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CHIRURGIA GENERALE

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CHIRURGIA

GENERALE

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VALUTAZIONE PREOPERATORIA

La valutazione preoperatoria del paziente si basa sull'identificazione della patologia di base per laquale il paziente è venuto all’osservazione del medico, e anche su una definizione completa delle

condizioni generali, che ha i seguenti scopi:

• identificare il paziente a rischio di complicanze anestesiologiche e chirurgiche;• preparare il paziente all’intervento;• prevenire le complicanze postoperatorie.

Una valutazione completa delle condizioni generali richiede:• Anamnesi. Particolarmente importante è l’indagine anamnestica relativa a: assunzione di

farmaci, coagulazione, allergie, intolleranze farmacologiche (per es. antibiotici),

problemi in occasione di precedenti anestesie.

• Esame obiettivo completo: sistema nervoso centrale e periferico, apparato respiratorio,

apparato cardiocircolatorio, cute e mucose visibili, apparato genito-urinario, fegato.• Esame RX del torace in due proiezioni (postero-anteriore e laterale).• ECG.

• Esame delle urine.

• Emocromo completo.

• Determinazioni ematochimiche fondamentali: azotemia, glicemia, elettroliti (sodio,potassio, calcio, cloro), transaminasi, bilirubina, ALP, creatinina, albumina, proteine totali.

• Prove di coagulazione del sangue (tempo di Quick, INR, PTT, conta piastrine).• Determinazione della concentrazione delle pseudocolinesterasi plasmatiche (per i

pazienti candidati a ricevere farmaci curarizzanti).

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VALUTAZIONE DEI FATTORI DI RISCHIO

E' difficile stabilire il rischio globale per il singolo paziente.La valutazione complessiva del rischio deve essere differenziata in relazione:

• alle condizioni generali del paziente;• alla patologia specifica;• al tipo di intervento chirurgico a cui il paziente è candidato.

La classificazione del rischio anestesiologico più utilizzata è quella della American Society ofAnesthesiologists (ASA) che divide il rischio in 5 classi:

• Classe I: nessuna alterazione organica, biochimica, psichiatrica ( per esempio un'erniainguinale in paziente sano);

• Classe II: malattia sistemica lieve, che non esita in una compromissione funzionale

(obesità moderata, bronchite cronica, diabete controllato, ipertensione arteriosa moderata,infarto del miocardio di vecchia data);

• Classe III: malattia sistemica severa non invalidante, che risulta in compromissione

funzionale (cardiopatia ischemica severa, diabete insulino-dipendente, obesità patologica,insufficienza respiratoria moderata);

• Classe IV: malattia sistemica severa con prognosi severa, determina un costante pericolodi vita e pregiudica la sopravvivenza indipendentemente dall'intervento chirurgico(insufficienza cardiaca severa, insufficienza respiratoria, renale, epatica ed endocrina,angina instabile, aritmie refrattarie al trattamento);

• Classe V: paziente moribondo che non sopravviverà alle successive 24h, che vieneesposto all'intervento chirurgico come ultima possibilità (rottura aneurisma aorta con gravestato di shock).

Eta

L’età neonatale e l’età geriatrica (> 70 anni) rappresentano condizioni di aumentato rischioanestesiologico e chirurgico.Pazienti chirurgici neonati:

• maggiore suscettibilità alle infezioni per l’incompleto sviluppo del sistema immunitario;• problemi anestesiologici e chirurgici, in relazione alle ridotte dimensioni corporee;• diminuita tolleranza alle modificazioni dell’omeostasi idroelettrolitica e termica.

Il paziente chirurgico geriatrico presenta 3 categorie distinte di problemi:• l’aumentata probabilità di patologie concomitanti;

• le naturali alterazioni degenerative dei vari apparati, in particolare di quellocardiocircolatorio, respiratorio, renale, del sistema nervoso centrale e del fegato;

• uno stato di disidratazione (trattamenti con diuretici, diminuito apporto di liquidi) o didenutrizione, presentando quindi una aumentata suscettibilità alle infezioni;

Malattie respiratorie e fumo

Valutazione preoperatoria dell’apparato respiratorio:• presenza di tosse produttiva o secca, di emottisi, d’asma, di dispnea;• recenti polmoniti;

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Il fumo deve essere sospeso 4-6 settimane prima dell’intervento per ridurre la morbilitàpostoperatoria.

All’esame obiettivo del torace si ricercheranno rumori patologici e si valuterà il tempo inspiratorioed espiratorio. Individuati i pazienti a rischio:

• terapia broncodilatante, mucolitici;• eradicazione dei processi infettivi acuti e controllo di quelli cronici;• fisioterapia respiratoria;

Le complicanze polmonari perioperatorie di più frequente riscontro sono:• l’atelettasia;• la polmonite

Eseguire di routine l'RX del torace e, se necessario, la spirometria e la emogasanalisi.

Malattie cardiovascolari

Valutazione cardiocircolatoria:• anamnesi ed esame obiettivo cardiaco• RX torace nelle due proiezioni, postero-anteriore e laterale;• ECG

E' necessario in particolare ricercare:• la presenza di una eventuale cardiopatia ischemica in atto o i suoi esiti (un infarto del

miocardio negli ultimi 6 mesi controindica l’intervento chirurgico di elezione);• grado di riserva coronarica• patologia valvolare• turbe del ritmo e della conduzione.

Una volta accertata la preesistenza di patologia coronarica sono indicati:• ECG da sforzo• ECG secondo Holter• ecocardiografia• valutazione della frazione di eiezione

I pazienti portatori di patologia cardiovascolare possono essere inquadrati in 4 classi secondo laclassificazione della New York Heart Association (NYHA). Generalmente i pazienti appartenentialle classi 1 e 2 tollerano bene l’intervento chirurgico, mentre nelle classi 3 e 4 si ha un aumentodella mortalità postoperatoria.

Terapia farmacologica e igienica del paziente cardiopatico: digitale, diuretici, antiaritmici,calcioantagonisti, beta-bloccanti, dieta, infusione di liquidi.

Diabete

Complicanza più temibile:• chetoacidosi per diabete di tipo I• coma iperosmolare per diabete tipo II

Nella valutazione del paziente andranno puntualizzati:• il tipo di diabete• la terapia in atto (dieta, ipoglicemizzanti orali, insulina)• glicemia, emoglobina glicata• eventuali episodi pregressi di coma diabetico ed ipoglicemia

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• i segni delle principali complicanze del diabete a livello renale, nervoso e vascolare.

Nei pazienti da sottoporre ad intervento chirurgico minore in trattamento con ipoglicemizzanti orali,controllare la glicemia e sospendere la terapia in atto in caso di digiuno.Se l’intervento è di entità maggiore, sostituire l’ipoglicemizzante orale con il trattamento insulinicoalcuni giorni prima dell’intervento.Occorrerà inoltre prestare attenzione ad evitare episodi di ipoglicemia prolungata, infatti questipossono determinare sequele ben più gravi per il paziente che non quelle provocate da modicheiperglicemie. L’obiettivo nel postoperatorio sarà quello di evitare sia il coma ipoglicemico sia ilcoma iperglicemico e di mantenere la glicemia tra 80 e 170 mg/dl, evitando quindi glicosuria.

Obesità

Alterazioni fisiopatologiche:• maggiore incidenza di cardiopatie e di accidenti vascolari cerebrali• diminuita riserva cardiorespiratoria• aumentata incidenza di vasculopatia arteriosclerotica e trombosi venose.

Denutrizione

La denutrizione è una condizione patologica che assai spesso si associa alla comparsa di gravicomplicanze postoperatorie ed anche ad una maggiore mortalità. La compromissione dello stato dinutrizione è caratterizzata dalla deplezione delle riserve energetiche e della massa corporea cellularemagra, che determina una ridotta efficienza dei meccanismi di difesa aspecifici e specifici. Un caloponderale (non volontario) superiore al 10% del peso corporeo abituale, rappresenta un fattore dirischio per complicanze settiche postoperatorie, specialmente qualora sia associato alla disfunzionedi due o più organi o sistemi.

Altre condizioni patologiche che determinano un aumento del rischio di complicanze

postoperatorie:

• l’insufficienza epatica e quella renale, che compromettono il metabolismo dei farmacianestesiologici, il mantenimento dei liquidi nel periodo perioperatorio, l’eliminazione deicataboliti;

• le condizioni di shock preoperatorio di vario tipo, sono caratterizzate da un deficit diperfusione tissutale che si riflette, soprattutto in sede di ferita chirurgica, in una diminuzionedei meccanismi di difesa (diminuito apporto di ossigeno, proteine ed elementi cellulariimmunologici);

• le neoplasie si associano talora a stati di immunodepressione;• gli stati di immunodepressione iatrogena (radioterapia, chemioterapia, cortisonici ecc.);• le infezioni preesistenti costituiscono un fattore facilitante la comparsa di ulteriori infezioni

postoperatorie;• le coagulopatie costituiscono un rischio elevato di complicanze chirurgiche, ostacolando

l’emostasi intraoperatoria e favorendo l’insorgenza di emorragia postoperatoria.

Allo scopo di selezionare i fattori nutrizionali maggiormente utili per la determinazione del rischiodi complicanze, è stato evidenziato che quelli più importanti e più utili per l’impiego clinico sono:

• calo ponderale recente (non volontario) > 10% del peso corporeo abituale;• albuminemia < 3,5 g/dl;• anergia agli “skin tests”;• diminuzione del conteggio dei linfociti circolanti (< 1500/mm3).

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PREPARAZIONE PREOPERATORIA

Preparazione dell’intestino

I pazienti candidati ad interventi chirurgici in anestesia generale devono interrompere l’assunzionedi alimenti solidi per 12 ore e di liquidi per almeno 8 ore prima dell’intervento, al fine dievitare il ristagno di alimenti nello stomaco e il verificarsi di pericolosi episodi di vomito o rigurgitoal momento dell’anestesia (rischio di polmonite ab ingestis). Un’accurata preparazione meccanica dell’intestino è indispensabile per gli interventi sul colonretto. Essa ha lo scopo di allontanare il materiale fecale dall’ultimo tratto del tubo

gastroenterico, in modo da ottenere una riduzione del numero dei batteri presenti e quindi

una diminuzione dell’entità della contaminazione endogena intraoperatoria; alla preparazionemeccanica, si deve associare la preparazione antibiotica dell’intestino. Ciò consente unasignificativa riduzione dell’incidenza delle infezioni di ferita, delle deiscenze anastomotiche, degliascessi endoaddominali e della mortalità.Gli schemi di profilassi antibiotica per interventi di chirurgia colorettale più comunemente usatiprevedono l’impiego endovenoso di farmaci attivi contro i germi aerobi ed anaerobi (per es.aminoglicoside + clindamicina o metronidazolo; ampicillina + sulbactam; amoxicillina + ac.clavulanico).

Vi sono 3 metodi principali impiegati per la preparazione meccanica intestinale:

• Lassativi, clisteri e dieta: dieta a basso residuo di scorie nei due giorni precedentiall’intervento; purgante energico (solfato di Mg) 24 ore prima dell’intervento esuccessivamente dieta idrica; due clisteri rispettivamente 12 ore e 4 ore primadell’intervento.

• Purganti osmotici: consiste nella somministrazione orale di polietilenglicole (PEG) oppuredi mannitolo al 10%, seguita da abbondante assunzione di acqua, la sera primadell’intervento.

• Whole gut irrigation: perfusione, attraverso un sondino naso-gastrico, di soluzioneisotonica di cloruro di sodio a velocita elevata (2-4 l/ora). L’infusione viene continuata percirca 6 ore, comunque fino a quando le scariche alvine diventano chiare come la soluzioneintrodotta.

Preparazione igienica

• Lavaggio pre-operatorio del paziente;• Rasatura nella zona di incisione chirurgica;• Preparazione del campo operatorio

L’agente ideale per la disinfezione non dovrebbe essere lesivo nei confronti della cute e dovrebbeessere battericida e attivo in breve tempo dopo l’applicazione. I disinfettanti più usati a scopo didisinfezione preoperatoria della cute sono: la clorexidina, lo iodiopovidone.

Catetere vescicale

Il posizionamento di un catetere vescicale è una delle più comuni manovre in preparazioneall’intervento chirurgico. Il catetere che solitamente si impiega a tale scopo e del tipo Foley, cioècon palloncino gonfiabile all’estremità, che ne impedisce la fuoriuscita dalla vescica. Si usa quando:

• in previsione di una ritenzione urinaria post-operatoria;• per monitorare la diuresi• svuotare la vescica

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Sondino naso-gastrico

Il posizionamento di un sondino naso-gastrico prima dell’intervento chirurgico è indicato nelle

seguenti circostanze:

• negli interventi in cui si prevede la comparsa di un ileo adinamico postoperatorio

prolungato (interventi di chirurgia addominale maggiore);• nei pazienti che presentano vomito o segni clinici di occlusione intestinale;

• nei pazienti che devono essere sottoposti ad interventi chirurgici d’urgenza in anestesiagenerale e sui pazienti traumatizzati candidati a laparatomia esplorativa.

Se hanno assunto alimenti nelle ore immediatamente precedenti è necessario procederepreoperatoriamente a svuotamento dello stomaco con sondino di ampio calibro, che va mantenuto inposizione durante l’intervento chirurgico.

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COMPLICANZE IN CHIRURGIA

Le complicanze possono essere:• precoci: emorragie, iperpiressia, complicanze nervose, cardiache, polmonari, gravi

insufficienze epato-renali, ecc;• immediate: shock, emorragia;• tardive: embolie polmonari, alterazioni flebitiche, broncopolmoniti, embolia adiposa,

complicanze metaboliche, denutrizione, sequele nervose

Complicanze di ferita

Le complicanze più frequenti che si manifestano a livello della ferita chirurgica sono:• l’infezione;• l’ematoma;• la raccolta sierosa;• la deiscenza;• il laparocele (trattato nelle ernie)

Infezione

E' stato riconosciuto che il fattore più importante nel determinare l’insorgenza di infezione di feritaè il grado di contaminazione del campo operatorio. L’infezione della ferita chirurgica è causata dalla contaminazione batterica che avvieneintraoperatoriamente; raramente le ferite si infettano per contaminazione che avviene durante ilperiodo postoperatorio. Talora (per es. in alcuni reinterventi e in pazienti traumatizzati), la feritapuòessere già contaminata preoperatoriamente. I segni locali precoci di infezione di ferita sonol’eritema, la dolorabilità, l’indurimento dei margini, presenza di segni generali di infezione qualifebbre e leucocitosi; segno locale tardivo è la fuoriuscita di pus dalla rima di ferita o dal tramite dipassaggio dei punti di sutura.In alcuni casi il decorso delle infezioni di ferita si può complicare con la comparsa di:

• disseminazione dell’infezione: locale (flemmone o ascesso) o generalizzata (setticemia);• deiscenza della ferita (parziale o totale) con possibile eviscerazione;• laparocele.

Trattamento dell’infezione di ferita:• si palpano in modo asettico i margini della ferita scoperta, alla ricerca di tumefazioni o di

dolorabilità del sottocutaneo; queste aree vanno spremute delicatamente e ciò puòdeterminare la fuoriuscita di essudato sieroematico o di pus negli intervalli tra i punti disutura. E' allora necessario togliere i punti di sutura in corrispondenza della porzione diferita infetta e procedere alla toilette in profondità del sottocute ed eventualmente del pianofasciale, mediante lavaggio con soluzione fisiologica, allo scopo di eliminare il materialeessudato e necrotico;

• consentire il massimo drenaggio possibile dell’essudato dalla ferita; nel caso di infezioneestesa a tutta la ferita ciò comporta la rimozione senza indugio di tutti i punti di suturacutanei ed eventualmente anche di quelli a livello di aree suppurate del piano fasciale;

• si deve inviare un campione di essudato di ferita al laboratorio di microbiologia perl’isolamento dei germi patogeni e per determinarne la sensibilità all’antibiogramma. Quandonon si riscontra più la presenza di essudato nella ferita, questa verrà medicata giornalmentecon l’apposizione di garza a piatto.

• Successivamente si procede al trattamento della ferita in uno dei seguenti modi:• la soluzione di continuo determinata dal focolaio settico è piccola: si avvicinano i

margini della ferita con cerotti adesivi sterili (steril-strip), per facilitare la riparazione

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del tessuto di granulazione e la successiva riepitelizzazione superficiale. Talemodalità di guarigione si definisce "guarigione per seconda intenzione";

• la soluzione di continuo della ferita è notevolmente estesa: dopo aver riscontrato cheil fondo della ferita presenta tessuto di granulazione attivamente proliferante, siprocede alla risutura della ferita con punti cutanei staccati; la guarigione che ne segueviene definita "guarigione per terza intenzione".

Quando la ferita infetta è stata drenata, si sospende la somministrazione degli antibioticieventualmente impiegati per il trattamento dell’infezione, tranne nei pazienti gravementeimmunocompromessi e nei casi in cui l’infezione di ferita non ha tendenza a circoscriversi (per es.flemmone, setticemia).

Ematoma

E' la raccolta di sangue, misto a coaguli, nel contesto della ferita. E' una complicanza menofrequente dell’infezione. I possibili fattori causali dell’ematoma di ferita sono:

• emostasi incompleta per difetto di tecnica chirurgica;• terapia anticoagulante (eparina, dicumarolo, ecc.);• deficit primitivi della coagulazione.

Si presenta come una tumefazione dolente della ferita; la cute sovrastante assume un coloritobluastro e negli ematomi voluminosi, in accrescimento, vi può essere emorragia dalla ferita. Vi sonosedi anatomiche dove l’ematoma può determinare un’evoluzione infausta, per compressione distrutture vitali, come per esempio a livello cerebrale e a livello del collo. Inoltre l’ematoma causa unaumento del rischio di infezione di ferita. Negli interventi sulle strutture anatomiche profonde delcollo è sempre opportuno posizionare dei drenaggi per sorvegliare l’emostasi e consentire ildeflusso all’esterno di eventuali raccolte di sangue. Gli ematomi profondi del collo possonorappresentare un pericolo imminente per la vita se esercitano compressione sulla trachea; se siverifica tale circostanza, si deve immediatamente aprire la ferita ed evacuare l’ematoma. Iltrattamento degli ematomi che non esercitano compressione su strutture vitali è in genereconservativo. Invece gli ematomi voluminosi ed in accrescimento, come già detto, richiedono larevisione accurata della ferita.

Raccolta sierosa

E' la raccolta di liquido sterile nella ferita, contenente siero, linfa, liquido trasudato, tessuto adiposoin necrosi, tracce di sangue. La raccolta sierosa si deve differenziare dall’ematoma (costituitopressoché totalmente da sangue e coaguli) e dall’infezione di ferita con raccolta liquida (presenza dipus). La raccolta può essere costituita esclusivamente da linfa (linfocele).Le raccolte sierose di minime dimensioni tendono a riassorbirsi spontaneamente; quelle voluminoseinvece devono essere evacuate, mediante aspirazione con ago o chirurgicamente, perchécostituiscono terreno favorevole alla moltiplicazione di batteri e perché possono determinaredeiscenza parziale della ferita e/o ritardarne il processo di guarigione.

Deiscenza

E' l’apertura spontanea della ferita determinata da cedimento parziale o totale della sutura o dellacicatrice recente. La deiscenza può essere solo a carico dei piani superficiali (cute e sottocute)oppure può interessare anche i piani profondi (muscolo, fascia, peritoneo). Nelle feritelaparotomiche, quando vi è deiscenza di tutti i piani di sutura, può avvenire l’eviscerazione, ossia lafuoriuscita dei visceri dal cavo peritoneale. La deiscenza superficiale di una parte della ferita siverifica spesso in seguito ad infezione o ad ematoma sottocutaneo.La deiscenza completa di ferita laparotomica è una complicanza grave, che riconosce i seguentifattori causali:

• infezione profonda di ferita;

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• ritardo di guarigione della ferita (eta avanzata, malnutrizione, diabete, terapiaimmunosoppressiva);

• difetto di tecnica chirurgica impiegata nella sintesi della laparotomia (materiale di suturainadeguato; punti di sutura troppo fitti o troppo radi; legatura inadeguata delle suture);

• aumento notevole della pressione endoaddominale (ascite, occlusione intestinale, tosseviolenta).

Essa si manifesta classicamente verso il termine della 1^ settimana postoperatoria, quando cioè laforza tensile della cicatrice è minima. E' caratterizzata dalla comparsa di sanguinamento perstrappamento dei vasi neoformati e da apertura dei margini della ferita, con possibile eviscerazionenel caso di deiscenza completa della sutura laparotomica.La terapia della deiscenza consta della revisione chirurgica e risutura della ferita, se questa non èinfetta; in caso di infezione, la risutura dovrà avvenire solo dopo risoluzione completadell’infezione.

Complicanze respiratorie

Sono tra le complicanze postoperatorie più frequenti e potenzialmente più gravi. Infatti la riduzionedegli scambi gassosi che ne consegue diminuisce l’ossigenazione dei tessuti e aumenta il rischio diulteriori complicanze a carico di altri organi (per es. infarto miocardico, danno cerebrale).Le complicanze respiratorie postoperatorie più frequenti sono l’atelettasia, la polmonite, ilversamento pleurico, lo pneumotorace e l’aspirazione di ingesti.L’atelettasia polmonare e la complicanza respiratoria più frequente in assoluto. Più spessol’atelettasia è legata alla ipoventilazione (respiro superficiale per reazione antalgica, azionedepressiva sul centro respiratorio da parte di farmaci anestetici ed analgesici) e cause ostruttive

(abbondanti secrezioni bronchiali, intubazione prolungata, aspirazione di ingesti).

Un’atelettasia di vaste dimensioni (lobare) si manifesta clinicamente con:• febbre• tachipnea• tachicardia• all’ascoltazione del torace si riscontrano rantoli fini crepitanti ai campi polmonari inferiori.

L’esame radiologico del torace può evidenziare strie atelettasiche, oppure, in caso di atelettasiemaggiori, aree di opacità triangolare con apice ilare.Queste cause determinano la chiusura dei bronchioli e il collasso degli alveoli polmonari, piùfrequentemente a livello delle basi. L’atelettasia insorge precocemente, entro 24-48 orepostoperatorie, ed è responsabile in molti casi della frequente febbre postoperatoria precoce.La terapia consiste nella fisioterapia respiratoria, nella somministrazione di farmaci fluidificantidelle secrezioni bronchiali e broncodilatatori. E' necessario procedere senza indugio all’aspirazionetracheale con sondino ed eventualmente all’aspirazione endobronchiale diretta in broncoscopia.

Alterazioni della funzionalità gastrointestinale

Ileo paralitico postoperatorio: negli interventi laparotomici, il trauma chirurgico che comportal’apertura del peritoneo, la manipolazione dei visceri addominali, la confezione di anastomosi, e lasomministrazione di farmaci anestetici condizionano la scomparsa transitoria dell’attività

peristaltica gastrointestinale. Questo può essere aggravato da uno stato di ipopotassiemia o, piùraramente, dalla somministrazione di farmaci oppiacei e anticolinergici. La durata dell’ileoparalitico postoperatorio e mediamente di 2-4 giorni.

Gastrectasia acuta, rara, caratterizzata da enorme dilatazione dello stomaco, che è sovradisteso dasecreto gastrico e gas.Ileo paralitico tardivo: per ascesso addominale; deiscenza di anastomosi;

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Occlusione meccanica postoperatoria: per formazione di aderenze e angolazioni intestinali;invaginazione intestinale.

Sanguinamento a livello di ulcera peptica o di stomia intestinale alta o di anastomosi.

Diarrea postoperatoria: è abbastanza frequente ed è spesso causata da tossicità intestinale daantibiotici. L’aumento del numero delle scariche alvine è frequente dopo colecistectomia einterventi sulle vie biliari, ed è dovuto a deflusso incontrollato di bile nell’intestino.

Stipsi postoperatoria prolungata, con formazione di fecaloma a livello rettale. Questacomplicanza può essere dovuta all’uso di farmaci oppiacei o anticolinergici. La terapia consistenella digitoclasia del fecaloma, nella somministrazione di purganti o di clistere e nell’idratazionedel paziente.

Insufficienza renale acuta

Si definisce insufficienza renale acuta (IRA) una rapida diminuzione della funzionalità renale,caratterizzata da riduzione della clearance della creatinina e/o da aumento della concentrazionesierica della creatinina e dell’urea; nella maggior parte dei casi l’IRA si manifesta clinicamente conoliguria grave o anuria. L’IRA postoperatoria è solitamente conseguente a ipoperfusione delparenchima renale, per effetto di una o più delle seguenti cause:

• ipovolemia (emorragie gravi, perdite di liquidi nel terzo spazio);• riduzione della gettata cardiaca;• sepsi;• shock neurogeno;• occlusione spontanea o iatrogena delle arterie renali (manovre di clampaggio delle arterie

renali o dell’aorta sovrarenale, che privano totalmente il rene dell’afflusso sanguigno);• aumento del tono arteriolare renale da stimolazione adrenergica (anche iatrogena; l’uso di

farmaci adrenergici per il controllo dell’ipotensione, dello shock e dell’attività cardiaca, puòcondurre ad un brusco incremento delle resistenze a livello del microcircolo renale congrave riduzione della perfusione parenchimale, che si rivela con contrazione della diuresi).

Dal punto di vista pratico, a prescindere dall’eziologia dell’ipoperfusione renale, è importantericordare che, se la pressione nell’arteria renale rimane < 80 mmHg per oltre 30 minuti, insorgesolitamente IRA. Esiste normalmente un’autoregolazione renale del tono delle arteriole afferenti inrisposta ad ipotensione; tuttavia, valori di pressione sistolica < 80 mmHg non sono piùadeguatamente compensabili con il meccanismo della vasodilatazione delle arteriole afferenti.E' importante distinguere tra IRA funzionale, che può essere prontamente reversibile con adeguatae tempestiva terapia, e IRA organica, caratterizzata da alterazioni istopatologiche renali, di piùdifficile soluzione.La correzione dell’IRA funzionale, caratterizzata da oliguria postoperatoria da ipoperfusione, sirealizza mediante reidratazione precoce e correzione dell’ipoperfusione; l’IRA organica si instauraquando, nonostante la correzione delle cause di ipoperfusione renale, i parametri di funzionalitàrenale non rientrano nella norma.

La causa più frequente di IRA organica è la necrosi tubulare acuta (NTA), secondaria a:• ischemia renale protratta;• azione di tossine batteriche liberate in corso di sepsi;• farmaci nefrotossici: FANS, antibiotici (aminoglicosidi, cefalosporine, vancomicina), alcuni

anestetici, mezzi di contrasto radiologico;• emoglobinuria/mioglobinuria in esiti di ustioni estese, di politrauma o di rivascolarizzazione

di arti ischemici;• emoglobinuria massiva da incompatibilità emotrasfusionale.

