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Giuseppe dʼAscia CATERINA DʼAMBRA Dramma storico Introduzione di Giovanni Castagna La Rassegna dʼIschia 1986

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Giuseppe dʼAscia

CATERINA DʼAMBRADramma storico

Introduzione di Giovanni Castagna

La Rassegna dʼIschia1986

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INTRODUZIONE

Nella STORIA DELL̓ ISOLA DʼISCHIA, DʼAscia riporta alcuni fatti atroci accaduti in Forio allʼinizio del secolo XVIII, come prova della tristizia de ̓tempi, e lʼanarchia, lʼarbitrio in cui le popo-lazioni vivevano immerse. Il dramma, che si pubblica per la prima volta, sviluppa soprattutto il raccon-to LA VENDETTA DI UNA DONNA, la storia, cioè, di Caterina DʼAmbra che fa pagare a caro prezzo il sangue sparso del suo amato fratello, sordomuto, ucciso dagli armigeri in un giro di perlustrazione. Personaggio del dramma è anche Mattia DʼAmbra, noto come il custode de ̓lepri. Gli anni della prima metà del ʻ700 furono quasi sicuramentee i più tristi della già dolorosa storia degli abitanti dellʼIsola dʼIschia, e in questo clima si svolge la vicenda di Caterina DʼAmbra e, già dalle prime battute, DʼAscia sa far rivivere lo stato dʼansietà, dʼinsicurezza dʼuna parte almeno della popolazione di Forio. E già dalle prime battute ci rendiamo conto del carattere di Caterina: una donna che non rivela alcuna debolezza né un attimo di smarrimento. Appartiene alla razza di quelle donne che, tutte prese dal loro dovere - quello che credono il loro dovere, quello che si sono assunto -, dimenticano ogni altro sentimento. Sin dallʼinizio Caterina esprime il suo odio profondo contro gli armigeri, brac-cio degli oppressori. Parla sempre duramente, non cʼè mai tenerezza nelle sue parole né nei suoi gesti; anche quando parla dei figli non ha accenti materni. Crudele nella vendetta, nessun rimorso turba lʼanimo suo. Fiera del casato cui appartiene, tutta tesa a renderne più eccelso il nome, è dura con i suoi. Cʼè una tale acrimonia, una tale aridità di sentimenti in lei, tranne quello della vendetta, che qualcuno potrebbe dubitare dellʼesistenza dʼun simile tipo di don-na. Eppure Caterina appartiene alla schiera delle donne modellate da un ambiente sociale in cui sono costrette a esistere e di cui assumono lʼasprezza e i comportamenti eccessivi. Il lutto personale diventa lutto di tutto un casato, di un quartiere; quel povero ucciso offre lʼoccasione per finalmente affermare il nome della propria casa, Casa DʼAmbra, il nome del proprio quartiere, Monterone, per distinguerli, per opporli, anzi, allʼintera cittadina di Forio. Cʼè fierezza nellʼessere monteronesi. I monteronesi sono i soli che lottano; gli altri Foriani vengono a patti con le autorità, con la sbirraglia e collaborano. Ancora più fiera è la donna monteronese, non soltanto per la sua bellezza, ma soprattutto per il suo coraggio. Caterina non è soltanto una monteronese, ma è anche una DʼAmbra e per il decoro della famiglia non può lasciare invendicato lʼassassinio del fratello. In unʼepoca di debolezza e dʼarbitrio bisogna dimostrarsi il più forte. Il vero movente è quindi lʼaffermazione della propria forza per essere temuto, rispettato. La lotta contro gli oppressori, la difesa degli oppressi è tutto un ricamo di dʼAscia per rendere Caterina DʼAmbra lʼeroina di una rivolta che, in realtà, mai ci fu. In quel tempo ci si uccideva per un nonnulla. Basta leggere i registri dei seppelliti negli archivi parrocchiali per rendersi conto di quanti morti per archibugita, per archibusciata, per scop-

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pettata, sono trascritti. Poche volte la scoppettata era lʼultima disperata, rivolta per un sopruso subito. Non cʼè lotta contro gli oppositori. Anche quella di Caterina DʼAmbra è una vendetta personale, quasi incomprensibile, sicuramente sproporzionata, ma in quellʼepoca, questo tipo di vendetta era eretto a sistema sociale. Trascorrerà dodici anni rinchiusa nella chiesa di Santa Lucia, senza mai lamentarsi, senza mai pen-tirsi del suo gesto, definendolo, anzi, risoluzione santa. Vivrà una vita intera nellʼebbrezza della ven-detta.

Caterina è una donna ferrea, crudele anche, la cui realtà è cosa non da discutere, ma da accettare come portato di una eredità sentita in modo vivissimo.

Al suo fianco il marito, Loreto, appare sbiadito, senza carattere e senza orgoglio. E ̓il piccolo propri-etario terriero che pensa alla sua roba e si adagia nella quotidianità. Interviene poche volte ed è subito messo a tacere. Sua moglie lo definisce uomo di ghiaccio. Pur tuttavia, quantʼamore in questʼuomo di ghiaccio! Certo, non la passione, ma un amore premuroso, quasi paterno, da cane fedele. E ̓lʼunico che, nonostante tutto, crede ancora nelle istituzioni e aspetta giustizia dai magistrati. Non senza una certa ingenuità.

Giovanni, il fratello di Caterina, è lʼintellettuale della famiglia dʼAmbra ed è un po ̓il portavoce dellʼautore. Sa essere calmo, freddo.

Mattia dʼAmbra, il capobandito, già custode del bosco della Bastia, riserva di caccia del marchese del Vasto, è il braccio di Caterina e sembra che partecipi alla vendetta perché deve, perché il suo onore di bandito glielo impone. E ̓un oratore e si preoccupa troppo di ciò che diranno i posteri: “E che diranno i posteri un giorno? Che il Foriano era sanguinario, era feroce, era assassino. Essi mentiranno, per Dio; dovranno dire che il Foriano era uno schiavo, era una vittima, era trattato da vil plebe dai nobili patrizi e dai feroci ministri di un bieco dispotismo straniero; e che questo schiavo, questa vittima, questa vile plebe protestò qualche volta, non potendo trovar giustizia, non potendo ottenere garenzia, non potendo essere ascoltato e protestò scuotendo le sue catene, armando il suo braccio, schiacciando il capo della forza bruta e prepotente, facendosi quella giustizia che invano aveva reclamato”.

