CINETICHE DI CRESCITA BATTERICA DI INTERESSE PER LA...

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- 1 - CINETICHE DI CRESCITA BATTERICA DI INTERESSE PER LA SICUREZZA ALIMENTARE IN CAMPI IRRADIATI CON MICROONDE A BASSA POTENZA Francesco Desogus DOTTORATO DI RICERCA IN INGEGNERIA INDUSTRIALE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI XXII CICLO

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CINETICHE DI CRESCITA BATTERICA

DI INTERESSE PER LA SICUREZZA

ALIMENTARE IN CAMPI IRRADIATI

CON MICROONDE A BASSA POTENZA

Francesco Desogus

DOTTORATO DI RICERCA IN INGEGNERIA INDUSTRIALE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI XXII CICLO

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Questa Tesi può essere utilizzata nei limiti stabiliti dalla normativa vigente sul Diritto

d’Autore (Legge 22 aprile 1941 n. 633 e succ. modificazioni e articoli da 2575 a 2583

del Codice Civile) ed esclusivamente per scopi didattici e di ricerca; è vietato qualsiasi

utilizzo per fini commerciali. In ogni caso tutti gli utilizzi devono riportare la corretta

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tutti i Paesi. I documenti depositati sono sottoposti alla legislazione italiana in vigore

nel rispetto del Diritto d’Autore, da qualunque luogo essi siano fruiti.

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CINETICHE DI CRESCITA BATTERICA

DI INTERESSE PER LA SICUREZZA

ALIMENTARE IN CAMPI IRRADIATI

CON MICROONDE A BASSA POTENZA

FRANCESCO DESOGUS

Tutor: Prof. Ing. Renzo Carta

Dottorato di Ricerca in Ingegneria Industriale Università degli Studi di Cagliari XXII Ciclo

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INDICE

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INDICE

INTRODUZIONE ......................................................................................11

1. LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

1.1 La sicurezza alimentare........................................................................... 15

1.2 Il rischio microbiologico negli alimenti .................................................. 18

1.3 I trattamenti nell’industria alimentare .................................................. 23

1.4 L’irradiazione e l’utilizzo delle microonde in campo alimentare ........ 27

1.5 Prospettive e vantaggi dell’utilizzo di microonde a bassa potenza ...... 32

2. I FONDAMENTI SCIENTIFICI

2.1 La radiazione elettromagnetica e le microonde..................................... 37

2.2 L’interazione tra radiazioni elettromagnetiche e reazioni chimiche ... 40

2.3 Gli effetti biologici della radiazione elettromagnetica .......................... 44

2.4 Effetti termici versus effetti non termici delle microonde .................... 46

2.4.1 Effetti fisico-chimici e assorbimento delle microonde................................51

2.4.2 Effetti delle microonde sulle velocità di crescita e di morte cellulari .......53

2.4.3 Alterazioni cromosomiche ed effetti genetici delle microonde ..................58

2.4.4 Effetti delle microonde su tessuti eccitabili e membrane...........................59

2.4.5 Effetti sull’omeostasi degli ioni Ca2+............................................................63

2.4.6 Altri effetti delle microonde in vitro ............................................................65

2.4.7 Considerazioni sui meccanismi degli effetti non termici............................67

2.5 Le specie microbiche indagate ................................................................ 68

2.5.1 Il Bacillus clausii ...........................................................................................68

2.5.2 La Pseudomonas aeruginosa.........................................................................70

2.5.3 Lo Staphylococcus aureus .............................................................................74

2.5.4 La Listeria monocytogenes ............................................................................75

INDICE

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3. LA SPERIMENTAZIONE

3.1 Il progetto sperimentale........................................................................... 81

3.2 Le necessità della sperimentazione ......................................................... 85

3.3 L’apparato sperimentale ......................................................................... 86

3.3.1 La “parte biologica” .....................................................................................86

3.3.2 La “parte elettronica”...................................................................................91

3.4 Le determinazioni analitiche ................................................................... 94

3.4.1 La determinazione dello “Specific Absorption Rate” ................................94

3.4.2 La misurazione della densità ottica .............................................................99

3.4.3 La conta in piastra ......................................................................................104

3.4.4 Densità ottica e conta in piastra a confronto ............................................107

3.5 La determinazione delle costanti di crescita ........................................ 110

4. I RISULTATI DELLA RICERCA

4.1 Le costanti di crescita sperimentali ...................................................... 117

4.2 Il confronto tra i dati a potenza variabile ............................................ 120

4.3 Il confronto tra i dati a frequenza variabile ........................................ 125

4.4 Commenti conclusivi e prospettive future ........................................... 130

BIBLIOGRAFIA ......................................................................................133

Ringraziamenti .................................................................................................... 153

INTRODUZIONE

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro di tesi è frutto dell’attività di ricerca triennale svolta

nell’ambito del corso di Dottorato di Ricerca, e si inserisce in un programma di

ricerca di più ampio respiro sugli effetti che l’irradiazione con microonde è in grado

di produrre sulla velocità di evoluzione di processi chimici e biologici.

I contenuti della trattazione sono costituiti dalla valutazione sperimentale degli

effetti non termici prodotti da microonde a bassissima potenza su quattro specie

batteriche, che sono il Bacillus clausii, la Pseudomonas aeruginosa, lo

Staphylococcus aureus e la Listeria monocytogenes, ed i risultati possono essere

ritenuti di interesse nell’ambito delle complesse problematiche relative alla sicurezza

alimentare.

Proprio per via di tale complessità, viene spiegato inizialmente il concetto stesso

di “sicurezza alimentare”, e si riportano delle informazioni di carattere generale sui

trattamenti più o meno diffusamente applicati nel vasto settore dell’industria

alimentare. Lo scopo di ciò, più che di effettuare una trattazione di per sé esaustiva,

è quello di fornire un inquadramento via via più specifico alla tematica principale, di

cui è certamente innegabile l’elevato grado di innovatività rispetto al panorama delle

attuali tecnologie, che sono basate essenzialmente su effetti di tipo termico.

Successivamente sono passati in rassegna (anche qui in modo forse non del tutto

esauriente, ma comunque in misura ampia) precedenti lavori e studi scientifici sul

riscontro (o meno) di effetti di varia natura (principalmente biologici) prodotti

dall’esposizione a campi elettromagnetici. Ciò sia perché si è ritenuto quantomeno

necessario fornire una sorta di “stato dell’arte”, sia perché è funzionale alla

discussione sulle relazioni tra effetti termici ed effetti non termici, e sia perché è

utile a dare perlomeno un’idea della complessità, sia teorica che pratico-

sperimentale, del problema affrontato. Solo a questo punto vengono presentati, nel

loro specifico, il progetto sperimentale, la struttura utilizzata e le tecniche analitiche

adottate.

INTRODUZIONE

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I risultati ottenuti, frutto di un’intensissima attività, e la loro non facile

interpretazione, come si avrà modo di vedere, pur lasciando aperti degli

interrogativi, allo stesso tempo fungono indubbiamente da stimolo per la curiosità

scientifica che dovrà accompagnare gli ulteriori sviluppi a cui la ricerca andrà

incontro, e per i quali la definizione e la messa a punto delle strutture e delle

complesse metodologie che sono state compiute in questi anni costituiranno una

solida ed importante base di partenza.

CAPITOLO 1

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

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1.1 La sicurezza alimentare

Con l’espressione “sicurezza alimentare” si è tradizionalmente indicata la

possibilità di garantire, in modo costante e generalizzato, acqua ed alimenti in

quantità sufficienti al soddisfacimento del fabbisogno energetico dell’essere umano,

al fine di consentirne la sopravvivenza. A livello globale, poiché sono ancora

numerose le aree del pianeta dove il problema dell’accesso all’acqua e al cibo da

parte di intere popolazioni persiste, e dove questo è ben lungi da soluzioni di

carattere definitivo, tale definizione continua a mantenere il suo significato

originario.

Nei Paesi industrializzati le popolazioni, o perlomeno per una buona parte di

queste, hanno ormai raggiunto elevati livelli di benessere; in Italia, per esempio, a

partire dal secondo dopoguerra, grazie al forte sviluppo economico che ha

interessato più o meno tutte le classi sociali, il problema della fame può dirsi

debellato, e lo stesso è avvenuto, pur talvolta in tempi e con modalità differenti, in

altre società. Questa evoluzione si è riflessa, tra le altre cose, anche sul concetto

stesso di “sicurezza alimentare”, con il quale, perlomeno quando ci si riferisce ai

Paesi industrializzati, poiché si dà per scontata la disponibilità di cibo e acqua, si

intende piuttosto la possibilità di approvvigionamento di questi in condizioni

igieniche; pertanto la dicitura “sicurezza alimentare” può essere ormai, alla luce

delle considerazioni appena fatte, intesa come sinonimo di “igiene alimentare”, il cui

scopo deve essere quello di garantire la buona qualità di un cibo o di una bevanda

sotto il profilo igienico e sanitario.

E sono proprio i forti cambiamenti economici e sociali che hanno trasformato le

società durante il processo di industrializzazione a trovare una diretta

corrispondenza nelle profonde modificazioni che hanno parallelamente interessato il

sistema alimentare, passato da uno stato in cui il produttore dei generi alimentari ne

era, nella maggior parte dei casi, anche il consumatore, ad una situazione di sempre

meno stretto rapporto tra produzione e consumo, diventati entrambi di massa e

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

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assoggettati quasi esclusivamente alle logiche economiche di mercato. Merci in

viaggio su distanze spesso lunghe, scambi commerciali, prodotti provenienti da

Paesi la cui legislazione in materia agricola e alimentare è meno stringente, ma

anche fenomeni come la grande distribuzione e la ristorazione di massa, con il

necessario largo uso di prodotti conservati, che devono spesso essere mantenuti

all’interno della catena del freddo, hanno aperto scenari con problemi e punti critici

sempre nuovi, cui le normative in materia, e di conseguenza la tecnologia, hanno

dovuto trovare delle soluzioni. Inoltre, il continuo lancio sul mercato di nuovi

prodotti alimentari fa sì che l’innovazione tecnologica in questo campo sia

notevolmente rapida e oggetto di ingenti (ma comunque remunerativi) sforzi

economici da parte dei produttori. Evidentemente questi ultimi non possono essere,

comunque, gli unici soggetti interessati, e l’adozione di prassi idonee alla

salvaguardia dei necessari requisiti di igiene e salubrità dei prodotti alimentari deve

interessare tutta la filiera e dunque, oltre agli stessi produttori, anche tutti coloro che

intervengono nei successivi passaggi che il prodotto subisce fino a giungere al

consumatore finale.

A livello mondiale, gli organismi maggiormente impegnati in materia di

sicurezza alimentare sono l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione

e l’Agricoltura (FAO) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS); nel 1963 le

due istituzioni hanno dato vita al “Codex Alimentarius”, un programma creato al

fine di sviluppare standard e linee guida orientati alla protezione della salute dei

consumatori, promuovendo la lealtà delle pratiche eseguite nel commercio dei

prodotti alimentari e il coordinamento dei lavori in materia di normativa alimentare

svolti da organizzazioni internazionali governative e non governative (Joint

FAO/WHO Food Standards Programme, 2006). La Commissione preposta, istituita

allo scopo, ha la responsabilità di mettere a punto le norme e, dopo una valutazione

da parte dei governi nazionali, di pubblicarle come standard, linee guida o

raccomandazioni a livello regionale o mondiale, a seconda del caso; può trattarsi di

norme generali o specifiche, legate ad un particolare alimento o a un gruppo di

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

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alimenti, o concernenti i processi produttivi o ancora le modalità di

regolamentazione nazionale per la sicurezza e la salute dei consumatori.

È più recente l’interessamento europeo in materia di sicurezza alimentare, o

quantomeno lo è l’elevazione della sicurezza alimentare a priorità: nel 2000 è stato

presentato il “Libro Bianco sulla Sicurezza Alimentare” della Commissione Europea

(Commissione delle Comunità Europee, 2000), che descriveva l’insieme delle azioni

necessarie al completamento e alla modernizzazione della legislazione dell’Unione

Europea in materia di alimentazione, al fine di renderla più coerente e di consentirne

al meglio l’applicazione. A seguito di ciò, e con lo scopo di adottare un piano

d’azione integrato che coniugasse qualità e sicurezza nel rispetto delle produzioni

tipiche, l’Unione Europea ha dato vita, nel 2002, all’Autorità Europea per la

Sicurezza Alimentare (EFSA, “European Food Safety Authority”), con sede a

Parma, che è dotata di una commissione di esperti e tecnici, indipendenti dai

rispettivi governi, con funzioni consultive (da parte della Commissione Europea) e

di indirizzo per le scelte di politica agroalimentare e sanitaria; nel 2004 in Italia è

stato creato il Comitato Nazionale per la Sicurezza Alimentare (CNSA), con

funzioni di interfaccia dell’EFSA.

In linea generale, gli strumenti utili a raggiungere gli obiettivi di sicurezza

alimentare, che sono molteplici, possono essere obbligatori, in quanto imposti dalla

Legge, o non obbligatori ma comunque opportuni. Tra quelli obbligatori vi è

l’HACCP (“Hazard Analysis and Critical Control Points”), che è un sistema di

autocontrollo che i produttori di alimenti devono mettere in atto al fine di valutare i

pericoli e stimare i rischi connessi col processo produttivo per poter stabilire misure

di controllo e prevenzione dell’insorgenza di problemi igienici e sanitari. La novità

introdotta dal sistema HACCP consiste nello spostamento dei controlli, prima

effettuati a valle del processo produttivo sul prodotto finito, verso tutte le fasi della

produzione, consentendo l’attuazione di misure preventive; i controlli sono anche

estesi alle fasi di distribuzione dell’alimento, ugualmente soggette alla presenza di

punti critici. Il sistema HACCP fu introdotto nell’Unione Europea con la Direttiva

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

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43/93/CEE (recepita in Italia con il D. Lgs. 155/97), che prevede l’obbligo di

applicarlo per tutti gli operatori del settore alimentare; tale normativa è stata poi

sostituita dal Regolamento CE 852/2004, recepito in Italia con il D. Lgs. 193/07, che

ha esteso l’applicazione dell’HACCP anche al settore della produzione agricola e ne

ha reso alcuni aspetti maggiormente flessibili nell’applicazione alle piccole imprese.

Tra le misure invece non obbligatorie, e dunque applicate su base volontaria, vi sono

quelle riassunte e codificate nello Standard ISO 22000:2005 (allineato con le

precedenti norme ISO 9000 e ISO 14000), che norma la tracciabilità delle filiere

agroalimentari e armonizza gli standard nazionali e internazionali preesistenti in

materia di sicurezza alimentare e HACCP; in base a questo, ogni singolo anello delle

catene di produzione e distribuzione degli alimenti viene interessato, compresi gli

operatori coinvolti in modo indiretto, come per esempio i produttori degli

imballaggi, i servizi di pulizia e di disinfestazione, etc..

Quanto detto sinora mostra come vi sia la necessità di norme chiare e allo stesso

tempo sufficientemente dettagliate, in quanto la sicurezza alimentare può essere

garantita solo con l’applicazione di adeguate pratiche di prevenzione e controllo dei

rischi nella produzione e nella manipolazione degli alimenti. Se tali misure non

vengono applicate, o non sono applicate correttamente, gli alimenti possono divenire

oggetto di contaminazioni da parte di diversi agenti, di natura fisica, chimica e/o

microbiologica, e perciò causa di numerose patologie, talvolta non gravi, ma che in

alcuni casi possono anche rivelarsi letali.

1.2 Il rischio microbiologico negli alimenti

Tra i principali fattori di rischio (di natura fisica, chimica e microbiologica)

connessi con l’assunzione di alimenti vi sono prodotti fitosanitari, contaminanti

organici persistenti (come policlorobifenili, idrocarburi policiclici aromatici,

policloro-dibenzo-p-diossine, policloro-dibenzo-furani), metalli pesanti (come

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

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cadmio, piombo, arsenico, mercurio), OGM (Organismi Geneticamente Modificati),

micotossine e organismi patogeni di vario genere (Tiecco, 2001); questi agenti

possono entrare in contatto con gli alimenti in quanto normalmente presenti

nell’acqua, nell’aria, nel suolo, oppure a causa di sistemi di produzione e

conservazione igienicamente non adeguati (quando non si tratti di manipolazioni

fraudolente). Ci si concentrerà, in questo paragrafo, sul solo rischio di natura

microbiologica, in quanto funzionale con il resto della trattazione e con gli obiettivi

del lavoro sperimentale descritto nella presente tesi.

Gran parte delle specie di microorganismi è non solo utile, ma spesso addirittura

necessaria per la vita umana, basti pensare ai batteri che colonizzano l’intestino e

che vivono in un vero e proprio rapporto simbiotico con l’uomo. La presenza di

microorganismi negli alimenti, che in linea generale può essere dovuta alla naturale

contaminazione di questi ultimi negli ambienti di produzione e lavorazione o

all’aggiunta volontaria di innesti (naturali o selezionati) da parte dell’uomo, è spesso

inevitabile, e altrettanto spesso necessaria, in quanto differenti specie e biotipi sono

parte integrante di numerosi alimenti fermentati, per la preparazione dei quali

svolgono un ruolo centrale (Bourgeois et al., 1990). Tra questi vi sono batteri, lieviti

e muffe che sono essenziali per la trasformazione di alcuni prodotti agricoli in

alimenti con caratteristiche di commestibilità e conservabilità enormemente

superiori, basti pensare alle applicazioni più antiche, come la panificazione e la

vinificazione (che hanno luogo grazie a saccaromiceti), e poi ad innumerevoli

prodotti caseari (ottenuti con lattofermenti e muffe), all’aceto, ai salumi, ai prodotti

da forno, alla birra, e a numerosissimi altri alimenti di normale uso quotidiano; vi

sono poi anche i batteri lattici (Lactobacillus, Bifidobacterium, Enterococcus, etc.),

che sono legati alla preparazione di latti acidi (come yogurt e simili) e che, se

ingeriti vivi in numero sufficientemente elevato, possono avere effetti positivi sulla

salute dell’organismo ospite, rafforzandone l’ecosistema intestinale, al punto che

sono considerati essi stessi un alimento e sono definiti probiotici per via dei loro

effetti benefici (Galli Volonterio, 2005). Molti microorganismi sono parte essenziale

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

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di processi biochimici che consentono la trasformazione della materia prima in

numerosi derivati con composizione chimica, struttura e aroma anche parecchio

differenti, agendo sia come entità cellulari che tramite estratti enzimatici

appositamente rilasciati su zuccheri, proteine e lipidi; in questo senso, le diverse

tecnologie produttive, a seconda di come selezionano i biotipi microbici e ne

definiscono lo sviluppo, risultano determinanti sulla qualità percepita dal

consumatore (Ray, 2004).

Può tuttavia capitare, in particolar modo se non vengono applicate rigorose

regole igieniche nella preparazione, nella cottura o nella conservazione degli

alimenti, che le popolazioni microbiche eventualmente presenti nell’alimento

possano crescere oltre certi limiti, provocando trasformazioni indesiderate quali

ammuffimenti, marcimenti, formazione di mucillagini, insorgenza di odori e sapori

anomali, che si traducono nel degrado delle caratteristiche di qualità e di

commestibilità e dunque nella commerciabilità dell’alimento stesso (Galli

Volonterio, 2005). Può trattarsi, nella maggior parte dei casi, di microorganismi di

specie indesiderate che hanno contaminato l’alimento alla fonte (contaminazione

primaria) o durante la lavorazione (contaminazione secondaria): il primo caso è

quello relativo, per esempio, alle carni di animali portatori di alcune malattie o

batteri, o a verdure, frutta, pesci, uova o latte già contaminati in partenza; la seconda

eventualità è inerente agli ambienti, alle attrezzature, ai comportamenti degli

operatori e all’eventualità che l’uomo stesso sia portatore sano di malattie o batteri

(Bourgeois et al., 1990). Spesso però (e qui sta forse il vero problema) gli alimenti

contaminati non presentano un aspetto (colore, consistenza, etc.), odori o sapori

anomali, e dunque non destano sospetti e vengono ugualmente consumati: ecco che

l’ingestione di questi può causare malattie (tossinfezioni) alimentari da

microorganismi patogeni, che sono stati patologici conseguenti al consumo di

alimenti contenenti i microorganismi patogeni o anche solo una tossina di origine

batterica (Tiecco, 2001). Vi sono a proposito almeno due casi possibili: il primo è

quello delle intossicazioni, che sono causate dalla presenza, nell’alimento, di tossine

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

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prodotte in quantità sufficienti dai microorganismi (detti perciò tossigeni) che sono

riusciti a moltiplicarsi nell’alimento prima della sua ingestione, per i quali l’alimento

ha rappresentato il substrato indispensabile alla crescita; essendo la tossina e non i

microorganismi la causa diretta della sintomatologia, questi ultimi possono anche

non essere più presenti nell’alimento. La seconda possibilità è quella delle

tossinfezioni in senso stretto che sono dovute, invece, all’attività combinata di

tossine e microorganismi che le producono, i quali possono continuare a

moltiplicarsi nell’intestino; in questa ultima eventualità non è strettamente

necessario che la popolazione batterica si sia moltiplicata già nell’alimento prima

della sua ingestione, e tali infezioni possono perciò svilupparsi anche con una carica

infettante relativamente modesta: si possono così avere infezioni enteroinvasive,

nelle quali si ha la semplice moltiplicazione dei microorganismi nel tratto

intestinale, e infezioni enterotossiche, nelle quali il microorganismo infettante

produce le enterotossine all’interno del tratto intestinale.

I fattori che possono favorire o meno la colonizzazione di un alimento e lo

sviluppo in esso di microorganismi sono essenzialmente, oltre alla composizione

chimica dell’alimento (presenza di sali, zuccheri, etc.), temperatura, umidità,

pressione parziale di ossigeno, potenziale di ossido-riduzione e acidità (Fellows,

2000); gli alimenti maggiormente soggetti al fenomeno sono carni e derivati,

prodotti a base di uova, latticini e derivati (come gelati e creme), prodotti ittici e

salse.

Le patologie forse più note e pericolose sono il botulismo (causato dal

Clostridium botulinum) e la salmonellosi (dovuta al batterio Salmonella

typhimurium), ma diversi e anche gravi disturbi possono essere arrecati da alimenti

contaminati da Escherichia coli, Clostridium perfringens, Staphylococcus aureus,

Streptococcus faecalis, Bacillus cereus, Listeria monocytogenes, Yersinia

enterocolitica, Campylobacter jejuni, Vibrio parahoemolyticus, Toxoplasma gondii

(Bourgeois et al., 1990). In linea generale tali microorganismi patogeni, oltre ad

ambienti prossimi alla neutralità, prediligono temperature prossime ai 37°C (che è la

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

- 22 -

temperatura corporea), considerazione sulla quale, come verrà meglio spiegato più

avanti (paragrafo 3.1), è stato impostato il lavoro sperimentale oggetto della presente

tesi.

Alla luce di tutto quanto detto sinora, risulta evidente la necessità di garantire

opportune condizioni di sicurezza adottando adeguate tecniche di confezionamento,

conservazione, distribuzione, commercializzazione e somministrazione, in modo tale

da evitare la creazione di condizioni per le quali nell’alimento, che spesso già di per

sé è un ottimo terreno di coltura, sia consentito lo sviluppo dei microorganismi che

sono di norma già presenti come fatto fisiologico e naturale: solo così è infatti

possibile ridurre al minimo il rischio di contaminazione degli alimenti e di

conseguenza proteggere la salute umana. Nei Paesi industrializzati ormai, grazie

all’utilizzo di appropriate tecnologie e al buon livello igienico-sanitario, i problemi

di contaminazione e sviluppo microbico negli alimenti possono dirsi forse limitati,

ma in alcuni casi specifici, o per taluni soggetti a rischio, come anziani,

immunodepressi o portatori di patologie debilitanti, possono rivelarsi anche piuttosto

gravi (Tiecco, 2001). E in ogni caso, nonostante la messa in atto di tutti i più

moderni sistemi di prevenzione e delle procedure di autocontrollo (come l’HACCP),

allo stato attuale non è possibile escludere che delle contaminazioni possano avere

luogo, seppure in una piccola o piccolissima percentuale dei casi, sia perché, come

detto, i microorganismi potenzialmente pericolosi pervadono qualsiasi ambiente e

sono diffusamente presenti nel mondo vegetale e animale, sia perché, per esigenze di

mercato, una fetta sempre più consistente della produzione alimentare si sta

spostando verso gli alimenti “minimamente trattati”, cioè il più possibile simili a

quelli freschi, e dunque sottoposti quanto meno possibile a trattamenti severi e

all’utilizzo di additivi e conservanti: l’obiettivo diventa quello di controllare la

moltiplicazione microbica in modo tale da evitare che la numerosità batterica superi

determinate soglie di nocività (Galli Volonterio, 2005). Dunque non si può, né forse

si potrà mai, parlare di eliminazione, bensì solo di minimizzazione, del rischio.

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

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1.3 I trattamenti nell’industria alimentare

L’utilizzo delle tecnologie nel settore alimentare ha sempre avuto,

essenzialmente, un duplice scopo: migliorare le caratteristiche di appetibilità e di

digeribilità degli alimenti e garantirne la conservabilità fino al consumatore.

Oggigiorno, tra gli obiettivi perseguiti, vi sono sicuramente lo sviluppo di nuovi

prodotti, il conferimento all’alimento di determinate caratteristiche (magari più

vicine alle richieste del mercato), il miglioramento delle proprietà nutrizionali e

organolettiche, oltre naturalmente al garantimento delle condizioni di sicurezza. Uno

dei primi processi nati con il principale obiettivo della tutela della salute pubblica fu

la pastorizzazione del latte. Le tecnologie alimentari rivestono un ruolo centrale

nell’HACCP, in quanto hanno molto spesso un ruolo rilevante nel controllo del

rischio, e la comprensione dei meccanismi che le caratterizzano e dei parametri che

influenzano i processi è necessaria, se non fondamentale, per la corretta scelta delle

misure di controllo e per l’efficacia di queste, che spesso consistono

nell’applicazione di una combinazione, anche complessa, di trattamenti.