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I parametri da monitorare con attenzione in caso di contrazione postoperatoria della diuresi, perevidenziare precocemente l’insorgenza di IRA, sono: la diuresi oraria, l’azotemia, lacreatininemia, la velocità di filtrazione glomerulare, l’esame del sedimento urinario, glielettroliti sierici ed urinari, il pH arterioso, l’osmolarità plasmatica ed urinaria. L’IRAesordisce solitamente con una brusca contrazione della diuresi; tuttavia la diuresi giornaliera puòsuccessivamente risultare normale o addirittura aumentata per danno tubulare massivo con perditanella capacità di concentrazione delle urine (IRA con diuresi conservata). Un valore di sodiourinario < 20 mEq/l è indice di IRA prerenale. Per la diagnosi di IRA funzionale è importantevalutare il rapporto Na/K urinari se è < 1, è indice di IRA funzionale.In caso di NTA, l’osmolarità urinaria (normale: 700-1400 mOsm/l) tende a diminuire, raggiungendoquella del plasma (circa 300 mOsm/l) per incapacità progressiva del rene di concentrare le urine. Sesi sviluppa NTA, nel sedimento urinario compaiono cellule tubulari e cilindri bruni, che consentonola diagnosi. Nei casi di contrazione della diuresi da causa prerenale, la somministrazione di liquidied elettroliti è spesso sufficiente a ripristinare la funzione renale. Se la risposta a tale terapia èinadeguata, o se compare ritenzione idrica, si ricorre alla somministrazione di:

• furosemide;• mannitolo;• dopamina;• dobutamina (al fine di provocare una vasodilatazione del circolo corticale).

L’iperpotassiemia ingravescente nei pazienti con IRA, per la sua potenziale pericolosità (arrestocardiaco) deve essere rapidamente corretta con trattamento medico o dialitico.

Complicanze urinarie

Le complicanze urinarie postoperatorie più frequenti sono la ritenzione urinaria acuta e le infezionidell’apparato urinario.

• Ritenzione urinaria acuta: l’impossibilita di svuotare in parte o totalmente la vescicanell’immediato postoperatorio può dipendere da tre cause:

• danno organico delle strutture nervose che controllano la minzione (lesioni S2-S3,T9-L4, diencefalo, corteccia);

• alterazioni funzionali dei meccanismi della minzione (da anestetici);• ostacolo meccanico nell’uretra (ipertrofia prostatica).

Alterazioni di tipo funzionale del meccanismo della minzione si instaurano frequentementedopo anestesia generale o spinale, causate dai farmaci anestetici.Qualunque ne sia la causa, lo sviluppo di ritenzione urinaria acuta è segnalato dalla mancataemissione spontanea di urina a distanza di qualche ora dall’intervento, con comparsa disovradistensione ("globo") vescicale. La diagnosi differenziale va posta con l’oliguria ol’anuria postoperatoria.Il trattamento elettivo della ritenzione urinaria acuta postoperatoria consiste nel cateterismovescicale estemporaneo.

• InfezioniIl principale fattore di rischio è rappresentato dalle manovre invasive a carico delle vieurinarie, in particolare dal cateterismo vescicale. Nei pazienti affetti da ritenzione urinariaacuta o cronica l’infezione urinaria è favorita dall’incompleto svuotamento della vescica edalle frequenti e concomitanti infezioni subacute della prostata, le quali costituiscono spessoil meccanismo responsabile del mantenimento di batteriuria e di infezioni urinarie ricorrenti.La principale fonte di batteri responsabili di infezioni delle vie urinarie è rappresentatadall’intestino. Infatti il 50% circa delle batteriurie nosocomiali è attribuibile a ceppi diEscherichia coli; il restante 50% è dovuto in gran parte a bacilli aerobi Gram- (Proteus,

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Pseudomonas, Enterobacter, Klebsiella). Tra gli aerobi Gram+ si segnalano per l’elevatafrequenza lo Staphylococcus epidermidis, lo Staphylococcus aureus, l’Enterococcus. Piùraro è il riscontro di infezioni da Candida.Un ruolo eziologico significativo per le infezioni urinarie nei pazienti chirurgici spetta anchealle terapie antibiotiche ad ampio spettro, in grado di alterare la flora batterica intestinale edi consentire la proliferazione di ceppi patogeni resistenti.Il cateterismo estemporaneo causa significativa contaminazione urinaria solo in circa il 10%dei casi, ed è quindi il sistema preferibile, qualora il recupero della funzionalità vescicale siaritenuto imminente. Una batteriuria grave può essere anche asintomatica. I segni e sintomiclinici dell’infezione urinaria sono: febbre elevata (38-40 °C, comparsa con brividi),irritazione uretrale, dolore sovrapubico, ematuria e piuria. La diagnosi di infezione urinariaviene confermata dalla positività dell’urinocoltura.L’irradiazione del dolore alla loggia renale, la comparsa di brivido e di febbre > 39 °Cindicano l’estensione dell’infezione urinaria in senso ascendente.La terapia delle infezioni urinarie è antibiotica, mirata in base all’esame urinocolturale e aitest di sensibilità antibiotica.

Febbre postoperatoria

Si definisce febbre l’aumento della temperatura corporea conseguente ad un innalzamento dellivello di termoregolazione ipotalamico.Per ipertermia si intende invece l’eccesso di produzione di calore in rapporto alla possibilità ditermodispersione del corpo, senza che vi sia modificazione dell’attività del centro termoregolatore.La comparsa di febbre nei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico è un evento assai frequente.Un modico rialzo termico (< 38 °C) nei primi 2-3 giorni postoperatori, non accompagnato da altrisegni o sintomi di complicanze, si deve considerare facente parte della normale rispostafisiopatologica al trauma chirurgico, tale alterazione è transitoria e reversibile senza alcuna terapia.Il rialzo della temperatura corporea nel postoperatorio è quasi sempre indotto dall’immissione incircolo di interleuchina-1. L’IL-1, viene prodotta e liberata dai monociti circolanti, dalle cellule delSRE epatico e splenico e dai macrofagi, in seguito a stimolazione da parte di microbi, di molecoledi produzione batterica (per es. endotossina) e di immunocomplessi. L’IL-1 raggiunge il centrotermoregolatore e vi induce la sintesi di PGE2, che provoca un aumento dell’attività del centrostesso.Quando compare febbre nel periodo postoperatorio è necessario cercarne la causa, allo scopo dichiarire se si tratta della normale risposta fisiopatologica al trauma chirurgico, oppure se la febbre ècausata da complicanze postoperatorie di tipo settico.Nel 75% dei pazienti chirurgici che presentano febbre postoperatoria precoce e di breve durata nonè possibile evidenziare alcun focolaio settico, e in questi casi la febbre è attribuibile ad una delleseguenti cause:

• rilascio di IL-1 in risposta al trauma chirurgico tissutale;• atelettasia polmonare;• reazione a farmaci.

Tuttavia se la febbre (> 37,5 °C) si protrae oltre la 4^ o 5^ giornata postoperatoria o se la febbre èmaggiore di 39 °C, è molto probabile che sia secondaria ad infezione.Gli esami ematochimici ed ematologici solitamente non consentono di precisare la patogenesi dellafebbre postoperatoria, poiché le modificazioni rilevabili (leucocitosi neutrofila, aumento della VES,aumento della proteina C-reattiva, iperglicemia), sono comuni alle varie cause di febbre.Si devono ricercare i segni locali dell’infiammazione nelle sedi più frequentemente interessate dainfezioni postoperatorie (ferita, apparato respiratorio, vie urinarie, arti).E' inoltre necessario eseguire gli esami microbiologici in grado di fornire indicazione su possibiliinfezioni in atto: emocoltura, urinocoltura, coltura dell’escreato bronchiale, dei liquidi provenientidai drenaggi e dell’essudato eventualmente raccolto in sede di ferita. In caso di diarrea si esegue

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coprocoltura e ricerca dell’antigene per identificare l’infezione da Clostridium difficile.Se si attribuisce la febbre ad un’infezione da probabile deiscenza di anastomosi del tubo digerente,le indagini radiologiche con mezzo di contrasto non andrebbero eseguite prima della 9^-10^giornata postoperatoria, impiegando comunque mezzo di contrasto idrosolubile poiché glispandimenti di mezzo di contrasto baritato sono infatti lesivi dei meccanismi di difesa peritoneale esono di difficile eliminazione.

E' utile distinguere la febbre postoperatoria precoce, che si manifesta entro 48 ore dall’intervento,dalla febbre postoperatoria tardiva, che compare successivamente.La causa più frequente di febbre postoperatoria precoce è l’atelettasia polmonare, in questo casola febbre si manifesta in genere entro 24 ore dall’intervento. L’atelettasia comporta riduzione delflusso d’aria e della clearance mucociliare, con accumulo di batteri e liberazione di IL-1 da parte deimacrofagi alveolari e conseguente comparsa di febbre. Le manipolazioni prolungate delle mucosedei visceri cavi (tubo digerente, vie genitourinarie), la contaminazione massiva della ferita o dicateteri, possono causare febbre postoperatoria precoce elevata (> 38 °C).La febbre postoperatoria tardiva compare dopo alcuni giorni dall’intervento, solitamente entro leprime 2 settimane e in genere è dovuta allo sviluppo di un’infezione.

Le cause di febbre postoperatoria tardiva sono, in ordine decrescente di incidenza: le infezioni diferita, quelle polmonari, quelle addominali, quelle urinarie, le flebiti, l’embolia polmonare.

Vi sono alcune caratteristiche della curva termica che possono indirizzare verso la diagnosieziologica della febbre postoperatoria:

• la febbre causata da infezione di ferita, da flebite e da infezione di catetere insorgeprogressivamente ed è di tipo continuo-remittente, con fluttuazioni solitamente comprese tra37-38,5 °C;

• la febbre da broncopolmonite postoperatoria è anch’essa di tipo continuo-remittente, però alivelli più elevati di temperatura;

• la febbre causata da infezione delle vie urinarie e quella legata a setticemia insorge di solitocon brivido e presenta fluttuazioni a livelli molto elevati (38,5-40 °C);

• nei pazienti che sviluppano un ascesso, la febbre e di tipo intermittente, "a dente di sega",con una o più puntate quotidiane di febbre elevata.

Talora, anziché febbre, i pazienti affetti da gravi infezioni manifestano ipotermia (< 36 °C).L’ipotermia si verifica nelle fasi terminali delle complicanze settiche, quando compare shockipodinamico. Ciò rappresenta un segno prognostico infausto a breve termine.

Ipertermia maligna

L’ipertermia maligna è una malattia caratterizzata da elevato ed improvviso rialzo termico (> 40°C), in risposta alla somministrazione di farmaci miorilassanti ad azione depolarizzante, in corso dianestesia. Questa gravissima complicanza si verifica raramente, ma comporta una mortalità assaielevata. Le manifestazioni cliniche, oltre che da una elevata ipertemia, sono costituite da: tachipnea,ipotensione ed aritmia. Le alterazioni ematochimiche sono rappresentate da: ipossia, ipercapnia,acidosi ed iperpotassiemia. La patogenesi è riferibile alla comparsa di elevato e persistente tonomuscolare, che comporta aumento incontrollato della termogenesi. La terapia dell’ipertermiamaligna, oltre alla immediata interruzione dell’anestesia, è sintomatica, mirata a diminuire latemperatura corporea e a sostenere la funzionalità cardiocircolatoria e respiratoria. Può essere utilela somministrazione di dantrolene1.

1 Si ritiene che il dantrolene riduca il tono muscolare e il metabolismo prevenendo il rilascio progressivo di calcio daisiti di deposito muscolare (reticolo sarcoplasmstico). Nella MH, i livelli intracellulari di calcio sono elevati e ildantrolene quindi, controbilancia questa anormalità.

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MOF

La Multiple Organ Failure è una sindrome caratterizzata dall’insorgenza di insufficienza funzionaleprogressiva di più apparati. Le infezioni gravi sono tra le cause più frequentemente responsabili della MOF. Quest’ultima infattirappresenta spesso la fase evolutiva finale della sepsi a decorso ingravescente. Nel pazientechirurgico i focolai settici primitivi responsabili dello scatenamento della MOF sono localizzati nel70% dei casi a livello intraddominale o polmonare, nei rimanenti casi sono a livello della feritachirurgica, delle vie urinarie o in altre sedi.Poiché le insufficienze funzionali si manifestano a carico di organi e tessuti diversi tra loro, è statoipotizzato un meccanismo patogenetico comune, che consiste nell’attivazione massiva deimeccanismi dell’infiammazione, soprattutto a livello del microcircolo. Infatti la sepsi, l’ipossiatissutale, le reazioni immunologiche conseguenti a trasfusioni, i traumi gravi sono tutti fattori cheprovocano l’attivazione intravascolare del complemento. Questa alterazione determinal’aggregazione dei granulociti polimorfonucleati (PMN) a livello del microcircolo e la lorosuccessiva degranulazione, con rilascio a livello dell’endotelio di enzimi lisosomiali e di radicaliliberi dell’ossigeno. Tali sostanze provocano un danno diretto della barriera endoteliale, causanoedema interstiziale e riducono la cessione d’ossigeno ai tessuti. Questa sequenza di alterazionicausata dall’attivazione del complemento determina un danno dei parenchimi di organi vitali.

Eziologia della MOF:• Interventi chirurgici• Traumi multipli• Ustioni gravi• Patologie infiammatorie acute• Infezioni gravi• Emotrasfusioni multiple• Shock ipovolemico

Segni clinici, esami di laboratorio, radiologici e strumentali indicativi della MOF.

Segni clinici• Febbre e presenza di focolaio settico• Dispnea, tachipnea, crepitii all’auscultazione del torace• Tachicardia, ipotensione, oliguria, sonnolenza, letargia, confusione mentale• Diatesi emorragica• Sanguinamento intestinale

Esami di laboratorio• Alcalosi respiratoria, acidosi metabolica• Aumento azotemia e creatininemia• Iperbilirubinemia, aumento ALT, AST, LDH• Piastrinopenia, aumento FDP (prodotto di degradazione del fibrinogeno), ipofibrinogenemia• Leucocitosi, leucopenia • Esame urine: P.S. < 1010; osmolarità < 400 mOsm/l;

Esami radiologici e strumentali

• RX torace: infiltrati alveolari diffusi bilaterali• EGDS: gastrite emorragica, ulcere da stress.

L’esordio della MOF è insidioso, quasi sempre caratterizzato inizialmente dal deficit isolato di unorgano/apparato, seguito nelle ore e nei giorni successivi dalla comparsa di insufficienza di altriorgani/apparati. L’insufficienza respiratoria è solitamente la prima a manifestarsi, di solito

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seguono l’insufficienza epatica dopo 1-3 giorni, poi quella cardiocircolatoria e quella renale

dopo 1-2 settimane. Le alterazioni emocoagulative, assai gravi per la prognosi, possono esordiredopo la prima settimana. La prognosi nei pazienti affetti da MOF è assai grave. La mortalità è correlata al numero diorgani/apparati lesi e alla durata dell’insufficienza.

Il trattamento della MOF è finalizzato alla rimozione delle cause scatenanti e al mantenimentodelle funzioni vitali. I provvedimenti terapeutici essenziali sono:

• il drenaggio o la rimozione chirurgica dei focolai settici;• il mantenimento di una buona perfusione del microcircolo, mediante controllo

farmacologico e infusionale dello shock;• la terapia antibiotica, istituita, se possibile, sulla scorta dell’antibiogramma;• trattamento del sanguinamento di ulcera gastroduodenale da stress;• il ricorso a trasfusioni di sangue va limitato al minimo poiché peggiora la prognosi;• per il trattamento dell’insufficienza respiratoria si ricorre alla ventilazione assistita;• l’insufficienza renale viene trattata con emodialisi extracorporea;• l’insufficienza epatica ha limitate possibilità di trattamento (dieta iperglicidica, ipoproteica,

lattulosio, neomicina per os);

ARDS

L’Acute Respiratory Distress Syndrome, è caratterizzata da scompenso respiratorio acuto

(dispnea, tachipnea, cianosi ed ipossia) ed è dovuta ad un’insufficienza rapidamente ingravescentedegli scambi gassosi alveolari. L’ARDS rappresenta la ripercussione a livello polmonare di lesioniacute di vario tipo a carico dell’organismo. La sindrome interessa di solito pazienti senzapreesistenti affezioni polmonari. Il meccanismo patogenetico dell’ARDS è stato identificatonell’iperattivazione intravascolare dei meccanismi coagulativi e dell’infiammazione.

Un ruolo importante nella patogenesi dell’ARDS spetta all’attivazione del complemento, cheinduce l’aggregazione e l’adesione dei leucociti polimorfonucleati all’endotelio, fino a formaremicroemboli. Questi aggregati leucocitari si formano soprattutto a livello del microcircolopolmonare, dove i PMN liberano enzimi lisosomiali, radicali liberi dell’ossigeno, chinine vasoattivee derivati dell’acido arachidonico (prostaglandine, trombossani). L’azione lesiva delle proteasi e deiradicali ossidanti, danneggiando le cellule endoteliali e l’integrità delle membrane basali, induceaumento della permeabilità dell’endotelio, favorendo l’edema interstiziale e la migrazione deiPMN nell’interstizio polmonare. L’ulteriore rilascio di enzimi lisosomiali e di radicali comporta ildanneggiamento delle strutture interstiziali del polmone e delle membrane basali alveolari,consentendo un danno diretto dell’epitelio alveolare e il passaggio di liquidi e proteine neglialveoli. L’attività del surfactante polmonare si riduce per effetto della degradazione delle molecoletensioattive indotta dalle proteasi e compare atelettasia degli alveoli.

Principali fattori eziologici dell’ARDS.• Shock• Sepsi• Traumi multipli• Ustioni• Embolia polmonare• Pancreatite acuta• Trasfusioni multiple• Aspirazione di ingesti

Nella pancreatite acuta emorragica un ruolo significativo nella patogenesi dell’ARDS viene svoltodal passaggio in circolo della fosfolipasi, enzima in grado di scindere il surfactante. I macrofagipolmonari partecipano all’induzione del danno parenchimale tramite la liberazione di fattori

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procoagulanti, che incrementano la trombosi del microcircolo e la produzione di fattori di crescitadei fibroblasti, stimolando la deposizione di collagene nell’interstizio polmonare con possibileevoluzione verso la fibrosi. La stimolazione alla deposizione di collagene sembra favorita anche dauna tensione di ossigeno eccessivamente elevata nell’aria inspirata, ciò impone che lasomministrazione terapeutica di ossigeno avvenga in maniera rigorosamente controllata. L’ARDSrappresenta il quadro più grave dell’insufficienza respiratoria che può comparire in corso di MOF.In effetti la sua patogenesi è simile a quella della MOF, di cui costituisce talora il quadro iniziale.La diagnosi precoce di ARDS si fonda sul rilevamento della comparsa di dispnea in un pazientesenza preesistenti affezioni respiratorie o cardiocircolatorie. L’ARDS si instaura di solito entro 24ore dall’evento acuto scatenante.L’esordio della sindrome è caratterizzato da tachipnea e iperventilazione, cianosi reversibile allasomministrazione di ossigeno. L’esame radiologico del torace dimostra, già dopo poche oredall’esordio, infiltrazione alveolare bilaterale evidente come opacità diffusa dei campi polmonari.L’emogasanalisi indica inizialmente una situazione di alcalosi respiratoria. Se il decorso dellasindrome non viene contrastato, si sviluppa una vera e propria insufficienza respiratoria, con acidosirespiratoria, ipercapnia, ipossia grave e cianosi che non risponde alla somministrazione di ossigeno.Se l’ARDS non viene trattata precocemente, il paziente muore per insufficienza respiratoria o perl’ulteriore insorgenza di complicanze cardiocircolatorie o settiche.

Il trattamento dell’ARDS ha due obiettivi:• correzione delle alterazioni respiratorie• terapia dell’affezione di base che ha condotto alla comparsa della sindrome.

Terapia dello shock in corso di ARDSRipristino della pressione arteriosa e della diuresi, senza indurre un sovraccarico di volume, per nonincrementare la tendenza allo sviluppo di edema interstiziale. Fondamentale risulta quindi larilevazione della PVC, o della pressione in arteria polmonare tramite catetere di Swan-Ganz: pervalori di pressione polmonare > 15 mmHg l’infusione di liquidi è controindicata, mentre è utile ilricorso a farmaci cardiotonici vasoattivi.

Trattamento della sepsi: drenaggio o rimozione chirurgica dei focolai settici ed un’adeguata terapiaantibiotica. Trattamento delle alterazioni respiratorie nelle forme lievi di ARDS:Può essere sufficiente la somministrazione di ossigeno a concentrazioni < 40%; il paziente vamobilizzato spesso ed invitato a tossire per eliminare le secrezioni. Utile in ogni caso l’istituzione difisioterapia respiratoria. Quando diventa necessario somministrare ossigeno a concentrazioni > 50%per mantenere la PaO2 a valori accettabili, si deve provvedere all’intubazione del paziente e allarespirazione assistita.L’esame radiologico del torace va eseguito con frequenza giornaliera, per seguire l’evoluzione dellamalattia e soprattutto per evidenziare l’insorgenza di infezioni polmonari.

Embolia adiposa

L’embolia adiposa, contrariamente alla sindrome da embolia adiposa, è relativamente frequente. Il90% dei pazienti che hanno subito fratture delle ossa lunghe o che sono stati sottoposti ad interventidi applicazioni di protesi articolari, presentano a livello del microcircolo polmonare particelleadipose. La sindrome da embolia adiposa è caratterizzata da alterazioni neurologiche, insufficienzarespiratoria, petecchie in regione ascellare, dorsale.

Complicanze cardiache

L’insorgenza di complicanze cardiache, gravate da un’alta percentuale di mortalità, è correlata sia altipo e alla modalità di esecuzione dell’intervento chirurgico, sia all’insorgenza di complicanze noncardiache postoperatorie.

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I più importanti fattori di rischio cardiologico sono comunque legati alle condizioni preoperatoriedel paziente, la cui valutazione, secondo un punteggio variabile, si è dimostrata significativamentecorrelata al rischio di complicanze e di mortalità cardiaca postoperatoria.

I quadri clinici più frequenti delle complicanze cardiache sono:• disturbi del ritmo;• infarto miocardico acuto;• scompenso cardiaco.

Le aritmie intraoperatorie presentano un’incidenza del 20%. Circa un terzo degli episodi avviene almomento dell’induzione dell’anestesia ed è in relazione all’uso di alcuni agenti anestetici (alotano,ciclopropano), di simpaticomimetici e digitale. Nel periodo postoperatorio sono in generedipendenti da alterazioni dell’equilibrio elettrolitico (ipocalcemia) e acido basico (ipossiemia,alcalosi). Nella maggior parte dei casi le aritmie sono asintomatiche. Occasionalmente possonosegnare l’esordio di un infarto acuto, accompagnandosi a dolore toracico, dispnea, palpitazioni.

Valutazione preoperatoria di rischio cardiaco.

Anamnesi• Eta > 70 anni• Infarto miocardico recente

Esame clinico• Ritmo di galoppo/turgore giugulare• Stenosi valvolare aortica

ECG• Extrasistoli sopraventricolari• Extrasistoli ventricolari

Stato generale• Equilibrio acido-basico• Equilibrio elettrolitico• Insufficienza renale• Insufficienza epatica

Intervento• Urgenza• Intraperitoneale/intratoracico/aorta

Emorragie postoperatorie

Nelle emorragie importanti è indispensabile identificare rapidamente la causa per poter instaurareuna terapia adeguata, in grado di correggere tutti quei fenomeni implicati nella genesi delsanguinamento, che altrimenti porterebbero ad exitus il paziente.

Le emorragie postoperatorie riconoscono diverse cause che possono essere suddivise nei seguentigruppi:

• cause preesistenti all’intervento chirurgico;• cause provocate direttamente dall’intervento chirurgico;• cause successive all’intervento chirurgico o alle sue complicanze.

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Cause preesistenti all’intervento chirurgico:Sono rappresentate essenzialmente dalle coagulopatie. Può interessare sedi diverse, piùfrequentemente l’incisione chirurgica o quella di parete per il posizionamento dei drenaggi. Lacausa più frequente è costituita dalla trombocitopenia, dovuta a difetti di produzione di piastrine,oppure ad eccessiva distruzione (porpora trombocitopenica).Anche le malattie emofiliche, la malattia di von Willebrand, possono essere responsabili disanguinamenti postoperatori. La terapia consiste nel reintegro dello specifico fattore dellacoagulazione carente. La somministrazione di pappe piastriniche, di plasma fresco congelato e dispecifici fattori della coagulazione riesce, di solito, a risolvere l’episodio acuto.Un accurato studio della coagulazione in fase preoperatoria permette di prevenire le complicanzeemorragiche.

Cause provocate direttamente dall’intervento chirurgico:Si tratta essenzialmente di lesioni vascolari che non riguardano necessariamente un grosso vaso;infatti, anche perdite da piccole arterie o vene possono creare gravi problemi. Se l’emorragia non è intensa, si somministrano inizialmente farmaci procoagulanti (ac.tranexamico). Se l’emorragia è profusa, la terapia consiste nella trasfusione di sangue in rapportoall’entità del sanguinamento. Se il quadro clinico è drammatico, le misure immediate da adottaresono il trattamento dello shock ipovolemico e l’eventuale reintervento chirurgico.

Cause successive all’intervento o alle sue complicanzeLe complicanze emorragiche che compaiono più o meno tardivamente dopo un interventochirurgico riconoscono cause diverse.I pazienti sottoposti all’infusione di una grande quantità di sangue sono da considerarsi ad altorischio emorragico. Infatti, la diluizione delle piastrine, che si attua quando si trasfonde sangueconservato per più di 24 ore, l’eventuale e pericolosa attivazione del sistema coagulativo, conconseguente insorgenza di coagulazione intravascolare disseminata, ed il rischio di reazionitrasfusionali emolitiche sono gravi complicanze emorragiche che fanno preferire, quando èpossibile, altre modalità per il reintegro della massa sanguigna. Quindi, il predeposito di sangue daparte del paziente o il recupero previa filtrazione del sangue del paziente stesso durante l’intervento,sono metodiche da preferire.

Pancreatite acuta

La comparsa in fase postoperatoria di una pancreatite acuta costituisce una delle complicanze piùgravi. Un aumento dell’amilasemia può presentarsi nei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico,ma a questo aumento non corrisponde sempre un processo patologico a carico del pancreas. Sebbene le cause delle pancreatiti postoperatorie siano poco chiare, talora esse insorgono perlesione diretta del pancreas. Gli interventi sulla via biliare principale, e soprattutto sulla papilla diVater, determinano pancreatite acuta con una frequenza più elevata rispetto ad altri interventisull’addome superiore lontani dalla zona biliopancreatica. L’ipotesi più accreditata è che si verifichiuna stasi di secreto pancreatico indotta da uno stato di edema della papilla, con conseguenteaumento della pressione nel sistema canalicolare pancreatico.La diagnosi di una pancreatite acuta postoperatoria presenta alcune difficoltà, poiché il doloreall’inizio è mal distinguibile dal comune dolore postoperatorio e inoltre è poco avvertito per laterapia antalgica eventualmente adottata.La determinazione dell’amilasemia orienta decisamente verso un processo pancreatitico se gli indicisono abnormemente elevati, anche se spesso l’amilasemia si eleva modicamente dopo un interventosulle vie biliari o sul pancreas, anche in assenza di pancreatite clinicamente rilevante.La pancreatite acuta postoperatoria insorge generalmente in 3^-4^ giornata; il paziente diventairrequieto, lamenta dolori addominali diffusi più intensi, la peristalsi tarda ad attivarsi.

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FASI DEL PERIODO POST-OPERATORIO

Il periodo postoperatorio procede attraverso fasi successive che si possono suddividere in:

• periodo postoperatorio immediato, è rappresentato dalle prime 24 ore dopo l´intervento;

• periodo postoperatorio intermedio, è compreso tra il giorno dopo l´intervento e quello delladimissione;

• convalescenza, è il periodo successivo, di durata variabile, necessario per il ritorno allanormale vita di relazione.