Ancora una volta, come nella STORIA DELL̓ ISOLA DʼISCHIA, dʼAscia opera una distinzione fra i delitti ferocissimi dei patrizi e le feroci azioni degli uomini rozzi e delle donne volgari. Negli attentati dei patrizi manca la lotta, il pericolo, perché, vili e feroci, agivano nelle tenebre e nel mistero, mentre

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fra gli uomini rozzi, fra le donne volgari anche nei delitti vi scorgevi il coraggio brutale, lʼaffetto feroce, la vendetta della persona offesa, in modo che lʼamor proprio e lʼaffetto di famiglia si erano i moventi delle loro feroci azioni, si procacciavano da essi medesimi la giustizia, perché non poteano legalmente ottenerla, vivendosi in feroce arbitrio.. Analizzando il testo, soprattutto le parti cancellate, ci si accorge che dʼAscia ha esitato molto sia nel determinare il movente della vendetta, sia nella maniera di presentare questa vendetta. Non appena Lucia termina il racconto del suo incontro con gli sbirri, si sente un colpo di fucile e Caterina, fra lʼaltro dice: faremo una nuova rivolta. Quellʼaggettivo non trova alcun riferimento, ma diventa chiaro se si pensa che dʼAscia aveva, in un primo momento, scritto: faremo un nuovo vespero. In tutto il primo atto lʼaccento è messo sulla condizione femminile: .... gli fu risposto che le donne dei plebei, che siamo noi, debbono servire, come armenti, alle voglie dei nobili e dei loro sgherri; Mattia dice a Michele dei Grigioni: sappiamo fiaccare le corna di chi tenta allʼonore delle nostre donne. Anzi, più crudamente, dʼAscia aveva scritto: e guai a chi ci tocca nella parte la più gelosa pel Foriano, nellʼonore delle sue donne. Caterina, nella sua sete di vendetta per lʼuccisione del fratello, aizza Mattia gridando: Tu, Mat-tia, ignori forse che questʼoggi tua sorella è stata vilipesa, insultata... si è attentato al di lei pudore, sì è posta a repentaglio la di lei onestà... in pubblica via, in mezzo agli altri assassini in divisa di armigeri; uno di essi volea abbracciarla, altro baciarla. E grida questo, ben sapendo che, nello stesso tempo, istiga anche Vito, il fidanzato di Lucia. DʼAscia, in un primo momento, volle forse vedere, nel tentativo dello sbirro di baciare Lucia, il gesto del soldato francese nei riguardi di una donna siciliana nel piazzale della chiesa di S. Spirito a Pal-ermo nellʼora del vespro il 31 marzo 1282 e, come in questo, la scintilla occasionale di unʼinsurrezione popolare. Insurrezione che, in realtà, a Forio, non ci fu mai.

Giovanni Castagna

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Parte Prima La risoluzioneParte Seconda La condannaParte Terza Gli apparecchiParte Quarta L̓ esecuzioneParte Quinta La Grazia

Personaggi

Caterina dʼAmbra Loreto, di lei marito Giovanni, fratello di Caterina Mattia dʼAmbra, cugino di Caterina Lucia, sorella di Mattia Vito, cugino e fidanzato di Lucia Giorgio Lopez, capo della squadra Michele Grigioni, armigero Bartolomeo, bandito

Birri, banditi, popolani, giocatori, ragazzi

Lʼazione è tratta dalle cronache di Forio e si riferisce alla prima metà del XIX secolo

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Forio (Monterone) - Chiesa di S. Lucia

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ATTO PRIMO

La scena rappresenta una stanza di un operaio, con finestra che porge sulla via

SCENA PRIMA( Caterina sola. Fila, seduta accanto alla finestra. Sente i tocchi della campana che annunziano le

ore 21. Caterina si fa il segno della croce, sospende di filare, mormora una preghiera. Guarda di poi sulla via e dice...)

CATERINA-. Siamo allʼora della comparsa degli armigeri, che salgono da questa parte per dar la cac-cia ai banditi delle Cognole!.. Banditi si chiamano perché non hanno voluto sopportare con rassegnazio-ne le offese, e con umiltà gli abusi, ed invece si han fatto giustizia da per loro... Ma a chi ricorrere? Al Marchese o alla Marchesana DʼAvalos? Costoro non pensano a noi poveri contadini, ma a divertirsi, or a Procida, or a Serracapriola, ora al Vasto fra la caccia ed i giuochi. Ricorrere al Governatore? E non vi ricorse Giampietro Castaldi e fu deriso e cacciato dal Castello a calci e pugni? E non vi ricorse Giandomenico Calise vedendo la povera figlia così maltrattata ed oltraggiata dal caporale degli armi-geri di qui? Presentò le prove, che ne ottenne? Vilipendio e disprezzo. Gli fu risposto che le donne de ̓plebei, che siamo noi, debbono servire, come armenti, alle voglie dei nobili e dei loro sgherri. Non ne possiamo più! L̓ oppressione è troppa! Santa Maria di Loreto, San Vito nostro protettore, trovate voi la via per liberarci da questi cannibili, rifiuto, feccia di tutte le bande tedesche, spagnuole e catalane che qui sono mandati per tormentarci, disonorarci e rapirci quel poco di bene di Dio, che costa tanto sudore a noi altri contadini, miseri e derelitti.(Guardando dalla finestra)Vergine Maria! Lucia corre a questa parte tutta spaventata ed atterrita! Un armigero vorrebbe seguirla, un altro sbirro ha spianato il fucile, ma un altro si oppone per salvarla.(Si alza e mette fuori il capo)Vieni Lucia! Non aver paura!... Entra e chiudi la porta di via. Oh Dio è salva! Ma che sarà successo?(Sʼincammina incontro a Lucia)

SCENA SECONDALucia, tutta spaventata e in disordine, e Caterina

LUCIA: Caterina, cugina mia, salvami... i miliziotti vogliono uccidermi... sono ubbriachi ed incolleriti.

