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ISSN 2240-2985 L’incontro (Bergamo) Periodico di cultura e informazione - Direttore resp.: Pietro Serina - Sped. in A.P. - 45% art. 2 comma 20/B - legge 662/96 Filiale di BG - anno XXVI n. 2. In caso di mancato recapito si prega di restituire al mittente che si impegna a pagare la dovuta tariffa. Cieli nuovi e terra nuova Ricordo di Dolores Prato Immagini di Davide Sapienza euro 7 166 luglio 2013 RIVISTA PROMOSSA DALL’AEPER

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ISSN 2240-2985 L’incontro (Bergamo)

Periodico di cultura e informazione - Direttore resp.: Pietro Serina - Sped. in A.P. - 45% art. 2 comma 20/B - legge 662/96

Filiale di BG - anno XXVI n. 2. In caso di mancato recapito si prega di restituire al mittente che si impegna a pagare la dovuta tariffa.

Cieli nuovi

e terra nuova

Ricordo di

Dolores Prato

Immagini di

Davide Sapienza

euro 7

166 luglio 2013

RIVISTA PROMOSSA DALL’AEPER

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Evoluzione storica

1974Gruppo di base “La baita”

1978Comunità Nazareth

1990 La Pèta2009 Ass. eccles. di fedeli

1980Associazione AEPER

1980 La baita1986 Gruppo “La strada”1987 L’incontro1988 Il sestante1988 La casa di Emilio

e Rachele1992 Il Pitturello1992 Progetti esteri

1986Cooperativa sociale AEPER

1987 Progetto Cordata1990 Rete famiglie1990 Il colibrì1999 L’aquilone1999 Villa fiorita2002 Punto più2004 Il vantaggio2004 Alisei2005 Piccola stella2008 Progetti autonomia

2001Cooperativa “Il varco”

2005 Residenzialità leggera2006 Macramé2008 Residenzialità leggera

2009Coop. agricola “La Pèta”

2009Fondazione “Don Primo Bonassi”

2012Edizioni Gruppo Aeper

AssociazioneAEPER

AEPERAssociazione Educativa per la Prevenzione E il Reinserimento

SedeVia Giovanni XXIII,45/a24060 Torre de’ Roveritel. 035.58 04 22 fax 035.58 23 56E-mail: [email protected]

Il PitturelloCentro di educazione e aggregazione“Don Primo Bonassi” (v. sede)

Il sestanteLaboratorio di ricerca e documentaz.sul disagio - Editrice (v. sede)

L’incontroRivista promossa dall’Aeper (v. sede)E-mail: [email protected]

Gruppo ‘La strada’Laboratorio di animazione, festee rappresentazioni sacre (v. sede)E-mail: [email protected]

La baitaCentro Formazione PermanenteVia S. Lorenzo, 2324010 Costa Serina (Bg)tel. 0345.97 013E-mail: [email protected]

La casa di Emilio e RacheleCasa di accoglienza per famiglieVia Verdi, fraz. Ascensione24010 Costa Serina (Bg)tel. 0345.97 955 - 0345.97 962E-mail: [email protected]

CooperativaAEPER

Cooperativa Sociale AEPERAnimazione Educazione Prevenzione E Reinserimento

SedeVia Rovelli, 28/L - 24125 Bergamotel. 035.24 31 90 - fax 035.41 32 266E- mail: [email protected] su Facebook

L’aquiloneComunità e progetti per minoriVia Giovanni XXIII, 45/a24060 Torre de’ Roveri (Bg)tel. 035.58 34 85 E-mail: [email protected]

Rete FamiglieFamiglie affidatarie e amicheLaboratori famiglievia Ozanam, 2 - 24126 Bergamotel.: 035.02 91 382

PuntoPiùSpazio sostegno relazioni famigliariVia Rovelli, 28/L - 24125 Bergamotel. 035.24 31 90 - fax 035.41 32 266E-mail: [email protected]

Piccola stella Comunità terapeutica adolescentiVia Torre / loc. Cascinetto24030 Medolago (Bg) tel. 035.49 48 430

Progetti autonomia per neomaggiorenniC. so Roma, 110 - 24068 Seriate

Villa fioritaComunità psichiatrica Via don Cariboni, 14 24012 Brembilla (Bg)tel.: 0345.99 548fax: 0345.53 938E-mail: [email protected]

Progetto CordataCentro diurno disagio psichicoVia Casale, 3124060 Torre de’ Roveri (Bg)tel. e fax 035.58 13 00E-mail: [email protected]

AliseiCentro diurno psichiatricoVia A. Moro, 53 24018 Villa d’Almè (Bg)

Il colibrìLaboratorio legno e oggettistica(v. Progetto Cordata)E-mail: [email protected]

KaleidoCentro diurno psichiatricoVia del Salmister, 124030 Terno d’IsolaTel. 035.02 91 341

Residenzialità leggeraArea Salute mentaleVia Bregni, 624019 Somendenna - Zogno (Bg)Tel. 347.63.46.569E-mail: [email protected]

GeodeCentro Servizi NeuropsichiatriaBergamo - Tel. 346.74.10.087

Comunità Nazareth

Comunità NazarethComunità di vitaVia Giovanni XXIII, 45/a

24060 Torre de’ Roveri (Bg)

tel. 035.58 34 85

fax: 035.58 23 56

E-mail:

[email protected]

[email protected]

La PètaComunità di vita e di accoglienzavia Pèta, 3

24010 Costa Serina (Bg)

tel.: 0345.97 955

fax: 0345.03 12 01

E-mail: [email protected]

www.lapeta.it

Cooperativa Il varco

Il varcoVia don Cariboni 1124012 BrembillaTelefono: 035/19910907Fax: 035/4132266e-mail: [email protected] sito: www.cooperativailvarco.it seguici su Facebook

Rifiamo ScambiagiochiLaboratorio creativo con materiale di ricicloVia A. Moro, 53 24018 Villa d’Almè Tel: 349.7504686 e-mail: [email protected] seguici su Facebook

MacraméCentro per la famiglia, supportopsicologico e psicomotricitàVia A.Moro, 53

24018 Villa d’Almè

Tel.: 338.6256564

COOPERATIVA SOCIALE

Fondazione

Fondazione don Primo BonassiVia Giovanni XXIII, 45/a

24060 Torre de’ Roveri (Bg)

tel. 035.58 34 85

Cooperativa agricola

La Pèta AgriturismoAllevamento capre produzione formaggi alta qualitàvia Pèta, 3

24010 Costa Serina (Bg)

tel.: 0345.97 955

fax: 0345.03 12 01

E-mail: [email protected]

www.lapeta.it

GRUPPO

A E P E R

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www.lapeta.itwww.cooperativaaeper.it

www.cooperativailvarco.it

Casa editrice

Edizioni Gruppo AeperVia Giovanni XXIII, 45/a

24060 Torre de’ Roveri (Bg)

tel. 035.58 34 85

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Sommario 166n. 2 luglio 2013

M E M O R I A

Dolores Prato Adriana Lorenzi

5 Dolores Prato10 Sulle tracce di Dolores

S P E C I A L E

Cieli nuovi e terra nuova

15 Nuovi Spiragli Emanuele Rainone

16 Cieli nuovi e terra nuova Ivo Lizzola

19 Tra dubbio e fede, tra speranza e attesa Luciano Corradini

23 Alla ricerca di strade nuove Michelangelo Ventura

26 Abitare tra gli uomini Pilar Solis

27 La bellezza, il mistero e la solitudine Christoph Baker

30 Del consumo di suola Davide Sapienza

32 Quasi una preghiera Adriana Lorenzi

34 Ode all’uomo semplice Pablo Neruda

35 La ghianda e il libro Raoul Tiraboschi

37 Contare e camminare insieme Rocco Artifoni

39 La crisi degli orfani... Davide Cerullo

40 Siamo la stessa comunità Giordano Lizzola

41 Sulla pluralità... Elena Bougleux

44 Evoluzione, terra nuova, fraternità Eros Gambarini

48 Gli insegni... Abraham Lincoln

R U B R I C H E

VENIET TEMPUS

49 Povera Italia Rocco Artifoni

G R U P P O A E P E R

52 Cooperativa Aeper: Judith TascaChi siamo / Missione Judith Tasca

54 Organizzazione Judith Tasca56 La locanda dei golosi Judith Tasca60 Cooperativa Refit Raffaele Casamenti61 Casa Editrice Aeper: Parole evase Ma rco Caraglio

A R T I S T A

Davide Sapienza pag. 13

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Periodico di cultura e informazione.Spedizione in abbonamento postale -45%. art.2 comma 20/b - I.662/96 - Bergamo.

Edizione, amministrazione e redazione:

AEPER, Associazione Educativa per la Prevenzione e il ReinserimentoVia Giovanni XXIII, 45/a - 2060 Torre de’ Roveri (Bg)tel. 035.58 04 22 - fax 035.58 23 56 e-mail: [email protected] comunicare con la redazione e spedire articoli e-mail: [email protected] / [email protected]

Direttore: Emilio Brozzoni (e-mail: [email protected]).

Direttore responsabile: Pietro Serina.

Comitato di redazione: Rocco Artifoni, Marco Belotti, Giulia Bonasio, Emilio Brozzoni,Rita Brozzoni, Marco Caraglio, Gaia Del Prato, Rita Gay, Ivo Lizzola, Adriana Lorenzi,Mauro Minervini, Francesca Nilges, Giusi Poma, Brunella Sarnataro, Marco Zanchi.

L’INCONTRO ANNO XXVI N. 2 luglio 2013

Segretaria di redazione:

Brunella Sarnataro (e-mail: [email protected]).

Grafica: Maria Grazia Nilges.

Fotocomposizione: AEPER.

Fotografie: AEPER, Matteo Zanardi Photo & Graphic, Marco Mazzoleni.

Stampa: LEB - CASTELLI BOLISvia A. Volta, 4 - Cenate Sotto (Bg).

Registrazione: Tribunale di Bergamo n. 39 del 4/12/1987.

Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa

al n. 06152 del 27/01/98.

Questo numero è stato chiuso in tipografia a luglio 2013

Per la riproduzione di testi e fotografie si prega di citare la fonte.

Abbonamento 2013

Percorsi di riflessione spirituale sulle condizioni di vita dell’uomo e della donna contemporanei ispirati alle Scritture, alla tradizione cristiana, aperti al confrontocon l’apporto delle scienze umane e con le diverse esperienze religiose e culturali.

Versamento su c/c postale n. 1219899 Bonifico Bancario codice iban: IT-93-V-07601-01600-000001219899 codice bic/swift: B P P I I T R R X X X Intestazione: Gruppo Editoriale Viator srl c.so Indipendenza, 14 - 20129 Milano

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Studenti euro 15,00 Ordinario euro 25,00Amico euro 35,00 Sostenitore euro 50,00

Rivista di cultura sociale che vuole coltivare la memoria, offrire spazio a diverse prospettive e modalità di narrazione,

porre particolare attenzione all’umanità più fragile ed emarginata, valorizzare e far conoscere esperienze concrete di vita solidale,

leggere con spirito critico le culture, gli intrecci economici e le scelte politiche.

Versamento su c/c postale n. 15769243 intestato a: Associzione AEPER - via Giovanni XXIII, 45/a 24060 Torre de’ Roveri, BgBonifico Bancario n. 8000 presso CREBERG ag. di Borgo S. Caterina, Bg ABI 03336 CAB 11104 codice IBAN: IT23 I 03336 11104 0000 0000 8000

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25 RIVISTA PROMOSSA DALL’AEPER

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5Dolores Prato

Dai diari delle donne mi aspetto sempredelle rivelazioni, come del resto GraziaLivi che li definisce le cantine dell’iden-

tità. Sulle pagine delle donne “emerge la

lotta che ciascuna donna intraprende per

delineare la propria fisionomia, tentare

un consolidamento del proprio mondo in-

teriore. Riconoscersi. La fatica della vita

apparente viene così risarcita dalle intui-

zioni della vita occultata a designare i si-

gnificati”.

Queste parole possono valere per la scrit-tura privata che ha accompagnato per tuttala vita Dolores Prato prima di diventare

opera: Scottature1, Giù la piazza non c’è

nessuno2, Le ore, Campane a San Gio-

condo3 e Sogni4. La scrittura per lei, comeper molte donne, è stata l’occasione diprendere tempo, prendere corpo per essereamata. All’origine il gesto di scrivere è le-gato all’esperienza della scomparsa, alsentimento d’aver perduto la chiave delmondo e di doverla ritrovare d’urgenza.Dolores Prato ha sempre raccontato di es-sere stata “spezzata dall’educazione, sal-

vata dalle parole”.

È vissuta tra il 1892 e il 1983, figlia dipadre sconosciuto e di madre assente che

l’ha mandata da Roma a Treia, una citta-dina delle Marche, da alcuni suoi parenti,uno zio prete e sua sorella. Laureatasi alMagistero in lettere insegna per qualchetempo, collabora a giornali e riviste.

Nel 1965 vince il Premio nazionale “Stra-danova” con il racconto Scottature e nel1980 ultraottantenne viene scoperta daNatalia Ginzburg che per Einaudi pub-blica l’autobiografia Giù la piazza non c’è

nessuno con riduzioni e correzioni patitedall’autrice. Solo nel 1997 esce l’edizionecompleta dell’opera per la casa editriceMondadori, riproposta ora da Quodlibet

memoria

Dolores PratoL’innamorata delle parole

Adriana Lorenzi

Redazione L’incontroScrittrice

Collaboratrice con la cattedra di Pedagogia sociale della Facoltà di Scienze della Formazione di Bergamo

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che negli ultimi anni si è impegnata a farcircolare i testi di Dolores Prato.

Ogni libro non è altro che “il racconto di

un desiderio di scrivere” per quella cheviene considerata la leggendaria innamo-rata delle parole. Aveva scritto infatti che“i colori mi trasmettevano fascinose im-

pressioni sensuali, le parole invece mi da-

vano un piacere fonico… una parola

poteva diventare sensualità. Diventai l’in-

namorata dei nomi e lo sono rimasta”.

La sua narrazione autobiografica ostentail gusto e l’esercizio della tecnica descrit-tiva, configurandosi come una sorta dipercorso a carattere enciclopedico attra-verso la Treia dell’infanzia e come unesame sistematico di tutto ciò che la me-moria restituisce: paesaggi, ritratti, oggettidomestici, opere d’arte e di artigianato,alimenti, abiti, giocattoli, malattie, riti.

È il romanzo di Treja che Dolores Pratoscrive con ‘j’ e non con la ‘i’ perché: “la

j lunga era quello che è il clarino in una

banda: predominava. Il clarino predo-

mina se c’è, ma può non esserci; il suono

della j lunga c’era sempre. Più che suono

di voce era realtà quasi corporea; non

poteva mancare come non può mancare

la struttura portante di un edificio. Adesso

legalmente la j lunga non esiste più… no,

non è scomparsa… Treja ha bisogno di

quella mezza consonante: se non ce

l’avesse bisognerebbe dargliela perché è

il suo popolo che ha bisogno della j

lunga…

Parlare di Dolores Prato significa metterein primo piano la memoria e il linguaggioe il loro potere salvifico. In Giù la piazza

non c’è nessuno scrive: “quando m’ac-

corsi che ero stata per una decina di

giorni una trovatella con un nome postic-

cio… quella condizione si fermò avanti a

me per tutta la vita. E io che fui? Una

bambina un po’ dolorosa, un po’ curiosa

potrebbe dire chi guarda dal buco del

Portone del Priorato: una bastarda dirà

chi la guarda col disincanto. Bastarda in-

tegrale dico io, non solo per il concepi-

mento, per la nascita in un nascondiglio

segreto, non solo per la mia dimora, sia

pure al brefotrofio, ma per tante altre

cose… sono una bastarda anche religio-

samente: cresimata, ma non battezzata.

Di questo mio essere non mi vergogno”.

Non ha mai smesso di scrivere e nel 1928

comincia a registrare anche i suoi sogni,ossessionata dalla ricerca di materiali nar-rativi: “Scrivere quel che mi viene in

mente; un accenno per non dimenticare

un fatto; un’immagine nuova; una nuova

riflessione, ora di un lavoro ora di un

altro; mettere in alto la sigla di quel tale

lavoro e poi giù nel calderone”. La tra-scrizione dei sogni notturni, ora raccoltiin un unico volume, corrisponde alla ne-cessità di non perdere quella ricchezza, dinon lasciare al giorno la possibilità di ru-barle l’eredità della notte: “La scrittura

dei sogni diventa allora lo stratagemma

per arginare lo sperpero del mattino,

quando la fiumana di immagini e di av-

venture che ci ha tenuto compagnia nel

sonno si dissecca in pochi istanti”. La suaè una lotta contro il tempo per lasciaretracce e farsi traccia.

All’amico Tecchi il 26 aprile 1962 scrive:“Io faccio dei sogni straordinari, costruiti

più che sui fatti, su sensazioni… questi

sogni debbo scriverli appena desta, altri-

menti li smarrisco e non li ritrovo più:

debbo anche scriverli in fretta per non

perdere la conclusione che qualche volta

si dilegua mentre sto scrivendo. Per fare

questo debbo riassumere, raccorciare,

sorvolare su tante sfumature di sentimenti

e di fatti, sicché il sogno scritto è sempre

meno ricco di quello vissuto nel sonno…

La mattina del 18 aprile feci un sogno in-

torno a lei, un sogno senza conclusione

perché interrotto dalla donna che mi por-

tava il caffè, lo scrissi subito lo stesso. I

miei sogni non li rileggo mai appena

scritti perché resto stanca dello sforzo che

faccio di scrivere volando dietro ad essi

prima che si dissolvano”.

Note biograficheDolores Prato nasce a Roma il 10 aprile1892 e muore ad Anzio il 13 luglio 1983.

Figlia illegittima di Maria Prato, vedovaPacciarelli, che aveva provato a sbaraz-zarsi della figlia appena nata. Maria erarimasta vedova a 41 anni con cinque figli- Giulio, Vittorio, Oberdan Pio, Adelaide(Lalla) e Ida. Abituata a pranzi e feste, siera ritrovata a riparare gli indumenti deisoldati per guadagnare da vivere per sé ei figli. Si invaghisce di un avvocato cala-brese funzionario della Suprema Corta diCassazione e ammette: “mi persi per un

attimo di presunta felicità. La conse-

guenza di quell’attimo strappato alla so-

litudine fu terribile: una gravidanza”.

Lui, sposato con figli, scompare e cosìMaria decide di affidare la piccola alla le-vatrice che la registra con il nome di Do-lores Olei ‘di madre che non consented’essere nominata’. Dopo sei giorniMaria torna a cercarla perseguitata dagliincubi e dalla paura di essere punita in-sieme ai figli per il suo gesto. Le dà il suocognome Prato, lasciandole il nome Do-lores perché “nata nel dolore del fisico e

dell’anima. Era il 16 aprile nel 1892: Do-

lores nasceva per la seconda volta”. Nonera però disposta a tollerare la sua pre-senza “davanti agli occhi, giorno dopo

giorno, a rinfacciarmi la colpa”, cosìmanda Dolores a balia a una ciociara diSezze finché non venne la soluzione daisuoi cugini, i fratelli Ciaramponi, che vi-vevano a Treia e si offersero di tenere lapiccola: don Domenico e sua sorella Pao-lina che per Dolores diventarono Zizì ezia Paolina.

A Treia i Ciaramponi vivevano da tren-t’anni nella Casa del Beneficio, ossia inuna casa di proprietà della Chiesa con-cessa in uso gratuito a religiosi, ma Treia- afferma Paolina: “ci considerava più

ospiti che paesani. Quando decidemmo di

prendere con noi Dolores il paese che già

poco ci tollerava, ci guardò con maggior

sospetto e nei confronti della piccola l’at-

teggiamento più diffuso fu l’ignorarla.S’intende che la gente del paese è piena di

pregiudizi e chi sa cosa pensava per te-

nere la piccola così a distanza quasi che,

con la sua presenza potesse in qualche

modo sovvertire le loro regole. Quando

memoria

Dolores Prato

6

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andavo a messa… di ritorno a casa ero

solita fermarmi dalle Bonomi, la madre

vedova e le tre figliole. Erano state sem-

pre affabili con me, ma fin dal primo

giorno in cui mi presentai con Dolores

l’ignorarono. Al punto che se chiedevo

loro un qualche consiglio al suo riguardo,

non mi rispondevano. Mai che le avessero

offerto un biscotto. Eppure era brava

gente!”.

Don Domenico era un uomo colto, un eru-dito che sperimentava e inventava: imbal-samava uccelli, faceva la galvanoplastica,indorava con i brunitori, intesseva e so-lava pantofole di cimosa. Distillava alcoolper farne ottimi liquori che non assag-giava, perché astemio. Si dilettava anchedi pittura e aveva realizzato un autoritrattoper l’Accademia Georgica e dipinto gli af-freschi nella chiesa di San Francesco. Ungiorno a caccia si era ferito e si era curatoapplicando sulla ferita alcune foglie. Cosìaveva perfezionato un unguento curativo:una mistura con cera, olio, sambuco, oli-vella, olmo, canna, rovo, ne mangiavaanche un cucchiaio al giorno.

Dolores era considerata lunatica, piena difobie: non sopportava i rumori forti, avevapaura dei temporali e perfino del rumoreche fanno i tappi di bottiglia al momentodi stapparli. Aveva terrore dei fuochi d’ar-tificio e preferiva i giocarelli semplici: unapallina attaccata a un elastico che andavasu e giù con il movimento della mano; uncerchio e le coccette di Appignano, pic-colissime riproduzioni in terracotta di sto-viglie vere.

Dolores fa continui riferimenti alla sua di-versità, al suo essere sfortunata fin dallanascita e poco amata: “Mi raccolsero per-

ché io ero fuori norma, buttata lassù per

salvarmi… nell’agone ho sempre vissuto,

mai vincitrice, mai vinta, ma sempre resi-

stente.

All’interno dell’Educandato della Visita-zione, la sua Madrina, suor MargheritaMasi, afferma che: “Era diversa per certe

sue fobie, come quella per gli insetti. Una

volta che toccò per sbaglio un bruco

corse a lavarsi fin quasi a scorticarsi per

paura che qualcosa di quella povera be-

stia le fosse rimasto attaccato. Era di-

versa nel mangiare: non tollerava i

cetrioli e un giorno che ci portarono un

tartufo, per noi una vera rarità m’accorsi

che dopo aver ingoiato era andata a ri-

mettere. Era diversa nella ricreazione:

non partecipava mai ai giochi, si limitava

a osservare e mentre le sue compagne sta-

vano insieme a chiacchierare, lei si iso-

lava. Era diversa nel vestire: non aveva

un vestitino nero di lanetta e non aveva

scarpe adeguate. Era uno strano miscu-

glio di cultura superiore alla media e di

ingenuità esasperante perché non si sa-

peva se vera o falsa. Un giorno mi accorsi

che aveva il suo ciclo ed aveva sporcato il

letto. Le chiesi perché non avesse provve-

duto e lei rispose a cosa? La zia non le

aveva insegnato a usare il pannolino che

pure aveva nel corredo. Mi venne di pa-

ragonarla a Pandora. Era come se, nella

crescita, mancassero degli anelli… Si

sforzava di essere gentile e si sobbarcava

i lavori di tutte ma rimaneva una ingenua

paccottona ma con del fuoco dentro; una

ribelle in ceppi”.

Nel 1907 per via delle condizioni econo-miche sempre più precarie, don Dome-nico chiede il permesso al vescovo diandare in Argentina per vendere il suo un-guento, ma non lo ottiene e decide di par-tire comunque, mettendosi in rotta con laChiesa.

La straordinarietà della Prato non sta neglieventi della sua infanzia ma nel modo diraccontarli. La lingua per lei era tutto:“Più in là del principio delle cose non

sono mai andata. In principio era il verbo.

E poi? Poi niente. Le parole avevano una

faccia mentre la vita non ne aveva nes-

suna”. Nella sua solitudine le restavanole parole e le cose delle quali innamorarsi:“Di quante cose ero sempre innamorata

nel mio chiuso silenzio! Potrei adoperare

la parola voluttà per dire il piacere del

piacere che io ricavavo dalle cose, tanto

più che la parola è bella e profonda pro-

prio perché non si sa bene quel che dice”.

L’autobiografia Giù la piazza non c’è nes-

suno comincia con un ricordo: “Sono nata

sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta per-

ché il portone aveva sbattuto, dunque lo

zio rientrava. Lo zio aveva detto “riman-

dala a sua madre, non vedi che ci muore

in casa?”. Ambiente non c’era intorno,

visi neppure, solo quella voce. Madre,

muore, nessun significato, ma rimandala

sì, rimandala voleva dire mettila fuori

dalla porta. Rimandala voleva dire met-

termi fuori del portone e richiuderlo”.

Lei nasce sotto il tavolino, come se la con-sapevolezza di sé fosse legata a quel luogoche implica un nascondimento e una pro-tezione a opera del tappeto che ricopre iltavolino e sfiora il pavimento con le suefrange. La sua è un’esperienza di esclu-sione, di estraneità e di ritrovamento di sénelle parole, nelle storie che si racconta.

Scrive: “Noi cominciamo a essere col

primo ricordo che riponiamo in magaz-

zino. Il luogo dove si ebbero i primi av-

vertimenti della vita diventa noi stessi.

Treja fu il mio spazio, il panorama che la

circonda, la mia visione: terra del cuore e

del sogno. Io non appartenevo a Treja,

Treja apparteneva a me; essa non mi

aveva chiamata, non gradiva la mia pre-

senza per le sue strade, nelle sue chiese,

lo vedevo benissimo e anche questo ap-

parteneva a me. Essa non mi assorbì

come il corpo non assorbe la spina che ci

si è conficcata”.

Paragona se stessa e anche gli uomini a “i

semi che nei negozi “Piante e Sementi”

stanno racchiusi in pacchettini di carta,

sono piccole bombe vitali che per esplo-

dere hanno bisogno di essere sepolte. Noi

come loro, loro come noi. Io fui sepolta

memoria

Dolores Prato

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Dolores Prato

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nel terremotato ventre di mia madre, di lì

trapiantata in agro romano; messa a di-

mora a Treja nella Casa del Beneficio

dove continuò l’inconscia mia crescita...

Ero così poco idolatrata che non si sa-

peva quando fossi nata. In aprile il 30, mi

pare. Non il 12, macchè il 30… poi

scappò fuori il vero, il 10 aprile”.

Parlerà sempre di sé in termini negativi,privativi: la sua camera all’interno dellaCasa del Beneficio era la Camera dei fo-

restieri, tutti la scansavano: la zia che nonaveva dimestichezza con i bambini e leg-geva riviste e libri e anche Eugenia, la do-mestica, troppo impegnata nelle faccendedomestiche la sollevava di peso e la spo-stava, come uno sgombro stradale,quando se la trovava di fronte.

Dolores si muove nella casa da sola, “mi

ci aggiravo a vuoto, tanto nessuno mi

chiamava. Talmente disabituata all’atten-

zione della gente su me che se per forzata

convenienza qualcuno mi rivolgeva il suo

stupido “come ti chiami?” rispondevo

“no”, significava “non voglio rispon-

dere”. Odiavo le domande dei grandi; per

quanto rare esse riuscirono a foracchiare

tutta la tela della mia infanzia. Stavo lì

senza sensazione né di passato né di av-

venire, senza sapere se ci vivevo da due

anni o da un’eternità. Mi sentivo centro. Il

centro non può essere che solo. Appunto.

Io ero isolata. Non ero protezione di nes-

suno; nessuno si immedesimava con me;

nessuno mi abbracciava; non mi riposavo

mai sulle ginocchia di nessuno”.

Soltanto un’altra donna di casa, Scola-stica, non la può scansare, perché stavasempre seduta accanto al focolare: “ri-

cordo il suo viso rosso, tondo, grasso e il

suo grembo, il calore che ne veniva. Il

petto e il ventre facevano una massa in

pendio da cui le ginocchia si sporgevano

quel tanto sufficiente a me, seduta su uno

sgabellino da piedi per appoggiarci le

braccia, da lei non aspettavo altro che le

scantafavole… me le faceva sospirare.

“dì, dì, dì.” Si accingeva a cominciare,

appoggiavo subito le braccia sulle sue gi-

nocchia. C’era una volta… un gancio che

mi sollevava e mi deponeva in un mondo

d’incanti e di sortilegi… con le sue scan-

tafavole mi dette più che la felicità”.

A Dolores pareva di stare dove non do-veva: “Ormai c’è” ripeteva la zia allagente, “Ma dov’era il posto dove avrei

dovuto stare? Non lo trovai mai”. In re-altà lo trova dentro le parole alle quali siancora per non fare naufragio, quando at-torno a lei infuria la tempesta delle emo-zioni, delle tribolazioni.

Una sola volta fu oggetto di attenzione, diabbracci e coccole. Arrivò in visita a TreiaGuglielmo, il fratello degli zii con la suadonna Ernesta che: “da quando era en-

trata non aveva visto che me, s’era chi-

nata per prendermi e sollevarmi tra le

braccia poi sedette mettendomi a caval-

cioni sulle sue ginocchia; mi sorrideva,

mi stringeva al petto, mi faceva domande

da bambini. Per me lì dentro era tutto da

grandi; quel che serve ai piccoli lo pren-

devo da me se potevo; quel che non po-

tevo nessuno me lo dava. Con Ernesta io

fui bambina anche di fuori. Quante ore

durò? Poche.

Mi dondolava avanti e indietro fingendo

di buttarmi giù, di lasciarmi cadere e in-

tanto cantilenava “Staccia minaccia, but-

tiamola giù la piazza”… cominciava così

non so come continuasse, ma finiva con

un giù lungo e profondo, atroce e dolcis-

simo che mi capovolgeva come se vera-

mente stessi cadendo a capofitto nel

vuoto. Non l’ho imparata la filastrocca;

quando tentavo di ricostruirla, arrivata a

“giù la piazza” attimi d’inutile attesa, poi

il pensiero come se parlasse diceva “giù

la piazza non c’è nessuno”… l’unica

gioia scapestrata della mia infanzia”.

