tecnologico. Il futuro delle nostre facoltà operative è in mano a terribili specialisti. Sembra perciò necessario elaborare una critica dei costumi informatici attuali (una computer criticism) allo stesso modo di come la rivoluzione industriale ha avuto la sua critica con l’analisi del capitale, e quella informativa dell’avvento dei media monodirezionali la propria con l’analisi dello spettacolarizzazione dei rapporti sociali. È possibile ritenere che i linguaggi che permettono al cosmo tecnologico attuale e futuro di funzionare non debbano essere oggetto di analisi critica e posizionarsi all’esterno di qualsiasi linguistica? Si può dare per scontato che l’utilizzo affermato dei PC e delle sovrastrutture che questi rendono possibile, sia e debba restare l’unico concepibile? È normale che i linguaggi di programmazione vadano babelizzandosi progressivamente senza che si possa giungere a degli standard facilmente trasmissibili e utilizzabili in massa come si fa per il leggere e lo scrivere tradizionali?

12 G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002.

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Città Future 29 Programmazione cognitiva

Pare che tutto questo equivalga a ripiantare alberi al posto di rizomi, rappresentando indirettamente la reintroduzione traversa delle dinamiche spettacolari nel funzionamento intimo della rete, anche se ad un livello diverso. A ben pensare le varie applicazioni fornite in tutte le salse per l’utilizzo passivo del PC e della rete si configurano sostanzialmente come i vecchi canali sul telecomando della televisione, con la differenza che lo schermo di un PC è infinitamente più calamitante verso l’attività dell’uomo che quello di un televisore. Non secondario nello scenario attuale è il problema delle tracce informatiche. È noto come i motori di ricerca, Google in primis, siano ormai capaci di presentare offerte pubblicitarie su misura dell’utenza. In sostanza la pubblicità che giunge nelle cartelle delle mail, ma le stesse icone laterali che lampeggiano in modi fastidiosi, rallentando le connessioni e apparendo sempre per prime, sono ormai pensate ad hoc per l’utente sulla base delle sue ultime navigazioni in rete. È evidente che i motori di ricerca, o addirittura i browser installati sui propri PC (in modo da sfruttare la memoria a valle) conservino tracce dei movimenti in rete che ognuno fa, i quali dicono di noi molto più di quanto non crediamo e creano per ognuno dei «profili» molto dettagliati, circa i nostri interessi e aspirazioni nel tempo, anche se non siamo noi stessi a spubblicarci spontaneamente tramite questo o quel «social network». Il grande fratello orwelliano controllava la vita di ogni membro del partito attraverso schermi installati dappertutto, sempre funzionanti i quali avevano la caratteristica di guardare ed ascoltare la vita che vi scorreva al di là. Noi oggi passiamo gran parte della nostra giornata direttamente di fronte ad uno schermo che non ascolta e non vede (siamo sicuri?), ma traccia la nostra attività grazie ai software che gli permettono di funzionare. Siamo tutti schedati. Un regime fascista oggi non avrebbe bisogno di spie umane per individuare i propri

nemici politici. Da questo punto di vista è interessante capire i risvolti dell’utilizzo della rete in paesi a regime politico ancora fortemente ideologizzati, come i paesi fondamentalisti, o come la Cina, ad esempio, dove ancora recentemente le grandi multinazionali informatiche sono state costrette a contrattare la loro presenza sul territorio. In particolare in Cina il governo ha manifestato l’interesse a poter accedere al controllo dei motori di ricerca per poter imporre la censura ad informazioni ritenute scomode, ma non ad impedire tout court l’accesso alla rete alla propria popolazione, la qual cosa sarebbe stata controproducente per gli stessi interessi della burocrazia politica al potere13. La micro nicchia dell’open source per amatori La scomparsa progressiva della scrittura e della frequentazione della logica, la conseguente invasione delle «app» (applicazioni, c’è un’applicazione praticamente per tutto, come recita la pubblicità di una nota marca di prodotti informatici) sta popolando il mondo di una nuova categoria: gli operatori. Fino a poco tempo fa la conoscenza informatica veniva divisa in due livelli, c’erano quelli che sapevano armeggiare con i computer da semplici operatori e quelli che sapevano farlo da programmatori. Questi erano in grado di far fare alla macchina ciò che essi desideravano, quelli di desiderare di fare ciò che la macchina gli permette. Questa distinzione è ancora valida, ma perde progressivamente significato, dato che con la monopolizzazione dei linguaggi di programmazione anche i programmatori devono sottostare a ciò che il mercato decide di offrire, visto che essi non programmano più per sé come all’origine, ma per gli altri, di cui magari non conoscono le esigenze e le cognizioni specifiche. Anche qui il mercato lungi dal dare a tutti piuttosto toglie ad ognuno. In effetti la diffusione dei PC ha permesso l’irrompere sulla scena della rete e della sua potenza virtuale, ma in un contesto già viziato ed irreggimentato dal mercato. Così il concetto dell’open source è già una riforma necessaria e non un attributo naturale della rete, per cui si è costretti a doverne parlare. Se la rete avesse preceduto o fosse nata contestualmente alla diffusione dei PC su larga scala, probabilmente l’industria software non esisterebbe. Quest’ultima invece preesiste alla rete e la condiziona, facendola vivere di luce riflessa. Così anche dove in potenza la rete potrebbe essere veicolo della condivisione universale della produzione immateriale dell’uomo (come dell’immagine digitale della produzione materiale), quindi anche dei codici informatici alla base del funzionamento dei PC e della rete stessa, la circolazione di quest’ultimo tipo particolare di contenuti (che rendono possibile il mezzo) è ciò che in essa meno interessa, di fronte alla circolazione di tutto ciò che si offre come già dato. Cioè l’open source sarebbe sì possibile su larga scala, ma in una società di specialisti la questione è appunto di interesse specialistico e non assume la centralità che meriterebbe. Esso infatti presuppone un’alfabetizzazione informatica di massa per poter avere efficacia e per liberare in pieno la propria potenza. La rete è virtualmente la vera e propria concretizzazione

13 Vedi anche: www.ilpalo.com/m-informazioni-google-i-motori-di-ricerca/l-ingresso-di-google-in-cina-e-i-problemi-di-censura-di-vise-e-malseed.htm

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Città Future 30 Programmazione cognitiva

dell’intellettuale collettivo, il cervello della società, il luogo in cui il pensiero dei singoli può elaborare socialmente la materia del proprio progresso culturale accumulando contributi parziali come mattoni di una progettualità collettiva. Purtroppo però i pezzi individuali di questo potenziale intellettuale collettivo sono sempre di più abituati a trovare tutto pronto e disponibile e a prendere ciò che il mercato offre senza pensare, si tratti delle gomme da masticare al supermercato o dei programmi con cui si lavora o ci si svaga. Si dirà che il mercato offre ampia scelta e che la critica si applica appunto nell’acquisto di un prodotto piuttosto che di un altro, ma è evidente che si tratta di una falsa democrazia della merce che ricalca perfettamente la falsità della democrazia parlamentare dove si è costretti a scegliere fra i politici offerti senza possibilità di intervento attivo nel processo di formazione dell’offerta. Poter scegliere fra una gomma da masticare piuttosto che un’altra non mette in discussione l’utilità presunta della gomma da masticare. Per di più l’irrompere sulla scena dell’interesse sociale, di un mondo virtuale e l’implicita perdita di senso della tecnologia come strumento di intervento sull’esistente, svuota a monte di intenzionalità progettuale le potenzialità di insieme offerte dalla rete e dalla possibilità di generalizzazione dell’open source. A che pro implementare socialmente processi creativi se il mondo dato è il migliore possibile e se tutto ciò che esso non offre in forma materiale lo si può avere in forma immateriale mediante la rete? Incidere sulla realtà (incidere la realtà) è sostanzialmente una forma di scrittura, un linguaggio materiale dell’uomo. Tornare a progettare il mondo è operazione che passa necessariamente attraverso il recupero della scrittura e dei linguaggi in tutte le loro forme e quindi attraverso l’inversione in generale del rapporto esistente fra tecnologia e società. Questo significa che è necessario recuperare un rapporto attivo con gli artefatti cognitivi, per farne il mezzo con cui recuperare l’autonomia della propria coscienza, ma conoscenze, coscienza, e progettualità sono tutti processi complessi fondati sul linguaggio in generale, impossibili senza di esso considerato in tutte le sue forme, e il quale necessita di una riappropriazione di massa. In questo senso il controllo sui linguaggi è parte fondamentale del controllo della propria esistenza. In questo senso il monopolio dell’informatica, come la stessa esistenza di un’industria software è da un punto di vista razionale del tutto inaccettabile. Il linguaggio informatico è solo il tassello più periferico e sofisticato della detenzione in ostaggio della tecnologia da parte di una classe sociale precisa e dominante e la tecnologia non è, in generale, cosa diversa rispetto ai «mezzi di produzione». Il PC stesso è in definitiva un mezzo di produzione che per quanto domestico non è sotto il pieno controllo di chi lo possiede. Quale rete. Quale cultura. Insomma la rete rappresenta la potenziale estinzione dell’industria informatica, ma il presupposto per questa liberazione della rete e dell’immensa capacità di calcolo diffusa ed intrinseca ai milioni di computer disseminati nella società, è l’alfabetizzazione di massa nel campo dei linguaggi di programmazione, il cui monopolio è all’opposto esattamente funzionale alla conservazione di una

sovrastruttura industriale completamente inutile dal punto di vista dell’utenza finale, cioè dell’umanità intera (in prospettiva), ma del tutto connaturata ad una società del controllo sempre più sofisticata e totalizzante. All’opposto data l’attuale dipendenza completa dell’intera attività operativa da un’industria informatica non è possibile pensare alla sua distruzione in assenza di una preparazione minima dell’utenza all’assunzione di un proprio ruolo attivo nei confronti delle cognizioni informatiche alla base delle loro attività da operatori. La battaglia di Papert per l'insegnamento dei linguaggi informatici, funzionali ad un utilizzo consapevole delle risorse tecnologiche, a partire dalle scuole inferiori, è un obiettivo estremamente avanzato rispetto ad una realtà in cui neanche al livello universitario vengono ancora introdotti percorsi formativi volti a mettere in grado i professionisti laureati di fabbricarsi da sé i propri utensili informatici. Questo discorso non rappresenta un problema settoriale, ma si configura a pieno titolo, e in modo sempre crescente, come un problema culturale di massa, dai caratteri spiccatamente socio-politici. In sostanza qualsiasi discorso versus l’industria informatica e versus un utilizzo classista della tecnologia passa, tra le altre cose, necessariamente attraverso l’espropriazione del monopolio dei linguaggi di programmazione, come presupposto culturale e tecnologico necessario al controllo sociale dei mezzi di produzione. Il mondo virtuale e quello materiale sono oggi invece messi in parallelo, e non in contrapposizione dialettica, nel senso che la virtualità si configura non come una simulazione delle possibilità di cambiare il reale, quindi non come strumento di intervento sul materiale, se non in forme controllate dall’alto e per conto del capitale, ma come universo in sé, sorta di buco nero della creatività sociale in cui dirottare e far scaricare la libido collettiva. Proprio quando la creatività sociale acquisisce una potenza mai avuta prima essa perde però di vista qualsiasi obiettivo di interesse collettivo, una forza tecnologica incredibile senza ricadute concrete sul mondo in cui viviamo che invece langue nella dismissione e nel degrado. In uno scenario non condizionato dal mercato, che è determinato dall’offerta industriale, si avrebbe una massa di utenza alfabetizzata anche nei confronti della programmazione, capace di compilare programmi come scrivere temi a scuola o risolvere problemi di aritmetica e così via, senza differenze di rapporto (attivo-passivo) con il mezzo e in grado di condividere in rete la propria produzione informatica. L’open source sarebbe naturalmente generalizzato e nel breve volgere di qualche anno l’industria informatica sarebbe completamente superata. Qualsiasi applicazione sarebbe liberamente scaricabile ed emendabile, ognuna di esse si formerebbe direttamente nell’attività per mezzo di chi la utilizza concretamente e non in laboratori astratti dalle attività per cui fabbricano software, i quali necessitano poi di essere collaudati da chi li utilizza senza che questi possano intervenire attivamente sul loro funzionamento. Si potrebbe facilmente prevedere la nascita non di recensioni di questo o quel programma, ma il dibattito attivo su quali programmi sviluppare, in funzione di quali processi produttivi, e per quali obiettivi sociali, sul modo di renderli più efficaci,

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Città Future 31 Programmazione cognitiva

logici e facili da apprendere, il dibattito investirebbe direttamente la natura stessa dei linguaggi di programmazione, la loro critica, la loro democratizzazione ed il loro valore pedagogico, aspetti oggi del tutto negati. È anche chiaro che fine farebbe, in tale scenario, il diritto d'autore, foglia di fico demagogica per tutte le industrie che a diverso titolo si appropriano la creatività sociale. L’allargamento del dibattito invertirebbe il rapporto fra utenza e mezzo eliminando gli operatori e restituendoci una massa di potenziali programmatori, nella quale la semplice operatività possa essere una scelta libera e non un condizionamento imposto, così come non necessariamente tutti quelli che imparano a scrivere vogliono essere scrittori. Questo scenario non ha un interesse specifico solo in ragione della trasformazione positiva dei modi di utilizzo delle macchine e della rete, che è un effetto, ma fonda il suo valore nel fatto che la trasformazione positiva del rapporto fra uomo e macchina ha come presupposto l’effetto positivo, in senso anti-disgregante, sulla formazione della coscienza individuale nelle attività umane, quale premessa comunque necessaria al progresso socio-politico. I linguaggi informatici entrerebbero nel novero della linguistica al pari degli altri, ed essendo di interesse generale restituirebbero all’uomo un rapporto attivo con la logica, la riflessione e la scrittura, contribuendo sensibilmente a guarire lo strisciante analfabetismo capitalista e a combattere la

dissociazione sempre maggiore fra i vari strati della struttura psichica dell’uomo, dissociazione che è oggi alla base della sua incapacità di stabilire una relazione di causalità diretta fra le sue cognizioni individuali e la propria condizione esistenziale costringendolo a considerare naturalmente separate (per quale motivo?) queste diverse sfere della personalità. La tecnologia detenuta dalla classe dominante, verrebbe depurata dalle sue applicazioni ridicole e socialmente nefaste, per assumere un senso non contrapposto ai bisogni della società in generale, ma ad essi subordinato. Il problema è che nella misura in cui l’utilizzo distorto di questa potenza tecnologica si afferma radicandosi nella prassi operativa quest’ultima finisce per strutturare una coscienza individuale fondata sull’utilizzo cieco delle conoscenze, in favore di un loro crescente tecno-centrismo ma a scapito del loro potenziale politico. APRILE 2010

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Città Future 32 Campione del lavoro

Inchieste CAMPIONE DEL LAVORO Valeria Spadini Premessa La scelta di raccontare l’esperienza di Campione del Garda non si lega semplicemente alla volontà di approfondire la storia di un villaggio operaio qualsiasi, bensì nasce dall’interesse che mi ha suscitato la sua particolare situazione di isolamento. Quello di Campione è stato infatti un esperimento sociale difficilmente replicabile, in quanto a partire da fine ’800 proprio la sua morfologia ha permesso al modello imprenditoriale di tipo paternalistico di esprimersi in maniera totalizzante. La convivenza di un cotonificio e delle case dei suoi operai su una lingua di terra raggiungibile quasi esclusivamente via lago, poiché sovrastata sul lato opposto da una parete di roccia a strapiombo, ha generato un ecosistema chiuso dove vita privata e vita di fabbrica, personale lavorativo e comunità, tempo lineare e tempo ciclico si amalgamano in maniera singolare, orchestrati magistralmente dal parroco e dal direttore. Una rapida incursione nella storia di Campione e un raffronto con le principali tematiche che attraversano l’esperienza operaia italiana del XX sec. permetterà di individuarne più da vicino la peculiarità. Le fonti che hanno permesso questo lavoro sono l’intervista con Carlo Simoni, direttore del «Sistema provinciale bresciano dei musei di cultura materiale» ed esperto di storia industriale del bresciano, e alcune sue ricerche segnalate in bibliografia. Ho scelto di evitare le note alle testimonianze riportate, in quanto provengono tutte da Oltre la strada di C. Simoni, Grafo edizioni, Brescia, 1988. Le altre fonti, utilizzate per mettere a fuoco determinate tematiche, sono i documenti (inchieste, testimonianze, film) del seminario Corpi e anime della «grande trasformazione», tenuto da Gilda Zazzara. 1. Storia: da «negozio campion» a feltrinopoli La penisola dove si sviluppa Campione del Garda è il risultato di un lento deposito di sedimenti condotto dal torrente Tignalga che qui si unisce al lago; il torrente incide la roccia che sovrasta Campione, con una forra che divide gli altipiani di Tignale e Tremosine, per poi scendere verso il paese, spezzando in due parti la terra che esso stesso ha formato. Fino al 1930 Campione è completamente scollegato dalla riviera; solo per alcuni anni lambito dalla Gardesana occidentale, oggi, dopo la costruzione della galleria che attraversa le rupi di Tremosine, è nuovamente invisibile. A partire dal XVI sec. è sede di fucine da ferro e da rame, di mulini e probabilmente anche di una cartiera, ma raggiunge un maggior dinamismo quando gli Archetti, nota famiglia di mercanti bresciani, lo rendono centro della propria potenza economica. A questo periodo risale la costruzione del palazzo settecentesco della famiglia, che accompagnerà Campione per tutta la sua storia. Le attività degli Archetti godono dei privilegi concessi loro dalla repubblica di Venezia e la loro fortuna tramonta insieme alla crisi di questo sistema

di privilegi, costringendoli a cedere la loro impresa ad altri mercanti, a fine XVIII sec. La fase di decadenza del paese dell’alto Garda ha il suo culmine nell’estate del 1807, che vede Campione devastato da una piena disastrosa del torrente Tignalga. Bisognerà attendere quasi un secolo prima che un’iniziativa rivoluzioni le sorti di Campione: Feltrinopoli. Giacomo Feltrinelli, imprenditore che aveva esordito col commercio di legne e carbone vegetale nell’originaria Gargnano e passato poi al commercio delle traversine ferroviarie è ormai una figura di primo piano nell’universo economico milanese. L’intera area di Campione diventa proprietà della ditta Feltrinelli e C., che si occupa di una rivalutazione generale: nella zona a sud del torrente, «Campione di sotto», viene costruita la fabbrica, mentre la zona a nord, «Campione di sopra», è destinata alle case degli operai. Feltrinelli assume come primo direttore del cotonificio di Campione un giovane tecnico milanese, Vittorio Olcese, il quale aveva in passato lavorato in qualità di assistente di filatura e preparazione presso il cotonificio Crespi di Capriate d’Adda, attorno al quale si sarebbe sviluppato uno dei villaggi operai modello in Italia. La fama di Olcese si lega alla progettazione di un nuovo modello di cotonificio ad un solo piano, che viene prima realizzato per i Weimann Somaini e poi a Campione. Nell’area dove sorgono le abitazioni il progetto prevede la costruzione di una piazza, la cui significativa denominazione «corte» che appare nei catasti dell’epoca ne tradisce l’opposto carattere di privatezza. I casermoni plurifamiliari con servizi igienici in comune, nel loro colore rosso mattone che li rende uniformi alla fabbrica, sono schierati secondo un assetto geometrico tipico dei villaggi operai. Gli appartamenti vengono affittati a costi bassi alle famiglie operaie, la cui permanenza nella casa è subordinata alla continuità della prestazione lavorativa. Così, in un colpo solo, con l’eventuale licenziamento arriva pure lo sfratto. Dopo soli due anni dall’inizio dei lavori i residenti sono circa 750, di cui la maggior parte abita a Campione di sopra; una parte di giovani operaie, prevalenti all’interno del cotonificio, trova alloggio nel convitto delle «Figlie di Maria Ausiliatrice» in Campione di sotto, che ospita, oltre alla fabbrica, la chiesa, un’osteria ed edifici per attività ricreative. Inoltre sono previsti uno spaccio aziendale, una «Cassa di Risparmio», un ufficio postale e telegrafico e la biglietteria del piroscafo, insomma tutti quei servizi che rispondono alle ambizioni di autosufficienza di Feltrinopoli. 2. La fabbrica allargata: sanità, scuola, convitto 2.1 Il medico sulla teleferica Riguardo alla salute dei propri dipendenti, l’azienda si affida al comune, che designa per questo compito il medico di Tignale. Il beneficio che l’azienda concede agli abitanti di Campione, ossia la gratuità delle spese mediche che essa stessa si perita di coprire, ha però la seguente condizione: gli interventi devono essere vagliati dalla ditta e ottenere la sua autorizzazione. Inoltre l’isolamento del luogo limita ogni tempestività d’azione del medico, il quale, partendo da uno dei paesi della riviera,

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Città Future 33 Campione del lavoro

si deve inventare mezzi di fortuna per arrivare in tempo: «Nel 1915 – racconta il dottor Turri di Tremosine - per facilitare ed evitare una soverchia fatica, approfittavo molto della teleferica che serviva, da Pieve al porto di Tremosine e viceversa, per il trasporto merci. Quindi continuavo col battello fino a Campione […]. Però quando volevo andare e tornare quando mi faceva comodo, percorrevo molte volte il pericoloso e difficile sentiero che da Pregasio scendeva a Campione». Nonostante le testimonianze registrino numerosi infortuni, data la pericolosità degli ingranaggi delle macchine per le mani delle filatrici, don Cipani sembra voler dipingere un quadro idilliaco, funzionale al modus filantropico che vanta la ditta: «Ho visto non poche operaie piangere nel di che per qualche ragione di famiglia, furono tolte al lavoro della propria macchina! Una morente nel delirio della febbre mi fu detto, inviava baci alla sua macchina a cui aveva dato il nome di Iolanda; perché v’era stata posta a lavorare il 1 giugno 1901: giorno natalizio della Principessa Iolanda, dell’augusta Casa dei nostri Sovrani. Una gara di emulazione e quasi un culto in tutte le giovani per la tenuta della loro macchina: su ognuna è un’immagine sacra; un fiore e nastri col tricolore della patria, svolazzanti senza posa alla corsa vertiginosa delle ruote!». Sicuramente il fatto che un danno alla macchina preveda l’indennizzo da parte del lavoratore responsabile oppure il suo immediato licenziamento funziona da incentivo. Nonostante questo racconto si inscriva perfettamente nella logica paternalistica dell’epoca, la tematica del rapporto ambivalente che si instaura tra operaio e macchina merita un approfondimento. Ce lo illustrano alcune scene dei film Giovanna di Gillo Pontecorvo e La classe operaia va in paradiso di Elio Petri: il fatto che le operaie «accudiscano» le proprie macchine anche nei giorni di occupazione della fabbrica e che Lulù Massa si immagini la sua macchina con le fattezze di un corpo di donna, per essere precisi «il culo dell’Adalgisa», mettono in luce il fenomeno di umanizzazione della macchina che l’operaio mette in atto per far fronte all’alienazione spersonalizzante. Dare un nome significa anche dare un senso, un’unità a un lavoro che invece la catena di montaggio tende a rendere frammentario, poiché impedisce di seguire la lavorazione del prodotto fino al suo compimento. Proprio l’interruzione della relazione causa/effetto tra fatica del lavoro e prodotto compiuto porta a una perdita completa di riferimenti e quindi all’alienazione che, come spiega Ottieri, «[…] è il cancello di ferro che trattiene chi lavora, lo isola in una responsabilità così frazionata e lontana dagli ultimi scopi, da violare l’istinto, la volontà, l’intelligenza»1. Come unico riferimento, se così si può definire, resta quel congegno sferragliante a cui l’operaio è incatenato, impenetrabile anche quando se ne conoscono i meccanismi di funzionamento. Proprio per esorcizzarne la meccanicità seriale, è necessario

1 Ottiero Ottieri, Donnarumma all’assalto, Garzanti, Milano 2004 (1959).

per l’operaio crearsi una macchina di carne, con i brandelli che essa gli strappa giorno per giorno. Solo attraverso questo processo di umanizzazione ci si può costruire un interlocutore, seppur impietoso, che si lascia odiare e amare come soltanto un essere umano può fare. E alla fine sembra quasi di sentire, dietro quel respiro affannoso, i battiti di un cuore meccanico. 2.2 La maestra senza scuola Se l’azienda delega al comune il problema sanitario, così non avviene per la questione dell’educazione; la scelta nel 1903 di sobbarcarsi le spese necessarie alla gestione dell’istruzione elementare garantisce all’azienda il pieno controllo non solo sull’ambito produttivo, ma anche su quello riproduttivo. Poco tempo dopo la stipulazione della convenzione tra Campione e i due comuni di cui fa parte, Tremosine e Tignale, un decreto prefettizio impone l’istituzione di una «scuola unica mista obbligatoria» a carico del comune di Tremosine. Seppure messa alle strette, la ditta fa di tutto per impedire l’attuazione del progetto: inizialmente si rifiuta di concedere i locali per la scuola; dopo l’intervento dell’autorità scolastica provinciale che garantisce finalmente la creazione della scuola pubblica, la ditta minaccia di licenziamento e di sfratto qualsiasi operaio che voglia iscrivervi i figli. La direzione del cotonificio infatti si era adoperata per organizzare il «percorso di crescita» di quelli che sarebbero stati i suoi operai del domani, assumendo nella propria scuola privata una suora salesiana. Nel frattempo però il comune ha assegnato, attraverso regolare concorso, il posto di insegnante nella scuola pubblica di Campione ad una maestra, che è posta nella paradossale situazione di non poter svolgere il proprio lavoro in quanto si trova senza alunni. Si apre una fase di tensione tra il cotonificio e il comune, che deve retribuire un’insegnante che in realtà non può insegnare. «[...] Tre bimbe si presentano dicendomi che il giorno appresso m’avrebbero consegnati i documenti necessari per l’iscrizione – scrive nel dicembre del 1905 la maestra Sofia Baroni – ma invece non le vidi più comparire, poiché fu loro proibito, come a tutti gli altri alunni, di frequentare la scuola comunale».