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Bestemmiano come eretici.(Abbraccia Caterina)

CATERINA: Cara sorella, non temere. Qui, in casa mia, quei sbirri non ti potranno far male... perché io... per la Madonna dellʼAssunta chʼè domani - non sono Loreto, mio marito - sono di casa dʼAmbra e basta. Il primo di quegli scomunicati senza patria e senza religione che mettesse piede in questa casa, ove vi è Dio perché vi è onestà e lavoro, lo farei cader freddo come un coniglio del bosco della Vastia, quando lo prende di mira tuo fratello Mattia, oggi capo dei banditi.

LUCIA: Caterina mia, io non mi reggo in piedi, lasciami sedere. Ti racconterò tutto... lasciami prima prender fiato...

CATERINA: Fa coraggio, cugina mia. Non sai chʼa tempi nostri la paura è indegna di una montero-nese. A questa sbirraglia maledetta bisogna mostrare i denti, altrimenti siamo tutti perduti. Animo, dunque, e raccontami.

LUCIA: Ascolta. Domani essendo la festa della Madonna dellʼAssunta, ero andata a comprarmi un fazzoletto pel capo, onde mettermelo con la sciucca bianca, che mi ho fatta, quando sarei andata a sentir messa nella chiesa della piazza. Mi aveva comprato un bel fazzoletto di percalla scarlatto... vi erano dei belli fiori in mezzo, un bel bordo. L̓ avevo pagato mezza patacca.(Vorrebbe piangere)

CATERINA: Non è il caso ora di sentir la descrizione del tuo fazzoletto. Lo vedrò dopo...- Seguita il racconto.

LUCIA: Me ne tornavo tutta contenta col bel fazzoletto piegato sotto al braccio. Arrivata al Largo delle Pigne, veggo molti fanciulli che giuocavano alle noci, mi fermo un momento per guardar chi vincesse. Ben tosto un dʼessi si rivolge verso San Sebastiano e grida: “Ecco i sbirri!” In un istante i fanciulli fuggono in tutte le direzioni, chi verso la Via della Pera, chi verso la cava di San Michele o Monterone. A sentire tale schiamazzo dei fanciulli, al vederli fuggire, la squadra avanza il passo. Allora anchʼio con passo frettoloso ripiglio il mio cammino; ho speranza di trovar qualche porta di casa aperta ed ivi ricoverarmi per non essere raggiunta da quei malandrini. Ma i fanciulli che, correndo e gridando mi precedevano, avevano fatto sì che, al sentir la venuta dei sbirri, si erano subito chiuse le porte di via o le botteghe che a tale ora importuna rimanevano ancora aperte. Bussare non potevo senza fermarmi e

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fermatami sarei stata più presto raggiunta da quei scomunicati, per cui tiravo innanzi e sudavo più per lʼapprensione che pel caldo. Intanto i miliziotti ancora avevano accelerato il passo più di me e si avvi-cinavano sempre ed io vieppiù tremavo, sudava freddo e tiravo innanzi senza volgermi indietro.

CATERINA: Ma, Lucia mia, è stata unʼimprudenza andare a fare tale spesa, giusta allʼora che potevi incontrare questi maledetti da Dio.

LUCIA: Ma stamattina sono stata ad estirpare il granone a S. Giuliano, a mezzogiorno passato sono ritornata. Ho dovuto cucinare, poi pulire la cucina e rassettare la casa, attendere che Mastro Pompeo avesse aperto il magazzino, per cui senza volerlo sono stata obbligata a non provvedermi prima del bel fazzoletto che ho perduto.

CATERINA: Perduto!...

LUCIA: Sì, Ecco come. La squadra mi seguiva ed io avanzavo il passo. Giunta al Cerriglio, mi sento chiamare da uno di essi col nome di villana. Mi volgo indispettita, e rispondo cosa volesse. Era il capo-rale che mi aveva chiamata, un ceffo infernale. Questi con voce rauca e con accento straniero mi dice: “Corri”, ed aggiunge unʼingiuria oltraggiosa, “per andare ad avvisare quei lupi di banditi che ti pagano onde loro facessi da sentinella e da spia”. Al sentir questʼinsulto divento rossa fino nel bianco degli occhi e rispondo subito: “Caporale, hai sbagliato. I banditi non han bisogno di sentinella o di spie, si guardano da per loro e rispettano le fanciulle e non le ingiuriano pervia”.

CATERINA: Bravo!

LUCIA: Una bestemmia del caposquadra ed una sconveniente risata dei suoi compagni hanno accolto la mia risposta. E siccome tutto ciò avveniva senza fermarci, ma camminando sempre a passo celere, così eravamo arrivati da questa parte, quando uno di quei sbirri, fatto più ardito degli altri, si avventa su di me per mettermi le mani addosso. Io più lesta di lui gli sfuggo dalle mani. Altro si appressa e con un ardimento da vile mi afferra un braccio e abbassa il volto per baciarmi. Io, lesta e furibonda, con lʼaltro braccio libero gli assesto uno schiaffo che non se lʼaspettava. Colpito allʼimpensata, lo scostumato libertino mi lascia il braccio. Altri volevano afferrarmi. Uno fra essi prende la mia difesa e li trattiene, e loro rinfaccia la viltà e mi apre un varco e mi dice: “Sollecita il passo, ragazza”, con accento tedesco, “e mettiti in salvo”. Io tosto prendo la fuga, i sbirri irritati di più, vedendo fra essi un mio difensore, gridano, bestemmiano. Io non mi volto e corro a ricoverarmi qui, ma senza il fazzoletto, perché da sotto

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il braccio mʼera caduto quando assestai la guanciata a quello sbirro scostumato.