I trattamenti alimentari (che possono essere di tipo fisico o chimico), in linea del

tutto generale, possono essere indirizzati verso tre diversi aspetti: rendere sicuro un

determinato alimento, controllare la presenza di eventuali contaminanti (prevenendo

la moltiplicazione di microorganismi o la produzione di tossine), prevenire la

ricontaminazione dopo l’applicazione dei trattamenti (Fellows, 2000). Come già si è

avuto modo di spiegare, rendere sicuro (dal punto di vista microbiologico così come

da tutti gli altri) un alimento non significa annullare completamente il rischio, bensì

ridurlo ad un livello accettabile; tra i trattamenti volti a ciò vi sono i trattamenti

termici tradizionali, l’irradiazione, la disinfezione chimica, congelamento e

surgelazione (applicabili in questo caso solo contro i parassiti), l’uso di alte

pressioni. I trattamenti termici costituiscono sicuramente la categoria più comune (e

forse, allo stato attuale, più efficace) per la distruzione dei batteri patogeni; vi sono

cottura, arrostimento, bollitura, frittura, pastorizzazione e sterilizzazione, ottenibili, a

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

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seconda dei casi, per contatto con aria calda, vapore, acqua calda o con una

superficie riscaldata, o mediante riscaldamento con microonde; il principio

fondamentale sul quale si basano risiede nel comportamento dei microorganismi alle

differenti temperature. Tutte le specie di microorganismi, infatti, hanno un intervallo

di temperatura ottimale all’interno del quale vivono e/o si riproducono (vedi

Fig. 1.1); al di sopra di tale intervallo la crescita batterica risulta inibita, e per

temperature ancora superiori le cellule muoiono, in quanto intervengono meccanismi

di denaturazione degli acidi nucleici, delle proteine e degli enzimi; la maggior parte

dei batteri patogeni sono mesofili, e dunque crescono in modo ottimale a

temperature comprese tra i 5-20°C e i 40-45°C. Per motivi di completezza e

precisione occorre dire che anche congelamento e surgelazione sono, a rigore,

trattamenti termici, in quanto svolgono la loro azione per effetto di una variazione

della temperatura dell’alimento, tuttavia, almeno nella maggior parte dei casi, si

raggiungono temperature che non comportano la morte dei microorganismi, ma che

si limitano ad impedirne la crescita.

temperatura

vel

oci

tà d

i cr

esci

ta

Figura 1.1. Tipica forma delle curva della velocità di crescita microbica come

funzione della temperatura.

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

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Poiché il processo di morte delle cellule segue in linea di massima una cinetica

del primo ordine (Teixeira, 1992), indicando con N il numero di cellule presente in

un dato alimento al tempo t, con 0N il numero di cellule presente al tempo 0t , e con

Dk la costante cinetica del processo di morte, si ha:

( )[ ]0D0 t-tkexpNN ⋅−⋅= (1.1)

Nella pratica (Teixeira, 1992; Ramaswamy e Singh, 1997) ci si riferisce al cosiddetto

“tempo di riduzione decimale”, comunemente indicato con D, che è il tempo

necessario, ad una data temperatura, affinché la popolazione microbica si riduca del

90%; D rappresenta dunque una misura della resistenza termica di una determinata

specie di microorganismi a quella temperatura, ed è pari a:

=

N

NLog

t-tD

0

0 (1.2)

La relazione tra D e Dk , intervenendo un cambiamento di base del logaritmo, è la

seguente:

( )Dk

110lnD ⋅= (1.3)

Tra le specie che mostrano una maggiore resistenza al calore vi sono Staphylococcus

aureus e Listeria monocytogenes (Ramaswamy et al., 1989); le spore sono di norma

molto più resistenti, e sono distrutte solo da temperature superiori a 100°C, e tra le

spore più resistenti vi sono quelle del Clostridium botulinum. Il valore di D, oltre

che dipendere dalla specie microbica, è influenzato dalle caratteristiche chimico-

fisiche del mezzo (attività dell’acqua, acidità, composizione, etc.) e dallo stato

fisiologico delle cellule (età, stato di crescita, etc.) (Ramaswamy e Singh, 1997).

Ramaswamy et al. (1989) riportano una nutrita gamma di dati cinetici relativi a

diverse specie e condizioni ambientali.

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

- 26 -

I trattamenti termici hanno effetti non solo sulle popolazioni microbiche, ma

anche su caratteristiche e proprietà dell’alimento quali consistenza, colore, sapore,

enzimi, vitamine, etc.; per questo è sempre necessario ricercare il miglior

compromesso possibile tra l’abbattimento del rischio e i cambiamenti (degradativi)

di composizione, nutrizionali e organolettici. Da questa esigenza è nato un processo

come quello della pastorizzazione, che può essere condotto a diverse combinazioni

temperatura-tempo (Jay et al., 2009): a bassa (63°C per 30 minuti), ad alta (72°C per

15 secondi) e ad altissima (135°C per 1 secondo) temperatura; tuttavia permangono,

anche in casi come questo, i problemi legati al fatto che la temperatura non è

uniforme in tutto il corpo dell’alimento per via della naturale formazione di gradienti

che dipendono dalle caratteristiche (composizione, struttura, stato fisico) del

prodotto, dalle sue dimensioni, dalla forma e dalle modalità di trasferimento del

calore dal mezzo riscaldante al prodotto stesso. Per completezza si cita qui anche il

riscaldamento ohmico degli alimenti, ottenuto con il passaggio di una corrente

elettrica attraverso il materiale da trattare. L’utilizzo di campi elettrici per ottenere la

pastorizzazione di alimenti, infatti, è stato riportato fin dal 1935 da Getchell (1935),

che fece passare della corrente alternata direttamente attraverso del latte, generando

così del calore che aveva l’effetto di inattivare i microorganismi presenti.

Attualmente le tecnologie di conservazione degli alimenti basate sull’utilizzo di forti

campi elettrici pulsati vengono sviluppate con l’intento di incontrare gli standard

commerciali dei prodotti (Zhang et al., 1994), e sono tanto più promettenti quanto

più cresce la domanda di prodotti commerciali alimentari simili ai prodotti freschi,

senza perdite eccessive in termini di aromi, nutrienti e vitamine; Zhang et al. (1995)

hanno studiato un processo che combinasse un trattamento alimentare continuo con

campi elettrici pulsati e il confezionamento in condizioni asettiche.

Tra i trattamenti volti a controllare lo sviluppo di microorganismi vi sono

quelli basati sulla riduzione dell’acqua libera (essiccamento, cristallizzazione,

congelamento, utilizzo di agenti leganti, etc.), che ha un peso notevole sulla velocità

di crescita e sulla produzione di tossine in quanto condiziona le cinetiche delle

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

- 27 -

reazioni chimiche ed enzimatiche, anche se vi sono specie, come lo Staphylococcus

aureus, che possono crescere anche con livelli di attività dell’acqua piuttosto bassi;

vi sono inoltre i trattamenti volti alla modifica dell’acidità dell’alimento, per creare

livelli di pH sfavorevoli per i microorganismi (acidificazione, fermentazione, etc.), i

trattamenti basati sul controllo del potenziale di ossido-riduzione, soprattutto tramite

la limitazione della disponibilità di ossigeno (confezionamento sottovuoto,

confezionamento in atmosfera modificata con gas inerti) e quelli che prevedono

l’utilizzo di agenti chimici antimicrobici (sali conservanti, batteriostatici, acidi

organici, etc.) (Ramaswamy e Singh, 1997).

Tra i trattamenti il cui scopo è prevenire la contaminazione (o la

ricontaminazione) rientrano il confezionamento, nonché l’applicazione delle corrette

norme igieniche nella progettazione e nel mantenimento di strutture, linee di

lavorazione e apparecchiature. Vi possono essere, infine, trattamenti combinati,

come per esempio la pastorizzazione congiunta con il confezionamento asettico, la

salatura, l’affumicatura, e molti altri.

1.4 L’irradiazione e l’utilizzo delle microonde in campo alimentare

Nel paragrafo 1.3 si è solo accennato all’esistenza di trattamenti basati in

qualche modo sull’irradiazione; a questo punto pare necessario, in una trattazione

che non può essere, per ovvi motivi di spazio e di coerenza con gli obiettivi stessi

del lavoro di tesi, esaustiva di tutte le tecnologie applicate nell’industria alimentare,

dedicare loro uno spazio esclusivo che aiuti il lettore a focalizzare la sua attenzione

su ciò a cui maggiormente si coniuga il lavoro sperimentale che è stato svolto.

Le tecnologie che prevedono l’irradiazione degli alimenti, richiamando la

“classificazione” che è stata fatta nel paragrafo 1.3, possono essere inserite tra quelle

che hanno come scopo la riduzione del rischio microbiologico, andando ad incidere

(limitandola) sulla velocità di crescita microbica e sulla produzione di tossine; altri

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

- 28 -

obiettivi dell’irradiazione possono essere la distruzione o l’inattivazione di insetti,

oppure la prevenzione di alcune tipologie di modificazione dell’alimento (per

esempio l’eccessiva maturazione di alcuni tipi di frutta o la germogliazione di bulbi

e tuberi).

Se l’interesse verso l’irradiazione (con radiazioni ionizzanti) degli alimenti è

nato già nel 1921 (Josephson, 1983), come riportato da Fellows (2000), le radiazioni

attualmente più comunemente utilizzate sono i raggi gamma (capaci di una maggiore

profondità di penetrazione) e i raggi X (con profondità di penetrazione inferiori); il

dosaggio può essere:

• basso (fino a 1 kJ/kg): la radiazione in questo caso è utilizzata per la

disinfestazione da insetti, come antigermogliante o come ritardante dei

processi fisiologici (maturazione) della frutta;

• medio (tra 1 e 10 kJ/kg): questi dosaggi sono utilizzati per aumentare

la vita commerciale di alimenti facilmente deperibili come prodotti

ittici o alcuni tipi di frutta, per eliminare microorganismi patogeni da

pesce e carni e per migliorare le proprietà di alcuni alimenti (per

esempio nella preparazione di vegetali disidratati e succhi);

• alto (tra 10 e 50 kJ/kg): in quest’ultimo caso si ottiene la

sterilizzazione industriale di carni, prodotti ittici e altro, spesso in

combinazione con trattamenti termici leggeri.

Di norma, le dosi necessarie aumentano al decrescere delle dimensioni degli

organismi da eliminare, nell’ordine: parassiti, batteri Gram-negativi, batteri Gram-

positivi e muffe, spore e lieviti, virus; l’irradiazione non ha effetti su tossine

batteriche e micotossine. Organismi quali l’Agenzia Internazionale per l’Energia

Atomica (IAEA), la FAO e l’OMS hanno congiuntamente ritenuto (Organizzazione

Mondiale della Sanità, 1977; 1981) che dosi fino a 10 kJ/kg provochino alterazioni

minimali su macronutrienti e micronutrienti, o comunque paragonabili a quelle

provocate dai trattamenti termici.

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

- 29 -

I principali vantaggi dell’irradiazione degli alimenti, secondo Wilkinson e Gould

(1996), sono:

• minime variazioni organolettiche per via del minimo riscaldamento

indotto negli alimenti trattati;

• peggioramento delle caratteristiche nutrizionali paragonabile a quello

indotto dalle altre tecniche di conservazione;

• possibilità di trattare anche alimenti già confezionati o congelati;

• possibilità di preservare alimenti freschi dal deterioramento senza

l’uso di conservanti chimici;

• bassi costi energetici e operativi.

Dall’altra parte vi sono gli svantaggi messi in luce da Webb e Lang (1987) e da Welt

(1985), che sembrano essere il maggiore ostacolo alla diffusione di tali trattamenti:

• possibilità di “recuperare” alimenti con cariche batteriche troppo

elevate e dunque diversamente invendibili;

• impossibilità di distinguere l’insalubrità di un alimento nel caso in cui

vengano eliminati selettivamente i microorganismi che causano il

deterioramento apparente e non vengano eliminati i batteri patogeni;

• rischi derivanti dalla possibilità che vengano distrutti i batteri

produttori di tossine solo dopo che la contaminazione dell’alimento da

parte delle tossine ha avuto luogo;

• possibile sviluppo, da parte dei microorganismi, di meccanismi di

resistenza alla radiazione;

• perdita di valore nutrizionale;

• sostanziale inadeguatezza delle procedure analitiche per il

riconoscimento degli alimenti trattati (con possibilità di frodi);

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

- 30 -

• diffidenza da parte del consumatore dovuta a timori circa la

radioattività indotta e al pregiudizio nei confronti dell’industria

nucleare.

A proposito di quest’ultimo punto, Gaunt (1986) riporta come, nel caso dei raggi

gamma, l’energia emessa è assolutamente insufficiente per indurre radioattività negli

alimenti, mentre nel caso dei raggi X vi può essere una radioattività indotta, ma

comunque a livelli insignificanti (nella peggiore delle ipotesi non superiore al 2%

del livello di massima accettabilità). Per quanto attiene invece le procedure

analitiche per l’identificazione degli alimenti trattati, Stevenson (1994) e Delincée

(1998) passano in rassegna le metodologie a disposizione, basate essenzialmente su

analisi indirette di diversi effetti fisici, chimici e biologici indotti dalla radiazione.

Tauxe (2001) è sostanzialmente ottimista sulla futura diffusione dell’uso delle

radiazioni ionizzanti in campo alimentare in quanto i vantaggi sarebbero di gran

lunga maggiori rispetto agli svantaggi, ai quali peraltro sarebbe possibile trovare dei

rimedi efficaci.

È ancora Fellows (2000) ad indicare quale sia il meccanismo di azione dei raggi

X e dei raggi gamma, che si distinguono da altre forme di radiazione per via della

loro capacità ionizzante: i prodotti della ionizzazione, che possono essere sia

elettricamente carichi (ioni) che neutri (radicali liberi), reagiscono ulteriormente

provocando nel materiale irradiato delle modificazioni che vanno sotto il nome di

“radiolisi”; è quest’ultima il fenomeno responsabile della distruzione di

microorganismi, insetti e parassiti durante l’irradiazione dell’alimento che li

contiene. Inoltre, nei cibi ad elevato contenuto d’acqua, questa viene ionizzata, e si

producono poi idrogeno, perossido di idrogeno e i radicali ⋅H , ⋅OH e ⋅2HO ;

questi ultimi hanno una vita molto breve (inferiore a 10-5 s), ma sufficiente per

distruggere le cellule batteriche. L’azione distruttiva esercitata sui microorganismi si

manifesta attraverso modificazioni indotte a livello della membrana cellulare,

dell’attività enzimatica metabolica e soprattutto degli acidi nucleici. Componenti

liposolubili e acidi grassi essenziali con l’irradiazione vengono spesso perduti, e

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

- 31 -

alcuni alimenti, come per esempio i latticini, non sono idonei ad essere sottoposti a

questi trattamenti perche inducono lo sviluppo di un aroma rancido; la presenza di

ossigeno accelera questo processo, motivo per cui, in genere, l’irradiazione delle

carni avviene sottovuoto. Josephson et al. (1975) sostengono che, ai livelli di

dosaggio utilizzati commercialmente, la radiazione ha scarsissimi effetti sulla

digeribilità delle proteine e sulla composizione degli amminoacidi; Kraybill (1982),

evidenziando un certo disaccordo tra gli studiosi circa i danni nutrizionali dovuti

all’irradiazione, ha fornito un quadro dettagliato di tali aspetti.

Andando ad esaminare le tipologie di radiazioni non ionizzanti utilizzate

nell’industria alimentare, vi sono anche i raggi ultravioletti (radiazioni UV) e le

microonde. Le radiazioni UV, caratterizzate da una piccola profondità di

penetrazione (se paragonata a quella delle radiazioni ionizzanti), possono essere utili

per la distruzione di microorganismi presenti nell’ambiente, su superfici o in strati

liquidi sottili, ma hanno scarsa efficacia, per esempio, contro lieviti e spore, sia

batteriche che di muffe (Fellows, 2000). Per quanto riguarda l’utilizzo delle

microonde, invece, si tratta di una tecnologia di riscaldamento dielettrico, attraverso

la quale si ottiene il riscaldamento del materiale per il rapidissimo movimento

vibrazionale delle molecole dipolari (in particolare di quelle dell’acqua, ma sono

interessati anche lipidi, proteine e zuccheri) indotto dal campo magnetico alternato;

se le dimensioni del materiale sono modeste, il riscaldamento ottenuto è

sufficientemente uniforme (Buchachenko e Frankevich, 1993). Quindi, nelle

applicazioni industriali, le microonde presentano, rispetto ai sistemi tradizionali, il

vantaggio di consentire un riscaldamento volumetrico, in quanto si basano sulla

veicolazione, al materiale, di energia e non di calore: il riscaldamento che ne risulta

è più rapido e selettivo, ed è relativamente più rapido per quei materiali che non

sono buoni conduttori di calore; occorre più attenzione se la struttura dell’alimento è

eterogenea, in quanto la velocità di riscaldamento può assumere valori differenti tra

le diverse parti e possono così formarsi aree con temperature anche notevolmente

diverse tra loro. Le microonde, nei processi alimentari, sono utilizzate per operazioni

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

- 32 -

quali cottura, essiccamento, pastorizzazione e sterilizzazione. L’utilizzo delle

microonde comporta un maggior consumo di energia elettrica rispetto alle tecniche

di riscaldamento convenzionali, ma allo stesso tempo consente un minore utilizzo di

combustibili, e costituisce un risparmio in termini di energia primaria; la migliore

efficienza energetica si avrebbe probabilmente con l’accoppiamento della tecnologia

a microonde con le tecnologie tradizionali (Fellows, 2000).

1.5 Prospettive e vantaggi dell’utilizzo di microonde a bassa potenza

È opportuno, a questo punto, illustrare quali siano le motivazioni che stanno alla

base della scelta delle microonde a bassa potenza: l’elemento essenziale è

sicuramente che solo l’utilizzo di basse potenze può consentire la discrimiazione tra

effetti termici ed effetti non termici delle microonde. E l’eventuale esistenza di

effetti non termici, oltre ad essere un fatto di sicura e notevole rilevanza da un punto

di vista prettamente scientifico, potrebbe aprire la strada alla messa a punto di

trattamenti alimentari innovativi e non più basati sull’innalzamento termico

dell’alimento, con indubbi vantaggi in termini sia qualitativi che economici. In

prima istanza, infatti, operando a temperature notevolmente più basse rispetto a

quelle dei trattamenti termici convenzionali (ai quali si contrapporrebbe un

trattamento fondato sugli effetti non termici della radiazione sui microorganismi

patogeni), sarebbe possibile preservare ulteriormente le proprietà nutrizionali e

organolettiche degli alimenti trattati mantenendoli, da questo punto di vista,

maggiormente simili ai corrispondenti prodotti freschi: se anche con l’utilizzo di

radiazioni ionizzanti a bassi dosaggi si possono produrre gli stessi effetti della

pastorizzazione ottenuta mediante riscaldamento convenzionale, ma con minori

effetti su proprietà organolettiche (Steele e Engel, 1992), si può a buona ragione

ritenere che tali proprietà siano ancor meno intaccate dall’utilizzo di radiazioni non

ionizzanti. E non sarebbe affatto trascurabile l’impatto economico che avrebbe, sul

settore alimentare, l’introduzione di trattamenti non termici che, per loro stessa

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI E I PRESUPPOSTI DEL LAVORO

- 33 -

natura, comporterebbero notevoli risparmi energetici. Se dunque, in linea di

massima, ad un aumento della qualità dei cibi (ma la regola vale anche per qualsiasi

altro prodotto industriale) corrisponde un aumento dei costi, in questo caso tale

assunto sembrerebbe violato da una tipologia di trattamento più economica e

caratterizzata da risultati qualitativamente migliori; ciò aprirebbe probabilmente la

strada verso trattamenti a freddo “paralleli” a quelli termici, e si potrebbero forse

utilizzare realmente diciture come “pastorizzazione a freddo”, che Crawford e Ruff

(1996), già più di dieci anni fa, proposero di sostituire alla dicitura di “irradiazione”.

Non è da escludere, tuttavia, anche il possibile sfruttamento sinergico di effetti

termici e non termici; fenomeni di sinergia tra effetti termici e altri effetti (di natura

non meglio precisata) sono infatti già presenti negli studi di letteratura: a tal

proposito è assai interessante (per quanto riguarda, in questo caso, l’efficacia del

processo di pastorizzazione del latte) il lavoro di Kamau et al. (1990), che hanno

sperimentato la distruzione per via termica delle specie Listeria monocytogenes e

Staphylococcus aureus immediatamente successiva all’attivazione della

lattoperossidasi (uno degli enzimi più abbondanti del latte), riscontrando una

sinergia tra le due azioni battericide e un conseguente aumento del margine di

sicurezza durante il processo di pastorizzazione rispetto ai due patogeni presenti nel

latte.

CAPITOLO 2

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 37 -

2.1 La radiazione elettromagnetica e le microonde

Per “radiazione elettromagnetica” (Mazzoldi et al., 2002; Halliday et al., 2006)

si intende la propagazione nello spazio dell’energia (detta energia elettromagnetica)

associata a campi elettrici e magnetici variabili nel tempo, generati da cariche e

correnti oscillanti, intercorrelati tra loro secondo le equazioni di Maxwell. Le

radiazioni elettromagnetiche sono caratterizzate da tre principali grandezze fisiche

tra loro correlate, che sono:

• lunghezza d’onda (comunemente indicata col simbolo λ, è la distanza

tra punti equivalenti di una forma d’onda, per esempio tra due

massimi);

• frequenza (comunemente indicata con ν, è il numero di cicli della

forma d’onda che si ripetono nell’unità di tempo, ed è il reciproco del

periodo, che è a sua volta l’intervallo di tempo che intercorre tra gli

istanti corrispondenti a due punti equivalenti della forma d’onda);

• energia fotonica (indicata con E), ovvero l’energia trasmessa dalla

radiazione tra due punti nello spazio nella direzione di propagazione.

Lunghezza d’onda e frequenza sono legate tra loro dalla relazione:

cνλ =⋅ (2.1)

dove c è una costante fisica che rappresenta la velocità di propagazione delle onde

elettromagnetiche (ovvero della luce) nel vuoto, ed è pari a 299.792,458 km/s;

l’energia fotonica è invece legata alla frequenza dalla relazione:

νhnE ⋅⋅= (2.2)

dove h è la costante di Planck ed n è il numero quantico principale, ed è perciò un

intero positivo.

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 38 -

Le frequenze possibili delle onde elettromagnetiche coprono un vastissimo

intervallo di valori, detto spettro elettromagnetico; per motivi di praticità,

quest’ultimo è convenzionalmente suddiviso in regioni che assumono

denominazioni differenti a seconda dell’intervallo di frequenze (o di lunghezze

d’onda) al quale sono associate; vi sono delle distinzioni anche in relazione

all’energia associata e al tipo di utilizzo che ne viene fatto. Sono individuate le

seguenti tipologie di radiazione con frequenza crescente (e lunghezza d’onda

decrescente, in quanto le due grandezze sono inversamente proporzionali):

• onde radio ( MHz 300ν ≤ ; m 1λ ≥ );

• microonde ( GHz 300MHz 300ν ÷= ; m 1mm 1λ ÷= );

• radiazione infrarossa ( THz 284GHz 300ν ÷= ; mm 1nm 007λ ÷= );

• luce visibile ( THz 749THz 284ν ÷= ; nm 700nm 004λ ÷= );

• raggi ultravioletti ( PHz 30THz 749ν ÷= ; nm 400nm 10λ ÷= );

• raggi X ( EHz 300PHz 30ν ÷= ; nm 10pm 1λ ÷= );

• raggi gamma ( EHz 300ν ≥ ; pm 1λ ≤ ).

Restringendo lo spazio di analisi al campo di nostro interesse, le microonde sono

chiamate così in quanto effettivamente molto corte, e la loro distinzione rispetto alle

onde radio, che peraltro non è poi così netta, deriva essenzialmente dalle diverse

applicazioni tecnologiche; le microonde sono in realtà comprese nelle parti UHF

(“Ultra High Frequency”, con GHz 3MHz 300ν ÷= ), SHF (“Super High

Frequency”, con GHz 30GHz 3ν ÷= ) e EHF (“Extremely High Frequency”, con

GHz 300GHz 30ν ÷= ) dello spettro radio; il limite superiore di 300 GHz è invece

legato a motivazioni fisiche, in quanto oltre tale valore di frequenza l’assorbimento

della radiazione elettromagnetica da parte dell’atmosfera terrestre diventa

notevolmente intenso, al punto che questa può essere considerata opaca a quelle

frequenze.

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 39 -

La maggior parte delle applicazioni delle microonde ricadono nel campo

compreso tra 1 e 80 GHz. Tra i principali utilizzi vi sono:

• ponti radio, ovvero trasmissione di segnali analogici (come ad

esempio quelli televisivi) o digitali (con velocità di trasmissione fino a

qualche centinaia di megabit al secondo) tra antenne paraboliche

terrestri, su distanze nell’ordine delle decine o centinaia di chilometri

e all’interno di bande di frequenza specificamente fissate dagli

organismi regolatori nazionali e internazionali nell’intervallo tra 2 e

80 GHz, con potenze per ogni canale portante comprese tra una

frazione di watt a qualche watt al massimo;

• comunicazione, alla frequenza di 1,8 GHz, tra i telefoni cellulari GSM

e le stazioni radio base;

• forni a microonde, che utilizzano un generatore a magnetron di

microonde alla frequenza di 2,45 GHz per la cottura o il riscaldamento

dei cibi;

• comunicazione con i satelliti, in quanto a differenza delle onde radio

di frequenza inferiore non subiscono interferenze durante

l’attraversamento dell’atmosfera terrestre e offrono, inoltre, una

maggiore larghezza di banda, con conseguente maggiore velocità di

trasmissione dei dati;

• radar, che utilizzano le microonde per il rilevamento a distanza della

presenza e del movimento di oggetti;

• protocolli di comunicazione senza fili, quali bluetooth e IEEE 802.11,

che utilizza microonde a 2,4 GHz di frequenza nelle varianti g e b, e a

5 GHz nella variante a;

• servizi di accesso ad Internet a lunga distanza (anche 25 km) che si

stanno ultimamente diffondendo in alcuni paesi e che operano a

frequenze comprese tra 3,5 e 4 GHz;

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 40 -

• servizi di diffusione televisiva, di accesso ad Internet e di telefonia su

cavo coassiale che utilizzano microonde a bassa frequenza;

• utilizzi più di carattere scientifico e futuristico sono il maser (un

dispositivo simile al laser ma operante nello spettro delle microonde),

le cavità risonanti utilizzate negli acceleratori di particelle e il

trasferimento di energia a distanza, che oggi trova applicazione in

armamenti di nuova generazione, e che già dagli anni ’70 del secolo

scorso la NASA studiò pensando alla possibilità di trasferire sulla

Terra l’energia prodotta su satelliti dotati di ampi pannelli solari (vi

sono tutt’ora progetti di centrali solari orbitanti).

Le microonde (Mazzoldi et al., 2002; Halliday et al., 2006) possono essere

generate mediante due diversi tipi di tecnologia: dispositivi a stato solido e

dispositivi con tubi a vuoto. I primi si basano sull’utilizzo di semiconduttori (silicio

o arseniuro di gallio) e sono i transistor ad effetto campo (FET), i transistor a

giunzione bipolare (BJT), i diodi Gunn e IMPATT, e i dispositivi integrati a

microonde (MMIC, acronimo di “monolithic microwave integrated circuit”),

realizzati a partire da wafer di arseniuro di gallio, mentre versioni più particolari di

transistor vengono utilizzate per le frequenze più alte; i secondi funzionano grazie al

movimento balistico degli elettroni nel vuoto sotto il controllo di opportuni campi

elettrici o magnetici, e sono il magnetron, il klystron, il travelling wave tube (TWT)

e il gyrotron.