E la Prato sceglie quest’unica gioia qualetitolo per l’autobiografia che raccoglie pa-

role e cose, attimi di meraviglia e scotta-

ture come le chiamava Dolores Prato per-ché “per durare le cose dovevano

incidere o scottare”. Giù la piazza non c’è

nessuno registra le sue scottature, custo-disce tutti i frammenti di vita: “Essendo

io un’eternità spezzettata, tanti pezzetti di

eternità mischiato con tanti vuoti, tanti

niente. Quello che appare memoria è rac-

colta di cicatrici o album d’incisioni”.

L’esperienza del collegioLa sua infanzia finisce nel momento in cuila zia la manda nel collegio religioso diTreia, l’Educandato delle Visitandine,perché lei avesse un’istruzione adeguataper un mestiere, quello di maestra. Leiperò vive questo distacco come un nuovoabbandono, un altro rifiuto da parte dellepersone più amate. “Il momento era

giunto, la zia mi pettinava o meglio mi li-

sciava come faceva lei davanti a un nodo

passava al largo lo evitava; capelli così

neri, così lucidi, così ricci erano un ca-

priccio, la zia li stava lisciando con il pet-

tine. Con urlo mai emesso uguale, glielo

strappai di mano e lo spezzai. Il mio

primo atto di violenza concludeva la mia

lunga infanzia. Un attimo in cui fui furia

infernale nell’urlo e nel gesto. Non spez-

zavo un pettine, spezzavo una trave, spez-

zavo chi mi spezzava, me stessa, dato che

spezzarmi bisognava. Un urlo, un gesto e

tutto tornò nel silenzio e nella calma. Mi

preparai a uscire di casa… Il mio primo

atto di violenza conclude la lunga infan-

zia, se l’infanzia può mai concludersi”.

In collegio è costretta a dimenticare la lin-gua degli affetti, il dialetto marchigiano diTreia per imparare l’italiano delle suore:presso Zizì le parole vibrano di vita, nelconvento si svuotano di ogni slancio epassionalità. Nel collegio non ci sonocose, ma parole astratte e forbite.

“Cambiavano le parole, le cose restavano

le stesse, cambiava la vita più che al-

l’esterno dentro. Cambiava il sentimento

oppure ci si sentiva cambiate. Sulle pa-

role filosofeggiavano i filosofi. Io che con

la filosofia mi sono sempre trovata agli

antipodi; peggio, gli antipodi possono far

supporre un contrasto, in me non c’è nep-

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pure questo, c’è la cecità. Figuriamoci

allora, nel travagliato sviluppo adole-

scenziale! Le parole mi si imponevano a

seconda delle passioni che mi suscita-

vano. A volte solo per la loro musicalità,

per la loro lontananza nel tempo, per il

loro mistero. La parola era un mito per

quel che appariva a noi, ogni parola po-

teva diventare leggenda; per loro era di

certo logos, parola sì ma con un perché.

In paese l’universo per me era negli occhi

e nelle parole. In collegio, stando quasi

sempre chiusa, l’universo degli occhi si

restrinse a quel panorama, sempre quello,

ai corridoi, ai camerini, si moltiplicò

quello delle parole. In fondo fu un grande

cambiamento di parole, per il resto, un

peggioramento, piantarono nella mia co-

scienza scrupoli, ossessioni, che Zizì

prete, non aveva mai sognato. Rovinarono

la mia vita.

Le abitudini erano diverse, sì, è vero si

andava a mangiare quando la campana

avvertiva che ne era l’ora; si camminava

in fila di coppie per i corridoi e per le

scale; si pregava assai; si respirava

un’aria di superiorità; noi, in convento, i

perfetti, i privilegiati, gli ottimi, gli altri,

nel mondo: pupù o quasi. Differenze è

vero ce n’erano, ma la differenza somma,

sostanziale, formativa, era nelle parole.

Non è che la vita lì dentro non fosse assai

diversa da quella di fuori, però quello che

la rendeva vita di un altro mondo erano

le parole. Palloncini gonfi di gas leggero

quelle parole per le quali lievitavamo in

una purificata atmosfera dove s’incontra-

vano sempre le stesse cose: il dovere, la

carità, il sacrificio, la rinunzia, l’obbe-

dienza, la pietà… quei palloncini erano

legati alla nostra divisa, una specie di

scafandro che ci isolava dall’umanità. La

mia trasformazione avveniva attraverso

le parole”.

Il collegio significa costrizione, accetta-zione di regole, mortificazione del corpo.“Lì mi insegnarono tutte le compressioni

possibili. Il sublime era non essere quello

che si è”.

Le tirano i capelli ricci e ribelli in unacrocchia intrappolata da forcine; le met-tono il busto con stecche di ferro che le fe-rivano la carne e insanguinavano le

camicie e avverte in maniera ancora piùforte il suo essere diversa da tutte le altrecompagne.

“Entravamo fornite di lavamano col ca-

tino e la brocca… le brocche si ricono-

scevano senza fatica: una più grossa, una

più alta, quella col filetto blu scuro in-

torno, quell’altra marmorizzata d’azzurro

come avvolte da un’irregolare rete colo-

rata, alcune; tutte sempre aggraziate. Per

quella brocca era Giannina, quell’altra

Olga, quell’altra Caterina; aveva ognuna

una fisionomia pur essendo simili nella

forma con la pancetta più o meno arro-

tondata, ma tutte con la pancia. Potevano

essere anche più o meno belle, come i visi

delle compagne in cui la diversa bellezza

faceva la loro distinzione; la diversità era

Giannina, Olga, Caterina. Ma Dio Sa-

bato! Se la brocca dovevo essere io, io co-

m’ero?

Era l’unica brocca diversa da tutte:

secca, dritta, senza pancia, alta tanto che

non poteva stare nel supporto del lava-

mano. Percorrendo il dormitorio dove

ogni comò aveva a fianco due lavamani,

s’incontrava quella brocca fuori posto:

una nota caduta dal pentagramma, una

stecca nel coro. Nessuno potrà capire

quanto mi costò di vergogna, di pena

quella brutta brocca diversa da tutte”. Lo

zio gliel’aveva scelta “ora che tra quella

brocca e me c’è tutta la vita, riconosco

che mio zio, come sempre, aveva capito

tutto. Dove la comperò forse quella

brocca era unica, tutte le altre con poche

differenze erano uguali tra loro, ma lui

scelse quella brocca perché quella brocca

ero io: diversa da tutte e vergognosa di

esserlo. E adesso che la guardo di lontano

posso assicurare che quella brocca era

anche bella perché la ritrovai in un qua-

dro di Morandi. Non la cercavo si pre-

sentò da sola e l’emozione fu come se mi

avesse abbracciata”.

Dolores Prato raccoglie nell’autobiogra-fia gli anni dell’infanzia e della giovi-nezza trascorse a Treia fino al 1910quando si trasferisce a Roma per non farepiù ritorno a Treia che restò comunque ilsuo ‘paese sotto la pelle’ (GiocondaBelli).

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Quando mi innamoro di un’autrice, oltre alavorare sui suoi testi, mi piace seguire perquanto e per come possibile le sue tracce:avverto quasi il bisogno di vedere i luo-ghi della sua nascita, le strade calpestate ei suoi scenari. Si tratta di quelli chechiamo i pellegrinaggi letterari e che, inalcuni casi, ho ricostruito nei miei rac-conti5.

Sono stata a Pistoia per ritrovare via delVento dove era cresciuta Gianna Manzinie poi Cutigliano a cercare la tomba delpadre, quella con le ciotole di miglio pergli uccelli “Che cantino e non per me sol-

tanto”; a Pasturo in Valsassina per Anto-nia Pozzi e a Treia per Dolores Prato.

Di solito nessuno conosce le autrici checerco, nessuno si ricorda di loro né le hamai lette: così a Pistoia un edicolante miha suggerito di andare a vedere il monu-mento dedicato a Cino da Pistoia piuttostoche cercare la casa di Gianna Manzini alui sconosciuta, a Pasturo un salumiere miha detto che non aveva mai sentito parlaredi Antonia Pozzi, ma se volevo potevo an-dare a visitare la casa dell’Agnese delManzoni!

A Treia, invece, è stato tutto diverso: eraun 31 gennaio e stavo lavorando sui testidi Dolores Prato a Cesenatico da mio fra-tello. Quando gli ho annunciato che avreipassato il pomeriggio a Treia, mi ha guar-dato con gli occhi sgranati aggiungendo:“Ah certo, dove vai tu a passare l’ultimodell’anno? a Treia?! Località ovviamenteben nota”.

Piovigginava e mi sono davvero messasulle tracce di Dolores Prato, seguendo ilsuo testo che sapevo a memoria, ricono-scendo le vie, i negozi, i palazzi che leiaveva descritto con scrupolo affettuoso.

Sotto gli archi del Comune, nell’Ufficiodel Turismo, mi accoglie un uomo con

cortesia misurata ed è un attimo: mi bastapronunciare nome e cognome, DoloresPrato, e lui si illumina, si trasforma e gliocchi sprizzano gioia insieme alla boccache sorride compiaciuta. E Dolores Pratodiventa Dolores. Mi parla di lei come sefosse l’amica di sempre, la sua compae-sana ed è felice e non stupito della miapresenza, come fosse un giusto tributo daoffrire alla straordinaria scrittrice.

Ne parla come se l’avesse conosciuta ecome se Dolores fosse sempre presentelaggiù nella Casa del Beneficio e si aspet-tasse di vederla spuntare dalla porta. Leinon è morta, lei vive a Treia e al suo con-fronto per lui i poeti del Trecento impalli-discono: loro non sono che nomi illustrimentre lei è carne della sua carne, sanguedel suo sangue.

Mi dice che non si stanca mai di leggerel’autobiografia di Dolores, non quella“scorciata” ma proprio quella completache è tutt’altro che noiosa. A lui di solitole autobiografie stancano, ma non questa.Legge e ricorda, perché se non ha cono-sciuto le persone descritte da Dolores,però ne ha sentito parlare e comunque lastrada, i palazzi, l’atmosfera da lei de-scritta è la stessa da lui vissuta. Mi dice “Imiei figli non capiscono e mi dicono chenon è vero, non è possibile che il mondopotesse essere così e che io sto inventandoma invece è tutto vero e il mio mondo eralo stesso descritto da lei… in tempo diguerra non c’era da mangiare e c’era lapolenta che era già un lusso e quando ve-niva servita con un filo d’olio lo era an-cora di più. L’olio sulla polenta, la O sulla

polenta uguale a quello che Dolores pro-vava a casa dell’Angelina… e quando imiei figli disdegnano la carne che noi nonmangiavamo mai, mi arrabbio e raccontoma loro non ascoltano, per loro sono fa-vole…”. Sta a me ora ribattere: “Come lescantafavole di Scolastica?”. “Sì, certo lescantafavole di Scolastica”.

Io chiedo della Rotonda. Mi racconta cheè stata restaurata ed è un po’ dispiaciutodel risultato perché colorata così in gialloe arancione “Pare un po’ una torta. Il vil-lino delle rose, quello dell’amica della zia,la Rosina è stato distrutto dopo la guerraperò è stato ricostruito ma ci abitano deiprivati e forse non è il caso di andare a di-sturbarli anche perché lì è tutto diversoora. Ma c’è l’Accademia Georgica e laChiesa di San Francesco, quella di SanMichele e l’Educandato, ormai è un mo-nastero delle Visitandine, suore di clau-sura: non si può visitare ma si possonovedere le chiese”.

Cerca di scusare il paese che non l’avevaaccolta bene, che l’aveva tenuta a distanzaper paura della sua nascita illegittima. Al-lora Treia aveva paura delle novità “micacome adesso”, mi dice, “che abbiamo ac-colto bene gli stranieri perché lavorano efanno quello che noi non facciamo piùperché sono lavori brutti e pesanti”.Ormai in paese non c’è più nessuno,anche i suoi figli se ne sono andati a farefortuna da un’altra parte. Giù la piazza

non c’è nessuno ed era profezia.

Forse gli dispiaceva lasciarmi senza unsegno, qualcosa di concreto da portarmidalle Marche in Lombardia, qualcosa damettere sulla mia scrivania, magari comeportafortuna. È così che a un certo puntomi regala una coccetta, una coccetta diAppignano e mi accorgo che la stringo: èdi terracotta, ruvida, sembra quasi graf-fiare la pelle e riproduce in miniatura una

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Sulle tracce di Dolores

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brocca. La mia coccetta è una brocchettae il nome è già gioco e ricordo.

Mi dirigo verso l’Educandato e la Chiesadi San Michele ma ho paura di avere sba-gliato strada e così rallento il passo perpermettere a un gruppo di donne di rag-giungermi. Avverto il sospetto nei volti diun’anziana signora e di due suore. E an-cora una volta faccio il nome di DoloresPrato e ancora una volta quelle sillabesono il passe-partout per la simpatia spon-tanea e un’ondata di chiacchiere. “Anchemia figlia - mi dice l’anziana signora - hafrequentato lo stesso collegio di Dolores,peccato che adesso non ci sia più il colle-gio perché le ragazze ci stavano bene eanche Dolores si trovava bene con la suaMadrina”…

L’anziana signora mi accompagna allaChiesa di Santa Chiara e chiama vicino asé una suora per presentarmela e sento chele sussurra “Viene da lontano e conosceDolores”…

A San Michele mi aspettavo una chiesacadente, a brandelli, senza stucchi, affre-schi e ori così come Dolores aveva de-scritto la parrocchia quando era andata adabitare con gli zii, dove ci si sentiva. In-vece trovo una chiesa ristrutturata con pa-vimento regolare e nuovo, pareti lisce esenza affreschi ma compatte, nitide e unosplendido soffitto a cassettoni. Tutto è lu-minoso, pulito, ordinato: in questa navataadesso non ci si può più sentire.

Poi la suora mi accompagna attraverso lestanze della sacrestia che conducono al-l’orto che chiude il paese. Non mi aspettoche il buio perché anche se è solo metàpomeriggio siamo in inverno, in quell’orain cui l’oscurità è un mantello ruvido chesi può toccare e annusare. Sa di lana chepunge e di nebbia gelida. Ma questa voltanon c’è solo il buio, c’è nuovamente lei,Dolores.

E mi ritrovo a pensare che nulla di quantoè compiuto, può essere interamente per-duto. Dolores Prato aveva scritto nelle suepagine che i semi sono bombe vitali chehanno bisogno di essere sepolte per esplo-dere. Anche lei come un seme è stata se-polta e poi è esplosa. Giù nella piazza nonc’era nessuno. Adesso giù nella piazza c’èqualcuno. Una bambina che abiterà lapiazza per sempre con i suoi giocarelli,

con il suo pettine spezzato, con la suacollezione d’immagini e parole, con lasua memoria di cicatrici e il suo albumdi incisioni. La bambina parla con Treiae con chiunque abbia voglia di andare adascoltarla.

Per Rosa Montero chi scrive si riempiecosì tanto di vita che cancella la morte:“Nei momenti più creativi, ti senti eterno.

Si scrive sempre contro la morte… Un

grande numero di romanzieri ha vissuto

un’esperienza di decadenza precoce. In-

torno ai sei, dieci, dodici anni ha visto il

mondo dell’infanzia scompaginarsi e spa-

rire per sempre in modo violento. I ro-

manzieri scagliano parole e parole contro

la morte, senza sosta come arcieri arroc-

cati sulle torri di un castello in rovina. Ma

il tempo è un drago invulnerabile che di-

vora tutto”. Anche Dolores Prato ha vis-suto l’esperienza dolorosa dell’abbandonodalla madre, poi dagli zii per entrare in col-legio. La scrittura però resiste e forseanche i morti non scompaiono del tutto.Per Hannah Arendt i morti sono “messag-

geri che noi mandammo avanti a farci da

guida nel sonno”.

Possono essere considerati grandi guidegli autori e le autrici con le loro opere.Hanno cercato di vivere in presenza dellarealtà, si sono impegnati a trovarla, racco-glierla e comunicarla agli altri per dirla conVirginia Woolf. E se ci sono riusciti, la let-tura dei loro libri “sembra eseguire una

curiosa operazione generativa sui nostri

sensi; a lettura finita vediamo più intensa-

mente; il mondo ci sembra finalmente sve-

lato e animato da una vita più intensa”.

Clarissa Pinkola Estés6 afferma che: “Esi-

stono donne nella vita vera che sono

grandi genitrici di generazioni di idee,

processi, genealogie… che diventano

sempre più sagge e ne sono l’espres-

sione. Esistono mentori, grazie di cono-

scenza che guidano studenti e allievi…”

affinché sboccino stagione dopo sta-gione. “Quando una vive pienamente,

così fanno anche gli altri”.

Dolores Prato ha vissuto e scritto piena-mente e noi possiamo raccogliere la suaeredità in parole.

Raccolta di meraviglie in parole tra la casae il collegio a TreiaIl dindarolo un nome così bello e volevanoammazzarlo. Una bolla di terracotta su unpiccolo piedistallo, in capo aveva un ciuc-cetto che serviva per prenderlo, poco sottouna fessura come quelle delle cassettinedelle chiese dove i devoti infilavano le mo-nete che regalavano a Sant’Antonio piùche a Gesù; a noi le regalavano i grandi.Per non romperlo, lo zio infila la lamanella fessura e le monetine scivolarono giùsvelte come sciatori.

Il lesso, piatto predominante del cetomedio come la polenta in quello povero,era di per se stesso rito senza esigenza diparticolari cerimonie, eccetto la schiuma-tura: prima che cominciasse il bollore sialzava su tutta una schiuma scuroccia chesi doveva togliere con la schiumarola…dopo bolliva quietamente effondendo unriposante odore familiare. Il brodo diven-tava minestra, la carne mangiata calda consuo tenerume o rifatta in padella la seracon cipolla, pomodoro, peperoni; l’odorestuzzicante di quell’intruglio era energe-tico… La coratella, parola cumulativa as-sommava le interiora dell’agnello.

La crema… il biancomangiare non misuggerì mai né simpatia né interesse… idolci feriali si uniformavano alle stagioni:calore di castagne, allegria di fragole;mosto cotto e ricotto. Dolce di tutte le sta-gioni era la crostata: un piatto di pastafrolla cosparso di marmellata incarceratada una gran grata fatta di pezzetti di pasta,rotolati e distesi con lo stesso movimento,diventati cordoni.

L’Angelina sulla spianatora versava la po-lenta che scendeva lenta, pesante; un

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grande ovale giallo. Il marito il Boccio di-ceva “Ecco, guarda ci fa un o, mai unavolta che ci faccia il riccio”. Lei severa conl’orciolo dell’olio da cui ne scendeva unfilo, faceva il famoso o e davvero senzaneppure l’accenno del riccio un o ovaleperfetto. Era tutto il condimento della po-lenta che a me piaceva tanto.

La festosità casalinga carnevalesca consi-steva nelle frappe e scroccafusi. Le due pa-role non entravano in casa nostra: nastri ofiocchi e gli scroccafusi erano le casta-gnole: pallette di pasta dolce che nell’oliobollente crescevano a capriccio. Davanol’impressione di essere più serie dei nastrio fiocchi.

Le lumache per Eugenia erano le cuc-ciole; mi parevano meno ripugnanti conquel nome, ma non l’adottai, mi avreb-bero corretta.

Papà apparteneva ai signori. Babbo era deipoveri e dei puristi…. A me babbo piacevapapà no. Babbo era una parola gonfiacome le guance dei bambini; papà schiac-ciata come una cialda. Papà balbetta,babbo parla.

La faccia di una donna era una macedoniadi figli.

Contadini e popolo ballavano il saltarello,una danza con tamburello a sonagli; nonlo vidi mai, immaginavo che fosse unadanza a salti… nel mare del finito, delchiuso, del non più vivo, dove sta affo-gando il latino… è affogato anche lui; ilsaltarello non vive più. Se un giorno ritor-nerà perché a un certo punto si ricerca ilpassato, sarà una maschera e saltarelloquel diminutivo latino sarà veramente unaparola morta. Così pian piano si uccidel’esistenza del passato.

Rosciolo: parola che era colore mescolatoa luce perché essendo pesce il color corallodelle squame diventava luminoso. Quandofui lontana da Treja seppi che si chiama-vano triglie: spenta la luce spento il colore.Dicendo triglia non si dice nulla, tutt’al piùsi pensa al suo occhio ma dire roscioli è ve-dere pesci inguainati da scaglie coralline.

Carretti pieni di bricoccole giallo-rosatocon quel nome pareva che rotolassero,quando le chiamai albicocche non rotola-rono più. Una donna che frequentasse troppo lechiese, che da una funzione passasse a

un’altra, che rimanesse rannicchiata per oree ore dentro una chiesa spenta era chiamatabizzoca. Sentivo spesso la parola senza unnome al quale attaccarla, ma sapevo benis-simo cosa volesse dire e come era: vestitoscuro, scialle nero tirato avanti sulla frontecome una visiera, corona in mano e d’in-verno lo scaldino sotto lo scialle. Non ri-scuoteva simpatia eppure se Dio era dentroil Tabernacolo, quella era un’adoratriceperpetua; se Dio era lì dentro noi tuttiavremmo dovuto essere bizzoche.

Non c’era parola più scura di mezzanotte.

La parola biancheria non esisteva in con-vento, al suo posto lingeria. Lingeria eraanche il luogo dove entrava ed usciva tuttociò che era bianco compresi i fazzoletti danaso delle suore grandi più dei tovagliolid’allora: quadrati ricavati da pezze di linomisuravano un braccio di lato… Sebbenenon riuscissi a ficcarlo nella tasca ero or-gogliosa di avere un fazzoletto che da oltretre secoli manteneva la misura stabilita daisanti Fondatori. Quello che pendeva dallatasca lo sostenevo come la regina Marghe-rita sosteneva il suo manto d’ermellino”.

In paese si chiamava il séllero e servivapiù che altro per mangiarlo in pinzimonio,sale pepe e olio. In collegio niente pinzi-monio perché l’olio era oro colato, il se-dano appariva nell’orto durante la suacrescita, dove poi andasse a finire, misterodei monasteri. E dicevano sedano invecedi sellero; mi pareva più odoroso il sellero,ma forse non era vero.

La casalinga braciola diventò l’internazio-nale bistecca, anzi bistecchina perché ave-vano una certa tenerezza per i diminutivi;ma neppure come bistecchina comparvemai sui nostri piatti.

In paese la gente che lavorava era stracca,gli altri erano stanchi. Tutti i contadini lasera erano stracchi. In collegio si era tuttenobilmente stanche quando era permessodirlo.

La chiusura per mezzo dell’ago e del filodel buco di un tessuto in paese si chiamava“rinaccio”, in convento il rammendo: mauna volta tanto le due cose erano diverse.Il rinaccio era un grumo più o meno piatto,il rammendo era un restauro.

A Treia dicevano sciapa quando la mine-stra mancava di sale, sciapo quando ungiovanotto era stupido. In collegio si di-

ceva insipida per la minestra. Dei giova-notti non si parlava. Comunque si sarebbedetto è un po’ scemo perché era educa-zione attenuare un po’ le parole o addol-cirle con aggiunte. Invece di risponderesolo sì è meglio dire: sì, cara.

Quella che era la saccoccia diventò tasca.Ma come la saccoccia della zia si sarebbepotuta chiamare tasca? Era una mezza bi-saccia bianca, che si legava alla vita in cor-rispondenza della spaccatura che la gonnaaveva apposta sul fianco. Dentro c’era ditutto: soldi, fazzoletto da naso, coltello pie-ghevole, corona.

In paese la diarrea era sciolta. Ho lasciolta. Ma si diceva anche più volgar-mente la cacarella… in convento potete fi-gurarvi se aveva diritto di asilo cacarella, esciolta, ma neppure diarrea. Però siccomeil fatto s’infischiava della clausura e appa-riva lì dentro come là fuori; c’era un di-scorso lungo come un’antifona per direquella cosa sola.

In convento il sorcio diventò topo; il garo-falo diventò garofano.

Il muso divenne il broncio; la grattacaciadivenne grattugia ma non la vidi mai; il ra-maiolo mestolo; le persiche, pesche; la pi-gnatta pentola, la carta di Francia,tappezzeria; la scucchia il mento; le cia-vatte ciabatte o pianelle.

C’è un fume che acceca, si diceva a casa.La cucina piena di fume. Diceva tutto ilpaese se il fume nelle singole cucine cifosse stato. Il fumo si disse in convento.E in convento il fume si voltò non si videpiù. Non c’era caminetto, non c’era ca-mino, c’era un fumo retorico, come c’erala vita retorica.

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Note1 Scottature, Quodlibet, Macerata, 19962 Giù la piazza non c’è nessuno, Quodlibet, Macerata, 20093 Campane a San Giocondo,Avagliano, Napoli, 2010

4 Sogni, Quodlibet, Macerata, 20105 A. Lorenzi, Non restate in silenzio, Le Lettere, Firenze, 20086 C. Pinkola Estés, La danza delle grandi

madri, Frassinelli, Milano, 2006

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DAVIDE SAPIENZA

Davide Sapienza, scrittore e non fotografo (le sue immagini sono sguardi invece di parole).

Di recente è tornato in libreria con la nuova versione del romanzo La valle di Ognidove (Galaad Edizioni)

e ha appena pubblicato il cd ispirato al suo ultimo libro La musica della neve (Ediciclo Ed, 2011), intitolatoMusica della neve e.experience, una performance limited edition registrata dal vivo insieme a Giuseppe Olivini.

Nel 2012 ha pubblicato, con Franco Michieli, Scrivere la natura per Zanichelli.

Come curatore e traduttore, in giugno sono usciti Le avventure di Gordon Pym

di Edgar Allan Poe (Feltrinelli), e Una geografia profonda

di Barry Lopez (Galaad Edizioni).

In settembre, per i “cammini d’autore” della Compagnia dei Cammini (www.cammini.eu) propone “Alle pendici del tempo sospeso”, una settimana di viaggio a piedi tra Veneto e Trentino. È la sua modalità preferita per raccontare le proprie opere:in natura.

Per il calendario completo delle camminate letterarie e gli incontri, www.davidesapienza.it

Foto di Luca D’Agostino

Foto di Luca Barzasi

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Foto di Renato Zanotti

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speciale

Cieli nuovi e terra nuova

Lo schianto di cielo che infrange e piano si spegne non sfiora l’orecchio d’umani ma addentro ribolle sospira s’asciuga e svapora; d’argilla s’incrina seccata la terra del cuore. Affonda la mano nel sangue indurito. Uomo. Tra crepe cancrene di nero riponi il tuo seme di sogno: attendi. Da cieco pulsare di cavo terreno di vuoto disciolga una goccia che tutto travolga: fiorisca. E nuovi spiragli di terre e di cieli.

Nuovi spiragliEmanuele Rainone

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C’è chi pensa che i cieli nuovi e le terrenuove si trovino in un lontano altrove, chinell’alto, in una idealità perfetta o nella vi-sione. Cieli e terra che apparirebbero inuna distanza, in una frattura o in una fugadalla vita che c’è, che ci è consegnata. Cheè offerta e che è possibilità. C’è chi sente, perché l’ha sperimentato,che i cieli nuovi e le terre nuove li incon-tri, intravisti, negli occhi e nei gesti di chiti fa ritrovare in bontà e giustizia, nellapace. Per un attimo toccando la promessae l’attesa. Come un punto luminoso.

Così nella cura, nella nascita delle cose,nel dono dato o ricevuto. Il movimentoverso i cieli nuovi e le terre nuove è movi-mento nella pienezza di noi stessi: chinarcidi nuovo sulla vita: esposti e in attesa. Ri-formulando le parole ed i pensieri a partiredallo “sguardo di ritorno” che le cose e lepersone ci rivolgono, come una loro of-ferta.

Chi porta questo ascolto ha nei confrontidella realtà, dell’altro, lo stesso atteggia-mento che si ha nei confronti di ciò chegiunge donato e offerto. Lo si potrebbedire un ascolto che origina dal rispettoamoroso delle cose e delle persone.Ascolto che rende capaci di farci raggiun-gere da quelle zone della vita che “restanorincantucciate perché sottomesse da sem-pre, o perché nascenti”: improvvisi chiari

del bosco dice María Zambrano.

Allora ascoltare i cieli nuovi e le terrenuove è cogliere, o forse meglio esserecolti, accolti e ospitati. Proprio mentre cichiniamo, con cura e con intelligenza at-tenta, sulla vita che nasce, sul crescere deipiccoli, sull’incertezza dei grandi, sulle fa-tiche di molti, sulla fragilità di tutti. Suicorpi, sui legami, sulla vita comune: làdove gemono, dove resistono e dove na-

scono. Dove abita, o dove resta, l’attesa,la speranza.

È un ascoltare per tornare a nascere, an-cora, in fedeltà nuove e antiche. Da dentrogli incontri ed i giorni si fa spazio da unpo’ di verità e senso, in un tempo nel qualela fragilità e la fatica della speranza paionolasciarci tra caso e necessità. Esposti, vul-nerabili, e nel timore d’esserlo.

Certo, possiamo ascoltare senza esporci,evitando di incontrare la nostra vulnerabi-lità. Ascoltiamo, allora, ciò che cerchiamo,ciò che vogliamo trovare, ciò che ci serve:per costruire una diagnosi, per impostareun piano didattico, per una analisi e unprogetto di intervento. Svolgiamo inda-gini, cogliamo indizi, ascoltiamo confes-sioni. Ascoltiamo per controllare, perrispondere, tenendoci a distanza, protettidentro i nostri saperi esperti ed i nostriesercizi di ruolo. Ascoltiamo isolando,frammentando, riducendo, scegliendo, ap-plicando competenze raffinate, ottuse esorde. E i cieli li chiudiamo, le terre le re-cintiamo.

Mentre i ragazzi a scuola portano corpi evite intere e frammentate, storie cognitivee affettive diverse, ricche e complesse, do-mande ed attese per nulla scontate. Chechiedono ascolto. Mentre i pazienti si tro-vano su soglie o su fratture esistenziali,dentro timori d’abbandono e necessità diricapitolazioni. In attesa d’ascolto. Mentrei lavoratori ai recapiti sindacali portano leloro storie di lavoro incerto ed evane-scente, le fatiche familiari, le tensioni ed icompiti di cura che appesantiscono i

giorni. Che vorrebbero ascoltate. Chechiedono respiro, spazi e relazioninuove, concrete prossimità e coltiva-zione, ospitalità.

Cieli nuovi si vanno riaprendo in molticontesti e dentro molte relazioni, tra donnee uomini vulnerabili. A condizione d’unacerta capacità di povertà, del lasciarsi leg-gere e visitare in quel che si è, ed in quelpoco che si ha da offrire.