CATERINA: Il resto lʼho visto io. Tempi veramente infelici! Ad una giovane, povera ma onesta, non è più permesso, per le vie popolate, mentre splende il sole, camminare per fatti suoi senza pericolo di essere insultata. E da chi poi? Da coloro che dovrebbero far rispettare lʼonestà e proteggere le fanciulle. (Si sente un colpo di fucile)

LUCIA: Madonna santissima, un colpo di fucile!...

CATERINA: (Sì smarrisce e diviene pallida) Che vuol dire questa fucilata? Eppure questo colpo è par-tito dalla squadra che ora è salita. Ma contro chi? I banditi sono al sicuro. Forse contro qualche povero cristiano! Ma che! veramente si ammazzano i cristiani come quaglie?... Non ci vorrebbe altro; allora ci moveremo tutti, faremo una nuova rivolta e neppure un pelo dei loro schifosi baffi arriverà allʼillustre nostro Castellano e al nostro Governatore.

LUCIA: Caterina, veggo molta gente che scende da Monterone e si fermano al vico di San Pietro. Il colpo mʼè sembrato sentirlo verso quel punto. Accorrerei anchʼio se non avessi passato quello che ti ho raccontato. Ma mi strugge il desiderio di sapere qualche cosa.

CATERINA: Ora andrò io. Questo colpo mi è piombato nel cuore. Un tremito convulso sempre più mi assale. (Si cambia lʼantesino, ecc.)

LUCIA: Ma tu che temi? Tuo marito, i tuoi fratelli, i nostri cugini che non sono sospetti alla giustizia, non hanno da temere e poi, a questʼora sono tutti in campagna a lavorare. Mio fratello Mattia e gli altri della sua comitiva sono al sicuro certamente.

CATERINA: Ma mio fratello Francesco, il sordo-muto è certamente in questi contorni.

LUCIA: E che pensare a Francesco, povero sciocco! Chi oserebbe fargli del male?

CATERINA: Ho la febbre dellʼimpazienza, bisogna che andassi ad informarmi. Se torna Loreto digli che ora verrò.( Via e Lucia la segue con gli occhi)

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LUCIA: Ritorna presto, Caterina... Si è dimenticata pure di tirarsi la porta di via. Come sta alterata dal momento che ha inteso quel maledetto colpo di fucile! Andrò io a chiuderla.(Lucia entra nelle scene e, nel ritornare sul teatro, sʼincontra col fratello Mattia, che scavalcando un verone esce dalla parte opposta sul teatro medesimo e resta fermo finché Lucia, con immensa sorpresa nel vederlo, non cominci a parlare)

SCENA TERZAMattia e Lucia

LUCIA: (con sorpresa) Mattia, tu qui!... ma per dove sei entrato?

MATTIA: (cupo ed accigliato) Pel verone del terrazzo, dalla parte di casa dʼAscia.

LUCIA: E ̓vero, fratello. Mi ha fatto mettere una paura quella squadra maledetta. Uno di essi mi ha insultata, altro volea afferrarmi un braccio; ma io mi son portata bene, da degna tua sorella.

MATTIA: Io so tutto. Ero sopra casa Marrazzo circa mezzʼora fa; aspettava Vito per sapere se i birri erano saliti; quando un fanciullo, tutto spaventato, ho inteso che raccontava alla mamma, poco da me discosta, lʼavvenimento. Al sentire il tuo nome mi sono fatto avanti io e gli ho domandato come sapeva tutto ciò, ed il fanciullo mi ha risposto chʼegli saliva dalla piazza, pochi passi dietro alla squadra, ed ha visto pure quando ti è caduto il fazzoletto di percalla da sotto il braccio, dando tu il sonoro schiaffo a quel libertino di sbirro, ed ha visto ancora che altro compagno lesto lo è andato a raccogliere e conser-varselo nella tunica. (Si batte lentamente alla porta di vìa).

LUCIA: (sorpresa) Chi sarà? Forse Loreto che torna dalla campagna.

MATTIA: Guarda dalla finestra. (Lucia va alla finestra e torna smarrita)

LUCIA: Fratello, è uno sbirro!

MATTIA: Uno solo!... Per mille diavoli! Ed a che venire in casa di nostra cugina? Avrà scoverto che io son qui?

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LUCIA: Fratello, nasconditi. (si bussa di nuovo)

MATTIA: O bella! Nascondermi io e rimaner te sola con un cane di quelli che ti hanno offesa poco prima? Non sarà mai! Starò io a riceverlo e per lʼanima di nostro padre né lui né altri compagni, se ve-nissero avendo cattive intenzioni, uscirebbero vivi di qui. Va, (a Lucia), ritirati nellʼaltra stanza. Lascia a me la cura di domandare a questo rifiuto delle bande tedesche che pretende in questa casa. (Si bussa la terza volta).

LUCIA: Ma, fratello mio, perché vuoi esporti a tal pericolo? Tu sai che questi scomunicati la tua testa desiderano, di me non hanno che farne, e poi Caterina non potrà ritardare...

MATTIA: Non mi replicare, va (e con un cenno le addita ove deve entrare. Lucia ubbidisce. Si batte ancora più forte)

MATTIA: Chi è?

Voce di dentro : Amico.

MATTIA: Lo credo.... (Va ad aprire)

LUCIA: (vedendo partir Mattia, caccia fuori il capo dalla scena e dice) Madonna dellʼAssunta, salva mio fratello! (sente rumore di passi e si ritira).

SCENA QUARTAMattia e Michele de ʻGrigioni

MICHELE: Perdonate se vengo con tanta insistenza a disturbarvi. Compio un atto di dovere, non lʼavete per male.

MATTIA: Niente affatto... Cercate forse di me? Ma solo è difficile che possiate persuadermi a seguirvi. I vostri compagni ove sono?