2.2 L’interazione tra radiazioni elettromagnetiche e reazioni chimiche

Qualsiasi processo chimico, la sua fattibilità e i risultati da esso ottenibili non

possono essere studiati se non in stretto legame con le implicazioni di carattere

energetico associate al processo stesso: la quantità di energia richiesta, le modalità di

veicolazione di tale energia verso le specie reagenti, l’efficienza con la quale

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 41 -

l’energia viene utilizzata nel processo. Una reazione chimica consiste infatti in un

processo fisico di ridisposizione di atomi ed elettroni avente come risultato la

trasformazione di molecole. Vale a questo punto parafrasare un concetto espresso

dal famoso fisico Feynman (1992), secondo il quale la chimica sarebbe la branca più

complessa della fisica, irraggiungibile da parte degli stessi fisici, in quanto sarebbero

troppe le interazioni, dipendenti dal tempo, tra elettroni ed elettroni e tra elettroni e

nuclei, che hanno luogo durante un evento chimico.

La trasformazione chimica di sostanze e materiali è un processo costoso in

termini energetici e dunque tutti i principi del controllo e della promozione delle

reazioni chimiche hanno origine dal dogma dell’energia, ovvero dal concetto

secondo il quale il disavanzo energetico può essere controbilanciato o riducendo i

costi energetici oppure assicurando efficienti modalità di trasmissione dell’energia

alle molecole reagenti. Tra l’ampia gamma di metodi utilizzabili per promuovere e

controllare le reazioni chimiche, basati sul principio sopra esposto, l’azione dei

campi magnetici è sempre stata la possibilità forse meno considerata (Sterna et al.,

1980), e ciò si spiega con l’ovvia motivazione che l’energia magnetica che può

essere fornita a specie reagenti, molecole, atomi, ioni, radicali, è di entità in fin dei

conti trascurabile persino con campi magnetici di intensità elevatissima; può essere

anche milioni di volte più piccola dell’energia termica, e centinaia di milioni di volte

più piccola di quella effettivamente necessaria per la reazione chimica

(Buchachenko, 1974). Tuttavia, oltre alla questione energetica, vi è una proprietà

fisica di primaria importanza nella chimica, il momento angolare (spin) degli

elettroni e dei nuclei dei reagenti. Infatti, tutte le reazioni chimiche sono selettive

rispetto allo spin, cioè sono possibili solo in alcune condizioni di spin e non lo sono

affatto in condizioni di spin differenti: ciò implica che reagenti chimicamente

identici possiedano reattività completamente differenti a seconda delle condizioni

dello spin, e che se le condizioni dello spin non sono favorevoli, la reazione non

possa avvenire neanche se sarebbe consentita dalle condizioni energetiche

(Carrington e McLachlan, 1967; Salikhov et al., 1984; Atkins e Friedman, 2004). Le

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 42 -

uniche interazioni che sono in grado di modificare lo spin dei reagenti e mutare uno

stato non reattivo in uno reattivo (e viceversa) sono proprio quelle magnetiche, che

non apportano nessun contributo in termini energetici, ma che possono invece

modificare lo spin (Geacintov et al., 1969; 1970). Nelle molecole diamagnetiche gli

spin elettronici sono orientanti secondo versi opposti, ed è possibile dunque un solo

stato, mentre nei radicali, che possiedono un elettrone spaiato, gli stati possibili sono

due (doppietto). Le specie radicaliche, dunque, per via dell’elettrone spaiato, sono le

più soggette al fenomeno (Deutch, 1972), insieme alle specie in possesso di due

elettroni spaiati, e a ioni inorganici paramagnetici quali per esempio Fe+++, Fe++ e

Cu++ (Harberkorn, 1977). Un atomo di ossigeno possiede due elettroni spaiati con

spin concordi, per cui a livello molecolare (O2) sono possibili tre diverse

combinazioni (tripletto), così come accade per altre molecole, e la complessità può

aumentare a quattro combinazioni (quartetto), cinque (quintetto), e così via

(Schulten e Wolynes, 1978). Le transizioni tra stati di spin elettronico sono

responsabili della Risonanza di Spin Elettronico (ESR), mentre le transizioni tra stati

di spin nucleare sono alla base della Risonanza Magnetica Nucleare (NMR); queste

transizioni sono indotte da un campo magnetico di microonde alla frequenza di

precessione elettronica o nucleare, e sono accompagnate da modificazioni nello spin;

il campo magnetico può essere imposto dall’esterno, come accade per la ESR e per

la NMR, oppure esso può essere generato dalle vibrazioni reticolari stocastiche che

hanno luogo a livello molecolare, e che producono campi magnetici fluttuanti e

rumorosi di differenti frequenze e ampiezze; la componente spettrale di questo

rumore con frequenza pari a quella della precessione elettronica o nucleare induce le

transizioni tra differenti stati di spin (Evans et al., 1973; Zientara e Freed, 1979).

Il principio fondamentale è che, in una reazione chimica elementare, lo spin

totale si conserva, cioè sia gli spin che le loro proiezioni non cambiano; per questo

motivo si può dire che le reazioni chimiche sono selettive rispetto allo spin, e sono

possibili solo se lo spin totale dei prodotti è uguale a quello dei reagenti, mentre non

lo sono affatto in caso contrario (Steiner e Ulrich, 1989).

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 43 -

Anche reazioni chimiche di elevata importanza biologica sono selettive rispetto

allo spin, e perciò magnetosensibili; un esempio è fornito dalle reazioni di

fotosintesi, che manifestano effetti indotti dalla componente magnetica delle

microonde (Buchachenko e Frankevich, 1993). A livello di biologia cellulare e

chimica degli enzimi vi sono numerose osservazioni di effetti indotti dal campo

magnetico, tra cui (solo per citarne alcune) quelle di Atkins e Lambert (1975),

Barnothy J. M. (1963), Barnothy J. M. et al. (1956), Barnothy M. F. (1964),

Barnothy M. F. e Barnothy J. M. (1958), Barnothy M. F. e Sumegi (1969), Grissom

(1992).

Da un punto di vista generale, sono due i requisiti che devono essere soddisfatti

affinché lo spin totale della coppia di reagenti sia adeguato ai prodotti della reazione:

da una parte devono sussistere interazioni magnetiche tra la coppia che possano

influire sullo spin, dall’altra l’accoppiamento deve durare un tempo sufficiente

perché le interazioni magnetiche possano modificare lo stato dello spin (Noyes,

1954); in via del tutto approssimata si può affermare che tale tempo è inversamente

proporzionale all’energia magnetica necessaria per la conversione dello spin (Razi

Naqvi et al., 1980). L’energia magnetica necessaria alla conversione dello spin può

essere anche da quattro a nove ordini di grandezza più piccola dell’energia dei

legami chimici, tuttavia la sua peculiarità di poter governare lo spin la rendono

indispensabile alla reazione (Mozumder, 1968).

La selettività delle reazioni chimiche rispetto allo spin e le dinamiche relative

allo spin sono alla base delle due modalità di generazione degli effetti magnetici, che

sono gli effetti connaturati indotti dalla reazione stessa e quelli indotti dalle onde

elettromagnetiche (Merrifield et al., 1969; Johnson e Merrifield, 1970).

L’influenza delle onde elettromagnetiche sull’evoluzione delle reazioni

chimiche è basata sull’interazione tra il campo magnetico dell’onda elettromagnetica

e i momenti magnetici elementari delle particelle che prendono parte alla reazione;

l’interazione può in linea di principio mutare lo stato di tali particelle, influenzando

così la probabilità che abbia luogo la reazione tra di esse (Boiden Pedersen e Freed,

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 44 -

1974; den Hollander, 1975). Secondo quest’ottica, l’influenza della potenza

elettromagnetica assorbita sarebbe simile a quella fotochimica prodotta dalla luce

(Buchachenko et al., 1987).

2.3 Gli effetti biologici della radiazione elettromagnetica

Lo studio delle interazioni tra onde elettromagnetiche non ionizzanti e sistemi

biologici complessi, a partire dai semplici aggregati molecolari fino alle cellule, agli

organi e agli interi organismi costituisce una parte assai rilevante della più generale

ricerca sulle interazioni tra campi elettromagnetici e materia. Oltre a questo,

importante stimolo è stata ed è l’opinione pubblica nei confronti dei possibili effetti

nocivi che i campi elettromagnetici potrebbero avere sulla salute, in particolare per

quanto riguarda le linee di trasmissione di corrente alternata in alta tensione, gli

schermi video, le procedure di diagnostica per immagini quale la Risonanza

Magnetica Nucleare, etc.. Particolare interesse è scaturito dai riscontri

epidemiologici che hanno messo in relazione l’esposizione di esseri umani a campi

elettromagnetici deboli e il rischio di sviluppare patologie. Negli ultimi decenni del

secolo scorso sono andati aumentando gli studi sperimentali sugli effetti biologici e

medici dei campi elettromagnetici, e sono stati di pari passo proposti ipotetici

meccanismi che potessero essere coinvolti nella generazione di quegli effetti

(Buchachenko e Frankevich, 1993).

In linea di principio entrambe le componenti del campo elettromagnetico,

ovvero quella elettrica e quella magnetica, possono essere responsabili di effetti

biologici. La componente elettrica interagisce con la parte dielettrica del sistema

biologico preso in considerazione, inducendo perdite dielettriche e di conseguenza

un incremento della temperatura che a sua volta crea modificazioni nei processi

biologici (attività enzimatica, trasduzione dei segnali attraverso la membrana

cellulare, sintesi di DNA e RNA, regolazione dell’omeostasi intracellulare degli ioni

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 45 -

Ca++, etc.), e di conseguenza effetti macroscopici che a questi sono legati, quali

velocità di crescita cellulare e risposte biologiche dell’organismo. La componente

magnetica, invece, interagirebbe con gli intermedi paramagnetici (quali paia di

radicali o paia di radicali ionici), producendo meccanismi mediati attraverso lo spin

(Salikhov et al., 1984; Steiner e Ulrich, 1989; Buchachenko e Frankevich, 1993).

Entrambe le componenti offrono insomma, almeno da un punto di vista teorico,

meccanismi che, anche in presenza di campi elettromagnetici relativamente deboli,

sono in grado di influenzare funzioni biologiche. Tuttavia parrebbe che nei processi

biochimici non vi siano paia di radicali o paia di radicali ionici dotate di

caratteristiche dinamiche e magnetiche tali da produrre effetti significativi e dunque

influenzabili e chimicamente modificabili da parte di un campo elettromagnetico; e

anche se esistono paia dotate di queste caratteristiche come intermedi, questi hanno

probabilmente tempi di vita o di rilassamento troppo brevi (per esempio, paia che

includono gli ioni Fe++ o Fe+++) perché il campo elettromagnetico possa interferire

con le dinamiche dello spin (Harberkorn, 1977; Buchachenko e Frankevich, 1993).

Quanto detto pocanzi porta alla conclusione che il principale interesse sia costituito

dalla componente elettrica del campo. Di importanza basilare è l’eterogeneità

microstrutturale che caratterizza i sistemi biologici a livello di cellule, organi e

organismi, che ha almeno due importanti conseguenze. La prima è che tale

eterogeneità produce una distribuzione non omogenea del campo elettromagnetico

nei vari elementi strutturali, per cui vi è la possibilità che l’ampiezza locale del

campo sia molto maggiore del suo valore medio, anche di diversi ordini di

grandezza; la seconda è che la non equivalenza degli elementi strutturali di cellule

ed organi rispetto alle proprietà dielettriche e di conducibilità si traduce in un

assorbimento del campo fortemente non omogeneo, e quindi anche la temperatura e

le correnti ioniche locali possono superare, anche di parecchio, i loro rispettivi valori

medi (Grissom, 1992). Come risultato di ciò, pur trattandosi di fenomeni locali e

aventi perciò luogo su una scala (microscopica) non rilevabile con le metodologie

standard di misura, essi possono tuttavia avere un peso considerevole sulle funzioni

cellulari; tali effetti possono poi ripercuotersi sulla stessa attività cellulare, sulle

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 46 -

membrane e, risalendo la scala di grandezza, sull’intero organismo, concetto che

pare in accordo con la maggior parte delle determinazioni sperimentali

(Buchachenko e Frankevich, 1993); per esempio, Akoev (1986) ha riscontrato effetti

biologici indotti dal campo elettromagnetico solo su sistemi caratterizzati da

eterogeneità a livello microscopico e che invece non si manifestavano in sistemi con

la stessa natura chimica ma strutturalmente omogenei (Sarvarov e Salikhov, 1976).

2.4 Effetti termici versus effetti non termici delle microonde

L’identificazione e la valutazione degli effetti biologici provocati dalle

microonde è materia complessa e controversa. Per via forse dell’effettiva scarsità di

informazioni sui meccanismi di interazione tra microonde e sistemi biologici, si è

andata costituendo, in parte della comunità scientifica, una forte opinione che i

campi di microonde sono incapaci di generare effetti biologici diversi dal

riscaldamento (Michaelson, 1991). Sono relativamente recente è l’interesse per gli

effetti non termici delle microonde sui tessuti (D’Andrea et al., 1979; Adey, 1981;

D’Andrea et al., 1986a; D’Andrea et al., 1986b), ma sono ormai in tanti ad avere

verificato l’esistenza di tali effetti. Una delle possibili spiegazioni di carattere

generale degli effetti biologici delle microonde è che queste ultime sono un

fenomeno praticamente assente nell’ambiente elettromagnetico naturale e ciò,

secondo Golant (1989) e Betzky (1992), potrebbe avere almeno due importanti

conseguenze: in primo luogo gli organismi viventi, durante il corso dell’evoluzione,

potrebbero non avere sviluppato un adattamento alle microonde; secondariamente,

alcune specifiche caratteristiche delle microonde e l’assenza di rumore ambientale

esterno potrebbero avere reso tale banda elettromagnetica adatta per la

comunicazione sia intracellulare che intercellulare; tali argomentazioni, per quanto

forse non adeguatamente dimostrate, sono tuttavia utilizzabili come possibile

spiegazione dell’elevata sensibilità che gli organismi sembrano mostrare nei

confronti delle microonde; e infatti, secondo gli autori, sono numerosi gli effetti

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 47 -

biologici delle microonde riportati dalla letteratura scientifica, molti dei quali

difficilmente conciliabili con la profondità di penetrazione (meno di un millimetro)

nei tessuti biologici. Sono diversi i modelli teorici sviluppati per spiegare le

peculiarità ed i meccanismi primari dell’azione biologica delle microonde (Fröhlich,

1980; 1988; Golant, 1989; Grundler e Kaiser, 1992; Belyaev et al., 1993a; Kaiser,

1995).

Vi sono prove che le microonde provochino differenti effetti biologici a seconda

della forza del campo, della frequenza, della forma d’onda, della modulazione e

della durata dell’esposizione (Rai et al., 1994a; 1994b). Alcuni di questi effetti erano

stati in precedenza principalmente attribuiti al riscaldamento apportato dalle

microonde (Gandhi, 1987), ma studi più recenti hanno mostrato o suggerito che vi

sono o vi possono essere effetti non termici, in termini di energia richiesta per

diversi tipi di trasformazioni molecolari e altre alterazioni, indotti dalle microonde.

Una delle maggiori difficoltà nella distinzione tra effetti termici ed effetti non

termici è quella di mantenere la temperatura costante durante l’irradiazione delle

microonde; il problema è stato affrontato da Kozempel et al. (1997), che hanno

messo a punto un processo discontinuo mediante il quale è stato possibile ridurre la

numerosità di popolazioni di Pediococcus sp. in soluzioni zuccherine mantenendo

una temperatura (nominale) di 35°C per tempi inferiori ai nove minuti per mezzo di

un efficiente sistema di rimozione del calore. Un altro metodo, a tal proposito, è

stato messo a punto da Sato (2001), che nello stesso lavoro, a 45, 47,5 e 50°C (ma

non a 35) ha osservato un incremento della velocità di morte dei batteri di

Escherichia coli esposti alle microonde rispetto alla velocità alle stesse temperature

ma senza microonde, proponendo come meccanismo controllante modificazioni

nella struttura secondaria e terziaria delle proteine dei microorganismi, indotte dalle

rapide oscillazioni del campo elettrico. Geveke et al. (2002) hanno sviluppato un

processo sperimentale continuo a microonde allo scopo di isolare gli effetti non

termici da quelli termici durante una ipotetica operazione di pastorizzazione non

termica di liquidi; il processo si basa sul rapido apporto di energia termica al sistema

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 48 -

alimentare mediante l’utilizzo delle microonde, combinato con un altrettanto rapido

sistema di rimozione mediante scambiatore termico; gli autori hanno riscontrato che,

alla temperatura di 35°C e con tempi di esposizione tra 3 e 8 minuti, non vi era una

significativa riduzione dei lieviti né della carica batterica se le microonde non

venivano abbinate a calore, a condizioni di pH sfavorevoli per i microorganismi o ad

antimicrobici. Culkin e Fung (1975) hanno constatato che batteri di Escherichia coli

e di Salmonella typhimurium venivano distrutti se esposti a microonde alla

frequenza di 915 MHz, e che la loro morte avveniva a temperature inferiori ed in

tempi minori rispetto ai metodi di riscaldamento convenzionali; essi hanno inoltre

notato effetti differenti a seconda dell’intensità del campo; i risultati ottenuti li

hanno condotti ad ipotizzare meccanismi sottesi ai fenomeni osservati che andassero

oltre il normale effetto termico associato alle microonde. Singh et al. (1994) hanno

studiato l’azione di microonde continue e modulate sull’alga Nostoc muscorum,

riportando che gli effetti fisiologici prodotti sull’alga sono diversi in funzione della

frequenza dell’irradiamento; gli effetti mediati dalla presenza dell’acqua, secondo

gli autori, sarebbero inoltre una prova della capacità dell’acqua di “ricordare” le

caratteristiche del campo elettromagnetico applicato per un periodo di tempo più

esteso di quello della stessa applicazione. L’effetto di microonde modulate con onde

quadre di varie frequenze sul comportamento fisiologico del cianobatterio Anabaena

doliolum è stato studiato da Samarketu et al. (1996), esponendo il microorganismo

con la soluzione nutriente per un’ora a microonde di frequenza 9,575 GHz e con

densità di potenza pari a 0,658 mW/cm2; lo studio ha rivelato effetti non termici

delle microonde consistenti in modificazioni dei flussi ionici, delle velocità e/o della

direzione di reazioni biochimiche. Moore et al. (1979) hanno osservato un calo

reversibile di virulenza di cellule di Agrobacterium tumefaciens dopo l’esposizione a

microonde alla frequenza di 10 GHz e con una densità di potenza di 0,58 mW/cm2

per tempi compresi tra 30 e 120 minuti, attribuendo la causa di ciò ad un

cambiamento (temporaneo) in uno o più processi metabolici direttamente connessi

con la virulenza come effetto non termico; la virulenza tornava ai livelli originari

dopo 12 ore. Dreyfuss e Chipley (1980) hanno provato a caratterizzare alcuni degli

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 49 -

effetti prodotti dall’irradiazione con microonde su cellule di Staphylococcus aureus,

registrando variazioni nell’attività di diversi enzimi metabolici sostanzialmente

diverse da quelle normalmente legate al riscaldamento convenzionale, e deducendo

da ciò la natura non termica degli effetti riscontrati. È stato riportato da Justeen

(1979) che microonde a bassa intensità possono generare effetti comportamentali

senza modificare la temperatura interna dei soggetti esposti; sono stati inoltre

riportati numerosi effetti di natura sia fisiologica (Ray e Behari, 1990) che

biochimica (Kunjilwar e Behari, 1993) su ratti anche dopo esposizione a microonde

a bassa potenza. Banik et al. (2002a; 2002b) hanno tentato di studiare l’effetto

dell’esposizione alle microonde sulla biometanazione mediante l’utilizzo di un

ceppo batterico metanogenico (Methanosarcina barkeri DSM 804); colture

anaerobiche di questo microorganismo sono state irradiate con microonde

(frequenza compresa tra 13,5 e 36,5 GHz) per 2 ore al fine di valutarne gli effetti

sulla crescita batterica e sul processo di biometanazione; si è appurato che, alle

frequenze utilizzate, la generazione di biogas è risultata più rapida, ed è aumentato il

contenuto di metano nel biogas stesso; anche la velocità di crescita batterica è

risultata incrementata, e la maggior produzione di biogas si è avuta per 31,5 GHz di

frequenza.

I limiti di esposizione per l’uomo alle onde elettromagnetiche imposti dalle varie

legislazioni nazionali (normati in Italia dal D. M. 381/98, “Regolamento recante

norme per la determinazione dei tetti di radiofrequenza compatibili con la salute

umana”) o indicati da organismi sovranazionali tra cui in primis l’ICNIRP

(International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection), al quale fa

riferimento la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, si basano

essenzialmente sul concetto che occorra stare al di sotto della soglia oltre la quale si

manifestano significativi effetti termici, e non tengono dunque conto della

possibilità che l’esposizione ai campi elettromagnetici possa causare effetti biologici

(intendendo con tale dicitura modificazioni a livello di cellula, tessuto o intero

organismo di tipo fisiologico, biochimico e comportamentale) e sulla salute umana

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 50 -

(intendendo con ciò modificazioni che siano nocive per l’organismo) di natura non

termica anche ben al di sotto di tale soglia. Certo non è semplice operare una netta

distinzione tra zone in cui si ha un tipo di effetti e zone in cui si ha l’altro tipo, infatti

il livello energetico necessario a causare effetti termici può dipendere da diversi

aspetti, quali il tipo di sistema biologico esposto (coltura cellulare, animale piccolo o

grande, corpo umano), la frequenza della radiazione, la polarizzazione del campo, il

controllo della temperatura ambiente intorno al sistema biologico. Per questo

motivo, volendo addivenire ad una definizione di effetto termico e di effetto non

termico, si può dire che per effetto termico si intende un effetto che si manifesta

quando viene assorbita una quantità di energia elettromagnetica sufficiente a

provocare, nel campione, un incremento di temperatura misurabile (dunque

dell’ordine di grandezza di almeno 0,1°C), mentre per effetto non termico può

intendersi, al contrario, qualunque effetto associato con l’assorbimento di un

quantitativo di energia inferiore a quello associabile alle normali fluttuazioni

termiche del sistema biologico esaminato.

Quando ci si riferisce alla quantità di energia assorbita da un sistema biologico,

nella letteratura si utilizza in via preferenziale il SAR, acronimo di “Specific

Absorption Rate”, che dimensionalmente corrisponde ad una potenza (assorbita) per

unità di massa di tessuto biologico esposto alla radiazione; è evidente che,

trattandosi di una grandezza che tiene conto della potenza effettivamente assorbita

dal tessuto, e che è quindi differente rispetto a quella del campo, il SAR non è

misurabile direttamente, ma deve essere ricavato per via indiretta attraverso

specifiche prove sperimentali o stimato mediante modelli matematici, come per

esempio è stato fatto da Durney et al. (1986) per diversi tipi di substrato.

Per quanto riguarda gli effetti termici, esistono in letteratura moltissimi studi e

dati che consentono di valutarli, derivati sia da prove in vitro (su sistemi cellulari o

componenti subcellulari) che in vivo (su animali esposti alla radiazione per tempi

variabili), che sono alla base delle linee guida sui livelli di esposizione tollerabili

dall’essere umano, consigliati da enti sovranazionali quali l’NCRP (U. S. National

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 51 -

Council on Radiation Protection and Measurement, 1986), l’IRPA (International

Radiation Protection Association, 1988) e l’OMS (Organizzazione Mondiale della

Sanità, 1993); si tratta, chiaramente, di prove di laboratorio in cui la causa del

riscaldamento è stata tale da poter provocare una risposta misurabile da parte del

sistema biologico in oggetto; mutazioni genetiche provocate da microonde, almeno

stando alle recensioni di Blackman (1984), Elder (1987) e Michaelson e Lin (1987),

sono state riscontrate in studi sperimentali solo a fronte di incrementi di temperatura

sostanziali. Ciò sarebbe in accordo con l’osservazione che, alla frequenza delle

microonde, l’energia fotonica è ancora molto bassa, e dunque non in grado di

provocare danni diretti al DNA; vi sono inoltre conferme di carattere sperimentale di

colture cellulari esposte a microonde che hanno visto variazioni del genoma solo

oltre una certa soglia di incremento termico (Elder e Cahill, 1984; Cleary, 1990a;

Liburdy, 1992). Nel caso di studi su animali, gli effetti osservati di radiazioni nella

frequenza delle onde radio e delle microonde sono vari e comprendono variazioni

nel sistema corporeo di termoregolazione, nelle funzioni endocrine, nel sistema

cardiovascolare, nel sistema immunitario, nell’attività del sistema nervoso e nel

comportamento (Roberts et al., 1986; Elder, 1987; Cleary, 1990b); tali

modificazioni sono quasi sempre reversibili, e cessano al cessare dell’esposizione, a

meno che la potenza assorbita non diventi abbastanza elevata (oltre 100 W/kg) da

provocare effetti irreversibili nell’animale quali problemi nello sviluppo fetale,

insorgenza di cateratta, ustioni, cauterizzazione di ferite.