Tali fasi non sono nettamente separabili secondo rigidi criteri di classificazione.

Periodo postoperatorio immediato Durante questa fase è necessario sorvegliare il paziente con particolare cura, poiché possonocomparire complicanze postoperatorie precoci, di varia natura e gravità, con frequenza direttamenteproporzionale alla gravità delle condizioni cliniche, alla durata dell´anestesia e alla complessitàdelle soluzioni chirurgiche adottate.

Risveglio anestesiologico Per i pazienti che hanno subito interventi chirurgici in anestesia generale o loco-regionale consedazione profonda, si distingue, nell´ambito del periodo postoperatorio immediato, una faseiniziale di risveglio anestesiologico. In tale fase i pazienti devono essere strettamente sorvegliati daun anestesista-rianimatore. Affinché questa sorveglianza possa svolgersi nel modo migliore, èopportuno che i pazienti rimangano nelle immediate adiacenze della sala operatoria, nella "sala dirisveglio", dove deve essere costante la presenza di personale per l'osservazione diretta degli operatie dove devono trovarsi gli strumenti necessari per eventuali interventi di tipo rianimatorio. I pazienti che sono stati sottoposti ad anestesia generale o loco-regionale devono essere tenuti in sala di risveglio fino a quando:

• permane il pericolo di complicanze immediate di tipo cardiocircolatorio o respiratorio; • hanno riacquistato un sufficiente stato di coscienza; • i principali parametri e segni vitali sono considerati stabili.

Durante questo periodo la responsabilità del controllo della funzionalità cardiocircolatoria,respiratoria e della diuresi è dell´anestesista, mentre è compito del chirurgo sorvegliare la ferita, idrenaggi ed eventuali altre manifestazioni patologiche non correlate con l´anestesia.Successivamente alla fase del risveglio, il paziente viene trasferito nel reparto di degenza e inizia lafase del monitoraggio e della terapia postoperatoria. Nel caso in cui si ravvisi la necessità di unmonitoraggio intensivo delle funzioni vitali o sia necessaria una terapia rianimatoria prolungata, ilpaziente viene trasferito in unità di terapia subintensiva o intensiva.

Periodo postoperatorio intermedio Il periodo postoperatorio intermedio, inizia per convenzione dopo 24 ore dall'intervento e si protraeper il resto della degenza postoperatoria. Se il decorso clinico è regolare, nel periodo postoperatoriointermedio avviene la stabilizzazione definitiva dei parametri vitali e la fase iniziale dellaguarigione dal trauma chirurgico. L´evoluzione del processo di guarigione durante il periodopostoperatorio intermedio deve essere accuratamente sorvegliata mediante il monitoraggio deiparametri vitali, delle condizioni cliniche, della ferita chirurgica e mediante la determinazione deiparametri di laboratorio e degli esami strumentali. Durante questo periodo riveste particolareimportanza il monitoraggio e il trattamento della ferita chirurgica e la gestione degli eventualidrenaggi. L´organismo umano sottoposto a intervento chirurgico sviluppa una complessa serie di rispostefisiopatologiche, in reazione al trauma tissutale. Queste risposte coinvolgono numerosi organi e

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apparati e comportano modificazioni complesse dell´omeostasi. Dopo un intervento di mediagravità, che si è svolto senza complicanze chirurgiche o anestesiologiche, possiamo distinguere dalpunto di vista clinico tre fasi successive.

• Nella prima fase, della durata di circa 3 giorni, il paziente accusa astenia, anoressia, dolorein sede di ferita e presenta modico rialzo termico (37-37,5 °C). Negli interventi addominalil'intestino è disteso per la comparsa di ileo paralitico, con alvo chiuso ai gas. Il pazientepresenta inoltre modificazioni del tono dell´umore: è chiuso in se stesso, si lamenta per ildolore e rifiuta di alzarsi. Dal punto di vista metabolico la prima fase di risposta al trauma chirurgico è caratterizzatada catabolismo tissutale. Si verificano numerose modificazioni del metabolismo glicidico,protidico e lipidico; compaiono inoltre variazioni del ricambio idroelettrolitico edell'equilibrio acido-base, che hanno lo scopo di riportare il volume e la composizione deiliquidi extracellulari alla normalità. La ricostituzione e il risparmio dei liquidi extracellularispetta essenzialmente al meccanismo di antidiuresi mediato dall´ADH; l´urina diventaconcentrata.

• La seconda fase del decorso postoperatorio non complicato inizia al terzo-quarto giorno. Ilpaziente si sente meglio, la temperatura corporea si normalizza, l´alvo diviene pervio ai gas,la diuresi torna normale, dopo una breve poliuria. L´operato si alza più volentieri eincomincia a interessarsi di altre cose che non siano la sua malattia e i suoi dolori. In questafase, della durata di pochi giorni, i parametri biologici precedentemente alterati ritornanoprogressivamente nella norma.

• La terza fase, della durata di alcune settimane, è quella della convalescenza, ed ècaratterizzata da un bilancio azotato positivo; è perciò definita anche "fase anabolica".

È inoltre necessario curare la posizione al letto e la mobilizzazione del paziente, sorvegliare etrattare la ferita chirurgica e gli eventuali drenaggi.

Parametri e segni vitali Di fondamentale importanza è la raccolta dei principali parametri e segni vitali indicativi delle treprincipali funzioni:

• cardiocircolatoria (polso, pressione arteriosa-PA);

• respiratoria (frequenza e caratteristiche del respiro);

• attività del sistema nervoso (caratteristiche dei riflessi e stato di coscienza).

Criteri di ammissione in terapia intensiva L´Unità di Terapia Intensiva (UTI) è un reparto con strumentazione tecnologicamente avanzata econ personale specializzato, per il monitoraggio approfondito e continuo delle funzionicardiocircolatorie, respiratorie, metaboliche e neurologiche, e per il supporto delle funzioni vitali. Èinsito nel concetto di terapia intensiva il presupposto che il sostegno delle funzioni vitali sia solotransitoriamente necessario e quindi che esista la possibilità di recupero del paziente. È opportuno individuare già preoperatoriamente i pazienti che, per la gravità delle loro condizioni,potenzialmente, necessitano di trattamento in UTI nel periodo postoperatorio; in chirurgiad'elezione tali pazienti devono essere sottoposti a intervento solo dopo adeguata preparazione, permigliorarne le condizioni generali.

Le malattie che preoperatoriamente devono far prevedere la necessità di un ricovero in terapiaintensiva nel decorso postoperatorio possono essere distinte in:

• alterazioni cardiocircolatorie (miocardiopatie gravi, angina instabile, patologie valvolari

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gravi);

• alterazioni respiratorie (grave insufficienza respiratoria);

• alterazioni del sistema nervoso centrale e/o periferico (gravi alterazioni dello stato di coscienza, miopatie, miastenia, ecc.);

• patologie particolari (per es. insufficienza epatica, insufficienza renale).

In chirurgia d´urgenza è più frequente la necessità di dover ricorrere al trattamento del paziente inUTI; infatti, spesso si presentano i seguenti problemi:

• gravi condizioni generali del paziente;

• impossibilità di una sua preparazione ottimale;

Le seguenti alterazioni giustificano l´ammissione in terapia intensiva: • apparato respiratorio: tachipnea grave, ipossiemia (PaO2 < 60 mmHg), ipercapnia (PaCO2 >

50 mmHg con associata acidosi), alterazioni della meccanica respiratoria, aumento dellaquota di shunt, atelettasie gravi;

• sistema cardiocircolatorio: ipotensione difficilmente trattabile, alterazioni del ritmocardiaco, della gettata cardiaca, segni di ipoperfusione distrettuale, di inadeguato trasporto diO2, oliguria, necessità di sostenere il circolo con farmaci inotropi e vasodilatatori;

• sistema urinario: incapacità di mantenere un´adeguata omeostasi idroelettrolitica e alteratafunzione emuntoria renale (oliguria, clearance creatinina < 10 ml/min);

• funzionalità epatica: coma epatico;

• sistema nervoso centrale: alterazioni della coscienza (scala di Glasgow < 8).

Il trattamento in terapia intensiva permette di poter intervenire in modo ottimale su questi squilibri;con il monitoraggio completo delle principali funzioni dell´organismo è possibile effettuare ilsupporto delle funzioni vitali e un sostegno razionale dell´equilibrio emodinamico e metabolico.

Posizione a letto e mobilizzazione Il paziente deve assumere nel letto una posizione che diminuisca il rischio di stasi venosa e ditrombosi agli arti inferiori, di comparsa di atelettasia polmonare e di piaghe da decubito. Nel paziente vigile e cosciente la prevenzione di queste complicanze si esegue invitando il pazientestesso a cambiare ripetutamente posizione nel letto e a muovere gli arti inferiori; se il paziente non ècollaborante, si deve provvedere a mobilizzarlo passivamente alternando sui due fianchi il decubitopiù volte al giorno. Se il paziente non è ipoteso è opportuno sollevare lo schienale del letto di 45°-60° per facilitare l´esecuzione di atti respiratori adeguati e per prevenire l´atelettasia polmonare. Ipiedi del letto devono essere sollevati di 15°-20° per favorire il ritorno venoso dalle estremitàinferiori. Un principio fondamentale di prevenzione delle complicanze tromboemboliche e atelettasicherimane la mobilizzazione precoce del paziente dal letto; anche dopo interventi chirurgici complessi,se il paziente è cosciente e collaborante, e non è ipoteso, già dalla prima giornata postoperatoriadeve essere trasferito dal letto alla poltrona almeno per alcuni minuti al giorno, sotto vigileassistenza del personale infermieristico.

Per i pazienti portatori di fratture del bacino o degli arti inferiori si dovrà procedere allamobilizzazione passiva consentita dal caso specifico. L´impiego di gambali pneumatici, chepermette la compressione intermittente degli arti inferiori e che favorisce quindi il ritorno venoso elinfatico da questi, è indicata in pazienti a elevato rischio di stasi venosa e tromboembolia (pazienti

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obesi, impossibilità alla mobilizzazione dal letto, pregresse tromboflebiti profonde).

Sorveglianza e trattamento della ferita chirurgica e dei drenaggi È responsabilità del chirurgo sorvegliare la ferita chirurgica più volte durante la prima giornatapostoperatoria, per escludere complicanze locali immediate. Nel caso in cui si sospetti l´insorgenzadi tali complicanze, la medicazione della ferita deve essere tolta, per consentire l´esame diretto dellaferita stessa, e successivamente rifatta, con metodo asettico. Analogamente si devono controllare i drenaggi, verificando, al momento del trasferimento inreparto del paziente, che i collegamenti dei tubi di drenaggio siano corretti e saldamente connessi,che i drenaggi in aspirazione (in particolare quelli del cavo pleurico) siano collegati alla depressionedesiderata, e che non vi sia sanguinamento importante o comparsa nel drenaggio di materialeindicativo dell´insorgenza di complicanze (per es. liquido enterico, bile, pus, sangue, urina, aria,trasudato, ascite, linfa). I drenaggi vanno controllati più volte nella prima giornata postoperatoria, allo scopo didiagnosticare tempestivamente l´insorgenza di complicanze e successivamente al fine di decidere laloro rimozione se non sono più necessari. Al termine dell´intervento chirurgico la ferita viene coperta mediante medicazione asettica conmateriale sterile, per proteggerla dalla contaminazione nei primi giorni dopo l´intervento chirurgico.La protezione con medicazione sterile è indispensabile almeno per i primi 3-4 giorni postoperatori,periodo durante il quale avviene la fase iniziale della guarigione della ferita. Nel decorso postoperatorio non complicato, dopo 3 giorni la soluzione di continuo nelle feritelineari suturate viene riempita e chiusa dalle cellule infiammatorie, dai fibroblasti e dai loro prodottidi secrezione; in superficie la soluzione di continuo viene ricoperta da cellule epidermicheproliferanti dai margini cutanei, che isolano la ferita dall´ambiente esterno. Anche se dopo 3-4 giorni la ferita è difficilmente contaminabile dall´ambiente esterno, è tuttaviabuona norma tenerla coperta con medicazione asettica fino alla settima giornata postoperatoria. Nel periodo postoperatorio intermedio almeno una volta al giorno si deve ispezionare lamedicazione e si deve palpare la ferita. Non è necessario togliere la medicazione fino alla quintagiornata se il processo di guarigione della ferita procede regolarmente, cioè se non ci sono né segnilocali di infezione (medicazione sporca di essudato, dolore spontaneo o alla palpazione della ferita,tumefazione, arrossamento della cute) né segni generali di infezione (febbre, astenia, anoressia,leucocitosi). Di regola nel decorso postoperatorio normale il trattamento della ferita avviene pertanto nelseguente modo: in quinta giornata postoperatoria si sostituisce la medicazione, disinfettando laferita con soluzione antisettica e riapplicando una nuova medicazione sterile; in settima giornata siesegue analoga medicazione, togliendo una parte dei punti di sutura e rinnovando la medicazioneasettica; i rimanenti punti di sutura vengono asportati in nona-decima giornata, e il paziente puòsuccessivamente lavarsi a livello della ferita. In casi particolari (suture cutanee in chirurgia plastica; incisioni cervicali o sul volto, o in altre areedel corpo in cui è importante il risultato estetico) si tolgono più precocemente i punti di sutura(terza-quinta giornata) e i lembi di ferita vengono tenuti ravvicinati con steril-strip.

Somministrazione di liquidi ed elettroliti L´acqua dell´organismo rappresenta circa il 50-70% del peso corporeo con variazioni dipendenti daetà, sesso, costituzione, e si distribuisce nei tre compartimenti: intracellulare, extracellulare,intravascolare. La composizione in soluti di questi compartimenti è diversa. La quantità totale diacqua e di soluti dell´organismo rimane pressoché invariata grazie all´intervento di meccanismineurormonali (ADH, sistema renina-angiotensina-aldosterone, prostaglandine) che utilizzano il renecome organo effettore. Il bilancio idrico dell´organismo dipende dall´equilibrio delle entrate e delle uscite. Le entrate sonorappresentate dalla quota introdotta con i cibi e con le bevande (circa 1,5 l/die) e dall´acqua diossidazione metabolica (circa 300 ml/die); le perdite avvengono con le feci (circa 200 ml/die), con

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la perspiratio insensibilis (circa 600-800 ml/die) e attraverso il rene (circa 1-1,5 l/die). Le alterazioni del volume di acqua dell´organismo, associate o meno ad alterazioni dellaconcentrazione dei vari elettroliti, sono molto frequenti nel paziente chirurgico e danno luogo avarie sindromi da squilibrio idroelettrolitico. Le manifestazioni cliniche della deplezione idrica sonorappresentate da ipotensione, polso piccolo e frequente, scarso riempimento del letto venoso,anelasticità dei tegumenti, mucose asciutte, astenia, oliguria con urine iperstenuriche. Compareinoltre iperazotemia prerenale, aumento dell´ematocrito e della protidemia. La sindrome dadisidratazione del settore extracellulare è la più frequente. Essa si può manifestare in caso di perditedal tubo digerente (aspirazione naso-gastrica continua, diarrea, fistole enteriche, vomito), disudorazione profusa, di perdite ematiche e plasmatiche abbondanti, di insufficienza surrenalica. Lasindrome iperosmolare, in cui vi è un deficit preminente di acqua rispetto ai soluti, è rara in formapura ed è dovuta a una netta riduzione di introduzione di acqua. Talora peraltro, si può avere unsovraccarico di volume nel paziente chirurgico si hanno aumento del rilascio di ADH,vasocostrizione renale, aumento dell´aldosteronemia che può essere aggravato da condizionipreesistenti quali: insufficienza cardiaca congestizia, epatopatia, insufficienza renale,ipoalbuminemia. Il pH del sangue deve essere compreso tra 7,38-7,42 perché possano svolgersi regolarmente iprincipali processi metabolici. L´equilibrio acido-base può essere definito dall´equazione diHenderson-Hasselbach: pH = pk + log (HCO3

)/(H2CO3). Se il rapporto bicarbonato/acidocarbonico viene mantenuto intorno a 20:1, il pH rimane costante. L´equilibrio acido-base vienesolitamente determinato su sangue arterioso sul quale vengono valutati: pH, PCO2, PO2, BE, HCO3

.Da questi parametri si possono definire quattro sindromi cliniche: acidosi metabolica o

respiratoria, alcalosi metabolica o respiratoria. Nella realtà raramente questi quadri sono isolati,presentandosi per lo più misti, in quanto entrano in gioco meccanismi di compenso che riducono levariazioni del pH.

Le principali alterazioni degli elettroliti che si riscontrano nel paziente chirurgico sono le seguenti.

• Sodio (valori plasmatici normali compresi tra 135-150 mEq/l): l´ipernatriemia è di solitoconseguente a una perdita di acqua (febbre, diuresi osmotica) o a una ridotta introduzione diacqua, oppure a una eccessiva introduzione di sodio. L´iponatriemia è più frequente e siverifica per perdite derivanti da vomito, diarrea, sudorazione profusa, per deplezione dipotassio, eccessiva introduzione di soluzioni povere in sodio (per es. insufficiente apporto disodio nel decorso postoperatorio).

• Potassio (valori plasmatici normali compresi tra 3,8-5,0 mEq/l). Le condizioni che possonodeterminare un´iperkaliemia sono: insufficienza renale, insufficienza surrenale, condizioniipercataboliche come traumi gravi e ustioni estese. Queste alterazioni metaboliche verevanno distinte da altre quali l´iperemolisi, la trombocitosi, l´acidosi metabolica, lariperfusione postischemia, che determinano un´iperkaliemia mediante il rilascio del potassiodalle cellule. Un´ipokaliemia si ha invece in corso di alcalosi, di cospicue perdite enteriche,di terapia diuretica, di diabete mellito, di iperaldosteronismo. Le manifestazioni clinichecomprendono sia sintomi neuromuscolari (ipotonia muscolare, parestesie) sia segnielettrocardiografici.

• Calcio (concentrazioni plasmatiche normali comprese tra 4,2-5,2 mEq/l): strette correlazionisi hanno tra la calcemia e il pH plasmatico, in particolare per la frazione ionizzata del calcio.Frequenti condizioni in cui si ha ipercalcemia sono: l´iperparatiroidismo, comparsa dimetastasi ossee, ipervitaminosi D, allettamento prolungato, ecc. L´ipocalcemia è invecefrequente in corso di ipoparatiroidismo, ipomagnesemia, pancreatite grave, IRC, IRA, crush

syndrome. In caso di ipercalcemia clinicamente si manifesta una ipoeccitabilitàneuromuscolare; nella ipocalcemia compare ipereccitabilità neuromuscolare.

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• Cloro (concentrazione plasmatica normale: 95-110 mEq/l). Si ha un aumento della cloremiain seguito ad acidosi metabolica e ipernatriemia. L´alcalosi metabolica e l´iponatriemiadeterminano una diminuzione della cloremia.

• Magnesio: svolge un importante ruolo nel metabolismo energetico della cellula. Lacondizione più frequente di ipermagnesemia si ha in corso di insufficienza renale, mentrel'ipomagnesemia può comparire durante nutrizione artificiale (NPT ed NE) con scarsoapporto di magnesio.

• Fosforo: è importante nel metabolismo energetico cellulare oltre che come costituente delleossa. La carenza di fosforo compare spesso in corso di NPT e dà un quadro di ridotta attivitàneuromuscolare. La condizione opposta è asintomatica.

Le richieste giornaliere basali di acqua sono valutabili in circa 1500-2000 ml e sono influenzate davari fattori (temperatura dell´ambiente, ustioni, febbre, drenaggi, iperventilazione, perditeenteriche).

Ripresa dell´alimentazione Durante il decorso postoperatorio il paziente necessita di un adeguato supporto nutrizionale chedeve mirare a ridurre al minimo il catabolismo, soprattutto proteico, in attesa che l´alimentazionepossa riprendere attraverso la via fisiologica. Tre sono i modi con cui si possono somministrare inutrienti al paziente che non può alimentarsi per os: nutrizione parenterale periferica (NPP),nutrizione parenterale totale (NPT) e nutrizione enterale (NE). Queste due ultime modalità vengonoriservate ai casi in cui si prevede un lungo periodo di nutrizione artificiale. La ripresadell'alimentazione per os avviene in tempi variabili, dipendendo dal tipo di intervento (laparotomicoo non, con resezioni gastrointestinali o non); dalle condizioni generali del paziente (per es.importanti squilibri idroelettrolitici, malnutrizione, malattie infiammatorie intestinali); dalla rapiditàdella ripresa della normale funzione gastrointestinale e dalla comparsa di eventuali complicanze(per es. sepsi). Dopo un intervento laparotomico la normale attività peristaltica intestinale risulta temporaneamentedepressa (ileo postoperatorio). La peristalsi gastrica ricompare dopo circa 24-48 ore dall´intervento,mentre l´attività del colon dopo circa 48 ore, iniziando a livello del cieco e proseguendodistalmente. Clinicamente l´ileo postoperatorio conduce a modesta distensione del colon e quindi dell´addome. Ilritorno della peristalsi viene notato dal paziente che riferisce modesti crampi addominali, emissionedi gas dall´alvo, ritorno dell´appetito e infine pervietà dell´alvo alle feci. Negli interventilaparotomici maggiori la ripresa dell´alimentazione deve compiersi in modo graduale iniziando coni liquidi e i cibi semisolidi per poi far assumere al paziente anche cibi solidi di crescentecomplessità (per ultimi vengono somministrati cibi ricchi di scorie). Tutto questo avviene nel girodi 3-4 giorni fino ad arrivare a una condizione di alimentazione completa nel corso della secondasettimana postoperatoria.

Prevenzione delle lesioni ulcerose acute gastroduodenali L´instaurarsi di emorragie acute gastroduodenali è una evenienza abbastanza comune in pazientisottoposti a interventi chirurgici ampiamente demolitivi, nei politraumatizzati, nei pazienti interapia intensiva e in quelli con precedenti di gastroduodenite o di lesioni ulcerose peptiche, o interapia con farmaci lesivi della barriera mucosa gastroduodenale (FANS, cortisone, antiblastici,acido acetilsalicilico). In tali categorie di pazienti a rischio è necessario impiegare farmaci per laprofilassi delle lesioni ulcerose acute gastroduodenali, per impedire l´insorgenza di complicanzegravi e potenzialmente letali quali emorragie incontrollabili e perforazioni gastroduodenali. I farmaci idonei a proteggere la barriera mucosa gastroduodenale sono i seguenti.

• Bloccanti dei recettori H2 (ranitidina).

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• L´omeprazolo, l´efficacia è maggiore rispetto ai farmaci anti-H2.

• Antipepsinici quali il sucralfato. Quest´ultimo riduce di un terzo l´attività pepsinica einoltre forma uno strato protettivo sulla mucosa gastroduodenale, proteggendola dall´azionedigestiva della pepsina e dell´acido cloridrico.

• Metoclopramide e domperidone migliorano la motilità gastrica riducendo il tempo di contatto tra la mucosa e la secrezione acida.

Tra i provvedimenti di igiene comportamentale e dietetici per la prevenzione delle lesioni acutegastroduodenali si devono ricordare l´astensione dal fumo e dall´assunzione di alcolici e caffè.

Fisioterapia e riabilitazione In ogni paziente sottoposto a intervento chirurgico si deve iniziare precocemente la fisioterapiamotoria e respiratoria per prevenire le complicanze respiratorie e circolatorie che, com´è noto,insorgono con maggiore frequenza nei pazienti immobilizzati al letto. L´anestesia prolungata e il dolore provocato dal trauma chirurgico, che viene esacerbato spessodagli atti respiratori, inducono una diminuzione della profondità degli atti respiratori stessi, degliscambi gassosi alveolari e della ventilazione di alcuni distretti periferici dell´albero respiratorio;inoltre la limitazione antalgica degli atti del respiro e il dolore legato ai colpi di tosse, riducono lacapacità del paziente di espellere le secrezioni. Ciò favorisce la formazione di atelettasie clinicamente rilevanti. La prevenzione di queste ultime edella insufficienza respiratoria postoperatoria in generale è di fondamentale importanza soprattuttonei pazienti obesi, in quelli astenici o francamente anergici, nei forti fumatori, nei pneumopaticicronici. Tale opera è svolta nella maniera migliore da personale specializzato in fisioterapia eriabilitazione.Ai fini della prevenzione delle complicanze respiratorie dopo intervento chirurgico, si devonopertanto effettuare le seguenti manovre fisioterapiche e riabilitative:

• mobilizzazione precoce dal letto, frequente cambio di posizione nel letto e sistemazionedello schienale del letto in posizione semiseduta; ciò limita il ristagno di secrezioni nelleparti posteriori più declivi dell´albero respiratorio e pone il paziente nelle miglioricondizioni per effettuare atti respiratori adeguatamente profondi ed efficaci;

• impiego di semplici strumenti monouso per esercitare il paziente a compiere atti respiratoriprofondi (per es. soffiare per gonfiare un guanto di lattice);

L´impiego di dosi appropriate di farmaci antalgici è indispensabile per diminuire il dolorepostoperatorio legato ai movimenti e agli atti respiratori e favorisce la fisioterapia e la prevenzionedelle complicanze respiratorie e tromboemboliche. Al fine di prevenire le complicanze tromboemboliche, il paziente deve essere adeguatamentemobilizzato dal letto più volte al giorno. Nei pazienti non collaboranti o non mobilizzabili ènecessario far compiere movimenti di ginnastica passiva sotto il controllo del fisioterapista ecompatibilmente con le condizioni locali e generali di ciascun specifico paziente; ciò allo scopo dimigliorare la circolazione periferica del sangue e di attenuare l´ipotrofia muscoloscheletrica earticolare da immobilizzazione.

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Il dolore postoperatorio

Il dolore postoperatorio è una spiacevole esperienza associata con un attuale o potenziale dannotissutale.Il dolore postoperatorio (DPO) può anche essere definito come un dolore acuto che inizia coltrauma chirurgico e termina, generalmente, con la guarigione dei tessuti. Tale sintomatologia,transitoria, con remissione spontanea, è ancor oggi accettata e subita come un evento ineluttabile,collocata in un rapporto di causa-effetto con l´intervento chirurgico. Fattori che incidono sullarielaborazione cosciente del dolore sono l´ansia, le aspettative (chirurgia plastica, chirurgiapalliativa per cancro), nonché il trattamento anestesiologico e chirurgico ed eventuali complicanzepostoperatorie.Il DPO, se non adeguatamente trattato, può portare a risposte psicologiche ed emozionali negative,complicanze respiratorie, cardiovascolari, gastrointestinali, urinarie, metaboliche, ormonali eimmunitarie. Soggetti emotivi tendono a sovrastimare il dolore amplificandone i contenuti.

Fattori che influenzano incidenza, intensità e durata del DPO.