MICHELE: Non cerco di voi. Qui siete sicuro. Io non sono avvezzo con agguati compiere il mio do-

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vere di armigero, ma in campo aperto ove possono misurarsi le nostre forze. Dai compagni mi sono allontanato per poco, dopo un deplorevole sbaglio prodotto da quelle cause strane che sono solite ad accadere quando manca una rigorosa disciplina. Una giovinetta, poco fa, nel ritirarsi ha smarrito un fazzoletto. Mi han detto che abitava poco di qui discosto, ho fatto domandare in casa sua e mi è stato riferito che non vi era, ma invece qui ricoverata presso una sua parente. Ho aspettato se fosse quivi en-trata persona per farle consegnare il fazzoletto perduto, ma ho atteso invano. Supponendo che quivi la giovine fosse stata in compagnia di parenti ho osato alla fine bussare - prima che fossero stati di ritorno i miei camerati - per restituire o farle restituire il fazzoletto, onde la ragazza non fosse stata sgridata dalla mamma. (caccia il fazzoletto che vuole consegnare a Mattia)

MATTIA: Bella carità! (con ironia )Insultare una zitella per via mentre va pei fatti suoi ... impaurir-la ... farla piangere ...obbligarla con un palmo di lingua da fuori trovar ricovero in casa non sua, di cui per miracolo trova lʼuscio aperto, col pe-ricolo di essere colpita da una palla di moschetto, se quellʼuscio non era pronto a ripararla. Dopo tanto abuso - se pure le vostre parole non fossero mendaci - si viene a dire: Scusatemi, eccovi il fazzoletto che vi restituiamo perché non abbiamo potuto appagare le nostre voglie. Ma i corsari saraceni, nelle loro continue incursioni, non osavano mezzi così iniqui. Tentavano rapire noi e le nostre donne, ma dietro le lotte, misurando le forze.

MICHELE: Ma voi mi offendete a torto. Siete troppo severo sebbene è giusto il vostro risentimento. Che colpa ho io se i miei compagni mancarono? Ma non tutti furono colpevoli, ma appena tre di dodici che siamo. Se per odio della nostra divisa odiate tutti gli armigeri, questʼodio è ingiusto, perché non sempre sotto di quella batte un cuore corrotto ed abbrutito, come sotto la giacca del bandito non sempre si annida unʼanima perversa e feroce.

MATTIA: Bravo. Avete voluto gentilmente, ed a modo vostro - uomini che avete camminato e trattato in città e paesi - avete voluto rinfacciarmi quel che sono. Sono un bandito, lo vedete, anzi aggiungerò che sono il capo di essi, Mattia DʼAmbra, {atto di sorpresa di Michele ). Vi sorprende forse la mia franchezza? Così siamo fatti noi altri nati, cresciuti, educati in queste campagne, che mai siamo usciti, non dico da questʼisola, ma neppure da questa terra. Non conosciamo altri paesi, altre abitudini, altri costumi; non abbiamo imparato a fingere e a mentire, non ad insinuarci con parole melate nel cuore di una fanciulla. Siamo ruidi come le macerie dei nostri vigneti, le pietre dei nostri monti, ma come le macerie e le pietre siamo quel che siamo e per cui come pietre, come macigni sappiamo fiaccare le corna di chi tenta allʼonore delle nostre donne.

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MICHELE: E ̓questa una minaccia a me diretta?

MATTIA: Non so. Vi dico solo che questo bandito, posto fuori della legge da coloro che legge non riconoscono e non osservano, è il fratello della giovinetta del fazzoletto, questo bandito, dal più fitto nascondiglio del bosco, la guarda, la protegge, la sorveglia e la difende se vi è bisogno. E guai a chi la tocca!

MICHELE: Ed è minaccia ancora codesta?

MATTIA: Non so voi altri come la intendete ... io la intendo dovere di sangue, obbligo fraterno. Volete dar la caccia a noi, perseguitarci, tirarci addosso a palle, è il vostro mestiere, non possiamo lagnarci; ma ad inganni opporre inganni, a fucilate fucilate. E ̓una partita alle carte, i più destri o fortunati vincono, ma unʼanima frale, una fanciulla ... insultarla perché debole, perché sola, perché inerme, è viltà per Dio ... Ritenetevi il fazzoletto, mia sorella non ne ha più bisogno. (con dignità e risentimento )

MICHELE: ( offeso, getta il fazzoletto su di una tavola )Ma questo è troppo. Compatisco fino ad un certo punto il vostro dispetto ed il vostro sdegno. Ma fra co-loro che insultate, vi fu chi pur difese, garentì e vostra sorella protesse, ed avrebbe impedito qualunque abuso. E questo tale era ancora uno sbirro - come voi altri monteronesi ci chiamate per ingiuriarci - e non era fratello o congiunto della ragazza, per la prima volta la vedeva ed ignorava chi fosse.

MATTIA: E che volete dire per ciò?

MICHELE: Che non tutti i sbirri sono sbirri, come non tutti i banditi sono banditi. Ai tempi che cor-rono, tempi di barbarie e dʼignoranza, tempi di servitù e di abusi. Altri sono astretti a fare il mestiere di sbirri per una fatalità, come una fatalità getta un onesto operaio nei boschi. Ambedue questi esseri sventurati, senza conoscersi, senza odiarsi, si debbono perseguitare, lʼuno e lʼaltro debbono rinunziare ai più dolci affetti di figlio, di padre, di marito, di amante. Lo sbirro perché a servizio di un despota prepotente - sia barone, sia conte, sia viceré o governatore - è disprezzato e perseguitato dai vassalli e dai plebei;il bandito dai nobili e dai patrizi è ugualmente trattato. L̓ uno mangia un pane ammuffato che gli getta il signore e muore come una carogna, lʼaltro mangia un pane dʼoro condito dal sospetto e muore da belva. Ma questi due esseri maledetti che la società abborrisce, questi due esseri che una fatalità spinge su diverso sentiero piangono ... qualche volta a vista della sventura e sono generosi più di qualunque altro uomo. ( commosso )

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MATTIA: Mi avete fatto un discòrso col quale mi avete imbrogliata la testa, ma non in modo da non sapervi rispondere. Il bandito è bandito perché ha violato la legge, ha resistito alle autorità, ha sparso sangue, si è posto contro la società, quantunque società corrotta o corrompitrice, e sta bene. Ma voi perché dovete essere quel che siete e vi fate chiamare miliziotti o armigeri? Perché vendete il vostro braccio a potenti signori che non conoscete, coi quali nessun vincolo vi lega, e nessun dovere vʼimpone dʼubbidire. Voi, tedesco o svizzero, perché servite un re ed un imperatore straniero alla vostra patria, e, forse, alla vostra religione avverso?