2.4.1 Effetti fisico-chimici e assorbimento delle microonde

Alcuni studi hanno mostrato effetti specifici delle microonde su sistemi

biochimici ma in assenza di organismi viventi, per esempio in soluzioni di

biomolecole e persino in acqua pura. Fesenko e Gluvstein (1995) hanno analizzato

gli effetti delle microonde sulle oscillazioni periodiche della tensione durante la

scarica di un condensatore ad acqua, costituito da un campione di acqua distillata in

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 52 -

un capillare di un millimetro, esposto a microonde mediante una guida d’onda aperta

all’estremità; gli stessi hanno constatato differenze nel comportamento dell’acqua

relativamente alla scarica al variare delle condizioni di irradiamento, ipotizzando che

l’acqua fosse caratterizzata da una sorta di “memoria” a lungo termine, non

spiegabile con le conoscenze disponibili, che sottintenderebbe ad alcuni degli effetti

biologici ascritti alle microonde. Gli effetti diretti delle microonde sulle proprietà

dell’acqua pura sono stati osservati anche da Berezhinskiĭ et al. (1993) e Litvinov et

al. (1994), mediante interferometria olografica: i campioni di fluido sono stati

attraversati da raggi laser (alla lunghezza d’onda di 630 nm), e sono state analizzate

ampiezza e numero delle bande di interferenza registrate; sono stati riscontrati effetti

alla frequenza di irradiazione di 51,5 GHz (ma non a 41,5 GHz), tra l’altro

maggiormente accentuati nel caso che i campioni fossero costituiti da soluzioni al

2% di plasma umano, non giustificabili con l’esiguo aumento di temperatura

prodotto (pari a circa 1°C) se paragonati a quelli registrati inducendo lo stesso

aumento di temperatura con modalità di riscaldamento convenzionali. Secondo

Belyakov et al. (1989) anche altre proprietà del plasma, quali la costante dielettrica e

il coefficiente di assorbimento, possono essere alterate dall’irradiazione con

microonde, in misura differente a seconda del particolare soggetto donatore del

sangue. Khizhnyak e Ziskin (1996) hanno analizzato le peculiarità dei fenomeni di

riscaldamento con microonde e convezione in soluzioni acquose: oltre all’atteso

graduale innalzamento termico, i due ricercatori hanno constatato sia oscillazioni di

temperatura che un decremento della temperatura media, risultati attribuiti a

fenomeni di tipo convettivo, come per esempio la formazione di un vortice toroidale;

quando quest’ultimo diventa stabile, pur mantenendo costante la potenza irradiata, la

temperatura, dopo essere cresciuta, incomincia a diminuire; all’aumentare della

densità di potenza la temperatura locale, in modo del tutto inaspettato, decresce,

producendo un quasi paradossale effetto opposto al riscaldamento. Il supposto ruolo

dell’acqua come bersaglio primario della radiazione a microonde ha probabilmente

spinto Zavizion et al. (1994) e Kudryashova et al. (1995) verso lo studio di come

l’assorbimento in acqua delle microonde (alle lunghezze d’onda di 2,0, 5,84 e

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 53 -

7,12 mm) sia influenzato dalla presenza di altre sostanze quali gli amminoacidi (in

concentrazioni di 0,25 e di 2,5 mol/l); dal momento che l’assorbimento da parte

delle molecole amminoacidiche sarebbe di per sé trascurabile, si arrivò alla

conclusione che, nella maggior parte dei casi, l’assorbimento da parte delle soluzioni

decresceva in maniera proporzionale alla concentrazione degli amminoacidi, e in

misura tanto maggiore quanto maggiore era la lunghezza del radicale idrofobo; in

alcuni casi più limitati (sarcosina e glicina), al contrario, l’assorbimento da parte

dell’acqua sarebbe stato incrementato. Una dettagliata analisi teorica

dell’assorbimento delle microonde su strutture piane ad elevato contenuto di acqua

era stata precedentemente compiuta da Ryakovskaya e Shtemler (1983); i due autori

hanno fornito delle relazioni di dipendenza del SAR dalla frequenza della

radiazione, dalla temperatura, dallo spessore del mezzo assorbente e dalla presenza o

meno di strati di materiale dielettrico al di sopra e/o al di sotto del mezzo; hanno

inoltre modellato la risposta all’irradiazione di semplici e comuni strutture

biologiche da laboratorio come sospensioni cellulari in piastre di Petri e cuvette;

hanno anche posto l’accento sul fatto che la presenza di uno strato di materiale

dielettrico adiacente ad un film sottile di mezzo assorbente (situazione che si verifica

per esempio nella piastra di Petri) può aumentare il SAR anche di venti volte rispetto

a quello verificabile sulla superficie di uno strato spesso dello stesso mezzo, e ciò

potrebbe indurre, in alcune circostanze, a sottostimare notevolmente il SAR.

2.4.2 Effetti delle microonde sulle velocità di crescita e di morte cellulari

Una delle priorità della ricerca sugli effetti ottenibili in vitro, come identificata

da Repacholi (1998), è la determinazione della soglia di campo alle radiofrequenze

oltre la quale vengono alterate le cinetiche relative al ciclo cellulare e quelle di

proliferazione cellulare. L’influenza dell’esposizione alle onde radio sulla

moltiplicazione cellulare è stata studiata da diversi ricercatori, ottenendo differenti

risultati. Il dibattito sugli effetti delle microonde sulla velocità di crescita ha avuto

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 54 -

inizio tra gli anni ’70 e gli anni ’80 del secolo scorso, quando Grundler et al. (1977;

1982; 1988) hanno riportato come la velocità di crescita del lievito Saccharomyces

cerevisiae possa essere sia incrementata (fino al 15%) che diminuita (fino al 29%)

da microonde variandone la frequenza nel’intervallo compreso tra 41,8 e 42,0 GHz

(le prove condotte hanno riguardato sia cellule in sospensione che disposte in

monostrato). In accordo con le osservazioni di Grundler e Kaiser (1992), effetti di

entità simile sono prodotti da densità di potenza comprese tra 5 pW/cm2 e

10 mW/cm2 (con modulazione di 8 kHz); tuttavia il fatto che i successivi tentativi di

riprodurre i medesimi risultati di Furia et al. (1986) e di Gos et al. (1997) non siano

andati a buon fine suggerisce la possibilità che tali effetti dipendano da particolari

condizioni non ancora identificate o non controllabili. Dardanoni et al. (1985) hanno

studiato l’effetto della frequenza e della modulazione sulla crescita del lievito

Candida albicans; l’irradiazione con microonde modulate ad 1 kHz provocava una

riduzione della velocità di crescita del 15% alla frequenza di 72 GHz, ma non a 71,8

o a 72,2 GHz; a quest’ultima frequenza, dopo 3 ore di esposizione continua, la

velocità di crescita aumentava del 25%. Golant et al. (1994) hanno riportato che

l’irradiazione di una cultura di Saccharomyces cerevisiae per 50 minuti con

microonde alla frequenza di 46 GHz e con densità di potenza pari a

0,03 mW/cm2 produceva fluttuazioni periodiche marcatamente sincronizzate della

velocità di crescita e di gemmazione, che persistevano fino anche a venti generazioni

successive; la periodicità della gemmazione è un fenomeno che era stato osservato

anche nei campioni di controllo, dove tuttavia si era presentato in maniera molto

meno marcata e con periodi più brevi. Effetti di sincronizzazione delle microonde

sono stati osservati anche in esemplari di piante superiori da Shestopalova et al.,

(1995), che hanno esposto semi di orzo per 20 minuti a microonde con frequenza di

61,5 GHz e densità di potenza di 0,1 mW/cm2. Levina et al. (1989) hanno studiato

l’effetto delle microonde (30 minuti di esposizione a 1,5 mW/cm2 e alla lunghezza

d’onda di 7,1 mm) sullo sviluppo di popolazioni del protozoo Spirostum sp. in un

mezzo salino con lievito di birra (550 mg/l) come nutriente; lo studio ha evidenziato

come l’irradiazione abbia avuto effetti sui meccanismi di controllo della crescita

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

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della popolazione, secondo modalità dipendenti dallo stadio di sviluppo della

popolazione e da altre caratteristiche proprie di quest’ultima. Tambiev et al. (1989)

hanno riscontrato che l’esposizione, per un tempo pari a 30 minuti, a radiazioni con

una densità di potenza di 2,2 mW/cm2 e con 7,1 mm di lunghezza d’onda,

incrementava la velocità di crescita dell’alga Spirulina platensis del 50%; poiché si

tratta di un’alga utilizzata per l’ottenimento, a livello industriale, di proteine

alimentari e di prodotti biologicamente attivi, gli autori hanno ritenuto che le loro

osservazioni potessero avere un notevole impatto dal punto di vista biotecnologico.

Altri studi, come quelli di Tambiev e Kirikova (1992), Rebrova (1992) e Shub et al.

(1995), hanno riportato effetti delle microonde sulla velocità di crescita di numerose

specie di batteri, cianobatteri, alghe, lieviti e piante superiori (finocchio, lattuga,

pomodoro); per esempio, per i due lieviti S. cerevisiae e S. carlsbergensis, le

microonde sono state in grado di abbreviare le fasi di crescita della coltura da 2,3

fino a 6 volte, e di incrementare la velocità di crescita della biomassa del 253%;

anche sul batterio Escherichia coli l’effetto sulla crescita si è rivelato essere sia

stimolante che di inibizione a seconda delle caratteristiche dell’irradiamento

(lunghezza d’onda compresa tra 6,0 e 6,7 mm, densità di potenza di 1 mW/cm2,

tempo di esposizione di 30 minuti); i tre studi, tuttavia, riportano solo una

descrizione sommaria di diverse esperienze degli autori, e perciò non forniscono

sufficienti dettagli per una piena valutazione degli effetti prodotti o per la possibile

ripetizione degli esperimenti condotti.

Webb e Dodds (1968) e Webb e Booth (1969) hanno riportato come cellule di

Escherichia coli fatte crescere in un brodo nutriente ed esposte a microonde

manifestassero una divisione cellulare più lenta ed anticipassero l’inibizione dei

processi metabolici rispetto al tempo di vita cellulare. Olsen (1965) osservò che il

numero di spore vitali di Aspergillus niger, Penicillum sp. e Rhizopus nigricans

veniva drasticamente ridotto dalle microonde durante il processo di panificazione.

Diverse teorie sono state proposte per spiegare come l’energia elettromagnetica

possa uccidere i microorganismi senza fare ricorso al calore; alcune di queste sono

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 56 -

contenute nella recensione di Knorr et al. (1994). Un’altra, detta “teoria della rottura

dielettrica” (Zimmermann et al., 1974), ipotizza che l’imposizione di un campo

elettrico esterno induca un potenziale elettrico transmembrana addizionale maggiore

del normale potenziale della cellula; superato un certo limite, la membrana cellulare

si rompe, dando luogo alla formazione di pori, con conseguente aumento della

permeabilità e perdita dell’integrità cellulare. Kinosita e Tsong (1977) hanno

proposto un meccanismo per lo sviluppo dei pori dovuto ai campi elettrici pulsanti,

presentando prove della migrazione di soluti intracellulari attraverso la membrana

cellulare con conseguente distruzione della cellula stessa. Pothakamury et al. (1993),

alla ricerca di una spiegazione alla base degli effetti non termici prodotti

dall’interazione tra campi elettromagnetici e microorganismi, conclusero che

l’effetto di inibizione dei campi magnetici sia statici che oscillanti sulla crescita

microbica racchiuderebbe in sé la possibilità di inattivare i microorganismi

eventualmente presenti negli alimenti. Il brevetto di Hofmann (1985) spiega che un

campo magnetico oscillante accoppia l’energia nelle parti magneticamente attive

delle macromolecole biologiche con le oscillazioni; in questo modo, quando un certo

numero di dipoli magnetici sono presenti in un’unica molecola, l’energia trasferita

alla molecola può essere sufficiente per la rottura di un legame covalente; sono

soggette a questo fenomeno molecole vitali per un microorganismo quali DNA o

proteine, per cui il microorganismo può essere distrutto dal trattamento, o anche

semplicemente reso inattivo dal punto di vista delle capacità riproduttive. Sulla base

di questo brevetto, Mertens e Knorr (1992) si sono proposti di valutare l’utilità

dell’energia veicolata dalle microonde per l’uccisione dei batteri in alimenti liquidi a

basse temperature e di mettere a punto un processo che rendesse al contempo minimi

i danni termici all’alimento; per far questo, i due ricercatori hanno studiato l’effetto

delle microonde sul microorganismo Pediococcus sp. in un sistema a flusso con

completo riciclo.

Pothakamury et al. (1995), ritenendo che l’inattivazione di microorganismi

mediante esposizione a campi elettrici pulsati ad alta tensione sia un obiettivo

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 57 -

piuttosto promettente nel campo delle tecnologie di preservazione degli alimenti non

basate sul riscaldamento, hanno dimostrato l’inattivazione dell’Escherichia coli (un

batterio Gram-negativo) e dello Staphylococcus aureus, mantenendo la temperatura,

durante le prove sperimentali, sempre al di sotto di quella letale per le due specie.

Cleary et al. (1990a) hanno condotto degli studi in merito esponendo in modo

continuo differenti tipologie di cellule ad onde radio alle frequenze di 27 MHz e di

2,45 GHz, e riportando una incrementata proliferazione di cellule di glioma

registrata a distanza di uno, tre e cinque giorni dall’esposizione delle cellule al

campo per due ore, con livelli di SAR compresi tra 5 e 50 W/kg; le prove sono state

condotte utilizzando un sistema di controllo termico che ha permesso di mantenere

le variazioni di temperatura al di sotto di 0,1°C; non è stata individuata una soglia

minima in quanto effetti sono stati riscontrati anche al minimo valore di SAR

applicato. Un altro studio di Cleary et al. (1990b), nelle medesime condizioni

sperimentali, e portato a termine con l’utilizzo dello stesso sistema, ha riscontrato

effetti simili anche su linfociti periferici umani; successivi studi (Cleary, 1995;

Cleary et al., 1996) hanno riscontrato, ancora nelle stesse condizioni sperimentali,

alterazioni nelle cinetiche del ciclo cellulare di cellule ovariche di criceto. Stagg et

al. (1997) hanno esposto cellule di glioma e colture primarie di cellule gliali di ratto

a onde radio identiche a quelle dei segnali dei telefoni cellulari, per periodi di tempo

di 24 ore, ma con livelli di esposizione molto inferiori rispetto a quelli degli studi

precedenti, osservando incrementi nell’assorbimento da parte di acido nucleico

marcato radioattivamente durante la sintesi del DNA in corrispondenza al valore di

SAR di 5,9 mW/kg, ma non a valori superiori (59 mW/kg), né inferiori (0,59

mW/kg); nello stesso lavoro, inoltre, sono presentate le curve di crescita per

entrambe le tipologie cellulari, ottenute mediante conta dopo tempi di esposizione

fino a dodici giorni, mostrando che non vi sono variazioni legate al campo

elettromagnetico applicato. In uno studio in cui hanno utilizzato onde

elettromagnetiche simili a quelle dei segnali dei telefoni cellulari GSM, Kwee e

Raskmark (1998) hanno valutato la moltiplicazione di cellule di epitelio amniotico

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 58 -

umano esposte a radiazione di frequenza 960 MHz, con valori di SAR pari a 0,021,

0,21 e 2,1 mW/kg, per tempi di esposizione pari a 20, 30 e 40 minuti: è stata

riscontrata una diminuzione della velocità di crescita, ma solo per tempi pari o

superiori a 30 minuti. Altri studi sulla crescita cellulare con esposizione a onde

radio, come quelli di Antonopoulos et al. (1997), Donnellan et al. (1997) e French et

al. (1997), forniscono ulteriori informazioni circa gli effetti dell’esposizione alle

onde radio sulla proliferazione cellulare, tuttavia dai dati forniti non è chiaro se, e in

quali condizioni, vi sono alterazioni nella velocità di crescita, né emerge un chiaro

legame tra la potenza assorbita e le risposte riscontrate.

2.4.3 Alterazioni cromosomiche ed effetti genetici delle microonde

L’assenza di effetti mutagenici o di ricombinazione genetica delle microonde è

stata chiaramente dimostrata a cavallo degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso da

Dardalhon et al. (1980; 1981). Allo stesso tempo, tuttavia, altri studi hanno indicato

che le microonde influenzerebbero la struttura microscopica e la funzione dei

cromosomi, oltre che la tolleranza cellulare ai comuni mutageni e le funzioni di

riparazione delle lesioni; tra questi spiccano quelli di Belyaev et al. (1993a; 1993b;

1994; 1996), che rilevarono con un elevato grado di precisione le frequenze di

risonanza mediante una tecnica, detta AVTD (acronimo di “Anomalous Viscosity

Time Dependence”), che consente di rispecchiare i cambiamenti microstrutturali del

DNA e dei legami tra DNA e proteine: in corrispondenza di una frequenza di

risonanza, infatti, effetti biologici possono manifestarsi anche con densità di potenza

basse come 10-19 W/cm2, pur aumentando di intensità al crescere di quest’ultimo

parametro; l’intensità degli effetti non aumenta più oltre valori compresi tra 10-17 e

10-8 W/cm2, a seconda della densità cellulare nei campioni irradiati; per l’E. coli

sono stati individuati picchi di risonanza a 51,76 e a 41,34 GHz. Va detto tuttavia

che, come riportato da Pakhomov et al. (1998), la tecnica AVTD non rientra tra

quelle convenzionalmente accettate ed utilizzate nel campo della biologia cellulare,

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 59 -

e l’interpretazione dei risultati che essa fornisce è incerta; il problema è stato persino

oggetto di accesa disputa, con i commenti di Osepchuk e Petersen (1997) sul lavoro

di Belyaev et al. (1996) e la successiva replica di Belyaev et al. (1997); secondo

Pakhomov et al. (1998) è presumibile che parte della potenza ad una frequenza

armonica possa essere trasmessa ad un campione nonostante vi sia invece una forte

attenuazione alla frequenza fondamentale, e quantunque non fosse quello poco sopra

esposto il caso, le osservazioni effettuate sugli effetti della risonanza rappresentano

in ogni caso un fatto importante che meriterebbe di essere ripreso da altri studiosi

indipendenti. Rojavin e Ziskin (1995) hanno trovato che la preventiva esposizione di

colture di E. coli a microonde alla frequenza di 61 ± 2,1 GHz e con intensità di

potenza di 1 mW/cm2 ne aumentava il grado di sopravvivenza in seguito

all’esposizione a raggi UV; il meccanismo più probabile, secondo gli autori, sarebbe

l’attivazione, diretta o indiretta, di un sistema di riparo dalla luce. Pakhomova et al.

(1997), dopo aver studiato gli effetti genetici dell’irradiazione a frequenze comprese

tra 61,02 e 61,42 GHz sul ceppo D7 del lievito S. cerevisiae (densità di potenza di

0,13 mW/cm2, tempo di esposizione di 30 minuti), seguita da trattamento con raggi

UV (lunghezza d’onda di 254 nm, tempo di esposizione di 60 minuti, dose di 100

J/m2), giunsero alla conclusione che le microonde non alteravano la mutagenesi

indotta dai raggi UV, mentre potevano favorire i processi di ricombinazione genetica

indotti anch’essi dai raggi UV; inoltre, pur non potendo affermarlo con assoluta

certezza, gli autori ritennero che un meccanismo di tipo termico, per questo effetto,

fosse alquanto improbabile.

2.4.4 Effetti delle microonde su tessuti eccitabili e membrane

Oltre al patrimonio genetico, la membrana cellulare è considerata un altro

possibile bersaglio primario delle microonde. Diversi lavori affermano l’esistenza di

effetti anche profondi, tuttavia sono stati pochi i tentativi di riprodurli nuovamente.

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 60 -

Le membrane cellulari sono composte da proteine contenute in una matrice

lipidica, per cui la valutazione degli effetti prodotti da campi elettromagnetici alle

radiofrequenze deve tenere conto di entrambi i costituenti. Tra le proteine della

membrana, quelle di maggior interesse sono le proteine che costituiscono i canali

ionici: trattasi di complessi multiproteici che consentono il passaggio, attraverso

l’instaurazione di un gradiente elettrochimico, degli ioni inorganici, in maniera di

norma selettiva, attraverso la membrana. I canali ionici sono preposti al passaggio

transmembranaceo di ioni quali Na+, K+ e Ca2+. Questo, a sua volta, influenza

l’eccitabilità elettrica della membrana come pure alcune funzioni biologiche della

cellula, tra cui il rilascio di neurotrasmettitori. È stato riportato, a tal proposito, che i

campi elettromagnetici alle radiofrequenze, sia continui che pulsati, a varie potenze,

influenzano diverse proprietà dei canali ionici, possono causare un rallentamento del

processo di formazione delle proteine canale, possono diminuire la frequenza di

apertura dei singoli canali, possono incrementare notevolmente la velocità di scarica

rendendola “a scoppio” (Repacholi, 1998).

Per quanto riguarda l’influenza dell’esposizione alle microonde sul rilascio degli

ioni Ca2+, come sarà meglio analizzato nel paragrafo 2.4.5, vi sono stati studi (Bawin

et al., 1975; Dutta et al., 1984) che hanno riportato un incremento nel rilascio ionico,

mentre altri ricercatori (Merritt et al., 1982), con diverse caratteristiche di

modulazione, non hanno riscontrato variazioni rispetto alla norma. Brovkovich et al.

(1991) hanno riportato che la radiazione a 61 GHz di frequenza e con densità di

potenza pari a 4 mW/cm2 attivava in misura significativa la pompa Ca2+ nel reticolo

sarcoplasmico dei muscoli scheletrici e cardiaci del ratto; la velocità di assorbimento

degli ioni Ca2+ da parte delle membrane del reticolo sarcoplasmico è stata misurata

mediante un elettrodo selettivo in un mezzo contenente ATP; un trattamento

intermittente con microonde (5 minuti di esposizione, 15 minuti di pausa, 3 cicli),

effettuato sul reticolo sarcoplasmico di muscoli scheletrici, ha incrementato la

velocità di assorbimento del 23%, e tale velocità è stata mantenuta per un’ora oltre il

termine dell’esposizione; l’irradiazione ininterrotta, invece, non ha avuto effetti in

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 61 -

10 minuti, ma ha incrementato l’assorbimento del 27% dopo 20 minuti, e l’effetto ha

raggiunto il massimo al 48% dopo 40 minuti; per quanto riguarda i muscoli cardiaci,

un’esposizione di 5 minuti è stata sufficiente a produrre un incremento

dell’assorbimento del 18%. Geletyuk et al. (1995) hanno mostrato come la

radiazione a 42,25 GHz (tempo di esposizione di 20-30 minuti, densità di potenza di

0,1 mW/cm2) modifichi le caratteristiche di attivazione dei canali Ca2+-K+ di colture

di cellule renali; in particolare, il campo ha incrementato l’attività dei canali con una

bassa attività iniziale, mentre ha inibito i canali con una elevata attività iniziale. In

un successivo studio di Fesenko et al. (1995) gli effetti sopra riportati sono stati

riprodotti senza irradiare direttamente la membrana, solo mediante bagno in

soluzioni precedentemente esposte per 30 minuti a radiazione alla frequenza di

42,25 GHz e con densità di potenza di 2 mW/cm2; né il pH né la concentrazione di

Ca2+ della soluzione sono risultati alterati, dunque non è stato possibile comprendere

il meccanismo di alterazione dello stato di attivazione dei canali; le soluzioni

mantenevano la loro efficacia per almeno 10-20 minuti dopo il termine

dell’esposizione.

Vi sono studi scientifici che riguardano anche gli effetti di campi alle

radiofrequenze o di microonde sul trasporto attraverso le membrane dei cationi Na+

e K+; tra questi, quello di Cleary (1995) riporta effetti all’interno di intervalli di SAR

(tra 0,2 e 200 W/kg) e di frequenza (tra 27 MHz e 10 GHz) piuttosto ampi.

Kataev et. al (1993) hanno studiato le correnti della membrana in cellule di alga

gigante (Nitellopsis obtusa, Characea), riscontrando come l’irradiazione per 30-60

minuti a 41 GHz di frequenza (5 mW/cm2) fosse in grado di annullare la corrente dei

cloruri fino a 10-14 ore dopo il termine dell’esposizione; effetti inibitori marcati

sono stati registrati anche a 50 e a 71 GHz, mentre la maggior parte delle frequenze

applicate, comprese nell’intervallo 38-78 GHz, al contrario incrementavano (con

effetto reversibile nell’arco di 30-40 minuti) la corrente del 200-400%; il massimo

incremento di temperatura è stato di 1°C, e secondo gli autori né un effetto né l’altro

potevano essere giustificati con questo; anche la corrente del calcio è cambiata

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 62 -

durante l’esposizione al campo, ma l’effetto non è stato dipendente dalla frequenza e

poteva tutto sommato essere spiegato con il riscaldamento. Esperimenti su

membrane artificiali e neuroni di lumaca non hanno mostrato nessun effetto

specifico della frequenza delle microonde (Alekseev e Ziskin, 1995). Burachas e

Mascoliunas (1989) hanno studiato gli effetti delle microonde sul potenziale di

azione composto (CAP) di nervo sciatico (isolato) di rana; il potenziale è diminuito

esponenzialmente fino a ridursi di dieci volte dopo 50-110 minuti di esposizione a

77,7 GHz di frequenza (densità di potenza di 10 mW/cm2), per poi tornare sui livelli

originari al termine dell’esposizione; tuttavia, dopo ciò, il nervo diventava più

sensibile alle microonde, e durante la successiva esposizione il decadimento si

mostrava ancora più rapido, e si completava in solo 10-15 minuti. Un differente

effetto sulla stessa tipologia di tessuto è stato descritto da Chernyakov et al. (1989), i

quali lo esposero per 2-3 ore a microonde (con densità di potenza di 0,1-0,2

mW/cm2), sia con cambiamenti regolari di 1 GHz di frequenza ogni 8-9 minuti, sia

con cambiamenti di frequenza casuali (all’interno della banda 53-78 GHz) ogni 1-4

minuti; in particolare la seconda tipologia di trattamento, in 11 casi su 12, ha indotto

un brusco “riarrangiamento” del CAP secondo modalità, a detta degli autori, del

tutto imprevedibili. Nessuno di questi effetti è stato tuttavia riscontrato da Pakhomov

et al. (1997a; 1997b), secondo i quali l’irradiazione per 10-60 minuti con densità di

potenza tra 0,2 e 1 mW/cm2, sia a diverse frequenze mantenute costanti che a

frequenze variate a gradino, non ha alterato il CAP; con densità di potenza compresa

tra 2,0 e 2,8 mW/cm2 si sono avuti dei modesti effetti, indipendenti però dalla

frequenza e attribuibili probabilmente all’innalzamento termico. Secondo

Chernyakov et al. (1989) microonde a bassa potenza possono mutare le funzioni

della membrana di cellule di muscoli striati e pace-maker cardiaco: l’esposizione per

90 secondi o meno a densità di potenza di 0,1-0,15 mW/cm2 (a frequenze comprese

tra 54 e 78 GHz) ha rallentato la perdita naturale del potenziale transmembranaceo

nei miociti, o addirittura lo ha incrementato di 5-20 mV; l’effetto è stato riscontrato

nell’80% dei casi, senza tuttavia una chiara dipendenza dalla frequenza della

radiazione; gli stessi autori, per quanto riguarda l’effetto delle microonde

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 63 -

sull’attività di pace-maker, hanno trovato che su cellule di rana prelevate dalla zona

senoatriale, nella maggior parte dei casi, l’esposizione alle microonde produceva un

immediato (spesso in meno di 2 secondi) restringimento dell’intervallo tra gli

impulsi; l’entità dei cambiamenti aumentava linearmente con l’incremento della

potenza incidente da 20-30 sino a 500 mW/cm2; rispetto alla frequenza, le variazioni

prodotte non hanno mostrato un andamento monotono, bensì picchi ben localizzati;

il riscaldamento massimo dopo 2 secondi di esposizione è stato calcolato (per

1 mW/cm2) in 0,005°C, e considerata anche la rapida risposta fisiologica, gli autori

hanno escluso che l’effetto potesse essere di tipo termico.

Benché dunque sembri confermato il fatto che i campi elettromagnetici possono

modificare il meccanismo di scambio ionico delle membrane, tuttavia non sembra

essere allo stesso tempo emerso quali siano le specifiche modalità di interazione, e

rimangono sconosciuti i meccanismi attraverso i quali i campi elettromagnetici

agiscono effettivamente sulla struttura molecolare delle proteine. Ugualmente

irrisolto sembra rimanere, sia a livello meccanicistico che dal punto di vista degli

effetti apparenti, il ruolo dei campi elettromagnetici alle radiofrequenze e delle

microonde rispetto ai lipidi della membrana. Phelan et al. (1992) hanno ipotizzato

che l’esposizione alle radiofrequenze induca transizioni di fase nelle vescicole

lipidiche (liposomi) esposte a campi continui e con un SAR pari a 0,2 W/kg,

tuttavia, come anche ammette a tal proposito Repacholi (1998), sono forse troppo

pochi i dati a disposizione per poter stabilire qualcosa di maggiormente concreto.