Nel 1909 la vicenda si conclude con la vittoria dell’azienda, ossia la soppressione della scuola pubblica e la conferma del diritto della ditta di gestire l’istruzione dei bambini del paese. Così l’ambiente scolastico diviene l’anticamera della vita di fabbrica: durante le vacanze estive il direttore porta i ragazzi nel cotonificio e insegna loro il mestiere; Olcese, accompagnato dalla moglie o dal parroco, compie numerose visite, presiede agli esami di fine anno, dirige le cerimonie di premiazione ed elargisce doni a natale. Durante questi avvenimenti, che assumono valore rituale, il direttore è insieme maestro, padre e alle volte Babbo Natale. È importante in ultimo accennare anche alla priorità che l’insegnamento religioso vanta sulle altre materie.

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Città Future 34 Campione del lavoro

2.3 La castità non è una scelta Le suore salesiane gestiscono anche il convitto che ospita le operaie nubili, permettendo alla mentalità dell’azienda di insediarsi anche nella vita privata di molte ragazze e creando una continuità tra disciplina del convitto e disciplina di fabbrica. Gli insegnamenti etici delle «Figlie di Maria Ausiliatrice» consistono infatti nel «non lamentarsi di niente e di nessuno», «obbligo di non farsi giudici della condotta delle Superiori, ma di sottomettersi alle loro disposizioni umilmente», «Pregare, tacere e patire»2. L’organizzazione dell’istituto prevede l’interscambiabilità delle suore sia dal punto di vista delle persone che delle mansioni; ciò comporta una rotazione continua del personale, secondo modalità stabilite a livello centrale, che non permette la creazione di legami amicali e sentimenti di familiarità tra personale e utenti. La separatezza della vita del convitto è tradita dalla sua stessa ubicazione: collocato in Campione di sotto, quindi nell’area della fabbrica, il palazzo è adiacente alla chiesa. Lo stretto legame tra l’azienda e convitto prevede che il reclutamento per la fabbrica spesso avvenga attraverso quest’ultimo: non è raro che gli orfanotrofi gestiti dalle salesiane forniscano manodopera dodicenne al cotonificio. Quindi l’assunzione prende la forma di un affidamento e l’ingresso in fabbrica fa tutt’uno con quello nel convitto. Proprio il fatto di alloggiare nel convitto operaie nubili e quindi spesso molto giovani garantisce un vantaggio per l’azienda; le ragazzine infatti rappresentano una manodopera con un costo più basso rispetto alle operaie adulte. Grande è pure il risparmio sul vestiario, molto misero, e sugli alimenti; la

2 Carlo Simoni, Oltre la strada, Grafo edizioni, Brescia, 1988 (pag 130)

reazione delle convittrici spesso consiste in furti del cotone della fabbrica. La questione che merita maggior attenzione, però, è la ristrettezza dei margini di autonomia e libertà delle convittrici. Innanzitutto le suore si peritano di tenere occupate il più possibile le giovani operaie nei pochi momenti di libertà con pratiche religiose, con occupazioni domestiche come il rammendo, con la scuola festiva e il catechismo di domenica. Le gite organizzate somigliano più a pellegrinaggi, e non rappresentano certo occasioni di nuovi contatti o esperienze. Le punizioni previste per la trasgressione delle regole del convitto sono inflessibili: espulsione dall’istituto e licenziamento dal cotonificio per tutte le convittrici che si incontrino con coetanei dell’altro sesso. La convittrice, figlia del rapporto morboso tra azienda e chiesa, viene infine prescelta come operaia modello per rappresentare Campione in occasione di celebrazioni importanti o arrivo di personaggi illustri. 3. Santo patrono e padrone-santo L’amministrazione del tempo libero e della socialità sono sotto la giurisdizione dell’azienda, che se ne è appropriata attraverso la costruzione di nuovi riti che hanno soppiantato quelli che si erano formati naturalmente. Questo processo non è avvenuto gradatamente, anzi, gli abitanti sono stati spettatori di uno sradicamento talvolta brusco delle loro consuetudini: per esempio la chiusura nel 1923 del circolo vinicolo, sorto per iniziativa dei lavoratori, a cui viene attribuita la responsabilità del diffondersi dell’alcolismo nel paese. Come arguisce Simoni, «Indipendentemente dal sospetto che il circolo aveva potuto ingenerare, soprattutto in anni di forti tensioni politiche e sociali quali sarebbero stati quelli del primo dopoguerra, ciò che la ditta non era disposta ad accettare era che si mettesse in discussione il suo diritto a gestire tutte le attività extra-lavorative dei suoi dipendenti, che si cercasse di incrinare il suo potere assoluto sul tempo degli abitanti del villaggio: alla base di questo atteggiamento, ravvisabile in tutte le esperienze ispirate dal paternalismo industriale, stava senza dubbio la convinzione, o piuttosto la presunzione, di una radicale inferiorità culturale degli operai e quindi della necessità di guidarli in ogni loro atto da un lato, e dall’altro di preservarli dalla propaganda di sobillatori e sovversivi, sempre supposti, o rappresentati, come estranei alla realtà della fabbrica e del paese»3. La sincronizzazione della fabbrica detta i ritmi anche della vita sociale, con un doppio risultato: da una parte gli abitanti sono tenuti a partecipare a cerimonie ritenute essenziali da Olcese, a tal punto che, in caso un abitante venga scoperto a «marinarle» , rischia sanzioni pesantissime (dalle multe al licenziamento); dall’altra i nuovi rituali hanno fondato una comunità che si identifica più o meno consciamente nei valori dominanti della fabbrica. Quindi la trasgressione delle regole sociali e lavorative comporta anche la disapprovazione o l’esclusione dal corpo sociale. La festa più sentita nel paese è quella di S. Ercolano, patrono di Campione, figura nella quale si fondono significato religioso e civile: la scelta di eremitaggio del vescovo

3 Ibidem, p. 104

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Città Future 35 Campione del lavoro

leggendario è implicitamente paragonata alla situazione di isolamento che vivono gli abitanti di Campione. Essenziale, per un buon svolgimento della festa, è la partecipazione del dirigente e della sua famiglia, identificati come i fondatori del paese. Talvolta accade che, a causa dell’impossibilità di Olcese, che ormai non risiede più a Campione, di essere presente, venga rimandata la celebrazione. Nei ricordi di alcuni abitanti la figura carismatica del padrone tende ad identificarsi in quella mitica del santo. Nonostante l’aura sacralizzante, il padrone è anche capace di divertirsi insieme ai suoi operai, arrampicandosi, uno tra i tanti, sull’albero della cuccagna. In questi momenti agli abitanti sembra che la solidarietà e la collaborazione non siano mai venuti meno. Ancora una volta sotto l’abito camaleontico del compagno di lavoro, del padre e del santo, il padrone riceve sorrisi di riconoscenza da ogni angolo della piazza. Bisogna tener presente, come sottolinea Simoni, un altro aspetto di queste celebrazioni rituali: la loro ripetitività fa in modo che il tempo sociale soffochi quello individuale. La mentalità dell’azienda vuole infatti che sia sconveniente per il lavoratore semplicemente passare il tempo, che quindi viene impiegato per «l’economia sociale del paese-fabbrica»4. Questo modello di «lavoratore a tempo pieno» contraddice il principio Lafargueiano del «diritto alla pigrizia»5, in quanto crea una forma di lavoro indiretto che occupa l’operaio nella costruzione del consenso all’istituzione paternalistica. La sensazione, in molti operai già spenta dall’abitudine, è quella di non uscire mai dalla fabbrica, per la quale ci si affatica senza interruzione, nel ruolo del lavoratore o dello spettatore attivo. Il ruolo dell’operaio si sovrappone a quello del cittadino in modo così preciso da oscurarne completamente la sagoma. Quindi per gli operai di Campione non avviene mai completamente quello stacco dal lavoro che Palma Plini descrive come fondamentale per la salute mentale: «Appena si mette il piede fuori dalla fabbrica quello che si desidera ( e lo desideriamo tutti) è di non pensare fino alla mattina dopo ad essa. È uno stato d’animo naturalissimo quando non si può essere sé stessi»6. La stessa vita familiare viene sacrificata ad una collettività il cui collante ideologico ed etico è quello della regola padronale. La periodicità con cui vengono imposti i rituali collettivi permette all’azienda di inserirsi e sostituirsi ai ritmi stagionali del villaggio, insinuando lentamente accanto al tempo ciclico il tempo lineare del progresso. 4. «Abbasso il re!» 4.1 Napoleone non vuole essere capo Bisogna aspettare il 1908 per assistere alla prima vera protesta degli operai del cotonificio, nel contesto di una crisi di sovrapproduzione, che porta all’espulsione di oltre il 40% della forza lavoro. Sebbene il socialismo avesse già iniziato a farsi strada tra gli operai, il processo di sindacalizzazione

4 Ibidem, p. 106 5 Paul Lafargue, Il diritto alla pigrizia. Confutazione del diritto al lavoro, Spartaco, S. Maria Capua Vetere, 204 (1887) 6 Palma Plini, Diario di un’operaia di fabbrica, edizioni Devoniane, Bologna, 1968

aveva incontrato notevoli ostacoli. Le principali proteste degli operai di Campione denunciano l’inasprimento della disciplina di fabbrica e nel 1912 giungono a richiedere le dimissioni del direttore, il signor Re. Questo episodio svela, oltre che l’insofferenza nei confronti di un direttore troppo severo, la difficoltà degli operai di far fronte all’inasprimento dei ritmi di produzione dovuto al ridimensionamento del numero dei lavoratori e all’abbassamento dei loro salari. A proposito della mancanza di un’organizzazione sindacale a Campione, significativa è la lettera dell’operaio meccanico in risposta al sindaco di Tremosine, che lo ha identificato come il capo della rivolta: «Campione 4/7/1912 Egregio Sig. Sindaco A colui che vi informò che io fui Capo, ditteli, e voi tenettelo per norma e regola: che nelle Lotte fra Capitale e Lavoro, in questi ultimi non vi fu, e non vi sarà mai nessun capo; al massimo dalla massa Operaia verrebbe eletto una Commissione, e se questa con votto di fiducia ha piena libertà da discutere con la classe Padronale, può e deve, con quest’ultima decidere le sorti della Lotta. Ma che io vi rispondi nei più minuti dettalli dello sciopero non posso. (N.B.) Vi è indispensabile quanto che a mè chiedete?…Bene, scrivette ed usufruite del mio indirizzo, chiedendo(alla Commissione) dello sciopero quanto che ingenuamente chiedeste ha me come Capo.

N. Turolla». Nonostante le lotte tra capitale e lavoro menzionate da Napoleone Turolla, del quale dopo questa lettera non si ha più traccia, Vittorio Olcese e don Cipani si adoperano alla meglio per tenere in piedi il teatrino di carta dell’armonia e della pace sociale: le celebrazioni e le processioni non vengono interrotte, ma solamente posticipate in caso di disordini. Nel dopoguerra le difficoltà del cotonificio si sublimano nella fusione tra la società Feltrinelli e il Cotonificio Francesco Turati. La ripresa del movimento sindacale vede alla propria testa l’attività dei cotonieri, che nel 1919 ottengono le 8 ore. Questo clima impensierisce Olcese, tornato nel frattempo come direttore,che promuove la nomina di un nuovo sacerdote, don Tavernini, con la speranza di ristabilire l’ordine sociale e «che si ritorni alla Religione e al buon senso»7. La fitta corrispondenza tra direttore e parroco avviluppa il paese in una trama anti-socialista: non è raro che don Tavernini inviti esponenti del partito popolare con il tacito consenso dell’industriale. Ma le azioni degli operai sono dirette anche contro le suore e il parroco, denunciati per le misere condizioni in cui tengono le convittrici, oltre che per la rigida disciplina a cui sono sottoposte e i ricatti verso le giovani che si avvicinano alle «leghe rosse».

7 Lettera da V. Olcese a G. Tavernini, da Carlo Simoni, Oltre la strada, Grafo edizioni, Brescia, 1988, p. 163.

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Città Future 36 Campione del lavoro

4.2. Silvia e Catina Negli anni ’20 la dialettica tra azienda e lavoratori assume una nuova fisionomia; innanzitutto perché nuova è l’identità dei suoi protagonisti o, per meglio dire, protagoniste (era infatti avvenuta una progressiva sostituzione di manodopera femminile alla maschile dopo la guerra). L’inasprimento dello scontro tra la lega rossa e quella bianca, e la loro relazione con la figura padronale, sono simboleggiati dalle storie parallele e poi violentemente tangenti di Silvia e Catina. Silvia Dominici, responsabile della sezione tessile socialista, ha 26 anni ed è la terza di sei figli di una famiglia originaria di Gargnano, ma che si è stabilita da anni a Campione. Nel dopoguerra essa è ormai un’operaia con una notevole esperienza, e svolge la funzione di «maestra del lavoro» delle operaie assunte recentemente. In questi anni inizia l’attività nella lega socialista, nella quale in breve tempo ottiene un ruolo di primo piano. Agli interventi in occasioni ufficiali affianca un’aggressiva pratica sindacale: «[…] se non firmava, Re Giuseppe, il barbetta, lo prendevo e lo piantavo contro il muro […]: quando andavo fuori in ufficio, perché facevano finta di sbagliare facilmente i libretti della paga, andavo a parlare col direttore!». Catina Andreoli, di 20 anni, è la primogenita di una famiglia di otto figli originaria di Gargnano. I genitori, contadini, decidono di mandarla a lavorare al cotonificio di Campione, dove collabora con la lega bianca e ne diventa presto la segretaria. Il crescente antagonismo tra le due leghe si incarna nelle rispettive segretarie, a partire dalle loro posizioni politiche fino alla loro stessa auto-percezione: Silvia, irruente nell’attività politica, possiede la giusta dose di coraggio e irriverenza per distaccarsi dalle dinamiche soffocanti del convitto, colti anche solo nel gesto di mettersi il profumo; Catina, pacata ma carismatica, disprezza la vanità e l’apparenza, optando per un profilo modesto e morigerato. La tensione esplode il 9 dicembre 1920, quando Silvia decide di dare una lezione all’avversaria; l’episodio viene così narrato dal quotidiano cattolico «Cittadino»: «Giunta nei pressi del ponticello sotto il quale passa il piccolo fiume che dà la forza motrice allo stabilimento, da un angolo buio sbucarono quattro giovinotti e una donna i quali assalirono le tre operaie. Due dei giovani staccarono dall’Andreoli le due compagne prendendole per il collo per impedir loro di gridare, mentre gli altri due presa la giovane Andreoli per le braccia lasciarono alla donnaccia, ben conosciuta in paese, il compito di batterla con calci, pugni e schiaffi, adoperando anche un corpo contundente. Colpita l’operaia agli occhi, al naso, alla bocca, sanguinante da tutte le parti, strappatigli persino gli orecchini lacerandole le orecchie, la forsennata continuava a batterla gridando: - Ve l’avevo detto che eravamo stanchi di voi e che l’ora della vendetta sarebbe giunta -. Uno sforzo fatto dalla giovane riuscì a liberarla dalle strette degli assalitori; ma essa non fece che pochi passi, quando cadde a terra priva di sensi. La belva umana la rincorreva ancora e, anche svenuta, la colpiva di nuovo a calci e poi, assieme ai suoi complici

fuggiva […] Si dice che gli aggressori abbiano tentato di gettarla anche nel fiume». Esagerazioni e forzature ovviamente sono presenti anche nei giornali di posizione opposta, come quello del foglio socialista «Brescia Nuova», che parla di fatti inventati. Contestualizzando questo atto di violenza all’interno delle dinamiche socio-politiche del cotonificio, è forse opportuno leggerlo non come una banale rissa, ma come un’azione intrapresa dai socialisti per porre termine a un conflitto quotidiano in cui combattono ad armi impari. Catina Andreoli infatti è la vetrina dietro la quale stanno schierati il direttore e la sua compagine, intenti nel processo di smantellamento dell’organizzazione socialista locale. Il «Brescia nuova» racconta anche di tentativi di corruzione, che si alternano a campagne di discredito, nei confronti di Silvia Dominici, la quale rifiuta sdegnosamente le offerte. In seguito agli eventi del 9 dicembre, Silvia viene convocata dal direttore, di fronte al quale la giovane non abbassa lo sguardo: «[…] io ti rispetto come mio principale ma non come giudice! A Gargnano c’è la pretura: mi faccia il rapporto e io verrò a rispondere». Le parole dell’operaia stracciano il teatrino di carta di fronte agli occhi del direttore pietrificato, il quale non ha la prontezza di raccoglierne i coriandoli. Non resta che il licenziamento. La fabbrica viene immediatamente occupata, ma nel giro di poco pure sgomberata. Sul licenziamento della Dominici non si riesce a trattare, l’azienda è irremovibile. L’attacco contro Olcese non riguarda il suo ruolo di direttore di fabbrica, bensì la sua pretesa di essere anche padre e di avere la completa giurisdizione anche sulla vita fuori di fabbrica. 5. Da villaggio operaio a villaggio turistico Con gli anni ’20 termina anche l’età del paternalismo industriale, incrinato irrimediabilmente durante la stagione degli scioperi e delle occupazioni operaie. Il sistema che si fonda sull’alleanza direttore-parroco non può essere restaurato; Vittorio Olcese ricostruisce il proprio impero radicandolo nell’emergente organizzazione fascista. In realtà anche questa nuova alleanza assume una forma non tanto distante dal vecchio paternalismo, proprio perché l’isolamento di Campione, che non verrà interrotto neppure dalla costruzione della strada gardesana ultimata nel ’31, si presta ad un controllo sociale totalizzante. Durante la seconda guerra mondiale l’attività del cotonificio viene interrotta, per lasciar spazio a officine che si occupano della costruzione di parti d’aereo servendosi di macchine della Fiat. Le sale dello stabilimento vengono svuotate per alloggiare circa mille persone, civili ingaggiati per il servizio della Tod. Le operaie del cotonificio vengono in gran parte licenziate e adibite ai lavori nelle cucine e alla pulizia dei dormitori come aiutanti delle suore. Nel dopoguerra Achille Olcese prende il posto del padre nella direzione della fabbrica di Campione, riattivando il «normale» corso dell’esistenza nel paese fino al 1981, data di chiusura

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Città Future 37 Campione del lavoro

del cotonificio. Negli ultimi anni è nato un progetto di rivalutazione del paese operaio in un insediamento abitativo e turistico, promosso da Coopsette. Campione infatti non lascia alternative, è destinato a morire insieme al progetto di paternalismo aziendale con il quale era nato; il suo isolamento è in controtendenza rispetto ad una storia che rincorre la globalizzazione. Fortunatamente c’è chi si sta battendo perché il progetto sia compatibile e rispettoso del territorio e degli attuali abitanti e perché si lasci almeno un piccolo spazio per la memoria, che dovrebbe essere custodita da una struttura museale. Di fronte alle ruspe che cancellano le ultime tracce della memoria, resta ancora qualche operaia insieme al marito e ai

figli, e quel busto, gonfio di potere ed alterigia, che osserva lo smantellamento, stravolta definitivo, del suo dominio. GENNAIO 2010

Bibliografia: - CARLO SIMONI, Oltre la strada, Grafo edizioni, Brescia, 1988 - CARLO SIMONI, Campione del Garda. La memoria e il progetto, Fondazione Negri, 2008 - Rivista quadrimestrale Ricerche storiche, Edizioni Polistampa. Archeologia industriale gennaio-aprile 2009

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Città Future 38 Il capitalismo invecchia?

Socialismo come fine IL CAPITALISMO INVECCHIA? Nicola Marziale, Marco Amalfi L’esercizio di discussione lanciato da il manifesto a cavallo tra il 2009 ed il 2010, intervistando un certo numero di economisti, chiamati a rispondere su alcune domande, uguali per tutti, sul tema generale «il capitalismo invecchia?», rappresenta un momento alto di discussione sui temi dell’economia politica, alto come rarissimamente si è visto nei quotidiani italiani, quale che ne sia l’orientamento politico e, men che mai, sui periodici a maggiore caratterizzazione economica. La formulazione della domanda tradisce tracce di materialismo storico di chi l’esercizio l’ha pensato e proposto1. La formulazione delle risposte tradisce l’irrintracciabilità del materialismo storico nei paradigmi teorici in cui gli intervistati si muovono. Con accenti diversi, naturalmente, a volte anche con espliciti riferimenti storicistici, la risposta non è mai stata: «sì, certo!». Ora se da un lato potremmo chiederci perché il lungimirante opiniâtre intervistatore si sia rivolto a persone che non riescono nemmeno ad inquadrare teoreticamente la domanda tema generale, dall’altro potremmo salvare gli intervistati attribuendogli grande senso di responsabilità di militanza scientifico-politica che non inducesse a facili entusiasmi meccanicisti. Proveremo ad argomentare, a nostro avviso, in sostanziale adesione alle tesi di fondo di questa rivista, che il capitalismo non solo non sta invecchiando, ma anzi è già decrepito da decenni, perché non sviluppa le forze produttive a livello globale, produce anarchicamente eteroguidato rispetto ai bisogni delle persone, determina, in ultima analisi, rapporti sociali strutturali e sovrastrutturali, basati sull’oppressione della minoranza sulla maggioranza del genere umano. Il senso di questo intervento, a partire dalla critica dell’economia politica, contemporanea e non, è quello di indicare le ragioni strutturali per le quali il capitalismo, pertanto, non è il sistema economico che potrà garantire, ben lungi che indefinitamente, ma nemmeno nel breve/medio periodo il progresso (nemmeno paretiano2) del genere umano. Siamo hegeliani, nel senso che condividiamo la caratterizzazione del manifestarsi della necessità attraverso il caso sosteneva Hegel. La necessità cui ci si riferisce è una concatenazione di eventi, oppure di passaggi logici, che può 1 La traduzione del tema d’indagine nelle domande specifiche, tuttavia, segna una sostanziale adesione alla semantica mainstream nell’analisi del sistema economico. Se questo è senz’altro un modo per utilizzare un linguaggio comune, le categorie proposte dalle domande non ci sembrano essere quelle più utili ad una chiara focalizzazione del problema del capitalismo oggi. Tuttavia, si può forse riconoscere un intento didascalico, che non necessariamente guasta, e a cui alcune delle interviste rispondono egregiamente (quella a Giorgio Lunghini, ad esempio, ma anche l’intervento breve di Alberto Russo), nello smascherare alcune finzioni teoriche care all’economia politica dominante e forse perfino un, giustificatissimo, istinto di rivalsa, per economisti eterodossi più che marginalizzati negli ultimi trent’anni. 2 Il termine si riferisce al concetto di ottimalità proposto da Vilfredo Pareto, cui si fa amplissimo ricorso in economia politica per indicare un’allocazione di risorse per la quale si ha una situazione in cui, in sostanza, nessun agente può stare meglio senza ledere il benessere altrui.

darsi nella misura in cui nello stato temporalmente precedente si verifichino una serie di condizioni tali per cui lo stato successivo può senz’altro darsi, perché implicito nello stato delle cose, ma non necessariamente si darà nei modi e nei tempi nei quali la logica formale, o di qualsiasi altro tipo, potrebbe prevedere si diano. Il senso profondo di alcune grandi scoperte matematiche (ancora più facile a capirsi con quelle di fisica matematica3) sta proprio nella percezione, ex abrupto, di passaggi catastrofici4 tra sistemi logici, in cui il «vecchio», che non riesce più a spiegare quanto si va dando o scoprendo nella realtà fisica, vien sostituito dal «nuovo», rivoluzionario, non proprio e non solo nel senso kuhniano5, che getta basi epistemologiche per un balzo in avanti. Paradigma identico seguono, secondo il materialismo storico, l’evoluzione sociale, antropologica, storica. Paradigma identico si dà, infine, secondo parte consistente dell’epistemologia delle scienze «dure» nello sviluppo dei pianeti (tra cui, evidentemente, la Terra ed i suoi abitanti) e della materia nei suoi diversi stati, fisici e chimici. Novello passero solitario, l’economista politico ortodosso, non si cale dell’allegria che lo sviluppo della conoscenza umana dovrebbe infondere, ma schiva gli spassi e autosufficiente continua a guardare gli alberi e mancare le foreste e continuare a farsi domande sbagliate cui, per ciò stesso, non potrà far altro che dare rassicurantissime, per loro, risposte, nella migliore delle ipotesi inutili. In quanto segue, minimizzeremo il ricorso a cifre, disponibili un po’ dappertutto, chiedendo al lettore di non considerare, bonariamente, apodittiche le cose che diremo e di cercarsi in autonomia eventuali riscontri e fonti, dei quali tuttavia, ove d’interesse, saremo ben lieti di dare ascolto e seguito. Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del ’29? Nel rispondere alla prima domanda, pertanto, cercheremo di alzare il tiro, premesso che l’unica caratteristica comune ad ogni crisi è quella di non essere eterna, dicendo che l’attuale crisi è, come ogni altra, finanziaria e reale, ciclica e sistemica, più «grave» di quella del ’29. L’apertura hegeliana ritorna nella prima parte della risposta. Per quale motivo la strategia vincente per un trentennio, ovvero la spinta all’investimento finanziario puro, la deregulation dei mercati, l’incremento della penetrazione

3 Ad esempio, l’intera opera di Poincaré si dispiega attraverso un potentissimo continuum di intuizioni multidisciplinari di soluzioni «di fisica» e problemi matematici, e viceversa, gettando così le basi per la definitiva affermazione della teoria quantistica, della relatività, della topologia, dei sistemi dinamici complessi. 4 È interessante notare come nel senso della teoria matematica delle catastrofi, queste ultime sono passaggi di stato o condizione radicali, a partire da situazioni normali, che si danno in punti dello spazio del tutto simili ad altri «non catastrofici» (cfr. Woodcock, Davis, La teoria delle catastrofi ) 5 Il termine si riferisce al pensiero dell’epistemologo statunitense Thomas Kuhn, che definisce il concetto di paradigma come il corpus di teorie e strumenti che compongono un filone consolidato. Con «rivoluzioni scientifiche» K. intende il passaggio ad un nuovo paradigma di riferimento, completamente diverso dal primo, ma che si sviluppa a partire da alcuni elementi dello stesso.