In spazi di prossimità, di tutela due espo-sizioni si incontrano e si ospitano: in sola(e povera) presenza, in sola (e povera) ac-coglienza.

Cieli nuovi e terre nuove son serbate, osono annunciate dalla parola. Una parolaparticolare, come quella che entra nellanotte della prova, o tesse la promessa e lafedeltà nell’amore.

Parola che scende, che di nuovo si piega,si curva sulla vita, sulle storie di donne e diuomini; non argomenta, non prova a spie-gare, a dimostrare. È parola che con pie-

tas straordinaria entra nelle pieghedell’ordinario quotidiano e svela ciò chepuò essere luce, ciò che rende leggibilel’esperienza umana, anche la più contami-nata. Una parola capace di reggere l’espo-sizione sul nulla, e di lottare, mite e fragile,contro l’abbandono, contro la distanza el’estraneità tra le persone e le generazioni.Contro la privatizzazione della debolezza,specie quella insuperabile.

María Zambrano in alcuni suoi scritti parladi una creazione e di una parola che si pos-sono dare, generativi, solo dall’esilio. Dadentro uno smarrimento ed una distanza,incontrandoci stranieri, o in esodo. Nel XIIsecolo Ugo da San Vittore scriveva:“l’uomo che trova dolce la sua patria nonè che un tenero principiante; colui per il

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Cieli nuovi e terra nuovaIvo Lizzola

Redazione L’incontroDocente di Scienze della Formazione dell’Università di Bergamo

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quale ogni terra è come la propria è giàuomo forte; ma solo perfetto è colui per ilquale tutto il mondo non è che un paesestraniero”. La citazione è ripresa dall’esulebulgaro Tzvetan Todorov che vive in Fran-cia, che l’ha presa dal palestinese EdwardSaid che lavora negli USA, che l’avevatrovata in Erich Auerbach, tedesco esule inTurchia.

Nel paese straniero parola e ascolto, cielisognati e terre abitabili, paiono perduti: de-vono tornare a nascere. Cieli e terre sonocostretti a darsi nuovi e di nuovo, costru-zione di un inedito rapporto con la propriavulnerabilità. Donne e uomini fragili ep-pure capaci, e responsabili, si ritrovano neiluoghi della libertà, dell’offerta, della pro-messa. In una “età senza casa”, come di-rebbe Martin Buber, nella qualeprevalgono l’incertezza e l’ansia, il cam-mino e la ricerca, il disorientamento e ilrancore, le differenze e gli arcipelaghi disenso. Nelle età senza casa si vive la con-sumazione di un tempo, la vertigine del-l’aperto, il legame ad una promessa. Comenell’esodo: tempo grande e terribile, fe-condo e difficile.

Ascoltare abilita a stare nell’esodo, ad ac-

cogliere senso e cammino del nostrotempo, e nel nostro tempo di vita. Colti-vando stili e orientamenti per una vitabuona, alla quale aprirci e coeducarci.Competenze per vivere da donne e uominiin ascolto, donne e uomini che provano aessere buoni e giusti nell’esodo.

Ritrovarsi come donne e uomini nella pie-nezza delle dimensioni personali e dellepossibilità, (capaci di resistere alla pro-fonda lacerazione sociale, al nichilismo,alla durezza), e costruire legami, orizzontidi senso, risorse sociali, accoglienze se-gnate da responsabilità e cura, sono ele-menti dello stesso movimento. Nascente ed’inizio più che resistente.

Tale movimento percorre gli interstizidella vita quotidiana e di relazione, e lefratture, le rotture instauratrici che se-gnano le storie di vita personali, familiarie di prossimità (le nascite e le morti, lemalattie e le crisi, le migrazioni e lescelte lavorative, le separazioni e le ri-composizioni, le chiamate in causa e iperdoni). È dentro queste narrazioni chele donne e gli uomini continuano a cercaree a serbare, qualche volta a generare, ri-sorse simboliche (conoscenze, affetti, con-

vinzioni) per venire a capo del compitodella vita. E lo fanno grazie a ciò che trat-tengono del sapere della vita (e dei saperi)e a ciò che consegnano, a ciò che indicanoe a ciò che narrano nelle relazioni con altri.E grazie alla loro presenza, alla inquietu-dine e alla immaginazione che provoca oevoca.

Faticano, oggi, i giovanissimi ed i giovania diventare testimoni del proprio cambia-mento, a maturare il senso del tempo e “ladirezione dei venti” usando parole di Si-mone Weil. E le donne e gli uomini lorovicini spesso delusi e rancorosi, con me-morie di incompiutezza e sorgenti di fu-turo rinsecchite. Eppure scorrendo nellememorie e nelle sorgenti potrebbero tro-vare i tratti della testimonianza del propriocambiamento, e le tensioni del loro esserenati, più volte.

Forse va davvero maturando “la svoltapersonale dell’individualismo” come so-stiene Alain Ehrenberg, da dentro le fati-che e da dentro le ricerche d’umanità nellequali nel nostro tempo d’incertezza si con-duce la storia delle persone, delle loro retifamiliari e di prossimità. Quelle reti chevanno riaddensandosi attorno alle fragilità

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ed alle vulnerabilità delle condizioni divita, nei progetti, e nelle prove di relazioneanche inedite. Sì, perché è nella nuova evi-denza della vulnerabilità della vita (dellesue condizioni materiali, delle narrazioniche vi si conducono, dei corpi e dei le-gami) che gli individui vanno riscoprendola loro unicità originale, la loro particolaretraccia e la loro voce. Nella capacità enella libertà di ridisegnare sé e le propriescelte nelle prove e nelle svolte, le donnee gli uomini “tornano a nascere” (maMaría Zambrano dice che a volte è proprioun “decidersi a nascere”) e a cogliere il va-lore e l’attesa nei giorni. Come pure nellescelte della dedizione, della responsabilitàe della cura nei confronti di chi, fragile, siaffida e chiama alla prossimità.

Cercando, trovando, provando, nella rela-zione educativa, le “competenze per lavita”.

Proviamo a indicarne alcune, che paionoaffiorare, concludendo la lettura di questepagine. Come nell’incontro con la diffu-sissima trama di esperienze di prossimità,di mutualità e cura, di ospitalità e acco-glienza di invenzione del quotidiano che

legano generazioni, reti familiari, personefragili e persone capaci, in pratiche di edu-cazione alla vita.

Educare ed educarsi, “sapere trafficare conla propria vulnerabilità” ridisegnandolacon altro di sé, giocandola nelle relazionicon altri.

Educare ed educarsi a non oscillare tra li-bertà immaginaria e abbassamento del-l’orizzonte delle attese, tenendo il sognodentro la realtà, e “leggendo” il sognodella realtà.

Educare ed educarsi a riorganizzare sem-pre le condizioni di vincolo e di possibi-lità nella vita personale e nella convivenza,usando pensiero strategico, equilibrio af-fettivo e tenuta psicologica.

Educare ed educarsi a farsi testimoni delproprio cambiamento, ricomprendendosvolte e momenti nascenti, cogliendone leforze di legame, e di slegame.

Educare ed educarsi a vivere “salti dipiano”, dislocazioni umane nel tempo enello spazio, acquisendo le percezioni diun sé che cambia in relazione al contesto

che viene trasformato e si trasforma. Spe-cialmente là dove si prova a vivere, dove siresiste, o dove si inizia.

Educare ed educarsi a lavorare riflessiva-mente sul proprio sentire, sui vissuti e leemozioni, per “sapere cosa farsene”, perdare destinazione e senso alle proprie ener-gie interiore.

Educare ed educarsi a “mettersi in sicu-rezza reciproca”, a vegliare gli uni suglialtri, responsabili, affidabili e capaci di fi-ducia di esposizione. Affinando il saperestare in reciprocità asimmetriche.

Educare ed educarsi alla dimensione sim-bolica, a cogliere nel tempo i rinvii, i gestie le parole “per sempre”, le consegne ed ilasciti, quelli ricevuti e quelli sui qualiimpegnare.

Educare ed educarsi alla capacità imma-ginativa di visione, ascoltando l’attesa didonne e uomini, e delle cose, l’annuncioche serbano nel loro profondo.

Come pozzi profondi che portano il cielonel cuore profondo della terra.

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Comincio con un racconto, pertrovare il capo di un filo rossoche ancora oggi sto inseguendo.Un giorno, una sessantinad’anni fa, al passo Falzàrego,nel corso di un campo scuoladella GIAC, dove incontraianche Gianni Vattimo, mi trovaisolo in chiesa, ormai convintoche il Tabernacolo contenessesolo qualche fettina di pane in-sipido. Non poteva esserci unDio onnipotente e buono, chefosse sordo, immobile o impo-tente di fronte al male che c’ènel mondo.

Prima di uscire, decidendo uni-lateralmente la morte di Dio, miimpegnai però a tornare ancorain chiesa. Se a quella conclu-sione si doveva giungere, pen-savo, che non si potesse direche era solo per colpa mia. Cosìnon mi sono allontanato dalgruppo giovanile e dallaChiesa. Ho vissuto da allora“come se Dio ci fosse” (etsi

Deus daretur, si potrebbe direparafrasando Ugo Grozio), maho avuto sempre in testa anchel’ipotesi opposta. Una bella sin-tesi esistenziale l’ha formulatail cardinal Martini, in occasionedi uno dei molti incontri da luipromossi, chiamati “cattedradei non credenti”: “Credo, Si-gnore. Aumenta la mia fede”.

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Riconosce che c’è inizialmente, sia pure fra la nebbia deidubbi, almeno un poco di fiato, cioè una fede “piccola comeun granello di senape”(Lc, 17,6). Sufficiente, se non per spo-stare le montagne, almeno per chiedere più fede. Un naufragoche si trova in mare su una zattera, vedendo fra la nebbia unasagoma lontana, cerca di mandare qualche segnale, gridandoo fischiando, e tendendo in alto le mani, “se mai alcuno lestringa e ne conduca per vie che non sono quelle della specu-lazione razionale”, come mi pare dicesse il filosofo Amato Ma-snovo. Ha scritto Sartre che Dio, anche se c’è, non gli interessa. A meinteressa anche se non c’è.

“Come a raggio di sol che puro mei per fratta nube” (Par, XXIII, 79-81)

Nella Bibbia trovavo oscurità e contraddizioni inquietanti, maanche sciabolate di luce e provocazioni che mi toglievano ilfiato. Ricordo alcune di quelle frasi taglienti, che mi sono tor-nate in mente ogni volta che le difficoltà di credere sembra-vano costringermi a chiudere il discorso o a lasciarlo nel vago.“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv, 15, 12-17).“Non temete, abbiate fiducia, io ho vinto il mondo” (Gv, 16-33).“Io ve lo dico solennemente: prima che Abramo nascesse, Iosono” (Gv, 8,58) “Sappiate che sarò sempre con voi, tutti i giorni,fino alla fine del mondo” (Mt, 28-20). Alcuni però, dicono i Si-nottici, “avevano dei dubbi”. Lui cercò di superarli con un’altra affermazione forte, che chie-deva d’essere creduta con la vita, non con dibattiti teologici opolitici: “Mi è stato dato ogni potere, in cielo e in terra. Andatedunque e fatevi discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome

del Padre, del Figlio e dello Spi-rito Santo, insegnando loro adosservare tutto ciò che vi ho co-mandato”(ibid). Accettare Luivuol dire accettare una comunitàdi Tre persone divine. Queste,secondo Gesù, si accreditano avicenda, non restano nella bea-titudine dei cieli, ma entranonella storia e nel cuore degliuomini: “Chi mi ama, anche ilPadre mio lo amerà e noi ver-remo presso di lui e a prenderedimora presso di lui” (Gv, 14-23).Anche quando temporanea-mente si allontanerà da questaterra, non lascerà soli i suoiamici, ma invierà loro un“Consolatore”, che non è soloun “ricordino”, ma il suo stessoSpirito.

Per farsi conoscere e amare, dif-fondendo la notizia che, nono-stante le apparenze, l’amorevince sull’odio e la vita sullamorte, se si accetta di combat-tere dalla parte giusta, Gesù daun lato si appella al Padre, dal-l’altro alla concretezza delle“opere” che fa in suo nome. Mapoi si affida alla capacità di con-vincimento di un gruppo di pe-scatori, che testimoniano lacredibilità di questa “buona no-tizia” accettando la follia dellacroce, da principio rifiutata, sul-l’esempio del loro Maestro.

Tra dubbio e fedetra speranza e attesa

Luciano Corradini

Pedagogista

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Dunque anche nel cuore della “buona no-vella” e della “comunità dei santi”, il pro-blema della sofferenza umana, prodottadalla natura e dall’uomo, in tutte le sueforme, resta drammaticamente aperto,come uno scandalo di fronte al quale “ci sicopre la faccia”.

Delusione, scandalo e consolazioneDa Uno che dice cose come quelle citate cisi aspetterebbe anche qualcosa d’altro. MaLui risponde che non spetta a noi cono-scere i tempi che il Padre ha posto nellasua potestà. Dice addirittura che il Padrenon vuole ascoltarlo, quando lui stesso ènei guai. E ci invita tuttavia a pregare ilPadre, a chiderGli di non indurci in tenta-zione, come se fosse tentato di farlo, inmancanza della nostra preghiera. Un rag-gio di luce viene dalla garanzia offertaci daGesù circa la validità della preghiera: “Sevostro figlio vi chiede un uovo, voi gli da-reste uno scorpione? A maggior ragione ilPadre, che è in cielo, darà lo Spirito Santoa quelli che glielo chiedono”. (Lc, 11, 11-13)

Dopo una sconfinata promessa: “Chiedetee otterrete, cercate e troverete, bussate e visarà aperto”, non ci viene consegnata lalampada di Aladino, ma l’invito a concen-trare la preghiera sulla richiesta dello Spi-rito. Il bambino vuole il suo giocattolo e ilgenitore lo invita a guardare le stelle e labellezza dei fiori. La delusione è grande.Ma poi si legge che Dio ha mandato neicuori dei suoi lo Spirito di suo Figlio chegrida:”Abbà, Padre” (Gal., 4.6); e che noisiamo non schiavi di un padrone, ma figli,e, “se figli, anche eredi”. Perché Dio èPadre, anche se a noi sembra talvolta chenon sia più saggio e generoso del nostropadre terreno. Ci prende in giro, o vuolecondurci più avanti, per farci conoscere egustare un’eredità di cui non abbiamo ne-anche un’idea vaga?

Giovanni nell’Apocalisse ci fa sapere cheanche Lui ci sta cercando, e spera che noilo accogliamo come un ignoto forestiero:“Ecco, io sto alla porta e busso, se qual-cuno ascolta la mia voce e mi apre la porta,io verrò da lui, cenerò da lui ed egli conme”. (Ap, 3, 20)

Questa cena era stata proposta da Gesù intermini sconcertanti, perché si era presen-tato non come compagno di viaggio, comeai due viandanti di Emmaus, ma comecarne e sangue offerti ai commensali. La

reazione dei discepoli fu violenta: “Que-sta parola è dura: chi può ascoltarla?”. Gliargomenti con cui Gesù rispose (“È lo Spi-rito che dà vita, la carne non serve anulla….nessuno può venire a me, se nongli è concesso dal Padre”) indussero moltiad abbandonarlo. Gesù ne fu turbato echiese ai Dodici: “Volete andarvene anchevoi?” “Gli rispose Simon Pietro: ‘Signore,da chi andremo? Tu hai parole di vitaeterna e noi abbiamo creduto e conosciutoche tu sei il Santo di Dio”. (Gv, 6, 59-60)

In altri termini Pietro risponde che se neandrebbero anche loro, se trovassero qual-cuno che ha parole di vita eterna più diLui. Tenta insomma una comparazioneimpossibile con un’ipotesi che non si è ve-rificata.Lui e gli altri hanno vissuto un’esperienzache finora li ha convinti. Dice che hannocreduto e conosciuto, usando due verbiforti. Ma di fronte alla cattura e alla con-danna di Gesù dirà per tre volte di nonaverlo mai conosciuto. Lo scandalo dellacroce è più forte di quello dell’Eucarestia.Poi si pentirà amaramente e testimonieràla divinità e la resurrezione di Cristo colmartirio. Lo Spirito promesso da Gesù nonè stato solo un Consolatore, ma ha toccatole corde più profonde della vita dei disce-poli.

Prima di arrendermi e di aprire la portadell’anima con un puro atto di fiducia nellebuone intenzioni dell’Ospite, indubbia-mente ricco di fascino e di poteri straordi-nari, volevo cavarmela con le mie forze.

La “battaglia dei debili cigli” (Par, XXIII, 78)

Arrivato nel Collegio Augustinianum, nel1954, volevo capire, fondare, argomen-tare, non accettare l’esistenza di Dio perfede, o per autorità, che allo stesso SanTommaso pareva un debilissimum argu-

mentum. Qualche importante lavoro discavo, alla ricerca del fondamento, utiliz-zando la “vanga” del principio di non con-traddizione, mi sembra d’averlo fatto,curando per due anni le dispense di Gu-stavo Bontadini, docente di filosofia teo-retica alla Cattolica. Parlando nei corridoi,Bontadini riconosceva che la fede è unacarta decisiva, per le questioni del vivere,ma “di riserva”.

Quanto alla Bibbia, sono arrivato a consi-derare quel Dio inaccessibile come unamico e un padre sui generis che non

vuole, o misteriosamente non può darmiuna prova rassicurante della sua esistenzae della sua divinità, una prova che facciascomparire tutte le ambiguità di questameravigliosa e inquietante “storia”, che vadalla creazione al peccato e dalla reden-zione alla vita eterna, attraverso la mortee la resurrezione di Suo Figlio, a cui siamochiamati a partecipare anche noi, con lanostra morte.

Il Padre ci dona il Figlio, che ci inserisce,dopo “la grande tribolazione”, nella fami-glia divina, inaugurando una nuova fasedella vicenda umana: ma questo dono èper lui una condanna a vivere la nostra av-ventura, senza alcun privilegio o specialeesenzione dal dolore: anzi, viene crocifissocome i peggiori malfattori. I discepolichiedevano a Gesù di sapere perché, comee quando, e Lui parlava di amore e chie-deva d’essere creduto, fino a pronunciarefrasi che ad ebrei e musulmani appaionocome bestemmie: “Filippo, chi vede mevede il Padre” (Gv, 14,9). La fede è presen-tata insieme come dono e come merito, inproporzioni difficilmente identificabili.“Nessuno può venire a me, se non lo attirail Padre che mi ha mandato; e io lo risu-sciterò nell’ultimo giorno” (Gv, 44).

Mi è sembrato allora di capire che non vo-lesse darmi questa prova, perché vuole inqualche modo metterci alla prova, come sifa nel crogiolo con i metalli. Se tutto fosselimpido e attraente, l’uomo sarebbe percosì dire espugnato dall’evidenza e dallabeatitudine. Non avrebbe alcun merito inordine alla costruzione del Regno e cioè inordine alla “conquista” del suo Dio e dellasua identità eterna. Pare che Dio si nasconda, per farsi cercaree per farsi accettare non quando è splen-dente e beatificante, ma quando è impo-tente e sfigurato (“uno di fronte al quale cisi copre la faccia”, come scrisse Isaia) o,all’opposto, quando rivendica una terribileonnipotenza nel minacciare un inferno, “incui sarà pianto e stridore di denti”. Lui, chesi proclama mite e umile di cuore e che èvenuto per salvare e non per giudicare.

Dove sono due o tre riuniti nel mio nome,io sono in mezzo a loro (Mt, 18-20)

Non ho vissuto questo silenzio e questidubbi in solitudine. Anzi: in collegio, nel-l’associazione giovanile, nella scuola ab-biamo sempre intrecciato fede e dubbi,iniziative, vittorie e sconfitte. Ma la “lam-

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pada controvento” che ci ha consentito dicamminare nel buio, non si è mai spenta. Anzitutto in famiglia. “Tre per sposarsi”era il titolo del libro di Fulton Sheen, chedon Mario Gavazzi, direttore del collegio,consigliò a me e a Bona, mia futura mo-glie. Così anche per noi Lui è stato il terzo:è stato basso continuo, orizzonte, scopodella nostra vita, ma siamo convinti che siastato anche regista, dietro le quinte. Se Luistava in silenzio, parlava mia moglie, sem-pre pronta a rispondere, ad anticipare, afare il gioco di squadra. Avevano parlatoanche i miei maestri. In una foto del 1954,in un convegno nazionale del MovimentoStudenti di Azione cattolica alla DomusPacis, c’erano Gesualdo Nosengo, Pier-santi Mattarella, Cornelio Fabro e OscarLuigi Scalfaro. Poi all’università GustavoBontadini, Sofia Vanni Rovighi, ItaloMancini, e, tra i compagni più grandi, Gio-vanni Reale, Evandro Agazzi, allora piùdisponibile di me a credere all’extrateo-reticità dell’atto di fede. Poi a ReggioEmilia don Lanfranco Lumetti, Giu-seppe Dossetti, Giuseppe Lazzati, GianPaolo Meucci, padre Piersandro Vanzan;a Roma don Giuseppe Rovea, AldoAgazzi, Pasquale Modestino, Carlo Pe-rucci, Carlo Nanni…. Li avrei ritrovatida adulto, testimoni e fratelli maggiori,

con tanti altri, voci che aiutano a dare unsenso al silenzio di Dio.

L’esperienza del “come se” e la dialettica fra comunione e partecipazione

Bona e io siamo ex ragazzi cresciuti in-sieme, “come se” Dio ci avesse creati, fattiincontrare, conservati ogni giorno, inseritiin un corteo di persone che non sanno benedove si va, ma che sorridono al vicino diviaggio e si sentono rincuorare: non si rie-sce a parlare, se non con lo stile un po’autoreferenziale della preghiera, conl’Organizzatore del viaggio, ma i com-pagni vicino ai quali siamo stati messisono disponibili a scambiare idee, affetti,progetti. Sono state e restano nel tempo, aldi là dei ruoli temporaneamente ricoperti,promesse compiute e speranze rinnovate.È altro olio per la nostra lampada, che ri-schia di spegnersi e che invece deve esserealimentata, per offrire olio agli altri com-pagni di viaggio. Hanno parlato, nel corso della nostra vita,anche i nostri tre figli, con i rispettivi co-niugi e con i dieci nipoti che ci hanno re-galato e finora con i due pronipoti che ciparlano coi loro sorrisi. Hanno parlatoanche amici, soci e colleghi, ma in modo

intermittente. A volte si doveva avanzareda soli, di fronte a volti inespressivi, chenon ti restituivano il senso drammatico emeraviglioso dell’andare, del ritrovarsi,del costruire insieme un Regno, attraversoun mondo, che Paolo VI avrebbe definitomeraviglioso e terribile.

Di fronte alla tentazione di ritirarsi a farparte per se stessi, ci è sempre tornata inmente la promessa che il Signore sarebbestato fra noi, se avessimo voluto, in fami-glia, nelle associazioni e nella società, ag-giungere un simbolico ma non mitologico“posto a tavola”. Tutta la vita di Gesù è in-contro, invito, aggregazione. “Chi rimanein me e io in lui, fa molto frutto, perchésenza di me non potete far nulla”, (Gv, 15,5).“Portate gli uni i pesi degli altri, cosìadempirete la legge di Cristo” (Gal, 6,3).Talvolta accade che gli altri non portino ilpeso degli uni, ma la sperimentata possi-bilità del contrario induce a ringraziare, in-vece che a protestare. La dialettica èquesta: stare vicini al gruppetto, per andareinsieme lontano, fin dove il tempo e leforze durano. Partecipazione e comunionenon sono mondi separati e opposti, mal’uno esige l’altro.

Senza l’esperienza, la nostalgia, la spe-ranza della comunione, la partecipazione

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diventa un atto vitale che si esaurisce,come l’impulso che lo genera, perché siconclude con un risultato limitato, o per-ché gli obiettivi non si raggiungono; senzala partecipazione, aperta e randagia findove c’è un uomo col quale aver parte nel-l’esistenza, la comunione marcisce nel suocalore infecondo. Gesù ha rinunciato alletre tende discriminatorie e segregatici dellaTrasfigurazione, per immergersi nellafolla, partecipando alle sofferenze e alleinquietudini degli uomini, sanando, sfa-mando, insegnando, perché solo in quelmodo avrebbe potuto chiedere ai suoi,come al ladrone, di avere parte con lui nelRegno dei cieli. Ma ha anche rifiutato lapartecipazione come esercizio di un potereterreno di dominio e di corresponsabilitàcon il male, per insistere sulla via dell’in-teriorità: “Restate con me e io in voi” (Gv,

15). Restare e andare: uno dei paradossidella vita.

Cieli nuovi e terra nuova: già e non ancora

La comunione non è rifugio del naufrago,ma gioia feconda. Non è separazione dalmondo, ma anima, motore e criterio dellapartecipazione: “Vi ho costituiti perché an-diate e portiate frutto e il vostro frutto ri-manga” (Gv, 15). È però essenziale allacomunione lo spezzarsi, il rischiare, il met-tersi a disposizione: “Ecco verrà l’ora, anziè già venuta, in cui vi disperderete cia-scuno per conto proprio e mi lascerete solo:ma io non sono solo, perché il Padre è conme” (Gv, 69, 23). Nel momento della disper-sione e dell’angoscia, quando gli amici sene vanno, perché tradiscono o perché nonsono ancora maturi, ricompare il Padrecome fondamento indistruttibile della co-munione (“Tutto ciò che è mio è tuo e tuttociò che è tuo è mio”) e insieme come fon-damento della partecipazione: “Come tumi hai mandato nel mondo, così anch’io liho mandati nel mondo”. (Gv, 17, 1-20)

E prega “perché siano una sola cosa in noi,affinché il mondo creda che tu mi hai man-dato”. Questa dialettica si vive in moltimodi, nelle diverse fasi della vita.

In famiglia e nella vita professionale e as-sociativa, Bona ed io abbiamo ricevuto piùdi quanto avremmo sperato; abbiamoanche più volte sentito “la presenza del-l’Assente”, come un soffio leggero in tuttele fasi della nostra vita, nei decenni che ab-

biamo trascorso prima a Reggio Emilia,poi a Brescia, a Milano, a Roma e poi an-cora a Brescia, per rispondere a diversechiamate.

Abbiamo avuto la grazia di ricevere toc-canti testimonianze di amicizia e di solida-rietà e di poterne offrire agli altri, nelmezzo secolo che abbiamo alle spalle; eabbiamo sperimentato, pur fra i silenzi e ledefezioni, che la comunità, nostro sogno eprogetto giovanile, non è pura fantasia. Trafede, mondi vitali, istituzioni non c’è insa-nabile contrasto, anche se questa espe-rienza è una sorta di preludio di un’armoniache appartiene ad un altro mondo.

Sapere che ci attendono “cieli nuovi e terranuova” (Ap,21-22) ci consente già di vederequesta terra e questi cieli come “nuovi”,anche quando li viviamo come “valle di la-crime”. Non c’è una radicale alterità fraquesta terra e la nuova terra, ma una con-tinuità, che rende importanti, in certosenso definitivi i momenti della nostralotta contro il terribile “Drago” di cui parlal’Apocalisse. Quest’ultimo libro della Bib-bia descrive tutto ciò che rende questa vitauno scandalo, tutto ciò che ci indurrebbe amaledire il giorno in cui siamo nati, comedisse Giobbe, nel momento più cupo dellasua desolazione e della sua disperazione.

Ma come Giobbe affronta il suo “persecu-tore”, lo provoca con un: “Esci dalle nubidel cielo e parlami!”, ma poi finisce pervincere la tentazione di incolpare Dio e incerto senso si arrende, dichiarando: “Io so

che Tu non sei come io ho sentito dire”,così l’Autore dell’Apocalisse riscatta, conun futuro di promessa, tutto il male chec’è e che incombe nel nostro futuro: “Dioasciugherà ogni lacrima dai loro occhi.La morte non ci sarà più. Non ci sarà piùné lutto, né pianto né dolore. Il mondo diprima è scomparso per sempre”. Qui ilpresente del futuro fa scomparire il pas-sato del dolore, ma non quel passato cheè preludio di beatitudine eterna. E Gio-vanni “vede” Dio che dice: “Ora faccionuove tutte le cose”. Ora, e cioè adesso,ma non ancora. Tuttavia cominciamo aintravedere che c’è un ordine misteriosonel mondo e in questo rompicapo deltempo, che ci consente di dare credito alDiscorso della Montagna: e cioè che ipoveri, i perseguitati, gli affamati e asse-tati di giustizia sono “in certo senso” giàbeati, mentre a noi sembrano perdenti esconfitti.

Credo che anche noi siamo resi partecipidi questo rinnovamento, ogni volta cheasciughiamo una lacrima e consoliamoqualcuno che soffre, o facciamo qualcosaper capire e per migliorare la condizioneumana, contribuendo a riscattare questaterra dal “pungiglione” della morte.Credo e spero che non sia solo un sognoquesta esegesi di Lutero: “Allora l’uomogiocherà con il sole e con la terra. Tuttele creature proveranno anche un piacereimmenso, un amore immenso, una gioialirica, e rideranno con te, Signore, e Tu aTua volta riderai con loro”.

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“Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra,perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi,e il mare non c’era più.Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme,scendere dal cielo, da Dio,pronta come una sposa adorna per il suo sposo.”

Ap 21, 1-2

Viviamo un tempo di grandi contraddi-zioni, di esasperate tensioni, di speranzetradite, nella difficoltà di individuarnenuove. Ci sentiamo spesso sfiduciati, smarriti enon riusciamo a cogliere ‘il dono’ di que-sto smarrimento. Non dobbiamo sentircipersi perché chi è smarrito ricerca stradenuove e deve essere disponibile a cam-biare prospettiva di lettura della realtà. Per orientarci abbiamo però bisogno diriferimenti, riferimenti credibili perché‘incarnati’ in una dimensione che pos-siamo comprendere, decodificare, sentirevicina e disponibile. E allora perché non raccogliere un altro‘dono’ che ci parla di accoglienza, mise-ricordia, gratuità? Prestiamo ascolto alla Parola e questo,badate bene, è un invito rivolto nel sensopiù ‘laico’ possibile. Un caro amico recentemente mi scri-veva:

“A ben vedere il cristiano ha seri mo-tivi per essere laico (clero compreso).Sono motivi originari forti, centrali perla sua fede, direi costitutivi. E lo sonoanche nei confronti di una interpreta-zione aggiornata del termine (= nuovalaicità) condivisa dai non credenti.Credo si possa affermare che la laicitànasce col cristianesimo.