2.4.5 Effetti sull’omeostasi degli ioni Ca2+

Il lavoro pioniere su tale argomento fu quello di Bawin et al. (1975), in cui fu

riportato che la radiazione in modulazione di frequenza a 147 MHz incrementava in

vitro l’efflusso degli ioni Ca2+ da cellule neurali di pulcino, tuttavia non vi erano

effetti con la sola frequenza portante; il picco di effetti si ottenne invece tra gli 11 e i

16 Hz di modulazione; la potenza incidente applicata era compresa tra 10 e 20

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 64 -

W/m2, ma gli effetti non si mostrarono funzione della potenza. Pochi anni più tardi

Bawin et al. (1978), utilizzando un’onda portante a 450 MHz modulata a 16 Hz, con

una densità di potenza incidente di 1 W/m2, riscontrarono gli stessi effetti di

incremento anche con una densità di potenza di 10 W/m2, mentre nessun effetto si

manifestava con densità inferiori (0,05 W/m2) o superiori (20 W/m2). Un effetto

biologico che si manifesta all’interno di un intervallo relativo ad una certa grandezza

fisica, ma non in corrispondenza degli estremi dello stesso intervallo, è quello che

nella letteratura specializzata si trova indicato spesso come “window phenomenon”,

ovvero “fenomeno finestra”, e proprio gli effetti descritti da Bawin et al. (1978)

furono citati così, relativamente alla densità di potenza, da Postow e Swicord (1996).

“Effetti finestra” furono trovati anche da Blackman et al. (1979; 1980a), che

utilizzarono una radiazione a 147 MHz di frequenza e con una potenza incidente di

7,5 W/m2, riscontrando effetti che non si manifestavano invece né a 5 W/m2, né a 10

W/m2; un ulteriore studio di Blackman et al. (1980b) individuò degli effetti in una

finestra della frequenza di modulazione a 16 Hz con una frequenza portante di

50 MHz e in una finestra della densità di potenza intorno a 17 W/m2. In cellule

nervose coltivate in un campo alla frequenza di 915 MHz, fu riscontrato da parte di

Dutta et al. (1984) un incremento nell’efflusso di calcio per SAR pari a 0,05 e

1,0 W/kg, ma non per valori inferiori, superiori o intermedi. Le prove di Shelton e

Merritt (1981), condotte alla frequenza portante di 1000 MHz modulata a 16 Hz e a

32 Hz e con densità di potenza incidente di 5, 10, 20 e 150 W/m2 su tessuti cerebrali

di ratto, d’altra parte, non hanno rivelato alcun effetto, così come è accaduto anche

nelle prove condotte da Merritt et al. (1982) irradiando con microonde (1000 MHz,

0,29 e 2,9 W/kg; 2450 MHz, 3 W/kg; 2060 MHz, 0,12 e 2,4 W/kg) tessuti cerebrali

di ratto preventivamente caricati con ioni calcio mediante iniezione

intraventricolare.

I lavori di Bawin et al. (1978) e di Blackman et al. (1979; 1980a) sembrerebbero

indicare che la finestra relativa alla densità di potenza riduca la sua ampiezza al

crescere della frequenza delle onde elettromagnetiche, e ciò potrebbe essere

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 65 -

confermato, seppur indirettamente, dalle misure effettuate da Bawin e Adey (1976) e

da Blackman et al. (1991), che hanno mostrato come l’efflusso di ioni calcio da

cellule cerebrali di pulcino possa essere alterato dall’esposizione a campi di

frequenza estremamente bassa e con densità di potenza inferiori di diversi ordini di

grandezza; a tale proposito, Prato et al. (1996) hanno messo in luce come, dal punto

di vista concettuale, l’esposizione a frequenze bassissime corrisponda

all’esposizione ad un campo con frequenza portante infinita e modulazione di

frequenza piccolissima, per cui, se i meccanismi associabili sono simili,

diventerebbe importante considerare il campo statico ambientale presente durante

l’esposizione.

Riassumendo, finestre relative alla densità di potenza sono state osservate per

modulazioni con frequenze molto basse, sebbene le prove che non vi siano effetti

oltre i 1000 MHz non siano del tutto convincenti dal momento che non sono stati

condotti esperimenti a quelle frequenze e con piccoli valori di SAR o di densità di

potenza.

2.4.6 Altri effetti delle microonde in vitro

Bulgakova et al. (1996) hanno studiato come l’esposizione dello Staphylococcus

aureus alle microonde influenzi la sua sensibilità ad antibiotici con differenti

meccanismi di azione; i tempi di esposizione sono andati da 1,5 a 60 minuti, con

frequenza fissa di 42,195 o 54 GHz oppure con frequenza variata a gradino tra 66 e

78 GHz con passo di 1 GHz, e con densità di potenza di 10 mW/cm2; il

riscaldamento imputabile alle microonde non ha mai superato 1,5°C, e sono state

condotte oltre un migliaio di prove sperimentali con 14 differenti antibiotici, tuttavia

gli effetti riscontrati, per quanto molto vari (la sensibilità è risultata aumentata o

diminuita a seconda della concentrazione dell’antibiotico), non hanno mostrato una

chiara dipendenza dalla potenza della radiazione né dalla frequenza; gli autori, tra

l’altro, hanno fatto notare come il trattamento con microonde potrebbe rivelare (o

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 66 -

anche indurre) una eterogeneità nella sensibilità ad alcuni antibiotici di una

popolazione cellulare.

Shub et al. (1995) hanno mostrato cambiamenti nella trasmissione di plasmidi R

in diversi ceppi di Escherichia coli e di Staphylococcus aureus dopo 30 minuti di

esposizione a microonde di lunghezza d’onda compresa tra 6,0 e 6,7 mm.

Berzhanskaya et al. (1995) hanno misurato una diminuzione della bioluminescenza

del Photobacterium leiognathi durante l’irradiazione con microonde a frequenze

comprese tra 36,2 e 55,9 GHz. Diversi risultati di studi su Enterobacter aerogenes

ed Escherichia coli hanno infine mostrato che l’irradiazione con microonde, a

seconda dei casi, inibiva o stimolava la sintesi di proteine, DNA e RNA, e la crescita

cellulare (Pakhomov et al., 1998).

Goldblith e Wang (1967) non hanno registrato differenze esponendo sospensioni

di Escherichia coli e di spore di Bacillus subtilis a riscaldamento mediante

microonde e a riscaldamento convenzionale; Welt et al. (1994) hanno indagato

l’effetto del trattamento con microonde sottoponendovi spore di Clostridium

sporogenes, senza trovare un incremento dell’effetto letale che non fosse

giustificabile con il rapido riscaldamento prodotto dalle microonde stesse.

Rebrova (1992) ha passato in rassegna diversi effetti delle microonde sul

metabolismo cellulare, sulla sintesi enzimatica e su altri processi in organismi

unicellulari, come l’incremento e l’annullamento della sintesi delle colicine nel

batterio Escherichia coli, la stimolazione della sintesi di enzimi fibrinolitici nel

Bacillus firmus, l’aumento del contenuto di peptidi, DNA e RNA nel Bacillus

mucilaginous, l’abbattimento del grado di tolleranza agli antibiotici dello

Staphylococcus aureus; l’autrice ha riportato che la massima variazione prodotta

dalle microonde andava dal 20 al 90%, a seconda della lunghezza d’onda e dello

stato iniziale del ceppo batterico; al contrario dei batteri, la velocità di riproduzione

e le proprietà biosintetiche dei funghi Aspergillus sp., Endomyces fibuliger e

Dacthilyum dendraides cambiavano solo in seguito ad esposizioni ripetute (anche

dieci volte); in alcuni lieviti le microonde acceleravano la formazione del maltosio

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 67 -

del 73%, mentre la sintesi del diacetile e delle aldeidi diminuiva del 20%; in

generale, la stimolazione selettiva della produzione di alcuni enzimi a discapito di

altri potrebbe costituire un importante obiettivo nel campo delle biotecnologie.

2.4.7 Considerazioni sui meccanismi degli effetti non termici

Come spiegato nei paragrafi precedenti, è stato provato, seppure in modo non

del tutto univoco, che esistono diversi effetti biologici che non dipendono da un

incremento di temperatura del campione. Alle radiofrequenze, sia il campo elettrico

che quello magnetico penetrano nei tessuti (Postow e Swicord, 1996), generando al

contempo calore, tuttavia gli effetti dei due campi sui tessuti tenderebbero a

distinguersi se il tessuto è dotato di elementi sensibili, all’uno o all’altro campo

piuttosto che a differenze di potenziale, effettivamente relazionati ad una particolare

funzione fisiologica o biochimica. Inoltre, l’effetto dipenderebbe anche dalla forma

d’onda e non solo dalla corrente indotta; onde continue e onde alle radiofrequenze in

modulazione di frequenza estremamente bassa danno luogo, anche se non

necessariamente, ad effetti non termici differenti. Se esistono, per esempio, elementi

sensibili al campo elettrico, è improbabile che essi possano rispondere abbastanza

rapidamente alla frequenza portante, tuttavia questa può costituire il mezzo

attraverso il quale può essere veicolata al tessuto una frequenza pulsata senza che vi

sia una significativa attenuazione del campo. Questo presupporrebbe, naturalmente,

l’esistenza di meccanismi di demodulazione dipendenti dall’ampiezza che

“separino” la frequenza di modulazione da quella portante, che sembrerebbero in

maniera quasi sorprendente confermati dai risultati riportati in letteratura circa gli

effetti della radiofrequenza portante e della modulazione in frequenza estremamente

bassa sull’efflusso degli ioni Ca2+ (vedi paragrafo 2.4.5), sull’attività dell’ornitina

decarbossilasi (Litovitz et al., 1991; Litovitz et al., 1993; Penafiel et al., 1997) e sul

comportamento associato ai recettori oppioidei (Kavaliers et al., 1994; Del Seppia et

al., 1995; Rojavin et al., 1998). Per quanto riguarda l’esposizione a campi di

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 68 -

frequenza estremamente bassa, solo il campo magnetico penetra il tessuto, e ciò può

generare un campo elettromagnetico indotto e una corrente indotta, secondo la legge

di Faraday. Un campo di radiofrequenze modulato con frequenze estremamente

basse può trasmettere lo stesso campo elettromagnetico ed indurre corrente senza

che il campo elettrico penetri nel tessuto, dunque la comprensione dei meccanismi

associati agli effetti delle frequenze estremamente basse potrebbe fornire importanti

indicazioni per la comprensione dei meccanismi attraverso i quali i campi alle

radiofrequenze in modulazione di frequenza estremamente bassa provocano effetti

non termici.

Un interessante aspetto è costituito dal fatto che buona parte dei risultati mostrati

suggeriscono con forza che l’entità degli effetti non termici è indipendente (o quasi)

dalla potenza assorbita, e ciò è dimostrato anche dalla presenza di effetti finestra,

come quelli individuati da Stagg et al. (1997) per quanto riguarda la velocità di

crescita e, per quanto riguarda l’efflusso degli ioni Ca2+, da Bawin et al. (1975;

1978) e da Blackman et al. (1979; 1980a; 1980b); questi ultimi, in particolare, hanno

suggerito come la modulazione di frequenza possa produrre effetti biologici diversi

rispetto all’irradiazione con onde continue, anche se l’esposizione viene

normalizzata rispetto alla medesima densità di potenza.

2.5 Le specie microbiche indagate

2.5.1 Il Bacillus clausii

Il Bacillus clausii è un batterio Gram-positivo (dotato cioè di una spessa parete

cellulare), capace di movimento, sporigeno e, come la maggior parte dei bacilli, ha

la forma di un bastoncello; la parete cellulare è costituita da peptidoglicani

(soprattutto mureina). È un’endospora che produce batteri che a loro volta danno

origine a spore di forma ellissoidale particolarmente resistenti a diversi antibiotici

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

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inclusi eritromicina, lincomicina e cefalosporine (Green et al., 1999). Le sue cellule

tendono ad allinearsi in formazioni tipo catena, osservabili come filamenti. Il B.

clausii è alcalofilo, e questa sua natura si è rivelata utile nella prevenzione e nel

trattamento di diversi disturbi gastrointestinali come forma di batterio-terapia orale

(Senesi et al., 2001), oltre al fatto che rende la specie tutt’oggi interessante per

diverse possibili applicazioni biotecnologiche, e oggetto di studi anche recenti, come

quello di Kobayashi et al. (2005). Può trovarsi in diversi ambienti alcalini, inclusi

suoli e habitat marino. Kobayashi et al. (1995), studiando il ceppo KSM-K16, hanno

osservato la sua crescita tra 15 e 50°C e nel campo di pH compreso tra 7 e 10,5,

individuando nella temperatura di 40°C e nel pH pari a 9,0 le condizioni ottimali per

la sua crescita. Benché la respirazione aerobica sia più efficiente dal punto di vista

energetico, poiché il B. clausii vive comunemente in ambienti poveri di ossigeno

(come il suolo), esso è in grado di ridurre i nitrati utilizzandoli come gli accettori

terminali degli elettroni durante la respirazione anaerobica; la riduzione operata dal

B. clausii dei nitrati a nitriti può essere completata da altri batteri quali per esempio

la Pseudomonas aeruginosa (Paustian, 2000).

Le spore del B. clausii sono utilizzate nel probiotico Enterogermina®, che

stimola le funzioni immunitarie (soprattutto durante l’uso di antibiotici) del tratto

gastrointestinale incrementando la produzione di immunoglobulina A, e agendo così

indirettamente come antagonista di altri batteri patogeni; la sua capacità di resistere

a molti antibiotici, che potrebbe farlo apparire pericoloso per l’essere umano, gli

consente invece di svolgere al meglio questa sua attività (Green et al., 1999). La

specie è inoltre di interesse biotecnologico, in quanto i ceppi di B. clausii producono

enzimi quali xilanasi, cellulasi, amilasi e proteasi particolarmente utili per l’industria

(Senesi et al., 2001). Il ceppo KSM-K16, per esempio, produce proteasi (M, H e N-

proteasi) che spaccano i polipeptidi in porzioni più piccole di amminoacidi,

secernendoli direttamente nel brodo di coltura, in particolare durante i periodi di

scarsa nutrizione (quando contemporaneamente ha luogo anche il processo di

sporulazione), e ciò è oggetto di studi per l’implementazione di processi produttivi

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 70 -

di massa a livello industriale (Christiansen e Nielsen, 2002). Tra le possibili

applicazioni, Denizci et al. (2003) hanno individuato la possibilità di utilizzare le

proteasi così prodotte per ottenere biomasse utilizzabili a partire da proteine fibrose

come corna, piumaggio e pelame, per l’idrolisi di gelatine o in processi di recupero

dell’argento.

Il probiotico, resistente agli antibiotici, Enterogermina®, consiste in quattro

ceppi batterici (O/C, N/R, SIN e T), tutti recentemente riclassificati da B. subtilis a

B. clausii (Duc et al., 2004); è utilizzato in particolare nel trattamento della diarrea e

nella prevenzione dei disturbi gastrointestinali; la resistenza delle spore agli

antibiotici le rende particolarmente utili per l’utilizzo congiunto con trattamenti

antibiotici per altri patogeni; Duc et al. (2004) sostengono che l’acquisizione di

ulteriori conoscenze su tale attività del B. clausii consentirà di ottimizzare in campo

medico l’utilizzo del batterio e di individuarne, eventualmente, ulteriori

applicazioni.

I meccanismi attraverso i quali il B. clausii agisce alleviando i disturbi

gastrointestinali non sono stati ancora compresi del tutto. Casula e Cutting (2002),

sviluppando un metodo per lo studio delle caratteristiche della colonizzazione del B.

clausii nell’intestino di topi, hanno mostrato come questo è in grado di colonizzare

per brevi periodi di tempo la parete intestinale e provocare nei topi una risposta

immunitaria che uccide i batteri patogeni.

2.5.2 La Pseudomonas aeruginosa

La Pseudomonas aeruginosa è un batterio Gram-negativo, aerobio/anaerobio

facoltativo, capace di movimento (grazie alla presenza di 1-3 flagelli unipolari),

asporigeno, di piccole dimensioni (tra 0,5 – 1,0 µm per 1,5 – 5 µm), non

fermentativo, con semplici richieste nutrizionali, dotato di una spessa capsula,

largamente diffuso in ogni tipologia di ambiente (suolo, acqua, ambiente

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 71 -

ospedaliero, etc.) (La Placa, 2005). Il campo di temperature all’interno del quale la

crescita della P. aeruginosa è ottimale è compreso tra 4 e 42°C (Murray e

Rosenthal, 2008), ma è in grado di crescere anche a temperature superiori

(Palleroni, 1984). È considerata un patogeno opportunista per l’uomo, e trattasi di

un batterio molto virulento, che non riesce tuttavia a provocare seri quadri patologici

in soggetti immunocompetenti, fatta eccezione per i casi di infezione del meato

urinario, che può estendersi causando la necrosi dei tessuti e, come estrema

conseguenza, il decesso del paziente per setticemia (La Placa, 2005). I soggetti

maggiormente a rischio sono dunque principalmente quelli immunodepressi, ma per

motivi di maggiore esposizione anche in generale quelli con respirazione assistita e i

dializzati (il livello di trasmissibilità di apparecchi respiratori e di emodialisi è

particolarmente elevato), gli ustionati, quelli affetti da fibrosi cistica, i diabetici, i

tossicodipendenti; benché la P. aeruginosa sia in grado di infettare tutti i distretti

corporei, le tipologie di infezioni più diffuse sono quelle polmonari, quelle cutanee,

quelle delle vie urinarie, quelle dell’orecchio, quelle dell’occhio (Murray e

Rosenthal, 2008). Le terapie con antibiotici sono difficili per l’elevato grado di

resistenza della P. aeruginosa a molti di questi, e la situazione è complicata dal fatto

che i soggetti con difese immunitarie compromesse rispondono già di per sé

scarsamente alla terapia antibiotica. Essendo la monoterapia del tutto inefficace, si

utilizzano sempre combinazioni di antibiotici; tuttavia occorre sottolineare come

l’utilizzo di antibiotici ad ampio spettro, oltre a danneggiare eccessivamente la flora

batterica competitiva, può avere l’effetto di selezionare ceppi del batterio ad elevata

resistenza (La Placa, 2005). Come riportato da Martin et al. (2003), per quanto il

decorso clinico sia un fatto tutto sommato ben noto, sono al contrario piuttosto

scarse le conoscenze sulle cause di tali infezioni, e ciò nonostante si sia trattato,

negli Stati Uniti, negli anni che sono stati interessati dall’indagine (1979 – 2000)

della decima causa di morte. La resistenza della P. aeruginosa agli antibiotici è

dovuta, da una parte, alla produzione di una β-lattamasi in grado di inattivare le

penicilline e le cefalosporine, e dall’altra alla capacità di alterare la permeabilità dei

canali di membrana; la specie è inoltre resistente a diversi tipi di disinfettanti

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 72 -

(Murray e Rosenthal, 2008). Nei soggetti sani la P. aeruginosa è comunque presente

e costituisce all’incirca il 6% della flora batterica intestinale, mentre può

raggiungere il 38% in pazienti ospedalizzati e il 78% in soggetti

immunocompromessi (La Placa, 2005).

Il nome “Pseudomonas” significa letteralmente “falsa unità”, in quanto deriva

dalla composizione delle due parole greche “pseudo” (ovvero “falso”) e “monas”

(ovvero “singola unità”), e sta ad indicare la propensione del batterio in questione ad

aggregarsi insieme ad altri per formare una struttura complessa detta biofilm

(McArthur, 2006). La formazione del biofilm è considerata un fattore di virulenza in

quanto ha l’effetto di accrescere le caratteristiche di resistenza dei batteri sia agli

antibiotici che alla pulitura e alla fagocitosi (Parsek e Singh, 2003). Una delle prime

osservazioni del biofilm, definibile come una comunità strutturata di batteri

racchiusi in una matrice extracellulare di natura polimerica prodotta dalle cellule

stesse, fu quella di Henrici (1933); ma nonostante l’esistenza dei biofilm sia nota da

quasi un secolo, il processo di formazione ha iniziato ad essere studiato a livello

genetico e molecolare solo di recente. Costerton (2005) ha rilevato che una

percentuale compresa tra il 65 e l’80% delle infezioni batteriche trattate nei Paesi

sviluppati è imputabile a batteri che crescono in biofilm, e che alla stessa categoria

di batteri sono ascrivibili le infezioni batteriche associate all’uso di dispositivi

medici impiantabili; inoltre, al contrario della maggior parte dei biofilm, che sono

eterogenei, ovvero costituiti da batteri di più specie, quello generato dalla

P. aeruginosa è in genere monospecie. La matrice extracellulare del biofilm,

composta principalmente da esopolisaccaridi (la cui percentuale tende ad aumentare

con l’età del biofilm), proteine, fimbie, pili e DNA extracellulare, è in realtà

considerata la materia prima del biofilm, in quanto ne costituisce una percentuale

che va dal 50 al 90%; tale matrice può essere anche fortemente idrata (l’acqua viene

incorporata nella struttura mediante legami a idrogeno), e ciò ne previene

l’essiccamento, oltre a costituire una vera e propria barriera fisica che limita

fortemente la diffusione degli antibiotici al suo interno (De Beer e Stoodley, 2006).

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 73 -

Sauer et al. (2002) hanno fornito una accurata descrizione del processo di

formazione del biofilm, poi ripresa anche da Caiazza e O’Toole (2004),

individuando sei fasi, che sono nell’ordine: forma planctonica (nella quale il batterio

si muove liberamente nel liquido per mezzo del flagello di cui è dotato), attacco

reversibile (durante il quale il batterio si lega reversibilmente alla superficie

mediante deboli interazioni idrofobiche e forze di Van Der Waals che si instaurano

tra alcuni componenti della parete cellulare e la superficie), attacco irreversibile

(durante il quale comincia la formazione di un biofilm monostrato in quanto

comincia la produzione degli esopolisaccaridi), formazione delle microcolonie,

maturazione (durante la quale aumenta la produzione di esopolisaccaridi e di

conseguenza lo spessore del biofilm), dispersione (durante la quale cellule situate in

zone interne del biofilm si staccano e ritornano alla forma planctonica, con un

migliore accesso ai nutrienti sia per le cellule staccatesi, sia per quelle rimaste nel

biofilm, grazie alle cavità così formatesi). Vi sono dei metodi di comunicazione

cellulare che sovrintendono a tali fenomeni, e che sono in grado di guidare il

comportamento dell’intera popolazione batterica, che vanno sotto il nome di

Quorum Sensing; secondo quest’ottica, i batteri in grado di organizzarsi in tal modo

non possono essere considerati come semplici organismi individuali, bensì come

organismi sociali in grado di formare complesse strutture multicellulari, possibili

però solo a condizione che essi possano interagire tra di loro in qualche modo; da un

punto di vista evoluzionistico l’aggregazione in strutture complesse si è certamente

rivelata una scelta vincente, e lo dimostra il fatto che non solo gli eucarioti (che sono

per la maggior parte già di per sé organismi pluricellulari), ma anche il 99% dei

procarioti tende in realtà ad organizzarsi in ammassi cellulari più o meno complessi,

tra cui appunto i biofilm (Costerton et al., 1995).

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 74 -

2.5.3 Lo Staphylococcus aureus

Lo Staphylococcus aureus è un batterio Gram-positivo, aerobio/anaerobio

facoltativo, incapace di movimento, asporigeno, di forma sferica, che non presenta

una capsula evidente; è un batterio fortemente alofilo, essendo in grado di

svilupparsi anche in ambienti caratterizzati da un’elevata concentrazione (il 7,5%) di

NaCl (Ryan e Ray, 2004). Il nome della specie (aureus) deriva dal tipico pigmento

giallo oro caratteristico delle colture del batterio; lo S. aureus è presente sulla cute,

nel naso e nella faringe della maggior parte degli esseri umani adulti, perciò esso è

in grado di causare infezioni in qualsiasi momento (Kluytmans et al., 1997). La

capsula è di natura polisaccaridica ed è dotata di potere antifagocitario, ovvero è

inattaccabile da parte dei granulociti neutrofili, che costituiscono fino al 70% dei

leucociti (globuli bianchi) presenti nell’organismo umano; inoltre sulla superficie

della cellula batterica sono presenti diverse proteine che sono in grado di interagire

con altre strutture proteiche dell’organismo umano (Lowy, 1998). Lo S. aureus è

responsabile di infezioni acute che possono interessare distretti corporei quali cute,

apparato scheletrico, apparato respiratorio, apparato urinario, sistema nervoso

centrale; alcuni ceppi, inoltre, producono e rilasciano esotossine che possono

provocare intossicazioni e manifestazioni morbose di diverso tipo, tra cui

l’enterotossina, che provoca gastroenteriti in seguito ad eventi di intossicazione

alimentare causati da assunzione di cibi ricchi di lipidi (come per esempio crema o

panna), che favoriscono la crescita batterica, in cui sia presente una certa quantità di

enterotossina (Davis et al., 1973).

Lo S. aureus è dotato di una elevata capacità di resistenza agli antibiotici, in

particolare nelle infezioni nosocomiali; tale capacità è andata aumentando nel corso

degli anni (Tenover et al., 2001), rendendo antibiotici quali cefalosporine e

penicilline ormai non più efficaci (Chambers, 2001); pare, come affermato da Cui et

al. (2003), che la crescente resistenza alla vancomicina dipenda dall’inspessimento

della parete cellulare. Lo S. aureus, inoltre, a differenza di molte altre specie, è in

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 75 -

grado di resistere all’NO, una sorta di “antibiotico naturale” prodotto dall’organismo

umano che impedisce ai microorganismi sia la respirazione che la fermentazione, e

ciò grazie alla produzione di acido lattico che, attraverso il mantenimento di una

particolare situazione di equilibrio chimico, gli consente di vivere in un ambiente

altrimenti ostile; un enzima prodotto dallo stesso batterio promuove inoltre la

conversione dell’NO in prodotti non tossici; si ritiene che la stessa sostanza

pigmentosa che caratterizza il batterio sia anche responsabile dell’azione

antiossidante che consente al batterio di sopravvivere in tali condizioni (Clauditz et

al., 2006), e che possa addirittura avere un ruolo nella resistenza all’attacco da parte

dei granulociti neutrofili (Liu et al., 2005).

2.5.4 La Listeria monocytogenes

La Listeria monocytogenes è un batterio Gram-positivo, asporigeno, aerobio

facoltativo, a forma di bastoncello, capace di movimento grazie a dei flagelli a

temperature fino a 30°C, e non più a 37°C, ma può invece spostarsi tra cellule

eucarioti grazie alla formazione, mediante polimerizzazione, di filamenti di una

sostanza proteica, l’actina (Gründling et al., 2004).

La Listeria monocytogenes è l’agente patogeno causa della listeriosi, uno dei più

virulenti di origine alimentare con percentuali di mortalità tra gli individui colpiti

dall’infezione comprese tra il 20 e il 30% (Ramaswamy et al., 2007). Responsabile

negli Stati Uniti di circa 2.500 casi di infezione e di circa 500 decessi all’anno, la

listeriosi è la principale causa di morte tra le infezioni provocate da patogeni

batterici di origine alimentare, con mortalità che superano anche la Salmonella e il

Clostridium botulinum (Dharmarha, 2008). Frequente veicolo di infezione,

soprattutto nel caso delle meningiti nei neonati (ai quali l’infezione viene trasmessa

dalla madre per via transvaginale), di cui la L. monocytogenes è la terza causa, sono

i formaggi a pasta molle, che possono essere contaminati e consentono la crescita

batterica (Genigeorgis, 1991).