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Città Future 39 Il capitalismo invecchia?

capitalistica ai quattro angoli del pianeta, ad un certo punto si trasforma nel suo contrario? Si è rotto qualcosa, che si può in qualche modo aggiustare, o c’è dell’altro? Nulla era errato prima, nei comportamenti degli agenti economici, nulla è errato adesso. Il senso inerente, la legge di sviluppo, per dirla in termini marxiani, del capitalismo è la massimizzazione del saggio di profitto6, nel trentennio precedente la produzione di massa ha progressivamente ceduto il posto alla finanziarizzazione perché, anche qui ci viene indispensabile la teoria marxiana, lo sviluppo delle forze produttive si è accompagnato ad una crescita della composizione organica del capitale, il capitale fisso, quegli investimenti produttivi che facevano sì che la produzione di massa potesse darsi (i robot, per intenderci). Tuttavia, il rendimento di tali investimenti, o meglio, il valore da essi trasferito ai beni prodotti non può essere altro che la quota di «ammortamento» relativa al frammento d’investimento in capitale fisso socialmente necessario per produrre ciascuna unità di una determinata merce. In altri termini, la corsa alla massimizzazione dell’estrazione del plusvalore dal lavoro umano, l’unico che può produrne, ha progressivamente abbattuto la possibilità di fare profitto producendo «tradizionalmente», per l’azione della concorrenza tra i capitalisti, tra i diversi paesi come all’interno di uno stesso paese. I capitalisti hanno dovuto accontentarsi di guadagni relativi più bassi, nonostante l’incremento assoluto e relativo dei saggi di sfruttamento della classe lavoratrice, attraverso l’impoverimento relativo di questa nei paesi avanzati e la proletarizzazione di amplissime masse lavoratrici nei paesi in via di sviluppo. Tutto questo è divenuto progressivamente troppo oneroso per la classe capitalista, il cui sogno è, come per tutti, quello di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. È proprio in questo il ruolo della finanza. Come la produzione capitalistica nasce per il soddisfacimento dei bisogni delle persone, la finanza nasce per il soddisfacimento dei bisogni produttivi del capitalismo ma, come nel caso della produzione, col tempo diviene troppo oneroso, anche in termini di costo opportunità, mantenersi lungo vecchi schemi di produzione. Da qui la finanza supertecnologizzata e matematizzata e d’azzardo che si è venuta sviluppando negli ultimi vent’anni. Per questo nuovo modo di produrre profitto, le variabili intervenienti sono incomparabilmente di meno, in primis non ci sono persone, in quanto chi ci capisce di queste cose è un’esigua minoranza, non ci sono masse di lavoratori da organizzare, investimenti, spazi e distanze fisici, e con un tocco di mouse si sposta l’equivalente di una fabbrica da un mercato all’altro, con la massima flessibilità, alla ricerca dell’affare. Questo è perfettamente sensato, come è perfettamente sensato che se sei più bravo a farlo rischierai di più, e questa è la ragione, a contrario, per cui la crisi ha colpito meno, sul fronte finanziario, paesi più arretrati capitalisticamente, come l’Italia, in cui queste capacità erano estremamente ridotte, ma che, per converso, colpirà moltissimo il lato «reale» dell’economia, sul quale minimi sono i margini di manovra per i capitalisti poco sviluppati, nonostante il tasso 6 Su questo concordano anche gli economisti mainstream, solo che per amor di formalizzazione, nei loro modelli matematici il profitto massimo corrisponde ad una derivata uguale a zero, ovvero profitto massimo raggiungibile, stante l’azione della concorrenza, è zero.

d’interesse reale quasi negativo (vent’anni fa era sette/otto volte maggiore). Ergo il carburante era pronto, mancava una miccia, che poteva essere una cosa o l’altra, hegelianamente. Negli USA è stata la crisi dei subprime, in altri paesi il peso del debito pubblico, in altri quello privato, in altri il tasso di cambio della moneta. Nel paese capitalisticamente più avanzato l’innesco è provenuto da qualcosa di molto reale: una miccia dietro cui sta precisamente l’enorme sfruttamento reale subito dalla classe lavoratrice america che ha venduto a credito la propria adesione ideologica al capitalismo per rendersi conto, troppo tardi, che l’avevano fregata e senza avere, adesso, una soluzione. L’adesione ideologica al modello dell’economia «vero» nel senso che propugnano i liberisti «naturalisti» di ieri e di oggi (dai «giganti» Friedman7, Fukuyama8, Lucas9 fino ai nostri «nani» Alesina e Giavazzi10, tanto per fare qualche nome) dicevamo prima è pure condizione necessaria a che la posposizione della crisi prima, e la sua esposizione poi, si diano nelle forme in cui si danno concretamente. Da qui si chiarisce come il senso della seconda parte della risposta sia legato ad una concezione dell’economia politica in cui le crisi sono shock, elementi eccezionali, non la natura inerente del sistema economico che, in quanto basato sull’anarchia, di mercato, non può, per ciò stesso, avere regole né limitazioni nel tempo o nello spazio, ma può averne nelle dimensioni reali delle variabili in gioco. Pertanto qualcosa di congiunturale diventa strutturale nella misura in cui porta al minimo i salari, al livello di sussistenza, fisso nei modelli dell’economia politica classica, al di sotto del quale il lavoratore non riesce ad essere tale. In definitiva, finché ci sono margini perché sia possibile abbassare il salario (sia quello monetario diretto che quello indiretto attraverso il welfare, evidentemente) la crisi avrà sempre una via d’uscita, ma non per questo potrà essere intesa attraverso le categorie della temporaneità, che strutturalmente non possono essere di un sistema che si vorrebbe «naturale». La categoria della crisi è centrale nel capitalismo, essa è il momento supremo attraverso il quale si definiscono i rapporti sociali all’interno del sistema economico, per ciò stesso è ineliminabile, per ciò stesso, l’unica caratteristica comune a tutte le crisi è il fatto che non possa durare per sempre, e che

7 Milton Friedman, economista USA, premio nobel nel ’76, capostipite della scuola monetarista, alfiere del libero mercato e del rifiuto di qualsiasi intervento dello stato in economia. Fu l’ispiratore delle tesi di politica economica della Thatcher, di Reagan, di Pinochet. 8 Francis Fukuyama, autore del libello La fine della storia fortunatissimo instant-book successivo alla caduta del muro (1992), in cui si sostenevano le magnifiche sorti e progressive del modo intiero dopo la caduta del comunismo. Oggi si è buttato sul futuro «postumano» introdotto dalla genetica. 9 Robert Lucas, economista USA, inventore della microfondazione della macroeconomia, basando quest’ultima sull’ipotesi di aspettative razionali (prive di errori sistematici) degli attori economici, ovvero sulla generalizzata conoscenza del modello dell’economia (che, per inciso, è quello monetarista!), in conseguenza del quale aggiusteranno le proprie scelte in termini di prezzi e consumi verso l’unico equilibrio dinamico esistente, in cui si riassume il sistema economico. 10 Roberto Alesina e Francesco Giavazzi, noti economisti italiani autori del surreale Il liberismo è di sinistra in cui, in continuità con i filoni di pensiero degli economisti già citati in nota, sostengono che le liberalizzazione siano la vera sfida della sinistra italiana.

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qualcuno dovrà pagarla: il capitale fittizio, con la sua sparizione o la classe lavoratrice con l’aumento dello sfruttamento. Lo stato di crisi, pertanto, non può essere né permanente, né definitivo, ma si risolve precisamente nella soluzione dello scontro sociale per l’appropriazione del plusvalore: o ai lavoratori, o ai capitalisti, con quello che potrà conseguirne in termini politici. Nel particolare di questa crisi, la maniera di produzione, il modello di accumulazione (e non solo di distribuzione, come qualcuno ritiene), basato sulla finanziarizzazione resiste con la forza delle immense risorse in grado di mobilitare che, anche se temperate dalla crisi, restano al di sopra di quanto nelle possibilità di controllo dei sistemi di regolazione in essere11. In più, conta l’elemento strutturale della fine del modello di globalizzazione basato sull’indebitamento americano e su una politica monetaria «dollarizzata» e lo smascheramento del(lo) (stra)potere di (poche) banche e (pochi) intermediari sull’economia reale. In congiuntura, l’autoreferenzialità del sistema finanziario, le «bolle» ed i relativi crack, che si succedono sempre più devastanti e ravvicinati (in media uno ogni tre anni).

Ne consegue la risposta sul terzo passaggio. È curioso, in effetti, come i paragoni in cifre vadano cercati con il lanternino. A noi basterà evidenziare che la crisi attuale si riferisce ad un mondo con un indice di penetrazione del capitalismo pressoché totale su tutta l’attività economica terrestre, tutta legata dalle leggi di movimento che ricordavamo sopra. Nel ’29 il crollo dei corsi azionari fu maggiore e la velocità di propagazione della crisi minore. Quella crisi finì con i milioni di morti della seconda guerra mondiale. Questa crisi non è finita.

Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell’analisi economica – e della storia in generale? Il trade off tra studiare la matematica e studiare la storia è del tutto infondato: dall’una e dall’altra si possono trarre lezioni importanti e passaggi di grande eleganza, così come se ne

11 Non è un caso che regolazioni restrittive della finanza seguano sempre, storicamente, grandi crisi (e.g. la legge bancaria italiana del ’36, il Glass-Steagall act americano del ’32)

possono derivare ritualità propagandistiche, inutili o dannose. Nell’una e nell’altra, in definitiva, se non si vogliano vedere delle cose si farà di tutto per non vederle, ergo se ci si richiama allo studio della storia per individuare i germi della follia delle superspeculazioni che precedono i tracolli finanziari, basterà ripetere, come nel caso degli esperti di politica economica, che errori del passato sarebbero oggi impossibili (ad esempio il rialzo dei tassi in un frangente di crisi tipo ’29, cosa che infatti non si ripete oggi, stante l’abbondanza di liquidità che caratterizza il sistema economico contemporaneo) per sterilizzarne la memoria riducendola a mera curiosità. Non è un fatto di storia o di matematica, quindi, ma di obiettivi politico-ideologici cui si vuole piegare le discipline (tutte ugualmente passibili di tale sottomissione). La matematizzazione ha dei portati interessanti per le classi dominanti: i) poche persone ne sanno, ergo poche persone possono capire che cosa stia succedendo; ii) un certo quid «esoterico» della matematica (non solo nella nostra scuoletta gentiliana via via sempre più indebolita) ne allontana gli spiriti «deboli» e; iii) per converso, conferisce un grandissimo crisma di oggettività alla cose che con essa si dicono. Una vera manna, insomma, per la finanziarizzazione. Un po’ più rognosa, invece, per l’economia politica classica che, dovendo matematizzare concetti complessi quali l’equilibrio, le scelte, gli aggregati sociali, per riuscirci è costretta ad un riduzionismo feroce che la porta a tagliare complessità in ogni modo possibile, teorizzandola esplicitamente e, dove non basta, limitandosi a glissare sulle forzature esercitate nei modelli, quali quelle sugli andamenti «well-behaved»12 delle funzioni matematiche che rappresentano le dinamiche dei modelli o il teorema di impossibilità del paretiano liberale13. Per provare ad esemplificare ulteriormente di cosa stiamo parlando è appena il caso di rilevare che i modelli mainstream, si riferiscono immancabilmente ad economie di puro scambio, non sequenziali, senza alcun conflitto di classe, quindi con un gap di sostanza rispetto al reale, che non può essere certo colmato dalla mera forma di un linguaggio.

Prendendo spunto dall’ultima crisi, non si può non notare che, specie nell’ultimo decennio, l’impiego della matematica in Finanza è dilagato. La matematica è stata spinta in Finanza seguendo gli obiettivi delle classi dominanti limitandosi, perciò, a concentrarsi sulla «forma» dei modelli, relegando al margine ciò che marginale non era (ovvero la sostanza degli oggetti matematici utilizzati, cosa questi rappresentassero nella realtà). Perché se di «modelli» parliamo, proprio il modulus, l’essenza dell’oggetto di studio, dovrebbe stare al centro del discorso. Ad esempio, per interpretare correttamente il comportamento degli operatori finanziari sarebbe essenziale distinguere tra «funzione

12 Letteralmente in inglese significa «beneducato», i matematici usano tale concetto per indicare in breve che gli oggetti che studiano hanno un insieme di proprietà funzionali al problema in analisi. Allo stesso modo gli economisti chiamano così le funzioni che fanno funzionare bene i loro modelli. 13 In estrema sintesi, il teorema, dimostrato dal premio nobel Amartya Sen dimostra come sia impossibile trovare una forma di scelta collettiva in cui siano salvaguardati un insieme minimo di diritti a tutti i soggetti coinvolti nella scelta senza diminuire il benessere di almeno uno di loro.

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cognitiva» e «funzione manipolativa», tra razionalità economica e comportamento imitativo; ma nulla di tutto ciò compare nei contributi più diffusi. I quali hanno rimosso sistematicamente l’intrinseca incertezza dei mercati finanziari, sempre più basata sul venire meno della separazione tra economia reale e finanziaria. Abbiamo quindi una particolare debolezza ontologica dei modelli di calcolo di probabilità utilizzati per valutare i rischi che è riconducibile al mancato riconoscimento della natura endogena delle interazioni degli attori. Se la razionalità è una buona guida per leggere il mondo in tempi normali, senz’altro lo è meno in situazioni di stress positivo (le bolle speculative) o negativo (le crisi). L’ortodossia non ha previsto la crisi, e fa tanta fatica ad uscire dall’impasse in cui è caduta, perché non può tenere conto di questo fattore, accecata dalla purezza delle deduzioni.

Nella gestione di rischi finanziari, per insistere sulla finanza, si è giunti a modelli di misurazione dei rischi sofisticatissimi dal punto di vista del calculus. Tali modelli, tuttavia, perché siano trattabili sono basati sempre sull’assunzione di stazionarietà14, nell’ipotesi, quanto meno opinabile che, nel vorticoso mondo finanziario, esistano proprietà che rimangono costanti tra il passato ed il futuro.

La questione non è affatto banale: in termini statistici, i risk managers devono affrontare lo spinoso problema di stimare lo «spessore» della coda di una distribuzione di perdita, della quale, per definizione, si hanno ben pochi dati disponibili. Dato che la maggior parte delle osservazioni sono «centrali», la distribuzione «fittata»15 è adatta, primariamente, a fare previsioni per i valori «centrali». Quindi, credere che i modelli di risk-management, con la loro matematica e la buona performance in giorni «normali», siano ben «equipaggiati» per prevedere gli eventi estremi futuri è, quanto meno, fuori luogo. Esistono senz’altro schemi di risk management che possono gestire meglio di altri questo genere di difetto, ma nessun modello riesce a sbarazzarsene in via definitiva. E questo dovrebbe essere tenuto sempre ben presente. Altrimenti, si rischia seriamente di produrre un enorme armamentario matematico capace di difendere i corsi dei titoli, e in generale il valore di un’attività finanziaria, da fluttuazioni piccole e non significative al costo, però, di incrementare la propria esposizione a quelle più importanti, che davvero dovremmo temere. O, a essere più precisi, lo si rischia nuovamente. «Trasformare un modello in una formula quantitativa - diceva Keynes, che era un buon matematico – significa distruggerne ogni utilità come strumento intellettuale».

Tutte queste cose non sono nascoste in un libro segreto, sono alla portata (e note) a tutti, solo che semplicemente gli economisti mainstream non se ne curano e costruiscono

14 Si usa qui il termine «stazionarietà» in un senso più ampio rispetto a quello del termine tecnico che compare per i modelli stocastici. Per questi, una serie di dati storici si dice stazionaria se tende sempre ad assestarsi attorno ad una media, quale che sia, ma mai ad «esplodere» (ovvero a crescere o decrescere indefinitamente). In questo contesto, invece, usiamo «stazionarietà» nel senso che alcune proprietà rimangono costanti tra il passato ed il futuro (quali, ad es., l’ordine degli eventi). 15 Nel gergo degli economisti (e prima ancora degli statistici), «fittare» sta per «adattare un modello teorico ad un insieme di dati a disposizione».

modelli straordinariamente eleganti e straordinariamente ad hoc al problema del momento. L’abilità massima dell’economista neoclassico, pertanto, è l’abilità di fornire alla classe dominante risposte alla domanda politica di teoria. Nulla a che vedere con l’illuminismo delle discipline: anche se nessuno mentisse spudoratamente, basterebbe non farsi capire, o parlare d’altro. Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là? Se vale l’assunto che un operatore economico sia too big to fail, molto probabilmente varrà pure che altri siano too big to be regulated. Questo passaggio non darebbe solo ragione alla legge marxiana della concentrazione crescente dei mercati, ma spiega anche molta parte delle dinamiche di concorrenza industriale internazionale, in cui la cifra della concentrazione si dà, al momento, principalmente per le produzione a maggior valore aggiunto, economico e tecnologico (automotive, metallurgia, aerospaziale, militare, ICT16, agricoltura, biomedicale, finanza). In tutti questi settori la potestà normativa degli stati è sostanzialmente nulla come testimonia l’intero panorama regolatorio sia direttamente determinato dai grandi gruppi industriali internazionali, quali che siano i governi o i sistemi legislativi. Per fare un unico esempio sintomatico della portata di tale sproporzione basta ricordare che nel pieno della crisi finanziaria, l’unico intervento regolatorio significativo restrittivo è stata la proibizione delle vendite allo scoperto17 su alcuni mercati, ma è durata meno di un mese. Tutte le riflessioni sulla limitazione di democrazia economia che minerebbero le basi della democrazie stessa parrebbero essere mere pruderie liberali di poco o punto valore analitico perché immemori, ad esempio che nel caso delle dittature nazifasciste, gran parte degli elementi di «democrazia economica» rimanevano valide, le imprese erano messe nelle migliori condizioni normative, il movimento operaio era schiacciato, i profeti del liberalismo divisi tra l’afasia e la connivenza. Nel panorama contemporaneo vieppiù, quella dello stato regolatore arbitro imparziale è una pia illusione, nella migliore delle ipotesi, una panzana per piccoloborghesi nell’intermedia, uno strumento di oppressione di massa nella peggiore. Lo Stato, in quanto espressione del potere della classe dominante non può che farne gli interessi18. Tutto sta,

16 Information and communication technology 17 Si tratta della vendita di titoli che non si posseggono. È una modalità di speculazione che nasce, in origine, per coprirsi dal rischio delle fluttuazioni di prezzo di un’attività finanziaria. Naturalmente, può essere interpretato, ed esperito, come una vera e propria scommessa ribassista. Questo secondo utilizzo riguarda la massima parte di tali transazioni. 18 In questo senso teorizzano anche numerosi economisti mainstream, nel sostenere che la regolazione non può che essere prociclica, ovvero fare gli interessi degli attori economici, e microfondata, ovvero focalizzata sui comportamenti individuali, nell’assioma che l’insieme dei comportamenti individuali, la mera somma degli individui, debba costituire i sistemi sociali, eliminandone, riduzionisticamente, ogni altra complessità.

