Cheever pulp luglio agosto 2012

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di Luca Malavasi SPECIALE | John Cheever John Cheever illuminare, esplodere, ristorare "MA QUALCUNO DEVE PUR STARE A OSSERVARE IL MONDO": SE LO DICE ELIOT NAILLES A METÀ CIRCA DI BULLET PARK (1969). NON È UNA DOMANDA RETORICA, NON È UN'ORGOGLIOSA PRESA DI POSIZIONE. SOMIGLIA, PIUTTOSTO, ALL'IDENTIFICAZIONE DI UNA CONDIZIONE INEVITABILE, NON DEL TUTTO NEUTRA MA COMUNQUE LONTANA DALLA CONDANNA. E RIGUARDA, NATURALMENTE, JOHN CHEEVER STESSO.

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d i Luca Malavasi SPECIALE | John Cheever

J o h n Cheever

i l l u m i n a r e , esplodere, r i s t o r a r e

" M A QUALCUNO DEVE PUR STARE A OSSERVARE I L M O N D O " : SE LO DICE E L I O T NAILLES A METÀ

CIRCA D I BULLET PARK ( 1 9 6 9 ) . N O N È UNA DOMANDA RETORICA, N O N È UN'ORGOGLIOSA

PRESA D I POSIZIONE. SOMIGLIA, PIUTTOSTO, ALL'IDENTIFICAZIONE D I UNA CONDIZIONE

INEVITABILE, N O N DEL T U T T O NEUTRA M A COMUNQUE LONTANA DALLA CONDANNA.

E RIGUARDA, NATURALMENTE, J O H N CHEEVER STESSO.

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G l i altri vivono, parlano, agiscono. Tra di loro ci sono quelli che osservano, che non possono non

farlo, o non possono evitarlo (ma, anche, che amano farlo). Che sia una condizione innata o una specie di attitudine coltivata consapevolmente, somiglia a qualcosa di eccezionale. Anche se magari, da fuori, non s'intuisce neppure. Perché colui che osserva non deve rendersi troppo appariscente o essere d'intralcio. Così, a voler indicare un doppio narrativo di Cheever — del suo modo di guardare e scrivere, e prima ancora di questa necessità di "osservare i l mondo", che giustifica, fonda e al tempo stesso nutre la sua narrativa — la scelta più adatta mi sembra quella del Clancy dell'omonimo racconto (Clancy nella torre di Babele), «addetto all'ascensore di una delle grandi case ad appartamenti nell'East Side». Quasi invisibile, almeno dapprincipio, l'anziano signore, zoppo a causa di un antico incidente sul lavoro, osserva gli inquilini del "Palazzo ", ne registra i movimenti e gli appuntamenti, ne osserva i volti e gli abiti, l'andata e i l ritorno. E

conclude che i passeggeri del suo ascensore «non erano fatti di zucchero. Tutti erano legati da un'intricata rete di amici e amanti, di cani e uccellini, di debiti, di eredità, fidi bancari e posti di lavoro». I n questo intreccio borghese di affari, amori, dipendenze e desideri — identico a quello svelato dall'improvvisa loquacità di una radio straordinaria (che potrebbe tranquillamente essere stata ascoltata in uno degli appartamenti del Palazzo) — sta la materia bruta di quasi tutta la narrativa dell'americano John Cheever, di cui quest'anno ricorrono i cento anni dalla nascita (27 m a g g i ° I9 J 2, Quincy, Massachusetts) ma, anche, i quaranta dalla morte (18 giugno 1982). Per l'occasione, Feltrinelli ha tradotto, sotto i l titolo ingannevole di / racconti, la raccolta "definitiva" (The Stories of John Cheever) ordinata nel 1978 dallo scrittore, comprendente 61 racconti pubblicati tra i l 1946 e i l 1973, da Addio, fratello mio a Igioielli dei Cabot, su cui Rick Moody — uno dei tantissimi "giovani" scrittori americani in debito con Cheever — ha scritto pagine bellissime ("John Cheever