• Sede, natura e durata dell´intervento

• Tipo di incisione ed entità del danno tissutale

• Stato fisico e psichico del paziente

• Complicanze postoperatorie

• Trattamento anestesiologico

Fisiopatologia Il DPO è considerato una vera e propria sindrome da deafferentazione iatrogena conseguente allalesione chirurgica della rete nervosa sensitiva; le successive modificazioni fisiopatologiche a livellospinale determinano una ipersensibilità dolorosa post-traumatica. A seguito del danno tissutale eneuronale si innesca un´alterazione funzionale delle fibre C e A con diminuzione della soglia dieccitazione sia nella zona danneggiata (iperalgesia primaria) sia nella zona circostante (iperalgesiasecondaria). La lesione tissutale porta alla liberazione di sostanze algogene: K+, H+, acetilcolina,acido lattico, serotonina, bradichinina, prostaglandine, istamina, sostanza P, ecc. In presenza di questi mediatori della flogosi consegue un reclutamento di popolazioni neuronalinormalmente inattive che diventano sensibili a stimoli minimali. Le fibre veicolanti questi stimoli,attraverso le radici posteriori, raggiungono il midollo spinale e, strutturate nella via spinotalamica espinoreticolare, ascendono ai centri integratori del talamo (II neurone) e alle aree somatosensorialidella corteccia (III neurone), dove avviene l´integrazione delle afferenze e la percezione cosciente.La modulazione degli stimoli algogeni utilizza una serie di neurotrasmettitori, i più importanti deiquali sono: oppioidi endogeni (-endorfina, enkefaline, dinorfina), acido glutammico, sostanza P,VIP (Vasoactive Intestinal Polypeptide), somatostatina, noradrenalina.

Fattori che influiscono sul dolore postoperatorio • Intervento chirurgico: il trauma tissutale è il fattore principale del DPO. Interventi sul

torace o sull´addome alto risultano più dolorosi di altri. Le zone con più marcatarappresentazione a livello corticale (viso, dita, mani, ecc.) appaiono più sensibili di quellecon una limitata rappresentazione (dorso, segmenti prossimali degli arti). La grandezza e ladirezione dell´incisione sono importanti per le conseguenze sui tessuti danneggiati a causa

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della distribuzione delle terminazioni nervose coinvolte. Una colecistectomia effettuata pervia laparoscopica o con incisione laparotomica sottocostale o mediana evoca DPOdifferente. L´incisione verticale determina un trauma maggiore rispetto a quella trasversale,che provoca la lesione di un minor numero di fibre nervose; così la separazione delle fibremuscolari piuttosto che il loro taglio determina un minore input nocicettivo. Il DPO non deriva solo da strutture somatiche, ma anche da organi viscerali: la contrazionedi organi a muscolatura liscia o la loro distensione può risultare estremamente dolorosa. Importante è anche l´accuratezza nell´esecuzione dell´intervento: un uso forzato deidivaricatori può causare fratture costali e necrosi dei tessuti muscolari. Una buona emostasievita la formazione di ematomi, causa di dolori; importanti sono anche i materiali di sutura ei drenaggi (preferibili quelli morbidi in silicone).

• Anestesia: con le tecniche o le manovre connesse alla sua pratica può essere causa di DPO;faringodinia da intubazione, cefalea da puntura spinale.

• Età: l´anziano tollera meglio il dolore; anche il bambino, senza esperienze precedenti,affronta l´avvenimento senza il circolo vizioso "paura-ansia-dolore".

• Patologia di base: prospettive di guarigione o interventi mutilanti condizionanol'apprezzamento soggettivo del dolore.

• Personalità: ansietà e depressione incidono negativamente sul DPO.

• Preparazione all´intervento: lo stress da ricovero può essere opportunamente affrontatocon adeguate notizie esplicative sulle procedure riguardanti gli esami preoperatori el'intervento. Il paziente deve essere edotto sulla possibile insorgenza del dolore e sullapossibilità di poterlo controllare ricordandogli che è un errore attendere che il dolore siadiventato intenso prima di chiedere un analgesico.

Conseguenze • Complicanze polmonari: il DPO non è solo causa di sofferenza per il paziente: è anche

responsabile di variazioni dell´omeostasi respiratoria che possono rivelarsi anche letali.Il paziente che non si muove per il dolore, che non respira profondamente, che non espettoraperché la tosse gli provoca dolore, è un paziente che andrà facilmente incontro acomplicanze respiratorie. Il dolore successivo all´incisione addominale e all´infiammazioneperitoneale è accompagnato da spasmo della parete muscolare dell´addome. La contrazionedei muscoli che controllano l'espirazione forzata aumenta la pressione addominale,diminuendo le escursioni diaframmatiche con conseguente riduzione dei volumi polmonari.Ne deriva una sindrome restrittiva con collasso delle vie aeree, atelettasie, alterazione delrapporto ventilazione/perfusione con aumento della quota di shunt e infezioni polmonari.Segni della sindrome sono: tachicardia, dispnea, dolore toracico, sputo purulento,modificazioni ascoltatorie e radiologiche, ipossia, ipercapnia;

• Complicanze cardiovascolari: il dolore stimola il sistema simpatico con conseguentetachicardia, aumento del lavoro cardiaco e del consumo miocardico di ossigeno; ciòcomporta un aumentato rischio di ischemia e infarto, nonché di trombosi venose profonde acausa della diminuita attività fisica, della stasi venosa.

• Complicanze gastrointestinali e urinarie: ileo, nausea e vomito sono conseguenti aimpulsi nocicettivi di origine viscerale o somatica. Il dolore causa ipomotilità vescicale conconseguente difficoltà urinaria.

• Conseguenze metaboliche e ormonali: le risposte soprasegmentali al dolore aumentano iltono simpatico e la stimolazione ipotalamica che instaurano una situazione catabolica. Ne

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conseguono modificazioni nel metabolismo dei carboidrati con neoglucogenesi, ridottautilizzazione periferica del glucosio, iperglicemia. Il bilancio azotato negativo che si osservaper alcuni giorni è condizionato dall´aumento della secrezione di ormoni catabolici(catecolamine, cortisolo, ACTH, ADH, prolattina, glucagone, aldosterone) e dallacontemporanea diminuzione degli ormoni anabolici (testosterone, insulina).

• Risposta immunitaria: il DPO causa una diminuzione non specifica dei poteri immunitaridel paziente.

TERAPIA

Analgesia bilanciata: tutti i farmaci analgesici provocano effetti secondari. Gli oppiacei dannosedazione, atonia intestinale, stipsi, ritenzione urinaria, depressione respiratoria; gli anestetici localiprovocano ipotensione e parestesie; i FANS sono nefrotossici, gastrolesivi e alterano i processi dellacoagulazione. Attualmente si tende ad associare farmaci a differente meccanismo d´azione (latrasmissione nocicettiva può essere bloccata a diversi livelli: recettori periferici, radici e tronchinervosi, corna posteriori del midollo, tronco) per rinforzare l´effetto analgesico richiesto, condosaggi ridotti dei singoli farmaci al fine di contenere i possibili effetti collaterali.

Terapia preventiva: l´analgesia preventiva si basa sui presupposti neurofisiologici che hannomesso in evidenza che uno stimolo nocicettivo può indurre a livello centrale una ipereccitabilitàneuronale prolungata. Questa plasticità del sistema nervoso sembra poter essere più prevenuta chetrattata. A tal fine si è dimostrata efficace l´anestesia loco-regionale che, bloccando la via perifericaall´input nocicettivo, elimina l´iperalgesia secondaria e facilita un buon trattamento antalgicopostoperatorio. In maniera analoga sembrano agire le infiltrazioni con anestetici locali nella sede diincisione chirurgica, gli oppiacei ad alte dosi e altri trattamenti antalgici effettuati prima cheavvenga l´incisione chirurgica.

Vie di somministrazione dei farmaci analgesici

Endovenosa: è la via con assorbimento più diretto e con effetto più rapido. A fronte di un piccorapido, si ha anche una rapida metabolizzazione e una durata di effetti più breve con maggiorincidenza di effetti collaterali. Modalità di somministrazione: a bolo su domanda, a boli a tempiprefissati, in infusione continua con sistemi computerizzati, mediante PCA (Patient Controlled

Analgesia), cioè con sistemi a domanda controllati dal paziente stesso. Farmaci impiegati: oppiacei,FANS.

Intramuscolare: è la via più comunemente usata; tempo di assorbimento medio; durata degli effettipiù lunga rispetto alla via endovenosa. La velocità di assorbimento dipende dal flusso ematico delmuscolo; l´iniezione può essere dolorosa, si può pungere accidentalmente un vaso o un nervo.Modalità di somministrazione: a domanda o a intervalli regolari. Farmaci impiegati: oppiacei,FANS.

Sottocutanea: assorbimento lento anche se diretto, effetti più prolungati rispetto alla viaintramuscolare; la velocità di assorbimento dipende dal flusso cutaneo (rallentato in caso di shock odi ipotensione). Farmaci utilizzati: oppiacei in somministrazione continua.

Transdermica: assorbimento lento e variabile; ha il vantaggio della somministrazione indolore enon invasiva; applicazioni a intervalli regolari con cerotto. Farmaco utilizzato: fentanil.

Orale: assorbimento variabile e insorgenza lenta dell´effetto. Ha il vantaggio di non essere

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invasiva, ma è poco indicata nei pazienti chirurgici: rischio di inalazione in pazienti che non hannocompletamente recuperato i riflessi, nausea, vomito, irritazione delle mucose digestive. Sublinguale: assorbimento variabile, velocità di assorbimento media, salta il filtro epatico passandodirettamente nel circolo sistemico; ha le stesse problematiche della via orale. Somministrazione adomanda o a intervalli regolari. Farmaco utilizzato: buprenorfina.

Rettale: assorbimento variabile e incostante; possibilità di somministrazione sia a pazienti consciche non ancora autonomi; può provocare evacuazione e risultare pertanto inefficace.Somministrazione a domanda o a periodi fissi. Farmaci utilizzati: FANS e oppiacei.

Spinale: assorbimento immediato e completo; rapida insorgenza di effetti e lunga durata d´azione(8-24 ore); inizialmente sono stati impiegati gli anestetici locali; con l´identificazione dei recettorimidollari specifici sono stati impiegati gli oppiacei e successivamente gli agonisti 2-adrenergici:clonidina. Somministrazione a domanda, a intervalli fissi, continua.

Peridurale: con l´impiego delle pompe elastomeriche (palloncini di materiale plastico caricabilicon oppiacei e/o anestetici locali e collegabili ad un catetere peridurale) è possibile effettuare unasomministrazione continua che assicura livelli stabili di analgesia per 24-72 ore.

Qualunque sia l´analgesico scelto, la via di somministrazione o la modalità della stessa (a domanda,continua, a boli, a orari fissi, ecc.), il fine di una adeguata terapia antalgica è quello di mantenere leconcentrazioni del farmaco a un livello ematico costante e adeguato (finestra terapeutica). Usciredalla finestra verso l´alto (sovradosaggio) implica l´insorgenza di effetti collaterali: nausea,depressione respiratoria, ecc.; scendere al di sotto vuol dire non effettuare un´adeguata coperturaanalgesica.

Farmaci

• FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei): agiscono bloccando la ciclossigenasi coninibizione delle prostaglandine che normalmente sensibilizzano i nocicettori alle sostanzealgogene. Recentemente si è evidenziata anche un´azione centrale (midollare e sovraspinale)con aumento della produzione ipotalamica di -endorfine e/o con sensibilizzazione deirecettori endorfinici. Sono considerati farmaci di elezione per i dolori di piccola e mediaentità, soprattutto con componente edematosa o infiammatoria. Hanno aumentato il loropotenziale terapeutico con l´introduzione in commercio di formulazioni somministrabili pervia endovenosa. L´associazione con gli oppiacei, nell´ottica dell´analgesia bilanciata, è ingrado di risolvere i dolori più importanti con riduzione dei dosaggi degli analgesicimaggiori.

Effetti collaterali: la loro lesività (stomaco, piastrine, rene, ecc.) è legata all´inibizione dellaciclo-ossigenasi. Crisi di asma si osservano nei pazienti allergici e asmatici perchél'inibizione della ciclossigenasi favorisce la via lipossigenasica con aumento dei leucotrieniad azione broncocostrittrice.

• Oppiacei: in virtù della loro azione sui recettori specifici (, , ) spinali e sovraspinali,questi farmaci mimano e rinforzano l´azione fisiologica delle endorfine. Sono i farmaci dielezione per dolori importanti, sia viscerali che somatici. Gli agonisti di uso più comunesono morfina, meperidina, fentanile. Tra gli agonisti parziali ricordiamo la buprenorfina.Anche se la via intramuscolare e la sottocutanea continuano a essere le più usate,nonostante i loro svantaggi, la via endovenosa o la via intraspinale sono quellerazionalmente più idonee al controllo del DPO. Il criterio terapeutico di base, anche conquesti farmaci, è quello di raggiungere con una dose di carico un´adeguata concentrazione

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plasmatica e di mantenerla poi con somministrazioni regolari. Effetti collaterali: depressionerespiratoria, vomito, riduzione della motilità intestinale, stipsi, sedazione, effetti psicotropi,miosi, effetto antitosse, spasmo dello sfintere di Oddi.

• Anestetici locali: sono impiegati per effettuare blocchi periferici, plessici e spinali(peridurale, subaracnoideo) con possibilità di un controllo continuo del dolore medianteposizionamento di un cateterino a permanenza. Un blocco peridurale può essere praticatocon anestetici locali, con oppiacei o con l´associazione dei due farmaci a dosi più basse econ minor incidenza di effetti collaterali.

• PCA (Patient Controlled Analgesia). Le prescrizioni sistematiche di posologie standard nonconsentono di adattarsi alle variazioni individuali dei bisogni dei pazienti né all´evoluzionedel dolore nel tempo. Con l´analgesia controllata dal paziente attraverso l´impiego di pompeprogrammabili, si consente di personalizzare la terapia: il paziente, al bisogno, preme unbottone che, tramite una siringa, introduce in vena un bolo prefissato di analgesico; lametodica assicura un´analgesia immediata in rapporto con la soglia di sensibilità delsoggetto, riduce il lavoro infermieristico, diminuisce l´incidenza degli effetti collateraligrazie anche a un periodo refrattario programmabile che separa i boli con intervalli minimiobbligatori

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INFEZIONI CHIRURGICHENei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico una delle complicanze più frequenti è l’insorgenzadi infezioni:

• di ferita (1-40% a seconda del tipo di intervento chirurgico e del grado di contaminazione);• delle vie respiratorie (5%, fattori di rischio: la lunga durata dell’anestesia con intubazione

tracheale ed una ridotta meccanica ventilatoria);• delle vie urinarie (5-10%, importante il cateterismo vescicale)

Si riscontrano, con frequenza minore, setticemie e infezioni delle vie biliari, infezioni di cateteri

venosi o arteriosi, ascessi profondi in sede d’intervento (toracici, addominali, pelvici, ecc.), ascessidei tessuti molli superficiali, ulcere da decubito infette, tromboflebiti settiche.

Con una frequenza del 5-10% il paziente operato presenta segni generali di infezione (febbreelevata, leucocitosi, aumento della VES), ma non è possibile localizzare il focolaio di infezione.Tra le cause più probabili di tali febbri postoperatorie di origine non identificata si ritiene vi

siano l’atelettasia polmonare e l’infezione delle prime vie respiratorie.

Le infezioni gravi postoperatorie possono, talora, avere esito letale.

PATOGENESINel prendere in esame la patogenesi delle infezioni chirurgiche, si deve far riferimento alle

interrelazioni esistenti fra tre fattori:

• agente patogeno infettante

• difese dell’organismo

• ambiente nel quale si sviluppa l’infezione

Agente patogeno infettante: la contaminazione batterica (in particolare da batteri della floraendogena presente nel tubo digerente, nell’apparato genito-urinario e respiratorio e da parte deigermi patogeni dell’ambiente nosocomiale) rappresenta uno dei fattori più importanti nellapatogenesi delle infezioni chirurgiche, ed in particolare delle infezioni della ferita. Numerose sonole specie batteriche che possono causare infezioni chirurgiche; tra i germi Gram+ gli Stafilococchi

sono spesso responsabili delle infezioni di ferita, degli ascessi e delle infezioni da corpo estraneo.Tra i germi Gram-, particolarmente frequente è il riscontro di Escherichia coli, seguito daKlebsiella e Pseudomonas. Tra i patogeni anaerobi si incontrano con maggior frequenza iBacteroides e, meno frequentemente, i Clostridi. Nella maggioranza dei casi le infezionichirurgiche sono polimicrobiche. Le infezioni nelle quali si isolano prevalentemente germi anaerobisono gli ascessi polmonari, gli ascessi pelvici e le infezioni endoaddominali.Il meccanismo patogenetico che spiegherebbe la particolare frequenza con cui i germi intestinali sipossono riscontrare in focolai settici a distanza dal tubo gastroenterico è definito traslocazione

batterica e consiste in una aumentata permeabilità della barriera mucosa intestinale, che permette lafuoriuscita dei batteri e delle endotossine dal lume intestinale.Vi sono germi comunemente presenti sulla cute e sulle mucose dell’organismo che di norma nonprovocano infezioni. Tra questi vi sono: Pseudomonas, Staphylococcus epidermidis ed anche alcunifunghi, quali Candida ed Aspergillus; essi possono però diventare patogeni e provocare lecosiddette "infezioni opportunistiche", in seguito a situazioni che comportano diminuzione delledifese dell’organismo. Le infezioni opportunistiche si manifestano prevalentemente in pazientisottoposti a trattamenti immunosoppressivi o nel corso di malattie che causano immunodepressione,quali per esempio le neoplasie in fase avanzata, l’AIDS, i gravi traumi.

Difese dell’organismo

I meccanismi di difesa dalle infezioni sono numerosi. Essi sono costituiti dalle barriere anatomiche,dalle cellule fagocitarie circolanti, dal sistema reticoloendoteliale, dai fattori immunitari umorali,

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dall’immunità cellulare, dal sistema del complemento e dalle proteine di fase acuta.

Spesso nel periodo postoperatorio compare una immunodepressione transitoria, secondaria a varifattori:

• trauma chirurgico• farmaci anestetici• emotrasfusioni• stress psicologico

In ogni caso, la diminuzione della efficienza dei meccanismi di difesa porta ad un’aumentataincidenza di infezioni postoperatorie.Per anergia agli skintest si intende l’assenza di risposta infiammatoria alla somministrazioneintradermica di antigeni; la risposta agli skin test costituisce una valutazione globale dell’efficienzadi numerosi meccanismi immunologici.Le cause più comuni di anergia sono: la presenza di neoplasie in stadio avanzato, gli stati di

denutrizione grave, le terapie immunosoppressive e l’AIDS.

Ambiente nel quale si sviluppa l’infezione: le caratteristiche anatomiche e funzionali dei tessutisono importanti nel condizionare la suscettibilità alla comparsa di infezioni. Le superfici rivestite daepitelio costituiscono barriere di tipo meccanico e chimico che si oppongono alla colonizzazionebatterica e al successivo sviluppo di infezioni. Vi sono numerose cause responsabili delle

alterazioni delle barriere anatomiche nei pazienti chirurgici, quali le manovre strumentali

invasive ripetute, la presenza di sondino naso-gastrico, di tubo endotracheale o di

tracheostomia, di drenaggi transcutanei o di catetere urinario. E' necessario ridurre al minimola permanenza di cateteri, drenaggi e strumenti invasivi, al fine di limitare il danneggiamento dellebarriere mucocutanee e di diminuire la possibilità di colonizzazione batterica dovuta alla presenzadegli strumenti invasivi. Agli effetti biologici delle interleuchine, in particolare dell’IL-1, siattribuisce la comparsa dei segni generali di infezione: febbre, leucocitosi, aumento della VES,

astenia, anoressia, mialgie, cefalea.

Modalità di diffusione delle infezioni chirurgiche

Grazie all’efficienza dei meccanismi di difesa la maggior parte delle infezioni sono localizzate e laloro evoluzione è verso la risoluzione spontanea o verso la formazione di un ascesso. Talora invecel’entità della carica batterica e uno stato di immunodepressione determinano l’evoluzionedell’infezione locale verso la formazione di un flemmone (infezione locale rapidamente invasiva,senza tendenza alla demarcazione da parte di una parete di tessuto infiammatorio), o di un’infezionenecrotizzante.La diffusione dell’infezione a distanza può avvenire attraverso le vie linfatiche o attraverso i

vasi ematici; caratteristica e la comparsa di linfoadenite e linfangite satellite ai focolai settici.La linfangite superficiale è caratterizzata dalla comparsa di striature cutanee rossastre incorrispondenza dei vasi linfatici sottocutanei flogistici.

L’invasione del sangue da parte di microrganismi può portare alla comparsa di:• batteriemia, cioè presenza di batteri nel sangue, transitoria e solitamente di breve durata se i

meccanismi di difesa antibatterica sono efficienti;• setticemia, cioè presenza nel sangue di batteri patogeni virulenti che si moltiplicano

attivamente, liberando tossine, se i meccanismi di difesa sono compromessi;• sepsi, un’infezione che ha determinato la comparsa di uno "stato settico", cioè di una

importante reazione di fase acuta dell´organismo, caratterizzata da alterazioni

emodinamiche, metaboliche, immunologiche e nutrizionali, indotte dai mediatori delle

risposte biologiche.

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Altre complicanze delle infezioni: oltre allo shock settico, si ricorda la possibile comparsa diinsufficienze multiple di organi (Multiple Organ Failure, MOF). Inoltre si possono manifestare: gravi alterazioni del sistema della coagulazione (CID), depressionemidollare con piastrinopenia e leucopenia, microembolie settiche, con possibile sviluppo ingangrena settica.

Metodi diagnostici

• infezioni di ferita: vi sono segni locali che vanno dalla comparsa di eritema, dolore edindurimento, fino alla comparsa di raccolta purulenta e possibilità di deiscenza della feritastessa.

• infezione postoperatoria delle vie respiratorie: segni di infezione all’esame obiettivo deltorace, unitamente alla documentazione di addensamento polmonare all’esame radiologico,eventualmente confermato dalla positività dell’esame colturale dell’espettorato.

• infezioni delle vie urinarie: il criterio diagnostico è quello dell’urinocoltura positiva.• altre infezioni meno frequenti: il criterio diagnostico di certezza è dato dalla positività degli

esami colturali degli essudati o delle colture dei liquidi biologici raccolti nella sospetta sededi infezione, o dalla positività dell’emocoltura. Per la localizzazione degli ascessi

addominali è assai utile l’esecuzione dell’ecografia. L’esame TC è utile e talvolta

indispensabile per la diagnosi di ascessi profondi: a livello cerebrale, toracico,addominale e degli arti.

• infezione sostenuta da germi anaerobi: raccolta in sede di infezione di materiale di odore

fetido; presenza di tessuto necrotico; formazione di pseudomembrane o di gangrena;presenza di gas nei tessuti (evidenziabile all’es. Rx o alla TC o alla palpazione) e nellesecrezioni; infezione successiva ad intervento chirurgico sul colon-retto.

I metodi consigliati per la raccolta di materiale per colture microbiologiche in corso di infezionichirurgiche variano in rapporto agli organi interessati dall’infezione.Per le infezioni delle vie respiratorie si esegue abitualmente l’esame dell’escreato bronchiale; piùattendibile è il brushing bronchiale in broncoscopia o puntura diretta polmonare. La coltura delliquido di toracentesi è indicata nelle infezioni del cavo pleurico.Per le gravi infezioni delle vie urinarie, si esegue abitualmente l’urinocoltura, con l’avvertenza dievitare di contaminare l’urina durante la minzione. Quando si vuole assolutamente escludere lacontaminazione dell’urina durante il prelievo, e indicata l’aspirazione endovescicale percutanea

per via sovrapubica.L’esame colturale delle raccolte ascessuali si può fare mediante aspirazione dell’essudato con

siringa. E' opportuno procedere ad un esame batterioscopico con la colorazione di Gram.

Terapia

I criteri generali di terapia delle infezioni chirurgiche si possono suddividere in:• misure generali di supporto

• trattamento locale

• chemioterapia antibiotica

Fanno parte delle misure generali di supporto:• il controllo delle alterazioni volemiche, idroelettrolitiche, della crasi ematica e

metaboliche;• il supporto nutrizionale (durante le infezioni la presenza di alterazioni quali l’anoressia, la

nausea, il vomito, la diarrea, l’ileo paralitico impediscono un’alimentazione oralesufficiente);

• la fisioterapia (ha lo scopo di migliorare la ventilazione e la perfusione polmonare, nonchéle condizioni emodinamiche, consente l’eliminazione delle aree di atelettasia polmonare)

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I principi generali del trattamento locale sono: incisione, drenaggio, detersione, sutura (a parità

di impermeabilità e tenuta, la sutura più fisiologica e con minore incidenza di complicanze è

quella monostrato a punti staccati sottili).

Chemioterapia antibiotica

La scelta dei farmaci da impiegare per il trattamento delle infezioni sensibili agli antibiotici puòessere decisa secondo i seguenti criteri:

• scelta empirica, sulla base di una valutazione clinica;

• scelta mirata, sulla scorta dei test di sensibilità agli antibiotici.

L’efficacia dell’antibioticoterapia è direttamente proporzionale alla tempestività di impiego deifarmaci. Molto spesso il chirurgo deve fondare la propria decisione circa l’iniziodell’antibioticoterapia senza disporre dei test di sensibilità in vitro. La decisione clinica in talicircostanze si deve cosi articolare:

• valutazione della sintomatologia legata all’infezione, con formulazione di ipotesidiagnostiche sul tipo di infezione e sul probabile agente patogeno;

• scelta dell’antibiotico o della combinazione antibiotica che più probabilmente è efficacecontro i microrganismi sospetti responsabili dell’infezione;

• raccolta e coltura di adeguati campioni biologici (sangue, escreato, essudato, urina, ecc.)prima d’iniziare l’antibioticoterapia, cosi da ottenere successivamente una diagnosimicrobiologica.

Esami di laboratorio per la scelta degli antibiotici

Il test di sensibilità in vitro dei microrganismi agli antibiotici fornisce informazioni circa la MIC(Minimal Inhibitory Concentration) dei farmaci.

La durata della terapia antibiotica dipende dalla risposta clinica, valutabile come risoluzione

dell’infezione. L’attenuazione significativa o la scomparsa dei segni generali di infezione da più di48 ore, associata a significativa diminuzione dei segni locali di infezione, rappresentano i criterifondamentali che consigliano la sospensione della terapia.In particolare per gli antibiotici (la maggioranza) che vengono escreti per via urinaria, è da

ricordare la necessità di diminuzione del dosaggio nei pazienti affetti da insufficienza renale.

Nei pazienti con infezioni gravi e in quelli con alterazioni della funzionalità gastrointestinale, sidarà la preferenza agli antibiotici per via parenterale, che consentono di ottenere con certezza livelliematici terapeutici. Talora può essere necessario impiegare antibiotici in combinazione. Ciòdiventa necessario nel caso di infezioni polimicrobiche con sensibilità diverse e impiego sinergicodi farmaci per ottenere un effetto terapeutico superiore (per es. amoxicillina e acido clavulanico;ampicillina e sulbactam; trimethoprim e sulfametossazolo).Tra gli effetti secondari, che possono variare a seconda dei farmaci impiegati, va segnalata lafrequente comparsa di candidiasi orale; inoltre è da valutare con particolare cura nel pazientechirurgico la comparsa di diarrea. La patogenesi della diarrea da antibiotici è a volte legata asuperinfezione da Clostridium difficile, che elabora una tossina in grado di provocare colitepseudomembranosa grave. Il C. difficile è solitamente sensibile alla vancomicina.