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pertanto, a cambiare classe dominante, se si ha intenzione di cambiare il ruolo dello stato rispetto al sistema economico. Le considerazioni sulla gradualità possibile od auspicata di questo passaggio sono un’altra discussione (ad esempio sulla situazione in Venezuela). Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull’asse Washington - Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c’è il rischio che nel futuro assetto economico politico mondiale l’Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale? Gli esercizi di riflessione geopolitico-economica, dall’avventato Fukuyama della fine della storia in poi, si caratterizzano per un elevatissimo tasso d’impressionismo. Ricordiamo, senza alcuna pretesa di esaustività, tigri asiatiche e celtiche, nuovi ordini mondiali dollarizzati e magnifiche sorti e progressive di nuove monete sovranazionali. Nessuno dei modelli osannati nel corso degli ultimi trent’anni ha retto alla prova del tempo. Anche qui attraverso l’esercizio di necessità espresso dal caso sono sempre molteplici le spiegazioni per questa o quella dinamica storica, talvolta non senza fondamento. Oggi non ci sembra che si possa pensare diversamente agli stati monstre che guru vari propongono. La «suggestiva» Cindia è oggi un nucleo potentissimo di produzione a basso costo, e non necessariamente bassa qualità, né bassa tecnologia, né bassa gamma, basato come tale su un altrettanto potentissimo esercito industriale di riserva19. Prima che ne esplodesse il fenomeno, occorre ricordare attraverso capitali esteri ed oppressione spietata interna (il perdurare delle segregazioni indiane non è meno brutale del pugno di ferro del partito sedicente comunista cinese), è stata la volta dei paesi dell’est europeo, la cui parabola è durata poco più di un decennio, chi più chi meno, nel quale le risorse interne sono state cannibalizzate, in particolare, ovviamente il lavoro, ancorché, come ad esempio nel caso dell’Africa potremmo ricorrere alle categorie del colonialismo vecchio stampo, imperniato sulle risorse minerarie. Alla fine della parabola ci sono società più inique, con redditi medi bassissimi, redditi mediani infimi e perfino (in Africa come nell’ex URSS) un’aspettativa di vita media alla nascita inferiore. Europa, Cina e USA sembrerebbero, oggi legate a doppio filo una all’altra, certo in misura maggiore queste ultime (in 19 In particolare, nel caso della Cina, tuttavia, riteniamo questo possa non esaurire il dibattito, va esplicitamente considerato, in quel caso il ruolo della burocrazia statale, se non le ultime tracce contemporanee di pianificazione dell’economia. È un dibattito molto interessante che consentirebbe di evidenziare la superiorità di tali elementi di socialismo nel consentire dinamiche competitive migliori a quel paese. Non siamo sicuri, infatti, che le mere dimensioni spieghino tutto, nel caso dell’URSS, ad esempio, le dimensioni non erano dissimili. L’immensa capacità di estrazione di plusvalore dalla classe lavoratrice potrebbe fare la differenza, ma a livello aggregato mondiale non ci sembra sufficiente, tanto da rendere necessario il ricorso analitico ai fattori sopra accennati. Questo, tuttavia, non introduce dubbi rispetto alla caratterizzazione della Cina di stato pienamente capitalistico.

particolare i cinesi posseggono gran parte del debito pubblico USA, oceani di riserve in dollari, con cui vengono pagati per le grandissime esportazioni verso gli USA, di cui questi ultimi non potrebbero, evidentemente, fare a meno), ma la velocità di propagazione degli shock economici, di borsa, ma come abbiamo visto già dai tempi dei tequila bonds20 o più recentemente in Grecia, anche dei prestiti di stato ed il livello d’interconnessione della proprietà del capitale fa sì che nessuno dei blocchi possa esercitare qualsivoglia forma di decoupling21, semplicemente perché in nessun caso riuscirebbe ad imprimere ai mercati interni tassi di sviluppo paragonabili a quelli ottenuti ed ottenibili attraverso l’apertura di sbocchi internazionali per le proprie merci. Nell’approfondire un poco il rapporto tra Stati (e politica) e finanziarizzazione, ovvero sul ruolo dei mercati finanziari (o, meglio, delle logiche finanziarie), ritroviamo la finanziarizzazione al momento dell’accumulazione, con capitali che richiedono forti rendimenti attraverso alti corsi azionari, quindi plusvalenze, meglio se nel breve periodo, e stimolano così una continua innovazione molto spesso via riorganizzazioni produttive e precarietà del lavoro. La finanza permette anche la distribuzione, grazie a mercati finanziari (o qualora questi non riescano ad «intervenire» per via dello scoppio di una bolla ecco l’indebitamento verso le banche) che agiscono come una sorta di moltiplicatore keynesiano, e come meccanismo di redistribuzione (distorta) del reddito. I mercati finanziari svolgono il ruolo di assicuratori sociali, canalizzando quote crescenti dei redditi verso istituti di assicurazione privati e fondi pensione. Infine, sui mercati finanziari si misura la produttività; e la si misura in termini convenzionali, quindi i paradigmi tecnologici possono affermarsi ad una velocità inaudita, così come possono stentare a diffondersi, legati a filo rosso alle idee, se non agli umori, degli operatori in titoli. Il potere dei mercati finanziari è divenuto inaudito, i Governi vi sono sottomessi, le Banche Centrali assecondano la crescita delle Borse, con un governo della moneta sempre più deciso dalle dinamiche di prezzo sul Nyse22 o sulla piazza di Shangai. Il passaggio a questa nuova forma di capitalismo è stata la risposta politica alla crisi in cui era caduto negli anni ’70 l’ormai vecchio e inutile (agli occhi della classe dominante) fordismo. Sostenere che a queste condizioni si possa efficacemente parlare di regolazione della finanza, o del mercato in genere, è pura chiacchiera. Il problema, infatti, nasce nei momenti di crisi economica sincrona e generalizzata, in cui qualcuno deve cedere per primo ed espellere il capitale fittizio dai propri sistemi economici. In questo forse Europa ed USA hanno giocato d’anticipo, colpendo per prima le proprie classi lavoratrici 20 Il nome che fu dato ai titoli di stato messicani nel 1995, a seguito dell’insolvenza dello stato. La crisi finanziaria che ne conseguì si estese immediatamente, con effetti devastanti, a tutto il Sudamerica. 21 Con il termine si indica nel dibattito di questi ultimi anni, la possibilità per una economia di sganciarsi dalle altre nel senso di essere in grado di non subire contraccolpi economici o finanziari da crisi «esterne». La realtà dei fatti ne ha dimostrato l’impossibilità, perfino per la Cina, nonostante i caveat indicati nel testo. 22 New York Stock Exchange, è l’acronimo della borsa di New York.

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attraverso la redistribuzione di risorse in favore delle classi più abbienti (ad esempio con l’esplosione della, regressiva, tassazione indiretta, con i tagli al welfare, con le privatizzazioni, con le riduzioni del monte salari), ma la Cina non può stare a guardare. Quest’ultima, non avendo nulla da tagliare può limitarsi a non «costruire» nulla dal punto di vista sociale e rimanere patria del liberismo più classico. Anche in questo caso, tuttavia la dinamica di crescita non può reggere per sempre, nonostante quanto siamo andati adombrando in nota, ed i dati sull’incremento della conflittualità sociale e delle disparità socio-economiche sembrerebbero dare conto di questo tipo di percorso. Tuttavia, si possono leggere numerose interviste di economisti cinesi, in massima parte, però, c’è da dire, formati in occidente, secondo i quali la Cina non può non esternalizzare le produzioni a più basso valore aggiunto per elevare la sua gamma di produzioni. Questo può essere senz’altro un ulteriore motivo per prendere fiato, a cui, tra l’altro, l’intera comunità internazionale lavora alacremente, si pensi all’annullamento di intere realtà statuali, sia in Africa che in Asia, da cui si possa ripartire. Si tratta nella massima parte, però, di casi di progetti a lunga scadenza, a volte strettamente legati alle materie prime, e dagli esiti tanto incerti che continuamente richiedono l’apertura di nuovi fronti: decine di Somalie (ovvero paesi politicamente, istituzionalmente ed amministrativamente annientati) da cui, solo per la legge dei grandi numeri sia possibile tirar fuori dei Congo (ovvero paesi politicamente, istituzionalmente ed amministrativamente annientati dai quali però si riesce pure a drenare scandalose ricchezze) - al costo di destabilizzare, va da sé, anche altri paesi già «consolidati» nello sfruttamento capitalistico (ad esempio l’attuale situazione in Grecia). La politica dovrebbe senz’altro spingersi oltre, «attaccare» dall’esterno il sistema, anche se al momento parte con un indubitabile svantaggio. L’unico modo per far riguadagnare spazio all’agire politico, pertanto, sembra essere il ricorso ad un movimento di lavoratori per un generale rivolgimento dei rapporti sociali ingenerati dal capitalismo, quali che ne siano le difficoltà e la tempistica storica. Ma questa, è un’altra storia (ineludibile, però, per le organizzazioni della sinistra che vogliano in qualche modo riprendere a «cambiare il mondo»). L’attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell’offerta, anziché della domanda, è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione? L’intervento pubblico dal lato dell’offerta è in larga misura ideologico, in quanto si basa sulla convinzione della validità della legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la propria domanda attraverso gli automatismi insiti nella mano invisibile che, per qualche motivo razionalmente inconcepibile, dovrebbe orientare le scelte di consumo, produzione ed investimento nella direzione dell’esaurimento

del prodotto e della massimizzazione del profitto, che però, quando è davvero massimizzato, per l’economia politica marginalista, è zero! Questo ovviamente in assenza di alcuna frizione nei mercati, da cui il precetto normativo della rimozione dei vincoli del laissez faire laissez passer les marchandises. Non staremo a ripercorre la straordinaria quanto inane eleganza formale di questo modello, di cui da un altro punto di vista si è detto prima, resta l’assunto ideologico della composizione delle scelte individuali preordinata secondo un modello di razionalità standardizzato ed autosimilare negli attori economici, quali che siano. Tutti gli attori economici conoscono il modello dell’economia, volgarizzando Lucas, e questo modello… è il mio! L’intervento da parte dell’offerta, ovvero l’intervento che consentirebbe il solo appannaggio alle imprese di parte del capitale socialmente accumulato riposa, ancora una volta, sull’assunto che il modello «azienda» di soddisfacimento dei bisogni è quello ottimale, che consente al contempo la realizzazione del «giusto» profitto da parte delle stesse, che queste possono «giustamente» distribuire attraverso la remunerazione, al margine del fattore di produzione. In tale modello, tuttavia, sull’altare della libera intrapresa non si può in alcun modo determinare socialmente le quantità e le qualità delle produzioni, se non attraverso le decisioni degli attori economici, ciascuno attraverso il proprio potere di mercato: l’offerente determinerà pertanto le scelte disponibili, il domandante potrà, certo, scegliere, ma solo, ovviamente, tra le alternative disponibili. Appare evidente come il potere di mercato di quest’ultimo, dunque, sia strutturalmente subordinato a quello dei primi, sarà pertanto, esercizio fittizio di libertà, che in alcun modo non possa rimuovere le impasse determinate dal punto di vista dell’offerta nella realizzazione dei valori delle merci. Le scelte esercitate dal lato dell’offerta, quindi, determinano quelle esercitabili dal lato della domanda, pertanto in nessun modo in una situazione di crisi, in cui si verifichino anche razionamenti al consumo (e quindi, mediatamente, al soddisfacimento dei bisogni) sarà l’offerta a sbloccare la situazione, nemmeno rimanendo nell’ottica del modello capitalistica. È Crono che sbrana i suoi figli, precisamente. Resta, a margine, una postilla sui sostenitori, in ottica capitalistica dell’intervento dal lato della domanda. Posto questo modo d’intervento, senz’altro migliore per i lavoratori, non intaccando le dinamiche fondamentali della produzione e delle scelte, ma semplicemente, fornendo un minimo di arbitrio in più nella determinazione delle scelte di consumo, allevia un poco le condizioni di vita della classe lavoratrice, rimandando il problema ad epoca successiva, in cui, nella migliore delle ipotesi saremo tutti morti, nella peggiore, pur non interessandoci noi della guerra, sarà la guerra ad interessarsi a noi. Questo è stato valido in esito al celebrato New Deal americano, questo è stato il keynesismo reazionario della dinastia Bush, questo è anche un pezzo delle principali scelte di politica industriale che si vanno delineando oggi in Italia (quali il ritorno al nucleare, il ponte sullo stretto, l’alta velocità). Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell’indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto

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ricorso nel tentativo di non far naufragare l’economia mondiale? Sulla scorta di quanto siamo andati dicendo, il peso della crisi è sulle spalle della classe lavoratrice internazionale, quale che ne sia il grado di proletarizzazione. Chiedersi, pertanto, se saranno più o meno le generazioni future ad esserne interessate rimane comunque privo di grande senso analitico. Nella misura in cui, infatti, alcuni paesi potrebbero finanziare a debito il costo della via d’uscita, ovvero attraverso il ripianamento pubblico delle perdite private, la tagliola dell’interesse composto farebbe il suo corso inesorabile schiavizzando le economie dei paesi più deboli alla servitù dei crediti gentilmente concessi, tanto all’interno quanto all’esterno del paese interessato. Questo passaggio tiene anche se si voglia rimanere nella prospettiva delle compatibilità capitalistiche, in questo senso occorre ricordare che il debito pubblico non rileva tanto quanto grandezza in sé, in termini assoluti, quanto nel suo rapporto con il prodotto interno lordo (non entriamo qui nel dibattito sullo scarso contenuto informativo di questa grandezza nell’economia politica di oggi). Trattandosi di un rapporto, se il denominatore, il PIL, cresce, il debito potrà continuare indefinitamente a crescere in termini assoluti fino ad un tasso pari a quello della crescita del PIL. Ma il PIL può crescere stante le riforme strutturali intraprese per ridurre il debito? Quanto pesa, ad esempio, la riforma delle pensioni del ’93 per un paese come l’Italia, interessato, guarda caso dallo stesso periodo, dal crollo della produttività? Si tratta di un caso abbastanza ovvio di «anoressia» produttiva: meno si investe nella produzione meno si realizza il prodotto meno si sarà in grado di mantenere accesi i motori senza iniezioni di capitale esterno al sistema in oggetto. Pertanto, in ogni caso, i giovani in ogni periodo sono condannati a pagare, contano poco, qui, le riflessioni sull’età dei decisori in ogni sistema sociale in un dato momento.

Quale che sia quest’ultima infatti le decisioni intraprese saranno sostanzialmente identiche perché riflesse dalle dinamiche di classe nell’esercizio del potere. Alcune generazioni, per ragioni storiche complesse che potrebbero essere oggetto di future riflessioni, sono state più pronte a comprendere questi fenomeni ed a contrastarli, ma nelle scontro tra forze vive, finora, o sono state tradite o hanno perso. Il capitale è, finora, sempre riuscito a riorganizzarsi e scaricare il peso delle proprie malefatte altrove. Le giovani generazioni di oggi, come quelle di ieri, con i potenti strumenti a disposizione (ma purtroppo padroneggiati dalla controparte di classe), hanno il compito di ribaltare questo stato di cose, di smettere di pagare e riappropriarsi del prodotto per il soddisfacimento di, tutte, le proprie esigenze. APRILE 2010

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Città Future 45 L'Euro in crisi

Socialismo come fine L'EURO IN CRISI Relazione sul governo dell’economia, tenuta per la Scuola Critica nella sede della biblioteca Brau di Napoli il 4 giugno 2010 Luigi Bergantino Mi sembra importante pensare a questi incontri – che vanno avanti da ormai 8 mesi – come il tentativo che ognuno di noi fa per contribuire ad uno sforzo collettivo. Nessun uomo potrebbe da solo bilanciare le brutture e le sofferenze di questo momento, solo un collettivo, consapevole della sua funzione, può resistere e preparare il terreno per qualcosa di nuovo ed è per questo che considero questa mia piccola ricerca come un modesto contributo al tentativo di chiarimento di una realtà che, anche nei momenti più tragici, si presenta in modo surreale. Così surreale che forse solo Ionesco potrebbe aiutare a riguardarla in tutta la sua falsa genericità e assurdità. E allora vi presento due personaggi: uno di nome Avere_apparire e l’altro Apparire_avere. Avere_apparire è ben vestito, giacca, cravatta, molto compassato e lentamente compare ed esordisce dicendo: - C’è la crisi dell’euro. Apparire_avere, che gli sta dinanzi, più casual e distratto, esclama: - Ma no! Mica è grave? E Avere_apparire ribatte: - Sì, invece, assolutamente. E l’altro: - Oddio. Allora, si salvi chi può! E il primo: - Bhe. No. Salviamoci insieme. E l’altro, frastornato: - Ah, sì!, ma come?! - Bhe, – dice Avere_apparire – bisogna tagliare… e poi, quasi in contemplazione, dice: - La Germania, la Germania… Questo è il succo dell’informazione prevalente che somministrano ad un continente che in preda al panico assiste alla caduta libera della propria economia, come l’atto finale della disgregazione dell’Europa. Cerchiamo di partire proprio dalla Germania che ha, si dice, i conti in ordine. Così in ordine che ha addirittura messo nella Costituzione il vincolo di azzerare il deficit pubblico entro il 2016 (il cui tetto massimo in termini strutturali non dovrà eccedere lo 0,35 per cento del Pil)1. Quindi adesso che è fallita la Grecia e che a ruota rischiano almeno il Portogallo, la Spagna e l’Italia, bisogna fare come la Germania2: tagliare la spesa sociale prima di qualunque altra cosa; provare un

1 Se la Germania mette al rischio l’euro, di Joseph Halevi, «Il Manifesto» , 4 luglio 2009 2 Il 7 giugno 2010 il Governo tedesco ha annunciato un piano di risparmio di 81,6 miliardi di euro entro il 2014 che colpiscono sopratutto Stato sociale e pubblico impiego. Mentre le Borse cadono proprio sulla minaccia competitiva della bassa domanda interna di Cina e Germania (Scure in Germania ma l’euro ancora giù, «Liberazione» 8 giugno 2010).

coordinamento europeo, ma senza troppa convinzione; aprire le porte al Fondo Monetario Internazionale, sperando di poter controllare i suoi disastrosi standard che impongono piani di rientro a base di tagli allo Stato sociale, privatizzazioni e repressione armata della povertà. L’Italia segue la linea europea con una manovra finanziaria da 25 miliardi di euro di tagli in un paio d’anni. Tenendo presente che cancellando l'impegno per la tratta Tav «Torino-Lione» e del ponte di Messina si arriverebbe a circa tre quarti dell'intera operazione, c’è da dire che il 40% della manovra è composta da nuove entrate che si spera siano il frutto della lotta all’evasione fiscale che il Governo ha intenzione – dopo lo scudo fiscale e dopo i vari condoni – di attuare. Secondo un dossier del sito «www.lavoce.info» la manovra finanziaria «serve più che altro a dare un segnale ai mercati. Non è detto che sia credibile perché rinvia ai posteri gli aggiustamenti strutturali di spesa ed entrate […] e chi paga davvero sono, una volta di più, i giovani colpiti dal taglio dei contratti a tempo determinato e dal blocco delle assunzioni e delle carriere nel pubblico impiego (che penalizza soprattutto chi è entrato con salari molti bassi contando sugli scatti di anzianità)»3 Senza avere la prima economia del mondo, l’Italia ha un debito pubblico che supera, e di molto, il proprio prodotto interno lordo: verso i mille e ottocento miliardi di euro, pari al 120% del Pil, al momento il secondo o il terzo debito pubblico più alto al mondo! Questo implica che ogni anno dalle entrate – già molto decurtate dall’evasione fiscale (100 miliardi circa) – bisogna prende un’ottantina di miliardi di euro e darli, come interesse maturato, a coloro che hanno comprato i nostri titoli di Stato (detenuto al 50% da investitori istituzionali) la cui vendita da sola ormai, che soli ormai, a causa di quell’alto livello di evasione fiscale (dentro cui c’è l’economia criminale, il lavoro nero e il costo della corruzione), ci permette di mandare avanti lo Stato: pensioni, sanità, scuola, università, ricerca, opere pubbliche, beni culturali, tutela dell’ambiente, servizi, informazione, partiti, Parlamento, Governo, Magistratura, amministrazione, sicurezza, spese militari, ecc. Per poter essere ammessi nella «zona euro» l’Italia ha condotto una politica di tagli in funzione del rientro del debito pubblico in limiti accettabili dal trattato di Maastricht (1992). Questa politica di risanamento dei conti pubblici, che è stata sicuramente salvifica per il nostro sgangherato Paese che fuori dall’euro si sarebbe frantumato sotto il peso della 3 Nel dettaglio si spiega che: 1. Non è affatto una manovra incentrata solo sui tagli alla spesa; al contrario ben il 40 per cento della manovra a regime (nel 2012) è composto da maggiori entrate. L’incremento delle entrate è dovuto in gran parte ai nuovi provvedimenti anti-evasione, da cui il governo si aspetta di ottenere fino a 8 miliardi di euro, in aggiunta a quanto già stimato nella Relazione previsionale e programmatica. 2. Per più del 70 %, i tagli sono rappresentati da riduzioni lineari nelle spese dei ministeri (10%) e tagli alle Regioni e altri enti territoriali per 8,5 miliardi di euro (oltre il 60 %). Per le Regioni si tratta del sostanziale annullamento dei trasferimenti per il finanziamento delle funzioni devolute con le leggi Bassanini nel 1997; per Comuni e Province, di un taglio ai trasferimenti dell’ordine del 20 % del totale. Come questi enti territoriali potranno gestire riduzioni così imponenti non è chiaro, senza che siano state varate misure strutturali di contenimento delle spese. «L’esperienza passata ci insegna che questi sono spesso tagli di carta». 3. Pesanti sono, invece, gli interventi su scuola e sanità. Per la prima, è soprattutto il blocco degli incrementi automatici delle retribuzioni nel triennio a determinare la riduzione della spesa; per la seconda, è un complesso di riduzioni nel personale e di riclassificazione della spesa farmaceutica.

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corruzione e della «moral suasion» internazionale, non ha comunque niente a che vedere con l’unica vera operazione di riordino dei conti pubblici che l’Italia ricordi: 1861-1875. Allora il neonato Paese, uscito dalla guerra di liberazione e unificazione, procedette contemporaneamente al riordino dell’amministrazione, alla costruzione del sistema di istruzione e dei trasporti pubblico, alla riforma/costruzione del sistema tributario, riuscendo in circa dieci anni a portare i conti pubblici al pareggio (entrate e uscite si bilanciavano) per poter sostenere le spese per la costruzione delle urgenti infrastrutture moderne. Di fronte a tutto questo lo storico Golo Mann poté dire che il Risorgimento italiano fu il colpo più duro assestato al feudalesimo europeo, superiore anche – pensate un po’ – alla Rivoluzione francese. Altri tempi4, che però è bene tener presente in situazioni di crisi totale come quella attuale. L’Italia riesce, quindi, ad entrare nell’euro disperdendo, però, un immenso patrimonio di proprietà mobili e immobili pubblico di inestimabile valore: l’Imi (Istituto mobiliare italiano) e l’Iri (Istituto per la rinascita industriale). Una volta diventato europeo il debito pubblico ha ricominciato a salire a ritmi forsennati sulla groppa di spese emergenziali e falsi lavori pubblici. Si è attraversata molto rapidamente la parentesi di Tangentopoli e si è proceduto alla manomissione del sistema fiscale, abolendo, per esempio, la tassa sulle successioni – caposaldo, per Luigi Einaudi, dei sistemi fiscali moderni –, e sconvolgendo la legislazione sui lavori pubblici (Legge Obiettivo, 2001), con la riesumazione di una legge fascista del 1929 che concedeva i lavori pubblici a trattativa privata (cioè, senza gara di evidenza pubblica) a cui si aggiunse la concessione di anticipazioni di soldi pubblici sui lavori anche quando non ancora progettati. Parallelamente, tutta la struttura amministrativa ereditata dal Risorgimento e rinforzata dalla Costituzione veniva progressivamente smantellata con la cancellazione dei controlli interni alla pubblica amministrazione e con la creazione di strumenti amministrativi per andare in deroga alla pianificazione territoriale (leggi Bassanini dal 1993 al 2001), poi con la creazione della Protezione civile e delle relative Ordinanze di protezione civile del Presidente del Consiglio dei ministri (1992) e, infine, con la riforma del Titolo V della Costituzione e più in generale la riforma «federale» dello Stato (2001-2010). È a valle di tutto questo che oggi assistiamo ad un attacco senza precedenti all’informazione – definita «troppo libera» – e alla magistratura già intasata per effetto della cancellazione dei controlli interni alla pubblica amministrazione (cosiddetti controlli a monte) e che, malgrado questo, è stata progressivamente sotto-finanziata e lasciata aggrappata all’ultimo strumento delle intercettazioni telefoniche e ambientali per poter continuare a perseguire i reati di una 4 Scrisse Eugenio Scalfari su «la Repubblica» del 26 marzo 2006: «La borghesia della Destra storica si autotassò ferocemente per costruire lo Stato. Era una borghesia soprattutto fondiaria e pagò il suo debito alla comunità e allo Stato da lei costruito e governato contribuendo con il 62 per cento alle entrare tributarie totali negli anni che vanno dal 1865 al 1876. Allora dico: giù il cappello di fronte a quella destra e a quella borghesia. Essa aveva in Cavour, Sella, Minghetti, Spaventa, i suoi punti di riferimento. I sedicenti borghesi dei giorni nostri hanno come modelli Berlusconi e Tremonti».

certa rilevanza. Tutto questo non poteva che avvenire in un Paese dove la scuole fosse già stata distrutta, la ricerca dispersa e impermeabile alla realtà, l’alta cultura messa all’angolo e l’università morta già da molto tempo. Ma questa non è una caratteristica solo italiana, come abbiamo avuto modo di apprendere dal recente dossier di Le Monde Diplomatique del Febbraio 2010 (versione italiana) dedicato alla trasformazione degli Stati europei in Stati manager. Teniamo presente che negli ultimi dieci anni di crescita europea il tasso di povertà è rimasto invariato e poi ha iniziato a crescere5. Ma oggi un rinoceronte attraversa l’Europa: tagliare per uscire dalla crisi! Ma se si presta attenzione anche alle voci competenti fuori dal coro si scopre che questi tagli non serviranno, non dico a niente, ma non di certo ad uscire dalla crisi dell’euro che sta velocemente perdendo di valore rispetto al dollaro. Cosa dice per esempio Michael Spence6, economista americano e premio Nobel «noto per le sue posizioni equidistanti fra Europa e Usa», innanzitutto che la «tempesta finanziaria è inevitabile», sia in Europa che in America7, perché «i brutali programmi di finanza pubblica che tutti i Paesi europei, non solo quelli della sponda Sud, stanno adottando in fretta, taglia le gambe a qualsiasi prospettiva di ripresa dei consumi e delle imprese». Il primo punto critico, va avanti Spence, è «l’entità dei successi nella ristrutturazione dei debiti pubblici», cioè avverte che i tagli si risolveranno o in ingenti sprechi di denaro pubblico oppure rimarranno solo «misure-tampone di breve vita e totalmente insignificanti sul lungo termine», vantaggiosi «solo per alcune banche». Il secondo punto è che «non è stata ancora intrapresa nessuna misura convincente per rafforzare la struttura comunitaria e quella dell’euro. Finché non si risolverà la stridente dicotomia tra centralità della politica monetaria e decentramento delle politiche fiscali, l’architettura europea resterà debole»8. Il terzo punto è che nella recente riforma finanziaria degli Usa «si elude il problema numero uno: i conflitti di interesse che hanno provocato la crisi, fra le banche d’investimento che da un lato creano i titoli e dall’altro consigliano ai risparmiatori di comprarli, e le agenzie di rating che vengono pagate proprio da chi devono giudicare». Ecco il vero problema! Ma allora i conti non tornano. Perché si è proceduti compatti,

5 Programma europeo per la povertà 2020. 6 Il 26 maggio 2010 in un’intervista di Eugenio Occorsio della Repubblica. 7 «Quanto all’America il Pil cresce solo per alcuni fattori contingenti, mentre i dati della disoccupazione hanno ricominciato a salire e la fiducia dei consumatori è tornata su livelli preoccupanti». Il debito pubblico è salito a 14.294 miliardi di dollari. 8 Nell’immaginario comune il modo che gli Stati hanno per fare investimenti straordinari è quello di immettere nuova moneta in circolo tramite le Zecche di Stato. Quindi l’istituzione della moneta unica può sembrare, secondo questa credenza, la fine dell’aumento dei debiti pubblici, ma non è e non è stato così. Il trattato di Maastricht del 1992, infatti, oltre a istituire la moneta unica europea prevedeva una serie di vincoli alla spesa degli Stati membri. Quello che ora ci interessa è il vincolo a non superare il 60% nel rapporto tra debito pubblico e PIL. Questo perché gli Stati avevano già da tempo sostituito per il proprio finanziamento all’immissione diretta di nuova moneta (che provocava una forte inflazione) la vendita sul mercato finanziario di titoli di stato a breve (BOT e CCT) o a lunga scadenza (BTP). Il limite imposto da Maastricht è stato ignorato e il debito pubblico degli Stati è aumentato. Per questo allo stato l’Unione europea non ha il pieno controllo della propria moneta che continua ad essere «emessa» anche dai singoli Stati nazionali.