and Indirection", Conjunctions: 29, Fall I997)- Peccato per l'edizione non all'altezza (e dire che di bravi americanisti ce ne sono, in Italia): priva di qualsiasi cura e apparato bio­bibliografico in grado di mettere un po' d'ordine, e di chiarire al lettore italiano che cosa rappresentino questi racconti rispetto alle tante raccolte pubblicate disordinatamente in questi anni (specialmente da Fandango) — e in grado, magari, di rispondere a domande legittime: per esempio, perché si parte dal 194-6 (quando Cheever pubblicava ormai da quindici anni)? Che tipo di circolazione hanno avuto questi racconti? Quale risposta critica o, come si dice, "fortuna"? Speriamo in un'edizione migliore per i Journals, i diari, prevista per l'autunno, sempre per Feltrinelli (ad alcune di queste domande, comunque, si tenta di rispondere in questo articolo). Torniamo a Clancy. Come moltissimi altri racconti scritti da Cheever tra i l giovanile Expelled (1930) e l'ultimo, quasi un romanzo breve, Sembra proprio di stare in paradiso (1982, edito in Italia da Fandango), Clancy nella torre di

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Babele (1951) comparve inizialmente sul New Yorker, prima di finire in una delle sei raccolte pubblicate da Cheever prima del definitivo Stories. I l New Yorker dell'epoca: che, sottolinea Edmund White in un ambiguo ricordo dello scrittore ("The Strange Charms of John Cheever", The New York Review of Books, aprile 20I0) , non era certo la rivista mitizzata di oggi. Racconti "da New Yorker" equivaleva a dire, negli anni Cinquanta, «qualcosa di delicato, alla moda e insulso»; e per famiglie borghesi, poco inclini a essere disturbate o scandalizzate. Ma di "delicato" i racconti di Cheever avevano ben poco. I l materiale, certo, era spesso quello, "alla moda", della New York middle class còlta tra un party e un cocktail o durante una vacanza estiva ma, come rivela proprio Clancy nella torre di Babele (o Addio, fratello mio, o Una radio straordinaria, oppure II nuotatore), lo sguardo e le opinioni dell'ascensorista, attento ai dettagli, compresi quelli da tacere o sussurrare, non si lasciavano sfuggire la morale dell'intreccio e, eventualmente, i l rimprovero. Mai, però, dalle altezze inviolate di qualche legge: se c'è qualcosa che confonde, e disturba, in quei racconti in cui Cheever sistema, accanto all'osservatore, un arbitro morale, è l'imprevedibile ma puntuale rispecchiamento finale tra chi giudica e chi viene giudicato. Vuoi per un gesto di riscatto del secondo (che finisce per umiliare i l primo); vuoi perché l'osservatore, per quanto in dissolvenza, non è mai al riparo dal contagio delle situazioni. E se è certo vero, come si è a lungo ripetuto, che Cheever è stato un maestro del racconto "oggettivo", è altrettanto vero che questa oggettività si pone, in molti racconti, come una specie di problema meta-letterario, e la distanza finisce spesso per somigliare a un tentativo (fallimentare) più che a una posizione assestata. Così Clancy, alla fine del racconto, dopo aver giudicato aspramente, si rende conto che ogni sguardo è, in fondo, cieco, almeno un po', e che ciò che guardiamo e vediamo è menzogna, artificio, costruzione: «Nora gli portò un bicchiere di birra e si sedette accanto a lui alla finestra. Lui le passò un braccio intorno alla vita. Lei era in sottoveste, per via del caldo, e aveva i capelli puntati con le forcine. A Clancy sembrava una delle più grandi bellezze del suo tempo, ma un estraneo, pensò, avrebbe potuto notare lo strappo nella