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 76 -

La L. monocytogenes fu descritta per la prima volta da Murray et al. (1926), che

le attribuirono il nome di Bacterium monocytogenes, poi cambiato nella forma

attuale da Harvey Pirie (1940); si dovette tuttavia attendere il secondo dopoguerra

per identificare la specie come importante causa di sepsi e meningiti neonatali

(Potel, 1952). Negli adulti, invece, solo più tardi la listeriosi fu associata ai pazienti

con sistema immunitario compromesso, come coloro che hanno fatto uso di sostanze

immunosopprimenti e corticosteroidi nel trattamento tumorale o i trapiantati

d’organo, oltre quelli infettati da virus HIV (Schlech, 2001); fu solo nel 1981, come

riportato da Schlech et al. (1983), che la L. monocytogenes fu identificata quale

causa di patologie di origine alimentare, quando a Halifax, in Nuova Scozia, 41 casi

di listeriosi (di cui 18 conclusi col decesso del paziente) in donne in stato di

gravidanza e neonati furono collegati, da un punto di vista epidemiologico, al

consumo di “coleslaw” (un’insalata di cavolo tritato, carote, cipolle e maionese)

contenente cavoli che erano stati concimati con letame ovino contaminato dalla

L. monocytogenes. Da allora sono numerosi i casi documentati di listeriosi di origine

alimentare, e oggi la L. monocytogenes è largamente considerata un consistente

pericolo nell’industria alimentare (Ryser e Marth, 2007).

L’infezione da L. monocytogenes è causa, come detto, della malattia detta

listeriosi, tra le cui manifestazioni vi sono, oltre alle infezioni intrauterine e della

cervice nelle donne in stato di gravidanza (che possono condurre all’aborto

spontaneo), setticemia e meningiti (Gray e Killinger, 1966), encefaliti (Armstrong e

Fung, 1993), ulcera corneale (Holland et al., 1987), polmonite (Whitelock-Jones et

al., 1989). I neonati sopravvissuti alla listeriosi materna possono soffrire di

granulomatosi infantisettica, che consiste nella diffusione in tutto il corpo di

granulomi piogeni, e di un ritardo dello sviluppo (U. S. Food and Drug

Administration, 2001). L’insorgenza delle patologie sopra menzionate è solitamente

preceduta da sintomi simili a quelli influenzali, inclusa febbre persistente; i sintomi

gastrointestinali quali nausea, vomito e diarrea possono precedere forme più gravi di

listeriosi o possono anche essere gli unici sintomi espressi; il tempo di insorgenza

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 77 -

dei sintomi gastrointestinali non è noto con esattezza, ma con ogni probabilità

supera le 12 ore (U. S. Food and Drug Administration, 2001). Uno studio di Wexler

e Oppenheim (1979) suggerì che la L. monocytogenes fosse l’unico, tra i batteri

Gram-positivi, a possedere dei lipopolisaccaridi che fungerebbero da endotossina,

ma ciò fu contraddetto da un successivo lavoro di Maitra et al. (1986).

La dose infettiva di L. monocytogenes varia a seconda del ceppo e della

sensibilità della vittima. Dai casi di patologia contratta attraverso l’assunzione di

latte crudo o in apparenza pastorizzato si potrebbe dedurre che, nei soggetti

maggiormente sensibili, anche solo un migliaio di batteri siano in grado di causarla

(U. S. Food and Drug Administration, 2001). La colonizzazione dell’organismo

umano inizia con l’invasione dell’epitelio gastrointestinale, da cui i microorganismi

penetrano nei monociti, nei macrofagi e nei leucociti polimorfonucleari dell’ospite,

colonizzando così il sangue (setticemia) e sviluppandosi; la loro presenza nei

fagociti consente inoltre l’accesso al cervello e probabilmente anche la migrazione

transplacentare verso il feto nelle donne in stato di gravidanza; la patogenesi si basa

insomma essenzialmente sulla capacità della L. monocytogenes di sopravvivere e

moltiplicarsi nelle cellule fagocitarie dell’organismo ospite. L’insorgenza di

meningiti listeriosiche può essere mortale fin nel 70% dei casi, la setticemia nel

50%, le infezioni perinatali e neonatali in oltre l’80%; nelle infezioni contratte

durante la gravidanza, la madre in genere sopravvive (U. S. Food and Drug

Administration, 2001).

Il fatto che la L. monocytogenes sia un parassita intracellulare la rendono

potenzialmente interessante come vettore di geni; per esempio, è recente lo studio

sull’utilizzo come vaccino vivo attenuato (detto “Lovaxin C”) contro il carcinoma

della cervice (Lowry, 2008).

La L. monocytogenes è un batterio particolarmente tenace e resiste benissimo al

congelamento, all’essiccamento e al calore, condizioni di norma deleterie per batteri

asporigeni (U. S. Food and Drug Administration, 2001). Esso è stato associato ad

alimenti quali il latte crudo, il latte fluido pastorizzato (Fleming et al., 1985), i

CAPITOLO 2 – I FONDAMENTI SCIENTIFICI

- 78 -

formaggi (in particolare quelli molli o freschi), il gelato, le verdure crude, le salsicce

preparate con carne cruda, il pollame sia crudo che cotto, le carni crude in genere, il

pesce sia crudo che affumicato; la sua capacità di crescere a temperature basse anche

fino a 0°C rende vana o comunque poco utile la refrigerazione dei cibi (U. S. Food

and Drug Administration, 2001). Addirittura a temperature prossime ai 4°C la

presenza di ioni Fe+++ pare favorire la crescita della L. monocytogenes (Dykes e

Dworaczek, 2002).

I metodi di analisi degli alimenti rispetto alla contaminazione da

L. monocytogenes sono lunghi (possono durare anche una settimana) e complessi,

anche se ultimamente si stanno sviluppando nuove metodologie che consentono di

accorciare notevolmente i tempi (BIO-RAD, 2009).

CAPITOLO 3

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 81 -

3.1 Il progetto sperimentale

Se si osserva il fenomeno della crescita batterica in un ambiente chiuso (tipo

“batch”) caratterizzato dalla presenza di idonee quantità degli opportuni nutrienti e

da una temperatura appropriata, si rileva come l’andamento nel tempo della

numerosità batterica (relativa ai batteri vivi) presenti un andamento caratteristico,

che si ripete in maniera similare per le diverse specie (Madigan e Martinko, 2007).

Tale tipico andamento, che è schematizzato in Fig. 3.1, viene comunemente

chiamato “curva di crescita”, ed è la rappresentazione grafica del processo cinetico

globale di crescita della popolazione, che è risultante delle due cinetiche

contrapposte di moltiplicazione cellulare e di morte; come si evince dalla Fig. 3.1, la

curva di crescita presenta quattro fasi fondamentali, tra loro sequenziali e facilmente

distinguibili, che sono descritte di seguito.

a) Fase di latenza (o “fase lag”) (1 in Fig. 3.1). Ha inizio con la semina, e

prelude alla moltiplicazione batterica: infatti, durante tale periodo, i

microorganismi non si moltiplicano, ma attivano i meccanismi che

consentono loro di adattarsi alle condizioni del nuovo ambiente e ai

principi nutritivi in esso presenti; si sviluppano i componenti cellulari

necessari per la divisione cellulare; la durata della fase di latenza

dipende da diversi fattori, quali la composizione del substrato, la

temperatura, le caratteristiche dell’atmosfera di incubazione, lo stato

fisiologico delle cellule inoculate; in linea generale, trattandosi di una

fase di adattamento, la sua durata è tanto inferiore quanto più le

condizioni del nuovo ambiente sono simili a quelle dell’ambiente di

provenienza delle cellule.

b) Fase di crescita esponenziale (o logaritmica o illimitata o “fase log”) (2

in Fig. 3.1). Durante questa fase le cellule cominciano a moltiplicarsi;

poiché lo fanno mediante un processo di divisione binaria, ad ogni

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 82 -

successiva divisione (generazione) il numero di batteri raddoppia,

seguendo dunque una progressione di tipo geometrico; quasi tutti i

batteri presenti sono vivi, e il processo di moltiplicazione esponenziale

continua fintanto che non intervengono fattori limitanti, come la carenza

di determinati nutrienti, un pH sfavorevole, l’accumulo di metaboliti

tossici, la scarsità di ossigeno nel caso in cui i batteri siano aerobi, etc..

c) Fase stazionaria (3 in Fig. 3.1). Consiste nel rallentamento e nel

successivo sostanziale arresto della crescita batterica con l’instaurarsi di

un regime dinamico di equilibrio caratterizzato da una situazione in cui

le nuove cellule sono bilanciate da quelle che muoiono; nell’ambiente

continuano l’accumulo delle sostanze di rifiuto e l’impoverimento in

termini di nutrienti.

d) Fase di decremento esponenziale (o di morte o di declino) (4 in

Fig. 3.1). La velocità di morte supera quella di moltiplicazione cellulare

tempo

nu

mer

osi

tà b

att

eric

a

Figura 3.1. Forma tipica di una curva di crescita microbica (1: fase di latenza; 2: fase di crescita esponenziale; 3: fase stazionaria; 4: fase di decremento esponenziale).

1 2

3

4

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 83 -

e la popolazione decresce rapidamente fino alla sua completa estinzione,

che sopraggiunge o per il completo esaurimento dei nutrienti e per il

consecutivo esaurimento dell’energia cellulare di riserva, oppure per

l’instaurarsi di condizioni ambientali quali un pH sfavorevole o

un’eccessiva concentrazione di prodotti (cataboliti) tossici.

A parte la forma simile della curva di crescita caratteristica delle diverse specie

di microorganismi, la variabile che genera le distinzioni più marcate tra le specie e,

per una stessa specie, tra le differenti condizioni ambientali, è il tempo, in quanto

questo può variare, per il completamento delle quattro fasi, da poche ore a diverse

settimane (Madigan e Martinko, 2007).

L’idea centrale sulla quale si fonda il progetto sperimentale oggetto del presente

lavoro di tesi è quella di valutare se, e in quale misura, vi possa essere un’influenza

delle microonde a bassa potenza, in generale, sulla crescita microbica, e in

particolare su quella di specie interessate alle problematiche relative alla sicurezza

alimentare, di cui si è parlato nel paragrafo 1.2. Infatti, come è stato lì ampiamente

discusso, la riduzione della carica batterica presente negli alimenti e il controllo

della crescita batterica sono due punti cardine dei trattamenti dell’industria

alimentare, le cui principali finalità sono, in linea generale, l’estensione della vita

commerciale dei prodotti e la minimizzazione del rischio per i consumatori. La

motivazione del ricorso a basse potenze, invece, risiede nella specifica intenzione di

concentrare l’indagine sperimentale sugli effetti non termici indotti dalle microonde,

la cui possibile esistenza è, per quanto in maniera forse non del tutto univoca,

ampiamente documentata in letteratura (si veda a tal proposito il paragrafo 2.4 e i

relativi sottoparagrafi): solo l’utilizzo di potenze sufficientemente basse,

congiuntamente ad un efficace sistema di controllo della temperatura, può infatti

consentire la migliore possibilità di discriminazione tra gli effetti non termici

ipotizzati e quelli termici, che sono invece ben noti; e si è già discusso (paragrafo

1.5) di quali potrebbero essere, potenzialmente, le ricadute future dei trattamenti non

termici, per cui non vi si tornerà nuovamente ora.

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 84 -

Come temperatura alla quale condurre la sperimentazione programmata è stata

scelta quella di 37°C in quanto, come detto al paragrafo 1.2, si tratta di una

temperatura prossima a quella ottimale di crescita per la maggior parte delle specie

microbiche patogene che possono dar luogo a contaminazioni alimentari, nonché per

quelle effettivamente esaminate; questo elemento sortisce anche l’effetto, dal punto

di vista sperimentale, di esaltare le eventuali differenze tra la velocità di crescita in

presenza ed in assenza delle microonde, in quanto la temperatura non è fattore

limitante della crescita stessa, e di contenere, allo stesso tempo, l’influenza di

eventuali errori dovuti al controllo della temperatura mediante termostatazione, in

quanto la temperatura ottimale di crescita individua anche la zona nella quale la

sensitività della velocità di crescita rispetto alla temperatura è minima (vedi Fig.

1.1). Inoltre, altro fatto non trascurabile, essendo 37°C la temperatura media

corporea dell’essere umano, essa è la massima alla quale è soggetto l’alimento nel

suo percorso dalla produzione alla digestione e assimilazione, qualora non sia

sottoposto a trattamenti termici: ipotizzare dunque un trattamento a 37°C non

comporterebbe nell’alimento perdite di proprietà nutrizionali superiori a quelle che

comporta la sua stessa ingestione. La temperatura qui fissata è la stessa dei lavori di

Carta e Desogus (2006; 2007; 2008b; 2008c; 2009) e di Carta et al. (2006a; 2006b).

Occorre, in conclusione, precisare che poco o nulla si potrà dire sugli eventuali

meccanismi di azione delle microonde, viste la varietà e la complessità delle

possibili interazioni con gli organismi biologici (si vedano a tal proposito i paragrafi

2.3 e 2.4), solo a partire da informazioni di tipo cinetico, né, molto probabilmente, si

potrebbe avere la certezza che l’eventuale azione non termica delle microonde sia

svolta direttamente sulle strutture cellulari in senso stretto, piuttosto che su enzimi o

ioni.

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 85 -

3.2 Le necessità della sperimentazione

In base a quanto detto nel precedente paragrafo 3.1, nella predisposizione della

struttura sperimentale è stato necessario risolvere alcuni problemi per poter

rispettare altrettante precise necessità. Il primo di questi è stato sicuramente quello di

come mettere in contatto tra loro microorganismi e microonde in modo controllato, e

ciò ha indirizzato la scelta verso un sistema circolante che potesse in qualche modo

consentire tempi di esposizione simili per le cellule presenti nella coltura. Il tutto

doveva chiaramente poter avvenire per tempi sufficienti almeno al completamento

della fase di crescita esponenziale, e dunque nell’ordine delle diverse ore (da 5 a 10),

mantenendo la temperatura, per tutta la durata della prova, costante al valore

prescelto, e garantendo condizioni di “sterilità” rispetto all’ambiente in entrambi i

sensi, cioè evitando contemporaneamente la penetrazione all’interno dell’ambiente

di reazione di microorganismi presenti all’esterno e lo spargimento nell’ambiente

dei microorganismi presenti nella miscela reagente; quest’ultima condizione è stata

ottenuta predisponendo una struttura di circolazione che potesse essere

preliminarmente ed interamente sottoposta a sterilizzazione, per poi rimanere

completamente chiusa sia prima che durante la prova (ad eccezione del momento

dell’inoculazione). Il problema delle determinazioni analitiche, poi, è strettamente

legato al fatto che il sistema reagente dovrebbe avere il minor numero possibile di

contatti con l’esterno, per cui si è preferito propendere per l’analisi in continuo della

miscela, senza l’effettuazione di campionamenti.

L’apparato sperimentale e le procedure connesse con il suo utilizzo sono state

dunque effettivamente concepite e realizzate per essere in grado di operare nelle

condizioni precedentemente esposte; i particolari tecnici sono contenuti nei paragrafi

successivi, e sono in parte i medesimi già presentati da Carta e Desogus (2006;

2007; 2008b; 2008c; 2009) e da Carta et al. (2006b).

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 86 -

3.3 L’apparato sperimentale

3.3.1 La “parte biologica”

La struttura sperimentale adottata, esemplificata in Fig. 3.2, prevede la

circolazione in continuo di sospensioni batteriche opportunamente preparate e

sottoposte a differenti condizioni di irradiazione. Il punto focale della struttura è

costituito da un reattore biologico posizionato sulla parte interna di una piastra di

acciaio a sua volta fissata, tramite una flangia, sulla parte terminale di una guida

d’onda; il reattore così concepito costituisce il “punto di contatto” tra il materiale

vivente e il campo elettromagnetico, contatto che può avvenire dunque in condizioni

sperimentali controllate e in sicurezza per gli operatori; la struttura costituita dalla

piastra e dal reattore è schematizzata in Fig. 3.3.

7

4

5

1 2

3

6

8

9

10

11

12

Figura 3.2. Schema dell’apparato sperimentale proposto (1: aria esterna; 2: filtro ceramico per l’aria esterna; 3: pompa peristaltica; 4: tappo; 5: bottiglia contenente la sospensione da irradiare; 6: reattore dipo PFR dove la sospensione batterica viene irradiata; 7: guida d’onda; 8: radiazione incidente; 9: piastra di supporto del reattore posta a chiusura della guida d’onda; 10: prelievo della sospensione batterica dalla bottiglia; 11: ingresso della sospensione batterica nella bottiglia; 12: sistema di analisi spettrofotometrica).

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 87 -

La sospensione batterica è contenuta in una bottiglia di pirex (5 in Fig. 3.2),

avente la funzione di serbatoio polmone, che viene riempita con la soluzione

nutriente per poi essere chiusa ermeticamente con un tappo in PVC termicamente

resistente (4 in Fig. 3.2) e sterilizzata. Il tappo è fornito di quattro passaggi con le

seguenti funzioni:

• insufflazione di aria esterna (1 in Fig. 3.2) passante attraverso un filtro

ceramico di porosità pari a 22 µm (2 in Fig. 3.2);

• uscita dalla bottiglia della sospensione reagente (10 in Fig. 3.2) per

essere inviata al reattore irradiato (6 in Fig. 3.2);

• ingresso della sospensione reagente (11 in Fig. 3.2) proveniente dal

reattore e dal sistema di analisi spettrofotometrica (12 in Fig. 3.2);

Figura 3.3. Schema costruttivo della piastra di chiusura della guida d’onda e di supporto del reattore (a: vista dall’alto; b: vista frontale).

a

b

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 88 -

• uscita dell’aria in eccesso utilizzata per l’ossigenazione della

sospensione reagente, fornita di un tubicino ad “U” chiuso

all’estremità con un tappo in cotone; tale sistema è stato preferito al

filtro ceramico in quanto questo sarebbe stato facilmente ostruito dalla

condensazione, sulla sua superficie filtrante, dell’umidità; la

particolare configurazione ad “U”, invece, oltre ad impedire che aria

esterna eventualmente richiamata all’interno della bottiglia possa

causare contaminazioni, permette di evitare la ricaduta, nella

sospensione, sia di filamenti di cotone che di goccioline di condensa.

Il fluido reagente contenuto nella bottiglia, qui mantenuto a temperatura costante

mediante termostato ad acqua, viene aspirato e messo in circolo mediante una

pompa peristaltica (3 in Fig. 3.2) con una portata di 40 ml min-1. Il circuito è stato

realizzato con tubi in silicone (ID 2 mm; OD 4 mm) e, in corrispondenza delle

congiunzioni, di acciaio inox (ID 2 mm). Il fluido giunge così nel reattore tubolare,

di lunghezza pari a 7,6 cm, realizzato anch’esso in silicone (ID 4 mm; OD 6 mm), e

posizionato, come detto, nella parte irradiata di una piastra in acciaio inox (9 in

Fig. 3.2) che chiude una guida d’onda (7 in Fig. 3.2); le dimensioni del reattore e la

portata hanno fatto sì che il tempo di permanenza della sospensione all’interno del

reattore sia stato, per tutte le prove effettuate, di circa 1,4 s. Il silicone è stato scelto

per le sue caratteristiche di flessibilità e di trasparenza alle microonde (von Hippel,

1954), mentre i raccordi (metallici) sono stati realizzati utilizzando prodotti

Swagelok che hanno consentito il completo isolamento dall’ambiente esterno e la

sicurezza delle connessioni.

I terreni di coltura utilizzati sono stati:

• “Mueller Hinton Broth” (MH) della ditta Microbiol®, infuso

disidratato ottenuto da cuore di bue con addizione di idrolizzato acido

di caseina e amido, che veniva disciolto in acqua distillata nella

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 89 -

misura di 22 g per litro di acqua, e che è stato utilizzato per le specie

Bacillus clausii e Pseudomonas aeruginosa;

• “Brain Hearth Infusion Broth” (BHI) della ditta Microbiol®, infuso

disidratato ottenuto da cuore di bue e cervello di vitello in condizioni

controllate, che veniva disciolto in acqua distillata nella misura di 37 g

per litro di acqua, e che è stato utilizzato per le specie Staphylococcus

aureus e Listeria monocytogenes.

La procedura sperimentale adottata prevede le seguenti fasi:

• introduzione di 200 ml di soluzione nutriente nel contenitore in pirex,

chiusura di questo e collegamento del circuito;

• sterilizzazione dell’intero circuito attraversato dal fluido (costituito

dall’insieme degli elementi 4, 5, 6, 9, 10 e 11 di Fig. 3.2) in autoclave

per 20 minuti alla temperatura di 121°C;

• raffreddamento della soluzione e dell’intera struttura fino a

temperatura ambiente;

• inoculazione nella bottiglia, mediante siringa sterile, attraverso il foro

di ingresso dell’aria esterna, privato all’uopo del filtro ceramico in

condizioni asettiche per impedire contaminazioni esterne, di piccole

quantità (2-3 ml) della sospensione batterica precedentemente

preparata per lo scopo;

• azionamento della pompa di ricircolo ed, eventualmente, dell’apparato

di generazione delle microonde;

• misurazione della densità ottica ad intervalli di tempo prefissati,

eventuale prelievo di campioni in condizioni asettiche mediante

rubinetto inserito allo scopo nel circuito, registrazione dei dati

provenienti dalle misure e monitoraggio dell’evoluzione della prova

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 90 -

con controllo circa il mantenimento dei valori impostati delle variabili

di processo e circa l’andamento delle misure stesse di densità ottica;

• interruzione della circolazione del fluido, della generazione delle

microonde e della registrazione dei dati, risterilizzazione e lavaggio

del circuito.

Le sospensioni batteriche preparate per l’inoculazione sono state ottenute

secondo le seguenti modalità:

• i microorganismi di Bacillus clausii dal prodotto commerciale

Enterogermina® (Sanofi-synthelabo®), costituito da una sospensione

di spore del batterio in acqua purificata con un contenuto di 4.108

spore per millilitro di sospensione; 1 ml di tale sospensione, in seguito

ad agitazione meccanica, veniva addizionato a 4 ml di soluzione

nutriente, quindi i microorganismi venivano fatti sviluppare per 24 h a

37°;

• la Pseudomonas aeruginosa da un ceppo locale coltivato nei

laboratori del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche

(sezione di Microbiologia Applicata e Tecnologie Biomediche)

dell’Università degli Studi di Cagliari; i microorganismi, prima

dell’inoculazione, sono stati fatti adattare in MH per tempi compresi

tra 24 e 48 h alla temperatura di 37°C, fino al raggiungimento di un

sufficiente grado di torbidità;

• i batteri di Staphylococcus aureus utilizzati sono del ceppo ATCC

25923; la fase di adattamento a 37°C, anche in questo caso, ha avuto

durate comprese tra 24 e 48 h, fino al raggiungimento di una

sufficiente torbidità;

• la Listeria monocytogenes da un ceppo locale coltivato nei laboratori

del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche (sezione di

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 91 -

Microbiologia Applicata e Tecnologie Biomediche) dell’Università

degli Studi di Cagliari; i microorganismi, prima dell’inoculazione,

sono stati fatti adattare in BHI per tempi ancora compresi tra 24 e 48 h

e sempre alla temperatura di 37°C, fino al raggiungimento di un

sufficiente grado di torbidità.

Per ogni coltura, prima di procedere con l’inoculazione dei microorganismi nel

sistema reagente, è stata misurata la concentrazione batterica mediante conta

delle colonie su terreno solidificato “Mueller Hinton Agar”, anche allo scopo di

accertare l’assenza di contaminazioni da parte di specie estranee.

3.3.2 La “parte elettronica”

L’apparato di generazione delle microonde a bassa potenza, già presentato da Carta

e Desogus (2008b; 2008c; 2009), è costituito da diversi componenti elettronici. Il

principale di questi è un oscillatore del tipo “miniature permanent magnet YIG-

Tuned (Yttrium Iron Garnet)”, modello “Micro Lambda Wireless, Inc. MLOM-

0204”. Tale apparecchio produce un segnale in uscita caratterizzato da una potenza

di 14 dBm (250 mW), la cui frequenza può essere regolata nel campo compreso tra 2

e 4 GHz. L’oscillatore fa uso di un transistor bipolare accoppiato con una sfera YIG

in un circuito a film sottile. La regolazione della frequenza operativa è ottenuta

agendo su un segnale di corrente in ingresso all’oscillatore nel campo compreso tra

-100 e +100 mA; tale segnale viene prodotto da un circuito “driver” che converte un

segnale di tensione in uno di corrente, e che è provvisto, oltre al principale, anche di

un piedino secondario (con una sensibilità inferiore rispetto al principale),

utilizzabile per operare una regolazione più fine; il circuito “driver”, al fine di

regolare la frequenza tra 2 e 4 GHz, accetta segnali di input compresi tra 0 e 5 V di

corrente continua; la tensione in ingresso, a sua volta, viene generata per mezzo di

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 92 -

una scheda di acquisizione dati della National Instruments (modello PCI-MIO 16-

E4), gestita dal software Virtual Brench.

L’espressione che consente di ottenere la frequenza operativa ν in funzione della

tensione in ingresso V è stata ottenuta con misure della frequenza in uscita effettuate

mediante un analizzatore di spettro portatile (modello “Agilent 8563E option

006”, con campo di frequenza misurabile compreso tra 30 Hz e 26,5 GHz, massimo

livello di potenza di 1 W); si è determinato che tale funzione può essere espressa

dalla seguente relazione lineare (con un coefficiente di correlazione pari a 0,9999):

V0,42,0ν ⋅+= (3.1)

Continuando a seguire la direzione di propagazione del segnale, dopo

l’oscillatore è connesso un “DC Block” (Suhner 1100.01.A), seguito a sua volta da

un attenuatore fisso da 6 dB (JFW Industries 4AH-06), e poi da un attenuatore

rotante (JFW Industries 50R-248), che consente una ulteriore attenuazione della

potenza in uscita di una quantità variabile tra 0 e 10 dB, con un’ampiezza di passo di

1 dB.

Il segnale generato, una volta trattato per mezzo dei componenti appena

descritti, viene trasferito ad un amplificatore di potenza (Herotek P/N AP271135),

segnale di corrente per la regolazione della frequenza

1 2 3 4 5 6

7 8

alimentazione

alimentazione

Figura 3.4. Schema dell’apparato di generazione delle microonde (1: oscillatore; 2: attenuatore fisso; 3: attenuatore rotante; 4: amplificatore; 5: isolatore; 6: accoppiatore cavo – guida d’onda; 7: guida d’onda; 8: piastra di chiusura della guida d’onda supportante il reattore).