Profilassi e controllo delle infezioni nosocomiali

Per prevenire l’insorgenza delle infezioni chirurgiche è possibile agire a due livelli:• aumentando le capacità di difesa dell’organismo;• riducendo o abolendo la contaminazione batterica.

Per la profilassi delle infezioni è importante il riequilibrio metabolico dei pazienti dismetabolici(per es. diabete, insufficienza epatica o renale). E' importante a tale fine perseguire il ripristino

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dell’omeostasi glicemica, dell’equilibrio acido-base e, per quanto possibile, della funzionalità renaleed epatica. Il ripristino dello stato nutrizionale rappresenta un obiettivo di primaria importanza nellapreparazione del paziente all’intervento chirurgico; parimenti importante è evitare l’eccessivadeplezione nutrizionale durante il periodo catabolico postoperatorio o post-traumatico. E' possibileraggiungere questi obiettivi mediante l’impiego di tecniche nutrizionali artificiali, quali lanutrizione parenterale totale e la nutrizione enterale specializzata. Una meticolosa antisepsi è daperseguire sia in fase di preparazione che di esecuzione dell’atto operatorio.

Un’adeguata profilassi antinfettiva in chirurgia comporta i seguenti provvedimenti:• antisepsi pre ed intraoperatoria e cura delle ferite chirurgiche;• accurata manutenzione e rimozione precoce dei cateteri infusionali, dei drenaggi e degli

strumenti invasivi;• somministrazione profilattica di antibiotici.

I principi generali della chemioprofilassi antibiotica si basano anzitutto sulla distinzione degliinterventi in: puliti, puliti-contaminati, contaminati e sporchi. La chemioprofilassi va sempreattuata prima dell’esecuzione di interventi, puliti-contaminati, contaminati e sporchi, avendo curache l’antibiotico raggiunga, al momento dell’inizio dell’atto chirurgico, la concentrazioneplasmatica efficace.La chemioprofilassi non dovrebbe essere eseguita negli interventi puliti, ad eccezione di quegliinterventi che prevedono l’impianto di materiali protesici ed in quelli che si prevedonoparticolarmente lunghi. E' stata infatti osservata una maggior incidenza di complicanze infettivedopo interventi chirurgici puliti che si protraggono per oltre 3 ore. La scelta dell’antibiotico o dellacombinazione di antibiotici da somministrare a scopo di profilassi antinfettiva deve essere fattaconoscendo la composizione della flora batterica, che presumibilmente contaminerà il campo

operatorio al momento della sezione chirurgica del viscere su cui si opera.

Grado di contaminazione

Tipo di intervento

Pulito Nessun focolaio settico in vicinanza del campo; nessun errore tecnico; nessuna interruzione della continuità del tubo digerente, respiratorio o genito-urinario.

Pulito - contaminato Sezione del tubo gastroenterico senza eccessiva contaminazione del campooperatorio; apertura delle vie genito-urinarie o delle vie biliari in assenza di infezioni urinarie o biliari; per es. colecistectomia.

Contaminato Abbondante contaminazione per apertura del tubo gastro-enterico; aperturadelle vie urinarie o biliari in presenza di urina o bile infetta; per es. appendicite flemmonosa; interventi sul grosso intestino.

Sporco Contaminazione diffusa del campo operatorio; per es. peritonite stercoracea.

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Fattori di rischio:

• Legati al paziente

• Eta avanzata• Diabete• Fumo di sigaretta• Infezioni in altre sedi• Obesità• Malnutrizione• Uso concomitante di steroidi• Degenza pre-op. prolungata• Immunodepressione

• Legati alle procedure

• Assenza di doccia pre-op.• Rasatura con rasoio a lama• Impropria preparazione della cute• Misuso della profilassi antib.• Assenza della dose i.o. di richiamo• Assenza dei flussi laminari in s.o.• Sovraffollamento della s.o.• Errori nelle tecniche antisettiche• Errori di tecnica chirurgica (trauma tissitale)

La profilassi antibiotica delle infezioni chirurgiche può essere locale oppure sistemica.

• Profilassi antibiotica locale a livello della ferita chirurgica: è indicata raramente, solo incasi particolari di interventi molto contaminati o sporchi. L’impiego di neomicina,kanamicina e cefalosporine su ferite potenzialmente contaminate o sicuramente contaminatepermette di ridurre in modo significativo l’incidenza di infezioni; la profilassi antibioticalocale non è indicata negli interventi puliti, salvo che sia programmato l’impiego dimateriale protesico (protesi vascolari, articolari, ecc.).

• Profilassi antibiotica sistemica: lo scopo della profilassi sistemica è di realizzare unadifesa antibatterica efficace, ottenendo la massima concentrazione di antibiotico a livello deitessuti al momento della loro sezione chirurgica. Le indicazioni all’impiegodell’antibioticoprofilassi sistemica sono:

• Interventi pulito-contaminati e contaminati;• Interventi sul tubo gastroenterico;• Interventi sulle vie biliari;• Isterectomia per via vaginale;• Interventi puliti che prevedono impianti protesici;• Interventi puliti che si prevedono di lunga durata (> 2 ore);• Interventi settici o sporchi

La chemioprofilassi è particolarmente efficace solo se viene eseguita poco prima del momento incui presumibilmente avverrà la contaminazione.La maggior parte dei chemioterapici raggiunge la massima concentrazione tissutale a distanza di60-90 minuti dalla somministrazione endovenosa; in pratica, quindi, la somministrazionedell’antibiotico deve avvenire al momento della preanestesia, cioè a pochi minuti dall’intervento2.Quando l’intervento chirurgico si prolunga (oltre 4-5 ore), è opportuno somministrareintraoperatoriamente una seconda dose di antibiotico, ad eccezione del caso in cui il chemioterapicosia dotato di emivita sierica prolungata.

2 Esiste anche una che si effettua al momento dell'anestesia.

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Nella scelta dell’antibiotico o di un’associazione di antibiotici si deve tener conto della popolazionebatterica che presumibilmente contaminerà il campo operatorio in quel particolare tipo diintervento. Per esempio, nel caso di intervento sul grosso intestino, la scelta degli antibiotici per laprofilassi delle infezioni dovrà indirizzarsi verso farmaci che agiscono elettivamente econtemporaneamente sui germi Gram-aerobi e sugli anaerobi. La durata complessiva della profilassiantibiotica è oggetto di pareri non univoci. La maggior parte dei chirurghi sostiene l’efficacia diun’unica somministrazione di antibiotico poco prima dell’intervento chirurgico; altri ritengono, alcontrario, che la somministrazione profilattica degli antibiotici debba essere ripetuta 2 o 3 voltenelle prime 24 ore dopo l’intervento.

PROFILASSI ANTITROMBOTICALa trombosi venosa rappresenta una delle complicanze potenzialmente più gravi nei pazientisottoposti ad interventi chirurgici, nei politraumatizzati e nei pazienti anziani costretti a letto. Lagravità di questa complicanza consiste nel rischio di possibile embolia polmonare.

I distretti venosi più frequentemente interessati sono le vene superficiali e profonde degli artiinferiori (vene safene, tibiali, poplitea e femorale), e le vene pelviche maggiori (vena iliaca interna,esterna e comune).I fattori patogenetici delle flebotrombosi sono riassunti dalla triade di Virchow:

• rallentamento del flusso venoso

• alterazione della parete venosa

• aumento della coagulabilità del sangue

Le malattie che determinano la comparsa di uno o più di questi tre fattori comportano un elevatorischio di trombosi venosa. Il rischio di insorgenza di trombosi venosa profonda (TVP), puòessere ridotto identificando i pazienti a rischio maggiore e adottando per essi opportune misure diprofilassi.I fattori di rischio di TVP sono:

• il tipo di intervento chirurgico (in particolare gli interventi ortopedici e quelli sulla

pelvi) e i traumi gravi;

• la gravidanza e il puerperio;• l’infarto del miocardio;• l’insufficienza cardiaca congestizia;• la presenza di neoplasie;• l’eta > 40 anni;• la presenza di vene varicose;• pregressi episodi di tromboembolia venosa;• l’immobilizzazione prolungata;• l’uso di contraccettivi orali.

Tra le misure più semplici intese ad evitare un rallentamento del flusso sanguigno, che rappresentauno dei fattori patogenetici primari della TVP, vanno considerati:

• la mobilizzazione precoce del paziente a partire dalla prima giornata postoperatoria;• il sollevamento degli arti inferiori dal piano del letto;• la fisioterapia pre e postoperatoria, di tipo motorio e respiratorio;

• l’elastocompressione con benda elastica e la compressione pneumatica intermittentedell’arto inferiore, mediante gambali gonfiabili;

• la somministrazione di preparazioni di eparina a basso peso molecolare per via

sottocutanea, subito dopo l’intervento. In caso di somministrazione di eparina, siasottocutanea che endovenosa, è necessario controllare accuratamente la coagulazione delsangue. I test di laboratorio per il monitoraggio della coagulazione del sangue durante

trattamento eparinico sono: il tempo di Quick e il PTT.

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CHIRURGIA MININVASIVA

La chirurgia mininvasiva comprende interventi attuati per via laparoscopica e toracoscopica edinterventi attuati all´interno di organi cavi, come la chirurgia transanale, transesofagea etransgastrica.Da tecnica puramente diagnostica l´endoscopia è divenuta tecnica operativa grazie all´avvento dimicrotelecamere ad alta definizione che montate sull´ottica permettono la visione del campooperatorio su uno o più monitor televisivi. La visione del campo operatorio è spessoanatomicamente più definita e chiara di quanto si ottenga a "cielo aperto" ed il chirurgo è libero dioperare a due mani, tramite strumenti chirurgici che attraversano la parete addominale o toracica.L´esperienza acquisita in questo tipo di chirurgia ha messo in risalto come in molti interventi ildecorso postoperatorio sia soprattutto influenzato dal trauma legato alla via di accesso all´organo,spesso necessariamente sproporzionata alla relativa semplicità dell´intervento da eseguiresull'organo stesso.È proprio la rapida ripresa del paziente nel decorso postoperatorio che ha reso questa tecnica cosìben accetta dal chirurgo e dal paziente stesso. L'assenza della ferita laparotomica o toracotomica ela ridotta manipolazione di parete e dei tessuti durante l´intervento si traducono in una drasticariduzione delle complicanze di ferita (ernie, infezioni), nella netta riduzione del dolorepostoperatorio e nella rapida ripresa delle funzioni respiratorie ed intestinali. Tutto ciò si traduce inuna precoce dimissione dall´ospedale del paziente che può riprendere in breve tempo l´attivitàlavorativa.A fronte di questo entusiasmo iniziale si sono anche messe in luce le problematiche legate allanuova tecnica, che hanno portato a complicanze intraoperatorie, alcune molto gravi, legate adun'iniziale inesperienza ed alla curva di apprendimento di ogni nuova tecnica. Il chirurgo opera conuna visione bidimensionale che appiattisce la profondità del campo operatorio e senza la sensazionetattile caratteristica del gesto operatorio. Queste limitazioni sono superate attraverso un´attività diallenamento sui simulatori e attraverso l´aiuto di colleghi esperti in questa chirurgia.

Chirurgia endoscopica transanale

La chirurgia transanale (TEM, Transanal Endoscopic Microsurgery) rappresenta un classicoesempio di come le tecniche endoscopiche possano essere attuate all´interno di organi cavi conl'intento, in casi selezionati, di evitare interventi altamente demolitivi, come per esempioun'amputazione di retto per via addominoperineale con confezionamento di colostomia terminale.L´accurata selezione dei pazienti da sottoporre a questo tipo di trattamento è essenziale:l'esplorazione digitale (che permette di apprezzare la sede e la mobilità della lesione), la rettoscopiacon strumento rigido (distanza della lesione dalla rima anale, biopsie multiple), l´ecografiaendorettale e la TC della regione perirettale (grado e profondità di infiltrazione nelle pareti del retto,infiltrazione del grasso perirettale e presenza di linfonodi patologici) sono gli esami diagnosticinecessari ad una accurata stadiazione della malattia e quindi alla valutazione della fattibilità dellaTEM.Sono aggredibili con la TEM lesioni del retto extraperitoneale situate entro i 15 cm di distanza dallarima anale, che non occupino più dei 2/3 della circonferenza del viscere.In anestesia generale, il paziente viene posizionato a seconda della sede della lesione in modo che lastessa giaccia su di un piano inferiore rispetto alla posizione dell´operatore. Viene introdotto nelretto un apposito rettoscopio operatore, a tenuta stagna, per poter mantenere una distensione delretto tramite CO2 a bassa pressione. Al suo interno è presente un´ottica stereoscopica collegata aduna fonte luminosa ed ad una telecamera che permette la visione sul monitor esterno. È possibileinserire sino a 4 strumenti operatori tramite delle valvole a tenuta. L´operatore esegue l´interventodi resezione scollando i piani sottomucosi e muscolari con l´elettrobisturi, mentre un secondooperatore provvede all´aspirazione del sangue e al lavaggio del campo operatorio. Terminata laresezione è possibile eseguire la sutura diretta del margine mucoso onde prevenire una possibile

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emorragia o la comparsa di stenosi secondaria ad una guarigione per seconda intenzione.

Indicazioni alla chirurgia endoscopica transanale.

• Resezione di adenomi villosi

• Resezioni di carcinomi rettali allo stadio T1

• Resezioni palliative di carcinomi rettali allo stadio T3

• Asportazione di ulcera solitaria del retto

• Rettopessia per prolasso

Il decorso operatorio è generalmente rapido e ben tollerato se si esclude una possibile transitoriadifficoltà minzionale e di incontinenza fecale, peraltro completamente reversibile, legata alledimensioni del rettoscopio operatore.

SHOCK

Tradizionalmente lo shock è stato identificato con un quadro di ipotensione grave e di collassocardiocircolatorio; oggi si parla di shock indipendentemente dalla presenza di ipotensione se, sullabase di rilevazioni dirette o indirette, viene riconosciuta un’alterazione del trasporto e/outilizzazione dell’ossigeno e dei substrati da parte dei tessuti. Lo shock può essere definito comeuna sindrome dovuta all’alterazione dei processi di produzione energetica cellulare da diminuzionedella disponibilità o dell’utilizzazione dell’ossigeno e ai meccanismi fisiopatologici di compensoche ne derivano. L'’alterazione del metabolismo cellulare appare essere un momento patogeneticofondamentale il quale si automantiene e che, a sua volta, interessando tutti gli organi e tessuti, nepuò provocare alterazione sino all’insufficienza e allo scompenso. Sotto questa angolazione èpossibile concepire lo shock come un’entità patologica unitaria, anche se i fattori eziologici e imeccanismi che concorrono a realizzarne il quadro possono essere differenti.

Sul piano nosografico lo shock contempla fenomeni plurieziologici (per es. cardiogeno,ipovolemico, traumatico, settico, neurologico, anafilattico), a ripercussione pluriviscerale edevoluzione in complicanze di organi vitali (cuore, polmoni, reni, fegato, SNC).

Sul piano clinico si tratta di una condizione che, senza predilezione di sesso o eta, ha lecaratteristiche di insorgere più o meno acutamente, di compromettere la stabilità cardiocircolatoria,di produrre a carico di organi vitali una perfusione inadeguata ai livelli di funzionalità richiesti inqueste circostanze.

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RISPOSTA NEUROENDOCRINA AL TRAUMA CHIRUGICOPer stress, in medicina, si definisce una qualsiasi aggressione che perturba l’omeostasi di unorganismo vivente e l’insieme di reazioni biologiche che l’organismo mette in atto.Benché i tipi di stress siano molti e molto diversi tra loro (traumatico, chirurgico, infettivo,dolorifico ecc.), la risposta dell’organismo e, nei suoi tratti essenziali, univoca, stereotipata easpecifica. Tale reazione coinvolge, in vario grado:

• il sistema nervoso• endocrino• metabolico• immunologico

Fasi della risposta neuroimmunoendocrina

Sistema microendocrino. Il primum movens sembra essere l’attivazione dell’infiammazionetramite il cosiddetto "sistema microendocrino" costituito da interleuchine e prostaglandine,sostanze ormono-simili che sono i principali mediatori della risposta infiammatoria. Leinterleuchine e le prostaglandine si liberano a livello della sede lesionata, e sono prodotte daimacrofagi e dai neutrofili attivati e dagli stessi tessuti lesionati. Il sistema microendocrino, a suavolta, è in grado di attivare il sistema macroendocrino e di indurre a livello epatico la cosiddetta"risposta di fase acuta". La sensazione del dolore contribuisce in vario grado e in via riflessaall’attivazione del sistema macroendocrino.

Sistema macroendocrino. L’attivazione del sistema macroendocrino comporta:• ipertono simpatico, con liberazione di catecolamine;• iperincrezione di ACTH, aldosterone, ADH e GH;• aumento del glucagone e inibizione del rilascio di insulina, dovuto all’iperincrezione di

catecolamine. Successivamente, però, l’insulinemia tende a riaumentare per azione direttadell’interleuchina-1 e per l’iperglicemia che si è instaurata per un difetto di utilizzo da partedei tessuti periferici;

• insulino-resistenza: deriva dall’iperincrezione di GH e dall’aumento della cortisolemia;

Fenomeni metabolici. Sul piano metabolico, la reazione ormonale si traduce in quattro effettiprincipali:

• ridotto utilizzo periferico del glucosio e iperglicemia;• aumento della neoglucogenesi epatica;• aumento del catabolismo proteico a livello periferico (muscoli, intestino);• aumento della captazione degli aminoacidi e incremento della proteino-sintesi epatica.

Risposta di fase acuta. Gli ultimi due effetti sono in gran parte ascrivibili all’azionedell’interleuchina-1 che:

• induce la proteolisi muscolare;• a livello epatico stimola la sintesi delle proteine di fase acuta (proteina C-reattiva,

fibrinogeno, ceruloplasmina).

Nel complesso, la risposta ormonale modifica l’assetto metabolico allo scopo di:• aumentare i substrati disponibili per le cellule che costituiscono il "tessuto di riparazione",

che utilizzano come unico substrato il glucosio;• aumentare i substrati disponibili per il fegato, che nella fase di stress è l’organo centrale

della risposta della fase acuta.

Fenomeni immunologici

Il cortisolo e le catecolamine sembrano avere effetti inibitori sull’immunita cellulomediata e,

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soprattutto, su alcune popolazioni linfocitarie, quali i linfociti T-helper, provocando una linfopeniacon inversione del rapporti T-helper/T-suppressor.Alcune proteine di fase acuta sembra possano avere funzioni immunodepressive o diimmunoregolazione.

Nell’insieme la risposta neuroendocrina allo stress ha lo scopo di fornire all’organismo aggredito imezzi per far fronte all’aggressione. Tuttavia essa risulta utile quando è limitata nel tempo. Lapersistenza dei fenomeni neuroendocrini, metabolici e immunologici conduce l’organismo,soprattutto se defedato, a un rapido esaurimento delle risorse e delle difese. D’altra parte,un’abnorme amplificazione dell’attività e degli effetti del microsistema endocrino è in grado dideterminare essa stessa un danno strutturale irreparabile a vari organi e sistemi, con conseguenteesaurimento delle funzioni vitali dell’organismo.

Quadro clinico. La reazione a uno stress rappresenta una "reazione di allarme". I sintomicaratteristici sono prevalentemente quelli ricollegabili all’attivazione ortosimpatica:

• tachicardia, ipertensione, aumento della contrattilità cardiaca, vasocostrizione periferica,pelle sudata e fredda, ecc. Bisogna notare come tali sintomi possano rappresentare, per unpaziente con cardiopatia ischemica, un pericolo piuttosto che un vantaggio.

Stress da dolore chirurgico

Il dolore intra e postoperatorio rappresenta uno dei principali stress per l’organismo sottoposto aintervento chirurgico. La lesione tissutale, conseguente all’intervento effettuato, determinal’attivazione di tutta la risposta neuroimmunoendocrina precedentemente descritta. Un dolore nonben controllato può, quindi, portare a un rapido esaurimento delle capacita di difesa e di reazionedell’organismo del paziente, peggiorando la prognosi postoperatoria. Per tutti questi motivi viene posta sempre maggiore attenzione al controllo del dolore intra epostoperatorio. Un miglior controllo del dolore intra e postoperatorio riduce l’attivazione della rispostaneuroimmunoendocrina allo stress e riesce a migliorare l’outcome del paziente (minor tempo diospedalizzazione, minori complicanze polmonari, minor tempo di recupero delle funzionibiologiche, minor tempo di immobilizzazione).

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FERITE

Si intende per ferita una soluzione di continuo della cute.Esistono tre modalità di guarigione delle ferite:

• per prima intenzione, quando i margini di una ferita sono contrapposti così da essereseparati solo da uno spazio virtuale. E' la condizione ideale che si verifica nella feritasuturata chirurgicamente. In tali circostanze, il tessuto cicatriziale neoformato è di minimaentità;

• per seconda intenzione, quando tra i margini della ferita si costituisce un intervallo realedestinato a essere colmato prima dal tessuto di granulazione e successivamente da unamassa cicatriziale;

• per terza intenzione, questo tipo di guarigione riguarda le ferite chirurgiche andateincontro, nel decorso post-operatorio, a una deiscenza parziale o totale. Il trattamento diquesta complicazione prevede di norma la riapertura completa della ferita, la sua accuratadetersione, l'asportazione delle aree mortificate, un adeguato zaffaggio. In un secondomomento, valutata la situazione locale e dopo aver escluso la presenza di focolai diinfezione, si può procedere a una nuova sutura dei lembi.

Le fasi del processo di riparazione: FIPRO

• formazione del coagulo: rete di fibrina, nelle cui maglie sono incluse emazie, piastrine ealtri elementi figurati del sangue. L’avvicinamento dei margini della ferita è iniziato dallaretrazione del coagulo, mediato dalla trombostenina piastrinica;

• invasione dei fagociti: dapprima granulociti neutrofili, rapidamente sostituiti poi daimacrofagi; detergono la ferita, fagocitando la fibrina e i detriti cellulari e riversando in sedeextracellulare numerosi enzimi litici. Inoltre liberano fattori di crescita per i fibroblasti e lecellule endoteliali;

• proliferazione dei tessuti connettivali (componente cellulare ed extracellulare): iltessuto di granulazione è un tessuto connettivale scarsamente differenziato e moltovascolarizzato che compare tra il II e il III giorno del processo di riparazione della ferita.Clinicamente appare come una massa di colorito rosso acceso, facilmente sanguinante, asuperficie più o meno bernoccoluta per cui si parla di "bottoni di granulazione". La

componente cellulare è rappresentata soprattutto dai fibroblasti, ma sono presenti anchealtre cellule connettivali: macrofagi, leucociti, mastociti. I filamenti di fibrina rappresentanol’impalcatura e la guida per la loro proliferazione. Una parte dei fibroblasti assumecaratteristiche microstrutturali e funzionali tipiche delle cellule muscolari lisce ed è perquesto definita "miofibroblasti": questi sono ritenuti il fattore più importante nella

contrazione della ferita. Tali cellule normalmente scompaiono per apoptosi subito dopo ilcompletamento della chiusura della ferita stessa attorno alla X-XII giornata. Sono

abnormemente presenti in condizioni di cicatrizzazione ipertrofica.

Contemporaneamente ai fibroblasti, tra il II e il III giorno proliferano gli abbozzi vascolari,stimolati essenzialmente dal VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) e dal FGF. Suimargini della lesione, a partenza dai periciti (cellule mesenchimali adiacenti alle celluleendoteliali dei capillari residui), originano delle protuberanze solide, che si allungano poi incordoni diretti verso il centro; questi cordoni si anastomizzano fino a formare una fitta rete;successivamente si cavitano e vi si stabilisce il flusso ematico. Più tardi rispetto ai capillariematici, rigenerano i capillari linfatici, anch’essi a partire da vasi preesistenti. La

componente extracellulare, costituita da una parte amorfa e da una fibrillare, è elaborata dai

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fibroblasti. Essi secernono acido ialuronico e altri glucosaminoglicani, i quali rappresentanoil substrato della cosiddetta sostanza fondamentale amorfa extracellulare. Compito deifibroblasti è anche l’elaborazione e la secrezione del procollagene, che viene trasformato inambiente extracellulare in tropocollagene. Dal tropocollagene originano le microfibrille, einfine le fibre collagene vere e proprie;

• riepitelizzazione: la fase di riepitelizzazione inizia molto precocemente: entro le 24 oreinfatti i cheratinociti tendono a migrare dai margini verso il centro della lesione e in IIIgiornata nell’epidermide dei labbri della ferita è osservabile un’intensa attività mitotica nonlimitata allo strato basale. La riepitelizzazione si realizza però solo quando, grazie allaproliferazione del tessuto di granulazione, si colma l’eventuale dislivello tra il fondo e ibordi della lesione. Un tessuto di granulazione esuberante, tuttavia, ostacola lariepitelizzazione;

• organizzazione della cicatrice: le fibre collagene aumentano di numero e spessore;diminuisce il numero dei fibroblasti, che vanno assumendo l’aspetto di cellule quiescenti: ifibrociti; diminuiscono i capillari. Si viene cosi a formare la cicatrice: un tessutoconnettivale definitivo, poco irrorato, poco innervato, anelastico, prevalentemente costituitoda fibre collagene dense, con rari elementi cellulari in riposo funzionale (fibrociti), rivestitoda una cute fragile, traslucida, di colorito alterato, inestensibile, priva di annessi, spesso sededi iper- e parestesie. L’organizzazione del tessuto di riparazione a opera delle fibre collagenedetermina un aumento della sua "resistenza alla trazione" (tensile strength).

Il tessuto cicatriziale subisce nel tempo uno spontaneo processo di retrazione, nel quale

distinguiamo due componenti:

• contrazione: si conclude nell’arco di circa 12 giorni dal trauma: è determinata dallacontrazione dei miofibroblasti presenti nel tessuto di granulazione;

• retrazione: la retrazione della cicatrice già costituita, associata anche al suo aumento dispessore, si prolunga per diversi mesi: è determinata dall’aggregazione delle fibrille di

tropocollagene, per polimerizzazione e formazione di legami crociati (crosslinks), con

perdita di acqua.

Una cicatrice può essere considerata solida dopo 2 settimane. La sua organizzazione si completain circa 6 mesi, trascorsi i quali si avvia lentamente ad assumere il suo aspetto definitivo, checonsegue in circa 2 anni.

I diversi tipi di ferita

A seconda della profondità cui giunge la soluzione di continuo dei tessuti, si distinguono:• ferite superficiali: interessano la cute e il sottocutaneo fino alla fascia superficiale

esclusa;

• ferite profonde: interessano anche la fascia e le diverse strutture sottofasciali.

In base alle caratteristiche dei margini della ferita, si distinguono:• ferite lineari: determinate da strumenti taglienti e affilati, sono caratterizzate da bordi netti e

continui, senza segni di sofferenza tissutale. Rappresentano la condizione ideale per losvolgimento dei processi di riparazione;

• ferite contuse: determinate da strumenti taglienti, ma in associazione a una pressionesuperiore a quella endovascolare. Ne consegue la sofferenza ischemica dei tessuti adiacentialla ferita, per cui i bordi appaiono ecchimotici e perciò destinati, a seconda della gravitàdella contusione, a necrosi diffusa o parcellare. La sutura di tali ferite deve essere

preceduta dalla accurata eliminazione meccanica dei margini sofferenti.