Gesù Cristo (Vangeli) infatti esalta:

la dignità umana (l’uomo è imma-gine di Dio)

l’indipendenza personale da qual-siasi potestà o falso idolo (libertà dicoscienza)

il principio di autodeterminazionedel singolo (la coscienza è l’ultimodecisivo tribunale personale)

la distinzione tra fede e politica(Date a Cesare… che in democraziasi declina come obbligo di fedeltàalla Costituzione come patto tra pariper il Bene comune)

il pluralismo come valore (princi-pio della fraternità universale)”.

Il vero problema, come dicevo, è la pro-spettiva, l’atteggiamento, la nostra per-sonale disponibilità ad individuare nuovipercorsi proponibili. Giovanni XXIII ci ricordava che la Pa-rola di Dio, il Vangelo non cambia,siamo noi che cambiamo, siamo noi cheincominciamo a capirlo meglio. Ma da dove partire? Da un’operazionepuramente intellettuale? Da una ricercaspirituale individuale? Da una religiositàmiracolistica? Non penso proprio.

Penso invece che sia possibile tentare uncammino che parta dalle ‘relazioni’, dal

quotidiano, dai rapporti che danno unsenso. Ecco quindi, da un parte, la rela-zione con la ‘Parola’ che si è fatta uomoin quel Gesù di Nazareth che ha provatosu di sé la sconfitta, il fallimento, losmarrimento più profondo. Dall’altra,ma in uno, “l’incontro” con chi camminacon noi, con chi patisce il disagio, la di-scriminazione, con chi ha fame e sete digiustizia.

Così insieme, ‘portati in braccio’ dallaParola e nella condivisone, possiamoguardare con Giovanni a ‘un cielo nuovoe a una terra nuova’. In un tempo dove si insegna e si praticala religione dell’individualismo, dell’ar-rivismo nemmeno meritocratico, dob-biamo contrapporre prassi di solidarietà,tenerezza, attenzione.

Un amico monaco, in una sua omelia in-dicava:

“Non si può concepire una vita cristianaindividualista; chi non si rapporta con glialtri, chi pensa unicamente a se stesso eal proprio progresso spirituale può essereuna persona buona, pia, religiosa, manon è un cristiano”.

E ancora:

“A che serve la comunità se poi, nelmomento decisivo, ognuno si arrangiada solo. I discepoli di Gesù costitui-scono un unico corpo e le singolemembra non possono vivere le unesenza le altre. Sono un popolo, una fa-miglia in cui ognuno è, in qualchemodo, responsabile di quanto fanno glialtri”.

Padre Ernesto Balducci scriveva:

“L’amore è costruttivo della città santa,

Alla ricerca di strade nuove

Michelangelo Ventura

Co-portavoce ‘Noi siamo Chiesa’ gruppo di Brescia *

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di cui abbiamo sentito parlare con cosìbelle parole nell’Apocalisse. Dob-biamo domandarci che senso ha ogginon l’amore come fruizione intersog-gettiva, privata, ma l’amore costruttivodi una città. Mi pare che la rispostapossa venire con molta facilità. Dob-biamo prima di tutto guardare la storiaumana - questa è la grande lezione glo-bale che ci viene dalla manifestazionedella salvezza che ci dà la Bibbia - cheè piena di segni di novità”.

Per noi oggi , nel concreto della nostravita nella ‘polis’, quali riferimenti? Quale bussola che possa fare da granderiferimento ai princìpi enunciati?

Sicuramente ‘in primis’ la nostra Carta Co-stituzionale, la più bella del mondo, comel’ha raffigurata Roberto Benigni in una suamirabile presentazione televisiva.

In occasione di un recente incontro, pro-prio dedicato a ‘Costituzione e Vangelo’,precisavo che, forse, potrebbe apparireirriverente raffrontare queste due realtà,una frutto dell’impegno concorde di donnee uomini che hanno pensato un ordina-mento comune per una convivenza civile,l’altra, ‘Parola di Dio’, ispirata in uominicomunque ben calati nella realtà quoti-diana di un’umanità protesa verso Dio, omeglio, espressione di un Dio chinato sul-l’umanità e che cammina al suo fianco.

Lo spirito gioioso della presentazione diBenigni mi ha fatto scorrere nella mentequanto di valorialmente vicino, comunee oserei dire di sinergico, esiste tra la no-stra Carta Costituzionale e i Vangeli.

Nel prendere spunto da questo raffrontomi sorge spontanea una domanda: qual’ èla relazione prima tra l’umanità e il di-vino?

Raniero La Valle, nel suo bel libro Para-

diso e libertà così si esprime:

“È molto difficile che possa affrontarela crisi storica l’uomo rimasto umiliatodal peccato originale, declassato nellasua stessa natura quale era uscita dallemani di Dio, convinto a pensare che sec’è la morte, perfino quella è per colpasua. È difficile che possa affrontare lacrisi storica un uomo di cui si dice nelleliturgie e nelle preghiere che Dio è tuttoe l’uomo è niente…”.

E ancora Raniero:

“Che cosa significa che l’uomo sia aimmagine e somiglianza di Dio?... “Che cosa vuol dire che, come hannosempre detto i padri greci ‘Dio si è fattouomo perché l’uomo diventasseDio?”...“Sono domande forse inusuali. Ma seil Novecento si è chiesto ‘se questo èun uomo’, forse è il momento di chie-dersi chi davvero quest’uomo sia. E discoprire dove sta la vera radice dellasua tanto contrastata libertà”.

Nella Bologna del 1257, ordini monasticifissavano la loro sede in città, i ceti ari-stocratici che governavano erano tallo-nati dai ceti mercantili e popolari. La Valle continua:

“Fu in quel clima che il Comune ri-scattò tutti i servi presenti nel territorio(5856 persone) pagando ai loro 395 pa-droni la somma di otto lire per i minoridi quattordici anni e di dieci lire per imaggiori, senza distinzione tra maschie femmine. Questo provvedimento sichiamò Liber Paradisus - Libro Para-diso - perché la conquista della libertàera percepita come un ritorno al Para-diso; il Paradiso è la libertà; data da Dioa lei si ritorna. Se la libertà è il Paradiso, vuol dire chenon si può essere liberi e liberarsi da soli;infatti il Paradiso è molto affollato, altri-menti Dio non sarebbe buono. È veroche nel primo Paradiso erano solamentein due, ma forse per questo Dio lo ha

subito chiuso, perché iniziassero lacittà e la cultura; e nascesse anche lapolitica, che è l’essere degli uomini in-sieme. Se a Bologna fosse stato libe-rato solo uno dei 5.856 schiavi, lalegge ad personam che l’avesse san-cito non si sarebbe potuta chiamareLiber Paradisus”.

E qui si conclude la citazione dal testo diRaniero.

Al centro della nostra Carta ci sta la ‘per-sona umana’, la promozione della personain tutte le sue manifestazioni. Nei ‘Principi fondamentali’ il dettato èsempre positivo, si promuove, non è san-zionatorio. Uguaglianza, solidarietà, tutela del creato,pace… non sono questi parte del messag-gio cristiano, inteso nel senso più com-piuto e proprio nei Vangeli, portato primaai più deboli, ai più fragili, a chi ha più bi-sogno di una ‘Parola’ di speranza…? Messaggi di promozione, che si prendonocura e, in buona sostanza, nella certezza dinon produrre forzature interpretative sulpiano emotivo, che parlano di amore el’amore, si sa, genera inclusione. Già ‘gli ultimi’ e quindi come non cogliereun segno di speranza profetica nelle paroledi Papa Francesco (in occasione dellamessa di inizio del ministero petrino - 19marzo u.s. San Giuseppe):

“Non dimentichiamo mai che il vero po-tere è il servizio e che anche il Papa peresercitare il potere deve entrare sempre

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più in quel servizio che ha il suo verticeluminoso sulla Croce; deve guardare alservizio umile, concreto, ricco di fede,di san Giuseppe e come lui aprire lebraccia per custodire tutto il Popolo diDio e accogliere con affetto e tenerezzal’intera umanità, specie i più poveri, ipiù deboli, i più piccoli, quelli che Mat-teo descrive nel giudizio finale sulla ca-rità: chi ha fame, sete, chi è straniero,nudo, malato, in carcere (cfr Mt 25,31-46).Solo chi serve con amore sa custodire!”.

Ho accolto con gioia questa ritrovata ca-tegoria del ‘Popolo di Dio’ disvelata dalConcilio Vaticano II di cui, lo scorso anno,si è ricordato il 50° dall’ inizio. Con quel mirabile ‘Gaudet Mater Eccle-siae’ dell’11 ottobre 1962, vero inno allagioia, Giovanni XXIII ci diceva che laChiesa non avrebbe dovuto più esserequella di prima, non più solo nel santuarioma sulle spiagge, nelle strade, tra la genteche attende un messaggio di speranza eche chiede condivisione.

Mi piace citare ancora un intervento di

Raniero La Valle, questa volta sul Con-cilio (dalla rivista Rocca n. 15 del 1 ago-sto 2010):

“... la prima cosa che ha fatto il Concilioè stata precisamente di liberare l’uomodall’idea del peccato come destino, qualeera percepito dentro le categorie del pec-cato originale; e di fare invece dellascelta tra il bene e il male un connotatodella libertà, identico per l’uomo mo-derno come per il primo uomo, in quantola libertà è e resta un ‘segno privilegiato’dell’immagine di Dio nell’uomo”.

“L’incarnazione non è narrata comeun’operazione di riscatto per estrarredall’umanità una porzione di eletti o disalvati intesi come Chiesa, ma come undono di grazia e una vocazione per gliuomini tutti”.

Coraggio ‘Francesco’, la tua richiesta dibenedizione al ‘Popolo di Dio’ prima dellatua benedizione è stata un segno impor-tante ‘ecclesiale ed ecumenico’. Sii ‘pon-tefice’ tra culture, mondi e fedi purché alservizio della donna e dell’uomo.

Continua ad indicare, anche nelle tuescelte relative alla struttura della Chiesa,la Chiesa dei poveri come la Chiesa ditutti.

Così conclude Luigi Sandri un suo arti-colo su Confronti (4/2013):

“L’avvio del nuovo ministero petrinoinduce dunque grandi sogni, ma noncancella motivate perplessità: sembradi intuire giorni promettenti di prima-vera ai vertici della Chiesa romana, manessuno può escludere rigurgiti d’in-verno. Di fronte a questo barometro in-certo, noi puntiamo comunque sul beltempo della speranza. Adelante, Francisco, hasta la victoria,siempre!”.

E allora avanti, con rinnovata fiducia,mano nella mano, cercando il colore delcielo negli occhi dei fratelli e cammi-nando insieme per uscire dalla smarri-mento, cercare e sperare ‘cieli nuovi eterra nuova’. ■■

Brescia, 3 maggio 2013

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“Allora vidi un nuovo cielo e una nuova terra”

(Ap. 21, 1-4)

Allora… quando? Dove sono, questi cieli nuovi?Io vedo , o meglio, respiro, i fumi dellefabbriche, i gas di scarico dalle mac-chine, i veleni che i contadini gettanosugli alberi, l’inquinamento elettroma-gnetico, il buco dell’ozono e l’effettoserra. E vedo come la primavera si attarda, ecome l’inverno si surriscalda, e comel’estate genera uragani e tornado, e comel’autunno si anticipa di qualche setti-mana. Vedo un cielo sempre più sordo alle gridadei disperati, più impermeabile alle pre-ghiere degli onesti, più chiuso all’inno-cenza dei bambini.

E non vedo nemmeno una nuova terra. Perché la guardo e mi sembra vecchia. Vecchia perché prosciugata dalla suaacqua “utile, umile, preziosa e casta”,spogliata dalle sue verdi foreste, conta-minata nei suoi immensi oceani, profa-nata nei suoi tranquilli mari, dovemigliaia di miei fratelli, con la sola colpadi avere un sogno, hanno trovato tragicasepoltura. E vecchia perché l’Antartide si sta sgre-tolando, le cime non fanno più brillare ilcandore delle nevi, e nei boschi non tro-vano più pace gli animali, e le nostre casesono piene di gabbie e di bestie ingab-biate. E questa terra, madre per vocazione, miappare sempre più sterile, più ostile, piùvuota.

“Il primo cielo e la prima terra

erano spariti.

… E vidi la santa città…

mandata dal cielo,

… l’abitazione di Dio fra gli uomini”.

Sì, proprio così! Quel cielo e quella terra, che noi ci osti-niamo a rendere brutti, Dio li abita. E li guarda con occhi diversi. Dio abita quel cielo e quella terra chegiorno per giorno vivono i cercatori digiustizia, quel cielo e quella terra dove ipoveri, i miti, gli affamati, i misericor-diosi intrecciano le mani in un grande gi-rotondo di fratellanza. Dio è nel fiore che sfida la siccità e sierge tremante per rallegrare il passantedistratto. Dio è quella nuvola dai toni rosa che ac-compagna il sole verso il luogo del suoriposo. Dio è nel volo della rondine che, mal-grado il disorientamento creato dai cam-biamenti climatici, continua testarda apercorrere i continenti per rifare il nidodove si sente a casa.

Dio è… il nostro Dio, e fissa la sua abi-tazione fra di noi, e rende bello ciò chepareva brutto, e dà occhi al nostro cuoreper vedere il bene anonimo, e scatena lanostra gioia nell’accogliere la vita na-scosta nel ventre delle madri.

Perché il nostro Dio, il mio Dio, è un Diocreatore, che non distrugge ciò che è im-perfetto, ma lo trasforma. Lo impasta di amore e di speranza, lomodella con tenerezza e compassione, loaspetta con pazienza senza mai stancarsi.

“L’albero prende corpo,

e l’acqua melodia.

Le tue mani sono recenti nella rosa.

Si addensa l’abbondanza del mondo

a mezzodì,

e stai di cuore in ogni cosa”

recita un bellissimo inno della preghieradelle lodi. Dio, rimanendo il “radicalmente altro”,ricrea e rinnova dal di dentro ogni cosada lui creata e voluta. E ogni cosa, in cielo come in terra, sa dibello e di buono. E di nuovo!

Il primo cielo e la prima terra sonoscomparsi. Da quando Lui ha scelto di fissare la suaabitazione fra gli uomini.È questa la sua dimora e la nostra. Penso proprio che Dio voglia per noiquesti cieli e questa terra, e non altri. Credo che da noi si aspetti un amore euna cura più grande per essi.

“E Dio asciugherà ogni lacrima…

e il mondo di prima

scomparirà per sempre”.■■

Abitare tra gli uomini

Pilar Solis

Suore Adoratrici

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Ho la fortuna di essere nonno.

Dal muretto della spiaggia, sull’isola diSouthport, guardo le mie nipotine, Char-lotte e Mae, mentre raccolgono lumachesugli scogli. Quando le ho detto di an-dare a prenderle, Charlotte mi ha guar-dato dubbiosa.

“Sei sicuro, nonno?”, mi ha chiesto.“Ovvio”, ho risposto, “sono una preliba-tezza!”

Al largo passa una barca a vela degli anniventi, tutta di legno. Le vele bianche sistagliano contro il cielo azzurro, mentrei gabbiani gli svolazzano intorno. Fitteforeste di pini scendono fino agli scogli esi vedono scoiattoli che saltano d’un al-bero all’altro. L’aria è pura e fresca con ilprofumo delle alghe e del fango dellamarea bassa.

Vengo qui nel Maine da quando sonobambino. Qui ho imparato a remare, epiù tardi a veleggiare. Qui ho scavato nelfango a marea bassa per prendere le con-chiglie che mio padre poi coceva per

farne una succulenta zuppa. Qui si man-giano le mitiche astici, con il burrosciolto e le pannocchie di mais. La no-stra casa, nella famiglia dal 1850, è cir-condata dalla foresta. Solo davanti allacasa, si sono tagliati gli alberi per goderedi una meravigliosa vista sull’oceano. Eper com’è ubicata l’isola, abbiamo son-tuosi tramonti, pur essendo l’isola diSouthport ad oriente sull’Atlantico…

Ad un tratto, vedo il mio nonno conl’ascia in mano che taglia la legna. Queitronchetti servono per il fornello dellacucina, ma anche per il fuoco all’aperto,dove si fa bollire l’acqua del mare percuocere le astici, oppure si prepara labrace le sere che si mangiano hot dog ehamburger. Il nonno è stato per me unesempio di vita. Sempre disponibile, cu-rioso, allegro. Quanto mi piaceva se-guirlo nel grande granaio dove tenevatutti gli attrezzi e cianfrusaglie accumu-late lungo un secolo. Pazientemente, ri-spondeva a tutte le mie domande, mispiegava l’uso dei vari attrezzi, raccon-

tava storie di tempi andati, come quandosi veniva su da Boston con la Ford T eche si bucava dodici volte lungo i tre-cento chilometri del viaggio. E il viaggiodurava dodici ore.

Ora sono io il nonno, e mi chiedo se lemie nipotine anche loro sono prese dallastessa magia, dalla stessa meraviglia perquesto luogo, per questa storia.

“Nonno, guarda quante lumache ab-biamo raccolto!” Il sorriso sdentato diCharlotte non nasconde la sua fierezza.Bene. Stasera si farà una ottima cena abase di frutti di mare!

Charlotte e Mae sono contente, e nellaloro spensierata allegria, tocco con manola vera sostanza della vita, capisco quelche conta.

E all’improvviso, mi chiedo cosa direialle mie nipotine se mi chiedessero dellavita, delle lezioni imparate, delle cer-tezze e dei dubbi. E allora il pensieroparte verso alte vette e profondi abissi,cercando di sfoltire la mente, pulendola

La bellezza, il mistero e la solitudine

Christoph Baker

Scrittore

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da inquinamenti filosofici vari, per arri-vare a qualche spunto, a qualche idea, aqualche intuizione.

E per primo, direi che la vita è una stradacon molti tornanti, come canta De Gre-gori. Non sempre abbiamo la consape-volezza di dove stiamo andando. Moltevolte, è l’inerzia a spingerci o l’abitu-dine. Magari con la testa bassa, senza ac-corgersi di quello che c’è intorno,allineiamo i giorni in modo ripetitivo, di-mentichiamo la meraviglia e lo stuporeper le cose nuove e sconosciute. Ci in-ventiamo nuvole e nebbie. Abbiamopaura del sole, paura che ci bruci. E nellaroutine, tutto si mischia, fino a non di-stinguere più il bello dal brutto, il dolcedall’amaro, il sogno dalla delusione. E cismarriamo in cose futili, inutili, e allafine dannose.

Ecco perché è importante fare l’elenco diquel che conta. Stilare un inventario diquel che ci è caro e prezioso, e sbaraz-zarsi lentamente del superfluo. Soprat-tutto quando questo superfluo ci fa male,quando ci porta su strade sbagliate e do-lorose.

Ed è proprio dalla bellezza che partirei.Da questa costante e generosa sorgentedi vita e di ispirazione. So di avere avutola fortuna di crescere e vivere in alcuniluoghi densi di bellezza. Ho conosciutol’austera forza della natura nell’altopianodove nasce la Loira, nel Massiccio cen-trale della Francia. Da bimbo, senza nes-sun filtro educativo, sentivo dentro meuna energia e una emozione primordialenel guardare gli alti pini della fitta fore-sta davanti casa. La luce che giocava conle ombre quando il sole o i lampi riusci-vano a penetrare quel buio silvestre. Erauno spettacolo.

Poi ci furono presto i castelli medievali ele abbazie cistercensi. Quelle pietre scol-pite da mani esperte in nome di Dio edella potenza, che hanno attraversato isecoli per giungere fino a noi, a volte in-tatte, a volte in rudere, non fa differenza,quelle pietre hanno parlato presto al miocuore e alle mie trippe. Anni dopo, quandomi sono imbattuto nella storia dei Catari,ho provato le stesse emozioni, arrampi-candomi verso il cielo, laggiù nella Lin-guadoca, fra Quéribus e Montségur, questinidi d’aquila appesi alle nuvole, che testi-

moniano, ottocento anni dopo, dell’orroreche l’uomo può infliggere ai suoi simili,anche in nome della religione.

Quando sei lassù sopra uno strapiombodi trecento metri, che ti guardi intorno, eintorno c’è solo purezza e bellezza, per-ché in ottocento anni, il paesaggio è statosalvato… allora dal più profondo del-l’essere sale una sinfonia di gioia. Ilcorpo, il cuore e l’anima si nutrono amani piene di questa energia primordiale,e per un po’ nelle viscere, come nel cielodavanti agli occhi meravigliati, sale ilcanto della libertà.

L’adolescenza sulle sponde del grandelago vicino Ginevra, con il MonteBianco in lontananza come un re sultrono, che guarda tranquillo ma severo lecose che accadono quaggiù. Per esserestato alcune volte sui pendii della grandemontagna bianca, serbo ancora in me unsenso profondo di rispetto e di timore,ma anche di meraviglia per il dono cheMadre Terra ci fa, fuori da tutte le miserelogiche degli uomini. È semplicementelo spettacolo primordiale messo in scenaogni giorni dalla Pancha Mamma.

Ecco, quando penso alla bellezza, pensoinnanzitutto alla natura, al matrimoniofra terra, acqua e cielo. Ai quadri sponta-nei e mozzafiato che ogni giorno la Terraci regala. Poi da questa emozione ata-vica, nasce il senso dell’estetica, della ri-cerca del bello in tutte le forme di vita.

Avrò imparato allora a chiudere gli occhiper meglio ascoltare la musica. Tapparele orecchie per meglio assorbire i coloridi un quadro. Rimanere fermo per nondisturbare la quiete.

E così, dall’apprezzamento della bel-lezza, ho imparato anche il valore del mi-stero. Perché nel gioco arioso del bello,c’è ben poco di razionale. Hai voglia dicercare di ingabbiare l’estetica in defini-zioni e teoremi. Non funziona. C’è sem-pre qualcosa di inafferrabile, disfuggente, di misterioso nelle emozioniche suscita la bellezza.

In questo mistero, mi sono lasciato tra-sportare lungo il percorso di una vita. Hoimparato ad amare il mistero, a inse-guirlo, a proteggerlo. Un richiamo visce-rale e forse ancestrale, mi ha spinto afarne un punto di riferimento per le mie

scorribande esistenziali. Perché il misteroci parla di luoghi sconosciuti, di scopertefantastiche, di sorprese ammalianti. Cidice che ci sono mondi meravigliosi a por-tata di cuore, sentieri mozzafiato su mon-tagne incantate. Parlano di dolci follie, disbandamenti emozionanti, di sconvolgi-mento delle certezze. Troppe cose sono inspiegabili nella vita.Che siano momenti di felicità o di ma-linconia, di smarrimento o di esuberanza,di sconforto o di gioia, c’è una forza ingioco, una energia che non si rifà al do-minio della mente e delle sue sovrastrut-ture intellettuali. Sta da un’altra parte, stanell’immenso misterioso che chiamiamovita, dalla sorgente al tramonto delle no-stre esistenze.

Un giorno all’università, vado a trovareun amico pittore e lo trovo seduto sul pa-vimento del suo studio, meditabondo. Difronte contro la parete, un grande quadrocon pennellate di nero, blu scuro, mar-rone, e in un angolo la faccia inquietantedi un vecchio barbuto, sorta di ebreo er-rante o signore degli anelli… Gli chiedocosa succede e lui me lo spiega. Sta spe-rimentando con varie tecniche, di cui laricopertura con vernice bianca di tuttoquello che ha dipinto prima. Poi passauna specie di gomma per levare quellapellicola e ne vengono fuori motiviastratti. Questa volta, grattando la ver-nice bianca è venuto fuori questo viso dianziano, con precisione di dettagli im-pressionante. Solo che il mio amico, quelviso non l’aveva dipinto! Si era materia-lizzato da solo.

Mistero…

E il mistero chiama la solitudine. Nonso se è così, ma a volte penso che il no-stro “io” perfetto e profondo è quello deiquattro, cinque anni. Non siamo ancoracorrotti da conformismi e maniere difare, non abbiamo ancora imparato a diremezze verità e bugie vere, non calco-liamo tutto nei rapporti con gli altri. Eb-bene in quegli anni, ero un solitario. Nonricordo una mancanza di relazioni, né unsentimento di esclusione, né una frustra-zione comunicativa. Ero solo natural-mente, istintivamente. Da allora èpassata molto acqua sotto i ponti dellamia vita, ho imparato ad essere socie-vole, ho fatto della comunicazione parte

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del mio “mestiere” (come sto scrivendostasera), ho messo su famiglia e ho unsacco di amici. Quella solitudine pura,semplice, calma non l’ho più ritrovata. Ela rimpiango.

Viviamo in una società rumorosa e pienadi interruzioni. Soprattutto nelle città,siamo catturati in un vortice di gente, dipassanti, di folle. Ora con i telefoni ta-scabili, non c’è tregua, siamo sempre at-taccati a qualcuno. Sempre raggiungibili.Non c’è più uno spazio per isolarsi, perstarsene da parte, per staccare dalla co-munione permanente con i nostri simili.So che per molti, questo è una manosanta, che così si fugge dalla solitudinecome dalla peste.

Ma io no. Vorrei essere più spesso solo.Sarà forse l’età, ma ho bisogno di riti-rarmi, di abbassare i livelli dei decibel,di fuggire dalla confusione e dallo schia-mazzo. Cerco un po’ di pace. Ed è unapace che si conquista da soli. Nella solitudine, vi è la libertà di andarenel profondo delle cose. Di smantellare imuri della convenienza e dell’abitudine,per cercare quello che c’è dietro alla ap-parenze, per scavare nei meandri scono-sciuti del nostro essere, per sviscerare gliinterrogativi più complessi, quelli che ri-chiedono pazienza, introspezione, corag-gio. Perché ci vuole forza di volontà perguardarsi veramente allo specchio, pernon fuggire alle proprie contraddizioni,bensì affrontarle per capire chi siamo ve-ramente, di che pasta siamo fatti.

La solitudine non deve essere dipintacome una condanna, ma come un luogonaturale dove ovunque saremo, saremosempre nelle sue braccia. Il compiantoMoustaki cantava: “non je ne suis jamais

seul, avec ma solitude” (non sono maisolo, con la mia solitudine). Come cia-scuno di noi, ho preso alcuni bellischiaffi dalla vita. Sembrava che non do-vessi rialzarmi da questi micidiali kap-paò. In disperazione, tendevo le mani,gridavo aiuto, ma è come se nessuno sen-tisse. Allora ho capito che la mia vocenon voleva parlare, che le mie braccianon volevano aprirsi, che il mio cuorenon voleva chiedere. Una voce dentro di-ceva che avevo la forza interiore per rial-zarmi.

Ricordo lunghe camminate solitarie nelleforeste del Maine o nei prati alpini. Oreseduto su una duna mediterranea a fis-sare l’orizzonte. Passeggiate notturnenella città deserta. In quei momenti, inuna pace strana, come dopo l’ultimocolpo di cannone, e non puoi essere si-curo che la guerra è finita. Ma lo spericon tutte le forze. Si fanno vivi allora idolori più acuti, i ricordi più duri, i sen-timenti più tristi, ma in una specie di ca-tarsi, attraversano la solitudine per dirciche la guerra è davvero finita, che cel’abbiamo fatta. Che si può ripartire.Tutto questo non è possibile in mezzoalla condivisione, alla convivialità.

Per fortuna il tempo della condivisione edella convivialità poi torna sempre.Oggi che penso alle mie nipotine e aquello che un nonno può dire delle coseche contano, non voglio dare delle cara-melle, delle edulcorate baggianate, deimiraggi fasulli. Non voglio perpetuarecertezze tranquillizzanti o bugie conso-latorie. Ne avranno abbastanza di quellead intralciare il loro cammino verso la li-bertà.

Preferisco parlargli della bellezza, delmistero e della solitudine. Preferisco in-dicare una strada con molti tornanti, e in-dicare la via maestra del dubbio perimboccarla. Vorrei che scoprissero inquesta visione senza paraocchi il granderegalo che è la vita, l’incommensurabilemeraviglia che è ogni alba, ogni tra-

monto. Vorrei che la loro curiosità non sifermasse mai alla soglia del deserto, aipiedi della montagna, alla prima ondadell’oceano. Perché la vita è sempre nellaricerca, nella tensione verso l’incognito,nella scoperta di nuove energie ed emo-zioni. La vita sta dentro di noi come in-torno a noi, e siamo chiamati a esserneall’altezza o a tradirla, ogni volta che ilrichiamo del largo ci ammalia.

Può darsi che sbaglio, può darsi che sonoun po’ matto (ma alle nipotine piace unnonno un po’ matto…), può darsi - anziè certo - che non sono diventato ragione-vole, non ho saputo diventare adulto. Mala vita è troppo grande, troppo piena,troppo sconvolgente, per ridurla in unatriste esistenza programmata e scontata,dove l’esito finale - la morte - sembra di-ventare una prassi quotidiana e auto-ali-mentata.

Charlotte e Mae, guardo con voi versol’orizzonte. Mi ricordo la prima volta cheme ne sono accorto, dell’orizzonte. Sta-vamo sul transatlantico, e malgrado na-vigavamo spediti, quella linea laggiùdove cielo e mare si abbracciano, non siavvicinava mai. E chiesi a mio padre:“ma si può raggiungere quella linea ungiorno?”

Lui mi rispose: “No. Ma è fondamentalesempre cercare di farlo!”

Non ho mai disobbedito a questo impe-rativo… ■■

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I. Il primo passoOsservo la geografia profonda del terri-torio che cambia, divorata da una societàche ha scelto di vivere il tumore comesoluzione della malattia, e la malattiacome viaggio verso il collasso. Ma è dif-ficile accettare che mi si tolga la Terra dasotto i piedi: la loro intelligenza si rifiuta.Allora vi parlo del consumo di suola.Partiamo subito, partiamo a piedi. Hosempre diffidato dalle architetture teori-che di chi non conosce il suolo, soprat-tutto da quando vivo sotto la Presolana.E ho osservato incredulo per decenni‘tecnici’ che normano l’abuso per to-gliere la Terra a chi la conosce(va) fa-cendone il plastico della propria finzione.Raramente essi conoscono il territorio: esiamo stati noi a rinunciare al suolo, ac-cettando in definitiva che la finzione an-dasse bene per stare “al sicuro”.