MICHELE: Perché la libera Elvezia mi ha venduto come armento al vostro signore, perché anche fra popoli che osano dirsi liberi, il proletario, il plebeo è ancora schiavo; perché il mostro del feudalesimo è ancora in tutto il suo vigore. Il cantone dei Grigioni fu mia terra natale, qui mi ha condotto la prepoten-za, lʼavidità dei vostri padroni, qui in terra straniera a vendere la mia vita senza convincimento. Mattia dʼArrbra, addio. Mi sono teco trattenuto più del dovere. Tu puoi essere qui sicuro finché io solo dovessi de-nunziarti, perché Michele dei Grigioni non fu mai vile. Quando per fatalità ci dovressimo incon-trare in luoghi aperti, allora additandomi il caposquadra per quel che siete, avvegnacché io non posso conoscere sotto la volta del cielo quegli che ho conosciuto nel santuario di casa sua, allora Michele dei Grigioni si metterà a fronte del capo bandito Mattia DʼAn.bra il guardiano di lepri e, dimenticando questo colloquio, farà il suo dovere.

MATTIA:E troverà chi farà il suo, senza dimenticare che siete stato meco pur troppo generoso ...( si bussa di tutta fretta e si sente una voce )

SCENA QUINTAVito e detti...

VITO: ( da dentro ) Lucia, aprimi, son io.

MATTIA: E ̓Vito ... ha fretta. ( va ad aprire;Michele lo siegue per uscire )

VITO: ( entra sbalordito, gli altri lo seguono sulla scena ) O Dio, che disgrazia! ( rivolto a Mattia che lo segue ) I sbirri hanno ucciso il muto Francesco. Caterina fa come una pazza ... Hanno portato lʼucciso nella chiesa di San Pietro. E ̓una pietà a vedere il povero cugino cogli occhi ancora aperti, con un pezzo di pane in bocca, divenuto freddo cadavere, perché una palla maledetta lo ha freddato sul colpo. ( A tale racconto Mattia rimane muto e riconcentrato )

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MICHELE: ( sorpreso e confuso a tale nuova si fa, dalle spalle dì Vito ove era rimasto, avanti la scena e, afferrando pel braccio Vito, con impeto dice ) Ma qual delitto aveva commesso questo muto per es-ser fucilato?

VITO: ( che non si era accorto prima di costui, lo guarda con sorpresa frammista a timore, ma tosto fa animo e risponde ) O bella! Volete saperlo da me. Non siete voi uno di quelli? Era sordomuto, uno stupido, non poteva aver colpa. Ma che ! per essere legalmente assassinato da voi altri bisogna esser colpevole? Non eravate colà quando fu ucciso il povero cugino? Io certamente non ero presente, sono accorso alle grida, ho visto il sangue, ho osservato il cadavere disteso a terra. Il terrore su ogni volto umano. Tutti piangevano. E vedete, stranezza! la sola Caterina non piangeva, ma si mordeva le labbra fino al sangue Ha gli occhi stravolti ... uscirà pazza. Il povero marito Loreto e il fratello Giovanni fanno di tutto per calmarla, ma indarno. Ella non vuoi vedere né sentire alcuno, passeggia per la chiesa senza rispetto pel luogo sacro, i suoi passi sono frettolosi, crede di passeggile per la via del Soccorso. Non parla, muove gli occhi in giro come una spiritata.

MATTIA: Povera cugina! Che ne dite Michele dei Grigioni? (con rabbia trattenuta )

MICHELE: ( Confuso ed abbattuto ) Dico che finirei in questo punto la mia vita se non ci fosse un Dio che mʼimpedisse di farlo

VITO: ( piano a Mattia ) Ma questo cacciatore di carne umana, questo macellaio della nostra famiglia che è venuto a fare qui? Forse a godere del nostro lutto?

MATTIA: ( con voce forte ) Taci, imprudente, egli non vʼera.

MICHELE: ( che ha compreso trattarsi di lui dice ) Giovinotto, tʼinganni; io non ero colla squadra e ciò mi duole assai, forse questo assassinio, come tu dici, non sarebbe avvenuto se io fossi stato al mio posto. Mattia, io parto. La rria presenza qui è insopportabile per voi, compromessiva per me. Non posso dirvi altro. Addio. ( sʼincammina per uscire dalla porta di via )

MATTIA: Fermatevi. Per la porta di strada ora è pericolosa lʼuscita. Stando in casa di colei che ha avuto ammazzato il fratello dai vostri compagni, voi potreste incontrare qualche parente sullʼuscio di via; non voglio che riceviate offese sortendo da questa casa. Venite con me, scenderete pel verone del terrazzo interno e, battendo una via campestre che certamente vi sarà nota, giungerete al sicuro in ca-

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serma a felicitare i vostri compagni della fatta bravura. ( via e poi ritorna )

MICHELE: Ed anche questo!!! ( con forzata rassegnazione lo segue )

VITO: Io non capisco più ... Mattia trovo in compagnia dʼuno sbirro... Questi vuoi andarsene per la via e Mattia ha timore chʼè offeso e lo fa partire per la pergola del terrazzo. Cani e gatti sono divenuti amici, ed amici a traverso di un cadavere! E poi ...

SCENA SESTA Mattìa e Vito

MATTIA: ( uscendo dalla scena ove è entrato con Michele ) Hai visto Lucia? ( domanda a Vito ) Dovea essere di là, ma ; non vi è...