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• ferite lacere: determinate dagli agenti lesivi più disparati. I bordi sono variamente

conformati e di spessore irregolare. La sutura deve essere preceduta da un’accuratadetersione dei bordi, con eliminazione delle porzioni verosimilmente destinate alla necrosi.Le ferite lacere il più delle volte presentano i bordi variamente contusi realizzando cosi ilquadro della ferita lacerocontusa.

PATOLOGIA DELLE FERITE

Cicatrizzazione ipoplastica: è indotta da turbe dei fattori che condizionano la guarigione delleferite e si manifesta con una deficiente produzione di tessuto di granulazione e una epitelizzazioneritardata. La cicatrice ipotrofica appare depressa, traslucida, ipopigmentata, spesso marezzata inperiferia per la presenza di teleangectasie, facilmente ulcerabile.

Fattori inibenti la guarigione delle ferite.

Esogeni Endogeni

DenutrizioneInfezioniCorpi estraneiCompressioneRadiazioni

Turbe circolatorieMalattie metabolicheMalattie cutaneeDeficit immunitari

Cicatrizzazione iperplastica: può essere indotta da un trattamento inadeguato delle ferite, nonchéda una certa predisposizione soggettiva. La cicatrice appare fin dalla II settimana dal trauma comeun cordone rilevato, eritematoso, dolente, espressione clinica di un aumento quantitativo delle

fibre collagene, che comprimono le terminazioni nervose; l’epidermide è sottile e atrofica. Coltempo la cicatrice ipertrofica mostra una certa tendenza alla regressione spontanea, che può esserefavorita da trattamenti locali con corticosteroidi. Dopo almeno 6 mesi, la cicatrice ipertrofica può

essere corretta chirurgicamente mediante escissione del cordone, eliminazione dell’eventuale

tensione e corretta sutura.

Cicatrizzazione metaplastica: tale patologia cicatriziale porta alla costituzione del cheloide. Ilcheloide è caratterizzato da un’inesorabile capacita di recidiva locale, che lo diversifica dalle banaliforme ipertrofiche, pur non essendo in grado di dare metastasi, a differenza delle neoplasie.L’eziopatogenesi del cheloide è ancora in gran parte oscura. Si ipotizza una predisposizionefamiliare e razziale. Nell’ambito dei fattori esogeni, si elencano le medesime cause che inducono lacicatrizzazione ipertrofica e in particolare: l’eccessiva tensione sui margini della ferita, la presenzadi materiale estraneo, tutte le condizioni che rallentano il processo di guarigione (lesioni guarite perseconda intenzione). Clinicamente il cheloide appare come una tumefazione di colorito rossoacceso, di forma spesso diversa da quella della lesione di partenza e di dimensioni superiori: ladolorabilità, spontanea o indotta dalla pressione, è spesso notevole. Sedi predilette sono, in ordine,la regione presternale, la regione deltoide, la regione dorsale, le regioni cervicali anteriore e laterale.La terapia del cheloide, tuttora sperimentale, è praticabile solo sulle forme recenti (non più di 6mesi dalla lesione primitiva). Tra le proposte più attuali ed efficaci ricordiamo: il bendaggioelasticocompressivo (per almeno 6 mesi); la laserterapia all’infrarosso.Studi ancora sperimentali sembrano dimostrare l’efficacia del mannosio 6-fosfato nel controllodella cicatrizzazione ipertrofica e cheloidea, attraverso un meccanismo di inibizione dell’attivazionedella famiglia dei Transforming Growth Factors.

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Il cheloide inveterato è ribelle a qualsiasi trattamento.

Risultati moderatamente incoraggianti si stanno ottenendo associando all’asportazione chirurgicauna contestuale singola seduta di radioterapia, seguita dalla elastocompressione con lamine in gel didimetilpolisilossano.

Cicatrizzazione neoplastica: la trasformazione cancerosa delle cicatrici (ulcera di Marjolin) è unevento non frequente. Insorge tipicamente, dopo una latenza media da 10 a 30 anni, su cicatricicaratterizzate da una storia di guarigione lenta e difficoltosa (cicatrici da ustione, ferite da arma dafuoco, ecc.); istologicamente è in genere un carcinoma spinocellulare altamente invasivo.

ULCERE

Si intende per ulcera una perdita di sostanza interessante i tessuti a varia profondità, priva ditendenza alla guarigione spontanea. Particolarmente frequenti sono le ulcere a carico degli artiinferiori, specie dopo la sesta decade di vita e nel sesso femminile.L’eziopatogenesi di tale condizione si identifica in un deficit circolatorio locale, il quale può essere:

• primitivo, direttamente connesso a una patologia vascolare (arteriopatie, flebopatie,linfopatie);

• secondario a malattie, che si estrinsecano mediante fenomeni vasculitici.

La terapia si basa, per quanto possibile, sulla rimozione dell’agente eziologico.La chirurgia delle ulcere consiste nell’accurata pulizia del fondo e dei bordi della lesione ulcerosa,al fine di convertire una perdita di sostanza contaminata in una ferita chirurgica, con fondo emargini netti ed in grado di consentire l’attecchimento di un innesto cutaneo sottile.

Lesioni da pressione

La lesione da pressione (o "ulcera da decubito") si costituisce nei soggetti costretti a un decubitoobbligato (paraplegici, traumatizzati agli arti inferiori posti in trazione ecc.). L’eziologia è daricondurre alla confluenza di elementi diversi: compressione locale superiore alla pressione medianei capillari; insufficiente spessore dei tessuti molli soprastanti le corrispondenti sporgenze ossee;ristagno di deiezioni. Sedi elettive, in ordine decrescente di frequenza e corrispondenti alle sedi didecubito abituale: regioni ischiatiche, regione sacrale, regioni pretrocanteriche, malleoli esterni,regioni pretibiali, regioni iliache. La profilassi si basa sulla cura del trofismo generale e, a livellolocale, sull’accurata pulizia e sull’attenuazione dello stimolo pressorio mediante frequenti cambi diposizione, bendaggi soffici, appositi materassi (con imbottitura d’aria, d’acqua, di microsfere, ecc.).Il trattamento è medico finchè la lesione è localizzata alla cute e agli strati sottocutanei più

superficiali ed è basato su: detersione del fondo dell’ulcera tramite ioni argento, iodio povidone,ecc; controllo della crescita del tessuto di granulazione; stimolazione della proliferazionedell’epitelio. Quando l’ulcerazione interessa od oltrepassa il piano fasciale, la terapia è chirurgicaed è schematizzabile in: escissione dell’area ulcerata e del tessuto cicatriziale circostante;spianamento o rimozione della sporgenza ossea sottostante; riparazione della soluzione di continuomediante trasferimento di un lembo fasciocutaneo o miocutaneo.

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NUTRIZIONE ARTIFICIALELa nutrizione nel paziente chirurgico è un aspetto di fondamentale importanza. Perché uno stato di denutrizione comporta:

• diminuzione delle capacità di difesa sia aspecifiche che specifiche, con aumento dellasuscettibilità alle infezioni;

• diminuzione della capacità di riparazione dei tessuti.

La denutrizione si osserva frequentemente nei pazienti chirurgici con malattie gastroenterologiche eoncologiche.

Due sono i tipi principali di malnutrizione:

• Marasma: è la deplezione delle riserve di tessuto adiposo e delle masse muscolari fino allacachessia. C’è relativa conservazione delle proteine viscerali. Il marasma è frequente inpazienti con malattie croniche. E’ dovuta a un insufficiente apporto alimentare sia diproteine che di carboidrati e grassi. E’ la forma di malnutrizione più frequente in chirurgia.

• Kwashiorkor: è la deplezione massiva delle proteine viscerali, con grave ipoalbuminemiaed edema. E’ causata da un importante deficit dell’apporto alimentare di proteine. Siosserva in pazienti con stress catabolico, solitamente settico, i quali mantengono stabili iparametri nutrizionali antropometrici ma presentano un deficit della risposta immunitaria esquilibri elettrolitici.

• Forme miste: sono tipiche dei pazienti ipercatabolici e con un apporto calorico-proteico

insufficiente. Clinicamente si osservano caratteristiche comuni sia al marasma che alkwashiorkor.

Valutazione dello stato nutrizionale E’ sempre necessaria per identificare pazienti con malnutrizione. Una volta stabilito che un pazienteè malnutrito bisogna stabilire l’entità della sua malnutrizione, per stabilire quale sia la terapianutrizionale più idonea.

Parametri clinici Anamnesi con raccolta delle abitudini alimentari e se ci sono state variazioni di peso. Esame obiettivo: ricerca di edemi, ittero, alterazioni a livello orofaringeo e delle mucose visibili,valutazione della riduzione del grasso sottocutaneo, valutazione della riduzione delle masse

muscolari

Parametri antropometrici Peso, altezza, BMI, rapporto peso attuale/peso abituale (correlato con il tempo di dimagrimento)circonferenza muscolare del braccio, spessore plica adiposa cutanea tricipitale.

Calo ponderale %: è il parametro più importante, un calo ponderale involontario avvenuto negliultimi 6 mesi che è maggiore del 10% del peso abituale del paziente, indica già da solo unadenutrizione medio-grave.

Parametri bioumorali Il compartimento delle proteine viscerali rappresenta il 10% della massa corporea di un individuo.Per valutare l’entità di una perdita in tale compartimento, bisogna fare riferimento alle proteineplasmatiche: albuminemia g/dl (≥ 3.5 normale, 3.5-3.2 denutrizione moderata, <3.2 denutrizionesevera).Un’albuminemia ridotta in un paziente denutrito è dovuta a una sua ridotta sintesi, più che a un

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aumento del suo catabolismo. Tuttavia la valutazione dell’albuminemia non è utile per stabilire se ladenutrizione è recente, perché l’albumina ha una emivita di 21 giorni. Per evidenziare un deficitnutrizionale acuto vanno valutate proteine plasmatiche a bassa emivita quali RBP, transferrina.

Parametri immunologici

La malnutrizione comporta immunodepressione. Linfociti totali nel sangue < 1500/mm3 è indice didenutrizione. Riduzione della risposta agli skin test con antigeni cutanei (tubercolina, candidina)

Indici prognostici nutrizionali Consentono di valutare il rischio chirurgico legato allo stato di denutrizione.

• PINI (Prognostic Inflammatory and Nutritional Index) α1 glicoproteina acida x PCR / albumina x prealbumina,<1 normale, 1-10 basso, 11-20 intermedio, 21-30 elevato, > 30 minaccia di morte

• Indice Prognostico-Nutrizionale di Seltzer: si basa su albuminemia e conta linfocitaria tot.

ESIGENZE NUTRIZIONALI

Fabbisogno Energetico Giornaliero: metabolismo basale + calorie necessarie per svolgerel’attività fisica + calorie necessarie per l’azione dinamico-specifica degli alimenti (ADS, 10% delfabbisogno).

BMR (basal metabolic rate – metabolismo basale)

E' il consumo energetico di un individuo a riposo, al mattino, a digiuno e in condizioni ambientali dineutralità termica.

REE (resting energy expenditure – consumo energetico a riposo)

In un soggetto normale corrisponde al BMR aumentato del 10%. In un soggetto malnutrito

diminuisce del 10-40% per la perdita di massa proteica che è quella più attiva dal punto di vistametabolico.In un soggetto ipercatabolico (dopo intervento chirurgico, trauma o ustione) aumenta del 120-150%, cui bisogna aggiungere la spesa energetica dell’ADS, trascurabile solo se il paziente vienenutrito artificialmente per via parenterale.

Fabbisogno Proteico Giornaliero varia in rapporto all’entità dei processi di sintesi e catabolismoazotato, dipendente a sua volta rispettivamente dalla fase di accrescimento del soggetto e dalla suacondizione metabolica. In un soggetto adulto e sano il fabbisogno giornaliero proteico è 1g/Kg/die.In un soggetto sottoposto a stress moderato (intervento non complicato, neoplasia, malnutrizione)è 1.2-1.8.In un soggetto ipercatabolico (politraumatizzato, sepsi, ustione) è 3.1.

Per valutare il fabbisogno proteico giornaliero del paziente bisogna misurare il bilancio azotato

giornaliero: è la differenza tra l’apporto di azoto (dieta, nutrizione atificiale) e la perdita di azoto(urine, feci, desquamazione, caduta di peli e capelli). Bilancio azotato positivo, indica anabolismo; Bilancio azotato negativo, indica o scarso apporto o aumentata perdita delle proteine oppureentrambe le cose.

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Substrati nutrizionali disponibili per la nutrizione artificiale

Glucidi: glucosio, levulosio, sorbitolo, xilitolo, fruttosio; sono glucidi che vengono rapidamentemetabolizzati nel fegato a prescindere dall’insulina e sarebbero indicati in pazienti diabetici oepatopatici, tuttavia se in eccesso causano acidosi metabolica per accumulo di ac. lattico.

Lipidi: si somministrano particelle formanti emulsioni lipidiche simili a chilomicroni, composte datrigliceridi all’interno, assenza di apolipoproteine, elevato contenuto in fosfolipidi, elevata % diacido linoleico e linolenico (ac. grassi essenziali). Le miscele di LCT (trigliceridi long chain)provocano effetti immunodeprimenti. Le miscele di MCT vengono ossidate e metabolizzaterapidamente, ma provocano acidosi metabolica. Di recente introduzione sono miscele miste in cui ilglicerolo veicola sia LCT che MCT, che sembrano meno tossiche.

Protidi: sono indispensabili per la crescita dell’organismo, riparazione delle ferite e conservazionedelle strutture cellulari e del patrimonio enzimatico. Si somministrano per e.v. come soluzione di aalevogiri pronti ad essere metabolizzati. Inoltre a seconda della patologia in atto, si somministranomiscele arricchite di determinati amminoacidi (ramificati per epatopatie, stati settici o politraumi,essenziali per nefropatie, glutamina per enteropatie). La glutamina ha anche un effetto trofico sullamucosa intestinale e riduce la traslocazione batterica.

PATOGENESI DELLA DENUTRIZIONE

Digiuno

Graduale perdita di tessuto adiposo, il muscolo è relativamente risparmiato.Durante il digiuno si ha una diminuzione dell’insulinemia con lipolisi e mobilizzazione delle riservelipidiche di acidi grassi liberi, glicogenolisi, liberazione di amminoacidi muscolari. L’alanina cheproviene dal catabolismo muscolare è il principale substrato per la gluconeogenesi epatica. Incontemporanea si incrementa il release di glucagone che potenzia la lipolisi e la gluconeogenesi,fino a consumare le riserve di glicogeno epatico per garantire la copertura del fabbisogno energeticoimmediato (in meno di 24 ore le riserve epatiche di glicogeno si esauriscono). Se il digiuno siprotrae si ha chetogenesi con produzione di corpi chetonici utilizzabili da cervello e rene comefonte energetica. Ciò comporta riduzione del catabolismo proteico muscolare (perciò il muscolo èsolo relativamente intaccato).

Trauma, sepsi, ustione: la massa muscolare diminuisce.Vi è una accelerazione del catabolismo proteico e della gluconeogenesi. Dunque un incrementodella richiesta di energia e della mobilizzazione e utilizzazione dei substrati proteici, lipidici,glucidici. L’aumento della richiesta di energia e substrati è dovuto alla produzione abnorme di proteine dellafase acuta quali PCR, ceruloplasmina, α1 glicoproteina acida, fibrinogeno, aptoglobina. Unarichiesta che viene soddisfatta a spese della massa proteica.

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NUTRIZIONE PARENTERALE

La nutrizione parenterale consiste nella somministrazione di nutrienti direttamente per via venosa,scavalcando l'apparato digerente. Indicazioni: quando l’alimentazione per os o la nutrizione artificiale enterale non sono

possibili.

1. Pazienti che non possono alimentarsi per os:

• ostruzioni del primo tratto del tubo digerente che impediscono il transito alimentare qualistenosi neoplastiche, infiammatorie, traumatiche o funzionali;

• occlusione intestinale distale non immediatamente operabile;• gravi malformazioni del tubo digerente (pancreas anulare, atresia intestinale);• coma protratto.

2. Paziente che non devono alimentarsi per os

• Crohn o RCU, per ottenere un riposo intestinale che contribuisce al superamentodell’episodio acuto;

• pancreatite acuta, per ridurre la secrezione esocrina e la stimolazione pancreatica indottadalla distensione gastrica;

• fistole entero-cutanee e pancreatiche, si elimina il transito intestinale e si diminuisce laproduzione dei succhi digestivi, consentendo di ottenere la guarigione della fistola se lafistola non è neoplastica;

• gastroenterite acuta e cronica dell’infanzia con diarrea intrattabile.

3. Pazienti che non vogliono alimentarsi

• anoressia mentale; • anoressia secondaria a radioterapia o chemioterapia;

4. Pazienti che non si alimentano a sufficienza

• sindrome da intestino corto (che consegue a una resezione intestinale massiva), il pazienteha una scarsa capacità di assorbimento che non riesce a soddisfare il suo fabbisognocalorico-proteico giornaliero;

• ipercatabolismo intenso (trauma, sepsi, ustione), rifornisce energia e substrati contrastandol’ipercatabolismo;

• MICI croniche;

La nutrizione parenterale può essere parziale o totale. La nutrizione parenterale totale è la somministrazione per ev. di tutti i principi nutritivi (calorie,amminoacidi, vitamine, elettroliti, oligoelementi), in quantità sufficienti a sopperire al fabbisognoper un periodo di tempo prolungato.

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Per la somministrazione della nutrizione parenterale sono utilizzabili 3 vie di infusione:

• catetere venoso centrale diretto:

l’accesso è attraverso la v. giugulare interna o la v. succlavia e l’estremità del cateteredeve raggiungere la v.cava superiore. L’infusione venosa centrale permette disomministrare una nutrizione parenterale formata da una soluzione iperosmolare a elevatocontenuto calorico. Infatti queste soluzioni per essere tollerate devono essere infuse in unavena ad alto flusso, che ne permetta la rapida diluizione nel sangue in modo da evitarelesioni endoteliali. Nel caso in cui è necessaria una NPT a lungo termine (più di 2-3 mesi) si utilizza uncatetere venoso centrale a permanenza tipo Broviac, che va tunnelizzato nel sottocuteoppure un port (sistema infusivo totalmente impiantato in sottocute collegato a un cateteretunnelizzato);

• catetere venoso centrale con accesso periferico.

• via venosa periferica:

l’accesso è attraverso una vena superficiale del braccio ma non permette l’infusione disoluzioni fortemente ipertoniche, tuttavia c’è un escamotage e cioè quello di utilizzaresoluzioni glucosate al 10% (moderatamente ipertoniche) unitamente ad emulsioni lipidicheisotoniche al 10% e questo permette di arrivare fino a più di 1000 Kcal/die cambiandoaccesso venoso ogni 2-3 gg.La nutrizione parenterale periferica è indicata nel periodo postoperatorio e consente dicoprire parzialmente il fabbisogno calorico per 1-2 settimane. Qualora sia necessaria unanutrizione parenterale per tempi più lunghi, si utilizza l’accesso venoso centrale.

Complicanze tecniche della nutrizione parenterale (sono quelle degli accessi venosi):

• pneumotorace, per una puntura accidentale della cupola pleurica in vicinanza della v.succlavia;

• malposizionamento, se il catetere non giunga alla sede di posizionamento ma rimangain v. giugulare interna (edema faringe o collo), o imbocchi la v. ascellare controlaterale ola v. succlavia controlaterale;

• puntura arteria succlavia, comparsa di sangue a getto e intermittente, in genere è unapiccola breccia che può essere dominata dalla compressione esterna;

• emotorace, in caso di lesione vascolare;• idrotorace;

• idromediastino;

• embolia gassosa, durante la fase di incannulamento della vena centrale o se dovesserodisconnettersi i raccordi lungo la linea infusionale.

• trombosi venosa, è dovuta a: stasi venosa, ipercoagulabilità, lesioni della parete vasaleper ripetuti tentativi di incannulamento.

• lesioni vasi linfatici, plesso brachiale, nervo frenico.

Complicanze da malfunzionamento o cattiva manutenzione del catetere venoso centrale:

• sfilamento accidentale;• ostruzione da coaguli di fibrina o lipidi;• rottura;

• annodamento intravascolare ;• sepsi, è molto frequente e i germi possono colonizzare il catetere per via

endoluminale in caso di contaminazione dei contenitori o delle soluzioni infuse, per

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via transcutanea in caso di migrazione al punto di inserzione del catetere, per viaematica in caso di setticemia. Va sospettata quando compare febbre intermittentedopo aver escluso altri possibili focolai di infezione.

Complicanze metaboliche

Glucidi

In eccesso: iperglicemia, glicosuria, diuresi osmotica, disidratazione, acidosi metabolica con chetosie coma iperosmolare. In caso di somministrazione di quantità che superano il fabbisogno ma non eccessivamente →steatosi epatica, ittero.In caso di interruzione improvvisa di un’infusione protratta di glucosio (provocano iperinsulinismo)→ ipoglicemia.

Amminoacidi

In caso di sovraccarico → aumento della loro escrezione urinaria e aumento della secrezione acidagastrica.

Lipidi

Reazioni di ipersensibilità (ipertermia, vomito, brivido)In caso di eccesso prolungato → alterazione degli indici funzione epatica e ittero reversibili doposospensione.

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NUTRIZIONE ENTERALE

Indicazione della nutrizione enterale:

• patologia ostruttiva del primo tratto del tubo digerente (orofaringe, esofago, stomaco)che sia superabile da sondino;

• supporto nutrizionale pre-operatorio del paziente denutrito;• supporto post-operatorio di complicanze (deiscenza di anastomosi del tubo digerente,

sindrome intestino corto, fistole digestive, stenosi intestinali postoperatorie, neoplasieaddominali;

E' sempre preferibile alla NP perché la via enterale è più sicura. E' necessario che il tubo digerentesia funzionalmente integro nel tratto a valle dell’estremità del sondino.

Vie di infusione

1. Sondino naso-gastrico: quando il tubo digerente a valle dell’esofago è integro dal punto divista anatomo-funzionale e in caso di neoplasie stenosanti di testa-collo o esofago chepossono essere valicate dal sondino, disturbi gravi di masticazione o deglutizione,malnutrizione, pazienti in coma, ustionati gravi e politraumatizzati.

2. Sondino naso-digiunale: paziente in coma in cui vi è rischio di aspirazione della dieta dallostomaco e polmonite ab ingestis, gastroresecati, gastrodigiunoanastomosi.

3. Faringostomia: introduzione del sondino nel faringe attraverso una incisione cutaneacervicale, quindi la punta va fatta arrivare nello stomaco.

4. Gastrostomia: stenosi serrata (faringea o esofagea) che non consente il passaggio delsondino.

5. Digiunostomia: gastrectomia totale o duodenocefalopancreasectomia, malattie gastriche oduodenali che non permettono di utilizzare tali sedi per infondere una dieta enterale.

Lo stomaco è un reservoir ideale perché è in grado di sostenere flussi elevati (fino a 60-100 ml/ora) senza determinare dispepsia, diarrea, dolore addominale.

Le diete sono preconfezionate in sacche sterili e dal piccolo volume (< 1 Lt) per prevenire lacrescita batterica.

Le pompe di infusione hanno un sistema di allarme per segnalare ostruzione / esaurimento delladieta

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DIETE ENTERALI

• polimeriche, miscele in sospensione, contenenti molecole polimeriche integre e allo statonaturale. Sono indicate nei normometabolici.

• elementari, miscele contente i principi nutritivi nella forma molecolare più semplice edirettamente assorbibili. Sono indicate nei paziente con deficit di assorbimento intestinale oper ridurre al minimo la produzione di scorie come in caso di Crohn ed enteriti

• carboidrati: tutta la gamma dei glucidi, mono-,di-,oligo-,polisaccaridi in maltodestrine chepermettono una dieta più liquida e ad attività osmotica non eccessiva.

• LCT: acidi grassi essenziali (linoleico, arachidonico), per il trasporto di vit. liposolubiliADEK

• MCT: da 6C a 12C, possono essere assorbiti direttamente dagli enterociti, anche in assenzadi lipasi pancreatica.

• vitamine e oligoelementi

• acqua : nell’adulto max 1,5 – 2 Lt/die tenendo conto che il fabbisogno di acqua aumenta incaso di febbre, vomito, diarrea, sudorazione e fistole ad alta gittata.

Fase di induzione: per evitare le complicanze gastrointestinali si deve procedere in modoprogressivo, iniziando a somministrare al giorno 1 il 25% del fabbisogno giornaliero, e aumentandopoi la velocità di infusione in maniera progressiva, fino a raggiungere il pieno regime calorico al 2-4° giorno.

COMPLICANZE DELLA NUTRIZIONE ENTERALE:

• diarrea, è la più frequente e può essere dovuta a un'eccessiva velocità di infusione, a uneccessivo carico osmolare, intolleranza al lattosio, contaminazione delle dieta;

• nausea, sovradistensione intestinale, dolore addominale, si presentano nella fase diinduzione per poi attenuarsi;

• rigurgito e vomito, possono provocare polmonite ab ingestis;• occlusione della via, in caso di dieta che solidifica per mancato lavaggio del sondino

(almeno 2 vv die);• fuoriuscita del sondino dallo stomaco o dalla via intestinale;• infiammazione della via nasale, faringea o esofagea dovute alla presenza del sondino;• iperglicemia;

• iperazotemia e disidratazione, si verificano in caso di dieta ad elevato contenuto proteico,perché le proteine vengono scisse formando una grande quantità di urea e se il caricoosmolare del rene è elevato si può arrivare alla disidratazione.

Giovanni De CarloLuca Formicola

Francesco Di Girolamo

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ACCESSI VENOSI E SISTEMI IMPIANTABILI

ACCESSI VASCOLARIPer accesso vascolare s’intende qualsiasi forma di cateterismo di vasi (sia venosi che arteriosi)eseguito al fine di introdurre sostanze nel circolo ematico o per effettuare prelievi o indaginistrumentali.

Gli accessi venosi possono essere sia periferici che centrali:

- periferici (vene del braccio, mani, gambe, piedi) - centrali (vene di calibro maggiore in succlavia, giugulare, ascellare, femorale).

L’indicazione ad utilizzare l’uno o l’altro accesso dipende da vari fattori: • conformazione anatomica del paziente (adiposità, fragilità vasale);• situazione d’urgenza;• tipo di terapia da somministrare (sostentamento post-operatorio, chemioterapia,

nutrizione parenterale totale in pazienti defedati).

Le vene periferiche possono essere punte tramite: • aghi normali • aghi a “farfalla” (Butterfly) • agocannule

Questi sistemi sono sicuramente poco traumatici, ma non permettono di essere utilizzati per molto tempo per la probabilità di infettarsi e per quella di “uscire fuori vena”.

Le vene centrali vengono punte con aghi normali di calibro più grosso.

ACCESSI VENOSI CENTRALIL’accesso venoso centrale implica la puntura di una vena di grosso calibro, non visibile, e non palpabile, ma localizzabile attraverso reperi anatomici ossei, vascolari o muscolari reputati costanti in tutti gli individui. In pratica sono accessibili 4 grossi vasi:

• vene giugulari

• vene succlavie

• vene ascellari

• vene femorali

La tecnica più usata, utilizza il metodo di SELDINGER con un introduttore metallico che fa da guida al catetere.

Indicazioni dell'accesso venoso centrale• Impossibilità di accesso venoso periferico o perdita dello stesso• Somministrazione di soluzioni irritanti per via venosa periferica• Nutrizione parenterale totale• Monitoraggio emodinamico o stimolazione cardiaca temporanea• Emodialisi (in caso di urgenza)

Controindicazioni assolute: infezione nella sede di puntura.