Ma “conoscere il territorio” significa in-timità e conversazione con il luogo,come dice Barry Lopez in Una geografia

profonda (Galaad Edizioni, 2013). Ciòaccade anche tra le persone: diffida dachi dice di conoscerti solo perché ha in-trattenuto una breve conversazione conte. Sapere chi è l’altro non significa co-noscerlo. Figuriamoci con la Terra: nonbasta suddividere i regni della Natura se-condo paradigmi che tengono conto sem-plicemente del punto di vista umano.Quel sapere sta in un pdf. La conoscenzainvece vive, si evolve, cambia, suscita ri-spetto. Questo il consumo di suolo nonlo fa. Il consumo di suola invece sì.

Il mio primo passo non lo ricordo. Ep-pure mi ha cambiato la vita, perché a ri-cordarlo ci ha pensato il mio corpo: comeavrei potuto fare il secondo, il terzo e

tutti gli altri milioni di passi, se così nonfosse stato? La mente e l’anima tratten-nero quella potenza immensa che eral’essenza del movimento nuovo; conquel passo, il mio corpo ha capito chel’orizzonte si allargava e che stavo pren-dendo coscienza di fare parte di una ca-tena di esseri viventi lunga migliaia dianni. Il mio corpo ha incaricato la mentedi richiamare tutte le informazioni latentidel mio più lontano antenato, le ha rico-nosciute e riordinate: i recettori eranopronti, i canali ripuliti dall’ossigeno edall’acqua, gli occhi alla ricerca dellaluce.

II. Homo ContrariusIo ho capito così di volere guarire dal tu-more dell’Homo Contrarius, i noi dioggi che procedono in senso opposto al-l’evoluzione ciclica, consumando inveceche rigenerando(si). Un grande passo

l’ho fatto venendo a vivere in montagna.Sono andato in quella che l’era modernaconsidera ‘periferia’, convinta che ognirivoluzione culturale e sociale provengada un “centro urban(izzat)o”. Assurdo. Io penso, al contrario del Con-trarius, che nel dimenticatoio giaccionole soluzioni. Lì vedi la grande prospet-tiva e l’orizzonte, comprendi perché sta-bilisci un rapporto intimo con la tuanuova Terra. Ci vuole tempo per meta-bolizzare che la tua comunità è stata di-sposta a perdere ricchezze grandi: labiodiversità del sentire e del pensare,l’immaginazione riflessa nel territorio,l’elaborazione di un’evoluzione ciclica erigenerativa. Per fare questo l’Homo Contrarius haescogitato meccanismi straordinari: il piùfatale, il consumo di suolo, alla cui ra-dice sta una ragione ancora più banale,l’opulenza. Per decenni l’Homo Contrarius lo hachiamato in tutti i modi: civiltà, pro-gresso, crescita, economia, ricchezza.Poi, una frangia sempre più viva ha com-preso che era più importante la “a” della“o”, ricordando che è il consumo di suola

ciò che ha da sempre condotto le idee e lerealizzazioni migliori sulle vie delmondo, perché in sintonia con ciò che laTerra andava dicendo da millenni. I filosofi, gli architetti e gli intellettualidelle civiltà dalle quali discende la no-stra, camminavano per osservare, osser-vavano per pensare, pensavano per dareuna casa alla Comunità Terra, una suaeconomia. È facile: economia nasce da “oikos” ov-vero “casa” e “beni di famiglia” e“nomos”, ovvero “norma”, “legge”. L’economia, dunque, sarebbe “la regoladella casa”. Se dunque l’economia dellacrescita illimitata è questa, proviamo a

Del consumo di suolaDavide Sapienza

Scrittore

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visualizzare casa nostra che cresce a di-smisura. Cosa accade? Esplode. Con-suma il suolo. Lo distrugge e loavvelena.

Ecco perché “oikos nomos” non è undogma, ma un’ipotesi, un luogo, unageografia profonda per noi esseri umanidove abitare, prosperare e convivere nelreticolo di relazioni con gli altri della Co-munità Terra. È per questo che si va a consumare lasuola, invece che il cervello poco ossi-genato di fronte a modelli nei quali lateoria prevale su una pratica della qualenon si vede traccia, ma si sente solo unalontana eco: la pratica di coloro chehanno dominato sino a oggi i mezzi dicomunicazione di massa è “cloud” - ipo-tetica, invisibile, una finzione che nellarealtà concreta è riuscita a devastare lageografia fisica e di conseguenza quellainteriore annientando vaste aree, tortu-rando il genius loci. E tutto questo si è riflettuto nell’animadelle persone, sia di quelle consapevoli

(una minoranza che deve assolutamenterimanere legata al diktat primitivo dellaNatura per potere esprimerne la Potenza)che di quelle incapaci di assumersi la re-sponsabilità di essere vive e libere comedovere, non come diritto: il dovere versola Comunità Terra.

III. La potenzaIl consumo di suola è attività centraledella Comunità Terra, come la chiamaCormac Cullinan nel suo libro I diritti

della natura. Wild law (Piano B Edizioni,2012). Noi facciamo parte di un ecosi-stema globale, questa è la vera economia.Ecocentrismo, invece di egocentrismo.Non dobbiamo guarire la Terra, mal’uomo. Gaia se la caverà comunque nelGrande Tempo, aldilà del dolore che noipercepiamo vedendo cosa stiamo fa-cendo a lei, dunque a noi. Gaia vive, siorganizza, si evolve senza tradire la pro-pria natura immensa e misteriosa. Noi, senon ci occupiamo della nostra malattia,

resteremo fuori. Avremo risorse limitatenel tempo, credendole illimitate, perchédi illusioni viviamo. Gaia sarà altrove ela Comunità Terra farà a meno di noi(che siamo meno dello 0,1% della pre-senza biologica sul pianeta). Consu-mando il suolo distruggiamo le relazioni,produciamo tumori, ci fermiamo con-vinti di progredire verso chissà dove echissà perché: ma senza ossigeno siamofermi, siamo nell’oscurità. La mente-corpo non immagina più in relazione alterritorio, ma alle illusioni.

Basta abbeverarsi a una sorgente, persentire tutto questo in divenire. É l’unicavera connessione: ascoltare il corpo chetende verso la luce e fare il primo passo:consumare la suola, andare alla sorgente.Sentire la potenza di Gaia e da essa la-sciarsi portare, senza paura per essere fi-nalmente, e di nuovo, Esseri Umani.

Per ulteriori approfondimenti:

www.davidesapienza.it■■

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Per ogni alba che chiarisce il cielo,

per ogni uccello che si sveglia,

io ti ringrazio, Signore.

Per ogni mucca che si lascia mungere

per regalarci il latte al mattino,

io ti ringrazio (e la ringrazio) Signore.

Per ogni netturbino che ci pulisce le strade,

per ogni vigile che ci facilita il traffico,

io ti ringrazio (e lo ringrazio), Signore.

Per tutti quelli che vorrebbero pregarti

e non sanno;

e per quelli che saprebbero pregarti

e non vogliono,

in loro favore e al loro posto,

io ti prego, Signore.

Così comincia il nuovo libro di AdrianaZarri e, come sempre, ci sorprende ec’incanta e lo teniamo sul comodino pernon avere paura del sonno e anche del ri-sveglio - che lei chiama resurrezione - almestiere di vivere. Lei sa che vivereprova, fiacca, piega e, nel contempo, la-vora gli esseri umani. E anche noi lo sap-piamo, così come sappiamo di averebisogno di qualcuno che ci porti, ci so-stenga, perché in solitudine l’impresa sifa scoraggiante e perdente. Lei può por-tarci e sostenerci.

Con Quasi una preghiera1 Adriana Zarrici sorprende prima di tutto perché ria-scoltiamo la sua voce che mira a condi-videre pensieri e parole anche se lei, inrealtà, appartiene al mondo dei morti.Eppure si pone come tramite tra i duemondi, così come in vita ha sempre cer-cato di farsi ponte tra la parola di Dio equella della Chiesa, tra la visione laica equella ecclesiastica, tra la terra e il cielo.

Ci sorprende perché la sua preghiera, chesi rivolge a Dio, è intrisa di terra e acui-

sce i nostri sensi che assimilano ilmondo: ascoltando il passero e l’usi-gnolo, annusando la nebbia e l’erba, as-saggiando la mela, contemplando le albee i tramonti, toccando il mantello ispidodel cane, la lucida corteccia del salice.

Soprattutto, ci sorprende perché la suapreghiera comincia con un ringrazia-mento e non, come d’abitudine, con unarichiesta. Pregare significa ringraziareDio e anche chi ci sta accanto e dispensai suoi servizi. Scompiglia le regole delvivere consueto senza disgiungere ciòche dice da ciò che fa. Quando si distan-zia da una preghiera intesa come recitar

formule e domandare cose, si dispone aviverla come una conversazione con Dioe le affida lamenti e interrogazioni, sco-ramenti e soddisfazioni. La sua preghieradà forma alla gratitudine per l’esistenza esa di casa, di fuoco e di memorie. Nonpotremmo essere grati senza il ricordo diciò che è stato. Non potremmo pregaresenza affidarci a quello che è e sarà per-ché tanto è già accaduto.

La sua preghiera è legata alle stagioni ecomincia con l’inverno e il suo freddoche invita al raccoglimento, al pensierodella morte - che per la Zarri è vita - e al-l’attesa che si scalda al tepore delle festedi dicembre, gennaio e febbraio. L’in-verno è quella porta stretta di cui ci

parla Gesù e bisogna passarci e andare

oltre. Continua in primavera e si fa spe-ranza e costanza allo sbocciare della pra-tolina, al crogiolarsi al sole dellelucertole. La preghiera in estate sa diterra e di sole, ha il colore giallo delgrano e l’odore dei frutti maturi, abban-dona ogni timidezza e si accende di pas-sione e sconvolgenza. In autunno lapreghiera registra il declino, una breve

primavera prima del gran declino ed è iltempo della fede: del credere ciò che nonè ancora, del credere che sarà, che fio-rirà, che darà frutti. A ogni stagione la sua ora - l’inverno èla notte, la primavera l’aurora, l’estate ilmeriggio e l’autunno la sera - e il suomodo di pregare in sintonia con atmo-sfere e colori.

Le sue preghiere non mancano di criti-che al Natale cartolinesco, consumistico

e festaiolo in cui sembra contare di più il

panettone e lo spumante della memoria

della nascita di Gesù per un invito al-l’adorazione umile e povera della suapovertà. E di pensieri inediti sul capo-danno quale festa degli inizi, della novitàcapace di distruggere in noi la coscienzadel ripetuto e radicare quella dell’unicitàe della creatività dei gesti infimi e sullaquaresima quale pedagogia della letizia,

libero e volenteroso esercizio di libertà.Per la Zarri la gioia pasquale deve essere

guadagnata con la quaresima così come

il Signore s’è guadagnata la resurrezione

con la morte in croce. La quaresima è iltempo della conversione e del perdono eil digiuno è autodisciplina ed è impor-tante: “perché è importante la mensa;

perché il distacco è necessario; perché è

necessario sapere gioire delle cose, libe-

Quasi una preghieraAdriana Lorenzi

Redazione L’incontroScrittrice

Collaboratrice con la cattedra di Pedagogia sociale della Facoltà di Scienze della Formazione di Bergamo

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ramente possedendole, senza venirne

posseduti”. La morte per lei non è lafine, ma la conclusione di una vita, unasorta di sonno al quale ci abbandoniamoquando siamo stremati dopo una giornataimpegnativa. Un sonno ristoratore cheprecede il risveglio.

Se pregare è conversare con Dio, la Zarrinon prescinde dalle contingenze dellavita con le sue levità e pesantezze e le ca-pita anche di ammettere di non riuscire atrovare le parole per sostenere la conver-sazione perché il suo cuore è affaticato eavvilito. È secco come una strada d’ago-sto polverosa e pietrosa o nera comeasfalto ribollente di catrame. Eppure èproprio tale ammissione che si fa brec-cia, crepa nell’asfalto dal quale spunta unfilino d’erba a celebrare la vita. Quel fi-lino d’erba invita ciascuno a fare il suomestiere che è sempre quello di vivereportando a termine i lavori iniziati con leproprie mani senza aspettare lo svolar di

un angelo.

Il Dio con il quale la Zarri parla non è ilpadre al quale si deve reverenza, rispettoo timore come accadeva un tempo, ma èl’amato al quale ci si rivolge con pas-

sione e gratitudine perché ci ha scelto unavolta e continua a sceglierci ogni giorno.

Dal pulpito i preti non fanno che esortarealla preghiera, decantandone il valore ep-pure non sono molti a insegnarci come sifaccia a pregare per davvero aldilà dellarecita del Padre Nostro e dell’Ave Maria.Adriana Zarri, invece, dipana per noi isuoi gomitoli sciolti di preghiere e fini-sce per insegnarci a formulare le nostre.Insegna perché sa e riconosce che ci sideve allenare a pregare, accettando gliinciampi e le fatiche come accadequando a Dio non si ha niente da direperché distratti dalle maglie strette dellepreoccupazioni inerenti al lavoro e alladenuncia dei redditi. Ed è sempre lei aconvincerci che queste distrazioni ap-partengono a Dio così come tutte le coseche costituiscono la vita che raccogliamoe viviamo fino in fondo.

Per Adriana Zarri è bello dire “grazie”anche se temiamo il debito che esso com-porta e preferiremmo essere in pari. Lei,invece, riconosce di essere sovrastata daDio. “Dir grazie significa riconoscere

d’essere poveri e che qualcuno può ar-

ricchirci. Tu, i poveri, Signore, li hai

chiamati beati, proprio perché verranno

arricchiti da te”.

Io dico grazie a chi2 conserva le carte diAdriana Zarri e ha pensato di offrirle allalettura altrui perché non si interrompa ildialogo tra lei e noi lettori, piuttosto siapprofondisca in una conversazioneamorosa capace di raggiungerla in quelParadiso dotato di luna e animali dellaterra: i passi felpati dei gatti, lo zocco-

lare dei cavalli e i conigli fulvi che sal-

tano nei boschi.

Ringrazio per questo libro che affian-cando al sostantivo ‘preghiera’ il balbet-

tante avverbio dei vivi3 - ‘quasi’ - ci aiutaa non temere di costruire la nostra pre-ghiera per conversare con Dio, grati perla vita che ricomincia ogni giorno al no-stro risveglio. ■■

Note1 A. Zarri, Quasi una preghiera, Einaudi, Torino, 20132 Bruna Pietranera, presidente dell’Associa-zione Amici di Adriana Zarri.3 E. Baroncelli, Falene. 237 vite quasi perfette, Sellerio, Palermo, 2012

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Ode all’uomo semplice

Pablo Neruda

Ti racconterò in segretochi sono io,

così, ad alta voce,mi dirai chi sei,

voglio sapere chi sei,quanto guadagni,

in quale azienda lavori,in quale miniera,in quale farmacia,

ho un dovere terribile,cioè sapere,sapere tutto,

giorno e notte saperecome ti chiami,

è questo il mio compito,conoscere una vitanon è abbastanza,

ma neanche conoscere tutte le viteè necessario,

vedrai,bisogna sviscerare,

grattare a fondoe poiché su una telale linee nascosero,

con il colore, la tramadel tessuto,

io cancello i colorie cerco fino a trovare

il tessuto che sta sotto,in questo stesso modo trovo

l’unità degli uomini,e nel pane

cerco più in là della forma:

mi piace il pane, lo mordo,e allora

vedo il frumento,i campi di grano precoce,

la verde forma della primavera,le radici, l’acqua,

per questo

più in là del pane,vedo la terra,

l’unità della terra,l’acqua,l’uomo,

e così provo tuttocercandoti

in tutto,cammino, nuoto, navigo

fino ad incontrarti,e allora ti domando

come ti chiami,strada e numero,perché tu ricevale mie lettere,

perché io ti dicachi sono e quanto guadagno,

dove abito,e com’era mio padre.

Vedi che semplice che sono,che semplice che sei,

non si trattadi nulla di complicato,

io lavoro con te,tu vivi, vai e vieni

da un luogo all’altro,è molto semplice:

sei la vita,sei trasparentecome l’acqua,

e così sono anch’io,è questo il mio dovere:

essere trasparente,ogni giorno

imparo,

ogni giorno mi pettinopensando come pensi,

e camminocome tu cammini,

mangio come tu mangi,tengo fra le braccia il mio amore

come tu la tua fidanzata,e allora,

avendo ciò provato,visto che siamo uguali

scrivo, scrivo della tua vita e della mia,

del tuo amore e dei miei,di tutti i tuoi dolori,

e allorasiamo già diversi

perché, la mia mano sulla tua spalla,come vecchi amici

ti dico in un orecchio:non soffrire,

il giorno sta arrivando,vieni,

vieni con me,vieni

con tuttiquelli che ti assomigliano,

i più semplici,vieni,

non soffrire,vieni con me,

perché anche se tu non lo sai,questo io lo so bene:

io so in che direzione andiamo,ed è questa la parola:

non soffrireperché vinceremo,

vinceremo noi,i più semplici,

vinceremo,anche se tu non lo credi,

vinceremo.

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Maestro, Maestro Bensir! Rac-contaci una storia!I bambini della scuola del vil-laggio di Howl, nella più pro-fonda terra di mezzo, sanno dipoter contare sul sorriso del-l’anziano precettore, ma anchesulle sue bellissime storie fattedi aneddoti veri e inventati, dipersonaggi mitici e realmenteesistiti che hanno condiviso unpezzo di strada con il maestro.

Bensir nessuno sa quanti anniabbia con precisione, c’è chidice che superi i 100 e la sua ce-cità quasi totale, il suo passo in-certo, la lunga barba, lo rendonoancora più misterioso agli occhidei giovani allievi.

Gli corrono incontro e intorno,e insieme raggiungono il loroluogo preferito, quel posto om-breggiato al centro della scuola,sotto la vecchia quercia che ognianno dona le ghiande che ilmaestro, sentendo sotto il pro-prio piede, raccoglie e regala achiunque incontri, perché ven-gano messe nella terra fuori dalrecinto della scuola.

Nel villaggio si racconta che laghianda dalla quale è nata lagrande quercia sia stata messasotto terra dal nonno di Bensir eche le tante piante cresciute neidintorni abbiano avuto proprioBensir come giardiniere…

tante di fare la domanda di ini-zio, all’anziano della famiglia,come previsto dall’antico rito.

“E ricordate anche che il nonnoleggeva da un vecchio libro leparole della cena?”. I bambini a questa domanda siguardarono straniti. Nessuno siricordava.

Dal silenzio del cerchio si alza lavoce timorosa del piccolo Yan-kele: “Maestro Bensir! Io ero vicino amio nonno durante la cena e hovisto il libro. Era vecchio e mihanno detto che apparteneva alnonno del nonno!”.

Gli occhi del maestro si illumi-narono: “Bravo Yankele! Bam-bini dovete sapere che quel libroche avete in ogni famiglia sichiama haggadah, ed è moltoprezioso per tutti noi. Si tra-manda di padre in figlio. Voglio raccontarvi una storiavera che parte da lontano”.

E così iniziò a raccontare. “Quasi 700 anni fa a Barcellonain Spagna veniva scritta per unaricca famiglia una preziosa copiadell’haggadah pasquale.

Questo libro prezioso nel corsodel tempo si spostava con lo spo-starsi della famiglia a cui appar-teneva, e nel 1600 riapparse aVenezia; alla fine dell’800 arrivò

La ghianda e il libro

Raoul Tiraboschi

Avvocato

La stagione è inoltrata, il soleè caldo e l’erba soffice, conmille profumi.

Bensir, sedutosi a terra, si faserio e silenzioso tenendonelle mani alcune ghiandeche, tra le dita rugose, sonocome accarezzate. Gli occhi del vecchio si ve-lano, quasi si commuovono,i bambini sanno che sta periniziare qualcosa di speciale,che comincia sempre con una

domanda e con voce appas-sionata:

“È passato un mese dalla ce-lebrazione di Pesah, ricordatecertamente tutti di aver man-giato matzah e erbe amare,vero?”. I bambini, silenziosi, non ca-pivano il significato di quelladomanda banale. Certo che siricordavano! Come piccoli diciascuna famiglia ognunoaveva svolto il ruolo impor-

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nella città di Sarajevo dove il museo na-zionale la acquistò dalla famiglia Cohen.

Divenne nota come la hagaddah di Sara-jevo.

Questo antico libro era uno dei gioiellidella biblioteca.

Nel 1942, durante l’occupazione nazistadella città di Sarajevo, l’obersturmban-nfuehrer Jonann Fortern si recò al museocon l’intento di appropriarsi del preziosotesto.

Il curatore della libreria a quel tempo era ilDott. Derviš Korkut: uomo coltissimo, direligione musulmana, che conosceva diecilingue e pubblicò diversi studi sulle tradi-zioni degli ebrei sefarditi.

Intese subito l’intento del nazista e mise ilsuo cuore e il suo coraggio a dura prova:mentì al gerarca dicendo che il libro eragià stato prelevato da altro nazista e chenon era più in suo possesso.

In realtà il libro venne portato in salvodallo stesso Korkut presso il villaggio diZenica, alle pendici del monte Bjelašnica,dove venne conservato per tutta la secondaguerra mondiale.

Korkut, in accordo con la moglie Servetche aveva appena dato alla luce una figlia,nascose nella propria casa per diversi mesianche una giovane donna ebrea: DonkikaPapo, salvandola dalla morte per mano deinazisti, destino che ne aveva già colpito igenitori, fingendola una giovane musul-mana in aiuto della moglie.

Con la fine della guerra e il rovesciamentopolitico/sociale il dott. Korkut venne fattoprigioniero dai partigiani mentre la gio-vane Donkika si sposò con un politico im-portante.

Servet, moglie del dott. Korkut, chiesequindi aiuto a Donkika affinché tramitel’influenza del marito potesse essere libe-rato, ma quest’ultima non ebbe il coraggiodi aiutarli, come ammise poi successiva-mente con grande rammarico.

La famiglia di Donkika si trasferì poi suc-cessivamente in Israele che prima dellapropria morte scrisse una lettera nellaquale testimoniava quanto era stato fattoper lei dalla famiglia del dott. Korkut.

Nel dicembre 1994 la famiglia Korkutvenne riconosciuta come famiglia “giu-

sta nelle nazioni” e Servet - residente aParigi con il figlio - ricevette formal-mente la dichiarazione dal memoriale diYad Vascem”.

I bambini ascoltavano il maestro Bensirma non capivano il senso di questa sto-ria… L’anziano maestro guardava il cielo e im-maginava le nuvole che correvano con leforme più impensabili. Intorno il vento era leggero, il verde deiprati era presente e lontano si sentivano deicontadini al lavoro.

Il maestro tenendo le ghiande strette nellemani disse:

“Non è ancora finita questa storia, sa-pete?”.

Nel 1999, pochi anni dopo essere stati ri-conosciuti giusti tra le nazioni, la guerratorna in Kosovo e la figlia del dott. Kor-kut e di Servet, Lamija Jaha, dovette scap-pare nuovamente dalla propria casabombardata.

Tra le poche cose che riescono a portarevia, dalla loro casa a Pristina, vi è anchela dichiarazione di riconoscimento diYad Vascem e insieme ad altri sfollati ar-rivarono al campo profughi di Skopje, inMacedonia.

Lamija fece vedere il documento e deltutto inaspettatamente accadde un fatto checambiò loro la vita: lei e il marito venneroprelevati e accolti in Israele dove ad atten-derli vi era il figlio di Donkika, DavorPapo e il presidente di Israele.

Il cerchio si era chiuso, il sacrificio deldott. Korkut aveva salvato molti annidopo la figlia.

Bensir era commosso e i bambini stavanoin silenzio.

“Yankele, vieni qui vicino, aiutami ad al-zarmi…”.

Il maestro parlava al piccolo Yankele inmodo che tutti i bambini lo udissero e siappoggiò con la mano destra al tronco ru-goso della pianta.

“Vedi questa grande quercia? Ci ha ospi-tato e dato riparo in tante occasioni. Nes-suno sa con precisione chi sia stato apiantare la ghianda e a bagnarla, nessunosa chi l’abbia potata faticosamente nei tantianni, eppure è diventata il centro della no-stra scuola. Noi tutti siamo legati a questogrande albero e dobbiamo ringraziare losconosciuto che ha piantato la ghianda!”.

L’anziano prese le mani di Yankele e gliconsegnò le due ghiande che aveva con sée subito i bambini iniziarono a raccoglierequelle che vi erano a terra:

“Tenete con voi una ghianda e ricordatevidel dott. Korkut di Sarajevo! Quando gio-cherete in un prato mettetela in silenziosotto terra… Magari un giorno una piantanascerà!”. Piano piano Bensir si allontanò dallagrande quercia e ritornò nella scuola, dovesubito all’ingresso inciampò in un giocat-tolo lasciato sulla porta dai bambini ecome di consueto esclamò una qualche pa-rola in yiddish, che nessuno capiva.

■■

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Oggi, mentre scrivo, è la Giornata dellamemoria delle vittime del terrorismo edelle stragi. Sono passati 35 anni da quando nellostesso giorno (il 9 maggio) sono stati tro-vati morti Aldo Moro e Peppino Impa-stato. Il primo ucciso dai terroristi chevolevano abbattere lo Stato e l’altro dallamafia che si pone come Stato alternativo.

Di Aldo Moro sono rimaste nella memo-ria le immagini del corpo fatto ritrovarenel bagagliaio di una R4 rossa a pochipassi e a metà strada tra la sede dei duepartiti popolari italiani, la DC e il PCI.

Di Peppino Impastato furono ritrovati

soltanto brandelli del corpo, dilaniatodall’esplosivo, sparsi nel raggio di cen-tinaia di metri.

Aldo Moro è stato il politico che più ditutti ha cercato di costruire un ponte tra laDC e i partiti di sinistra, che ha consen-tito di approvare riforme importanti per idiritti nel lavoro, nella scuola, nella sa-nità, nella psichiatria, ecc.

Peppino Impastato si è ribellato al si-stema mafioso, che abitava a 100 passidi distanza, che permeava la sua famigliae il suo paese, denunciando gli interessieconomici perseguiti dai clan con la con-nivenza di apparati dello Stato.

Aldo Moro fu tra coloro che scrissero laCostituzione e fu il primo firmatariodell’Ordine del giorno approvato all’una-nimità l’11 dicembre del 1947 in cui sidice: “L’Assemblea Costituente esprime il

voto che la nuova Carta Costituzionale

trovi senza indugio adeguato posto nel

quadro didattico della scuola di ogni or-

dine e grado”. Peppino Impastato è nato nel gennaio del1948 insieme alla Costituzione della Re-pubblica Italiana. Nel 1966, compiuti 18anni, scrisse un articolo il cui titolo di-venterà famoso: “Mafia, una montagna

di merda”.

Contare e camminare insiemeIn memoria di Aldo Moro e Peppino Impastato

Rocco Artifoni

Coordinamento provinciale di Libera

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Nel 1958, quando Moro fu nominato Mi-nistro dell’Istruzione, si ricordò di quellapromessa Costituzionale e istituì l’inse-gnamento obbligatorio dell’EducazioneCivica nelle scuole medie e superiori.

Nel 1967 Peppino Impastato partecipòalla “Marcia della protesta e della spe-

ranza”, organizzata da Danilo Dolcidalla Valle del Belice a Palermo, cammi-nando 6 giorni consecutivi e scrivendo ildiario della marcia.

Aldo Moro trascorse i suoi ultimi 55giorni di vita in un cubicolo di 3,24 metriquadrati, senza spazio per camminare. Fuucciso per una sentenza pronunciata daun sedicente “tribunale del popolo”. Su-bito dopo il ritrovamento del cadavere, siscrisse della “geometrica potenza” delleBrigate Rosse, che avevano colpito ilcuore dello Stato.

Peppino Impastato non sopportava le in-giustizie, soprattutto quelle che giungevanodallo Stato. Negli anni ’70 si mise in primalinea nelle lotte contro la speculazione edi-lizia, l’apertura di cave, la costruzione diuna nuova pista dell’aeroporto. L’art. 9della Costituzione dice che la Repubblica“tutela il paesaggio e il patrimonio storico

e artistico della Nazione”. Peppino Impastato denunciò gli accordiilleciti per la realizzazione di un villaggioturistico su un terreno demaniale, riu-scendo a far bloccare un finanziamentodella Cassa Depositi e Prestiti.

Aldo Moro nelle 86 lettere scritte dalla“prigione del popolo” mise a nudo la lo-gica aberrante del potere, con il suo “as-surdo e incredibile comportamento”, atal punto di arrivare a chiedere alla mo-glie di “rifiutare eventuale medaglia”, es-sendo ben consapevole della fine.

Peppino Impastato contrastò le collusionidella politica con la mafia, con grandecreatività, organizzando un carnevale al-ternativo, con una sfilata di cloni che di-leggiavano i potenti del paese, e con latrasmissione radiofonica “Onda pazza”,in cui si raccontavano in modo dissa-crante le storie di “mafiopoli”.

Il funerale di Aldo Moro venne celebratosenza il corpo dello statista per esplicitovolere della famiglia, che non vi partecipò,ritenendo che lo stato italiano poco o nullaavesse fatto per salvare la sua vita.

Con le prime indagini si ipotizzò chePeppino Impastato saltò in aria mentrestava compiendo un attentato. Al fune-rale parteciparono e camminarono mi-gliaia di compagni di Peppino Impastato,nell’indifferenza della gente del paese diCinisi ferma dietro l’omertà delle finestrechiuse. In nome del popolo italiano furonoi giudici Rocco Chinnici e Antonino Ca-ponnetto a riconoscere la matrice mafiosadell’omicidio di Peppino Impastato.