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sindacati compresi, verso la decisione di tagliare la spesa pubblica se l’unica cosa che è cambiata è stata un parare negativo di quelle stesse agenzia di rating che hanno contribuito a creare la crisi, sul debito pubblico di Grecia, Portogallo e Spagna? Secondo Jacques Attali, economista, scrittore e banchiere francese di origine algerina e consigliere speciale del presidente Mitterrand, «il debito europeo è più piccolo di quello americano, giapponese e inglese, ma noi non disponiamo di una capacità di politica budgetaria comune. Coloro che concedono i prestiti – questo il vero nome di quello che tutti chiamano mercati – hanno più dubbi sulla possibilità che l’Europa ripaghi i prestiti che per gli USA e per il Giappone. (I 600 miliardi non sono realmente disponibili: chi crede che la Polonia finanzi il Portogallo?) Bisogna dotarsi dei mezzi per ottenere dei prestiti a livello europeo, con dei buoni del Tesoro europeo e un’Agenzia europea del Tesoro per concedere prestiti agli Stati. Bisogna passare dalla moneta unica al bilancio unico». «L’euro – prosegue Attali – non può avere altri dieci anni di vita senza un governo europeo democratico e un ministero delle finanze democraticamente controllato dal Parlamento europeo, un budget credibile in termini di tasse, di buoni del tesoro e di capacità di innescare una politica industriale come quella di cui dispongono gli Stati Uniti, insieme ad una politica della difesa, perché la politica industriale comprende anche la politica militare». E conclude: «se non disponiamo di questi mezzi gli Stati Uniti che hanno la moneta di riferimento e la Cina che ha dalla sua la crescita, avranno la meglio su di noi»9. Ma non bastano le agenzie di rating a creare scompiglio, ci si mette anche il «Financial Times» di Londra il 26 maggio 2010 scrive: «Il debito europeo spaventa l’Asia». Il quotidiano economico spiega che «Giappone e Cina non sono soltanto diffidenti nei confronti del debito di Portogallo, Italia, Irlanda e Grecia, ma – secondo un'indagine della banca inglese Barclays Capital – sembrano abbastanza sospettosi anche verso i bond tedeschi». Ad allarmare più di ogni altra cosa è «l’inquietante residuo lasciato nei meccanismi dell’eurozona dai CDO (obbligazioni di debito collateralizzato), spinti dalle banche ai tempi del boom del credito». Per aiutare a capire l’importanza di questi annunci del «Financial Times» va detto che dal crollo dei CDS (credit default swaps), le assicurazioni che le banche avevano per non fallire, sono rappresentate dalla dissimulazione, la rassicurazione e il silenzio per riuscire ad arrestare la valanga, in attesa che le regole vengano cambiate e che gli Stati paghino il necessario per evitare il fallimento. Ricercando informazioni su queste obbligazioni tanto negative per la stabilità dell’euro trovo che sono «la categoria più labile di questi derivati sul credito»10. I derivati CDO, come anche i CSA «capital structure arbitrage», sono le ultime innovazioni sul mercato dei derivati e altro non sono che scommesse sul debito delle imprese, o derivati su quel

9 Solo l’Europa può salvarci dall’eurocrac, intervista di Domenico Quirico a Jacques Attali, «La Stampa», 28 maggio 2010. 10 Come riportato sul sito http://www.movisol.org/index.htm dal quale ho assunto, insieme al testo reperibile su http://www.fisacbrindisi.it/index.htm/files/page0_blog_entry6_1.doc, molte informazioni riversate in ordine sparso nella relazione.

debito. Ma cerchiamo di capire cosa sono quello che oggi sembrano costituire il maggiore problema dell’euro. I CDO sono stati il mezzo con cui le banche, i fondi comuni e i fondi speculativi hanno trasferito il rischio ai sottoscrittori (la massa dei risparmiatori e dei piccoli azionisti). Spiega Luciano Gallino che ciò avviene «Per mezzo di strumenti finanziari complessi che essi costruiscono e si scambiano tra loro, spesso con la mediazione di società-veicolo appositamente create, ma che alla fine sono venduti quali titoli o quote di un fondo a singoli risparmiatori. Tra questi strumenti si collocano in primo piano le obbligazioni «sintetiche», aventi come sottostante uno o più contratti anti-insolvenza i […] Credit Default Swaps. Ragion per cui essi prendono il nome di synthetic Collateralized Debt Obligations, o synthetic CDO. Sono titoli inventati solo nel 1987»11.

Gallino – che mi risparmio di presentare, (chi non lo conoscesse, oltre ai suoi libri, può cercare i suoi articoli pubblicati solitamente su la Repubblica e Liberazione) – sostiene anche che non solo i sottoscrittori, ma neanche gli stessi enti investitori prima dell’ultima crisi «non avevano compreso come tali obbligazioni funzionassero» e a quali enormi rischi li avrebbero condotti. Citando il sociologo della scienza Mackenzie – «I modelli finanziari sono un motore primo dell’economia globale non una macchina fotografica»12 – sembra voler mettere in primo piano le responsabilità di chi questi modelli li ha pensati, o fatti pensare, rispetto alle responsabilità delle imprese e, in un certo senso, delle stesse banche che questi fondi e derivati hanno nel tempo prodotti. Il continuo scambio di questi titoli derivati ha fatto sì che tutto il sistema finanziario mondiale si collegasse reciprocamente giungendo fino a controllare la stessa economia reale. I soggetti principali di questa attività finanziaria globalizzata sono gli Investitoti istituzionali – società di intermediazione finanziaria che raccolgono i soldi dei risparmiatori del mondo da un lato per farli fruttare a beneficio dei sottoscrittori dei loro fondi, dall’altro per investirli prevalentemente nelle imprese quotate in Borsa13 – che hanno come obiettivo comune quello di «aumentare quanto più possibile il volume dei capitali loro affidati e i ricavi lordi attraendo incessantemente nuovi sottoscrittori»14. Da qui, spiega Gallino, arriva «L’onda di privatizzazioni di aziende pubbliche che ha avuto luogo in Europa tra il 1990 e il 1997, seguita nel primo decennio del 2000 dalla spinta alla privatizzazione dei servizi collettivi locali – l’acqua come i trasporti, l’energia come lo smaltimento dei rifiuti – per arrivare a investire anche il sistema sanitario e la scuola pubblica»15.

11 Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, 2009, p. 58. 12 Ibidem, p. 58. 13 «Tra di essi, oltre ai fondi pensione, vi sono i fondi di investimento detti comuni o aperti perché accessibili a tutti i risparmiatori e le compagnie di assicurazioni». Ibidem, p. 34. 14 Ibidem, p. 51. 15 Ibidem, p. 63.

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Il potere di questi investitori istituzionali sulla società si comprende meglio tenendo presente che questo «attacco è stato portato congiuntamente da politici, accademici, società di consulenza, media, centri studi, giornalisti»16. Usiamo di nuovo le parole di Gallino per orientarci in queste enormi cifre e tra i vari istituti che le gestiscono: «I derivati in circolazione, tradizionali come i futures17 o complessi come i contratti che assicurano un soggetto contro il rischio di insolvenza di una controparte, ovvero contro la mancata riscossione d’un credito alla data di scadenza (credit default swaps, CDS), a metà 2008 ammontavano a 765 trilioni di dollari, pari 14 volte il PIL del mondo, stando al loro valore nominale. Di questi, solamente 80 trilioni erano scambiati tramite le borse, mentre i restanti 680 e oltre erano scambiati esclusivamente «al banco» (OTC, ossia over the counter) senza intermediazione tra i contraenti. Il solo mercato dei CDS si calcola ammontasse a 62 trilioni di dollari. Tuttavia, essendo soggetti a una regolazione affatto blanda in quanto considerati contratti tra privati, non è possibile stabilirne né l’esatto ammontare, né quanti di essi siano effettivamente gestiti da investitori istituzionali. Formano un mercato ombra. Per la loro entità e l’assenza di regolazione, uno dei maggiori finanzieri del mondo, Warren Buffet, ebbe a definire già nel 2003 i derivati «gli equivalenti finanziari delle armi di distruzione di massa». Va ricordato al riguardo che il tracollo dei derivati del credito è stato una delle cause principali della crisi finanziaria del 2008. Però è bene precisare che il valore lordo di mercato di un derivato è di solito assai inferiore al suo valore nozionale o nominale. Il primo si riferisce alle somme che si possono guadagnare o perdere in funzione dell’andamento dell’entità sottostante; il secondo rappresenta la quantità di questa che al termine del contratto dovrebbe venire scambiata. La Banca dei Regolamenti Internazionali stima, ad esempio, che a metà 2008 tutti i tipi di derivati OTC valessero sul mercato 20,4 trilioni di dollari. Cifra lontana dai 680 trilioni e più di valore nominale. (Ma resta il fatto che) quanto più alto è il valore del sottostante, maggiore è il rischio che alla scadenza del contratto chi dovrebbe versarlo risulti insolvente»18. Un crescente spazio negli ultimi anni è stato occupato, oltre che dai private equity founds (fondi che acquistano imprese private non quotate allo scopo di ristrutturarle e rivenderle poi in borsa di regola dopo averle suddivise in vari pezzi) e dai fondi sovrani (costituiti a fini sia speculativi che previdenziali dai governi con capitali che possono provenire tanto dall’eccedenza degli scambi commerciali e monetari – come per la Cina – quanto dal petrolio), dai famosi hedge funds, cosiddetti fondi di copertura del rischio. Questi fondi, «Diversamente dai fondi comuni, accolgono un numero ridotto di sottoscrittori, richiedono quote di ingresso

16 Ibidem, p. 63. 17 Sono contratti a termine su strumenti finanziari, standardizzati per poter essere negoziati facilmente in Borsa. Sulla storia di questo strumento finanziario e la sua funzione vedi Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, 2009, p. 92-93 e segg. 18 Ibidem, p. 33, 34.

dell’ordine di milioni di euro e hanno una vocazione marcatamente speculativa»19. Gli hedge funds hanno un potere finanziario «Assai più grande di quanto non sembri poiché essi usano a più livelli il cosiddetto «effetto leva»: ossia ottengono prestiti di molto superiori al capitale di cui inizialmente dispongono, per mezzo dei quali acquistano titoli sul tipo, supponiamo, delle obbligazioni aventi per collaterale un debito (dopo i disastri del 2008, le ormai note CDO) il cui valore a loro volta si basa su un effetto leva che può arrivare a 8-10:1. Di conseguenza i fondi speculativi muovono capitali, in tempi ordinari, che risultano parecchie volte superiori a quelli che hanno realmente in portafoglio. In altre parole il trilione di dollari dei primi 50 fondi speculativi del mondo […] era presumibilmente in grado di muovere almeno altri 20-25 trilioni e forse più. L’effetto leva permette operazioni finanziarie altamente redditizie; tuttavia può finire in un disastro allorché la punta di questa sorta di piramide rovesciata non si dimostra più capace di reggere il peso della massa sovrastante. Se la punta su cui gravano decine di miliardi di debito è formata da solo 1 miliardo di dollari di attivi, basta che qualcuno chieda indietro anche solo mezzo miliardo, o si scopra che le CDO soprastanti non valgono più nulla, per far crollare la piramide nella polvere»20.

19 Ibidem, p. 28, 29. 20 Ibidem, p. 44.

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Detto questo torniamo all’Europa. Le banche europee hanno potuto acquistare ABS (prodotti «salsiccia») e CDO (le obbligazioni cartolarizzate con dentro mutui subprime,) portandoli fuori bilancio tramite società veicolo (SIV o Conduit) con il beneplacito delle norme IAS che però impongono il «presumibile valore di realizzo» che, con lo scoppio della bolla immobiliare 2007-2008, è arrivato quasi vicino a zero21. I rischi per l'Europa sono notevoli, giacché il 50% dei CDO sono denominati in euro (mentre il 44% è denominato in dollari e il resto in altre monete). RBS e Deutsche Bank sono le banche messe peggio in Europa. Già il 17 maggio 2005, in occasione dell’improvvisa ripresa di una grave crisi che aveva investito General Motors e Ford e che provocò un crollo dei CDO, la Merrill Lynch pubblicò un rapporto per «far notare» che la Deutsche Bank aveva probabilmente subito grosse perdite negli sviluppi di questi due colossi dell’auto americani. Il rapporto è stato diffuso proprio il giorno prima dell'assemblea degli azionisti della banca di Francoforte. Secondo Merrill Lynch circa il 17% dei clienti di Deutsche Bank, nelle attività di trading e vendite di bonds, sono hedge funds. Il primo responsabile finanziario della banca Clemens Boersing è stato costretto ad affermare, in una conferenza stampa a New York, che la banca non ha posizioni scoperte, ma che tutte le operazioni – nel rapporto annuale 2004 di Deutsche Bank figurano posizioni in derivati (soprattutto derivati sui cambi) per un volume nominale pari a 21.500 miliardi di dollari, quasi venti volte il volume del PIL italiano – sono «pienamente collateralizzate»22. Come avviamo visto questo significa che il debito – ammesso che queste dichiarazioni siano vere – è stato già distribuito tra piccoli azionisti e sottoscrittori di fondi della banca stessa. Qualora i derivati poco trasparenti in Europa siano tutti «collateralizzati» a pagare le conseguenze della crisi sono e saranno la grande massa di risparmiatori e piccoli azionisti e sottoscrittori di fondi. Per scongiurare questa evenienza e le conseguenti rivolte sociali anche nei paesi «ricchi» in cui la disoccupazione cresce costantemente, i Governi non possono che intervenire prestando denaro a basso tasso tramite le banche centrali o, come è avvenuto di recente, 21 I CDO e gli ABS, pur se distinti dalla «parte buona» dei bilanci societari sono stati svalutati secondo le norme IAS di Basilea II, che attribuiscono comunque le valutazioni dei rischi alle stesse società che i rischi li hanno creati. Subito dopo, nell’ultima settimana di ottobre 2008, lo IASB si è riunito e li ha «riabilitati» in tutto il loro valore fasullo. In pratica ha deciso di valutare ABS e CDO tossici al «costo storico», ossia al valore iniziale, piuttosto che al «mark to market», cioè al presumibile valore di realizzo. In pratica hanno deciso di ridare valore ai titoli spazzatura per far sopravvivere banche ormai decotte anche dopo aumenti di capitale. I derivati non regolamentati hanno un controvalore nominale di 450.000 Miliardi di euro nel pianeta, di cui ci dicono 1.500 – Il PIL dell’Italia – senza più valore mentre degli altri non si può dire ad oggi quanto valgono. Solo le famose polizze da fallimento in giro per il mondo sono 55.000 miliardi di euro, di cui 400 riferibili a Lehman. Hanno preferito traslare il problema e rimettere la polvere sotto il tappeto per ideare qualche soluzione definitiva prima che questi derivati giungano a scadenza. Perché, se non si interviene con un colpo di spugna soddisfacente per tutti, questi derivati senza valore, che sono pur sempre contratti, arriveranno a scadenza e dovranno essere onorati. 22 Gli ultimi dati recuperati in internet, dicono che nell’ottobre 2008 i derivati di valore prossimo allo zero di DB, anche se formalmente fuori bilancio, ammontano a un valore vicino agli 80 miliardi di euro (quaranta volte più di Unicredit e venti più di Intesa). La leva finanziaria di DB, che sta tentando di abbassare è pari a 61:1.

acquistando titoli di stato di paesi a rischio fallimento, tagliando la spesa pubblica per avere liquidità sufficiente ad avviare tali operazioni. Ma se si verificasse il fallimento di qualche istituto di credito le cose cambierebbero molto a causa dei CDS, che costituiscono le «polizze assicurative» in caso di fallimenti di istituti di credito, che dovrebbero liquidare per somme altissime gli investitori. L’unico rifugio per gli investitori in questa situazione di instabilità sistemica dovrebbero essere i titoli di Stato, ma il paradosso assurdo è che i CDS, che misurano anche il rischio default (fallimento) di un’azienda o di un Paese, si sono notevolmente apprezzati per gli Stati23, stabilizzandosi per alcune banche. Lo scenario ridicolo che i maghi della finanza paventano è che interventi di Stati sovrani a protezione di banche rendano più probabile il fallimento dello Stato che aiuta rispetto a quello della banca aiutata. Il Ministro italiano dell’economia e della finanza, in un’intervista sul «Corriere della sera» del 31 maggio 2010, incalzato dal giornalista sul punto dell’assenza, nella recente manovra straordinaria, di provvedimenti a favore della crescita, ha risposto: «Primum vivere. […] La politica che è stata decisa e alla quale, giusta o sbagliata, nessuno ha volto o potuto sottrarsi, è la stabilità finanziaria come condizione stessa di esistenza dell’euro e dell’Europa. Non tanto perché lo concordiamo noi, o perché lo consiglia la Commissione europea, quanto perché lo impone dall’esterno la forza drammatica e ancora dominante dell’economia di carta». L’asservimento dell’economia reale a quella finanziaria è, secondo Gallino, una conseguenza necessaria del neo liberismo che, visti gli esiti disastrosi, potremmo definire contraddizione interna: «Per quanto riguarda le imprese (mi riferisco qui alle imprese non finanziarie), le strategie degli investitori istituzionali le hanno forzate a pagare una parte crescente dei loro flussi di cassa ad agenti finanziari, sottraendoli ad investimenti produttivi; l’orizzonte temporale dei loro piani industriali è stato drasticamente ridotto; sono stati al tempo stesso accresciuti e distorti gli incentivi per i manager – ora questi ultimi sono spronati a badare anzitutto non alla produzione di beni reali, bensì al valore della società in borsa; non da ultimo, le imprese sono state costrette ad abbandonare la «strada alta» delle relazioni industriali, fatta di buoni salari e di un’ampia rete pubblica di protezioni sociali, a favore di strategie di sopravvivenza che comportano un attacco continuo allo stato sociale, alle condizioni di lavoro di operai e impiegati e ai rapporti con i fornitori. A questa trasformazione dell’impresa operata dagli investitori istituzionali […] sono riconducibili in varia misura i fallimenti in atto dell’economia mondo»24.

23 «Il giorno dopo l’annuncio della manovra da 25 miliardi i CDS sono saliti a 250 punti base, sintomo della scarsa fiducia verso il nostro Paese: è stata scambiata protezione per oltre 225 miliardi di dollari; il valore complessivo netto dei CDS attivo sul nostro debito è di 23 miliardi. Da marzo al 4 giugno 2010 i contratti accesi sono passati da 5.600 a 6.000. A salire sono stati anche i volumi scambiati giornalmente da 450 mila a 575 mila dollari nell’arco di tre mesi. Per fare un confronto: sulla Grecia la movimentazione lorda non supera i 78 miliardi di euro». Ecco chi sta puntando contro il nostro debito, di Fabrizio Goria, «il Riformista» 4 giugno 2010. 24 L. Gallino, Con i soldi degli altri cit., p. 67.

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Città Future 50 L'Euro in crisi

Resta inevaso un punto: perché quest’attacco insistente del mondo finanziario anglosassone nei confronti dell’euro? Per capire questo forse bisognerebbe parlare del cosiddetto complesso militare-industriale statunitense25 (Presidente Eisenhower) oltre che finanziario, dei suoi metodi bestiali26 e della sua vocazione imperiale che ha ostinatamente lavorato, dalla morte di Eisenhower in poi, per impedire la formazione di una federazione che avrebbe superato gli Stati Uniti per Prodotto interno lordo, per potere diplomatico e, in breve tempo, per potere militare e per ricerca scientifica. Una federazione basata su solidi modelli di stato sociale, di intervento pubblico nell’economia, sorretti da vasti movimenti sociali e culturali. Temo però, visti gli inusualmente numerosi commenti a favore della costituzione di un unico Governo europeo – in ultimo anche di Mario Draghi –, con un’unica politica fiscale ed economica e in alcuni casi, come abbiamo visto, un’unica politica militare, che si cerchi non di riformare veramente il sistema finanziario, come pure Gallino suggerisce essere l’unica via per evitare la catastrofe27, ma semplicemente di rendere autonomo il sistema europeo da quello americano. Gli Stai Uniti e la Cina sembrano essere interessati a che l’Europa non crolli e fanno susseguire dichiarazioni distensive per i mercati, e l’Europa arranca dietro l’attivismo del Fondo monetario e dei mercati finanziari senza riuscire a mettere in piedi una vera strategia di coordinamento anticrisi e di rilancio dell’economia. A proposito di questo Marcello De Cecco il 17 maggio 2010 ha scritto che «Sono in molti ora a prevedere che, al nuovo assetto costituzionale imposto alla BCE, sarà obbligatorio da parte dei governi europei e della Commissione, rispondere con un tentativo di unificazione fiscale. […] Supponiamo che i paesi europei ascoltino i consigli del senato virtuale, riuscendo a ottenere livelli di deflazione28 sufficienti a riportare in pochi anni l'equilibrio nei loro bilanci e a smorzare la crescita del debito pubblico […], si scatenerà una deflazione talmente grave in tutto l’occidente sviluppato da rendere ancora più disperata la situazione dei conti pubblici dei paesi coinvolti. Le entrate fiscali crolleranno e i tagli della spesa dovranno raggiungere livelli selvaggi, tali da scatenare disordini sociali nei paesi più deboli». E conclude dicendo: «C’è da scommettere, purtroppo, che gli annichiliti politici europei non si renderanno conto che i mercati parlano per aumentare come dicono loro la volatilità e quindi le occasioni di guadagno e che il presidente Obama cerca di esorcizzare una nuova crisi finanziaria e la deflazione del suo paese, consigliando di fare noi quel che spera di non essere costretto a fare lui. […] È evidente che un processo di ristrutturazione graduale del debito pubblico greco si impone»29. In buona sostanza l’illustre monetarista suggerisce di sbugiardare le agenzie di rating e di avviare un processo di unificazione fiscale, che abbiano come primo punto la ristrutturazione controllata dei debiti pubblici dei paesi a 25 Dwight D. Eisenhower, Discorso di addio alla nazione, 17 gennaio 1961. 26 Cfr. John Perkins, Confessioni di un sicario dell’economia. 27 Cfr. L. Gallino, Con i soldi degli altri, cit. p. 79. 28 La deflazione deriva dalla debolezza della domanda di beni e servizi, cioè un freno nella spesa di consumatori e aziende, i quali poi attendono ulteriori cali dei prezzi, creando una spirale negativa. 29 La cura la decide l’America e l’Ue corre verso la deflazione, di Marcello De Cecco, «la Repubblica Affari e finanza», 17 maggio 2010.