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 93 -

alimentato con una tensione di 12 V di corrente continua; l’amplificazione prodotta

è pari, in condizioni ottimali, a 23 dB, tuttavia l’efficienza diminuisce con

l’aumentare della temperatura del dispositivo, per cui si è reso necessario dotarlo di

un sistema di raffreddamento abbastanza efficiente, dotato di una sufficiente

superficie di scambio posta a contatto con aria movimentata per mezzo di una

ventola. Successivamente il segnale incontra un isolatore (RF & NC CI-200-172),

che ha la funzione di consentire il passaggio del segnale incidente impedendo al

contempo il passaggio del segnale riflesso, che danneggerebbe l’amplificatore e gli

altri componenti del circuito.

Il segnale proveniente dall’amplificatore e uscente dall’isolatore viene a questo

punto veicolato, attraverso un cavo coassiale, ad un accoppiatore cavo – guida

d’onda (MEC P/N LA 40-30-CH WR430), che converte il segnale in ingresso via

cavo e, tramite un’antenna, lo invia alla guida d’onda, del tipo WR430 (MEC P/N

LA 160-30N), con dimensioni della sezione trasversale interna di 109 × 55 mm, e

quindi, tramite questa, al reattore biologico: la parte terminale della guida d’onda è

infatti chiusa da una piastra in acciaio inossidabile sulla quale è posizionato il

reattore stesso (vedi paragrafo 3.3.1). Le misure della potenza incidente possono

essere effettuate utilizzando un misuratore “power meter” della casa Hewlett

Packard, modello 436A, che misura la potenza del segnale proveniente da un

accoppiatore direzionale (coefficiente di accoppiamento di 10-3) collegato alla guida

d’onda mediante un sensore di potenza della stessa Hewlett Packard, modello

8481A; quest’ultimo è in grado di misurare livelli di potenza compresi tra -30 dBm e

+20 dBm (corrispondenti rispettivamente a 1 µW e a 100 mW), a frequenze

comprese tra 10 MHz e 18 GHz; per quanto riguarda la misura della frazione di

potenza delle microonde effettivamente assorbita dal sistema reagente, necessaria

per la valutazione del SAR della sospensione irradiata, si rimanda al paragrafo 3.4.1.

In linea teorica la massima potenza del segnale trasmesso lungo la guida d’onda

potrebbe essere di 30 dBm (1000 mW) ma, per via dell’efficienza globale

dell’apparato, della compressione del segnale per opera dell’amplificatore, nonché

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 94 -

della resa dei singoli componenti, la massima potenza misurata è stata di circa 26

dBm (400 mW). Tutte le connessioni tra i componenti e fino all’adattatore coassiale

sono state realizzate mediante cavi del tipo RG316 con connettori del tipo SMA. Le

misure di potenza effettuate tramite il “power meter” possono essere registrate ad

intervalli di tempo prestabiliti grazie alla stessa scheda di acquisizione dati della

National Instruments (modello PCI-MIO 16-E4) utilizzata per la generazione del

segnale inviato al circuito “driver”, e mediante il software di gestione Virtual

Brench: questo consente di verificare, anche a posteriori, il mantenimento, per tutto

il tempo richiesto, del livello di potenza impostato.

3.4 Le determinazioni analitiche

3.4.1 La determinazione dello “Specific Absorption Rate”

Si è spiegato, nel paragrafo 3.3.2, il funzionamento dell’apparato di generazione

delle microonde, e come sia possibile regolare la potenza irradiata lungo la guida

d’onda; quest’ultima è comunque diversa da quella effettivamente assorbita dalle

sospensioni batteriche circolanti all’interno del reattore, in quanto vi è una parte di

potenza che viene dissipata come conseguenza essenzialmente della natura dei

materiali coinvolti e della particolare configurazione geometrica del sistema. La

potenza effettivamente assorbita dal sistema reagente altro non è, in realtà, che lo

“Specific Absorption Rate” (SAR), di cui si è già parlato nel paragrafo 2.4; se,

dunque, per ragioni di comodità, si farà riferimento nel seguito del presente lavoro

alla sola potenza irradiata, per questioni di completezza delle informazioni fornite,

oltre che per correttezza scientifica nel confronto con le informazioni presenti in

letteratura, si è ritenuto di determinare, in via preventiva, quale fosse la frazione

della potenza irradiata che viene effettivamente assorbita dal sistema.

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 95 -

Tale determinazione è stata effettuata partendo dalle considerazioni che

seguono. La variazione della temperatura del fluido circolante è dovuta a:

• potenza trasmessa dalla radiazione a microonde (di seguito indicata

con RQ& );

• potenza termica generata dalle forze di attrito dovute alla circolazione

del fluido (di seguito indicata con AQ& );

• calore scambiato dal sistema con l’esterno (di seguito indicato con

EQ& ).

Indicando dunque con m la massa totale di fluido contenuta all’interno del sistema,

con pc il suo calore specifico a pressione costante, con T la temperatura del fluido e

con t il tempo si può scrivere il seguente bilancio termico:

EARp QQQdt

dTmc &&& −+=⋅⋅ (3.2)

La relazione 3.2, se il sistema può essere considerato adiabatico ( 0QE =& ), diviene:

mc

QQ

dt

dT

p

AR

+=

&&

(3.3)

Ora, poiché m rimane costante, e tutte le altre grandezze che compaiono a destra

nella 3.3 possono essere ritenute costanti al passare del tempo (se le variazioni di

temperatura sono modeste), fintantoché il sistema continua ad essere all’incirca

adiabatico è da ritenersi che l’andamento della temperatura rispetto al tempo debba

essere di tipo lineare; integrando la 3.3 (avendo posto 0TT = in corrispondenza del

tempo 0tt = ) si ottiene:

( )0p

AR0 tt

mc

QQTT −⋅

++=

&&

(3.4)

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 96 -

Poiché si può a buona ragione ritenere che il termine AQ& , che dipende dalle

caratteristiche interne del circuito e da quelle del moto del fluido, non sia influenzato

dall’applicazione o meno del campo elettromagnetico, la relazione 3.4, nel caso

particolare di assenza di campo ( 0QR =& ), può essere riscritta nella forma che segue:

( )0p

A0NR tt

mc

QTT −⋅

⋅+=

&

(3.5)

Conoscendo dunque l’andamento della temperatura in assenza e in presenza di

irradiazione, se si indica con NRδ la pendenza della retta temperatura vs. tempo nel

primo caso, e con Rδ la pendenza della stessa retta nel secondo caso, è possibile

determinare quale sia l’effettiva potenza trasmessa dalle microonde al sistema;

infatti, attraverso alcuni semplici passaggi, si può giungere alla seguente relazione:

( ) mcδδQ pNRRR ⋅⋅−=& (3.6)

A questo punto, dal confronto tra il valore calcolato di RQ& e la potenza trasmessa

lungo la guida d’onda, è possibile sapere quale sia, in corrispondenza della potenza

di irradiazione, la frazione di quest’ultima che viene effettivamente assorbita dal

sistema reagente.

La procedura sperimentale adottata per la determinazione del SAR come

frazione della potenza irradiata è stata la seguente:

• rimozione dal circuito della parte dedicata all’analisi

spettrofotometrica (12 in Fig. 3.2) e riassemblaggio dello stesso;

• coibentazione di tutte le rimanenti parti del circuito mediante tubo

isolante commerciale, ad unica esclusione delle parti tecnicamente

non rivestibili (la porzione di tubo posizionata all’interno della pompa

peristaltica e la parte interna alla guida d’onda);

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 97 -

• esecuzione di una fase di circolazione di acqua distillata (100 ml)

senza irradiamento finalizzata alla rilevazione del contributo degli

attriti sull’aumento dell’energia interna;

esecuzione di prove con irradiazione a potenza variabile facendo

circolare dell’acqua distillata (100 ml) nelle stesse condizioni

sperimentali utilizzate durante le prove riguardanti le sospensioni di

microorganismi.

0,0

0,5

1,0

1,5

2,0

2,5

3,0

0 10 20 30 40 50 60 70 80

t-t0 [min]

T-T

0 [

K]

Figura 3.5. Grafico riportante l’andamento dell’incremento di temperatura 0TT −

(con C25T0 °= ) di acqua distillata (100 ml) rispetto al tempo 0tt − in

presenza di irradiazione alla potenza di 200 mW (□) ed in assenza (○) di irradiazione (pendenza delle rette di regressione rispettivamente di 0,0380 e di 0,0204 K min-1; coefficienti di correlazione rispettivamente di 0,9966 e di 0,9910).

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 98 -

Per mezzo di un sensore di termometro digitale (Hanna Instruments HI 92710C)

introdotto nel contenitore (5 in Fig. 3.2) attraverso uno dei fori presenti nel tappo (4

in Fig. 3.2) è stato possibile rilevare e registrare la temperatura del fluido all’interno

della bottiglia al trascorrere del tempo.

In linea generale si è riscontrato l’atteso andamento lineare della temperatura in

funzione del tempo; a puro titolo di esempio si riporta in Fig. 3.5 il grafico che

delinea l’andamento dell’incremento di temperatura ( 0TT − ) rispetto al tempo

( 0tt − ) ottenuto con una potenza nominale di 200 mW a confronto con il caso in

assenza di irradiazione, mentre in Tabella 3.1 sono contenute le pendenze delle rette

temperatura vs. tempo ricavate sperimentalmente ( δ ) come media di tre prove per

ogni potenza nominale, e la percentuale di potenza effettivamente assorbita rispetto

a quella nominale. A conti fatti, si può dire che le condizioni sperimentali adottate

durante le prove oggetto del presente lavoro di tesi hanno visto valori di SAR

compresi all’incirca tra 3.10-4 e 10-3 W/g.

P [mW] δδδδ [K min-1] P%

0 0,0220 -

100 0,0264 61,3

200 0,0309 62,0

300 0,0338 54,8

400 0,0363 49,9

Tabella 3.1. Risultati sperimentali delle prove condotte per la determinazione della

frazione di potenza assorbita dal sistema (P: potenza nominale trasmessa

lungo la guida d’onda; δ : valore medio della pendenza delle rette

temperatura vs. tempo; P%: percentuale della potenza effettivamente assorbita rispetto a quella nominale).

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 99 -

3.4.2 La misurazione della densità ottica

Dato un campione attraversato da un fascio di luce monocromatica con

lunghezza d’onda fissata, si definisce trasmittanza (Tr) il seguente rapporto:

0

1

I

ITr = (3.7)

dove 0I rappresenta l’intensità della luce incidente, mentre 1I l’intensità della luce

trasmessa che emerge dal campione. Secondo la legge di Beer–Lambert (o di Beer–

Lambert–Bouguer), la trasmittanza è legata alla natura chimica e allo spessore del

mezzo attraversato secondo la relazione:

l-kλ10Tr ⋅= (3.8)

dove λk è una costante caratteristica del mezzo, valida alla lunghezza d’onda λ ,

detta coefficiente di estinzione, mentre l rappresenta il cammino ottico. La densità

ottica (OD), detta anche assorbanza, corrisponde al logaritmo decimale dell’inverso

della trasmittanza:

=

=

1

0

I

ILog

Tr

1LogOD (3.9)

Dunque, considerando l’espressione della trasmittanza secondo la relazione 3.8, la

densità ottica può essere espressa dalla relazione lineare:

lkOD λ ⋅= (3.10)

Nel caso in cui il mezzo attraversato sia costituito da una soluzione omogenea, di

norma la relazione 3.10 viene scritta nella forma seguente:

ClεOD λ ⋅⋅= (3.11)

dove C è la concentrazione molare del soluto e λε il coefficiente di assorbimento

molare; quest’ultimo è considerato una costante che dipende ancora dalla natura del

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 100 -

mezzo e dalla lunghezza d’onda della luce incidente, benché in effetti possa subire

lievi variazioni in funzione della temperatura; sulla relazione 3.11 si basa l’analisi

chimica quantitativa per spettrofotometria. In effetti tale relazione è valida solo in

determinati intervalli di concentrazione, in quanto al di fuori di questi la linearità tra

densità ottica e concentrazione può essere inficiata da particolari fenomeni chimico-

fisici, come per esempio la precipitazione del soluto.

Nel caso in cui si intenda utilizzare l’analisi spettrofotometrica per miscele

(sarebbe a questo punto improprio parlare di soluzioni) eterogenee (che è il caso

delle sospensioni batteriche in un terreno di coltura liquido), come anche messo in

luce da Ageno (1992), la tecnica (almeno entro certi limiti) conserva la sua validità

(è sufficiente intendere con C la concentrazione delle particelle disperse), ma

occorre tenere presente che la densità ottica rilevata è affetta da un errore che è

proporzionale al rapporto tra la dimensione delle particelle che assorbono la

radiazione incidente (nel nostro si tratta di batteri, che hanno dimensioni

caratteristiche nell’ordine di qualche micrometro) e la lunghezza d’onda della

radiazione (che è in genere nell’ordine di qualche decimo di micrometro, e che nelle

prove sperimentali condotte è stata fissata al valore di 0,600 µm). Questo fatto si

spiega considerando che la differenza tra 0I e 1I è costituita dall’intensità luminosa

non trasmessa e dunque diffusa, per cui il rapporto tra l’intensità della luce diffusa e

l’intensità della luce incidente rappresenta la frazione di intensità luminosa diffusa

rispetto a quella incidente. Poiché la luce diffusa non è direzionale, una frazione α di

questa raggiungerà comunque il sensore dello strumento nonostante non sia luce

trasmessa; se dunque si indica con appOD il valore della densità ottica

effettivamente rilevato dallo strumento, in luogo della relazione 3.9, si ha che:

( )

−⋅+=

Tr1αTr

1LogODapp (3.12)

Il termine destro della 3.12 può evidentemente essere scomposto ottenendo:

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 101 -

( )

−⋅++

=

Tr1αTr

TrLog

Tr

1LogODapp (3.13)

Considerando a questo punto la 3.9, si può esprimere lo scostamento tra OD e

appOD come:

( )

( )

−⋅+=

−⋅+=

Tr

Tr1α1Log

Tr1αTr

Tr-LogOD-OD app (3.14)

Dalla relazione 3.14 si evince come l’errore, che si configura come una sottostima

della densità ottica in quanto non può essere negativo, sia piccolo se la trasmittanza

è grande, e dunque per bassi valori della densità ottica; al crescere di quest’ultima,

invece, diminuisce Tr, e di conseguenza l’errore cresce. Tuttavia, non essendo il

coefficiente α determinabile a priori (esso può dipendere da diversi fattori

difficilmente individuabili), si è ritenuto di procedere preliminarmente, per ogni

specie batterica utilizzata, alla quantificazione empirica dell’errore commesso

all’interno del campo di valori di densità ottica misurati durante le successive prove

sperimentali. Per fare questo, per ogni specie batterica, partendo da una soluzione

molto concentrata, ottenuta alla fine di un processo di crescita (e dunque alle

massime concentrazioni ottenibili durante le prove sperimentali), si è proceduto con

diluizioni successive, misurando volta per volta la densità ottica; si è così riscontrato

come, in tutti i casi esaminati, la differenza tra densità ottica effettiva ed apparente

fosse del tutto irrilevante, inferiore all’1%. Questo passaggio, fondamentale per la

validazione delle misurazioni di densità ottica che sono state poi effettuate, ha

consentito di appurare come all’interno del campo di valori di densità ottica propri

delle prove effettuate per il presente lavoro di tesi l’errore esplicitato dalla relazione

3.14 sia stato del tutto trascurabile; tale constatazione è inoltre giunta a conferma di

precedenti rilevazioni, pur su specie batteriche differenti, dello stesso Ageno (1992).

Nello specifico, le analisi sono state condotte utilizzando uno spettrofotometro

(Varian Cary 50) inserito in linea nel circuito; ciò è stato ottenuto mediante una

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 102 -

cuvette a flusso in pirex (dunque sterilizzabile) appositamente realizzata per lo

scopo, di cui in Fig. 3.6 è riportato lo schema realizzativo. Il fluido, introdotto

attraverso l’apposito tubicino di ingresso (1 in Fig. 3.6) direttamente sul fondo, è

così costretto a percorrere la zona interessata dalla lettura spettrofotometrica dal

basso verso l’alto, per poi imboccare l’uscita (2 in Fig 3.6); tale configurazione

consente così di sfavorire la sedimentazione degli aggregati cellulari presenti nella

miscela circolante, e di favorire invece l’omogeneizzazione della stessa; l’aver

dotato inoltre la cuvette di un tappo apribile (3 in Fig. 3.6) consente l’effettuazione

di una pulizia accurata al termine di ciascuna prova.

Lo spettrofotometro viene gestito tramite l’apposito software fornito dal

costruttore che consente, oltre che di fissare la lunghezza d’onda del fascio di luce

1 2

3

Figura 3.6. Schema costruttivo della cuvette a flusso utilizzata per le analisi spettrofotometriche (1: ingresso del fluido; 2: uscita del fluido; 3: tappo ermetico sigillante).

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 103 -

emessa e l’intervallo temporale tra una lettura e la successiva, anche di registrare le

letture effettuate in un formato utilizzabile con qualsiasi programma di calcolo;

queste sono inoltre visualizzabili in grafico in tempo reale, e ciò consente di

verificare il procedere della prova sperimentale; si riporta in Fig. 3.7, a titolo di

esempio, una schermata generata dal programma.

Grazie alla struttura così adattata, e al software di gestione dello strumento, la

densità ottica delle diverse sospensioni reagenti è stata letta in continuo ogni 5

minuti alla lunghezza d’onda di 600 nm.

Figura 3.7. Esempio di schermata generata dal software di gestione dello strumento durante il funzionamento dello spettrofotometro.

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 104 -

3.4.3 La conta in piastra

La crescita di una data popolazione batterica può essere misurata seguendo nel

tempo la variazione della massa cellulare totale (come avviene nel caso della misura

della densità ottica) o del numero di cellule; esistono a tal proposito parecchi metodi

per determinare la numerosità cellulare e la scelta del metodo da utilizzare dipende

essenzialmente dal tipo di microorganismo e dal problema che si intende affrontare

(Madigan e Martinko, 2007).

Tralasciando tutti i metodi di stima indiretta (applicabili solo in specifici casi e

con l’ausilio di strumentazioni spesso costose, e dunque non di interesse per il

presente lavoro sperimentale), la tecnica forse più immediata è quella della conta

diretta, che viene effettuata contando al microscopio le cellule presenti in un

campione essiccato su un vetrino o, in alternativa, in un campione liquido; tale

tecnica presenta tuttavia alcuni limiti, che consistono essenzialmente

nell’impossibilità di distinguere tra cellule vive e cellule morte (si tratta di un

metodo di conta totale), nella difficoltà di individuare cellule molto piccole, che

potrebbero pertanto non essere conteggiate, e nella oggettiva difficoltà di utilizzarla

per sospensioni a bassa densità cellulare. In molti casi, tra cui il nostro, perciò, si

preferiscono tecniche differenti, dette di conta vitale, che consentono di contare tutte

e solo le cellule vive. È vitale una cellula capace di dividersi e dare progenie, e il

metodo più usuale per ottenere una conta vitale di un campione consiste nel

determinare il numero di cellule presenti che sono capaci di formare colonie su un

opportuno terreno agarizzato; per questo motivo la conta vitale viene anche chiamata

conta in piastra o conta delle colonie, in quanto il presupposto di questo tipo di

procedura è che ogni colonia sia originata da una singola cellula vitale. Vi sono due

metodi per effettuare la conta in piastra: il piastramento in superficie e il

piastramento per inclusione. Nel piastramento in superficie, un volume noto

(solitamente 0,1 ml o anche meno) del campione opportunamente diluito viene

distribuito sulla superficie di una piastra di terreno agarizzato con una spatola di

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 105 -

vetro sterile; la piastra viene poi tenuta in incubazione fino alla comparsa delle

colonie, che possono così essere contate; il volume del campione distribuito sulla

piastra deve essere molto piccolo per evitare che il liquido in eccesso non si adsorba

sulla superficie della piastra e possa provocare la fusione di colonie diverse

rendendo difficile il conteggio. Nel piastramento per inclusione un volume noto (di

solito compreso tra 0,1 e 1 ml) di campione viene inoculato mediante pipetta in una

capsula Petri sterile; viene poi aggiunto il terreno agarizzato fuso e il tutto viene

miscelato facendo ruotare delicatamente la piastra; dato che il campione viene

mescolato con il terreno agarizzato è possibile utilizzare un volume maggiore di

quello usato nel piastramento in superficie, ma è tuttavia necessario essere certi che i

microorganismi che devono essere inclusi nell’agar siano in grado di sopportare per

breve tempo la temperatura dell’agar fuso, che è di 45ºC. In entrambe le tecniche è

importante che il numero di colonie che si sviluppano sulla piastra non sia troppo

elevato, in quanto l’eccessivo affollamento impedisce di fatto ad alcune cellule di

formare colonie, e il conteggio rischierebbe quindi di sottostimare la numerosità

batterica; è però allo stesso tempo essenziale che il numero di colonie non sia troppo

piccolo, perché ciò inficierebbe la significatività statistica della conta; la pratica

corrente consiste perciò nel contare le colonie solo nelle piastre che contengono un

numero di colonie compreso tra 30 e 300. Poiché, dunque, per ottenere un numero di

colonie appropriato per il conteggio, il campione deve quasi sempre essere

preventivamente diluito, e visto che, se non in rari casi, si conosce in anticipo, anche

approssimativamente, il numero delle cellule vitali presenti nel campione, la prassi

vuole che si effettui, per lo stesso campione, più di una diluizione. I risultati della

conta vitale vengono solitamente espressi come numero di UFC (acronimo di Unità

Formanti Colonia, in inglese CFU, che sta per “Colony-Forming Units”) per unità di

volume del campione.

Nonostante le imprecisioni intrinseche alla metodologia della conta vitale,

questa tecnica permette di ottenere, relativamente al numero di cellule vitali, le

migliori informazioni possibili, ed è per questo ampiamente utilizzata nell’ambito

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 106 -

della microbiologia, e in particolare nei settori della microbiologia alimentare,

casearia, medica e delle acque: il metodo, infatti, ha comunque il vantaggio di essere

molto sensibile, considerato che può essere applicato anche a campioni contenenti

pochissime cellule (al fine, per esempio, di individuare una contaminazione

microbica di piccola entità nei materiali in esame); inoltre, utilizzando terreni

colturali selettivi è possibile contare solo particolari gruppi di microorganismi

all’interno di una popolazione mista.

Per quanto riguarda il presente lavoro di tesi, la conta in piastra è stata effettuata

solo per una parte delle prove effettuate, al fine di verificare la corrispondenza tra le

informazioni ottenute dalla misurazione della concentrazione della biomassa totale

(ottenuta mediante analisi spettrofotometrica) e quelle ottenibili dalla misurazione

della concentrazione di microorganismi vivi; ma di questo si tratterà nel paragrafo

3.4.4; altro importante fatto è che la conta in piastra ha consentito di verificare

l’assenza di contaminazioni da parte di specie microbiche estranee all’interno delle

miscele reagenti. La conta batterica in piastra è stata effettuata, con l’ausilio delle

strutture presenti nei laboratori del Dipartimento di Scienze e Tecnologie

Biomediche (sezione di Microbiologia Applicata e Tecnologie Biomediche)

dell’Università degli Studi di Cagliari, seguendo il seguente protocollo:

• prelievo dal sistema reagente, in condizioni sterili, di campioni di 1 ml

ad intervalli di tempo prestabiliti mediante rubinetto inserito nel

circuito tra il reattore e la bottiglia raccoglitrice;

• diluizione dei campioni prelevati in terreno MH di un fattore

compreso tra 10-2 e 10-7 (a seconda della concentrazione batterica

“attesa”) e coltivazione in “CLED Agar medium” con incubazione per

24 ore alla temperatura di 37°C, al termine delle quali veniva

effettuata una conta preliminare;

• esecuzione della conta finale dopo 48 ore dalla semina, con

determinazione dell’effettivo numero di batteri presenti in ciascun

campione esaminato.

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 107 -

3.4.4 Densità ottica e conta in piastra a confronto

Un punto fondamentale del presente lavoro di tesi è stata la validazione della

metodologia analitica della misurazione della densità ottica applicata alla

determinazione delle costanti di crescita delle popolazioni batteriche che sono state

prese in esame. La marcata preferenza accordata a tale metodologia in luogo di

quella della conta in piastra, infatti, è motivata dai seguenti importanti fatti:

• assenza di contatto tra l’ambiente reagente di crescita dei

microorganismi e l’ambiente esterno, che ha come conseguenza la

totale eliminazione del rischio di contaminazioni, o perlomeno di

quelle imputabili al prelievo di campioni;

• possibilità di eseguire le determinazioni analitiche senza dover

disporre delle strutture e delle condizioni ambientali particolarmente

restrittive caratteristiche di un laboratorio di microbiologia, che sono

invece necessarie qualora si debbano maneggiare dei campioni;

• possibilità di compiere un numero notevolmente più elevato di

misurazioni in quanto, con la struttura disponibile, queste possono

essere effettuate in modo del tutto automatico ad intervalli di tempo

prestabiliti, anche particolarmente brevi (nell’ordine del minuto);

• possibilità di effettuare una quantità notevolmente maggiore di prove

sperimentali in quanto, grazie alla completa automazione delle

operazioni di misura, non è necessaria la presenza continuativa di un

operatore, e ciò consente l’utilizzo di tempi normalmente “morti”

come le ore notturne o le giornate festive: ciò si è rivelato di cruciale

importanza in quanto l’incidenza degli eventuali errori sperimentali è

tanto più piccola quanto maggiore è il numero di prove condotte per

ciascun gruppo di parametri testati.

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 108 -

In virtù di quanto detto sopra, il problema che ci si è posti è stato quello di stabilire

se, e in quale modo, fosse possibile, ai nostri fini, utilizzare misure di densità ottica,

effettuate in continuo sulla miscela reagente, in luogo della conta in piastra con

determinazione delle Unità Formanti Colonie; pare necessario sottolineare il fatto

che, con l’espressione “ai nostri fini” si intende ai fini della comparazione tra loro di

costanti di crescita comunque derivate, al solo scopo di individuare effetti relativi

imputabili alle condizioni del campo elettromagnetico applicato, ben lungi dunque

dalla ricerca di una validazione in senso generale, anche perché la cosa avrebbe poco

senso di per sé, in quanto le due tecniche misurano grandezze sostanzialmente

differenti. Si è dunque proceduto con la conta in piastra per almeno una parte delle

prove effettuate, al fine di verificare la corrispondenza tra le informazioni derivanti

dall’analisi spettrofotometrica (concentrazione di biomassa totale) e quelle derivanti

dalla conta in piastra (concentrazione di microorganismi vivi). Per motivi di brevità

si riporta il solo caso, già contenuto in un precedente lavoro di Carta e Desogus

(2008a), del confronto tra le costanti di crescita del microorganismo Listeria

monocytogenes derivate utilizzando parallelamente i dati derivati dalle due

metodologie analitiche e relative alla frequenza di 2,40 GHz e a livelli di potenza

incidente compresi tra 0 e 400 mW, con intervalli di 50 mW; in Fig. 3.8 sono

riportate le informazioni di cui sopra; per una descrizione più accurata della

metodologia di derivazione delle costanti di crescita si rimanda al successivo

paragrafo 3.5. Se le due tecniche analitiche fossero, ai nostri fini (secondo dunque

l’accezione già specificata), tra di loro intercambiabili, le costanti di crescita derivate

dalle due metodologie analitiche dovrebbero essere, per analoghe condizioni

sperimentali, uguali tra loro, e nel grafico di Fig. 3.8 dovrebbero essere

rappresentate da punti giacenti su una retta passante per l’origine degli assi e con

pendenza unitaria; in effetti, la retta di regressione (forzata per l’origine) dei punti

contenuti nel grafico in Fig. 3.8 ha una pendenza pari a circa 0,96, che può essere

considerato un valore caratterizzato da discreta bontà, considerata l’elevata

incidenza degli errori sperimentali. Risultati simili, generalmente compresi nel

campo 0,90-1,10, e dunque del tutto accettabili, sono stati ottenuti per tutte le specie

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 109 -

batteriche esaminate e per le diverse condizioni sperimentali applicate, portando alla

conferma della validità dell’utilizzo delle misure di densità ottica per la

determinazione degli effetti del campo sulla costante di crescita. L’esecuzione delle

prove in piastra, mostrando che solo in una percentuale bassissima (meno dell’1%)

delle prove si aveva la presenza di specie estranee, ha inoltre consentito di

confermare la bontà delle scelte progettuali relative alla struttura sperimentale

utilizzata, nonché di verificare la sostanziale correttezza delle procedure seguite

durante l’esecuzione delle prove.