Due mesi fa sono andato a Firenze, cittàdi Antonino Caponnetto, “padre” diPaolo (Borsellino) e Giovanni (Falcone),per la 18° Giornata della Memoria e del-l’Impegno, promossa da Libera con i fa-miliari delle vittime delle mafie. In tanti(e tantissimi erano i giovani) abbiamocamminato per ricordare a noi stessi inomi e il numero dei morti causati dallemafie. Un elenco lunghissimo di personenote e meno note che hanno pagato conla vita l’aver scelto di camminare con laschiena diritta. Penso soprattutto ai giu-dici e ai giornalisti, ammazzati per averindagato, ricostruito e raccontato le sto-rie di persone come Peppino Impastato.Tornando da Firenze, sul pullman, men-tre attraversavamo l’Appennino, nonlontani da Barbiana di don Lorenzo Mi-lani e da Casaglia di don Giuseppe Dos-setti, mi hanno chiesto di parlare dellaCostituzione, la prima legge antimafia,come dice don Luigi Ciotti.

Oggi, le immagini di Aldo Moro e diPeppino Impastato, persone infinita-mente diverse, per una coincidenza didata, tendono ad avvicinarsi, senza so-vrapporsi mai. Sento di essere debitoreverso entrambi, uomini assetati di giusti-zia e con la voglia di cambiare, ognunonel proprio contesto, fuori e dentro leistituzioni.

Peppino Impastato, che contestò il po-tere, fu eletto consigliere comunale damorto.

Aldo Moro fu rapito mentre si stava re-cando in Parlamento, il giorno della pre-sentazione del nuovo governo, sostenutoda un’alleanza innovativa, che si era“tanto impegnato a costruire”.

Mi piacerebbe che un giorno un comuneintitolasse una via a “Aldo Moro e Pep-pino Impastato” insieme. Una stradalunga, che parta dal centro del paese e fi-nisca in un prato. Mi immagino di percorrere quella strada,insieme alle ragazze a ai ragazzi cheerano a Firenze, camminando vicini,contando i passi , pronunciando i nomi,raccontando le storie, facendo memoria,promettendo l’impegno, dando gambealla speranza. E ripenso a Peppino chestavolta si rivolge a me e a ciascuno dinoi e chiede: “E contare e camminare insieme, lo sai

fare?”. ■■

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Sono tempi difficili, una lunga crisi nonci fa vedere speranze e sempre più spessoci ripieghiamo su noi stessi. Di fronte al lavoro che non c’è, ai licen-ziamenti e alla precarietà noi non reagiamopiù come collettività colpita, ma rima-niamo tristemente soli ad affrontare unacrisi che solo apparentemente è economica. Un intero sistema è in affanno, quellodella produzione continua e del con-sumo. L’era del produrre senza sosta (leindustrie), per consumare senza sostasembra crollato e con esso l’illusione diessere arrivati alla felicità in quanto ca-paci di consumare sempre di più (piùmacchine, più vestiti, più tecnologia) esempre meglio.

Non mi voglio mettere a ragionare sulleeconomie mondiali e su cosa è successo,non è di mia competenza. Quello che vo-glio capire è la reazione della gente, ilquotidiano della maggioranza della genteche vive sempre peggio, un soffrire dianoressia relazionale. È che sembra non avere più il senso deidiritti, di come lottare insieme ed essere

solidali. Abbiamo disimparato cosa siastare e fare assieme. Allora, penso, questa crisi ha sbendatouna ferita più profonda, che è la crisi diumanità. Le fasce più colpite sono quelle che giàvivevano situazioni limite e che ora spro-fondano sia economicamente, ma anchemoralmente. Si disfano anche le spe-ranze residue.

Se penso ai miei territori, già storica-mente abbandonati, la questione si fa piùpungente e dolorosa: le famiglie già de-boli ora sono le ultime tra gli ultimi neipensieri di chi governa, ma che vuol direanche della società. La mancanza di valori forti di riferi-mento, di cultura che non è solo il pezzodi carta, ma la conoscenza e la consape-volezza, rende tutti più soli, più deboli epiù esposti ai venti gelidi della crisi chepenso sia soprattutto sociale.

Le nuove generazioni tra tutti sono le piùesposte, soprattutto nei contesti più diffi-cili ovviamente. Disgregazione e abban-dono della società, ma anche delle

famiglie stesse, incidono nella loro cre-scita. Genitori incapaci di responsabilizzarsi,scuola allo sbando, anche quando tena-cemente resistente, associazioni sempremeno supportate.

Però io, se voglio vedere una speranzaper tutti, la vedo nella forza di questi ra-gazzi che pure abbandonati non cedono,lottano fino alla fine per la loro infanzia,per non rimanere orfani di adulti di rife-rimento. Perché hanno istintivamentefame di autenticità, di supporto, di favolee di legami affettivi veri, cui purtroppoqueste famiglie disgregate e questa so-cietà tuttologa ma incompetente rispon-dono con l’illusione consumistica,l’ideale del possesso, dei soldi.

Ora che c’è questa crisi c’è sofferenza eci sono problemi. Non è facile, né facciol’elogio del disagio, sia chiaro, ma po-trebbe essere un momento per prendereper mano questi figli e ricominciare aparlare e ascoltare che non sono beni diconsumo e che nessuno ce li potrà maitogliere. ■■

La crisi degli orfani di credibili figure di riferimento

Davide Cerullo

Scrittore

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Viaggiare significa intraprendere uncammino di ricerca, di scoperta, spintoda una motivazione. Ciò che si apprendein questo cammino ci caratterizzerà persempre: il viaggio aggiunge tasselli divita altrui alla nostra.

Il viaggio che abbiamo intrapreso sultema della legalità penso che di “tas-selli” ne abbia aggiunti molti alla vita deipartecipanti. Per chi come me mastica laCostituzione e crede nei suoi principi,Napoli non è abitata da “terroni”, ma dacittadini italiani troppo spesso trascuratie non valorizzati. Trascurati a tal puntoche la Camorra ha sostituito lo Stato nelsuo ruolo di controllo. La Camorra è ilmale che distorce i valori comuni con lasua presenza.

Uno fra tutti il valore della famiglia, vi-sibilmente corrotto in ambienti come levele di Scampia. In quegli enormi pa-lazzi disumani ognuno tutela i propri in-teressi, ognuno deve difendere la propriafamiglia. Manca uno spazio comune incui possano prevalere le relazioni, le pa-role buone. L’unico spazio comune è ildegrado: tubi rotti, perdite di acqua e digas ovunque, immondizia, prati che daverdi diventano bianchi e blu, dove ilbianco e il blu sono i colori delle confe-zioni delle siringhe.

Viaggiare a Napoli significa tante cose.Innanzi tutto significa essere viaggiatoriin un contesto dove il viaggio non è nem-meno contemplato: la Camorra offretutto il necessario alla vita, sempre che sipossa definire tale.

Significa prendere coscienza del fattoche si hanno molti pregiudizi, perché noistessi venendo dal “Nord” apparteniamoad un sistema chiuso che ci fa sentire su-periori, mentre siamo italiani tali e quali

a loro. Questo rapporto di uguaglianzapotrebbe essere meravigliosamente belloe prolifico, ma resterà senz’altro utopicofinché si permetterà lo stanziamentodelle mafie anche al nord (e non mi sof-fermo sul voto di scambio, sugli arresti,sui processi “ ‘Nduja” e “Infinito” per-ché mi occorrerebbero infinite pagine).

Ma significa anche scoprire che in unarealtà così ‘stereotipizzata’ possano na-scere idee fresche e vitali, idee di spe-ranza. Idee che sorgono in chi prova aviaggiare, tentando di superare le “co-lonne d’Ercole” del sistema camorristico(‘O Sistema per gli aficionados). Pur-troppo sono viaggi individuali, nessunoti aiuta se non la tua volontà, la tua vogliadi scoprire la vita. Sono i viaggi di Davide Cerullo, di AlexZanotelli, di Aniello Manganiello, diFrancesca Gennari, di tutte le belle per-sone che abbiamo incontrato. Testimo-nianze di umanità che mostrano come lavita cerchi ogni appiglio possibile persorreggersi.

Nei prati pieni di siringhe c’è un cam-petto sterrato dove giocano i bambini

delle Vele che hanno giocato anche connoi. Abbiamo mangiato con le loro fami-glie (ricordo ancora le mozzarelle, in par-ticolare), bellissime persone che ci hannodato molto senza chiederci nulla in cam-bio, se non fare testimonianza della lorovoglia di vivere e della loro straordinariaaccoglienza, fatta di abbracci, di baci, dibelle parole, sicuramente priva di pre-giudizi.

Senza dubbio un viaggio pieno di contra-sti, discrepanze, contraddizioni. Ci sonomoltissime domande che ci siamo portatiindietro perché è molto difficile compren-dere ciò che esula dalla nostra forma men-

tis. Rimangono impressioni da rielaborare,il viaggio non è ancora finito.

La mafia nasconde, confonde, crea am-biguità, illusioni, dubbi. È una mascheradi ferro che imprigiona una faccia sfigu-rata da espressioni sofferenti. Eppurequalcuno ha aperto una fessura in quellamaschera opprimente e ha intravisto labellezza.

Quello che mi rimane al ritorno, come adaltri di noi, è la volontà di allargare que-sta fessura. Dobbiamo tenere vive le mo-tivazioni che le persone ci hanno dato etrasformarla in azioni utili.

Per questo sta già prendendo piede unprogetto nel nostro territorio che prevedevarie iniziative volte alla raccolta difondi per la creazione di uno spazio diaggregazione giovanile alle Vele diScampia, nella cosiddetta “torre bianca”.

Le due domande che campeggiano nellamia mente sono: “dove c’è vita c’è spe-ranza?” e: “se c’è speranza, va colti-vata?”. Le due risposte che campeggianonella mia mente sono “sì” e “sì”.

■■

Siamo la stessa comunitàGiordano Lizzola

Studente

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Questo è il mondo in cui siamo, questo èil mondo che pensiamo ci appartenga.Questo è il nostro habitat, sociale e cul-turale, ereditato e costruito. Questo è ilmondo che sempre più spesso vediamocambiare, che temiamo ci venga tolto,che temiamo si trasformi troppo in frettain qualcosa d’altro, che non ci corri-sponde e non ci rappresenta più. Questoè il mondo che credevamo di saper co-noscere e ri-conoscere e che ci apparte-neva proprio in quanto lo conoscevamo.Se il nostro mondo si trasforma, sesmette di essere conoscibile e per noi ri-conoscibile, allora smette anche di ap-partenerci. E questo naturalmentedestabilizza, può fare paura. Ragioniamoallora su quali elementi trasformano ilnostro mondo in qualcos’altro di estra-neo, di non riconoscibile e alieno. Ra-gioniamo su che cosa indebolisce ilconcetto di appartenenza, sul concettostesso, e sulla sua possibile fine.

In realtà facciamo fatica oggi a sceglierea cosa appartenere. In uno scenario glo-bale di attributi che cambiano in fretta ein modo imprevedibile, l’appartenenza èdiventata un concetto fluido, sismico. InEssere e Tempo, Heidegger aveva deli-neato la sua idea di soggetto, precisa-mente, nelle sue parole, l’idea di uomo.Uomo che sta all’interno del proprio con-testo, ed è artefice di esso. Non esistenella sua visione un uomo in assoluto, se-parato dal mondo, come entità che cono-sce opposta ad un contesto da conoscere.L’uomo così definito non è destinato, ge-nerato per, non è predeterminato. L’uomo

di Essere e Tempo non è collocato inalcun fuori, ma sta nel mezzo, al centro.

Con il concetto di appartenenza ha unarelazione di parità.

Ridefinito nei nostri termini, come sog-getto, possiamo dire che il soggetto nonè in una posizione preminente nè gene-rativa rispetto al suo contesto, ma esistecon, co-esiste con il suo contesto. Pre-vale in questa visione un senso del co-mune appartenere, del generare con,dell’essere nel senso di esistere. Questosoggetto che si determina insieme al suocontesto si definisce secondo due fonda-mentali attributi cognitivi: la sua storia eil suo linguaggio. Potremmo dire che ilsoggetto non esiste a prescindere dallasua storia e del suo linguaggio, e ancheche tale soggetto è artefice tanto dellastoria che del linguaggio entrambi insenso co-evolutivo.

La storia viene pensata qui come un pe-renne incompiuto, come un processoaperto che si compie nel senso che sisvolge attraverso l’indagine indiretta del-l’uomo sul suo proprio scopo, sul suosenso. La possibilità di scrittura della sto-ria richiede la presenza, l’essere dentro,l’appartenenza al presente e alla materia-lità della presenza. Così anche il discorsosulla storia dei luoghi, sulla storia della tra-dizione: richiedono l’esserci, sono storieche possono anzi devono essere abitate epossono essere scritte solo dal di dentro.

Il linguaggio, la dimensione cognitivaumana per eccellenza, raggiunge la suavetta espressiva ed estetica nella poesia(Dichtung). La poesia è la costruzionedella risposta umana alle domande postedella storia, la più alta risposta possibile.La capacità di generare poesia parte dal-l’esperienza del linguaggio vissuta almassimo grado di intensità, dal di den-tro, dalla condizione metaforica dell’abi-tare dentro il linguaggio.

Entrambe le dimensioni cognitive, quellastorica e quella linguistica, dicono qual-cosa di molto importante sul concetto del-l’appartenenza: stabiliscono cioè chel’uomo appartiene al suo contesto nelsenso che con questo condivide il processogenerativo, etico ed estetico, in una rela-zione di reciproca interdipendenza e ap-partenenza che non può essere sciolta.Tanto più il soggetto è artefice delle duedimensioni cognitive della storia e del lin-guaggio, tanto più determina il suo mondo,in cui coesiste e co-evolve con queste.

Non esistono allora, in Essere e Tempo ein questa nostra visione, una dimensioneesterna, data, dell’oggetto o dello spaziodi cui appropriarsi, ed una interna privatada dentro cui stabilire quale oggetto oquale spazio ci appartiene. Entrambi itermini del discorso sono inclusi all’in-terno di una dimensione unica di co-ap-partenenza. Questa è, posta in altritermini, la relazione di opposizione traEssere ed Esser-ci, tra Sein e Da-sein.Dasein di Heidegger indica una declina-zione collocata nello spazio (e tra gli og-getti) dell’esistere, che include per ilsoggetto la libertà di collocazione, ma

Sulla pluralità del concetto di appartenenza

Elena Bougleux

AntropologaUniversità di Bergamo

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anche di necessaria accettazione dellecondizioni in cui l’essere si va a espli-care. In sostanza, il soggetto di cui vo-gliamo parlare si trova nella condizionedi appartenere comunque. Appartiene inogni caso al suo contesto, non è separa-bile da questo, non può prenderne le di-stanze; anche a quello che gli apparecome estraneo, che non ri-conosce più, aquello che si è trasformato e che dunqueora gli sfugge. Il nostro soggetto appar-tiene anche a quel particolare contesto incui si è venuto a trovare solo in un datomomento, per scelta o per caso, e in cuisi è appena fermato, per ragione o per er-rore. Un soggetto che quindi ha ragione diessere fortemente dubitativo, incerto, in-soddisfatto, al limite spaventato, ma chein ogni caso sperimenta, un esser-ci (Da-

sein) qui ed ora, dentro il (suo) linguaggioe dentro la (sua) storia: e sperimentandoun’appartenenza, smette forse di soffrire edi subire una separazione, ma inizia a con-dividere una enorme (co)responsabilità.

Naturalmente Heidegger non parlava dimondi globali, né di multiculturalità.Non si è interrogato esplicitamente sulnostro mondo, in questo senso sociale epratico neanche sul suo proprio. Questonostro presente non ha bisogno di esseredefinito, è già pluri-appartenente, è giàmulti-appropriato. Il problema della plu-ralità delle appartenenze diventa urgentein quanto è una condizione prevalente,che va forse dunque suddivisa in ele-menti e analizzata separatamente, da di-versi punti di osservazione.

La collettività che abita il nostro presentemanifesta già un’identità plurale. Siamogià immersi in un contesto che ha molte-plici identità e chi condivide la respon-sabilità della gestione dello spaziocollettivo prova, con mezzi più meno li-mitati o raffinati, a tenere conto dellecorrispondenti molteplici istanze cultu-rali: le norma, le classifica, le protegge,spesso anche le stigmatizza e le rieifica.Lo spazio della convivenza ha una iden-tità plurale, più o meno riuscita e pacifi-cata, anzi non molto pacificata, maevidentemente già molto ben articolata eradicata.

Ben più difficile è accondiscendere al-l’idea di pluralità nella dimensione indi-viduale e personale. Venire a patti con lamolteplicità di istanze anche contraddit-torie che costituiscono il soggetto sin-

golo, anche quando è solo, quando nonsi sta confrontando con alcuna comples-sità sociale. È difficile gestire la coralitàdelle proprie posizioni, delle proprieistanze, e accordare dei diritti alle pro-prie minoranze identitarie.

Eppure storicamente questa dimensionecorale dell’essenza del soggetto è forse lapiù rilevante: le identità individuali eranoconcetti plurali anche prima dell’arrivodegli altri. Identità è una conseguenzadella necessità di auto-rappresentazione:per chi io mi rappresento? e dunque, a chiserve l’identità? L’identità individuale èsempre inscritta all’interno di una di-mensione relazionale, ed emerge comerisultato antropo-emico o antropo-fagico,per repulsione o per assimilazione del-l’altro, ma comunque sempre dove esisteed è ben definito un altro. Senza altronon si riesce a definire neanche uno.Senza l’altro anche l’identità è meno ur-gente, in effetti serve di meno.

Il risultato destabilizzante è che nessunadefinizione identitaria singola ci rac-chiude né soddisfa completamente.Amartya Sen scrive che la libertà di de-terminare le nostre lealtà e priorità tra idiversi gruppi ai quali possiamo sce-gliere e decidere di appartenere è una li-bertà particolarmente importante, cheabbiamo ragione di riconoscere, valoriz-zare e difendere. Per ogni soggetto as-sume quindi la presenza di diversi gruppi

e della molteplice appartenenza comedati di fatto. Quali sono i diversi gruppia cui decidiamo di appartenere, a cui siriferisce in modo così importante da de-terminare i parametri della nostra libertà?

Sicuramente Amartya Sen parla delmondo globalizzato, e della multicultu-ralità. Anzi, in modo esplicito, si riferi-sce a quei soggetti protagonisti dallamodernità che della molteplice apparte-nenza fanno una condizione esistenziale.Sempre più frequentemente e capillar-mente, quelli che definisce soggetti tran-snazionali si trovano a nascere in uncontesto, crescere in un altro, diventarecittadini e produttivi in un altro ancora:una condizione di reiterata frammenta-rietà che pone di fronte all’esigenza dieffettuare continua traduzioni, ricolloca-menti del significato e reinterpretazionidi tutte le sfere del significato, dalla di-mensione più pubblica e sociale a quellaprivata, personale e minima. La tradu-zione e la trasposizione diventano unaconsuetudine, un’esigenza primaria perla propria stessa esistenza, dove esistere

significa esattamente questo, mettere incomunicazione mondi, sufficientementelontani ma non irrimediabilmente sepa-rati, e generare nuovi modi di muoversi,di parlare, di relazionarsi, di spiegarsi.

Questo soggetto dalle molteplici appar-tenenze costituisce con i proprio corpo illuogo fisico della possibile sintesi, lospazio dove si realizza la traduzionecontinua, che diventa così anche con-creta, incorporata. Ognuno di questi sog-getti partecipa di più culture semantiche,di diverse abilità intellettuali, coltiva piùdefinizioni di se stesso/a, appartiene apiù di un “collettivo di pensiero”. Un talesoggetto opera continuamente traduzioninella forma di risignificazioni, ed è ca-pace di attribuire significati diversi in cir-

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costanze diverse: i significati appresi lo-calmente sono traslati globalmente e mu-tati secondo criteri arbitrari, soggettivi evariabili. Il significato attribuito ad undato segno è il risultato della traduzioneoperata intimamente fra le proprie areedi esperienza.

Queste sono le figure dei cosmopoliti de-scritte da Ulf Hannerz, ma anche quelledei migranti intellettuali, dei cultori dimondi, eterogenee categorie introdotteda Appadurai, a cui lui stesso appartienee che lette in senso ampio ci coinvolgonoin qualche misura tutti. Tutti infatti cer-chiamo una qualche forma di traghetta-zione delle culture incorporata nelleesperienze, tentiamo una rielaborazionedei paradigmi dati che comporta il conti-nuo riposizionamento del normale, la ri-definizione dell’ovvio. Senza questaflessibilità, non c’è appartenenza, e ne-anche possibilità di resistenza.

Esiste tuttavia una specificità che va evi-denziata: sia in Amartya Sen che in Appa-durai individuiamo una grande familiaritàcon il concetto di molteplice.Proviamo ad entrare in una parte del lorouniverso culturale, gettiamo uno sguardo

sui non così rari rispettivi riferimenti allanatura molteplice della realtà, delle suemanifestazioni e possibilità. Nella co-smogonia induista troviamo una descri-zione della creazione dell’universo comeun processo ciclico: piuttosto che unacreazione dal nulla, si realizza l’eventoricorsivo dell’organizzazione dell’esi-stente. Creare significa in questo conte-sto ri-dare una forma, ri-combinare glielementi del cosmo in una geometria esecondo un assetto nuovi: ad ogni suo re-spiro Krishna genera un universo, e adogni inspiro un universo scompare, inuna sequenza innumerevole di creazionie distruzioni; ogni distruzione di uni-verso è la premessa per essere ri-gene-rato, sempre nuovo ma sempre simile.Una pluralità di universi possibili, unmultiverso, viene inspirata ed espirataper sempre, e tutti gli universi coesistonoin infiniti cicli e reincarnazioni che co-stituiscono le infinite possibilità di ri-combinazione degli elementi. Lo stessoKrishna è un concetto molteplice, che sipresenta sotto sembianze sempre diverse,i suoi avatar, corrispondenti alle diversemanifestazioni del vivente nei suoi di-versi tempi di esistenza.

In questa rappresentazione fluida, mute-vole e instabile, il concetto forte di ap-partenenza vacilla. È difficile riferirsi aduna precisa manifestazione del reale etrovare una propria collocazione stabile apartire dalla quale decidere che cosa,quando, quanto ci appartiene. Questibrevi suggerimenti teorici conduconopiuttosto nella direzione di una rinuncia alsenso dell’appartenenza, a favore di un piùampio concetto di identificazione, di col-locazione di sé distribuita. L’indagine suglielementi identitari costitutivi del soggettosi può spostare verso quella delle intera-zioni tra i contesti e le rispettive manife-stazioni verso le quali si avverte un piùforte senso di identificazione. Ed il sog-getto nella sua pluralità identitaria può tro-varsi identificato in insospettabili ambiti.La prospettiva molteplice che vorremmoassumere è quella in cui il concetto diappartenenza, evoluto in co-apparte-nenza e suddiviso in una molteplicità dimanifestazioni, richiede e determina unacondivisione di destini e dunque di co-responsabilità verso la gestione e dellospazio collettivo e condiviso.

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L’argomento ha a che fare con una que-stione di estrema importanza: come cicollochiamo nel mondo, nel suo presentee nel suo futuro, ammesso che gliene at-tribuiamo uno?

La convinzione di cieli nuovi e terranuova appartiene più all’ordine del cre-dere che all’ordine del sapere. Già un discepolo di Isaia, per confortarei suoi dalla delusione dell’inglorioso rim-patrio da Babilonia, sente la necessità dirilanciare le promesse escatologiche delmaestro sul rinnovamento della crea-zione, “il lupo e l’agnello pascolerannoinsieme”, “il bambino giocherà col ser-pente” (Is 11,6-9), proiettandole apocalitti-camente verso “cieli e terre nuove” (Is

65,17-25).

E questa sarà anche l’ultima parola delNuovo Testamento (Ap 21,1-5): Dio pre-para una nuova abitazione e una terranuova, dove ci sarà l’inaugurazione diun’esistenza mai prima sperimentata, li-bera da tutte le limitazioni terrene e ma-teriali, fame e sete, male e morte, doveDio detergerà ogni lacrima. La fede nella fine del mondo è una cre-denza adottata dalle tre religioni mono-teistiche. Movimenti millenaristici, con questaconcezione della fine della storia, hannoattraversato la civiltà occidentale, ed an-cora oggi fanno la fortuna di sette e tele-predicatori. Questo nell’ordine del credere. Rima-nendo nell’ordine del sapere cosa pos-siamo dire?

Riguardo ai cieli sappiamo come sonoandate le cose, più o meno, dal primo na-nosecondo di vita dell’universo, 13.7 mi-liardi di anni fa, ad oggi. I cieli non sonoun posto molto sicuro, non è previstol’arrivo di novità positive dai cieli per iprossimi 4-5 miliardi di anni, quando ilsole si trasformerà in una gigante rossainglobando la terra nella sua atmosfera.Fine. Ma forse già prima, milione d’annipiù milione meno, è in programma unodei più grandi scontri cosmici possibili:quello tra la nostra galassia e la galassiadi Andromeda. Meglio non essere nei pa-raggi.

Più ravvicinato è il pericolo di proiettilicosmici, che piovono sulla terra con unaperiodicità di 50-100 milioni di anni pro-vocando estinzioni di massa tra le specieviventi. Forse “un grande orologio nel

cielo sta controllando i destini biologici

sulla Terra”.

Alla fine del Cretaceo, 65 milioni di annifa, un masso roccioso di 10 Km di dia-metro, piombò al largo delle coste delloYucatan. Fu come se milioni di bombeatomiche esplodessero simultaneamente.Il 50% delle specie viventi venne spaz-zato via. Per i dinosauri fu la fine delmondo. Noi siamo i figli di quella finedel mondo. Per i piccoli mammiferi al-

lora presenti, fu come vincere alla lotte-ria, avevano le caratteristiche giuste persopravvivere, - piccole dimensioni, habi-tat non specialistici.

“Una volta passata la nottata del Creta-ceo, i mammiferi aumentarono le lorodimensioni, occuparono le nicchie eco-logiche libere e si diversificarono permilioni d’anni in una delle più spetta-colari radiazioni adattative della storianaturale (senza la quale, noi primati digrossa taglia non esisteremmo)”.

Telmo Pievani, La fine del mondo,Il Mulino 2012, pag. 125

Se questa è la modalità con cui procedel’evoluzione, è fuori di dubbio che ci saràuna terra nuova. Resta da capire se saràmigliore di quella che conosciamo. Nelmarzo 2011 la rivista Nature ha pubbli-cato un articolo: “La sesta estinzione di

massa è già arrivata?”, pare che siamoin grado di fare meglio dell’asteroide.

Si potrebbe pensare che la scienza ci pre-munisca contro stravaganti ossessioniapocalittiche. Ma non è così. Anzi,spesso ci offre ulteriori motivi di ansia.Secondo l’astrofisico Martin Rees, unoche ha a che fare con la dura realtà piùche con i sogni, c’è una probabilità del50% che questo secolo sia l’ultimo per laspecie umana.

Come riempire un secolo mezzo pieno (omezzo vuoto)? Purtroppo la realtà della natura e dellastoria è tale da renderci incapaci di pre-visioni. L’inaspettato è ciò che ci pos-

Evoluzione, terra nuova, fraternitàEros Gambarini

Fondazione Serughetti La Porta

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siamo attendere dal futuro. Tutto quelloche possiamo fare è mettere in piedi dellestrategie probabilistiche che rendano piùtrattabili i sistemi imprevedibili.

Circa il nostro agire Hans Jonas proponeuna regola ferrea per trattare l’incertezza:in dubbio pro malo, nel dubbio dàascolto alla prognosi peggiore poiché laposta in gioco è troppo alta. Tuttavia questo principio, applicato rigi-damente, rischia di condurre all’immo-bilismo. Sembrano più adeguati isuggerimenti di Edgar Morin, secondo ilquale la conoscenza è una navigazione inun oceano di incertezze attraverso arci-pelaghi di certezze. Le nostre azioni sicollocano in questo oceano, tendono asfuggire alla volontà dell’autore, sonocatturate dal contesto, ed a lungo terminehanno effetti imprevedibili.

Si può puntare sull’ottimismo: ci penseràla tecnologia a risolvere i problemi e adincrementare i beni disponibili, ce nesarà per tutti. Secondo Hans Jonas, latecnologia non è la soluzione ma il pro-

blema, i vomeri tecnologici possono es-sere più pericolosi delle spade. Tuttavia,anche se è vero che scienza e tecnologiasono parte del problema, impossibile tro-vare una soluzione che ne prescinda.

Che diavolo, un po’ di ottimismo. Do-mani salpa il Titanic, è una bella nave ec’è posto per tutti a bordo. Eppure,là da-vanti, avvolto nella nebbia, c’è un ice-berg in attesa. Per evitare l’iceberg c’è chi invoca che atracciare la rotta non sia il cuoco dibordo, ma ci sia un capitano che possagridare ‘indietro tutta’.

Anche per il sistema economico che ab-biamo messo in piedi, sembra che valgal’ipotesi della Regina Rossa (dal perso-naggio di Alice nel paese delle meravi-

glie), che il biologo Leigh Van Valen haproposto per spiegare le strategie evolu-tive: ci vuole tutta la velocità di cui si di-spone per star fermi nello stesso posto,se si vuole andare da qualche altra partebisogna correre almeno il doppio più ve-loci. Da una parte dovremmo rilanciare

la crescita per mantenere i livelli attuali,dall’altra sappiamo che ciò aggraverà lacrisi ambientale. Eppure non bisogna es-sere dei geni per capire che un sistemachiuso non può tollerare incrementiesponenziali illimitati. E noi di questi in-crementi ne stiamo provocando parecchi.Pensiamo davvero che la natura prima opoi non ci presenti il conto? I conti dellanatura hanno sempre la spiacevolezza diessere eccessivi. ‘Il dio ecologico è in-

corruttibile, non lo si può placare con

sacrifici’ (G. Bateson).

Sia chiaro, non si tratta di salvare il pia-neta. La Biosfera ha superato perturba-zioni ben peggiori di quelle provocatedalla specie altamente invasiva Homo

Sapiens. Più umilmente, ad essere ingioco è un mondo capace di garantire lanostra sopravvivenza.

Che ci sia una riorganizzazione del si-stema climatico della Terra è normale dalpunto divista della biosfera. Ma a noi in-teressa il nostro punto di vista, che èquello di una specie che ha disseminato

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sette miliardi di individui in ogni angolodel pianeta. Non ci interessa la fine delmondo in assoluto, ma:

“la fine del mondo per come noi lo co-nosciamo… se i pericoli naturali e iprofughi ambientali diventeranno partenormale dell’esistenza umana, vorràdire che avremo dato in eredità ai nostrifigli e nipoti un pianeta meno vivibile epiù insicuro. Cresce sempre più il so-spetto che, in fin dei conti, la catastrofesiamo noi”.