rischio della zona euro al fine di evitare la deflazione e far ripartire l’economia. La lunga elaborazione teorica che parte da Hegel e Marx passa per Lenin, Gramsci e Keynes per la Cuba del movimento del 26 luglio e per tutto il sud del mondo dagli anni ’40 agli anni ’70 (in particolare l’India di Neru, l’Indonesia di Sucarno e la Somalia di Mohamed Aden Sheikh)30, dagli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt all’Italia di Enrico Mattei fino al Venezuela di Chavez e la Bolivia di Evo Morales - il quale ultimo con un tratto di penna inverte il contratto economico con le multinazionali degli idrocarburi (decreto 28.701/2006)31, ha prodotto come strumento principale per opporsi allo strapotere privato la programmazione economica. La Costituzione italiana si inscrive in questa lunga corrente di pensiero e all’articolo 42 pone la pari dignità tra economia pubblica ed economia privata (sistema misto). Sistema misto che oggi sta cadendo sotto i colpi della speculazione che ha già eliminato le condizioni in cui questo sistema economico può funzionare. Alcune di queste sono l’idea di credito bancario come bene pubblico, il controllo del debito pubblico come prevalentemente in proprietà dei cittadini italiani (mentre oggi il 55% è in mano a investitori istituzionali stranieri). Fino al 1990 il 95% del debito era di proprietà italiana e il debito, fino al 1980 era del 50-60% del Pil. Oggi, ogni anno, 40 miliardi di euro di interessi maturati sui titoli di Stato italiani lasciano il Paese per finire nei fondi degli investitori istituzionali32. Questa piena globalizzazione finanziaria impone alla classe dirigente europea contestualmente di sottrarsi ai diktat della finanza costituendo un’entità politica europea e di rimettere l’economia europea almeno su saldi basi di economia mista e contestualmente avviare una trattativa internazionale per la riduzione controllata degli «equivalenti finanziari delle armi di distruzione di massa» (cioè l’enorme mercato fuori controllo dei derivati: 14 volte il PIL mondiale) che è entrato in crisi. Quella piramide capovolta di cui abbiamo detto, sta franando, ma non finirà nella polvere senza un deciso e coordinato intervento pubblico internazionale. Gli investitori istituzionali mirano alla destabilizzazione di questo grosso mammifero pubblicistico che è ancora l’Europa, per farlo a pezzi voracemente e venderlo moltiplicandone il valore per decine di volte con la leva finanziaria. Ma a cosa porterà

30 Cfr. L. Gallino, Con i soldi degli altri, p. 15: «Negli anni Settanta la quota di persone che vivono in slums (il termine internazionale per designare i luoghi urbani dove le persone abitano in edifici degradati dei centri storici, o in baracche di lamiera e cartone della periferia, talora in spazi ricavati nelle discariche che le intemperie hanno compattato) nelle metropoli dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa era dell’1-2%. Nel 2000 ha superato il 20%!». 31 Nel 1º maggio 2006, il presidente Evo Morales emanò un decreto che imponeva la rinazionalizzazione di tutte le riserve di gas naturale: «lo Stato riprende la proprietà, il possesso e il totale e assoluto controllo» degli idrocarburi (la Bolivia possiede la seconda riserva più grande di gas naturale in Sud America dopo il Venezuela, 747,2 milioni di metri cubi), concedendo un periodo di sei mesi alle compagnia straniere per riesaminare i contratti secondo la muova normativa o abbandonare il Paese. Il 28 ottobre 2006 il governo di Morales firma un accordo con le compagnie petrolifere straniere che aumenta dal 18% all’82% la percentuale statale di partecipazione ai profitti derivanti dalle attività petrolifere. 32 Secondo il giurista Giovanni Guarino i 5 presupposti fondamentali dell’economia mista sono: 1) l’idea di confine nazionale; 2) presenza di grandi e piccole imprese pubbliche che operano con le regole del diritto pubblico; 3) Stato sociale; 4) sistema politico parlamentare; 5) Utilizzo del debito pubblico per investimenti e opere pubbliche.

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Città Future 51 L'Euro in crisi

l’assecondare, anche in questo momento di crisi generale dell’economia, i voleri dell’«economia di carta»? Pur mungendo le piccole risorse della grande massa dei risparmiatori, dei singoli e delle famiglie (che costituiscono l’80% del capitale gestito dagli investitori istituzionali)33 hanno già fatto in modo che i prossimi pensionati degli Stati Uniti potrebbero non avere più di che vivere dopo una vita passata a lavorare34, magari in una precaria situazione sanitaria dovuta a lavori usuranti e nocivi per la salute. Ad essi si aggiungeranno i disoccupati, i senza casa e i tradizionali poveri che aumentano. Una situazione a dir poco esplosiva che in analoghi momenti storici ha trovato un’unica via di uscita: la guerra. Questa – se la politica non interviene – sarà la tragica direzione verso cui procederà l’economia, che per prima è stata asservita dall’economia di carta, per tentare di risollevarsi. Da qui le preoccupazioni di molti commentatori politici ed economici per il futuro dell’Europa che, come abbiamo visto non dispone né della moneta di riferimento né di una grande crescita economica. Forse l’economia reale europea è già stata completamente asservita alla finanza? I mercati finanziari spingono l’Unione verso il fallimento per procedere, così come hanno già fatto in sud America35, sull’acceleratore delle privatizzazioni. Sarebbe possibile, invece, provocare il fallimento controllato anche di grandi banche «to big to fail», nazionalizzando le funzioni pubbliche che esse detengono e che sono il vero motivo che impone agli Stati di non lasciarle fallire sotto il peso dei loro debiti36. Per Gallino questo è proprio il momento di porre mano ad una decisa riforma finanziaria, «perché le riforme di questo tipo si riescono a fare soprattutto quando i governi e gli operatori economici hanno paura». In primis porre fine al gigantesco conflitto di interesse tra banche commerciali e banche di investimento e delle agenzie di rating che sono finanziate da coloro che dovrebbero valutare, al fine di chiudere quell’immensa falla che è il mercato ombra degli OTC (ossia over the counter) per il quale passano 680 su 765 trilioni di cui è composto il mercato finanziario mondiale. In tutto questo mondo economico in rapido disfacimento credo che i cittadini consapevoli debbano immaginare un punto su cui battere che sia un segno di contraddizione progressivo nei nuovi assetti mondiali che si preparano.

33 L. Gallino, Con i soldi degli altri cit., p. 37. 34 Ibidem. p. 102. Per la analoga situazione italiana dopo la riforma Dini del 1995 cfr. p. 63-64. 35 Però, il governo argentino, dopo il fallimento dello Stato per 81 miliardi di dollari, ha rifiutato di pagare i detentori di titoli ed ha cambiato moneta, togliendo al peso argentino corso legale. Con questo atto l'Argentina, rifiutandosi di pagare i vecchi creditori, ha dichiarato unilateralmente di aver azzerato il debito pubblico nella vecchia valuta. In realtà, l'Argentina è stata portata dai creditori nei tribunali internazionali (USA e Germania), ed inoltre sta subendo un'azione mossa presso la Camera Arbitrale (ICSID) della Banca Mondiale. I bond (obbligazioni) argentini, a causa del default (cessazione dei pagamenti) decretato e ancora non risolto, non hanno accesso al mercato nelle borse internazionali, essendo costretti al mercato domestico sotto legislazione argentina (Fonte: Wikipedia). 36 Per questo si legga l’imperdibile articolo del grande economista James Kenneth Galbraith, Quale Europa frenerà i mercati?, «Le Monde diplomatique il manifesto», giugno 2010.

Sembra possibile che l’Europa riesca ad aumentare la propria unità politica ed economica, ma sta accantonando tutto quello che degrada più lentamente e con meno clamore, la sua stessa essenza: l’ambiente, il paesaggio, i giacimenti archeologici e storico-artistici, le biblioteche, le accademie e la cultura umanistica che gli conferisce senso e valore universale. Per cui penso che oggi la battaglia più importante da condurre per inserirsi al meglio in questo processo di ristrutturazione europeo sarebbe quello di battersi per l’istituzione, accanto al ministero dell’economia e della difesa, di un ministero per l’ambiente e la ricerca europeo verso cui spostare gli immensi capitali che l’Europa potrebbe recuperare dal mercato finanziario impazzito. Bisogna lottare con gli strumenti della scienza e della filosofia contro i facili entusiasmi che scoperte come quelle recenti di Craig Venter e altre ugualmente strane e pericolose si impossessino di un’opinione pubblica disperata dalla paralisi della propria classe dirigente37. GIUGNO 2010

37 Nell’articolo La nuova strategia verde Salvare il pianeta è possibile di Federico Rampini, «la Repubblica», 3 giugno 2010, si legge che esisterebbero tre innovazioni tecnologiche che «salveranno la terra»: «vita artificiale, microsensori, algoritmi governa-traffico».

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Città Future 52 La città variante

Questione meridionale LA CITTÀ VARIANTE Salerno e la morte del piano Redazione Si è fatto, nel periodo preelettorale campano, un gran parlare delle magnifiche sorti possibili di una Regione da debassolinizzare in salsa deluchiana. A qualche sparuto stuolo di soggetti non inclini a facili entusiasmi, fra cui questa rivista, non pareva tuttavia di scorgere in tale operazione di riconversione politica in extremis sorti progressive alternative tanto alle forme di potere intrinseche al sistema Bassolino, a ciò che questo era diventato negli anni, quanto allo spauracchio di una destra che non nasce in Regione certo dopo la sua vittoria elettorale, ma che evidentemente già in anticipo viveva e cresceva in grembo ad una «sinistra» molto accogliente. Eppure in molti hanno creduto che piegarsi alla soluzione De Luca era l’unica via d’uscita dal baratro incombente della destra, mentre altri speravano in lui proprio sinceramente, in quanto deluchiani convinti di una sua desiderabilità oggettiva. Tutti sono rimasti delusi, nonostante fosse chiaro che la destra regnava già senza bisogno di eleggersi formalmente e comunque indipendentemente dagli esiti elettorali. L’argomento principale sciorinato da chi, pur presagendo l’inesistenza di orizzonti alborei, si consolava con la prospettiva «De Luca presidente» era: «ma avete visto come tiene la città?». Al che subito affioravano alla mente di chi ascoltava delle immagini, simbolicamente sintetizzate nel topos Piazza della Libertà (p.d.l.) e non proprio rassicuranti a dire il vero, di passeggiate d’altri tempi, in dechirichiane esedre generose di inadombrato sole, dove poter cogliere frescura presso protettive teorie di capitelli in stile Brezniev, forse retaggio inconscio di memorie varsaviesi del primo cittadino della nuova Salerno, specchiandosi in un mare di vetrine da spiaggia1. A Salerno di vetrine ce ne sono parecchie ma nessuno aveva mai pensato di portarvi il riflesso del mare in esposizione. Questa è davvero un’idea su cui costruire un metafisica futura. Di fronte allo sgomento per simili visioni, ci siamo messi alla ricerca di altri pareri contrariati quanto i nostri, forse per non sentirci troppo soli. In questo modo ci siamo imbattuti, per nostra fortuna, in una persona che di Salerno conosce, da una posizione privilegiata, tutte le storie recenti: l’architetto Fausto Martino2, assessore all’urbanistica nella prima amministrazione De Luca ed oggi coordinatore del settore paesaggio della soprintendenza di Salerno e Avellino. Martino di questa città conosce più di un volto, quello consegnatoci dalle storie recenti e meno recenti, quello immaginato dall’uomo nella straordinaria e quasi eroica vicenda della redazione del Piano Regolatore Generale (PRG) di Bohigas, di cui Martino è stato il principale interprete e sostenitore, nonché materiale esecutore, durante i dieci anni che lo hanno visto a fianco dell’urbanista spagnolo e infine quello storpiato da chirurgie omicide praticate sul corpo di un 1 per farsi un’idea: www.archiportale.com/news/2010/03/architettura/il-nuovo-waterfront-di-salerno-disegnato-da-ricardo-bofill_18302_3.html 2 Vedi anche: www.ilsemesottolaneve.org/site/?p=220

piano che quando ha visto la luce era già figlio di defunte speranze, ma soprattutto padre di inquietanti futuri, come quello che si costruirà, ad esempio, con Piazza della Libertà. Dato che ciò che Salerno è e diventerà variandosi indefinitivamente sarà il tempo a raccontarcelo, noi da Fausto Martino abbiamo voluto il racconto della città che non potremo più vedere, quella che aveva immaginato con Bohigas per dare ai salernitani una città pensata e non solo esistente e a noi altri prima ancora che un insegnamento concreto ed innovativo sul modo di pianificare la città oggi, la dimostrazione che farlo era ancora possibile e, cosa ben più importante, che farlo al Sud era cosa ancora immaginabile. Insomma la Salerno di Bohigas e Martino era una vera e propria speranza che per le sue implicazioni esulava dall’ambito squisitamente disciplinare del governo dello sviluppo urbano e del territorio e da quello ancora più ristretto e non per questo meno degno, di una prospettiva promettente per gli abitanti della città che ne avrebbero giovato direttamente. Il proponimento di questa nostra sorta di inchiesta sull’omicidio del piano regolatore di Salerno, parallelo tra l’altro a quello napoletano, come emblema dell’omicidio della pianificazione in generale nella degenerazione della politica cui assistiamo, è quello di riuscire attraverso questo breve articolo, e quelli più dettagliati che auspichiamo seguiranno, a schizzare una bozza capace di restituire almeno in parte l’immagine di ciò che per un tempo troppo breve Salerno era diventata in potenza. Curiosi di capire i modi concreti in cui poteva impostarsi un tipo di pianificazione urbanistica capace di evitare le distorsioni comuni a tutte le città disegnate, ai quattro angoli del pianeta, dall’unico grande pianificatore di successo mondiale: il mercato fondiario; siamo lieti di riportare quanto appreso in merito dal nostro interlocutore, il quale ci ha chiarito anche i contorni extra disciplinari di questa vicenda partita oramai più di vent’anni fa, nel 1989, quando la Campania era ancora lontanissima dal promulgare la sua legge urbanistica regionale (L.R. 16/2004, quella che ha determinato anche la nuova nomenclatura urbanistica regionale per cui il PRG è diventato PUC cioè piano urbanistico comunale). Bohigas, a fronte dell’incarico ricevuto nell’89, ha cominciato ad operare concretamente solo nel 1994, poiché prima di allora non esisteva neanche una cartografia di riferimento, che fotografasse lo stato di uno sviluppo fuori controllo degli anni dell’espansione selvaggia, sulla quale poter elaborare analisi e proposte. Prima di avviare il processo di analisi e progettazione urbana che sarebbe andato a formare il piano, Bohigas elaborò un corpus di principi sui quali sviluppare il lavoro di redazione del piano. Con il piano di Salerno l’urbanista spagnolo coglieva dunque l’occasione di concretizzare una riflessione più generale sulle problematiche della città contemporanea e Salerno, dal suo canto, l’occasione di poter fare scuola sull’argomento. Tale corpus di principi è raccolto nel Documento programmatico di preparazione del piano. Riportiamo di seguito, alcuni rimandi ad esso.

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Le città non si devono espandere. Si deve cioè cercare di evitare, limitandola, la continua erosione del territorio all’esterno dell’area urbana, mentre parallelamente va degradandosi l’ambiente interno alla città. Questo è ottenibile ponendo un limite all’espansione al fine di dirottare le complesse dinamiche alla base degli investimenti immobiliari sul già costruito in vista della sua riqualificazione necessaria. È noto che costruire ex novo è più semplice e comodo, nel senso che permette maggiori margini di profitto, del riqualificare, ristrutturare o conservare e restaurare, pertanto la naturale tendenza degli investimenti nel settore immobiliare è quella della colonizzazione edilizia di qualsiasi area libera a scapito dell’attenzione progettuale e finanziaria che invece la città consolidata invecchiando pone, nell’abbandono ai propri bisogni. Inoltre proiettando esclusivamente in direzione centrifuga gli unici interventi costruttivi si elude qualsiasi discorso organico sulla possibilità stessa di riconfigurare, ove necessario, parti di città recentemente consolidata, le quali però non sono frutto di processi di costruzione pianificati, sottraendo in questo modo fin’anche la possibilità di riparare guasti. Mai più quartieri popolari. Uno dei maggiori problemi degli interventi residenziali pubblici al Sud, anche quando condotti con le migliori intenzioni, è rappresentato dalla difficoltà acutissima di evitare la ghettizzazione urbana dei ceti sociali destinatari dell’edilizia economica e popolare. Mai più quartieri popolari significa mai più concentrazione monofunzionale di edilizia economica e non «mai più edilizia pubblica». Cioè Bohigas non pensa che non si debba fare edilizia economica, anzi, solo che questa deve essere diffusa, vale a dire sparsa in giro fra i quartieri esistenti. Non si tratta di eliminare la distinzione di censo (obiettivo che l’urbanistica, da sola, non è in grado di assumere), ma quantomeno di configurare una città non divisa per censo, senza quartieri dormitorio. Spostare l’attenzione dagli indici di edificabilità alla qualità urbana dei progetti. L’indice di fabbricabilità indica la quantità di metri cubi di costruito che può realizzarsi per metro quadro di terreno, (di superficie fondiaria) a seconda delle zone «omogenee individuate», come ad esempio la zona A centro consolidato o zona storica, B zona edificata recentemente, C zona di espansione, D industriale, E agricola, e così via. Per molti anni i piani regolatori sono stati sostanzialmente la

divisione del territorio urbano in diverse zone con edificabilità differenziate (zonizzazione), cosa che tra l’atro favoriva chi aveva lotti disponibili in zone con alta edificabilità rispetto a chi i terreni li aveva in zone a bassa o nulla edificabilità. Con il PRG di Salerno si tenta di liberare la pianificazione dall’ambito esclusivamente zonizzante (e sclerotizzante) e restituire ad essa anche delle modalità più concrete per dare indirizzi progettuali e stabilire standard qualitativi oltre che quantitativi. Quindi diventava importante individuare al livello del piano alcuni ambiti omogenei, per così dire strategici, in cui andare a concentrare degli interventi pianificati pubblicamente (capaci di sfruttare anche finanziamenti privati) che fossero in grado di avere un impatto qualificante anche per il loro immediato contorno urbano. Esempi ne sono i progetti della Lungo Irno, della Cittadella giudiziaria, il Grand hotel Salerno al posto dell’ex cementificio, ed altri. La strategia era quindi quella di partire da 4 o 5 progetti di respiro urbano intorno ai quali «ammagliare» il piano. Evitare il monofunzionalismo di interi pezzi di città. Evitare cioè quanto rappresentato dal centro direzionale di Napoli, dove si svolge quasi solo attività da terziario e non c’è vita durante l’arco intero delle 24 ore, come invece dovrebbe essere e porre attenzione a tenere bene insieme tutte le funzioni compatibili tra loro, ottenendo il cosiddetto «mix di funzioni». Questo nella piena consapevolezza che il monofunzionalismo è facile da realizzare e da gestire (controllare), ma al costo di configurare un insieme urbano come somma di luoghi di reclusione sociale, mentre al contrario la compresenza funzionale è di difficile pianificazione e gestione, ma rappresenta ciò che contribuisce a dare qualità alla vita cittadina. Bohigas sosteneva che la maggiore complessità derivante dal miscuglio delle attività era tutto sommato gestibile attraverso una corretta pianificazione e attraverso i nuovi strumenti concettuali che l’urbanistica andava definendo e che quindi era proprio il caso di raccogliere in pieno la sfida. Per questo motivo ad esempio si era capito che la cosiddetta Cittadella giudiziaria non dovesse sorgere monoliticamente fuori dalla città, come era accaduto per l’Università a Fisciano, quest’ultima configurata sul modello americano del college, ma piuttosto essere organizzata sulla connessione dei suoi uffici ed attività all’interno dell’esistente. Anch’essa doveva essere diffusa. Il monofunzionalismo è infatti un problema che non riguarda solo l’edilizia economica. Si trattava, come si può capire, di mettere in discussione alcuni assiomi urbanistici che per decenni avevano condizionato negativamente lo sviluppo anche delle città pianificate. Bohigas, però, si rende conto che questi principi, giusti dal punto di vista sociale ed urbanistico, si scontrano con una contraddizione determinata dal mercato. Infatti la riqualificazione della città attraverso una serie coerente e pianificata di progetti urbani sui quali impostare lo sviluppo futuro, porta come conseguenza inevitabile, in un’economia di mercato, al problema della crescita incontrollata e disomogenea della rendita fondiaria. Nasce dunque l’esigenza di individuare quei meccanismi di piano per abbattere la rendita fondiaria (che è oggi invece uno dei problemi maggiori di Salerno). Bohigas pensa di arrivare a spalmare la rendita in modo uniforme e così, traendo spunto dagli esempi migliori di piani urbanistici dell’epoca (il Piano di

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Torino3 di Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi, il Piano di Ferrara4 e quello di Reggio Emilia5), giunge a ritenere centrale il concetto di «perequazione urbanistica», oggi recepito dalla stessa Legge Regionale urbanistica della Campania del 2004, ma che all’epoca era ancora solo «teoria». Come funziona, o dovrebbe, la «perequazione urbanistica»? In pratica si tratta di definire il valore delle aree urbane non in termini monetari ma in termini volumetrici, attribuendo ad ogni zona «non agricola» un’edificabilità che deriva dal suo stato prima delle scelte di piano e non dopo. In questo modo si riusciva a svincolare la proprietà fondiaria dalle scelte di piano ed evitare dunque la determinazione del piano in funzione delle proprietà fondiarie. Il problema maggiore della pianificazione urbanistica infatti è sempre stato rappresentato dal fatto che le sue scelte finivano per determinare enormi incrementi di valore di alcune aree cittadine a discapito di altre (sperequazione) e che in ogni caso o si accettavano queste conseguenze o si rinunciava a fare delle scelte. Questo faceva del PRG sostanzialmente uno strumento di definizione di rendite più che uno strumento di pianificazione dello sviluppo urbano. Con la perequazione, invece, stabilita l’edificabilità delle zone, nel loro assetto ante-piano, questa veniva poi spalmata armoniosamente su tutto il corpo urbano, compensando gli squilibri. Il «dimensionamento» del piano diventava allora la determinazione dell’edificabilità della città in modo da ottenere una distribuzione livellante delle rendite fondiarie e questo significa che si innescava un meccanismo efficace ma delicato che sarebbe saltato non appena si fossero fatti interventi di nuova edilizia senza rispettare le previsioni di piano. La perequazione è infatti come una coperta, cioè sempre troppo corta, se la si tira da un lato lascia scoperto l’altro. Sulla questione delle rendite ci sono inoltre da distinguere due aspetti: a) il problema delle opere pubbliche; b) il problema delle rendite private. Se il piano non era ancora definito, questo non andava in contraddizione con la scelta di partire da alcuni progetti urbani, perché in assenza di regole certe le opere pubbliche si possono fare lo stesso, dato che esse non producono rendite private. Producono sì profitto per le imprese di costruzione e tutto ciò che vi ruota attorno, ma non rendita, che è cosa diversa. Con la perequazione dunque la normativa del piano trova delle soluzioni ai due obiettivi dichiarati di evitare il meccanismo perverso della crescita incontrollata delle rendite fondiarie e al contempo rispondere al fabbisogno di standard, cioè il minimo di servizi urbani, come verde, parcheggi, scuole ecc.. da garantire comunque zona per zona e di cui Salerno era in ogni modo deficitaria. L’esistenza di un piano organico è inoltre di per se stessa un fattore di senso generale anche dei singoli progetti pubblici che si vanno a realizzare. Sulla base di queste premesse ad Aprile del 2003 il piano di 3 Per approfondimenti in merito: www.siat.torino.it/public/Comuniato%20Stampa.pdf 4 Per approfondimenti in merito: http://urbanistica.comune.fe.it/index.phtml?id=79 5 Per approfondimenti in merito: http://progettare.pianotelematico.re.it/portal/page?_pageid=73,41713&_dad=portal&_schema=PORTAL