VITO: Ella è al fianco di Caterina e batte i piedi a terra, stringe i pugni e piange il suo muto, perché dice che le voleva tanto bene e le regalava spesso quello che il poveretto poteva donarle. Non lo piange per i regali perduti... intendimi bene, ma perché era un uomo affezionato, al quale Lucia non mancava rendere il contraccambio facendogli da vera sorella.

MATTIA: Io le aveva ordinato che si fosse ritirata in quella stanza ed ella è uscita, forse dal verone per dove io sono venuto.

VITO: Così credo. Dal verone sʼinalza una vite che fa da pergolato e mette radice nel sottoposto or-ticello. Questa vite è una comoda scala, ieri mi provai a scendere e risalire per quella e ci riuscii. Ci è riuscita anche Lucia oggi. Ella mi ha mandato qui per informarti di tutto.

MATTIA: Dì dunque e fa presto.

VITO: Mi disbrigherò subito. Ero anchʼio attorno al morto quando è sopraggiunta tua sorella, attirata dalla voce sparsa per Monterone dellʼuccisione del muto di casa dʼAmbra. Appena che Lucia mi ha visto, mi ha chiamato in disparte e mi ha detto: “ Vito, Mattia è in casa di Caterina ... io sono uscita di soppiatto per ispiare allʼintorno se vʼera qualche mastino accovacciato poiché esso - e eri tu - e in compagnia di un cane che fiuta selvaggina, quantunque mi sembri cane bastardo in ogni modo è dovere di vigilarlo e, in caso di aggressione, con un fischio chiama i nostri per liberarlo.

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Va tu - ed ero io - a sorvegliarlo per me e lasciami con Caterina”. Ubbidisco, vengo, ma prima di met-termi in sentinella ti son venuto a prevenire, ora vado ...

MATTIA: Ma io non voleva saper questo, ma invece perché hanno i sbirri ucciso il muto.

VITO: Ti racconterò in breve la cosa, per quanto fra la confusione e le grida ho potuto raccapezzare sopraluogo. Un timore straordinario aveva colpito donne e fanciulli questʼoggi al presentarsi la squadra per la sua abituale perlustrazione. Si era sparsa la voce che quei birboni maltrattavano, insultavano ed offendevano chiunque incontravano. Che Lucia, tua sorella, imbattutasi con essi, per miracolo si era salvata e se non trovava aperto lʼuscio di casa di Caterina lʼavrebbe salutata una palla scrianzata, che lʼhanno girata al povero muto. Per cui porte, finestre, usci tutti furono chiusi e barrati appena che sono comparsi da S. Lucia in su. Per la via neppure un cane, tutti sono fuggiti, donne e fanciulli, fra i fuggitivi vi era il muto. I sbirri insospettiti al vedere tale insolito movimento hanno sospettato forse unʼaggressione preparata da noi altri, si sono posti in prevenzione, in ogni foglia di fico hanno creduto vedere un bandito, in ogni ramoscello di gelso un uomo appostato, in ogni palo di viti un fucile, un trombone, unʼarma pronta a ferirli e ad ammazzarli.

MATTIA: Ma lascia stare tutte queste descrizioni esagerate, parlami del muto; perché fu ucciso?

VITO: II muto stava mangiando un pezzo di pane, seduto in mezzo S. Lucia, allʼuscio di quella bottega; nel veder che tutti fuggivano, allʼappressarsi della squadra, fugge anche lui e si va a ricoverare sotto il vano della porta della chiesa di S. Pietro, e non sospende di mangiare. Da quel sito, per assicurarsi se la squadra avea attraversato quel punto, salendo verso le Cognole, ha cacciato la testa fuori; un sbirraccio col fucile preparato, giusto in quellʼistante, guardava da quella parte del vico del Carrugio per assicurarsi se vi erano agguati. Scovre quella testa sospettosa che spia, crede essere un aggressore dʼavamposto, più lesto del grilletto del suo fucile, prendere di mira il muto, sparare, fu un istante, in modo che il povero muto non ebbe tempo di tirarsi in dietro e la palla . lo colpì in fronte.Rimase Francesco con un morso di pane in bocca, cogli occhi aperti, immerso nel proprio sangue sulla soglia della chiesa.

MATTIA: Ma chi ti ha fatto questo preciso dettaglio? Chi era lì presente?

VITO: Stava mezza nascosta fra lʼuscio e la finestra, Maria di Tribunale in casa sua; tu conosci che la casa di Maria attacca con quella de Sì Vito nel vicolo; da lì essa ha osservato tutto. Visto il cadavere

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a terra, i sbirri sono fuggiti verso il Pastino e per la via delle Cognole sono discesi per Baiola a passo veloce, senza più rifar questa strada.

MATTIA: Vili son sempre costoro e nellʼoffesa e nella difesa; ma vili insultano, manomettono , ir-ritano e ci costringono a reagire. Or si prepara unʼaltra scena di sangue! Or casa DʼAmbra è chiamata unʼaltra volta a far parlare di sé. Caterina e Giovanni certamente non sopporteranno questa sventura senza vendicarsi. Eccoci costretti a vivere di delitti e di vendette, a lavare il sangue col sangue. E che diranno i posteri un giorno? Che il Foriano era sanguinario, era feroce, era assassino. Essi mentiranno, per Dio;dovrà dire che il Foriano era uno schiavo, era una vittima, era trattato da vile plebe dai nobili patrizi e dai feroci ministri di un ʻ bieco dispotismo straniero; e che questo schiavo, questa vittima, questa vile plebe protestò qualche volta, non potendo trovar giustizia, non potendo ottenere garenzia, non potendo essere a-scoltato, e protestò scuotendo le sue catene, armando il suo braccio, schiacciando il capo della forza bruta e prepotente, facendosi quella giustizia che indarno aveva reclamato.

VITO: Ecco Caterina. ( guarda nella scena ) Oh come è trasformata! Al vederla mi fa paura.