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

0,50 0,60 0,70 0,80 0,90 1,00 1,10 1,20

kOD [h-1

]

kU

FC

[h

-1]

no MO

50 mW

100 mW

150 mW

200 mW

250 mW

300 mW

350 mW

400 mW

Figura 3.8. Comparazione tra costanti di crescita della specie Listeria

monocytogenes derivate da misure di conta in piastra (kUFC) e da misure di densità ottica (kOD) per diversi livelli di potenza incidente (pendenza della retta di regressione: 0,9593).

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 110 -

3.5 La determinazione delle costanti di crescita

La velocità di crescita di una popolazione di microorganismi, con particolare

riferimento alla fase di crescita esponenziale e alla fase stazionaria, può essere

espressa facendo ricorso a diverse tipologie di relazioni matematiche, tra le quali

quella più comunemente utilizzata, per via della sua semplicità formale, è

l’equazione di Monod; in questa sede tale espressione è stata scelta in quanto, pur

nella sua semplicità, ha mostrato di coniugarsi perfettamente con i dati sperimentali

che sono stati ottenuti, interpretandoli in maniera ottima.

L’equazione di Monod (Monod, 1949) esprime la velocità di crescita ( MR ) in

funzione della concentrazione di microorganismi ( CC ) e della concentrazione di

substrato ( SC ) per condizioni fissate di temperatura (da cui la costante di crescita

dipende in misura significativa), pH, aerazione, fonti di carbonio, fonti dei diversi

nutrienti; essa può essere scritta nella forma:

SM

SCM CK

CCkR

+

⋅⋅= (3.15)

dove k è la costante di crescita, mentre MK è detta “costante di Monod” ed è pari al

valore di CC in corrispondenza del quale si ha una velocità di crescita pari alla metà

di quella massima. La velocità di crescita massima (illimitata) si manifesta

allorquando si è nella condizione di eccesso di substrato che, utilizzando i termini

contenuti nell’equazione 3.15, equivale alla seguente condizione:

MS KC >> (3.16)

Se la 3.16 è verificata, allora la relazione 3.15 può essere approssimata con la

seguente:

CM CkR ⋅= (3.17)

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 111 -

cioè con un’equazione cinetica del primo ordine rispetto alla concentrazione di

microorganismi. Considerando la definizione stessa di MR , ed indicando con t la

variabile temporale, si ha che:

td

C dR C

M = (3.18)

Di conseguenza è possibile, scrivere la seguente forma linearizzata dell’equazione

3.17:

( )0C,0

C t-tkC

CLn ⋅=

(3.19)

dove C,0C è il valore della concentrazione batterica che corrisponde al tempo 0t ,

ovvero all’istante con il quale può farsi coincidere l’inizio della fase di crescita

esponenziale. Tale istante deve essere determinato empiricamente volta per volta, in

quanto fortemente variabile tra una prova e l’altra: l’intervallo di tempo che

intercorre tra l’inizio effettivo della prova e l’istante 0t , infatti, corrisponde alla fase

di latenza, la durata della quale è caratterizzata da una scarsa riproducibilità e può

difficilmente essere determinata a priori se non, come ha tentato di fare Baranyi

(1998; 2002), attraverso l’utilizzo di modelli stocastici. È forse banale, ma allo

stesso tempo importante ai fini del lavoro che e stato svolto, sottolineare il fatto che,

poiché nel termine di sinistra della 3.19 compare un rapporto di concentrazioni, è del

tutto ininfluente quale sia l’unità di misura adottata, quantunque non

“convenzionale”, come nel caso delle Unità Formanti Colonie per unità di volume e

in quello della densità ottica; con riferimento a quest’ultima eventualità, si rimanda

alla relazione 3.11, secondo la quale la densità ottica è direttamente proporzionale

alla concentrazione (e con intercetta nulla), e alle considerazioni già fatte a

proposito. A questo punto, con un’operazione di regressione lineare dei dati

sperimentali a disposizione per ogni prova, è possibile determinare la costante di

crescita corrispondente come pendenza della retta di regressione.

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 112 -

Una questione di importanza non secondaria, ai fini della trattazione sopra

esposta, è certamente quella definita pocanzi come “condizione di eccesso di

substrato”. Poiché, infatti, tutte le determinazioni della costante di crescita k che

sono state condotte si basano sulla condizione matematica rappresentata dalla 3.16,

si è ritenuto necessario quanto opportuno verificare la sussistenza di tale condizione

anche in termini fisici, non limitandosi quindi a prendere per buone in modo acritico

le concentrazioni di substrato consigliate dal produttore; tale verifica è stata

condotta, per ciascuna delle quattro specie prese in esame, secondo le modalità di

seguito descritte. Seguendo tutte le medesime indicazioni già fornite in questo

paragrafo e nei precedenti, sono state eseguite delle prove partendo da

concentrazioni iniziali di substrato differenti rispetto a quelle indicate nel paragrafo

3.3.1, sia maggiori sia minori (queste ultime fino a raggiungere condizioni di elevata

diluizione), e ricavando volta per volta la costante di crescita secondo la

linearizzazione riportata nella relazione 3.19. In realtà, nel caso più generale in cui

non si operi la semplificazione prodotta dalla condizione 3.16, l’applicazione della

3.19 non conduce alla determinazione di k, bensì della grandezza che definiamo con

k′ :

kβk ⋅=′ (3.20)

avendo posto:

SM

S

CK

+= (3.21)

Devono essere effettuate ora alcune brevi considerazioni. Innanzitutto, anche quando

la condizione 3.16 non è verificata, la cosiddetta “fase di crescita esponenziale”

(così come definita nel paragrafo 3.1) esiste ancora, almeno fintanto che la

variazione di SC , dovuta al consumo del substrato da parte dei microorganismi, è

sufficientemente piccola, e per quanto questa fase possa essere più o meno breve,

sarà comunque individuabile e dunque sarà determinabile il valore di k′ ; inoltre, se

la variazione di SC è sufficientemente piccola, il suo valore, durante la fase di

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 113 -

crescita esponenziale, rimarrà prossimo al suo valore iniziale, che indichiamo con

S,0C , per cui la 3.21 può essere riscritta nella forma:

S,0M

S,0

CK

+= (3.22)

È altresì evidente come β possa assumere solo valori compresi tra 0 (quando la

concentrazione iniziale del substrato è nulla) e 1 (quando il substrato è in eccesso,

cioè è verificata la condizione 3.16); k e k′ si discosteranno tra loro tanto più quanto

minore è S,0C rispetto a MK , mentre coincideranno quando sussiste l’ipotesi di

eccesso di substrato. È parimenti evidente che la 3.22 rappresenta una funzione

crescente monotona di S,0C , con raggiungimento di un livello di “plateau” quando k

e k′ vengono a coincidere; in quest’ultimo caso, e solo in questo, la crescita potrà

perciò dirsi, oltre che esponenziale (in senso matematico), anche illimitata, in quanto

non più limitata in qualche modo dalla scarsità di substrato. In base a tutte le

considerazioni fatte sinora è stata costruita, per ogni specie microbica esaminata, una

curva sperimentale di k′ (alla medesima temperatura di 37°C) in funzione di S,0C ,

verificando così in tutti e quattro i casi che la concentrazione di substrato utilizzata

durante la campagna sperimentale garantiva la sussistenza della condizione di

eccesso di substrato; tale verifica è, tra l’altro, conforme a quanto riportato da

Levenspiel (1984). Per ragioni di brevità (le curve sono tra loro analoghe), in

Fig. 3.9 si riporta la sola curva relativa alla specie Staphylococcus aureus (il

substrato utilizzato è il BHI); dall’esame di quest’ultima si evince come il “plateau”

possa dirsi raggiunto già per valori di S,0C intorno a 15 g/l (la concentrazione

utilizzata durante le prove principali è stata di 37 g/l, dunque più che doppia), e

come il valore di MK , in questo caso, dovrebbe aggirarsi intorno a 0,5÷1 g/l (valore

di S,0C corrispondente a valori di k′ posizionati all’incirca a metà altezza del

“plateau”). In Fig. 3.10 si riportano alcune curve di crescita della specie

Staphylococcus aureus ottenute per diversi valori di S,0C .

CAPITOLO 3 – LA SPERIMENTAZIONE

- 114 -

0,00

0,10

0,20

0,30

0,40

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50

CS,0 [g/l]

k'

[h-1

]

Figura 3.9. Dati sperimentali relativi alla costante di crescita ( k′ ) ricavata al variare

della concentrazione iniziale di substrato S,0C per la specie batterica

Staphylococcus aureus (substrato utilizzato: BHI).

0,0

0,2

0,4

0,6

0,8

1,0

1,2

1,4

1,6

1,8

2,0

300 400 500 600 700 800 900 1000 1100

t [min]

OD

60

0 n

m

1,0 g/l

2,5 g/l

5,5 g/l

7,0 g/l

10 g/l

15 g/l

22 g/l

33 g/l

Figura 3.10. Curve di crescita sperimentali (con misure di densità ottica alla lunghezza d’onda di 600 nm, OD600 nm) per la specie Staphylococcus

aureus ottenute per differenti concentrazioni iniziali di substrato ( S,0C ).

CAPITOLO 4

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 117 -

4.1 Le costanti di crescita sperimentali

Si presentano ora le informazioni sperimentali relative alle costanti di crescita

per le specie batteriche esaminate, ricavate secondo le modalità esposte nel capitolo

precedente e utilizzando dati di densità ottica ottenuti con letture alla lunghezza

d’onda di 600 nm effettuate ad intervalli di 5 (e, sporadicamente, di 2,5) minuti. Per

quanto riguarda il Bacillus clausii, le prove che lo hanno riguardato sono state

condotte tutte alla frequenza di 2,45 GHz e con potenze incidenti pari a 100, 200,

300 e 400 mW, oltre naturalmente alle prove condotte in assenza di irradiazione.

Tale fase sperimentale, condotta sul Bacillus clausii, ha avuto anche lo scopo di

coadiuvare la messa a punto dell’apparato e delle metodologie sperimentali,

trattandosi di un microorganismo non pericoloso per la salute e facilmente reperibile

nel prodotto commerciale Enterogermina® (Sanofi-synthelabo®), e proprio per

questo è stato interessato da un numero di prove superiore rispetto alle altre specie.

Sono state condotte, infatti, per ogni livello di potenza, un numero di prove tale da

garantire che almeno ventuno di queste fornissero costanti di crescita

sufficientemente vicine tra loro; le prove che hanno fornito un esito considerato

positivo sono state all’incirca l’80% del totale delle prove effettuate, intendendo per

“esito positivo” l’ottenimento di una costante di crescita che si discostasse di non

più del 5% dal valore medio e con un coefficiente di regressione (regressione lineare

effettuata ricorrendo alla relazione 3.19) non inferiore a 0,999. L’assunzione di un

intervallo di errore accettato nella misura di ± 5% rispetto al valore medio è dovuta

alla necessità di accettare elevati livelli di incertezza su numerose variabili (potenza

e frequenza della radiazione, SAR, velocità di circolazione della miscela, quantità

della miscela, concentrazione dei nutrienti, stato fisiologico iniziale delle cellule,

etc.), oltre alla possibilità di contaminazioni esterne, e si è rivelata la scelta più

idonea a considerare positive un numero (per l’appunto circa l’80% del totale)

sufficientemente elevato di prove. I valori medi delle costanti di crescita ottenute per

il Bacillus clausii sono riportati in Tabella 4.1; la loro rilevanza, visto che non si

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 118 -

tratta di un patogeno, è spiegata con il fatto che questa specie appartiene allo stesso

genere di altre specie patogene di interesse per la sicurezza alimentare (come per

esempio il Bacillus cereus), alle quali è dunque morfologicamente simile.

Lo stesso intervallo di errore (± 5% rispetto al valore medio) è stato accettato

per le altre tre specie microbiche, per le quali sono state tuttavia eseguite prove fino

ad averne quindici (anziché ventuno) con esito positivo per ogni coppia di valori di

frequenza e di potenza; la percentuale di prove, rispetto al totale, concluse con esito

positivo è stata dell’85-90% (con punte del 95%), probabilmente per via del fatto

che, con il procedere della sperimentazione, sono stati limitati, almeno in parte, gli

errori commessi nella manipolazione delle cellule durante l’inoculazione: la bontà

dei risultati ottenuti è stata accertata con l’esecuzione, a scopo di controllo, di prove

di conta in piastra che hanno rivelato la diminuzione dei casi di contaminazione

della miscela reagente da parte di specie batteriche estranee. Nelle seguenti Tabelle

4.2, 4.3 e 4.4 sono contenuti i valori medi delle costanti di crescita ottenuti

rispettivamente per le specie Pseudomonas aeruginosa, Staphylococcus aureus e

Listeria monocytogenes.

P [mW] k [h-1]

0 0,43

100 0,40

200 0,39

300 0,39

400 0,40

Tabella 4.1. Costanti di crescita (k) della specie Bacillus clausii al variare della

potenza incidente (P) e alla frequenza di 2,45 GHz (valori medi, errore ± 5%).

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 119 -

f [GHz]

P [mW] 2,20 2,30 2,40 2,50

0 1,06

100 0,84 0,78 0,85 0,94

200 0,76 0,89 0,84 0,88

300 0,81 0,94 0,67 0,91

400 0,77 0,69 0,80 0,88

Tabella 4.3. Costanti di crescita (k) della specie Staphylococcus aureus al variare

della potenza incidente (P) e della frequenza (f) (valori medi, errore ± 5%).

f [GHz]

P [mW] 2,20 2,30 2,40 2,50

0 1,06

100 1,08 1,06 1,06 1,10

200 1,06 1,10 1,11 1,13

300 1,04 1,05 1,06 1,03

400 1,20 1,05 1,02 1,12

Tabella 4.2. Costanti di crescita (k) della specie Pseudomonas aeruginosa al variare

della potenza incidente (P) e della frequenza (f) (valori medi, errore ± 5%).

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 120 -

4.2 Il confronto tra i dati a potenza variabile

Per cercare di fornire una rappresentazione quanto migliore possibile dei dati

sperimentali che sono stati ottenuti, si sono riportati in forma grafica i valori

contenuti nelle tabelle precedenti, in modo da mettere maggiormente in evidenza le

variazioni registrate al variare della potenza (in questo paragrafo) e della frequenza

(nel paragrafo 4.3); nelle Figg. 4.1, 4.2, 4.3 e 4.4 sono riportati i grafici relativi, in

f [GHz]

P [mW] 2,30 2,40 2,50 2,60

0 0,84

50 0,77 0,75 0,73 0,78

100 0,77 0,81 0,78 0,83

150 0,83 0,85 0,79 0,80

200 0,76 0,84 0,79 0,88

250 0,86 0,86 0,76 0,83

300 0,75 0,85 0,83 0,94

350 0,81 0,85 0,86 0,84

400 0,89 0,92 0,85 0,86

Tabella 4.4. Costanti di crescita (k) della specie Listeria monocytogenes al variare

della potenza incidente (P) e della frequenza (f) (valori medi, errore ± 5%).

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 121 -

ordine, alle specie Bacillus clausii, Pseudomonas aeruginosa, Staphylococcus

aureus e Listeria monocytogenes.

I risultati relativi al Bacillus clausii (Fig. 4.1) mostrano una leggera riduzione

della costante di crescita in presenza dell’irradiazione, ma tale riduzione non è così

marcata da portare ad una netta differenziazione, tra loro, dei campi all’interno dei

quali sono compresi tutti i valori sperimentali delle costanti di crescita.

Le informazioni ottenute sulla Pseudomonas aeruginosa (Fig. 4.2) non

sembrano, allo stesso modo, mostrare significative variazioni della costante di

crescita se non, forse, in corrispondenza del livello di potenza 400 mW, anche se in

corrispondenza di un unico livello (2,20 GHz) di frequenza.

0,00

0,05

0,10

0,15

0,20

0,25

0,30

0,35

0,40

0,45

0,50

0 100 200 300 400 500

potenza incidente [mW]

cost

an

te d

i cr

esci

ta [

h-1

]

Figura 4.1. Costanti di crescita della specie Bacillus clausii al variare della potenza

incidente e alla frequenza di 2,45 GHz (valori medi, errore ± 5%).

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 122 -

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

potenza incidente [mW]

cost

an

te d

i cr

esci

ta [

h-1

]

no MO

2,20 GHz

2,30 GHz

2,40 GHz

2,50 GHz

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

Figura 4.2. Costanti di crescita della specie Pseudomonas aeruginosa al variare

della potenza incidente e per diverse frequenze (valori medi, errore ± 5%).

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 123 -

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

potenza incidente [mW]

cost

an

te d

i cr

esci

ta [

h-1

]

no MO

2,20 GHz

2,30 GHz

2,40 GHz

2,50 GHz

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

Figura 4.3. Costanti di crescita della specie Staphylococcus aureus al variare della

potenza incidente e per diverse frequenze (valori medi, errore ± 5%).

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 124 -

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

potenza incidente [mW]

cost

an

te d

i cr

esci

ta [

h-1

]

no MO

2,30 GHz

2,40 GHz

2,50 GHz

2,60 GHz

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

0 100 200 300 400 500

Figura 4.4. Costanti di crescita della specie Listeria monocytogenes al variare della

potenza incidente e per diverse frequenze (valori medi, errore ± 5%).

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 125 -

Per quanto riguarda lo Staphylococcus aureus (Fig. 4.3), invece, le variazioni

riscontrate tra l’assenza e la presenza di irradiazione sembrano essere più marcate, e

pressoché tutte nella stessa direzione della diminuzione; le variazioni indotte dal

livello di potenza non sembrano viceversa particolarmente significative, se non in

corrispondenza della frequenza 2,30 GHz.

La specie Listeria monocytogenes (Fig. 4.4) sembra ugualmente mostrare,

almeno nella maggior parte dei casi, variazioni nel senso della diminuzione, ma

comunque più contenute rispetto a quelle riscontrabili per lo Staphylococcus aureus;

vi è una certa variabilità rispetto alla potenza incidente, ma senza tendenze

unidirezionali.

4.3 Il confronto tra i dati a frequenza variabile

Analogamente a quanto fatto nel paragrafo 4.2, si riportano ora i grafici relativi

ai dati contenuti nelle Tabelle 4.2, 4.3 e 4.4, in modo da evidenziare l’andamento

delle costanti di crescita al variare della frequenza delle microonde; nelle Figg. 4.5,

4.6 e 4.7 sono riportati i grafici relativi, nell’ordine, alle specie Pseudomonas

aeruginosa, Staphylococcus aureus e Listeria monocytogenes (non vi è alcun grafico

per la specie Bacillus clausii in quanto le prove sono state condotte tutte all’unica

frequenza di 2,45 GHz).

La specie Pseudomonas aeruginosa (Fig. 4.5), oltre all’unico caso, già citato, in

corrispondenza del valore 2,20 GHz (per il livello di potenza 400 mW), non mostra

significative variazioni della costante di crescita al variare della frequenza.

Per ciò che riguarda la specie Staphylococcus aureus (Fig. 4.6), invece, le

variazioni già riscontrate nel senso della diminuzione sembrano essere più marcate

in corrispondenza delle frequenze 2,20 e 2,30 GHz, anche se il valore minimo è stato

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 126 -

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,10 2,20 2,30 2,40 2,50 2,60

frequenza [GHz]

cost

an

te d

i cr

esci

ta [

h-1

]

no MO

100 mW

200 mW

300 mW

400 mW

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,10 2,20 2,30 2,40 2,50 2,60

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,10 2,20 2,30 2,40 2,50 2,60

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,10 2,20 2,30 2,40 2,50 2,60

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,10 2,20 2,30 2,40 2,50 2,60

Figura 4.5. Costanti di crescita della specie Pseudomonas aeruginosa al variare

della frequenza e per diverse potenze incidenti (valori medi, errore ± 5%).

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 127 -

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,10 2,20 2,30 2,40 2,50 2,60

frequenza [GHz]

cost

an

te d

i cr

esci

ta [

h-1

]

no MO

100 mW

200 mW

300 mW

400 mW

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,10 2,20 2,30 2,40 2,50 2,60

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,10 2,20 2,30 2,40 2,50 2,60

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,10 2,20 2,30 2,40 2,50 2,60

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,10 2,20 2,30 2,40 2,50 2,60

Figura 4.6. Costanti di crescita della specie Staphylococcus aureus al variare della

frequenza e per diverse potenze incidenti (valori medi, errore ± 5%).

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 128 -

registrato per la frequenza 2,40 GHz (potenza di 300 mW); in apparente

contraddizione è il punto che corrisponde alla frequenza di 2,30 GHz e alla potenza

di 300 mW, che è pressoché coincidente con la costante di crescita derivata in

assenza di irradiazione.

Per la specie Listeria monocytogenes (Figg. 4.7a e 4.7b), infine, si riscontra la

stessa sostanziale assenza di unidirezionalità, già emersa al variare della potenza,

anche al variare della frequenza, con presenza di alcuni casi di valori minimi

localizzati; guardando al grafico complessivo (Fig. 4.7a), in effetti, si può giusto

notare come, almeno tendenzialmente, i valori delle costanti di crescita siano

mediamente leggermente inferiori in corrispondenza delle frequenze centrali (2,40 e

2,50 GHz).

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,20 2,30 2,40 2,50 2,60 2,70

frequenza [GHz]

cost

an

te d

i cr

esci

ta [

h-1

]

no MO

50 mW

100 mW

150 mW

200 mW

250 mW

300 mW

350 mW

400 mW

Figura 4.7a. Costanti di crescita della specie Listeria monocytogenes al variare della

frequenza e per diverse potenze incidenti (valori medi, errore ± 5%).

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 129 -

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,20 2,30 2,40 2,50 2,60 2,70

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,20 2,30 2,40 2,50 2,60 2,70

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,20 2,30 2,40 2,50 2,60 2,70

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,20 2,30 2,40 2,50 2,60 2,70

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,20 2,30 2,40 2,50 2,60 2,70

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,20 2,30 2,40 2,50 2,60 2,70

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,20 2,30 2,40 2,50 2,60 2,70

0,50

0,60

0,70

0,80

0,90

1,00

1,10

1,20

1,30

2,20 2,30 2,40 2,50 2,60 2,70

Figura 4.7b. Costanti di crescita della specie Listeria monocytogenes al variare della

frequenza e per diverse potenze incidenti (segue Figura 4.7a).

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 130 -

4.4 Commenti conclusivi e prospettive future

È innegabile, andando ad esaminare i risultati sperimentali presentati nei

paragrafi 4.1, 4.2 e 4.3, il fatto che manchi una precisa evidenza che possa condurre

a conclusioni nette nel senso dell’effettivo riscontro di effetti non termici prodotti

dalle microonde con potenze comprese tra 0 e 400 mW e alle frequenze indagate

sulle quattro specie batteriche che sono state oggetto della sperimentazione, ma

mancano altresì sufficienti elementi che possano condurre alla negazione degli

stessi. E proprio per questo, quel che pare altrettanto innegabile è che lo studio

richieda e meriti certamente di essere continuato e ampliato. È anche vero che, nelle

pur modeste variazioni delle costanti di crescita al variare delle condizioni di

esposizione alle microonde, manca il riscontro di una qualche correlazione tra

l’entità dell’effetto e le variabili potenza e frequenza, ma questo, almeno allo stato

attuale, può non essere considerato un fatto necessario, vista la presenza, in

letteratura, di alcuni casi analoghi e anche di diversi riscontri di cosiddetti “effetti

finestra” (vedi paragrafo 2.4 e relativi sottoparagrafi), che lasciano intendere,

almeno in linea teorica, la possibile manifestazione di effetti solo in particolari

condizioni sperimentali, e non per condizioni differenti, anche se solo di poco.

Elementi non secondari, che pare qui giusto sottolineare, sono l’accertata

affidabilità della struttura sperimentale così come è stata concepita e posta in opera e

la sostanziale correttezza delle procedure sperimentali e analitiche; si tratta di

constatazioni che, in quanto tutt’altro che scontate in fase di avvio del lavoro,

possono essere considerate una concreta e solida base di partenza per gli ulteriori

sviluppi dell’indagine sperimentale.

Tali ulteriori sviluppi potranno certamente concretarsi in un’estensione dei

campi di frequenza e di potenza indagati (anche se ciò comporterà alcune modifiche

nell’apparato di generazione delle microonde) così come nello studio di altre specie

microbiche; di interesse potrà essere anche l’utilizzo di differenti substrati,

CAPITOLO 4 – I RISULTATI DELLA RICERCA

- 131 -

possibilmente con caratteristiche più simili a quelle di alimenti reali, o addirittura di

alimenti in stato fluido veri e propri.

BIBLIOGRAFIA

- 133 -

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Ringraziamenti

Si ringraziano tutti coloro che a vario titolo, direttamente o indirettamente, con il

loro supporto sia materiale che di conoscenza ed esperienza, hanno contribuito alla

realizzazione del lavoro, e in particolare: il prof. Raffaello Pompei e la dott.ssa

Samuela Laconi del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche (sezione di

Microbiologia Applicata e Tecnologie Biomediche) dell’Università degli Studi di

Cagliari; il prof. Giuseppe Mazzarella, il prof. Giovanni Martines e il dott. Gianluca

Gatto del Dipartimento di Ingegneria Elettrica ed Elettronica dell’Università degli

Studi di Cagliari; il dott. Germano Orrù del Dipartimento di Chirurgia e Scienze

Odontostomatologiche dell’Università degli Studi di Cagliari.

Un ringraziamento doveroso e particolare va infine al prof. Renzo Carta che,

guidando tutta la mia attività di ricerca con sapienza, dedizione e passione, ha

costantemente profuso in me il giusto entusiasmo e mi ha permesso di realizzare, nel

corso degli anni, un’esperienza eccezionale in termini di maturazione scientifica,

professionale e personale; spero sinceramente di avere con lui, in futuro, ulteriori ed

interessanti occasioni di collaborazione.