Bohigas era pronto dopo quasi 10 anni di lavoro. Era nato, su principi innovativi, prima della Legge urbanistica regionale, anzi dando degli spunti consistenti alla sua elaborazione. Non doveva farsi altro che adottare il piano per cominciare la sua attuazione in vista dell’approvazione definitiva. L’iter di legge infatti prevede la distinzione fra adozione ed approvazione, l’una come atto dovuto appena possibile, l’altra come atto anche di democrazia per evitare che uno strumento della portata di un piano regolatore generale possa diventare legge senza essere pubblicato, discusso ed eventualmente emendato. Fino a qui i voli della mente. A questo punto della storia comincia il processo inverso a quello precedente, la castrazione dell’avvenire. Dieci anni di lavoro per dare vita al piano, ora quelli necessari per evitarne l’applicazione. Infatti immediatamente prima dell’adozione si fanno avanti una serie di privati che vogliono in qualche modo mettere le mani su ciò che il PRG propone. Questo ovviamente rischia di far saltare tutto il meccanismo delicato della perequazione. Solo ora Martino comincia a conoscere le reali intenzioni di De Luca, quando, a seguito delle sue pressioni per l’adozione del piano, questi gli comunica che invece esso non va approvato, pena la chiusura dello Sportello unico. Lo sportello unico è un ufficio comunale previsto dalla normativa nazionale che consente di fare gli «scopi produttivi» cioè le edificazioni «non residenziali» ovunque si voglia a condizione che: a) non siano previste zone dedicate a tali scopi nel territorio comunale; b) che ove previste esse siano già sature. In sostanza la legge permette di edificare con indici adatti all’industria su qualsiasi parte del territorio, sia quando non esista pianificazione comunale, come è possibile in tutta una serie di piccole realtà urbane, sia quando le aree previste per questo tipo di destinazioni siano già esaurite. Lo sportello unico (art. 5 del D.P.R. 447/1998) si configura quindi come il canale principale di elargizione (politica) delle licenze comunali, ma non ha senso in presenza di un piano regolatore vigente. Lo sportello unico rappresenta per De Luca lo strumento di potere principale, per questo egli comincia a vedere l’adozione del PRG come un ostacolo al suo controllo personale su cosa si costruisca in città. Il citato L’articolo 5 del citato D.P.R è qualcosa che vale in regime di straordinarietà (assenza di piano) e che in mancanza di strumentazione urbanistica diviene perciò «ordinario», esso è da un punto di vista di gestione in contraddizione con il PRG nel senso che se esiste l’uno non può valere l’altro e viceversa. De Luca comincia coscientemente ad elaborare una strategia per evitare l’adozione del piano, mettendo in piedi un «grande processo democratico» di discussione del piano, prima della sua adozione. In pratica si tratta di inventarsi un modo qualsiasi per evitarne l’adozione, come se questa fosse cosa da discutere e non un fatto dovuto. La citata differenza fra adozione ed approvazione serve anche ad evitare l’assurdo di una crescita disorganica della città in presenza di uno strumento urbanistico esistente seppure non ancora approvato definitivamente. Quindi il piano una volta concluso va adottato e a seguito della sua adozione si avvia il processo di discussione pubblica, come già previsto per legge. De Luca è invece scaltro a far passare quest’ostacolo all’adozione come un’intenzione di democraticità, mentre il

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Città Future 55 La città variante

suo movente essenziale è semplicemente quello di differire e rimandare quanto più possibile la definizione di regole certe nel processo di crescita urbano al fine di poterne conservare il controllo. È così che si mette in piedi un gruppo di «intellettuali» (il gruppo dei 30) che hanno il compito di vagliare criticamente e pubblicamente il PRG di Bohigas, mentre in parallelo dietro il sipario delle trenta comparse si procede con la concessione di varianti rispetto ad un piano non ancora adottato e già spacciato. Per i meccanismi della perequazione, si capisce bene che ogni variante, se concessa in deroga alle previsioni del piano, è qualcosa che condiziona il piano stesso, cambiandone via via gli equilibri fino a snaturarlo completamente. La conclusione del gruppo dei 30 è, niente meno, che la non adottabilità del piano. Persino Rifondazione Comunista (esperta in spaccature) si divide su questa questione, cadendo sostanzialmente nella trappola diversiva di De Luca («cadendoci» nella sua presupposta buonafede). Tra parentesi, mentre il piano originario di Bohigas veniva vagliato «criticamente» prima della sua adozione, nessun dibattito è stato poi fatto in sede di approvazione, avvenuta infine nel 2006 ed ancora oggi il PUC di Salerno non è neanche reperibile sul sito del comune, a riprova che la democraticità dei processi concreti non è mai obiettivo sincero del potere, ma sempre comodissima strumentalizzazione. Martino a questo punto capisce che sono a rischio, oltre che 10 anni di lavoro, anche tutti i potenziali frutti socialmente positivi di tale impegno e continua a difendere il piano praticamente da solo contro tutti. Arriva persino a non porre pregiudiziali di merito sostenendo che le varianti si possono approvare tranquillamente a patto che siano in coerenza con il PRG. È in questo momento che Martino viene «processato» (sommariamente) dai consiglieri comunali DS e nella sede dei DS, i quali prendono spunto da alcune sue dichiarazioni rilasciate al quotidiano il Mattino in quella che lui ritiene essere stata una sorta di intervista/trappola. L’esito del processo è il seguente nei confronti di Martino: puoi restare se fai passare le varianti a prescindere. Martino ovviamente si dimette, non può essere lui a sfasciare quanto realizzato faticosamente. In tutto questo il PRG resta nel cassetto, viene congelato e se ne comincia la revisione, mentre nel frattempo si approvano le «varianti», che non coerenti al piano redatto da Bohigas, sono unicamente rivolte a scaricare rendita fondiaria su alcuni ben individuati suoli; in assenza di una coerenza di fondo, divengono semplicemente realizzazioni eversive del piano, slegate e pertanto fini a se stesse. La rimodulazione del PRG (che nel frattempo si chiama PUC e che appare come processo indotto dalla nuova Legge urbanistica regionale) è fatta in modo da conservare l’immagine apparente e superficiale del piano di Bohigas, ma avendo cambiato tutto ciò che non è immediatamente visibile in termini di grafica e colori. È scomparsa l’edilizia popolare diffusa, scomparso il concetto di chiara delimitazione della città, abbassato il lotto minimo (per poter edificare) in zona agricola, introdotte nuove norme che permettono alle zone industriali di crescere più di quanto previsto se cambiano destinazione (se diventano cioè qualcosa di diverso da

insediamenti produttivi). Un ritratto screziato del piano precedente. Ad esempio nell’area industriale della MCM, l’indice di edificabilità previsto da Bohigas era già di 3,5 mc/mq (cioè alto), ma viene portato, già con una «variante anticipatoria» a 7,4 (più del doppio) e questo «premio» volumetrico si ottiene paradossalmente in ragione del «cambio di destinazione» dell’area che da industriale diviene altro. Va detto che in generale gli indici alti in zone industriali si giustificano per consentire agli opifici di assumere la forma che i processi produttivi impongono, qui invece al contrario si concedono indici elevatissimi proprio se non si fa industria o produzione materiale. Quindi la produzione (il secondario) viene progressivamente eliminata in favore di destinazioni il cui unico fine è la rendita garantita dai fitti residenziali o commerciali elevatissimi. Questo processo rappresenta la finanziarizzazione dell’economia edilizia, e di riflesso la terziarizzazione post-fordista della città, cioè il territorio non è più sede di investimenti con finalità produttive, ma solo speculative, perché più facile, più comodo e più remunerativo, in termini di profitto, s’intende. Da questo punto di vista le città diventano un enorme contenitore di rendite potenziali per i costruttori proprio quando perdono il loro ruolo industriale. Ovviamente più si costruisce densamente, più il rapporto degli standard urbanistici si squilibra in senso negativo e con il mercato delle costruzioni controllato da pochi soggetti non si riesce neanche ad avere un abbassamento dei fitti. Il risultato è necessariamente un fitto maggiore per una città peggiore. La città come privilegio degli abbienti. Di passata è utile notare, sollecitati da Martino, la speculazione colossale e preventiva rappresentata dal «piano casa Campania»6 (legge pasticcio in vigore dalla fine del dicembre 2009) in cui il premio volumetrico per i fabbricati industriali, in luogo di quello di superficie, significa questo: se si dispone, poniamo, di un capannone industriale di 600 mq (metri quadri) e si può ampliarlo del 20% «volumetricamente» anche trasformandolo in edilizia residenziale, significa che, posto il volume come prodotto di superficie per altezza, in ragione dell’altezza dei capannoni industriali molto maggiore dei piani residenziali, dal capannone di partenza si ottengono non 600 mq incrementati del 20% (cioè 720 mq), ma 600 mq che per la loro altezza (ad esempio di 10 m) diventano 6.000 mc (metri cubi), i quali aumentati del 20% (cioè 7.200 mc) e divisi per 3 (altezza di un piano residenziale) mi danno 2.400 mq residenziali rispetto ai 600 di partenza (cioè 4 volte tanto, non il 20% in più in termini di superficie, cioè del prodotto vendibile). Piccole sottigliezze matematiche per grandi speculazioni, su un territorio già deficiente di standard, come quello campano. Se poi il piano casa non produrrà effettivamente gli scempi attendibili sarà solo nella misura dell’estrema burocratizzazione alla base della sua concezione. Allo stesso modo se la gara d’appalto per Piazza Della Libertà va deserta è solo per negoziare condizioni di realizzazione più vantaggiose per le imprese di costruzione, non certo per esercitare una critica estetica a quanto si andrà a realizzare,

6 vedi anche: www.eddyburg.it/article/articleview/14461/0/356/

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Città Future 56 La città variante

come qualcuno vorrebbe indurre a credere. L’opposizione fra speculazione edilizia e burocrazia è solo il riflesso delle poste in gioco esistenti fra interessi privati e loro mediazione politica, tutto il resto, e cioè quello che veramente conta socialmente, rimane esterno da qualsiasi discorso sul futuro del territorio. In conclusione nonostante lo sforzo profuso da Bohigas e Martino per fare del piano di Salerno un’occasione di invertire queste tendenze perverse intrinseche alle dinamiche naturali del settore edilizio, alla fine del discorso abbiamo l’ennesimo omicidio di qualsiasi volontà di progresso urbano e l’erezione a sistema proprio dell’esatto opposto rappresentato dal depotenziamento funzionale, in generale, delle discipline scientifiche e in particolare dei principi che avevano ispirato la rinascita di una città necessaria prima che possibile. Questo come splendida eredità dell’inquietante parabola del centro sinistra regionale. APRILE 2010

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Città Future 57 Due passi nella città dei matti

Recensioni DUE PASSI NELLA CITTÀ DEI MATTI Paolo Fazzari Il 7 e l’8 Febbraio in prima serata su Rai 1 è andata in onda la fiction dal titolo «C’era una volta la città dei matti», lungometraggio in due puntate dedicato a Franco Basaglia e alla sua attività di psichiatra che a partire dagli anni 60 ha scardinato l’impalcatura istituzionale del manicomio e mutato profondamente l’assetto legislativo dell’ospedale psichiatrico. È il 1961. Gorizia, il suo ospedale psichiatrico. Franco Basaglia, dopo aver conseguito la libera docenza in psichiatria, ne vince il concorso per la direzione. Arriva con due figli e la moglie Franca Ongaro, compagna di vita che lo segue fiduciosa verso quel progetto che a mano a mano inizia a profilarsi: cambiare le regole dell’istituzione, l’istituzione «ospedale psichiatrico» che presenta un paesaggio drammatico ormai entrato nell’immaginario collettivo: contenzioni, celle, elettroshock, bagni di acqua gelata, urla; pazienti legati, pericolosi per sé e per gli altri, e per questo chiusi ed isolati. È più o meno questo il panorama che si apre di fronte a chi si accingesse a entrare in un manicomio negli anni 60. Ma andiamo con ordine e partiamo dalla prima domanda che si pone il Basaglia splendidamente interpretato e parlato dall’attore Fabrizio Gifuni: «ma cos’è la malattia mentale?» – seguita da una lodevole risposta – «ecco, l’università una cosa me la aveva insegnata, che gli psichiatri, me compreso, della malattia mentale non ci capivano proprio niente». Domanda probabilmente semplice che solleva con forza la polvere finita a deposito sulle domande, che per superbia o superiorità sono considerate talmente semplici da non poter mai essere proferite. Domanda che ci porta al cuore del viaggio di Basaglia, una nave salpata verso i complessi territori della malattia mentale con il desiderio di provare a comprenderla, avendo quale compagno di viaggio il presupposto di mettere in crisi e in discussione il senso più intimo della malattia stessa. Sarà un arrovellamento felice perché partendo da quella semplice e tuttavia ardua domanda si giungerà a tale evidenza: provare a spostare l’attenzione dalla malattia al malato. La domanda su cosa sia la malattia sarà talmente importante dal finire con il pensare di poterla mettere tra parentesi, epochè basilare con la quale si inizia a pensare di guardare il soggetto e restituirgli la quota di umanità perduta e soffocata nell’isolamento dell’etichetta della malattia. Con questo spirito nel cuore la fiction illumina per prima Margherita, l’altrettanto brava Vittoria Puccini: una ragazza semplice e una storia altrettanto, perché «difficile da credere, ma a quei tempi per una ragazzina ribelle e povera l’amore poteva essere l’inizio di un viaggio senza ritorno». Una delle tante storie che storie non sono più, di pazienti che perdono la libertà quando gli viene sottratta la parola per narrare il racconto della propria storia. Perduta la libertà ad essere. Non ha il tempo di varcare i confini dell’istituzione che le viene sottratta la foto «di un moroso» che a detta della caposala potrà ritrovarlo ed esserne amata solo a patto di essere stata sufficientemente furba da non concedersi. Per di più: spogliata dei suoi vestiti, dei suoi averi, impasticcata,

Margherita ha come destino l’avvizzimento psichico, la cronicità che la porterà a giacere sempre più lontana dalla sua soggettività, tra brandelli e residui di un vissuto che si inscriveranno come lettera morta nella stereotipia e nel consenso, catturati dall’istituzione e sincronicamente istituzionalizzati. Tale prospettiva ce la descrive nel 1964 Basaglia: «dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale […] totale annullamento della sua individualità» subendo un processo sommario, cioè come posto «sotto un atto di accusa il cui testo non è mai mostrato perché è segnato dall’intera vita dell’asilo» (Foucault). Azione quella dell’istituzione dunque non neutrale, non tralasciabile, poiché si va a sovrapporre a quella perdita di progetto e desiderio che già la malattia in quanto tale pare comportare nella esistenza del malato. Con Margherita solchiamo i primi passi nei corridoi «dell’ospedale», ascoltando in sottofondo le urla, urla di dolore, che divengono ultima possibilità di espressione del malato in tali condizioni e contenzioni. Si subiscono manovre mediche e psicoterapeutiche che hanno piuttosto la parvenza di torture. Manovre perpetrate da coloro i quali in nome dell’istituzione e della sicurezza dei «sani» riducono la vita soggettiva del malato a puro oggetto, mediante un dispositivo che finisce con il porre lo stesso medico nel ruolo di «sorvegliante» e «moderatore degli eccessi cui la malattia poteva portare» (Basaglia, 1964). In Basaglia nasce così, e da qui, l’idea più semplice di tutte: un dispositivo manicomiale tal fatto deve cambiare. L’esperienza dell’inumanità delle manovre «terapeutiche» fa scaturire l’esigenza di rivedere i nodi teorici e concettuali a difesa di questa istituzione, ribaltando l’assioma che finisce con l’oggettualizzare il malato. Tale convinzione va posta in pratica e partendo dalle mura dell’ospedale bisogna cambiare l’impalcatura legislativa che sostiene tale idea di manicomio. Da cosa partire? Il manicomio è un capolinea: non c’è spazio per quel processo di separazione- individuazione che appare così necessario alla crescita dell’individuo, dal momento che l’istituzione ingloba e getta la chiave d’uscita dell’asilo. E, soprattutto, il rapporto con l’altro è praticamente annullato. Nella fiction c’è una operatrice sanitaria nella quale scaturisce una scintilla, una scossa interiore, che permette di iniziare a riannodare quel complesso rapporto che riguarda il piano dell’incontro con l’altro. Nives dice: «Io ci ho provato a far finta di niente. Per dieci anni […] erano tutte uguali, con i capelli tagliati tutti uguali…i camici. Per me era come fare la guardia alle oche; ma adesso […]. Margherita che urlava mi ha seguita fino a casa, me la son sognata tutta la notte». È in tale reazione viscerale che si apre simbolicamente una breccia nella coltre di automatismi istituzionali ai quali si è sottaciuto per tanto tempo. Certamente esse sono parole che appartengono al topos della fiction, ma legittimamente, suggeriamo, lasciano intravedere uno dei punti di partenza del «rovesciamento» necessario, della messa in «crisi», con la quale l’istituzione psichiatrica deve fare i conti. Con questo coraggio le celle si aprono, le camicie di forza di sciolgono. Segni di una nuova era. Basaglia, acutissimo pensatore, nel 1964 ci racconta che

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Città Future 58 Due passi nella città dei matti

tuttavia un tentativo simile fosse già stato effettuato. Philippe Pinel, fondatore della moderna psichiatria, per primo nella storia libera il malato dalla sua contenzione dando dignità a lui e alla sua affezione, «separandolo dalle altre figure (poveri, vagabondi, emarginati) cui era precedentemente assimilato» (Galimberti). Qui un punto di capitale importanza. Basaglia in questi anni si interroga su come ulteriormente superare tale tipo di scenario, ed andare oltre la semplice azione di scalfittura della contenzione. E ciò avviene chiedendosi di che tipo di liberazione si possa parlare, quando sperimentata in uno «spazio che resta comunque chiuso», uno spazio che dona libertà ancora «messa nelle mani del legislatore e del medico che dovevano dosarla e tutelarla». Ce lo proviamo a chiedere anche noi. Ma intanto una corda si tende e la prima parete crolla. Il primo muro, simbolo della clausura. Il primo a cadere è quello che separa tra loro i gruppi di pazienti, i reparti maschili e femminili. Bisogna continuare di questo passo per scardinare quello che comunque resta a presidiare il perimetro della contenzione eretta intorno alla vita del malato. E un passo viene compiuto sul piano legislativo. Dopo varie lotte viene promulgata la legge 431 del 1968 che riconfigura le modalità del ricovero, sancendo l’abbattimento del ricovero coatto e segnando di fatto una tappa importante nell’opera di riqualificazione delle coordinate psichiatriche, processo in divenire che porterà fino alla legge 180. 1971. Trieste. Franco Basaglia assume la direzione dell’ospedale psichiatrico. L’esperienza di Gorizia, sebbene tra tante difficoltà può reputarsi consolidata e determina la direzione da intraprendere: «trasformare l’organizzazione non per riformarla, ma per superarla attraverso la costruzione di una rete di servizi territoriali, alternativi e sostituivi delle molteplici funzioni di cura, ospitalità, protezione e assistenza assolte dall’ospedale» (DSM Trieste). Questa è la nuova sfida. Sfida accettata che tuttavia bene la fiction ci aiuta ad illuminare in tutta la sua problematicità: la difficoltà di riannodare i fili del rapporto con l’esterno quando lo spettro della cronicità e dell’istituzionalizzazione hanno così lungamente lavorato e quando gli altri, i sani, sotto l’effetto dello stigma sociale proclamano un’immagine pericolosa e morbosa del matto. Così suscitano una enorme simpatia i primi tentativi dei pazienti di ritrovare-riscoprire-inventare-creare la propria storia ed un proprio progetto di vita e di mondo. Affettuoso da vedere nel luogo della fiction, commovente da leggere e ritrovare nelle pagine di Giuseppe Dell’Acqua in «Non ho l’arma che uccide il leone - Storie del manicomio di Trieste», pagine queste che permettono di assaporare sentimenti, vissuti, mai presi in considerazione prima di allora, perché «il malato», ad esempio, «non può essere una persona che si innamora». È questa la cornice che deve cambiare, ed alcuni reparti subiscono un processo di riconfigurazione iniziando ad essere adibiti a laboratori. È da uno di questi che vede la luce una cavallo di nome Marco, Marco Cavallo che contiene le speranze, i sogni, le fantasie di coloro che desiderano varcare il baratro dell’isolamento. E che un giorno, un bel giorno, viene condotto per le strade con il suo corteo di «matti». Occasione finalmente per fare festa. Benché non sia

semplice ritrovare una nuova vita dopo l’allontanamento subito. Ma la macchina ormai è partita ed è inarrestabile, perché ormai si parla di «dar corso a un progetto politico che non si arresti alla bonifica umanitaria del manicomio, né alla semplice trasformazione delle sue dinamiche di funzionamento interno, ma metta in discussione la persistenza stessa dell’istituzione totale» (DSM Trieste). E l’istituzione in effetti crolla, seppure tra tante difficoltà sia burocratiche che talvolta provenienti dagli stessi pazienti e le loro famiglie che improvvisamente si trovano a doversi prendere cura di quei soggetti che la società aveva tentato di ripudiare. O forse semplicemente in attesa della costruzione di una rete che possa accogliere la persona che chiusa nella dimensione manicomiale associava allo spettro mortifero della malattia il reale dell’allontanamento e reclusione.

È ormai passato del tempo dai tentativi pioneristici che hanno visto l’Italia tentare di modificare il proprio assetto istituzionale in tema di salute mentale. La presa in carico della salute mentale riguarda oggi le singole regioni dalle quali dipendono direttamente le ASL e i nuovi SPDC, servizi psichiatrici di diagnosi e cura. A mo’ di chiusura tornerei però a soffermarmi su una questione. Il lavoro di Basaglia è stato un lavoro di equipe che ha impegnato un grande numero di attori, intellettuali ed operatori che con passione si sono dedicati in questa opera. In tal senso, in una intervista recentemente rilasciata a Fahrenheit da Franco Rotelli (subentrato a Trieste dopo Basaglia), sarebbe improprio parlare del lascito di Basaglia come ad una eredità e forse pensare, come in parte la fiction ha fatto, che questa celebrata opera di «rivoluzione» abbia riguardato un solo uomo. Certamente anche la sua prematura scomparsa ha lasciato nelle mani di altri un’opera, la legge 180, da continuare, da rendere concreta e reale, nonché vicina alle esigenze di quanti abbiano bisogno di

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Città Future 59 Due passi nella città dei matti

rivolgersi a servizi per la cosiddetta salute mentale. Si sente dire tuttavia che a distanza di trenta anni da questa legge è stato fatto molto ma molto c’è ancora da fare. Senza poter entrare nel merito di una complessità storica e sociologica che riguarda il discorso sulla salute mentale, vorrei fare la seguente considerazione. Freud, sappiamo, ha guardato il fenomeno schizofrenico dal punto di vista del dispositivo analitico, definendo il paziente schizofrenico «strutturalmente» improbabile da raggiungere con il metodo psicoanalitico a causa della sua particolare configurazione libidica e relazionale. Riprendendo tale sommaria ed imprecisa (a causa mia) definizione freudiana desidero usarla per porre l’accento su la questione che ritengo saliente, cioè, i vissuti che possono mobilitarsi negli operatori che si trovano a confrontarsi con una tale tipologia di formazione psicologica. Il paziente «schizofrenico» costruisce un mondo appartato con il quale ci sono poche o punto possibilità di mettersi in contatto. In una relazione di tal sorta nell’operatore possono mobilitarsi sentimenti di sgomento e di impotenza, a causa proprio dell’incontro con un soggetto così difficile da raggiungere. Senza poter approfondire oltre in tale sede tale discussione, ma sperando che ce ne sia l’occasione in futuro, torno a Nives, la nostra operatrice sanitaria. È lei che ci porta nel punto in cui, come è stato bene descritto nel testo «Il paese degli specchi», «modificare un assetto cancrenoso, stabilizzato da oltre un secolo, non significa infatti solo cambiare una cornice, bensì entrare nel vivo dei problemi di ordine relazionale che il confronto con la sofferenza psichica impone» (De Martis, Petrella, Caverzasi, 1980). È su tale punto che si gioca – e combatte – la sfida del presente, sul campo della relazione, punto di incontro mai scontato con l’altro che ci sta di fronte; incontro che tuttavia troppo spesso diviene per gli operatori e le strutture che si occupano di salute mentale, chiuso nelle categorie diagnostiche di un manuale e di un immaginario che con troppa facilità finisce a parlare di disturbo. È molto più faticoso praticare l’ascolto nel tentativo di dare rilievo, colore, espressione, al vissuto esistenziale della persona, spostandosi cioè sul versante del disagio, senza ricadere a racchiudere ed incasellare l’esistenza dell’altro in categorie aride e incapaci di aiutarlo nella ricerca di una propria forma di significato. Le manovre terapeutiche poco attente all’ascolto temo possano oggi diventare la prosecuzione della contenzione fisica perpetrata a suo tempo. Un modo più evoluto di perpetrare emarginazione. Concludo davvero riprendendo uno scritto di Franco Rotelli del 1974 sulle tappe della «Pratica psichiatrica di Trieste», che credo possano essere ancora luce per i soggetti che a vario titolo e livello vivono da vicino il mondo del disagio mentale: «Ad un livello più arretrato si pone il primo momento: lotta contro le attuali strutture psichiatriche come repressivo-custodialistiche. – ad un secondo livello si pone la lotta contro le strutture psichiatriche, anche riformate, come comunque luoghi di istituzionalizzazione della malattia. – ad un terzo livello si pone la lotta contro la malattia come istituzionalizzazione della sofferenza. – ad un quarto livello la lotta contro la sofferenza come necessità nel mondo del capitale e della società dello scambio».