sottoveste e i l suo corpo curvo e appesantito. Sulla parete era appeso un ritratto di John. Clancy era ammirato della forza e dell'intelligenza dipinte sul viso di suo figlio, ma pensò che un estraneo avrebbe potuto notare gli occhiali del ragazzo e la sua brutta carnagione». In un altro, più tardo racconto profondamente autobiografico, Una visione del mondo, i l narratore scrive: «Il tempo, ho pensato, ci spoglia in un colpo solo dei privilegi dell'essere spettatori e alla fine la coppia che parla a voce troppo alta in un pessimo francese nella lobby del Grande Bretagne (ad Atene) siamo proprio noi. Qualcun altro ha preso i l nostro posto dietro le palme del vaso, i l nostro angolo tranquillo al bar e adesso, esposti, siamo costretti a guardarci attorno in cerca di nuovi punti d'osservazione». E questa improvvisa consapevolezza di un altro sguardo, aperto verso e contro quello

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di chi guarda, lanciato da altri osservatori e alimentato da altri giudizi e altri sentimenti, è questa malinconica, laicissima constatazione di dover perdonare, per poter essere perdonati, che rende la maggioranza delle short stories di Cheever umane in un modo speciale e spesso commovente: compromesso, fallimentare, rassegnato, amorevole. E che le trasporta ben oltre i confini dell'America anni Cinquanta e Sessanta, pur così precisamente descritta e intelligentemente ("oggettivamente") svelata. Ma Clancy è un racconto utile e interessante anche per un altro aspetto. E i l primo in cui Cheever affronta di petto i l tema dell'omosessualità, i l grande demone — assieme all'alcolismo — della sua biografia di uomo e scrittore. I l racconto si regge infatti sullo scontro tra l'ascensorista e i l signor Rowantree, scambiato inizialmente

per un solitario e sofisticato borghese a cui Clancy si rivolge con premura e preoccupazione, perché lo vede sempre solo. Ma quando Rowantree gli presenta "l'amico" Bobby, Clancy capisce al volo, e si rifiuta addirittura di trasportarlo sul suo ascensore. Allo stesso modo, per molti anni, Cheever non è riuscito a "farsi carico", nella scrittura e nella vita, del suo desiderio per l'altro sesso, rifiutandolo o condannandolo dopo averlo sporadicamente consumato con orrore e odio. Solo tardi — come rivela lo straordinario Sembra proprio di stare in paradiso e, poco prima, Il prigioniero di Falconer — Cheever riuscì a includere nella scrittura quella metà di sé, dopo averla accettata in termini "biografici" e, negli ultimi anni di vita, apertamente vissuta: «I'm queer, and happy to say so», si legge in una delle ultime pagine dei diari, quelle relative agli anni Settanta/primi anni

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JOHN CHEEVER Bullet Park

< UNIVERSALE ECONOMICA FELTRINELLI

Ottanta. Sono frodo e felice di dirlo. E capace di scriverlo, come fa, in poche, fulminati righe, i l narratore di Sembra proprio di stare in paradiso, riflettendo sui sentimenti del protagonista, Sears, verso un amante occasionale, Eduardo, che gli russa accanto: «Sentì un'ondata di libidine e, insieme, la rivelazione che queste caverne della sua natura sarebbero sempre state lontane da qualsiasi idea di coerenza. I l sentimento che provava per Eduardo era più simile alla nostalgia che all'audacia dell'amore tradizionale, ma non per questo era meno profondo. In quel momento capì che se stava realmente cercando la purezza, non l'avrebbe trovata in se stesso». Quella coerenza è, esattamente, la rasserenante simmetria che Clancy, nel finale del racconto, sembra rintracciare nel panorama newyorkese oltre la finestra, costruito da «uomini dotati di buon senso come lui». Ma le simmetrie del paesaggio, come quelle dell'anima, non sono che finzioni, fragili edifici, consolazioni provvisorie. E i l demone cavernoso dell'omosessualità, patito a lungo, si rivela, a distanza, uno degli antidoti aH'"eleganza" newyorker della scrittura di Cheever: un torbido eccitante e, al tempo stesso, un riflesso di sé osceno e vergognoso; ma, soprattutto, un territorio di intesa e scambio per i l dolore e la dannazione dell'uomo. Del resto, indecenza e oscenità circolano come moneta preziosa nelle storie di Cheever (e limitiamoci ai racconti, perché basterebbe