T.Pievani, La fine del mondo, Il Mulino, 2012, pag. 75

La cosa verso cui sono tese più mani èl’energia, le sue fonti. Tutti sanno che ilcontrollo delle fonti di energia è al centrodella dirty economy, quella che non si fascrupoli di organizzare guerre, omicidi ocolpi di stato. Almeno per questo aspettodel problema, ci potrà aiutare l’innova-zione scientifica e tecnologica, che ciconsentirà, ad esempio, un ampio uti-lizzo di energie rinnovabili, e magari ren-dere tecnologicamente fattibile la fusionenucleare (calda o fredda che sia). Maprobabilmente non basterà.

Al centro di ogni questione ambientalec’è lo scandalo dell’ingiustizia su scalaglobale nella distribuzione delle risorse.Il fulgido e rassicurante benessere del-l’Occidente convive da sempre, ignoran-dola colpevolmente, con la sua metàoscura, fatta di inquinamento ambientale,spaventosi squilibri sociali ed economici,povertà inaccettabile. Il sistema, però,così non può reggere.

Noi occidentali non siamo credibiliquando invitiamo i paesi emergenti a li-mitare la crescita, a non disboscare fore-ste pluviali, regno della biodiversità,quando per secoli abbiamo alimentato lanostra crescita con le risorse altrui.

“Forse anziché una ‘decrescita felice’,potremmo intanto ipotizzare una ridu-zione dell’infelicità dei due terzi delpianeta che vivono nell’indigenza, pro-spettando insieme a loro una crescitapiù intelligente e più equa”.

op. cit. pag. 99

Sta di fatto che siamo di fronte a sceltedi importanza vitale, di fronte alle qualidobbiamo chiederci se sia possibile scen-dere in campo con qualche fondata spe-ranza di successo, senza essere battuti in

partenza. Abbiamo in mano delle buonecarte per mettere fuori gioco il corso pre-sente della storia ed imprimere una in-versione di tendenza al corso delle cose? Oppure ci dobbiamo consolare per aversaputo individuare lucidamente l’icebergverso il quale eravamo diretti, senza peròessere in grado di effettuare almeno uncambiamento di rotta? E cambiarla verso quale direzione? Sarà la sensazione di essere in un vicolocieco, sarà un nuovo spirito del tempo,ma il tema dell’altruismo sta trovandosostenitori, anche in ambienti dove nonera molto di casa.

Per la teoria dell’evoluzione, ad esempio,l’altruismo è sempre stato un problema.La selezione naturale procede favorendola sopravvivenza differenziale degli or-ganismi che portano una variante favo-revole, non può prevedere favori da partedi individui che rinuncino ai propri inte-ressi, tanto che nella volgarizzazionedella teoria evoluzionistica selezione na-turale è diventato sinonimo di competi-zione illimitata.

Come spiegare, allora, la presenza in na-tura di diffusi comportamenti cooperativie perfino altruistici? Interpretazione sbagliata, si è sempre so-stenuto. Non esiste un “gene dell’altrui-smo”. Si tratta al massimo di formesofisticate di egoismo. Se qualcunopensa a se stesso come a una creaturanon egoista, si sta certamente autoingan-nando.

“L’amor proprio di un ricercatore nonteme umiliazione più grande di quelladerivantegli dall’aver definito altrui-stica una certa azione che poco dopo,con maggior sottigliezza, un collega di-mostra essere egoistica. Di certo questo timore contribuisce aspiegare i fiumi di inchiostro che gliscienziati del comportamento hannofatto scorrere nel tentativo di portarealla luce motivi egoistici per azioni cheavevano tutte le caratteristiche del sa-crificio di sé.”

Frans De Waal, Naturalmente buoni,

Garzanti 2009, pag. 30 Come ha fatto un gruppo di scienziatiad acquisire un visione così scialba del-l’universo naturale, del genere umano,o delle persone che li circondano, oltre

che di se stessi? Non vedono che, perparafrasare Budda, ovunque c’è ombrac’è luce?

op. cit. pag.28

Eppure la casistica di cooperazione stacrescendo in frequenza a tutti i livelli.Aumentano gli studi su nuove spiega-zioni evoluzionistiche, che non ricorranoad argomenti ‘per discontinuità’ perspiegare l’emergere della moralità e dicome si sia passati da società in cui lecose erano come erano, a società dotatedi una visione di come le cose dovreb-bero essere.

Martin Nowak - in “Supercooperatori.

Altruismo ed evoluzione: perché ab-

biamo bisogno l’uno dell’altro”- osservache a qualsiasi livello il mondo animaleha sempre trovato, e trova tuttora, nellacooperazione un motore evolutivo altret-tanto potente della competizione, fino adarrivare ai super-cooperatori: gli esseriumani.

Michael Tomasello - in “Altruisti nati.

Perché cooperiamo fin da piccoli”- percercare di capire come guardiamo il no-stro prossimo, ha studiato il comporta-mento di bambini tra il primo ed ilsecondo anno, con risultati sorprendenti:aiutano il prossimo mettendo da parte ilvantaggio individuale. Forse miliardi di anni di evoluzione nonsono stati solo in favore dell’egoismo. Sepossiamo contare anche su caratteristi-che, finora sottovalutate, di cui l’evolu-zione ci ha dotati, non è illusoria lastrategia proposta da alcuni “sognatori”per una terra nuova.

Edgar Morin: il tema fondamentaledella sua opera è da tempo la trasforma-zione della complessità planetaria ditutto ciò che è umano, in dimensione po-litica. Una società, dice, può progredirein complessità solo se progredisce in so-lidarietà, la solidarietà non imposta, mainteriormente sentita e vissuta come fra-ternità. Egli sostiene che “la presa di co-

scienza del problema della solidarietà

deve condurre alla volontà di farlo

uscire dai bassifondi infrapolitici nei

quali è rimosso, e di farne un problema

centrale”.

Solo così sarà possibile affrontare il dop-pio imperativo che ci sta di fronte:

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ovunque preservare, estendere coltivaresviluppare l’unità, ovunque preservare,estendere coltivare sviluppare la diver-sità. Preservare l’origine e aprire allostraniero sono le condizioni che permet-tono ad una cultura di essere viva e dinon chiudersi in un nazionalismo che asua volta è fonte di discriminazione perle minoranze che inevitabilmente ci sonoal proprio interno.

Edgar Morin, Terra-Patria, Raffaello Cortina,1994, Pag.120

Gli fa eco Ernesto Balducci, “profetadella globalizzazione solidale”, quandoparlava dell’uomo planetario:

“Solo una nuova cultura planetaria puòsalvarci dalla catastrofe”.

“Oggi siamo nella condizione di dire

che l’uomo o sarà veramente univer-sale o morirà”.

Non usava mezzi termini Balducci, manon era millenarismo da strapazzo,piuttosto una riflessione sofferta, pro-fondamente religiosa: “la distruzionedel nemico è autodistruzione”. Per luila nonviolenza non era un postulatomorale, ma un postulato della biologia.Era convinto che l’aggressività umanasarebbe stata superata da una nuovafase evolutiva dell’umanità, quella pla-netaria, appunto. In cui non è più pos-sibile l’egemonia di un popolo odell’altro perché i destini di tutti sonoprofondamente uniti e in cui le cultureereditarie non sono più sufficienti adare un senso all’uomo nell’universo.

Silvia PochettinoVolontari per lo sviluppo, 2002

Di questi tempi parlare di fraternità puòsembrare un sogno. I potenti amano che la gente abbia sogniche non avranno mai un esito. Penso che non sia vero, che i sogniquando sono grandi incidono e trasfor-mano, anche se possono avere battuted’arresto; bisogna continuare a sognare

restando svegli, disse Martin LutherKing nel suo sermone tenuto il 28 ago-sto 1963 durante la marcia su Washin-gton: I have a dream…, e qualchegermoglio di Terra nuova cominciò aspuntare. Ma come!... non ce ne accor-giamo?

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Dovrà imparare, lo so, che non tutti gli uomini sono giusti, che non tutti gli uomini sono sinceri.Però gli insegni anche che per ogni delinquente, c’è un eroe;che per ogni politico egoista c’è un leader scrupoloso… Gli insegni che per ogni nemico c’è un amico,cerchi di tenerlo lontano dall’invidia, se ci riesce,e gli insegni il segreto di una risata discreta.Gli faccia imparare subito che i bulli sono i primi ad essere sconfitti….Se può, gli trasmetta la meraviglia dei libri….Ma gli lasci anche il tempo tranquillo per ponderare l’eterno mistero degli uccelli nel cielo, delle api nel sole e dei fiori su una verde collina.Gli insegni che a scuola è molto più onorevole sbagliare piuttosto che imbrogliare…Gli insegni ad avere fiducia nelle proprie idee, anche se tutti gli dicono che sta sbagliando…Gli insegni ad essere gentile con le persone gentili e rude con i rudi.Cerchi di dare a mio figlio la forza per non seguire la massa, anche se tutti saltano sul carro del vincitore…Gli insegni a dare ascolto a tutti gli uomini,ma gli insegni anche a filtrare ciò che ascolta col setaccio della verità, trattenendo solo il buono che vi passa attraverso.Gli insegni, se può, come ridere quando è triste.Gli insegni che non c’è vergogna nelle lacrime.Gli insegni a schernire i cinici ed a guardarsi dall’eccessiva dolcezza.Gli insegni a vendere la sua merce al miglior offerente, ma a non dare mai un prezzo al proprio cuore e alla propria anima.Gli insegni a non dare ascolto alla gentaglia urlante e ad alzarsi e combattere, se è nel giusto.Lo tratti con gentilezza, ma non lo coccoli, perché solo attraverso la prova del fuoco si fa un buon acciaio.Lasci che abbia il coraggio di essere impaziente.Lasci che abbia la pazienza per essere coraggioso.Gli insegni sempre ad avere una sublime fiducia in se stesso,perché solo allora avrà una sublime fiducia nel genere umano.So che la richiesta è grande, ma veda cosa può fare…È un così caro ragazzo, mio figlio!

Abraham Lincoln, 1830

Gli insegni...Lettera che Abraham Lincoln scrisse nel 1830 all'insegnante di suo figlio.

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Primo problema: la disuguaglianza

L’Italia è un paese relativamentericco. La Fondazione Edison,sulla base dei dati Eurostat e dellaCommissione europea, ha calco-lato la ricchezza finanziaria nettadei cittadini dei vari Paesi europeinel 2011, misurandola in percen-tuale rispetto al PIL. Risultato: lefamiglie italiane sono in vetta allaclassifica, detenendo una ric-chezza netta (cioè calcolando ladifferenza tra risparmi e debiti)del 168%. Tanto per fare un para-gone, i tedeschi arrivano al 122%,gli spagnoli al 71% e i greci al47%. Subito possiamo obiettareche l’OCSE nel maggio 2011 hadichiarato che l’Italia è al primoposto in Europa per il divario traricchi e poveri. In altre parole,non abbiamo un problema di ri-sorse disponibili. Abbiamo unproblema di redistribuzione. Que-sto non può stupire, perché negliultimi 4 decenni l’aliquota suiredditi dei cittadini più ricchi èscesa progressivamente dal 72%al 43%. Al contrario le impostesui più poveri sono aumentate dal10% al 23%. In sintesi in Italia cisono molti soldi ma sono distri-buiti in modo molto diseguale.

Secondo problema: il debito pubblico In Europa ci batte soltanto la Gre-cia, che è oltre il 150% nel rap-porto tra debito pubblico e PIL.

L’Italia è ormai vicina al 130%, con un valore assoluto su-periore ai 2.000 miliardi di euro. È del tutto evidente chenon possiamo continuare su questa strada: sarebbe un sui-cidio economico. Sarebbe saggio, utile e necessario ridurreal più presto e il più possibile questo fardello, che - so-prattutto a causa degli interessi (quasi 90 miliardi di euro)- annichilisce le nostre possibilità di sostenere politiche so-ciali, scolastiche, sanitarie e lavorative adeguate. Ma dovepossiamo trovare le risorse per ridurre il debito? La rispo-sta in teoria è semplice: paghino quelli che possono pagare,cioè quelli che hanno pagato sempre di meno negli ultimi40 anni. Facile a dirsi, ma non altrettanto a farsi. Perchéper farlo basterebbe un economista liberale come Luigi Ei-naudi che nel 1946 a proposito di un’imposta patrimonialestraordinaria scriveva:

“L’imposta straordinaria sul patrimonio dice al contri-

buente:

«Vivi sicuro e fidente. Io vengo fuori ad intervalli rarissimi

(…) per mettere una pietra tombale sul passato (…).

Per l’avvenire tu pagherai solo le imposte ordinarie che

tu stesso, per mezzo dei tuoi mandatari in parlamento,

avrai deliberato per far fronte alle spese correnti dello

stato.

Saranno alte o basse a seconda tu vorrai.

Se tu amministrerai bene le cose tue non saranno mai gra-

vose.

Potranno essere alte; ma a te sembreranno leggere, per-

ché pagate per ottenere servigi più importanti dell’onere

delle imposte pagate»”.

Purtroppo negli anni successivi (inparticolare tra la fine degli anni’70 e l’inizio degli anni ’90) i no-stri “mandatari in parlamento”non hanno saputo far fronte allespese dello Stato che essi stessihanno deliberato e sono riusciti araddoppiare il rapporto tra debitoe PIL. Oggi è la generazione suc-cessiva che paga le conseguenze(compresi interessi) di quellescelte irresponsabili, con l’avallodegli elettori italiani.

L’aspetto veramente paradossale èche l’Italia da 20 anni chiude ilproprio bilancio con un utile diqualche decina di miliardi di euro,che immancabilmente si trasformain un deficit di qualche decina dimiliardi di euro a causa degli inte-ressi da pagare sul debito. In-somma, nonostante tutti i nostridifetti, siamo una società che eco-nomicamente andrebbe bene, senon fosse per i debiti pregressi.

Terzo problema: l’evasione fiscale Anzitutto in Italia abbiamo politicidi primo piano che hanno giustifi-cato l’evasione fiscale con il fattoche le tasse sono troppo alte (e chile avrebbe fissate così alte se nonil parlamento e il governo?). In re-altà in Italia le imposte non sonocosì elevate come si vorrebbe farcredere. Secondo i dati recente-mente forniti da Eurostat. nel 2011la pressione fiscale in Italia è statadel 42,8%. La media dell’Unione

Povera ItaliaRocco Artifoni

Redazione “L’incontro

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europea (27 stati) è stata del 40%. Lamedia dell’Area euro (17 stati) è stata del40,8%. Con un carico fiscale superiore al-l’Italia ci sono 6 nazioni: Danimarca48,6%, Belgio 46,7%, Francia 45,9%,Svezia 44,9%, Austria 43,7% e Finlandia43,6%. Senza gli interessi sul debito l’Ita-lia avrebbe un carico fiscale ampiamenteal di sotto del 40%. Se poi le tasse venis-sero pagate da tutti, la pressione fiscalepotrebbe scendere addirittura sotto il 30%.Infatti, una ricerca inglese (Tax ResearchLLP) del 2012 ha rilevato che in Europal’Italia è al primo posto per il valore asso-luto delle imposte evase (180 miliardi),che corrispondono al 27% delle entrate.La ricerca ha anche messo a confronto ildato dell’evasione fiscale con quello deldebito pubblico di ogni Paese. L’ipotesi èsuggestiva: se si riuscisse a recuperare leimposte non pagate e venissero utilizzateper pagare il debito pubblico, quantotempo sarebbe necessario per azzerare ildebito? Risposta: l’Italia sarebbe il Paesepiù virtuoso, poiché potrebbe ripianare ildebito pubblico in 10 anni, in un tempoinferiore a quello di Germania e Francia(13 anni) e Gran Bretagna (18 anni). Dettoin altre parole, noi abbiamo un debitopubblico enorme, ma anche un’evasionefiscale altissima (e questo accostamentoaiuta a capire ancora più chiaramente per-ché siamo così indebitati nonostante un li-vello medio alto di tassazione). Benché ildebito sia cresciuto anche a causa degli in-teressi, attraverso il recupero del som-merso, saremmo in grado di uscire dalladifficile situazione finanziaria in cui citroviamo più velocemente di qualsiasialtro Paese europeo. Alla luce di questidati ci si aspetterebbe un impegno delleistituzioni per contrastare seriamentel’evasione fiscale. Nel 2012 - pur realiz-zando il miglior risultato di sempre - sonostati recuperati soltanto 12 miliardi, cioèil 7% di quanto sfugge al fisco. Non solo:molti esperti segnalano che l’evasione fi-scale più rilevante è quella legata al reatodi “estero vestizione”, cioè la creazione disocietà fittizie all’estero per evitare la tas-sazione in Italia. La legislazione vigentenel nostro Paese non consente di utilizzarele intercettazioni telefoniche e ambientalicome strumento di indagine per questoreato. Al contrario il governo Berlusconi eil ministro Tremonti hanno approvato loscudo fiscale, consentendo il rientro legale

dei capitali illecitamente esportati, con ilpagamento di un misero 5% di imposta.Purtroppo l’Italia è anche il Paese con ilrecord dei condoni: fiscali, contributivi,edilizi, ecc.

Quarto problema: il gioco d’azzardo Nel 2000 la spesa degli italiani per ilgioco d’azzardo era di 14 miliardi di euro.Dieci anni dopo, nel 2010, è arrivata a 61miliardi. Nel 2011 a 80 miliardi. Nel 2012ha superato i 90 miliardi. Significa me-diamente oltre 1.500 euro pro-capiteannui, compresi i neonati. Pertanto, unafamiglia italiana di 4 persone spende me-diamente 500 euro al mese per lotterie,slot machine e poker online. I 90 miliardispesi per il gioco legale basterebbero a pa-gare gli interessi sul debito pubblico. Poic’è anche il gioco illegale, che è stimatotra i 10 e i 20 miliardi di euro. Molti ita-liani si lamentano per l’eccessiva tassa-zione del sistema tributario italiano. Nonsempre si tratta di critiche fondate. Maproprio ammettendo che la tassazione siatroppo elevata, resta da spiegare perchévolontariamente sprechiamo 90 miliardinei gioco d’azzardo. Con questi soldi latassazione potrebbe scendere di 9 puntiin percentuale. Infatti, con il 42,8% dipressione fiscale nel 2012 le entrate tribu-tarie sono state di 424 miliardi di euro.Ciò significa che 90 miliardi corrispon-dono al 9% di pressione fiscale. Si po-trebbe obiettare che lo Stato con i giochici guadagna ed è per questo che li pubbli-cizza persino in TV. Ma le entrate fiscaliper i giochi non arrivano a 10 miliardi dieuro, cioè circa il 10% del fatturato delsettore. Se però calcoliamo il costo socialedel gioco d’azzardo, probabilmente è lacollettività a rimetterci. Occorre infatticalcolare il costo delle équipes che si oc-cupano delle ludopatie, le famiglie che fi-niscono sul lastrico per il gioco e chedevono essere aiutate dai servizi sociali, idrammi familiari di chi vive situazioni didipendenza da gioco, ecc. Senza dimenti-care che le indagini della magistraturahanno dimostrato come il settore delgioco è molto appetibile per le organizza-zioni criminali e come la presenza di slotmachine negli esercizi commerciali fac-cia aumentare notevolmente la percen-

tuale dei furti . Da tempo è vietata la pub-blicità delle sigarette, perché nuoccionogravemente alla salute. Invece la propa-ganda a favore del gioco con i soldi è pro-mossa dallo Stato, che non deve per forzaessere un esempio di eticità, ma nemmenoè accettabile che si metta in prima fila inquesta opera di diseducazione. Perché, ri-cordiamocelo, le scommesse e l’azzardosono il contrario della solidarietà.

Quinto problema: la corruzione Scorrendo la classifica redatta nel 2012 daTrasparency International sul livello dicorruzione dei 180 stati del pianeta, tro-viamo l’Italia al 72° posto. In Europa sonomesse peggio di noi soltanto la Bulgaria ela Grecia. Ma se facciamo una correla-zione tra indice di corruzione e livello disviluppo del Paese, l’Italia è la nazionepiù corrotta del mondo. Con un calcolomolto approssimativo la Corte dei Contiha stimato che la corruzione costa al Paese60 miliardi l’anno. In realtà è sufficienteleggere “l’atlante della corruzione” diAlberto Vannucci (Edizioni GruppoAbele) per rendersi conto che il costoreale della corruzione è molto più elevato,non soltanto in termini economici, maanche sociali, culturali ed educativi. Re-cuperando i soldi sprecati per la corru-zione (ci sono opere pubbliche il cuiprezzo a causa delle tangenti e dell’inte-resse reciproco tra corrotto e corruttore èaumentato del 600%) potremmo sicura-mente pagare gli interessi sul debito pub-blico, tanto per fare un esempio. Outilizzarli per mettere in sicurezza antisi-smica delle scuole, per garantire un red-dito minimo a chi non trova o perde unlavoro, per migliorare l’efficienza energe-tica degli edifici pubblici, ecc. Per farlobisognerebbe anzitutto recepire piena-mente la convenzione europea del 1999contro la corruzione. L’Italia l’ha fatto sol-tanto nel 2012 con molte lacune e persinopeggiorando le leggi esistenti: ad esempioil reato di concussione di fatto è stato de-potenziato e il concusso è stato disincen-tivato a denunciare il concussore.Insomma, siamo il Paese più corrotto cheha le leggi meno severe contro la corru-zione. Tutto ciò attira in Italia chi vuolecorrompere e spinge in altri Paesi gli in-

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vestitori onesti. Il danno all’economia èincalcolabile. Libera e il Gruppo Abele inoccasione delle elezioni politiche di feb-braio hanno promosso la campagna “ri-parte il futuro” (www.riparteilfuturo.it),chiedendo ai candidati di sottoscrivere 4impegni per la trasparenza e uno contro lacorruzione: chiedere che il voto di scam-bio sia considerato un reato non soltantose è stato utilizzato denaro (come prevedela legge vigente), ma anche nel caso in cuivengano fornite “altre utilità”: appalti,posti di lavoro, favori, ecc. Su 15.187 can-didati soltanto 878 (cioè meno del 6%)hanno aderito e 276 sono stati eletti. Inaltre parole oltre il 70% dei parlamentarinon ha sottoscritto impegni contro la cor-ruzione. Con queste premesse è difficilepensare che riusciremo ad avere leggi mi-gliori. Alberto Vannucci scrive: “tutte le

politiche anticorruzione soffrono di una

debolezza di fondo, che si associa alla lo-

gica della ricerca del consenso tipica

della politica democratica”. C’è da me-ditare.

Sesto problema: le mafie Il giro d’affari della mafia SpA, secondoi dati presentati nell’ultimo rapporto “Lemani della criminalità sulle imprese” rea-lizzato da SOS impresa, è stimato in 140miliardi di euro, con 100 miliardi di utili(sottratti alla collettività). Si tratta dellapiù grande impresa italiana dopo lo Stato.La differenza è che lo Stato chiude ognianno il bilancio in deficit di oltre 50 mi-liardi. Se si riuscisse a dimezzare la po-tenza economica della mafia, lo statoitaliano nonostante tutto (sprechi, corru-zione, evasione fiscale, interessi sul de-bito) chiuderebbe comunque il propriobilancio in pareggio o addirittura con unutile. Giovanni Falcone diceva che lamafia, come ogni fenomeno umano, haavuto un inizio e sicuramente avrà unafine. Per abbreviare il tempo della fine bi-sognerebbe fare una seria lotta alle mafie,con convinzione e continuità, mettendo adisposizione risorse e mezzi adeguati. Lalotta alla mafia conviene anzitutto per ra-gioni economiche: per esempio in Italia ilcosto per intercettazioni telefoniche e am-bientali (strumento di indagine indispen-sabile per reati di mafia e non solo) è

ampiamente ripagato dal valore dei benipatrimoniali delle organizzazioni crimi-nali che vengono sequestrati, confiscati erecuperati all’uso sociale. Ci si aspette-rebbe che la classe politica incentivassel’utilizzo delle intercettazioni, ma da 20anni periodicamente riemerge il tentativodi limitarle. Basti dire che per sottoporread intercettazione un parlamentare biso-gna chiedere l’autorizzazione del parla-mento. Una norma palesemente ipocrita,poiché non ha alcun senso intercettare unapersona che sa di essere intercettata. Innome del diritto alla privacy abbiamo la-sciato ampio spazio a chi nella assolutaprivacy fa i propri affari criminali. Con ilsupporto di una classe politica miope efortemente compromessa. La Costitu-zione (art. 48) non consente ai condannaticon sentenza definitiva di votare. Nessunodei costituenti avrebbe immaginato che icondannati potessero candidarsi ed essereeletti, con voto democratico.

Ultima nota: la questione moraleSecondo la Costituzione non si potrebbevotare anche per incapacità civile e per in-degnità morale. Enrico Berlinguer nel1981 disse:

“La questione morale non si esaurisce

nel fatto che, essendoci dei ladri, dei

corrotti, dei concussori in alte sfere

della politica e dell’amministrazione,

bisogna scovarli, bisogna denunciarli e

bisogna metterli in galera.

La questione morale, nell’Italia d’oggi,

fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato

da parte dei partiti governativi e delle

loro correnti, fa tutt’uno con la guerra

per bande, fa tutt’uno con la concezione

della politica e con i metodi di governo

di costoro, che vanno semplicemente

abbandonati e superati.

Ecco perché dico che la questione mo-

rale è il centro del problema italiano”.

Sono trascorsi 32 anni, ma a quanto parela situazione è peggiorata. E purtropposulla scena politica attuale non si vedonopersonalità politiche paragonabili ai Co-stituenti (Dossetti, La Pira, ecc.) e nem-meno a Berlinguer. Non c’è più unavisione collettiva e un’idea di comunità,un senso di giustizia e di equità, il sentireil dovere inderogabile della solidarietà eil compito di rimuovere le cause dell’ine-guaglianza. La parola d’ordine prevalentesembra essere: ognuno per sé. Ma allorachiamiamola con il suo nome: “leggedella giungla” e non più “civiltà”. PoveraItalia.

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La cooperativa A.E.P.E.R è nata nel 1986 dall’intuizione dialcune persone: amici, educatori professionali e volontariche, dagli anni 70 prima e nell’80 poi con la costituzione del-l’Associazione AEPER poi, condividevano i temi dell’acco-glienza, della prossimità e dell’attenzione agli ultimi, dellaprevenzione…

Con la nascita della cooperativa si sceglie di professionaliz-zare l’intervento sociale introducendo l’elemento dell’im-prenditorialità. Questa scelta ha voluto mettere a disposizionedelle persone e delle comunità le competenze e le esperienzematurate in AEPER al fine di rispondere con crescente pro-fessionalità e cuore ai bisogni già presenti e quelli che si in-travedevano per il futuro.La cooperativa sociale A.E.P.E.R si ispira ai principi base delmovimento cooperativo: mutualità, solidarietà, democrazia,libertà.

Agli inizi si lavorava soprattutto nell’ambito delle tossicodi-pendenze, della salute mentale (psichiatria) e nella preven-zione del disagio nel territorio; nel corso del tempo si è sceltodi occuparsi anche di minori e famiglie lasciando le tossico-dipendenze che assumevano altre connotazioni e strategie dirisposta.

A seguito dell’incontro nel nostro lavoro quotidiano consempre più situazioni di preadolescenti e adolescenti con pro-blematiche neuropsichiatriche, la cooperativa ha scelto di in-

vestire in questa area: nel 2005 apre il primo servizio di neu-ropsichiatria della cooperativa.

Nella seconda metà degli anni 2000 la perdurante crisi fi-nanziaria ed economica impatta su strati differenti della so-cietà e modifica la quotidianità di giovani e famiglie finoraconsideratisi ‘al sicuro’: la mappa della vulnerabilità cambiaconfini ed intensità. Il tema del lavoro emerge in maniera cri-tica interessando sia ragazzi che cercano la prima occupa-zione che lavoratori più maturi chiamati a ripensarsi.La cooperativa sociale Aeper ha scelto di raccogliere la sfidainvestendo in due progetti che si occupano di lavoro: com-partecipa come socio nella fondazione della cooperativa so-ciale di tipo B Refit e investe nel settore della ristorazioneincoraggiando un gruppo di giovani cuochi e camerieri aspendersi nel catering.Nel 2012, grazie a questa esperienza, nasce il sogno del ri-storante La locanda dei golosi.

Cornice e storia della Cooperativa Sociale Aeper è e conti-nua ad essere con intenzione e intensità il Gruppo Aeper:la cooperativa sociale Il Varco, l’associazione Aeper, lacomunità Nazareth, la Fondazione don Primo Bonassicon il Edizioni Gruppo Aeper, la cooperativa sociale BRefit sono i compagni di viaggio che insieme continuanoad affrontare le sfide, le fatiche, le bellezze del mettere lapersona al centro.

• Laboratorio di scrittura creativa: nel mese di gennaio la prof.ssaAdriana Lorenzi ha curato per la cooperativa sociale Aeper un labo-ratorio di scrittura creativa che ha coinvolto dipendenti e soci. Obiet-tivo quello di esprimere, tramite la parola scritta, la propria esperienzadi Aeper. Ne è nato un libro ‘Cara Aeper ti scrivo’, pubblicato in oc-casione del Convegno per il 25° anniversario della cooperativa.• ‘VIAGGIATORI LEGGERI’ un convegno per il 25° anniversariodella cooperativa: il giorno 28 gennaio si è tenuto al cinema ConcaVerde di Bergamo una conferenza per riflettere sul percorso storico

della cooperativa sociale e sullo stato dei servizi oggi in Italia. Sono intervenuti Ivo Lizzola, Franco Floris, Marco Vincenzi, GianniTognoni.• Gestione volontari: è nato il coordinamento Cura dei volontari delGruppo AEPER. La cooperativa ne fa parte con il referente GiovanniCandiani.• Ufficio Progetti Europei: negli ultimi mesi del 2012 la cooperativaha avviato un Lavoro di territorio, in forma sperimentale, finalizzatoa valorizzare ed approfondire il proprio radicamento nelle comunità di

Chi siamo

Le novità 2012

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Judith Tasca

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La Cooperativa ha lo scopo di perseguire l’interesse generaledella comunità alla promozione umana ed alla integrazionesociale dei cittadini.