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SEDE D'ACCESSO E CONTROINDICAZIONI SPECIFICHE

V. giugulare interna, salvo se sede d'intervento, di trombosi, in pazienti con collo tozzo, in mancanza di riferimenti topografici, coagulopatia.V. succlavia, salvo in caso di deformità, trombosi venosa.

V. femorale, salvo in obesità, trombosi, incontinenza urinaria.V. ascellare, salvo in caso di lunga permanenza (maggiore 48 ore).

ACCESSO VENOSO GIUGULARE INTERNOLa giugulare interna è la vena principale del collo esce dal cranio attraverso il foro lacero posterioredietro la carotide interna, decorre lateralmente alla carotide (vago medialmente) termina dietro l’articolazione sternoclavicolare con la confluenza con la succlavia, nel tratto terminale decorre in mezzo al triangolo di Sedillot (i cui lati sono rappresentati dai capi sternale e clavicolare del muscolo sterno-cleido-mastoideo e la cui base è la clavicola).

Tecniche:

• Vie posteriori:

• Via di Jernigan.

• Vie assiali denominate tali perché l’incannulazione avviene secondo l’asse del vaso:• Via di Daily.

• Via di Miller variante della precedente ma molto usata: testa ruotatacontrolateralmente, la puntura si effettua all’apice del triangolo di Sedillot e l’ago sidirige verso il capezzolo omolaterale seguendo marginalmente il capo sternale del m.sternocleidomastoideo, la vena si raggiunge 2-3 cm di profondità.

• Vie anteriori

• Via di Mostert

ACCESSO VENOSO SUCCLAVIO Anatomia: nasce dalla vena ascellare al margine esterno della prima costa e termina dietro l’articolazione sterno-claveare unendosi alla giugulare interna per formare il tronco venoso brachiocefalico o anonimo.

Tecniche:

• Accessi sottoclaveari:

• Via di Aubaniac o interna: è la più usata, pz supino con le braccia parallele alcorpo, dopo aver eventualmente posizionato sotto la spalla (omolaterale alla venaprescelta) un cuscino che permetta di aprire l’angolo costo-clavicolare l’operatore siposiziona a lato del paziente l’indice della mano libera si posiziona nella forchettasternale mentre il pollice si posiziona sul margine inferiore del terzo medio dellaclavicola cosi da apprezzare il punto d’introduzione (1 cm sotto il margine inferioredel III° medio della clavicola), la direzione e la profondità dell’articolazione sterno-clavicolare. L’ago diretto verso l’interno mirando a passare tra il margine inferioredella clavicola e quello superiore della prima costa dirigendolo verso il giugulo entranella vena tra i 2 e 5 cm;

• Accesso di Testart o via esterna.

• Accesso di Wilson o via mediana.

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• Vie sopraclaveari

• Via di Yoffa.

ACCESSO VENOSO ASCELLAREAnatomia: nasce dalla vene basilica e si estende dal bordo inferiore del m. grande dentato al bordo esterno della prima costa dove si continua con la vena succlavia.

Tecniche• Via ascellare

Paziente supino con braccio in abduzione ed in rotazione esterna testa girataomolateralmente, l’operatore (posizionato omolateralmente) reperta l’arteria ascellare, puntal’ago nel solco ascellare seguendo il decorso della vena 1 cm sotto l’arteria;

• Via sotto-coraco-clavicolare

Paziente supino in trendelenburg di 15°, braccio omolaterale in abduzione di 45° eavambraccio in estensione; 2 punti di repere, il primo 5 cm sotto l’apofisi coracoide, ilsecondo 4° interno della clavicola il sito da pungere si trova all’intersezione dei due punti eil bordo mediale del muscolo piccolo pettorale, la direzione verso l’intero all’indietro e inalto (verso il 2° punto) a 2-3 cm di profondità si reperta la vena.

VANTAGGI E SVANTAGGI SECONDO LA SEDE D’IMPIANTO

VENA GIUGULARE INTERNA

Vantaggi: 1. Facile reperibilità 2. La posizione anatomica della vena permette al catetere di scendere più facilmente (sbocca subito in cava superiore). 3. In caso di puntura accidentale dell’arteria carotide è più facile eseguire la compressione. 4. Minore rischio di stenosi e trombosi venosa rispetto alla succlavia.Svantaggi / Complicanze1. Possibiltà di puntura accidentale dell’arteria carotide.2. La gestione della medicazione (adesione dei cerotti) è più scomoda per la presenza dei capelli o della barba. 3. E’ meno accettata dal paziente perché meno bene si nasconde la medicazione sotto i vestiti.

VENA SUCCLAVIA

Vantaggi• Facile reperibilità • Permette una incannulazione a lungo termine • Maggiore comfort per il paziente:

- risulta più comoda la gestione della medicazione - la medicazione risulterà meno visibile perché coperta dai vestiti

Svantaggi• Pneumotorace da puntura della cupola pleurica e conseguente introduzione di aria • Emotorace per la lacerazione dell’arteria o della vena succlavia • Embolia gassosa per aspirazione di aria nella vena

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• Aumentato rischio di stenosi e trombosi venosa.

VENA FEMORALE

Vantaggi• E’ di largo calibro e superficiale • Facilmente reperibile anche in un paziente in stato di shock. • Assenza di complicanze mortali

Svantaggi• Rischio aumentato di infezione per la presenza del catetere nell’area inguinale

maggiormente esposta alla crescita batterica. • Notevole rischio di trombosi venosa profonda (TVP) • Scarsa possibilità di mobilizzare il paziente. • Poco gradita dal paziente

VENE DEGLI ARTI SUPERIORI

Vantaggi• Assenza di complicanze gravi. • Possibilità di posizionamento a letto del paziente anche da parte di un infermiere.

Svantaggi• Necessità di patrimonio venoso integro. • Maggiore rischio di mal posizionamento e di insuccesso al momento del posizionamento.• Maggiore rischio di trombosi venosa.

TECNICA GENERALE

• identificazione dei riferimenti anatomici• adeguata preparazione dell'operatore• preparazione del vassoio sterile con set dedicato, preparazione del kit CVC scelto• eventuale rasatura del sito d'iniezione, a cura di un collaboratore• disinfezione ampia della zona d'accesso prescelta• preparazione del campo sterile• anestesia locale del punto d'inserzione, con Lidocaina 1%• puntura con siringa montata ed aspirazione libera di sangue• rimozione della siringa, avendo cura di chiudere il cono dell'ago in sito per prevenire una

eventuale embolia gassosa• inserzione del filo a J nell'ago e progressione, che deve essere facile, nel lume venoso• all'avanzamento dell'ago, il paziente deve essere controllato per la presenza di eventuali

aritmie cardiache, nel qual caso ritireremo il filo a J di qualche centimetro• rimozione dell'ago, lasciando in sede il filo a J• inserimento del dilatatore venoso, avendo cura eventualmente di lubrificarlo con una goccia

di sol.fisiologica o d'anestetico residuo, con delicato movimento rotatorio, fino allaprofondità del sottocute

• rimozione del dilatatore• inserzione del catetere venoso sul filo guida (verificare la fuoriuscita del filo guida

dall’estremità del catetere prima di introdurre lo stesso) ed introduzione fino alla profonditàprescelta

• rimozione del filo guida prestando attenzione di tenere ben saldo il catetere in situ

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• raccordo del catetere con l'infusione (salina) e verifica del flusso libero • eventuale retrazione od approfondimento del catetere in caso di flusso ridotto• prova di reflusso, con recipiente infusore posto più in basso del vaso cannulato • fissaggio del catetere con punto e copertura sterile• richiesta di radiografia del torace per verificare il corretto posizionamento

Note tecniche • In caso di tentativo infruttuoso ritirare l'ago completamente per reintrodurlo in altra

direzione.• Dopo tentativi infruttuosi con un tipo d'approccio ritentare in altra sede preferibilmente

omolaterale, per evitare eventuale PNX bilaterale o ematomi da puntura arteriosa.

CONTROLLO RADIOLOGICO DEL POSIZIONAMENTONon si deve mai e per nessun motivo iniziare l'infusione di soluzioni iperosmolari senza aver previamente controllato il posizionamento del catetere con una radiografia standard antero-posteriore e con una radiografia laterale del torace.Nel radiogramma antero-posteriore si scorge facilmente il catetere nella sua parte esterna che si proietta contro l'ambito polmonare. Non è necessario che la punta penetri nell'atrio in quanto è sufficiente un posizionamento in vena cava per avere l'assicurazione che il flusso 'vorticoso' del sangue permetta una diluizione istantanea delle soluzioni iperosmolari senza rischio di trombosi. Il radiogramma laterale permette una più accurata delimitazione della punta del catetere che si vede come una sottile traccia rettilinea che si disegna subito al davanti degli ili polmonari.Il controllo laterale è particolarmente utile per evidenziare un eventuale posizionamento del cateterenella vena toracica di dx.

COMPLICANZE DELLA CATETERIZZAZIONE VENOSA CENTRALE

Fallimento Condizione rara ma esistente, non conviene mai ritentare per più di due volte sulla stessa sede se si è punta un’arteria, in particolare, se è la carotide. Non pungere mai controlateralmente poiché potrebbero insorgere gravi conseguenze se si pungessero entrambe le arterie.

Punture arterioseSono relativamente benigne in pazienti con una buona emostasi (cosa da verificare sempre prima di effettuare la CVC) e quando si producono in una sede dove sia possibile effettuare una buona compressione. In genere provocano un modesto ematoma. La puntura dell’arteria carotide se questa è aterosclerotica con placche diffuse, è pericolosa.

Pneumotorace

Generalmente conseguente alla CV della succlavia e in minore frequenza alla CV della giugulareinterna, varia in base alle tecniche, aumenta nei soggetti con morfologia atipica (pz. cachettici,

obesi, enfisematosi), spesso compare in ritardo comparendo sul RX del giorno dopo in caso diaccessi problematici; di solito quando è di piccole dimensioni è ben tollerato e si autolimita, mentrese di grosse dimensioni in paziente con insufficienza respiratoria o in paziente assistito conrespirazione meccanica può dare grossi problemi per cui va drenato. Importante in caso difallimento per la CV succlavia non si dovrebbe pungere controlateralmente prima che sianotrascorse alcune ore (e dopo avere effettuato un RX di controllo) a causa del rischio dipneumotorace bilaterale.

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Lesioni dei dotti linfatici

Generalmente ad essere interessato è il dotto toracico nella CV giugulare e succlavia soprattutto in caso di ipertensione portale. La gravità è elevata per cui in tali casi bisogna ricorrere alla legatura chirurgica.

Lesioni nervose Sono benigne nel senso che oltre al forte dolore non lasciano postumi frequenti sia nella CV giugulare che succlavia o ascellare, rare nella femorale.

Falsa via E' una condizione frequente che però può essere facilmente e precocemente identificata prima dell’incannulazione per la difficoltà all’aspirazione del sangue (che indica il reperimento del lume vascolare) o difficoltà ad introdurre il mandrino metallico, in ogni caso dopo controllo RX si evidenzia immediatamente.

Perforazione venosa

Altra condizione clinica grave, può presentarsi dopo apparente reperimento del lume vascolare, ilcatetere può terminare in: tessuti molli, cavità naturali (versamento pleurico, mediastinico,addominale), importante:

• non forzare mai l’introduzione del mandrino o del catetere se questi non penetra dolcementeonde evitare appunto danni disastrosi alle strutture vascolari o vicine poiché probabilmente èandato fuori lume o si è inginocchiato;

• verificare sempre prima del fissaggio la pervietà del cateterino con aspirazione mediantesiringa.

Perforazione cardiaca

Può avvenire nel decorso immediato o a distanza dal posizionamento di un CVC rigido sia perchésia stato introdotto troppo profondamente o perché si sia rotto ed è migrato in posizioneintracardiaca. La complicanza è gravissima e spesso i segni ECG precedono l’arresto cardiaco

per cui bisogna fare molta attenzione

Embolia del catetereE' una complicanza oramai scongiurata con l’avvento del metodo di Seldinger poiché oggigiorno difficilmente il cateterino si può forare in superficie, tranne nei casi di ostruzione dello stesso e tentativo di disostruzione a pressione effettuato da un inesperto operatore.

Embolia gassosa

Causata dall’aspirazione d’aria accidentale soprattutto per la CV della succlavia o giugulare. Clinica:

• dispnea acuta• rumore a ruota di mulino3 all’auscultazione• nelle forme gravi si ha pure insufficienza cardiorespiratoria• cianosi• collasso cardiovascolare• convulsioni fino al coma.

Nelle forme lievi si ha malessere leggero, dispnea lieve, piccola ipotensione, quadro clinico di un TIA il tutto recede spontaneamente dopo qualche minuto o mezzora.

Manovre da effettuare:• scintigrafia polmonare

3 Bianco

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• posizionare il paziente in Trendelenburg spinto per bloccare la bolla nell’apice delventricolo dx

• aspirare l’aria mediante il catetere stesso (spostandolo temporaneamente in avanti) • somministrazione generosa di O2 • ossigenoterapia iperbarica

Tromboflebite profonda su catetere

Inizialmente la sintomatologia è aspecifica con dolenzia all’arto da cui il vaso origina e febbricolapoi se la trombosi è totale si presenta il gonfiore al medesimo arto, febbre forte, dolore (un segnospecifico e precoce è la palpazione di un cordone doloroso a monte del catetere che indica lapresenza di una trombosi parziale). Bisogna effettuare subito un doppler dei vasi interessati eun’angiografia che permette una precisa valutazione del danno e indica l’eventuale terapiafibrinolitica. Ovviamente si deve rimuovere il CVC, somministrare anticoagulanti (iniziare con dosigenerose di eparina continuare con dicumarolici per diverse settimane).

Infezioni locoregionali e sistemiche

I meccanismi d’infezione sono: via periluminare (zona a minore resistenza soggetta a colonizzazione cutanea; via endoluminare; crescita microbica sull’estremità vascolare del CVC (in tal caso la provenienza dei batteri è un’altra); somministrazione di soluzioni di perfusione altamentecontaminate (condizione rarissima ma esistente).

Esistono delle varianti del classico catetere venoso centrale:

• PICC (Peripherally Inserted Central Catheters)• Port-a-cath

PICC (peripherally inserted central catheter)

Catetere venoso centrale inserito perifericamente all’altezza del braccio (v.basilica) con l’aiuto di ecoguida.

Venoso Centrale → il tubicino arriva in una vena centrale del torace: la Vena Cava Superiore.

Accesso periferico → per raggiungere la Vena Cava Superiore viene introdotto il catetere partendo dalla vena del braccio. È un sistema venoso a lungo termine, può cioè rimanere in sede fino ad un massimo di 6 mesi.

I vantaggi del PICC• è un accesso venoso, in una vena di grosso calibro, che permette la somministrazione di

farmaci che se iniettati perifericamente potrebbero causare danni tessutali alla vena stessa;• richiede una minima “manutenzione”;• riduce il rischio di trombosi venosa centrale;• consente libertà di movimento.

Controindicazioni:

• Nota o sospetta batteriemia o setticemia;• Pregressa radioterapia sul sito di inserimento previsto;• Pregressi episodi di trombosi venosa o interventi di chirurgia vascolare nel sito di

posizionamento previsto;• Fattori locali in grado di prevenire l’adeguata stabilizzazione del dispositivo (eritemi, edemi,

eczemi…)

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Complicanze

• attorcigliamento del tratto esterno del catetere (KinKing);• piccola emorragia locale;• infezioni;• tromboflebite meccanica• ostruzione del lume interno;• traumi accidentali (es. strappi);• errato fissaggio o posizionamento della medicazione del presidio.

Posizionamento Il posizionamento avviene al letto del paziente, non serve il digiuno. È una procedura sterile cheviene eseguita nella sua stanza. Il catetere viene inserito nel terzo medio del braccio, sopra ilgomito, per garantire la massima mobilità. Esternamente sarà visibile il catetere con la medicazionetrasparente. Quando non viene utilizzato il PICC sarà coperto da una medicazione.

Utilizzo

L’accesso al catetere avviene tramite la connessione di siringhe, raccordi, deflussori e deve essere fatta con il sistema Luer-lock connettendo a quest’ultima siringhe e/o raccordi in caso di prelievi, deflussori in caso di infusioni farmacologiche.

Medicazione

La medicazione può, dopo addestramento, essere sostituita dal parente o da personale sanitario adomicilio. La medicazione del PICC, salvo rimozione accidentale della stessa, deve essere sostituitaogni 7 giorni.

Manutenzione → lavaggio del catetere

IL PICC deve essere lavato internamente:

• al termine di ogni infusione (in caso di infusioni non continue);• al termine dei prelievi ematici;• una volta alla settimana in caso di utilizzo discontinuo.

Nei casi indicati occorre lavare il PICC con 20 ml di soluzione fisiologica. Nel lavaggio non ènecessario utilizzare soluzione eparinata.

PORT-A-CATHI port sono dei sistemi definiti “Totalmente Impiantabili” poiché vengono inseriti completamentein una tasca sottocutanea.Sono costituiti da due componenti: un Catetere Venoso Centrale ed un piccolo dispositivo conmembrana di silicone.Per comprenderne il funzionamento lo si potrebbe paragonare ad un “portaspilli”. Con questo sistema, utilizzando aghi adeguati, si può accedere attraverso la cute al catetere senzamaneggiarlo, come invece accade per i cateteri Venosi Centrali (CVC), e, di conseguenza, viene adiminuire il rischio di infezione.Tecnicamente il port ha una forma circolare o ovale, con all’interno una camera chiusa in alto da untappo di silicone, circondata da un rivestimento di materiale biocompatibile (plastica, titanio),aperta lateralmente nel punto dove il sistema si collega al catetere.A seconda della finalità e della sede d’impianto:

• Port-a-cath venoso: a livello toracico, anteriormente al piano costale (II spazio

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intercostale);• PAS-port: braccio o avambraccio;• Port-a-cath arterioso;

• Sistema Infusaid: in fossa iliaca, per l’infusione di chemioterapici distrettuali a livelloepatico o iliaco;

• Port per terapia spinale: parete anteriore dell’addome, per terapie antidolorifiche.• Port-a-cath peritoneale: per le terapie endoperitoneali.

INDICAZIONI ALL'IMPIANTOI port sono utilizzati in pazienti che hanno particolari esigenze di terapie a medio e lungo termine.Vengono impiegati nel caso di:

• fragilità vasale o vene periferiche di difficile accesso;• cicli di chemioterapia, per prevenire o superare i frequenti episodi di flebite e tromboflebite

legati ai farmaci;• alimentazione artificiale, totale o parziale, effettuata con sacche parenterali, per evitare

l’immobilità del paziente e soprattutto le complicanze trombotiche.

TECNICA D'IMPIANTOIl Port va impiantato in sala operatoria da un chirurgo esperto onde ridurre al minimo le possibilicomplicanze specifiche.In anestesia locale si incannula una vena di grosso calibro a livello toracico o al collo. Si preferisceutilizzare la vena succlavia sotto clavicolare. La metodica utilizzata è quella di Seldinger.Per inserire il port sotto la pelle, si confeziona una piccola “tasca” nella quale viene alloggiato il dispositivo, una volta collegato al catetere. Il port viene suturato alla fascia del muscolo pettorale; quindi si richiude il sottocute e la cute.Se si incannula una vena distante dal posizionamento del port (es: la giugulare), il catetere deve essere “tunnellizzato”, ovvero lo si deve fare passare sotto la pelle, creando un vero e proprio tunnelsottocutaneo.Ad intervento ultimato e dopo la rimozione dei punti, sul torace residuerà solo una piccola cicatrice.Il PAS-port viene impiantato con tecnica simile a quella per il port-a-cath, con la sola differenza chela vena viene identificata ed incannulata al braccio ed il port viene allocato in una tasca sottocutaneanella parte interna del braccio.

RIMOZIONE DEL PORT: CAUSEIl port può rimanere in sede anche per anni e non dare problemi se gestito in maniera corretta, l’indicazione alla sua rimozione scaturisce dal suo mancato utilizzo o in caso di complicanze specifiche quali infezione o ostruzione del sistema.

Le possibili complicanze vanno suddivise:

• quelle legate all’incannulamento di una vena centrale (quindi comuni sia all’impianto di unport-a-cath che al posizionamento di un CVC esterno);

• quelle che dipendono dal confezionamento della tasca sottocutanea per allocare il port.

Le evenienze più temibili sono l’ostruzione e l’infezione del catetere o della tasca.

Ostruzione: si manifesta con la difficile infusione del farmaco o della NPT. Buona regola è lavareil port ogniqualvolta lo si utilizza, a fine terapia e/o al momento della sostituzione della sacca pernutrizione (con soluzione fisiologica) ed evitare, a meno che non sia il medico a richiederloesplicitamente, di effettuare prelievi attraverso il sistema. Se si osserva qualche ostacolo al deflusso

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si deve prima eseguire una radiografia del torace per escludere complicanze legate alposizionamento del catetere e quindi, se tutto rientra nella norma, si deve cercare di liberare ilcatetere con infusione a pressione moderata di soluzione fisiologica, eventualmente eparinata.Infezione: i segni clinici sono la febbre alta, con brivido scuotente che sale al momentodell’infusione: va trattata con terapia antibiotica ed antifungina massiva, eventualmente in ricoveroospedaliero. Anche la tasca o il tunnel attraverso cui passa il catetere si possono infettare: la pelle aldi sopra del serbatoio diventerà rossa, calda e dolente ed eventualmente, può comparire anchemateriale purulento.Se non si riesce a risolvere il problema, bisogna espiantare il port ed attendere almeno unasettimana prima di reimpiantarlo all’altro emitorace.

Prevenire le complicanze infettive è relativamente sempliceBisogna sempre sterilizzare accuratamente la cute prima di inserire l’ago come anche al momentodella sua rimozione; non si deve lasciare l’ago in sede per più di 5 giorni in caso di semplice terapiainfusiva e non più di 3 in caso di nutrizione parenterale (si è visto che quest’ultima predisponemaggiormente alle infezioni). In quest’ultimo caso, inoltre, si devono sostituire tutti i kit dainfusione ogni volta che si sostituisce la sacca.Quando il port non viene utilizzato, è buona regola lavarlo almeno una volta al mese, infondendocome minimo 50 cc di fisiologica.

Francesco Di Girolamo

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TRAPIANTI DI ORGANO: PRINCIPI GENERALI

Si definisce trapianto la procedura di prelievo di cellule, tessuti od organi da un individuo e diimpianto in un individuo (ricevente) solitamente diverso dal donatore. Scopo di tale attività è quellodi rimpiazzare una funzione del ricevente ormai persa.

Classificazione

Secondo le caratteristiche donatore-ricevente si possono distinguere le seguenti modalità ditrapianto:

• trapianto autologo (autotrapianto): cellule, tessuti od organi prelevati da un individuovengono trapiantati a lui stesso (per es. trapianto di cute per riparare estese perdite disostanza);

• trapianto singenico (isotrapianto): si realizza tra due individui geneticamente identici;

• trapianto allogenico (allotrapianto): si realizza tra due individui geneticamente diversi maappartenenti alla stessa specie;

• trapianto xenogenico (xenotrapianto): si realizza tra individui appartenenti a due speciediverse.

In base al sito di impianto i trapianti vengono distinti in:

• trapianto ortotopico: l´organo viene a essere posizionato nella sua normale sede anatomica(per es. il fegato), previa eliminazione dell´organo malato;

• trapianto eterotopico: l´organo viene posizionato in una sede diversa (per es. il rene cheviene posizionato in fossa iliaca anastomizzando i vasi renali con i vasi iliaci).

Immunobiologia del trapianto

Rigetto

È la conseguenza della normale attività di difesa operata dal sistema immunitario dell´individuo neiconfronti della penetrazione di agenti estranei alla sua costituzione e potenzialmente ostili. Esistonosostanzialmente due linee di difesa: l´immunità umorale e l´immunità cellulare. La prima è mediatada anticorpi prodotti dai linfociti B, la seconda è operata dai linfociti T. Un trapianto tra due individui appartenenti alla stessa specie ma geneticamente diversi(allotrapianto) viene rigettato dall´ospite in 7-10 giorni (rigetto primario). Un secondo trapianto trai due stessi individui viene rigettato entro 2-3 giorni (rigetto secondario), dimostrando la presenzadi memoria immunologica, una delle caratteristiche fondamentali dell´immunità acquisita. La rapidità di inizio, il meccanismo immunologico coinvolto e, soprattutto, le caratteristiche delquadro anatomo-patologico sono i criteri utilizzati per classificare la reazione di rigetto in iperacuta,acuta e cronica.

Rigetto iperacuto

Avviene entro pochi minuti dalla rivascolarizzazione dell´organo trapiantato. Consiste nella rapidaocclusione trombotica del sistema vascolare dell´organo trapiantato. Da un punto di vistafisiopatologico, il rigetto iperacuto è prodotto da anticorpi preformati che si legano all´endotelio

vascolare dell´organo trapiantato attivando il sistema del complemento. I componenti attivati delcomplemento e il danno endoteliale innescano il sistema della coagulazione con conseguentetrombosi, ischemia e necrosi dell´organo trapiantato. Gli anticorpi preformati o naturali sonoprobabilmente una risposta ad antigeni polisaccaridici espressi dai batteri che colonizzano l'apparato

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digerente. Gli anticorpi naturali sono generalmente rivolti contro gli antigeni di gruppo sanguigno AB0 o delsistema maggiore di istocompatibilità MHC. Il problema del rigetto iperacuto dovuto ad anticorpi anti AB0 è stato risolto selezionando ilricevente compatibile con il donatore per il sistema AB0. Gli anticorpi contro le molecole MHC possono comparire in seguito a trasfusioni di sangue, ripetutegravidanze o precedenti trapianti. L´esecuzione di un test in grado di rilevare la presenza nel sierodel ricevente di anticorpi capaci di lisare i linfociti del donatore (cross-match) permette di evitare ilrischio del rigetto iperacuto. Il rigetto iperacuto è il meccanismo specifico di distruzione di uno xenotrapianto e rappresenta atutt'oggi l´ostacolo principale all´impiego nell´uomo di organi provenienti da animali.

Rigetto acuto

In base al quadro anatomo-patologico distinguiamo: il rigetto acuto vascolare e il rigetto acuto

cellulare.

• Rigetto acuto vascolare. È caratterizzato da necrosi fibrinoide di arterie e arteriole.Questa forma di rigetto è mediata da anticorpi IgG rivolti contro gli alloantigeni dellecellule endoteliali.

• Rigetto acuto cellulare. È caratterizzato dalla presenza di un importante infiltrato cellulare

linfocitario e macrofagico che interessa il parenchima dell´organo trapiantato e da necrosi

parenchimale.