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ricordare l'Eliot Nailles e i l Paul Hammer di Bullet Park, pubblicato nel 1969, per trovarne un deposito ingente). Circolano e passano di mano, riproducendo su un altro piano quel gioco di scambi imprevedibili e spiazzanti a cui è puntualmente sottoposto lo sguardo dell'osservatore. Spesso, come in Addio, fratello mio, l'effetto finale dei migliori racconti di Cheever si consuma tutto nel rovesciamento di prospettiva e nello scambio più o meno atteso di valori (il che, naturalmente, non equivale a un'assoluzione relativistica ma, semmai, all'accettazione dolorosa di un'anomalia diffusa). Brimmer, pubblicato nel I959> comincia così: «Un personaggio come Brimmer non interessa a nessuno perché la sua è una storia indecente e oscena; ma allora bisognerebbe evitare di frequentare i musei, i giardini pubblici e le antichità in rovina, tutti posti dove le storie oscene abbondano come le margherite a Nantucket». Per uno come Brimmer, moderno satiro, è solo questione di tempo: prima o poi, se ne vedrà la bellezza. Non una questione estetica, piuttosto estatica: come nel finale, accecante, che riempie gli occhi del narratore di Addio, fratello mio — la sorpresa di fronte «alla severa e manifesta bellezza della vita», che non avvisa prima di rivelarsi, ma sorprende l'osservatore — quello stesso osservatore che non si tira indietro dinanzi all'oscenità, ben consapevole che, nel rischio, è calcolato un possibile risarcimento. L'umanesimo dolente di Cheever è perennemente tirato tra questi opposti, in un gioco di discese e risalite, di scontri con la materia bruta e di sublimazioni estatiche che evoca certo la meccanica dell'ascensorista Clancy, ma anche i l nuoto irrequieto di Neddy Merril l tra le case e le piscine di Bullet Park nel racconto più famoso di Cheever, Il nuotatore (1964), trasformato in un bel fi lm da Frank Perry quattro anni dopo, con Burt Lancaster (non altrettanto si può dire della versione francese - Georges Clou e Paul Marteau i personaggi protagonisti... — di Bullet Park, scritta e diretta da Arnaud des Pallières nel 2008). Il nuotatore è anche, assieme a una manciata di altri racconti di Cheever, uno dei più antologizzati e studiati della letteratura nordamericana. Cheever, in questa tradizione, vi figura senza più ombre solo dagli anni Settanta — vi figura, in particolare, come uno dei padri fondatori di quel "genere" glorioso

Burt Lancaster ne II nuotatore

della produzione statunitense che è, appunto, i l racconto. A lungo, infatti, Cheever è stato recepito e recensito, almeno in patria, con sufficienza, se non con diffidenza. Uno dei motivi è già stato citato, e riguarda i l suo lungo rapporto con i l New Yorker. U n altro motivo ha a che fare con l'avanzata prepotente del postmodernismo a partire dagli anni Sessanta, e col precoce invecchiamento che esso sembrò imprimere alla produzione di Cheever. Quando Donald Barthelme (trasferitosi a New York nel 1962, l'anno delle prime Campbell Soup di Warhol) cominciò a pubblicare sul New Yorker (nel 1961), la scrittura di Cheever (ma anche del più anziano John O'Hara, un altro padre del racconto americano, che sulla rivista avrebbe pubblicato fino all'anno della sua morte, i l 1966, o di un terzo John, Updike, di vent'anni più giovane di Cheever) apparve improvvisamente datata. Almeno a coloro — ed erano tanti, dentro e fuori le accademie — che videro in Barthelme un antidoto al realismo "domestico" che fino a quel momento si era distinto come lo stile di riferimento degli autori pubblicati dal settimanale di New York e non solo. I l citazionismo, i l collage, la meta-narrazione e la fuga dalla