Si ispira ai principi che sono alla base del movimento coope-rativo mondiale, quali la funzione sociale della cooperazione,la mutualità, la solidarietà, la democraticità, lo spirito comu-nitario, la prevalenza del valore della persona sull’elementoeconomico, la relazione con il territorio e le pubbliche istitu-zioni, ed intende agire in rapporto ad essi.

La Cooperativa persegue inoltre l’obiettivo dell’accoglienzaverso persone in situazione di disagio ed emarginazione, dellaloro risocializzazione e del raggiungimento della loro auto-nomia personale, nonché della prevenzione del disagio stessoe della sensibilizzazione culturale in merito a tali tematiche.La Cooperativa intende realizzare i propri scopi sociali anchemediante il coinvolgimento delle risorse vive della comunità,dei volontari, dei fruitori dei servizi e degli enti con finalità disolidarietà sociale, attuando in questo modo, anche grazie al-l’apporto dei soci lavoratori, l’autogestione responsabile del-l’impresa.

Ha inoltre lo scopo di procurare ai soci continuità di occupa-zione lavorativa e di contribuire al miglioramento delle lorocondizioni economiche, sociali, professionali tramite l’eser-cizio in forma associata dell’impresa.

Si propone di raggiungere le sue finalità attraverso le seguentipolitiche di impresa sociale:

- La gestione di servizi socio-sanitari ed educativi - Lo svolgimento di attività diverse finalizzate all’inserimento

lavorativo di persone svantaggiate- La promozione e lo sviluppo delle comunità locali attraverso

progetti di potenziamento del protagonismo giovanile edelle realtà familiari

- Essere presenza attiva e significativa sul territorio con la vo-lontà di leggere i bisogni emergenti, di sviluppare ipotesidi risposta alle nuove emergenze sociali e attivare interventidi promozione delle risorse in collaborazione con le fami-glie, le comunità e i servizi pubblici

- Porre la persona al centro di strategie, progetti e linee di in-tervento tutelandone l’autonomia, le capacità e le risorse re-siduali.

Le azioni messe in campo al fine di interpretare al meglio lanostra mission sono state:- Miglioramento e consolidamento costante della qualità dei

servizi offerti- Flessibilità e professionalità degli operatori nello svolgi-

mento dei servizi- Radicamento nel territorio di riferimento- Piano formativo che ha previsto e messo in campo inter-

venti di formazione e aggiornamento- Ricollocazione delle risorse- Mantenimento delle opportunità lavorative- Uno sforzo è andato anche nella direzione di migliorare la

nostra capacità di coniugare l’aspetto sociale e quello im-prenditoriale, valore aggiunto questo che ci consente di con-tinuare ad essere un partner importante per la gestione deiservizi alle persone.

La consapevolezza di tale mission pone l’enfasi sulla capacitàsempre maggiore della nostra organizzazione di sapersi guar-dare dentro ed interrogarsi sugli obiettivi del proprio lavoro,sulla loro coerenza e raggiungibilità.

La Cooperativa nel perseguimento della missione per il pro-prio agire si ispira a questi valori presenti anche nello statuto:• La centralità della persona. La persona, con la propria sto-

ria, i propri bisogni e domande, le proprie risorse e capacità,è punto di riferimento costante dell’operare di ognuno, siaessa utente, socio o lavoratore.

• La centralità della relazione. Poiché l’uomo è costituzional-mente aperto all’altro, la cura della relazione interpersonaleè riconosciuta quale bisogno e raggiunta tramite l’acco-glienza e la promozione delle diverse capacità di espres-sione umana.

• La tutela e la promozione della persona. Ogni progetto edazione sociale vede la persona come fine e non comemezzo. Per questo essa è tutelata e facilitata nei suoi biso-gni di socializzazione, autonomia e piena cittadinanza, no-nostante le spesso dure situazioni di svantaggio sociale o dipersonale disagio.

• L’apertura al territorio e le logiche progettuali articolate. Allacomplessità della persona e dei bisogni si sommano le com-plessità del territorio ricco di molteplici apporti storici e cul-turali. La risposta dei servizi va pensata, dunque, inrelazione alla natura propria dei soggetti beneficiari e in-terlocutori.

• I significati dell’essere Cooperativa Sociale. La Coopera-tiva Sociale è un’impresa ove ogni socio ha eguali possibi-lità nelle scelte economiche e politiche, nonostante lediversità professionali, di inquadramento contrattuale o difunzione interna. Essa pone questo capitale a servizio delcontesto sociale, esprimendo la propria natura di soggettopolitico.

Missione

riferimento, cominciando da Torre de’ Roveri e Scanzorosciate, e le si-nergie che tale presenza può portare. L’interesse è quello di interloquire con tutti i soggetti della comunità,famiglie ed istituzioni, mondo profit ed associazioni… cogliendo i bi-sogni emergenti e mettendo a disposizione competenze e possibili col-laborazioni.• Nuovo piano della formazione: è stato approvato nel 2012 il nuovopiano triennale della formazione. Condivisi secondo un percorso par-tecipato temi e priorità formative per ogni area della cooperativa.

• Geode: è nato il nuovo centro di servizi per la neuropsichiatria.L’obiettivo è di garantire una presa in carico completa, tempestiva e si-stemica del minore con difficoltà di apprendimento.• New Generation Catering: si è consolidata nel 2012 l’esperienza dicatering del gruppo di giovani guidati dal cuoco Michele.Il seme di un progetto che prende forma con La Locanda dei Golosi.• Refit: nasce l’11/07/2012 la cooperativa B Refit impresa cooperativache inserisce persone portatrici di invalidità e opera nel settore dellameccanica. Aeper ne è socia fondatrice. ►►

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Organizzazione

• Progetti Europei: la cooperativa sociale Aeper apre lo sguardo al-l’Europa alla ricerca di partnership, ispirazione e nuove linee di finan-ziamento. La cooperativa sociale Kara Bobowski di Forlì ci haaffiancato per l’avvio dei nostri progetti con una consulenza ed una for-mazione per gli operatori dell’area politiche giovanili e del territorio. Agiugno abbiamo partecipato ad un seminario per la costruzione di par-tnership a Biarritz. A novembre abbiamo presentato, e vinto, il primoprogetto con il programma Gioventù in azione. Sempre a novembreabbiamo iniziato a rappresentare il CNCA alla rete europea sugli affidi

APFEL insieme a ‘La grande casa’. To be continued…• Giornata dei volontari: si è tenuta il 12 maggio la serata ‘Il rumoredel silenzio’ per e con i volontari di Aeper. Un momento di aggrega-zione e di riflessione comune per valorizzare il patrimonio di energievolontarie presenti in cooperativa.• Festa dei dipendenti per il 25° anniversario: per continuare a viag-giare leggeri il 31 marzo la cooperativa ha organizzato una festa per isuoi dipendenti.

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Cooperativa Sociale A.E.P.E.R.

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• Collaborazione con Chiringuito: il 7 luglio i Cornoltis e i Marbarahanno supportato la candidatura di Aeper e del suo progetto di crea-zione di un ‘service musicale’ presso il concorso indetto al Chiringuitosugli spalti di Città Alta. Aeper è arrivata terza.• Laboratorio soci: il dott. Marzo Zanchi ha condotto nella prima-vera del 2012 tre serate laboratoriali aperte a soci e dipendenti per ra-gionare su vissuti e desideri relativi alla cooperativa. Un esercizio dipensiero collettivo ricco di spunti e di confronti.• Progetto Conciliazione: È partito nel 2012 il progetto Conciliazione

finanziato dal Ministero dell’Interno con l’obiettivo di facilitare l’oc-cupazione di mamme e neo-mamme. Il progetto prevede la disponi-bilità di baby-sitter a domicilio, l’attivazione di spazi di cura durantele vacanze scolastiche, la predisposizione di colloqui di ascolto per ac-compagnare il rientro al lavoro delle neo-mamme.• Gruppo Cura dei Soci: È nato nel 2012 il Gruppo Cura dei Sociformato da alcuni dipendente e soci della cooperativa con lo scopo direndere più agevole e partecipata la vita della base sociale e di prepa-rare le assemblee che di tale partecipazione sono strumento.

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Ma come è venuto in mente ad una Cooperativa so-ciale come la nostra di aprire un ristorante e un cate-ring? Noi non ci occupiamo di ristoranti, ma dipersone. Ed è proprio qui il cuore di questa scelta, partire dallepersone e in particolare da una persona ‘Michele’ conil quale abbiamo condiviso prima un pezzo di stradainsieme fino condividere un sogno insieme: sviluppareuna collaborazione per realizzare servizi di cateringnei quali coinvolgere giovani neomaggiorenni o neiprogetti di autonomia. Un sogno che ci fa conoscere eapprezzare le sue abilità culinarie messe in campo conoltre un anno di sperimentazione.

Si sono intrecciati i percorsi della cooperativa Aeper(da alcuni anni stava riflettendo e avviando piccolesperimentazioni legate all’area del lavoro, lavoro e

giovani in una logica di investimento imprenditorialeoltre che sociale) e scelte professionali e di vita di Mi-chele. Intreccio che ha fatto sì che il 21 marzo 2013aprisse “La locanda dei golosi”, il ristorante della Coo-perativa Aeper, una vera promessa di felicità culina-ria.

I sogni a volte si avverano e così è per “La locanda deigolosi” che oltre ad offrire un servizio di ristorazionedi grande qualità si prefigge di essere una buona ri-sorsa e un’utile palestra per i molti giovani che ac-compagniamo in modo diverso per un tratto della lorovita. E anche per tutti quei giovani che desiderano po-tersi sperimentare nell’ambito della ristorazione perarrivare ad acquisire quelle abilità e competenze ne-cessarie per inserirsi nel mondo del lavoro.

Questo progetto è un ulteriore passo in avanti che ri-

La locanda dei golosi

I protagonisti

Judith Tasca

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sponde anche alle crescenti difficoltà di trovare spazio epotersi sperimentare nel mondo del lavoro. È pensatocome un’opportunità di inserimento lavorativo di gio-vani di talento e non solo. È uno slogan visto che gio-vani lo sono davvero, visto che l’età media di chi vilavora è di 19/20 anni, e a loro è assicurata la possibilitàdi mettere in gioco idee ed abilità.

I protagonisti di questa attività sono in primis Michele,chef di soli 23 anni ma con le idee già molto chiare. Haterminato gli studi e ora insegna presso l’Abf di Bergamoi segreti della cucina ai ragazzi più giovani. Ha lavoratoin alcuni ristoranti e questo gli ha permesso di acquisiredi persona le abilità da mettere per gestire la cucina di unristorante. Altri protagonisti importanti sono sicuramentei giovani, che, a diverso titolo, entrano a far parte delprogetto di ristorazione. Sono quelli che già oggi lavo-rano nel ristorante, quanti si avvicinano per tirocini la-vorativi adatti ad imparare e mettere in pratica tutto ciòche non sono riusciti ad esprimere nel mondo del lavoroe quindi da esso estromessi. Oggi in un contesto comequello della ‘Locanda’ possono esprimere al meglio ca-pacità e abilità.

Regista e protagonista insieme ai giovani di questa im-presa è la Cooperativa Sociale Aeper (insieme a tutto ilGruppo Aeper), che lavora sul territorio bergamasco daoltre 25 anni e si dedica da sempre alle persone che vi-vono questo territorio: bambini, famiglie, giovani eadulti di diverse età, in condizioni di normalità, di fragi-lità e di disagio. L’investimento è nei confronti delle fa-miglie in situazioni di vulnerabilità, adolescenti conquadri complessi, giovani e adulti con disagio psichico.

Gli operatori della cooperativa affiancano questi giovani,realizzano con loro percorsi formativi e poi li aiutano adinserirsi nel mondo del lavoro. Spesso tra loro nasconolegami profondi che durano nel tempo.

Michele ha messo energia e quintali di coraggio in coo-perativa, lavorando alacremente per trovare sostegno eaiuti concreti nella realizzazione di questo progetto de-dicato ai giovani che hanno desiderio ed energie da spen-dere nell’ambito della ristorazione e che hanno bisognodi un luogo in cui esprimere il loro talento, di una pale-stra in cui diventare grandi.

Il ristorante nasce dunque dall’impegno dei professioni-sti della cooperativa e grazie ai tantissimi volontari chesi sono adoperati nel dipingere, smontare, inchiodare,pulire… per realizzare passo dopo passo un locale cheavesse il più possibile l’aspetto desiderato.

Eleganza e semplicità

Le golosità

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Il lavoro è stato tanto, tantissimo. Michele e i giovanidella ‘locanda’ prima di sperimentarsi in cucina si sonosperimentati nei diversi lavori necessari alla ristruttura-zione: grattare e ridipingere i caloriferi, togliere pia-strelle, pitturare, pulire e tanto altro… Fondamentale è stato l’insegnamento di un gruppo di vo-lontari che, ingaggiati con l’idea di realizzare alcuni ri-tocchi al locale, hanno fatto sì che con il loro preziosolavoro il locale la faccia la cambiasse proprio. Un gra-zie a tutti i volontari della “Locanda dei golosi”.

L’inaugurazione del 1° giugno ha avuto un grande suc-cesso. Tantissime le persone che vi hanno partecipato e chehanno potuto gustare i piatti preparati dai nostri cuochi.Sono state presenti diverse realtà del territorio: l’Asso-ciazione Giovani Artigiani di Bergamo, il ConsorzioCittà Aperta, il sindaco di Villa d’Almè e di Scanzoro-sciate, le aziende che ci hanno sostenuto, il ConsorzioLa Cascina, i volontari, le tante famiglie affidatarie eamiche, tanta gente del territorio e amici che a diverso ti-tolo hanno voluto condividere con il Gruppo Aeper que-sto importante momento e progetto… Non sono mancatiapprezzamenti e incoraggiamenti, sono giunti tanti mes-saggi che ci confermano che questo è un sogno che si èrealizzato e che può avere un futuro: mettere in connes-sione l’attenzione al sociale con la scelta di fare impresa.

La “Locanda dei golosi” è una promessa di felicitàculinaria nella quale viene valorizzata la passione per idiversi aspetti della cucina che vanno dalla carne al pesce(sempre fresco! regola di Michele), alla passione e cu-riosità per i dolci che Michele ha costruito nei menùestremamente golosi (il nome della ‘Locanda’ non è natoa caso). Si realizzano in proprio paste fresche, casoncelli,pane, cracker, grissini e dolci che oltre a dare una mar-cia in più alla proposta gastronomica rappresenta un ul-teriore banco di prova per esplorare le inclinazioni deigiovani coinvolti. Ulteriore elemento di forza è datodalla presenza nel Gruppo Aeper dell’Agriturismo LaPèta di Costa Serina che si occupa di produzione e ri-storazione di qualità. La Pèta di Costa Serina produceformaggi di capra, salumi, miele da cui direttamente ciforniamo.

“La Locanda dei Golosi” si trova a Villa d’Almè in ViaRonco Basso, 13 e offre fino a 120 coperti. Una partico-lare attenzione è messa in campo nei confronti delle fa-miglie con bambini grazie ad una sala e ad uno spazioall’aperto entrambi attrezzati per giochi, letture, diverti-mento… Da non dimenticare la scelta di avere molti pro-

Lo spazio dei piccoli

Lavori in corso

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Un marchio giovane

dotti a filiera corta. Non manca l’attenzione di valoriz-zare reti di solidarietà come la scelta di utilizzare i vinidi Libera. A mezzogiorno c’è il menu a prezzo fisso. Nelmenu alla carta si va dalla carne al pesce, ai piatti vege-tariani e per celiaci, senza dimenticare la tradizione ber-gamasca. I dolci (e non poteva essere diversamente)godono di una particolare attenzione. Caratteristico è in-fatti il buffet che può arrivare ad ospitare fino a 32 va-rietà diverse di dessert.

Preparare un buon menu è farci complici intenzionaliverso le persone che vengono alla ‘Locanda’ per per-mettere loro di trovare e rinnovare il gusto dello stare in-sieme, di vivere quella convivialità di cui tutti sentiamoun grande bisogno. Il cibo, una tavola bene preparata, ilclima e l’accoglienza che i giovani offrono… ci sem-brano aspetti molto importanti per permettere alle per-sone di trovarsi e… per gustare la vita!

Alcuni protagonisti...

... con alcuni amici

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speciale

La crisi che interessa ormai da anni il mondo occidentalenon ha risparmiato quasi nessun settore produttivo, ma traquelli più colpiti vi è sicuramente quello della meccanica.Pur rimanendo presenti alcune eccellenze sia in Italia sianel territorio bergamasco, molte aziende hanno dovutochiudere o almeno ridimensionarsi, con evidenti conse-guenze sul piano dell’occupazione.Eppure proprio in questo settore le Cooperative SocialiAEPER e Il Varco e una decina di soci a titolo individualehanno deciso di far partire, nel luglio dello scorso anno, unanuova azienda: la Cooperativa Sociale ReFit.ReFit intende inserirsi in un particolare ambito produttivodella meccanica: quello del recupero e del riutilizzo di partidelle macchine utensili e delle macchine automatiche o acontrollo numerico.Nella sola provincia di Bergamo vi sono oltre 25.000 mac-chine utensili attive, molte delle quali in attività già da di-versi anni.Lo smaltimento di queste macchine, complessivamente nonpiù idonee alla produzione, è normalmente un problema perle aziende. Il progetto imprenditoriale della Cooperativa èdi trasformarle in utilità attraverso il recupero delle partimeccaniche, ottiche, elettriche ed elettroniche funzionantied utilizzabili su altre macchine già attive in altre aziende.Un recupero di parti che, soprattutto in tempi in cui acqui-stare una nuova macchina utensile è spesso un investimentoproibitivo per le piccole e medie aziende, può rivelarsi im-portante al fine di mantenere in uso le macchine già instal-late.L’attività ha inoltre un risvolto ecologico, perché permettedi evitare lo spreco e di usare ciò che ancora funziona.La Cooperativa si propone quindi di ritirare le macchineutensili, smontare e pulire le parti meccaniche, ottiche, elet-triche ed elettroniche funzionanti, creare un magazzino diparti di ricambio, commercializzarle anche attraverso larete internet, provvedere al riciclo delle parti dei macchinarinon più utili (es. parti in ghisa).Attraverso specifici accordi con le aziende produttrici, la

prospettiva è inoltre di creare un centro di commercializ-zazione di parti di ricambio sia nuove sia usate, entrando inpartnership con queste aziende e con l’obiettivo di avviareun magazzino da gestire tramite apposito software da partedella Cooperativa ReFit per fornire il miglior servizio pos-sibile alla clientela, almeno a livello provinciale ma ten-denzialmente valido per tutto il nord Italia.

Questa attività non è fine a se stessa: lo scopo principaledella Cooperativa è quello di favorire l’inserimento lavo-rativo di persone svantaggiate, creando opportunità che per-mettano l’ingresso nel mercato del lavoro a persone che,pur in grado di esprimere buone capacità, a causa delle pro-blematiche che hanno vissuto (in particolare disturbi psi-chici) non potrebbero sostenere le richieste e i ritmi di unluogo di lavoro “ordinario”.ReFit sta muovendo i primi passi, ma i primi mesi sono giàstati significativi:

■■ Sono stati sviluppati accordi con un’azienda per l’ac-quisto delle macchine obsolete che vengono smontateper poterne poi pulire e riutilizzare le parti funzionanti;

■■ È stato preso in affitto un piccolo capannone a TorreBoldone dove si sta svolgendo l’attività;

■■ Attualmente sono impiegati in ReFit un operaio addettoallo smontaggio, pulitura e catalogazione dei pezzi, unapersona svantaggiata impiegata nelle medesime man-sioni, un addetto alla commercializzazione e una per-sona che crea accordi con fornitori e clienti, facendoconoscere sul territorio l’attività di ReFit.

Il lavoro da fare non è né poco né semplice e la sfida è cer-tamente ardua.Le premesse perché ReFit possa svilupparsi ed essere unanuova realtà che nel panorama bergamasco possa offrireoccasioni di lavoro però ci sono tutte, e potranno svilup-parsi ancora meglio se si creerà intorno alla Cooperativauna rete di attenzione e rapporti di lavoro, dentro e fuori ilGruppo AEPER.

La Cooperativa Sociale ReFitUna nuova azienda meccanica per creare lavoro e innovazione

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L’OPERA

“Parole Evase” è un libro di lettere attraverso cui DavideCerullo compie “una cosa semplice e pulita: offre a chilegge un titolo di ingresso al mattatoio del tempo perduto,e un lasciapassare alle parole strozzate lì dentro”. Vienecosì data “voce a chi sta sigillato dentro il nostro catastro-fico sistema penitenziario. Voce di lettere che chiedonoascolto o semplicemente raccontano, fanno i conti, spie-gano, si arrendono, si aggrappano… Nessun potere ha laforza di imprigionare le parole”. Davide Cerullo le dif-fonde, fa “il postino di lettere che sarebbero rimaste in gia-cenza, non consegnate a noi che le leggiamo”. (dallaprefazione di Erri De Luca)

Davide Cerullo si assume l’impegno di parlare delle con-dizioni delle carceri italiane e di raccontare delle donne edegli uomini che lì vivono. Ha conservato ogni parola sulcarcere, le lettere anonime e quelle infilate di nascosto neipacchi alle famiglie con i panni da lavare, così come pa-role e confidenze fattegli dai detenuti. Queste parole lo ac-compagnano. E a queste parole cerca di dare alito e libertà.

L’AUTORE

Davide Cerullo è nato nel 1974 alla periferia di Napoli. Èil nono di quattordici figli. Nel 1980 si trasferisce con lafamiglia a Scampia, in una delle Vele. Conosce ben prestola povertà ed affronta una penosa e dura esperienza comepastore del gregge di suo padre. Strappato alla scuola al-l’età di tredici anni, viene arruolato nella malavita che locondurrà nell’infernale ingranaggio del sistema camorri-stico. Durante un periodo di detenzione nel carcere di Pog-gioreale, entra in contatto con il Vangelo grazie a una copiatrovata sulla propria branda al rientro dall’ora d’aria e lì la-sciata chissà da chi. Dal libricino strappa alcune pagine cheporterà con sé e che costituiranno un incessante motivo diinquietudine. Davide inizia così a intravedere una possibi-lità di riscatto, conducendo una vita normale e intrapren-dendo un cammino di recupero non agevole, ancorapunteggiato da cadute e parecchie sconfitte. Oggi ha ritro-vato il proprio equilibrio interiore grazie anche alla re-sponsabilità assunta nei confronti della famiglia che haformato con sua moglie Patrizia. Oggi vive tra Scampia ela provincia di Modena. Coltiva la passione per la poesia ela fotografia. Il suo impegno di testimone e di scrittore haa cuore il destino dei bambini di Scampia e i volti delledonne e degli uomini privati di libertà.

Parole evase Prefazione di Erri De LucaPagine: 176 - Formato: 14 x 21 cm

Prezzo: € 10,00ISBN: 978-88-98515-00-4

Pubblicazione: maggio 2013

PAROLE EVASEDavide Cerullo

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ideato dall’architetto Renzo Pedrini e dall’artista francese Arcabas.

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per la cameretta del bambino e per la stanza dell’adolescente.

Osiamoguardare il futuro

con speranza.Ancora.

Perchè sappiamoche chi spera osa

chi osa amae chi ama

non è mai soloe chi non è solo

camminacustode del fuoco

di chi sempreha speranza.

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Hanno scritto per L’incontroDavide AgazziSilvio AgazziMaria L. AgostinelliVinicio AlbanesiChiaretta AldeniEdoardo AlgeriCarlo AltavillaRoberto AmadeiBruno AmbrosiniFabio AmigoniGiuseppe AngeliniMauro ArnoldiElio ArtifoniRocco ArtifoniMattia ArtifoniOliviero ArzuffiBarbara AvanziLucio BabolinChristoph BakerRosanna BaloccoVirgilio BalducchiDonata BalosettiSilvia BarbieriAnna BarbatoPietro BarbettaMarcelo BarrosMaria Teresa BattistiniBertha BayonTonino BelloMilena BellomettiAndrea BelottiMarco BelottiOsvaldo BelottiManuela Benassi B.Franco BenziRosanna BenziPaola BergamelliElena BerlandaMarcello BernardiMarco BernuzziMario BertinLuca BetelliCinzia BettinaglioFrei BettoGiovanni BianchiIlaria BianchiniDebora BillyLinda BimbiLèon BloyFrançois BoespflugGianluca BocchiLeonardo BoffWaldemar BoffAlberto BonacinaBasilio BonaldiVincenzo BonandriniEugenio BorgnaSaverio BorrelliElena BougleuxChiara BrambillaGino BrembillaSilvia BrenaRenato BrescianiGiulio BrottiEmilio BrozzoniRita BrozzoniRoberto BruniElena BuccolieroGiulio CaioMarcello CandiaAldo CapitiniLuigi CavagnaroGiorgio CampaniniMassimo CampedelliFabio CanavesiAntonino CaponnettoMarco CaraglioNatale CarraAlberto CarraraDeborah CartisanoPaolo CasaldàligaRaffaele CasamentiAngelo Casati

Lino CasatiFiorenza CattaneoAugusto CavadiMonica CelliniAntonio CensiLuigi CepparonaDavide CerulloMauro CerutiMaurizio ChiodiPierangela ChiodiGiuseppe CicchiLuigi CiottiMichel ClévenotPier CodazziMichel CollardGiuseppe ColomboSergio ColomboMassimiliano ColombiGiovanni CominelliLucia ContessaLuciano CorradiniMarzia CoterRoberto CremaschiRosario CrocettaAngelo CupiniNando dalla Chiesa Tania De RosRaffaele De GardaGaia Del PratoDuccio DemetrioHrant DinkCarmelo Di PrimaMartino DoniJohnny DottiMarco DottiFabio DovigoSilvia DradiStefano DubiniMarek EdelmanCecilia EdelsteinNicola EynardGennaro EspositoFranca EvangelistaEdoardo FacchinettiOrnella FaveroBiagio FerrariRosella FerrariGaetano FarinelliMarcella FilippaAdriana FinazziAlessandro FinazziAurelia FoglieniSerena FoglieniGiorgio ForestiGianpietro ForlaniLaura FormentiGuido FormigoniAda FranchiAnita FrankovaMassimiliano FrassiMariangela FuscoRita GayClaudio GalanteEdoardo GaleanoStefano GallianiSimona GambaraEros GambariniColette GambiezPiero GaravelliPiero GheddoGabriella GhermandiMario GhidoniGiorgio GhilardiLuisa GhisleniEnrico GiannettoRiccardo GiavariniGilberto GilliniGiorgio GirardetGianpaolo GirardiStefano GiudiciMarcello GiulianoPaolo GiuntellaAnna Granata

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Milena OrlandiSilvia OrlandiCatia OrtolaniAngelo PaganiM. Grazia PanigadaArturo PaoliGiovanni ParimbelliMarco ParisiTeresella ParvopassuMax PavanRenzo PedriniSilvia PedriniMarco PellegriniRoberto PennatiAdriano PeracchiAntonio Peri CampanaEmanuele PersoneniRosangela PesentiSusanna PesentiFabio PessinaSilvano PetrosinoBarbara PezzinniPasquale PezzoliTarcisio PezzoliSimona PianettiAngelo PiazzoliFerruccio PiazzoniSimona PilichiFilippo PizzolatoCarmen PlebaniTarcisio PlebaniRosita PoloniGiusi PomaGaetano PorcelliAlberto PredaAlessandro PronzatoGiusy QuarenghiSilvana QuadrinoPaolo RacitiMarcello RagazziEmanuele RainoneAnna RaybaudiStefania RavasioEmanuela RebuciniFausto ResminiMarco RhoSalvatore RicciardiPaolo RicoeurFabrizio RigamontiElisa RipamontiGianni RiottaArmido RizziFelice RizziDaniele RocchettiSandro RodiniAlessandro RomelliPatrizio Rota ScalabriniGiovanni RuggeriGianfranco SabbadinStefano SabbadinRenato SabbadiniLuigi SaitaGiuseppe SalaIgor SalomoneClaudio-Fiorenza SalvettiDiego SalviGiancarlo SalvoldiUmberto SantinoDavide SapienzaAnna SarnataroBrunella SarnataroFrancesco SarnataroRiccardo ScalvinoniLuigi ScandellaAnna Z. SchenaVittorio SgarbiMario SignorelliMario SchermiPietro SerinaMichele SerraMariditta ServidatiStefania SessaSandro Sesana

Raffaele SeveriMario SignorelliOliviero SignorelliPilar SolìsChiara SoloniFederica SossiSilvia SpinelliPiero StefaniJean Luis SkaWalter TarchiniJudith TascaLaura TidoneRaoul TiraboschiStefano TomelleriAnnalena TonelliGiorgio TorelliFranco TraviAntonia TrontiDavid Maria TuroldoMarco UbbialiPatrizia UbialiRenata UsuelliGabriella Vaccaro9Graziella ValenzaOmar ValsecchiErnesto VavassoriBruno VedovatiElena VenturaMichelangelo VenturaGuido VeroneseSerena VerrecchiaG.Gabriele VertovaLaura ViganòG. Mario VitaliPatrizia VitaliAlberto VivantiUmberto VivarelliMonika Von WunsterAnnalisa ZaccarelliMatteo ZambettiMilvia ZambettiLuigina ZanaChiara ZanchiDebora ZanchiGiuliano ZanchiMarco ZanchiSara ZaniboniAlex ZanotelliLuciano ZappellaSonia ZaraAdriana ZarriM. Teresa ZattoniFederico ZeriAlessandro ZicheElena ZoncaGiulia e PitoMons. AntomiuttiSr. Dolores, domenicanaSr. GabriellaArrigo di CamaldoliMarco di CamaldoliPatrizia di CamaldoliJohn di TaizéRoger di TaizéComunità del PaneGruppo per il KosovoGAS Bassa V. SerianaSegreteria MigrantiAssocianimazioneAss. Turismo Resp.Ass. LiberaFamiglia CristianaCaritas CremonaCaritas EuropaCoord. Prov. LiberaComunità di MamreMaria Chiara di GesùMedici senza frontiereGiovani ACLI Gruppo “La strada”

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E nuovi spiraglidi terre e di cieli

Emanuele Rainone