Diverse evidenze sperimentali indicano come effettore della lisi delle cellule allogeniche, lasottopopolazione dei linfociti T citotossici (CTL), caratterizzati dall´espressione della proteina dimembrana CD8. L´attivazione dei linfociti citotossici avviene a opera di un´altra sottopopolazionedi linfociti T, detti helper, che si caratterizzano per l´espressione di CD4. I CD4 del ricevente sono allertati da particolari cellule contenute nell´organo trapiantatodenominate APC (Antigen Presenting Cells), che migrano nelle sedi della risposta immunitaria delricevente dopo la rivascolarizzazione dell´organo. Le comunicazioni tra le cellule coinvolte nellarisposta immunitaria avvengono grazie alla produzione di citochine (soprattutto IL-2 e IL-4). La distruzione della cellula bersaglio a opera del linfocita citotossico avviene attraverso due vie: laliberazione di granuli contenenti "perforina" e l´attivazione di enzimi capaci di degradare il DNAnucleare della cellula bersaglio. Le citochine prodotte dai linfociti T CD4+ e CD8+ modificano le caratteristiche di superficie dellecellule endoteliali rendendole in grado di reclutare monociti dal torrente circolatorio, che vengonocosì indirizzati verso il sito di esposizione dell´antigene allogenico. Il monocita, in presenza di citochine (soprattutto IFN- ), si trasforma in macrofago attivato che

elimina l´antigene (reazione dell´ipersensibilità ritardata).

Rigetto cronico Può essere successivo a un episodio di rigetto acuto, ma può anche insorgere senza essere precedutoda un evidente episodio acuto. È caratterizzato dalla progressiva fibrosi dell´organo che perde lapropria normale architettura. Può essere il risultato dei fenomeni di riparazione successivi allanecrosi cellulare provocata dal rigetto acuto. La fibrosi potrebbe essere la conseguenza di un´attivazione di macrofagi, che libererebbero fattoridi crescita per le cellule mesenchimali, o la risposta all´ischemia cronica provocata dall´alterazionedel distretto circolatorio dell´organo trapiantato. È molto comune il reperto di occlusione vascolare

dovuta alla proliferazione delle cellule muscolari della tonaca intima (arteriosclerosi accelerata).

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Malattia da reazione del trapianto verso l´ospite

È una forma particolare di rigetto in cui cellule immunocompetenti (linfociti T) del donatore,contenute nell´organo trapiantato, aggrediscono i tessuti del ricevente. Si tratta di unacaratteristica complicanza del trapianto di midollo, ma può presentarsi anche dopo il trapianto dialtri organi, specie se il ricevente è stato sottoposto a pesante immunosoppressione.

Valutazione preoperatoria della compatibilità

Il grado di risposta immunitaria del ricevente svolge un ruolo fondamentale per la riuscita di untrapianto. Ai fini di diminuire il rischio e l´intensità del rigetto è fondamentale ottenere il miglioreabbinamento possibile donatore-ricevente. Le indagini pretrapianto sono volte a ottimizzare i seguenti parametri:

• compatibilità del gruppo sanguigno AB0 che permette di evitare il rischio del rigettoiperacuto legato alla presenza di anticorpi naturali preformati IgM;

• assenza di anticorpi preformati diretti verso le cellule del donatore (cross-match);

• compatibilità HLA. Più elevato è il numero di alleli HLA-A e B (almeno 4 antigeni incomune) condivisi tra donatore e ricevente, maggiore è la sopravvivenza del trapianto.

Prevenzione e terapia del rigetto

A causa dell´elevato polimorfismo degli alleli del sistema MHC, le combinazioni possibili degliantigeni HLA sono praticamente infinite e, quindi, la probabilità di trovare, al di fuori della cerchiacostituita dai fratelli, due individui identici per il sistema MHC è praticamente inesistente. La possibilità di ottenere la sopravvivenza di un allotrapianto è legata quindi alla capacità diprevenire o far regredire la naturale reazione del sistema immunitario alla penetrazione di antigeniriconosciuti come estranei. Esistono diverse strategie di trattamento del ricevente che rendono possibile contrastare la reazionedi rigetto.

Le due più importanti sono: • l´immunosoppressione;

• l´immunomanipolazione.

Immunosoppressione

Rappresenta la procedura più comunemente usata di trattamento del paziente trapiantato. Lo scopoprincipale è quello di prevenire lo sviluppo del rigetto. Il rischio di rigetto acuto è particolarmenteelevato nelle prime settimane dopo il trapianto e tende ad attenuarsi con il tempo. Nel lungo periodosi può manifestare una forma più insidiosa, e non ancora completamente compresa nei meccanismifisiopatologici, di rigetto definito cronico che distrugge progressivamente l´organo trapiantato. Lareazione di rigetto è contrastata dalla somministrazione di farmaci che intervengono in differentifasi della risposta immunitaria. Si preferisce la somministrazione contemporanea di più farmaci alloscopo di inibire efficacemente il sistema immunitario con i minori effetti collaterali possibili. Nonesistono schemi fissi di terapia e ogni centro trapianti si regola secondo la propria esperienza.Esistono comunque principi di carattere generale. Innanzitutto i protocolli di immunosoppressione prevedono di articolare la terapia in due fasi.

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La prima, detta di "induzione", viene effettuata nelle prime due settimane e prevede lasomministrazione di alte dosi di steroidi, ciclosporina o FK506 (tacrolimus) e azatioprina. La seconda fase, detta di "mantenimento", ha l´obiettivo di evitare l´insorgenza di episodi acuti dirigetto. Anche per questa seconda fase esistono consuetudini tipiche di ogni centro, ma si possonoindividuare alcune linee guida. Il cardine farmacologico della terapia immunosoppressiva èrappresentato dall´utilizzo della ciclosporina o, alternativamente, dell´FK506 in associazione abasse dosi di steroidi e azatioprina. Tuttavia esiste attualmente un´evoluzione nel trattamentoimmunosoppressivo che prevede l´uso per brevi periodi di tempo di cortisone e la sostituzionedell'azatioprina con il micofenolato. L´eventuale episodio di rigetto richiede l´instaurarsi di una terapia antirigetto che si basasoprattutto sull´utilizzo in prima battuta di alte dosi di metilprednisolone somministrato per viaendovenosa. L´inefficacia di questo provvedimento terapeutico rende necessario il ricorso ai sieri policlonali omonoclonali (OKT3) diretti contro i linfociti.

Effetti collaterali dell´immunosoppressione

La prevalenza di neoplasie in pazienti sottoposti a trapianto di rene è compresa tra il 5 e il 16%,rappresentando un valore significativamente maggiore di quello trovato nella popolazione nontrapiantata di pari età. Il 60% dei tumori è costituito da neoplasie della cute, della labbra, del collodell´utero e, soprattutto, linfomi. Circa l´80% dei pazienti sviluppa almeno un episodio infettivo dopo il trapianto. Il 40% delle causedi morte dopo il trapianto è dovuto a complicanze infettive. Agenti eziologici sono batteri nel 55%dei casi, virali nel 33% (herpes virus, citomegalovirus, herpes simplex virus, Epstein-Barr virus,varicella-zoster) e fungini nel 15% (Candida albicans, Aspergillus fumigatus, Pneumocystis

carinii). Le sedi più soggette a infezione sono le vie urinarie, la ferita chirurgica, l'addome e icateteri intravenosi.

Immunomanipolazione

Dal punto di vista sperimentale è stato ormai dimostrato che il trapianto simultaneo di midolloosseo e di cellule, tessuti od organi provenienti dallo stesso donatore è in grado di indurre tolleranzaal trapianto. Questo settore della ricerca trapiantologica ha preso avvio dopo la documentazione dell´esistenza diun passaggio di cellule APC dall´organo trapiantato al ricevente. Il fenomeno è direttamenteproporzionale alle dimensioni dell´organo o alla quantità di midollo osseo trapiantato. Le APC sonoin grado di crescere di numero nel ricevente fino a creare una popolazione linfocitaria mistadonatore-ricevente (chimerismo) innescando una serie di fenomeni responsabili dell´accettazionepermanente dell´organo senza la necessità di nessuna terapia immunosoppressiva.

DONATORI• Larga parte da cadaveri;• Donatore vivente (rene, fegato)

Per quanto riguarda i donatori cadaveri deve essere presente morte cerebrale accertata da uncollegio medico composto da un medico legale, da un anestesista-rianimatore, da unneurofisiopatologo oppure un neurologo esperto in EEG. Quando si presenta un paziente in stato diincoscienza causato da una presunta morte cerebrale, si deve avvisare la direzione sanitaria cheprovvederà a nominare il collegio medico. La morte viene dichiarata in caso di arresto cardiaco conECG piatto per almeno 20 minuti oppure se durante il periodo di osservazione (variabile da unminimo di 6 ore ad un massimo di 24 ore a seconda delle caratteristiche del paziente) si verifichinocontemporaneamente queste 3 condizioni:

• stato di incoscienza;

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• assenza dei riflessi del tronco cerebrale e del respiro spontaneo;• silenzio elettrico cerebrale.

A queste 3 condizioni va aggiunto l'assenza di flusso cerebrale in alcuni sottogruppi di pazienti:• bambini d'età < 1 anno;• paziente sotto l'effetto di depressori del SNC;• ipotermia;• alterazioni endocrino-metaboliche.

Viene dichiarata la morte cerebrale se le 3 (o 4) condizioni si verificano ad inizio, metà e fine delperiodo di osservazione.

VALUTAZIONE CLINICA DEL DONATORE• Possibilmente < 60 anni;• No precedenti neoplasie (eccetto alcune del SNC);• No infezioni batteriche, virali o micotiche;• No Ab anti-HIV;• No diabete mellito, ipertensione arteriosa, vasculopatie;• No ischemia prolungata.

PRELIEVO MULTIORGANO DAL CADAVERE• Incisione giugulare-pubica con sternotomia;• Isolamento dei principali vasi venosi ed arteriosi degli organi che devono essere prelevati;• Aorta e cava chiuse distalmente ai vasi renali;• Introduzione di un catetere nell'aorta per la conservazione degli organi;• Infusione nelle coronarie di una soluzione cardioplegica a 4°C che ne determina l'arresto;• Perfusione degli organi addominali con soluzione fredda;• Con l'arresto dell'attività cardiaca, inizia il periodo di “ischemia fredda”;• L'ischemia fredda termina alla rivascolarizzazione dell'organo dopo il reimpianto;• L'assenza di ossigeno determina l'arresto dei processi metabolici cellulari compresa la

pompa sodio-potassio → edema cellulare.• Il cuore dev'essere trapiantato entro 4 ore dall'espinato;• Il rene può essere trapiantato con successo anche dopo 24 ore.

TRAPIANTO DI FEGATO

PRINCIPALI INDICAZIONI• Insufficienza epatica acuta (virale, tossica…)• Cirrosi epatica (virale, alcolica, autoimmune)• Malattie colestatiche croniche (cirrosi biliare, colangite sclerosante)• Epatocarcinoma (in assenza di invasione vascolare o malattia extra-epatica)• Malattie metaboliche (Deficit di α-1-antitripsina, Malattia di Wilson, fibrosi cistica, S. di

Crigler-Najar).

CONTROINDICAZIONI ASSOLUTE • Età > 65 anni• Tossicodipendenza• Infezioni in atto• Alcolismo in atto• Patologie psichiatriche gravi• Neoplasie extra-epatiche.

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CONTROINDICAZIONI RELATIVE• Età > 60 anni• Trombosi parziale o totale della vena porta• Pregressi interventi vascolari o del distretto epatobiliare di ostacolo alla tecnica di trapianto• HBV-DNA+• HIV +• Patologie extra-epatiche (insufficienza cardiaca, respiratoria, renale)

PROTOCOLLO DIAGNOSTICO PER IL TRAPIANTO DI FEGATO• TC spirale con mdc ev e per os con fase arteriosa, venosa e calcolo del volume epatico• Ecocolor Doppler addome e vasi epatici• Ecocardiogramma • EGDS e colonscopia• HCV-Ab e se positivo HCV-RNA• HBsAg e se positivo HBeAg, HBV-DNA, HDV-Ab• Sierologia per CMV, EBV, HIV• Test allergici cutanei• Valutazione psichiatrica• alfa-fetoproteina, CEA• Ab anti-nucleo, anti-ribosomi, anti-mitocondri, anti-muscolo liscio, anti-tireoglobulina• Scintigrafia ossea

I pazienti per essere iscritti alla lista dei trapianti devono avere un punteggio Child-Pugh > 7.

I criteri UNOS stabiliscono la priorità nell’assegnazione di un fegato.

Classe 1

• Insufficienza epatica fulminante• Insufficienza epatica dopo trapianto di fegato – primary non function • Trombosi arteria epatica • Riceventi pediatrici (<18 a) con aspettativa di vita <7 gg

Classe 2A

Pazienti con cirrosi, punteggio Child ≥ 10, con emorragia intrattabile delle varici o encefalopatiaallo stadio III o sindrome epato-renale o ascite intrattabile.

Classe 2B

Pazienti con cirrosi, punteggio di Child ≥10 o pazienti con cirrosi, punteggio di Child ≥ 7 edemorragia recidivante delle varici o encefalopatia recidivante o sindrome epato-renale o peritonitebatterica spontanea

Classe 3: pazienti con cirrosi che necessitano di ricovero ospedaliero, Child ≥ 7

Ai criteri UNOS sono stati associati i criteri di MELD (Model for End Stage Liver Disease)

Valuta, in maniera più oggettiva, la sopravvivenza di pazienti con cirrosi ed insufficienza epaticaterminale. Si basa su:

• determinazione bilirubinemia• INR• creatinina

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PER IL TRAPIANTO EPATICO

• Necessaria tipizzazione ABO• Non indispensabile quella HLA• Peso del donatore non deve superare del 10-20% quello del ricevente

VIE DI ACCESSO

• Bisottocostale

• Sottocostale destro prolungato verticalmente, sulla linea mediana, fino al processo xifoideo.

Epatectomia del fegato nativo → Impianto del fegato del donatore

Tempo 1: epatectomia• Sezione dei legamenti del fegato• Isolamento e clampaggio delle strutture vascolari epatiche e della via biliare

ESISTONO 2 TECNICHE PER IL TRAPIANTO

• Tecnica convenzionale• Tecnica piggy-back

Epatectomia con tecnica convenzionale

• Clampaggio sopra- e sotto- epatico della V. cava• Posizionamento di un by-pass veno-veno tra V. femorale sin, V. porta e V. ascella sin in

modo da decomprimere il sistema venoso splancnico e favorire il ritorno venoso dagli artiinferiori

• Anastomosi T-T a livello della V cava sopra- e sottoepatica• Anastomosi T-T della V porta• Anastomosi T-T dell’A. Epatica• Anastomosi biliare coledoco-coledocica su tubo di Kehr• Se c’è discrepanza di calibro tra coledoco del donatore e del ricevente si può confezionare

una anastomosi bilio-digestiva.

Epatectomia con tecnica piggy-back

La tecnica convenzionale, largamente adottata da tutti i centri trapianti del mondo, presenta alcune problematiche operatorie: uso del bypass veno-venoso, riduzione del flusso ematico renale, instabilità emodinamica dovuta al clampaggio totale della vena cava, sanguinamento dal retro peritoneo. Per ovviare a queste problematiche, maggiormente dovute al clampaggio totale della vena cava, all’uso della circolazione extra corporea ed al sanguinamento peritoneale, è stata applicata una nuova tecnica di trapianto definita“ piggy-back technique ”. Tale tecnica prevede durante l’epatectomia la preservazione della vena cava nativa retro epatica, questo permette di mantenere il ritorno venoso al cuore, di prevenire le alterazioni emodinamiche e di non utilizzare il bypass veno-venoso. Tuttavia la Piggyback technique trova il suo tallone di Achille nella ostruzionedell’efflusso sanguigno a livello della anastomosi venosa cavale-epatica. Per minimizzare il problema dell’ostruzione dell’ efflusso ematico a livello dell’anastomosi cavale questa deve essere confezionata su un’ostio il più ampio possibile, costruito mettendo insieme le tre vene sovraepatiche. Questa tecnica appare ora la più fisiologica per minimizzare il problema dell’ostruzione all’efflusso venoso e delle complicanze associate ad esso (ascite).

Monitoraggio post-trapianto

• Nei primi giorni: monitoraggio dei parametri vitali in terapia intensiva• Terapia immunosoppressiva

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• Evitare complicanze settiche• Monitorare la funzionalità epatica• Indispensabile dosaggio ematico giornaliero della ciclosporina• Ecodoppler giornaliera dei vasi epatici nella prima settimana• Colangiografia trans-Kehr• Rimozione Kehr a 6 mesi dal trapianto dopo controllo radiologico

Complicanze post-trapianto epatico

Precoci

• Rigetto iperacuto o acuto• Primary non-function• Complicanze vascolari (trombosi dell'arteria epatica, vena porta, vena cava)• Stenosi o deiscenza dell’anastomosi biliare• Infezioni

Tardive

• Rigetto cronico• Ripresa della malattia di base• Infezioni• Tumori post-trapianto• Osteoporosi• Nefropatia cronica da trapianto

Francesco Di Girolamo

TRAPIANTO DI RENEIl trapianto renale è la migliore terapia (sostitutiva) per il paziente uremico. Il rene da trapiantarepuò essere prelevato da un donatore vivente o cadavere.

DONATORE VIVENTE – criteri di selezione:• consanguineità → in genere da genitori o fratelli;• compatibilità ABO e HLA → per ridurre il rischio di rigetto immunologico;• elevata motivazione → la donazione deve essere sempre spontanea;• eccellenti condizioni cliniche;• funzione renale normale.

Rischio di mortalità del donatore 0,1%

TIPIZZAZIONE DEL GRUPPO SANGUIGNO AB0Viene sempre eseguita perché nessun trapianto può sopravvivere se esiste incompatibilità AB0 tradonatore e ricevente.

TIPIZZAZIONE HLATra donatore e ricevente è indispensabile l'identità o parziale identità. Tra genitore e figlio esistesempre una semi-identità con compatibilità del 50%. Tra due fratelli c'è una probabilità del 25% dicompatibilità completa, ma anche un 25% di incompatibilità incompleta.HLA sono antigeni che inducono il rigetto e si dividono in 2 classi:

• HLA di classe I → sono espressi da tutte le cellule nucleate;• HLA di classe II → sono espressi solo dalle APC e sono necessarie per la presentazione

dell'antigene ai linfociti CD4+ T helper.

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La compatibilità degli antigeni HLA viene verificata con test sierologici oppure con PCR.

RICEVENTE

La selezione del ricevente deve avvenire sulla base delle seguenti caratteristiche:• compatibilità immunologica col donatore;• età (oggi il trapianto si può conseguire anche dopo i 65 anni);• condizioni cliniche;• malattia di base;• fattori psicologici.

Ogni ricevente può ricevere il trapianto di un solo rene.Patologie che rappresentano controindicazioni all'intervento chirurgico e/o alla successiva

terapia immunosoppressiva:• ulcera peptica;• malattie epatiche;• malattie psichiatriche;• tubercolosi in fase attiva;• infezioni croniche.

Patologie che richiedono un trattamento chirurgico preliminare:• grave reflusso vescico – ureterale;• reni policistici di grandi dimensioni;• patologie urologiche (ipertrofia prostatica);• colelitiasi con colecistiti ricorrenti;• diverticolosi del colon con diverticoliti ricorrenti.

PRELIEVO DEI RENI DAL DONATORE

Il prelievo dei reni è più semplice dal donatore vivente per due motivi:• migliori condizioni del donatore vivente;• disponibilità di esami strumentali (TAC – RMN – ANGIOGRAFIA) eseguiti in precedenza

che permettono al chirurgo di conoscere bene le condizioni anatomiche del paziente e il tipodi vascolarizzazione del rene da prelevare.

Il prelievo del rene da donatore cadavere, è associato a quello di altri organi (per legge si vieta soloil prelievo a scopo di trapianto di cervello e gonadi). Il rene viene prelevato per ultimo, per cuil'ischemia renale dura più a lungo. Prima del prelievo, tutti gli organi devono essere lavati, cioèliberati del sangue contenuto nei vasi mediante perfusione con soluzione salina contenente sostanzeprotettive per le cellule.Gli organi prelevati vengono spediti a centri di trapianto e conservati in contenitori contenentighiaccio. E' anche possibile utilizzare una macchina che perfonde continuamente i reni consoluzioni saline fredde.I reni in ghiaccio si conservano fino a 24-36 ore.

ISCHEMIA CALDA – ISCHEMIA FREDDA.Nel periodo di tempo compreso tra l'interruzione della circolazione del donatore e la ripresa della

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circolazione nel ricevente, il rene deve affrontare due tipi di ischemia.Un'ischemia calda, che comprende la somma dei tempi intercorsi:

• tra l'interruzione della circolazione renale nel donatore + il completamento delle proceduredi perfusione renale e raffreddamento del rene dopo il prelievo;

• e tra la rimozione del rene dal ghiaccio e il completamento dell'anastomosi vascolaredurante il trapianto, con cui riprende la perfusione ematica e l'ossigenazione del rene.

Un'ischemia fredda, che comprende il periodo di conservazione a freddo dopo il prelievo.

L'ischemia calda non deve superare i 40 minuti. L'ischemia fredda può essere protratta fino a max24-36 ore. Onde evitare la comparsa di gravi alterazioni ischemiche che possono compromettere invia transitoria o definitiva la ripresa della funzione renale.

INTERVENTO CHIRURGICO DI TRAPIANTO RENALE

Il rene da trapiantare viene sistemato in una delle due fosse iliache (trapianto eterotopico), a latodella vescica, in sede extraperitoneale:

• perché l'uretere del donatore che viene trapiantato insieme al rene è corto;• inoltre la protezione del rene trapiantato è fornita dalle ossa del bacino e la sua sede

superficiale ne permette la palpazione;

Per agevolare l'esecuzione dell'anastomosi arteriose e venose il rene sinistro viene trapiantato infossa iliaca destra e il rene destro in fossa iliaca sinistra. Dopo le anastomosi vascolari si effettua lauretero-cistoneostomia, cioè l'anastomosi tra uretere del rene trapiantato e vescica del ricevente.Si effettua un'incisione cutanea a livello sovra-inguinale (l'accesso xifopubico viene riservato ai casiin cui si deve effettuare anche la nefrectomia nel ricevente). La vena renale viene anastomizzata

terminolateralmente alla vena iliaca esterna. L'anastomosi dell'arteria renale è di solito

termino-laterale con l'arteria iliaca interna; se questo vaso è compromesso viene utilizzata

l'arteria iliaca esterna. La via urinaria viene ricostruita mediante una ureterocistoneostomia contecnica antireflusso. Se l'uretere è molto breve si potrà effettuare una uretero-ureterostomia o unapieloureterostomia.J-stent: è un catetere a J posizionato tra uretere e vescica che serve per mantenere pervia la nuovavia urologica. Viene rimosso dopo alcuni giorni nel corso di cistoscopia.

COMPLICANZE

Chirurgiche

• Infezioni nella sede di intervento.• Emorragie post – operatorie: ridurre il dosaggio di eparina;

Rottura del rene trapiantato, può aversi in caso:

• trauma;• ischemia diffusa per trombosi arteriosa o venosa;• rigetto iperacuto o acuto;• terapia chirurgica: espianto.

Vascolari

• trombosi dell'arteria o della vena renale;• stenosi dell'arteria renale:

• da angolazione o torsione;• da errori tecnici nell'anastomosi;

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• da placche ateromasiche nell'arteria del ricevente o deldonatore;

Urologiche

• Leakage (stravaso di urine) dalla vescica o dall'uretere causato perlopiù da una fistola inuretere distale provocata da necrosi ureterale conseguente ad una ridotta irrorazione;

• Ostruzione ureterale: è frequente nei primi giorni, è rilevabile ecograficamente come unadilatazione a monte dell'ostruzione.

Infettive

Fattori predisponenti:• immunodepressione terapeutica;• insufficienza renale (uremia);• diabete mellito;• età avanzata;• prolungato stazionamento di cateteri vascolari e urinari;• stravasi urinari da lesioni renali o ureterali o vescicali.

Agenti etiologici• nei primi due mesi prevalgono le infezioni batteriche della ferita chirurgica, delle vie

urinarie, polmoniti, sepsi;• tra il secondo e il sesto mese prevalgono le infezioni virali (herpes virus, virus dell'epatite,

citomegalovirus) e le infezioni opportunistiche (pneumocisti carinii, listeria m., aspergilus ealtri funghi, TBC);

Gastrointestinali ed epatiche

• Emorragie gastrointestinali, sono potenzialmente letali:• predisposizione a gastrite e ad ulcere:

• ipersecrezione acida da stress;• ipercalcemia da iperparatiroidismo secondario;• terapia corticosteroidea;

Neoplastiche

• Nei trapiantati l'incidenza di neoplasie aumenta.• Neoplasie più frequenti:

• tumori cutanei:• linfomi, soprattutto NH;• sarcoma di Kaposi.

• Fattori predisponenti:• depressione del sistema immunitario;• aumento della suscettibilità ad infezioni sostenute da oncovirus;• oncogenicità di alcuni farmaci immunosoppressori (azotioprina soprattutto

causa alterazioni cromosomiche).

Ossee

Necrosi asettica della testa del femore: è causata dall'utilizzo cronico di corticosteroidi ad alte dosi.

Recidive della malattia renale primitiva

RIGETTO

Esistono differenti tipo di rigetto in base al tempo di insorgenza e ai meccanismi coinvolti e alle

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caratteristiche anatomo-patologiche.

RIGETTO IPERACUTO

Il rene trapiantato diventa prima teso e rosa, per l'iperemia e poi diventa molle. La diuresi sepresente si arresta. La terapia immunosoppressiva è inefficace. È necessario ricorrereimmediatamente all'espianto chirurgico per evitare complicanze emorragiche da rottura del rene.Per limitare il rischio di rigetto iperacuto è necessario prima del trapianto eseguire prove dicompatibilità:

• compatibilità AB0;• cross – match : è una prova di compatibilità diretta degli antigeni HLA;

Il rischio di rigetto iperacuto è minimo se la compatibilità AB0 è completa e il cross-match ènegativo.

RIGETTO ACUTOSi verifica tra 1 – 5 settimane dopo il trapianto. E' mediata da meccanismi immunitari di tipocellulare. Clinicamente il rigetto acuto si manifesta con IRA non oligurica, asintomatica. Talora si manifestacon oliguria.Diagnosi: Ecocolordoppler e biopsia renale. E necessario fare diagnosi differenziale con altre cause di IRA nel trapiantato:

• NTA: nel 50% dei reni trapiantati non si ha ripresa immediata della funzione renale perchési ha NTA, causata dall'ischemia conseguente al prelievo; in caso di NTA bisogna aspettarefino a 3-4 settimane perché si abbia la restitutio ad integrum dell'epitelio tubulare e riprendala funzione renale;

• nefrotossicità da ciclosporinadiagnosi differenziale difficile, perché non sempre i livelli del farmaco sono elevati e nonesiste un quadro clinico caratteristico.

RIGETTO CRONICOE' una disfunzione cronica d'organo. E' caratterizzato da una compromissione della funzione delrene trapiantato con lenta progressione verso l'IRC.I meccanismi patogenetici coinvolti sono:

• immunologici: cioè una risposta immunitaria simile a quella coinvolta nel rigetto acuto, mapiù lenta e attenuata;

• non immunologici: nefrotossicità di alcuni farmaci anti-rigetto utilizzati.

Alterazioni istologiche:• fibrosi interstiziale iniziale;• ispessimento della parete dei vasi: causato da un processo di aterosclerosi accelerata.

Terapia:• misure dietetiche e farmacologiche della IRC, fino a quando si rende necessaria la terapia

dialitica cronica;• se è sospettata la nefrotossicità da ciclosporina, si tenta lo switch cioè la sostituzione con

altri farmaci immunosoppressori come la rapamicina.

Giovanni De Carlo