"forma" e dalla tradizione si imposero come un nuovo standard, mentre altri autori, in altro modo (Norman Mailer, con la tanta saggistica degli anni Sessanta, o Truman Capote, con A sangue freddo, nel 1965), prendevano le distanze dal romanzo di finzione. Quelli come Cheever restarono spiazzati e isolati. I n questo clima, i due romanzi degli anni Sessanta — Lo scandalo Wapshot (1964) e Bullet Park — vennero accolti con freddezza: a Cheever venne rimproverato — tra l'altro — di non saper padroneggiare la complessità del romanzo, con scene e pagine tenute insieme in modo approssimativo e fragile (una fragilità "visionaria" che rappresenta, per i l lettore di oggi, una delle principali qualità di questi due l ibri e del precedente, Gli Wapshot, 1957)-Avvertito come un narratore old fashion (da stilismi New Yorker), Cheever non reagì mai, né intervenne nell'acceso dibattito letterario del tempo, per quanto vi fosse citato e coinvolto. Ma in una pagina dei Journals degli anni Cinquanta, quando la rivoluzione beat sta già cambiando le cose, annota: «Penso che scriverò ai poeti californiani per contestarli: qualcosa in difesa della tradizione aristocratica, a proposito dello

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starsene seduti su una sedia a dondolo in un capanno per gli attrezzi riattato, dove mi guadagno da vivere scrivendo racconti sulla vita da country club» ; e dopo la lettura de II parco dei cervi di Mailer: «Non necessariamente approvo i l genere di narrativa vecchio stampo che scrivo, ma se uno si sbarazza di quella poi deve trovare qualcos'altro». Questo «qualcos'altro» Cheever non lo trovò mai (non lo aveva, o non voleva cercarlo), se non, lungo gli anni Settanta, giocando un po' di più — ma non postmodernamente — come in Tre racconti, dove concede la prima persona alla pancia di Lawrence Farnsworth, o mettendosi più direttamente in gioco («Me ne sto seduto al sole a bere gin...», recita l'incipit di II quarto allarme). Del resto, i secondi anni Sessanta e i primi anni Settanta di Cheever furono annebbiati dall'alcolismo, almeno fino al momento della sua definitiva disintossicazione, i l 1975-Ma proprio allora, mentre lo scossone impresso da Barthelme (e Barth e Coover) alla letteratura americana si avviava al termine (e i l cosiddetto minimalismo veniva

inaugurato, nel 1976, dalla pubblicazione di Vuoi star zitta, per favore? di Carver e Distortions di Ann Beattie), i l nome di Cheever si avviava a una rapida e anzi

JOHN CHEEVER

l UNIVERSALE I ECONOMICA I FELTRINELLI

memorabile "assoluzione ". Nello stesso anno della prima edizione di The Stories of John Cheever (1978), premiato con i l Pulitzer, un anno dopo l'accoglienza entusiastica de II prigioniero di Falconer, John Gardner chiudeva un decennio di battaglie estetiche pubblicando On Moral Fiction, in cui Cheever, uno degli autori più amati di Gardner, figurava tra i punti di riferimento della "letteratura morale" americana, contro quella contemporanea, che di morale ne aveva poco o niente. Attribuzione anticipata nel 1971 sulla New YorJc Times Book Review ("Witchcraft in Bullet Park", oggi antologizzato in The Criticai Response to John Cheever, curato da Francis J . Bosha nel 1993): in quell'occasione, Gardner definì Cheever «uno dei pochi scrittori viventi che si possa definire un vero artista. Le sue opere spiccano per competenza, talvolta raggiungendo livelli qualitativi straordinari in tutti gli ambiti che io ritengo importanti:la padronanza dei mezzi formali e tecnici; l'intelligenza culturale; ciò che io chiamo "sincerità artistica" e, infine,