È questa la sfida cui la pratica medica, psichiatrica e psicologica devono ancora costantemente accettare. «A tutti coloro impegnati nella relazione di cura con l'altro». APRILE 2010

Elaborazione di una foto di Franco Basaglia tratta dal sito del DSM Trieste

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Città Future 60 S. ŽIŽEK. La violenza invisibile

Recensioni SLAVOJ ŽIŽEK. La violenza invisibile Francesco Palmeri La violenza ci viene sbattuta continuamente addosso dai telegiornali, dalle notizie, dalle chiacchiere. Ma quello che riusciamo a percepire è solo uno dei suoi aspetti: esiste una violenza invisibile, potente e incomprensibile nell'immediato che regola e dirige la società. Si può dividere in due tipi: simbolico e sistemico. La violenza invisibile non può essere guardata dalla stessa prospettiva con cui si analizza quella visibile: bisogna mettere da parte l'impeto di intervenire, la sofferenza per le vittime, il disgusto per i carnefici e analizzarla di sbieco, da un taglio diverso. Zizek è come sempre molto provocatore, e utilizza esempi tratti dalla filosofia, dall'attualità e dal cinema per fornire dei tagli sulla violenza invisibile. Il primo bersaglio del saggio sono i «comunisti liberali», cioè quel gruppo di imprenditori che creano le condizioni per lo sfruttamento e si impegnano sinceramente e con mezzi enormi a combatterlo. Sono ovviamente i soliti noti: Gates, Soros, ad. di Google, dell'IBM ecc., insomma quelli che passano la metà del tempo a fare operazioni speculative e di mercato e l'altra metà a organizzare raccolte fondi per i paesi in via di sviluppo o per far fronte alle emergenze umanitarie. Le loro opere di carità non sono solo un capriccio: servono a ristabilire l'equilibrio dovuto alla distruzione provocata dal sistema in cui operano. «Oggi le figure esemplari del male non sono i consumatori ordinari che inquinano l'ambiente e vivono in un mondo violento di legami in disgregazione, ma coloro che mentre si dedicano a creare le condizioni di tale inquinamento e devastazione si comprano col denaro delle vie di fuga, vivendo in comunità recintate, mangiando cibo biologico, facendo le vacanze in riserve naturali e così via». Molti aspetti della nostra vita non appaiono più contrassegnati ideologicamente: definiamo ideologia ciò che si discosta da questo sfondo neutrale. Ma questa non è che la forma più pura e completa dell'ideologia: l'egemonia. Lo stesso discorso vale per la violenza: «la violenza simbolica sociale al suo stato più puro appare come il proprio opposto». Sono quindi i comunisti liberali i veri nemici di ogni lotta progressista, e dobbiamo sempre tenerne conto quando valutiamo alleanze temporanee contro il razzismo l'omofobia ecc. Zizek definisce il modello dominante di politica «biopolitica postpolitica»: un termine astratto che mette soggezione, ma che significa essenzialmente una politica che si definisce al di là dello scontro delle ideologie e priva di massimi sistemi o di massime in generale, a parte l'amministrazione della vita e del benessere in quanto tali. In un sistema dove lo slancio ideologico viene meno l'unica risorsa di mobilitazione rimane quindi la paura. L'odierno concetto di tolleranza è contrastato dalla paura di essere molestati, in sostanza l'altro ci va bene purché ai adatti alle nostre regole, purché rinunci a ciò che lo caratterizza e che in sostanza rinuncia ad essere altro. Il fine della vita posto nella vita stessa crea il concetto di homo sacer, di vita intoccabile in quanto tale, e nello stesso tempo

porta all'accettazione della privazione, in nome della vita, di qualsiasi diritto dell'individuo, ponendolo come oggetto a perfetta disposizione dell'amministrazione. Questa contraddizione porta a un concetto di etica paradossale, ma molto interessante: un'etica basata su una contraddizione interna consapevole, su un disconoscimento feticistico. Come esempio eclatante c'è la Russia sovietica, chi la difendeva per ciò che essa aveva rappresentato e dicendosi all'oscuro, col senno di poi, delle cattiverie che vi si compivano. In realtà non serviva andare a scandagliare i documenti segreti per capire quanto non andasse bene: gli atti dei processi farsa, le dichiarazioni pubbliche ecc., erano già più che sufficienti. Lo stesso discorso vale per l'entusiasmo nei confronti della rivoluzione francese da parte dei filosofi del tempo. Il discorso si fa ancora più interessante scoprendo che tutti i carnefici più grandi sono descritti dai figli come dei modelli, persone esemplari costrette da qualcun altro a compiere atrocità che cercavano in qualche modo di arginare. Zizek vede questo rifiuto di vedere il male come il più profondo e necessario fondamento di ogni convinzione etica, e laddove l'etica è più universale questo disconoscimento è più forte. Il cristianesimo, con il suo superamento della particolarità del popolo eletto, pone nella massima «tutti gli uomini sono fratelli» il concetto di inumanità di chi non riconosce la fratellanza. Quando Freud e Lacan criticano «l'ama il tuo prossimo» non portano avanti l'argomento su come ogni concezione di universalità sia influenzata dai nostri valori, ma mettono in evidenza l'incompatibilità tra il prossimo e la dimensione stessa di universalità: «ciò che resiste all'universalità è la dimensione propriamente inumana del prossimo». Questa paura del Prossimo, il bisogno di «decaffeinarlo» è vista da Zizek come il risultato della rottura dei muri protettivi che ci separano da esso. E non c'è esempio più evidente della rabbia scatenata dalla pubblicazione su una piccola rivista danese delle vignette su Maometto: la globalizzazione ha fatto diventare come confinanti Danimarca, Siria, Egitto, Pakistan e Indonesia. Uno dei risultati della civiltà della tolleranza europea è il saper sopportare le differenze degli altri, o meglio non considerarle non accorgendosene del tutto: l'alienazione, considerata il fallimento dell'occidente, aiuta a sopportarci a vicenda. Una discreta dose di essa può rappresentare la soluzione anziché il problema. Tornando allo scontro sulle vignette danesi, la rabbia era concentrata sull'occidente in generale e sull'universo simbolico che esso rappresenta. La maggior parte di coloro che protestavano non le aveva nemmeno viste. La condensazione di simboli è determinata dal linguaggio, il mezzo nonviolento per antonomasia. «Il linguaggio semplifica l'oggetto designato riducendolo a un'unica caratteristica, […] inserisce l'oggetto in un campo di significato che è sostanzialmente estraneo a esso». Lacan, col suo concetto di Significante Dominante, pone in evidenza la natura essenzialmente violenta del linguaggio. Nel suo «discorso del Padrone» come primo discorso il Significante Dominante viene imposto con prepotenza, è il «più indietro di così non si va», o il «è così perché lo dico io». L'apparenza di uguaglianza del discorso è sempre sostenuta da questo asse asimmetrico. Simone Weil usa un sistema di coordinate

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ancora aristotelico quando vede come positivi i desideri limitati contro gli illimitati, e il giusto come il contenimento dell'appetito. Tuttavia la modernità è inserita nel sistema Kantiano, dove l'eccesso assoluto è quello della legge stessa. La legge impone ordine in una natura che tende al contrario, i polizieschi piacciono perché il giustiziere è l'eroe che combatte quei conservatori dello stato naturale che sono i criminali. La contrapposizione non è quindi fra concetti estranei, crimine e legge, ma fra trasgressione particolare e assoluta. Lo stesso vale per la violenza: non la misuriamo a partire da uno stato di nonviolenza, bensì da uno stato di violenza percepita come normale, di cui il linguaggio è il veicolo primo. É la prima essenziale forma di divisione, la violenza verbale è la risorsa primaria di ogni violenza umana. La realtà, nella sua stupida esistenza, non è mai insopportabile: è il linguaggio che attribuisce valori e simboli che la rendono tale. I pogrom non erano contro le vittime, ma contro l'immagine dell'Ebreo nella testa dei carnefici. Il linguaggio ha una capacità sostanziante, la «Wesen der Sprache» di Heidegger. Quando la De Beauvoir afferma l'inferiorità dei neri non si limita a dire che essi sono resi di fatto inferiori dalle condizioni socioeconomiche in cui gli americani bianchi li costringono. Afferma la capacità determinativa del concetto di razza, che rende effettiva, e non solo interpretativa, l'inferiorità di un gruppo rispetto a un altro. Il che ci riporta all'inizio, all'abisso del Prossimo: sembra esserci un paradosso fra la dimensione costitutiva da parte del linguaggio del nocciolo dell'essere e la sua concezione come un abisso insondabile posto dall'altra parte del «muro del linguaggio». Questo paradosso può però essere risolto: «il muro del linguaggio, che mi separa per sempre dall'abisso di un altro soggetto è allo stesso tempo ciò che apre e sostiene quell'abisso: lo stesso ostacolo che mi separa dall'Altra parte è ciò che ne crea il miraggio». Il capitolo successivo riguarda le esplosioni di violenza che appaiono irrazionali. Vengono proposti tre eventi: le violenze a New Orleans dopo l'uragano, gli attentati terroristici e le banlieu del 2005 a Parigi. Queste ultime erano state additate dagli europei come il fallimento del modello di integrazione liberista statunitense, ma i sostenitori di tale paradigma si sono gongolati vedendo la capitale francese messa a fuoco e fiamme dai cittadini francesi di colore, mostrando come anche la strategia statalista integrativa del vecchio continente sia inadeguata. Ciò che stupisce delle violenze nelle banlieu è l'assenza di un programma: «I contestatori dei sobborghi parigini non avevano rivendicazioni particolari. C'era solo una richiesta insistita di riconoscimento, sulla base di un vago, indistinto risentimento». Protestavano contro la reazione alle loro stesse proteste, parlavano di quanto fosse inaccettabile che Sarkozy li definisse «feccia». I sociologi e gli intellettuali hanno inutilmente tentato di tradurre il significato delle azioni dei contestatori. Queste erano solo un tentativo diretto di ottenere visibilità. Erano francesi che non vivevano ai limiti dell'inedia, le auto e le scuole bruciate erano le loro. La loro premessa più importante era la loro cittadinanza, ma di non essere pienamente francesi, ma mancavano completamente di un programma, della capacità di inserire la propria

situazione in un contesto. Il messaggio fondamentale era un «hey! Mi senti?», una verifica tanto del canale quanto del codice. Badiou definisce il nostro spazio sociale come «senza mondo», nel quale l'unica forma che la violenza può assumere è senza senso. Perfino quella nazista aveva una visione del mondo da proporre. Qui siamo perfettamente nel luogo comune dell'età postideologica: il capitalismo è il primo sistema che toglie totalità al significato, toglie prospettive e può essere applicato a qualsiasi civiltà proprio per questa ragione. I tumulti parigini vanno di pari passo con gli attentati terroristici, entrambi tipi di violenza che genera le forze che tenta di combattere, un cieco passage a l'acte dove la violenza è un'ammissione implicita di impotenza. Nell'analisi della psicologia del terrorista appare immediatamente inadeguato lo schema utilitarista, che vede nella credenza e nel desiderio le basi di un'azione calcolata razionalmente: a questo scopo si propongono spiegazioni assurde come quella delle quattrocento vergini in paradiso o cose del genere, rendendo di fatto l'Altro tremendamente ridicolo nel tentativo di comprenderlo. Ciò che manca realmente ai fondamentalisti islamici, e ciò fa di loro dei falsi fondamentalisti è l'assenza di risentimento e di invidia. Se credessero davvero di aver trovato la via, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non credenti? Essi combattendo l'Altro combattono le loro stesse tentazioni. Come può una fede robusta temere delle vignette su un giornale lontano, peraltro neppure viste? Il problema per questi fondamentalisti non è che li riteniamo inferiori, «ma che loro stessi si considerano segretamente inferiori» ciò che manca loro è una dose di autentica convinzione «razzista» della propria superiorità. L'agire contro di sé, contro il proprio interesse, non è mosso dall'altruismo, bensì dall'invidia. Accetto un mio danno a patto che sia danneggiato il mio avversario (storiella del contadino e le mucche). La persona malvagia non è l'egoista: questi è troppo occupato di sé per dedicarsi agli altri. La persona cattiva è quella che cerca la fine del godimento altrui: poiché è il godimento del bene che suscita l'invidia, non il suo possesso. Il tema d'analisi successivo è quello della tolleranza come categoria ideologica. C'è da notare in principio come ogni differenza politica venga trasformata in «culturale», rendendo inaccettabili mezzi di risoluzione come l'emancipazione, la lotta politica o la stessa lotta armata. La tolleranza è quindi il surrogato postpolitico di questa ideologia, concetto che non è assolutamente neutro o universale. Innanzitutto i valori che vengono posti al vertice sono strettamente maschili, producendo una divisione sessista del lavoro (autonomia, competizione, attività pubblica). Inoltre il concetto di libertà di scelta si dimostra molto partigiano quando aborrisce la clitoridectomia ma ignora la pressione enorme cui sono sottoposte le donne che con trattamenti cosmetici, iniezioni di botulino e dolorosissimi interventi di chirurgia plastica devono rimanere competitive nel campo sessuale. Si è tolleranti se il velo portato da una donna è frutto di una libera scelta, lo si condanna se è un'imposizione famigliare. Ma il significato del velo muta completamente nel momento in cui diventa il frutto di una

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libera scelta spirituale: non è più il segno d'appartenenza alla propria comunità musulmana. «Ciò sta a significare che il soggetto della libera scelta, nel senso multiculturale e tollerante dell'occidente, può emergere solo come risultato di un processo estremamente violento di sradicamento da un particolare ambiente, dalle proprie origini. Bisogna tenere sempre a mente l'aspetto enormemente liberatorio di questa violenza, che ci fa sperimentare il nostro stesso background culturale come contingente». Questa circostanza può fa percepire la libera scelta come un atto meramente formale di adesione all'oppressione imposta dal sistema sociale. Ma, come insegna Hegel, la forma non può essere trascurata, ha una forza propria. Nella nostra vita tutto viene fatto percepire come merce introdotta in un sistema di mercato, e ciò che rappresenta meglio una persona non è il suo background culturale, bensì la sua professione. In sostanza l'individuo non nasce già nel suo ruolo sociale, si realizza in esso. Hegel ha capito come l'universalità diventi «per sé» solo quando gli individui non percepiscono il nucleo del proprio esser coincidente con la propria posizione sociale, quando non sentono di avere un posto adatto. L'arrivo di un'universalità astratta nel reale è traumatico, irrompe con violenza. L'apparenza di egaliberté non è solo mera apparenza, ha un potere proprio. Se non si coglie la forza simbolica che ne scaturisce si cade nell'ipocrisia staliniana con le libertà borghesi: se erano fittizie, perché ne aveva tanta paura e si rifiutava così fermamente di concederle? Bisogna rovesciare il luogo comune secondo cui siamo tutti bloccati in un contesto determinato e contingente, di conseguenza sarebbe contingente ogni universalità che ne scaturisse: l'autentica scoperta avviene quando l'universalità emerge da un ambiente particolare e diventa per sé. Quando i monarchici si alleavano nel parlamento della Francia del 1848 e fingevano di favorire le istituzioni repubblicane per l'impossibilità di trovare un accordo sulla casa regnante non si rendevano conto di favorire la rivoluzione in senso borghese del paese; quando si evidenzia la matrice eurocentrica del capitalismo non si coglie la realtà fattuale dell'effettivo strappo del cordone ombelicale fra capitalismo ed Europa: questo è davvero universale in quanto non è il nome di una civiltà, ma di una macchina economica e simbolica neutrale che opera con valori asiatici come altri. «L'effettiva universalità non consiste nella sensazione che al di là delle differenze culturali siamo tutti portatori di determinati valori ecc., bensì quando si manifesta un'esperienza di negatività, un'inadeguatezza verso sé stessi. La lotta emancipatoria è quella di tutti i senza parte contro il sistema. Quando a Primo Levi veniva chiesto se si sentiva più umano o ebreo, spesso esitava. La risposta non era l'ovvio «umano in quanto ebreo». Il senso di inadeguatezza per la sua condizione di ebreo è ciò che lo rendeva davvero umano». Ora viene l'ultima analisi, nonché la più complessa: la violenza divina. Questa dimensione della violenza è proposta da Walter Benjamin, e rappresenta le brutali intrusioni della giustizia al di là della legge. È come se nel sistema del mondo le violenze accumulate venissero registrate da

qualche parte ed arrivasse a un certo punto la mano divina a ristabilire una sorta di equilibrio. Quello a cui bisogna in ogni modo resistere è la tentazione di dare un significato agli eventi catastrofici, di vederne la funzione o di sperarne una sorta ci compimento o di progettualità in una mente divina o in un grande Altro storico. Per cominciare Zizek descrive cosa questa violenza non è. Nella visione di Benjamin non rientra assolutamente l'odierna violenza del fondamentalismo religioso, piuttosto dobbiamo cercare la violenza divina nei linciaggi o nel terrore rivoluzionario organizzato. Nella visione di Sloderdjik, la cui analisi è molto citata in questo capitolo, la storia dell'occidente può essere letta come storia di rabbia. L'Iliade, il testo fondante della nostra cultura, inizia con la parola IRA. Ma mentre nella cultura greca alla rabbia veniva concesso di esplodere e sublimare, col cristianesimo si è sviluppata una concezione di proibizione della vendetta, unita dalla visione del giorno del giudizio. Quest'idea di giudizio universale e di risaldamento di tutti i debiti è stata in qualche modo secolarizzata dal progetto rivoluzionario di sinistra, nel quale l'agente giustiziere non era Dio, bensì il popolo. Il movimento di sinistra si è posto quindi come «banca di rabbia» pronta ad esplodere. Poiché dopo il momento rivoluzionario non si ristabilisce tutta la giustizia, le disuguaglianze riemergono, ecco che scoppia la seconda e autentica ondata di violenza e rabbia: il 1792 dopo l'89, ottobre dopo febbraio. Il problema è che questa rabbia non basta mai, e deve essere quindi combinata a rabbie particolari, come quelle nazionali, come quella dei contadini sfruttati per Mao ecc., con dei risentimenti covati per troppo tempo. Bisogna ora identificare cosa sia il risentimento, ossia il bisogno di rivendicare il torto subito. Non è un semplice desiderio di vendetta, non è la morale degli schiavi di Nietzsche: è la necessità di rivendicare che il crimine non è normalizzabile, non può essere assorbito o giustificato. Come si rapporta questo risentimento alla triade della giustizia punire, perdonare, dimenticare? Bisogna innanzitutto riaffermare il principio ebraico dello ius talionis come autentica forma di ripristino della giustizia: la logica misericordiosa del perdono senza vendetta e senza dimenticare lascia per sempre il criminale macchiato di infamia. Solo pagando il danno questi può finalmente sentirsi libero. L'inesplicabile gesto di immeritato perdono cristiano rende il colpevole debitore per sempre. Quando però il crimine è di entità talmente enorme da rendere assurda la triade detta, il risentimento è l'unico atteggiamento che sia praticabile (l'idea di dimenticare e perdonare l'olocausto appare tanto grottesca quanto quella di vendicarlo). La critica alla volontà emancipatrice che si esprime tramite la denuncia del risentimento covato deve essere smantellata: è proprio da questa sporcizia, da questa impurità, che sorge l'autentico desiderio di una posizione emancipatrice universale, nei termini descritti nel capitolo precedente. Questa non può essere ridotta a un basso effetto dei processi libidici. Persino Kant, spinto dal sospetto, disse che era effettivamente impossibile sapere se un'azione fosse davvero etica (e quindi libera) e non mossa da una motivazione patologica: in realtà ciò che è sconvolgente è

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che questa libertà è possibile, siamo noi che cerchiamo di ridurla a uno stato patologico. Infine cos'è. Diversamente da quella mitica, la violenza divina è una violenza pura, non sacrificale, non espiatoria della colpa. E solo la violenza mitica è manifesta: non esistono criteri universali per identificare quella divina. Questa identificazione è un atto dell'individuo e su di esso ricade la responsabilità di tale scelta. Per questo non dobbiamo aver paura a definire un evento storico come sua manifestazione (Zizek cita il terrore rivoluzionario del 92). Non può essere compiuta in nome di qualcosa, di un grande Altro, di un Dio: è un atto compiuto in solitudine nel nome dell'antico detto vox populi vox dei inteso nella sua traduzione letterale: è la decisione presa in solitudine, senza la protezione di qualcos'Altro. «Quando individui al di fuori del campo sociale strutturato irrompono e colpiscono alla cieca attuando la giustizia/vendetta, quella è certamente violenza divina». È l'irrompere delle cavallette bibliche. È il puro atto d'amore compiuto dal soggetto. Come disse Che Guevara: «a rischio di apparire ridicolo, lasciatemi dire che il vero rivoluzionario è guidato da un grande sentimento d'amore. È impossibile pensare a un autentico rivoluzionario che sia privo di questa qualità», e in un altro passo «hay que endurecerse sin perder hamàs la ternura». «E così il cerchio si chiude. Abbiamo viaggiato dal rifiuto della falsa antiviolenza all'approvazione della violenza emancipatrice». Iniziando contro l'ipocrisia di coloro i quali combattendo la violenza soggettiva ne producono una sistemica. Abbiamo poi identificato la causa prima della violenza nella paura del Prossimo, e mostrato come questa si fondi sulla violenza inerente al linguaggio. In seguito analizzato le violenze che infestano i nostri media, come le banlieu per analizzare i limiti della tolleranza come categoria ideologica. Infine analizzato la dimensione emancipatoria della violenza nella concezione di Violenza Divina di Benjamin». Da ciò tre lezioni: la prima è che condannare la violenza senza riserve è un'operazione ideologica. La seconda è che è molto difficile essere davvero violenti, compiere un atto che turbi davvero i parametri della vita sociale, che non venga riassorbito. Per ultimo, abbiamo capito che la violenza non è una dimensione che concerne soltanto l'atto, ma è distribuita fra l'atto e il contesto. Perciò anche il non-agire può essere un atto estremamente violento. MAGGIO 2010

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Città Future 64 Bibliografia del numero

Bibliografia redazionale del numero LIBRI S. AGOSTI, Lettere dalla Kirghisia, L’immagine M. ALBERT, Oltre il capitalismo, Eleuthera H. BERNOULLI, La città e il suolo urbano, Corte del Fòntego editore G. DEBORD, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai G. DEBORD, Commentari alla società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai G. DELEUZE, F. GUATTARI, L’anti – Edipo, Einaudi E. DE MARTINO, Sud e magia, Feltrinelli M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, Einaudi M. FOUCAULT, Storia della sessualità I. La volontà di sapere, Feltrinelli M. FOUCAULT, Microfisica del potere, Einaudi L. GALLINO, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l'economia, Einaudi A. GORZ, La metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri A. GORZ, Il lavoro immateriale, Bollati Boringhieri M. HARDT e A. NEGRI, Impero, Bur M. HARDT E A. NEGRI, Il lavoro di Dioniso, Manifestolibri A. HUXLEY, Il mondo nuovo, Mondadori S. LATOUCHE, L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri K. MARX, Capitale I, Editori riuniti K. MARX, Salario, prezzo e profitto, Editori riuniti G. ORWELL, 1984, Mondadori J. RIFKIN, La fine del lavoro, Mondadori R. SAVIANO, Gomorra, Mondadori D. SENNETT, L’uomo flessibile, Feltrinelli P. VALERY, Sguardi sul mondo attuale, Adelphi L. VASAPOLLO, La crisi del capitale. Compendio d’economia applicata, Jacabook S. ZIZEK, La violenza invisibile, Rizzoli

RIVISTE COLLETTIVO EPIMETEO, Quaderni di critica sociale 2, a cura del collettivo Epimeteo

TESTI IN RETE G. DELEUZE, La società del controllo, www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaD/deleuze2.htm A. FUMAGALLI, Dieci tesi sul reddito di cittadinanza, http://www.ecn.org/andrea.fumagalli/10tesi.htm A. FUMAGALLI, Il biopotere della finanza, www.sinistrainrete.info/finanza/856-andrea-fumagalli-il-biopotere-della-finanza SILVANO TAGLIAGAMBE, Dal cognitivismo al Costruzionismo, http://www.mce-fimem.it/ricerca/eduscientifica/Silvano%20Tagliagambe/Costruzionismo(1).doc

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