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l'efficacia, definita da Tolstoj come i l corretto rapporto morale dell'artista nei confronti del materiale da lui usato ». L'immediato futuro della letteratura americana, come ricorda Jay Mclnerney in "Cowboy, pellirosse e pendolari: le nuove vie del racconto americano" (Panta 12, 1993), avrebbe riannodato le fila confuse, se non disperse, dagli esponenti della metafiction-. le prime raccolte di Ann Beattie (pubblicata inizialmente dal New Yorker) e Raymond Carver ebbero l'effetto di riordinare la sequenza, ponendo Cheever (e Updike e O'Hara) al centro di una tradizione — quella del racconto — che riportava, salendo ancora un po' più indietro, a Hemingway e Fitzgerald, due autori molto amati da Cheever (e, nel caso del primo, anche viceversa): l'aneddotica — peraltro confermata dallo stesso Cheever nell'intervista rilasciata alla Paris Review ne\^ — vuole che Hemingway rimase a tal punto colpito da II marito di campagna (1954) da svegliare nel pieno della notte la moglie per poterle leggere ad alta voce i l racconto (a Nabokov, invece, piaceva particolarmente Addio, fratello mio). Quando morì Hemingway — altrove definito, assieme a Fitzgerald e Faulkner, un «titano letterario che aveva distrutto se stesso» — Cheever annotò nei

Journals: «Ecco un grande uomo (...) A mio modo di vedere, la cosa più importante che fece fu quella di legittimare i l coraggio virile; una qualità che, prima di imbattermi nelle sue opere, avevo sentito celebrare dalle guide scout e da altri personaggi che l'avevano fatto sembrare un'impostura (...) Non ci fu mai, ai miei tempi, qualcuno di paragonabile a lui». A Fitzgerald — che amava di più: «Alla fine di ognuna delle sue opere ho versato lacrime copiose» — Cheever dedicò tempo, letture e un po' della sua scrittura. Perché vi riconobbe un simile, se non addirittura un'anima affine. Dai diari: «Siedo in terrazza e leggo dei tormenti di Scott Fitzgerald. Io sono, come lo era lui, uno di quegli uomini che leggono le penose descrizioni di autori autodistruttivi e beoni, tenendo in mano un bicchiere di whiskey mentre sulle guance ci scorrono le lacrime». E proprio a Fitzgerald sentì di poter rimandare — nella già citata intervista concessa alla Paris Review — per un giudizio finale sulla sua stessa opera, consapevole di condividere con lui un fraintendimento di lunga durata,

quello per cui alcuni critici percepiscono l'esattezza documentaria e la volontà testimoniale come una scrittura di "pezzi d'epoca" destinata, presto o tardi, a rivelarsi datata. In Fitzgerald, come in Cheever, c'è anche questo — realismo "domestico", piacere per i l dettaglio, "verità" nel presentare una scena o un personaggio. «Ogni grande uomo — sono parole di Cheever — è scrupolosamente fedele al suo tempo». Ma poi c'è altro; c'è un piano, quello dei sentimenti e delle passioni, che travalica nomi, luoghi e date, e che, nel caso di Cheever, proprio come in Fitzgerald, si nutre di una grazia umanissima, dolce, tra la comprensione e l'amore, sostenuta da una passione per la vita

e le sue infinte varianti — dall'estasi della bellezza all'oscenità, appunto. Nel 1965 Cheever scrisse a proposito dei personaggi di Fitzgerald: «Amory, Dick, Gatsby, Anson — tutti loro — erano profondamente coinvolti nell'universalità dell'amore e della sofferenza» ; erano lì «per evocare l'eccitazione di essere vivi». E la stessa sensazione che si prova dopo aver nuotato con Neddy Merrill , dopo aver ascoltato la radio assieme a Irene Westcott, dopo aver salito e sceso i l Palazzo accanto a Clancy. Esercizi d'attenzione e movimento, destinati a «illuminare, esplodere, ristorare»: a questo, secondo Cheever, doveva servire la narrativa. A questo, senza dubbio, serve la sua narrativa.