SCENA SETTIMACaterina, accompagnata da Lucia, Loreto e Giovanni, e detti

( Caterina apparisce in scena livida e trasformata, cogli abiti e i capelli scinti quasi. Il disperato dolore e la rabbia repressa si mostrano in tutti i movimenti degli occhi e delle membra. Tutti gli altri muti, taciturni e addolorati la seguono. Silenzio generale. Caterina si scuote, si passa una mano per

la fronte, come per cacciarne un pensiero, poi a passi concitati si fa avanti la scena e dice: )

CATERINA: E ̓troppo! Sì chʼè troppo! Si sacrifica unʼanima battezzata im-punemente... un meschino che non poteva far male ad alcuno. Non bastava che Dio lo avesse privato dellʼudito e della parola non bastava che il povero giovane trascinasse la vita senza goderne le lusinghe, gli affetti, le speranze, senza poter dire: “sono uomo come gli altri”. Si sacrifica e perché? Perché si è nascosto, perché era timido. Ma questo miserabile era inerme, non altro a-veva fra le mani che un pezzo di pane. Non aveva mai fatto male ad alcuno. Perché dunque si sagrifica? E voi, uomini di legno, ( rivolta agli altri ) cosa fate voi? Tu, Mattia, ignori forse che questʼoggi tua sorella è stata vilipesa, insultata... si è attentato al di lei pudore, si è posto a repentaglio la di lei onestà... in pubblica via, in mezzo agli altri assassini in divisa di armigeri; uno di essi volea abbracciarla, altro baciarla.( A tali parole Lucia arrossisce per pudore e si mette a piangere per dispetto. Mattia freme; Vito rimane sorpreso e fa segni di sdegno, si avvicina a Lucia e le domanda: )

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VITO: E ̓vero? (Lucia gli volta le spalle e non risponde )

CATERINA: Giovanni, tuo fratello da questi stessi assassini un momento dopo è stato ammazzato innocentemente. Intendi, Giovanni, uomo freddo corre la vetta di San Nicola al mese di gennaio, il tuo caro Francesco non vive più, intendi chʼè stato assassinato il fratello tuo che tu amavi come figlio?( Giovanni si chiude il volto fra le mani )Ed io! ... Ho dimenticato forse che prima di morire la povera mamma mi raccomandò Francesco e mi disse: “ Caterina, tu oggi hai marito ... un giorno o lʼaltro avrai figli .. hai le tue cure ... ma mamma ti da una preghiera prima di morire. Ti raccomanda il povero Francesco ( nel dir queste parole Caterina sʼintenerisce, la sua voce diventa tremola, le lagrime scorronle dagli occhi ) Egli è simile ad un fan-ciullo. Non avrà altri sulla terra che te e Giovanni, questi gli farà da padre, tu devi fargli da madre (a queste parole, soffogata da un pianto convulsivo non può proseguire ).

GIOVANNI: ( cupo e convulso ) Non lagrime, o Caterina, ma sangue chiede oggi mamma, sangue domanda nostro fratello, sangue dʼespiazione e di giustizia.

MATTIA: ( Scuotendosi dalla sua meditazione ) E sangue loro daremo. Le mie mani ne sono già macchiate, la mia fronte è segnata dal marchio dellʼomicida... Ho assaporato una notte la voluttà del sangue. Ma la mia sete oggi è feroce, è ardente, è la sete dʼun capo bandito, dʼun maledetto dagli uomini, che lʼumano consorzio ha scacciato da sé, ha confinato fra i boschi come belva e lʼingiustizia dei grandi perseguita mettendo un prezzo sulla sua testa. Questa sete di vendetta è la sete dellʼonore vilipeso, della giustizia conculcata.

GIOVANNI: La sete di vendetta per noi è la sete della difesa dei deboli, degli oppressi. Il proletario, il povero, la donna, il fanciullo, il demente, oggi sono disonorati, uccisi, lʼonore macchiato, le sostanze involate e rapite, usurpate. Oggi chi non è un bandito è un vile, chi non è latitante è senza onore.

CATERINA: La morte di Francesco sia il grido che chiami a raccolta casa DʼAmbra. Il suo cadavere sia la bandiera che ci riunisce. Siano i suoi funerali la nostra canzone di guerra. Le nostre preci la pro-messa della vendetta. La vendetta....

LORETO: Ma frenati, Caterina, rientra in te stessa. Chi è morto non può tornare in vita. Lascia fare a Dio la vendetta per te.

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CATERINA: Taci, uomo di ghiaccio. Non può tornare in vita il povero mio fratello, lo so. Ma qu-esto sangue (caccia dal petto un fazzoletto intrìso di sangue) domanda vendetta al tribunale di Dio a questʼora e cader deve su coloro che senza un motivo lo versarono fino allʼultima goccia, e cadervi tramutato in fuoco, in esterminio, in strage. Mattia, Giovanni, Vito, Lucia, andate a picchiar forte a casa dei nostri parenti ed aspettate che tutti vi abbiano sentito. Quando alcuno avrà cacciato il capo dalla finestra, gli direte, se non lo sapessero ancora: “in casa DʼAmbra evvi un ucciso” e ve ne andrete subito, senza altre parole. Capite? Senzʼaltre parole. Tu Mattia, a mezzanotte mi attenderai nel bosco di Stennecchia.

LORETO: Ma a che andare di notte fino al bosco di Stennecchia?

CATERINA: Là lo saprai. Là, fra le ombre ed il silenzio, fra il sonno e la morte, fra lʼorrore e la spe-ranza, fra il Cielo e lʼInferno, su questo sangue agrumito ( mostra il fazzoletto ) nel vero tempio di Dio, avendo per testimoni le stelle del firmamento, là, stabiliremo il piano della nostra vendetta.

GIOVANNI: Vendetta esemplare.

MATTIA: Feroce vendetta.

VITO: Vendetta tale che i sbirri per paura non metteranno più piede in questa terra.

LUCIA: Anchʼio sarò con voi, perché appartengo a casa dʼAmbra.

LORETO: Anche tu? (rivolto a Lucia)

CATERINA: Loreto, la vendetta è riserbata a tutta casa dʼAmbra, perché casa dʼAmbra è stata offesa. Serbati tu pel giorno dellʼoffesa a casa tua, giorno che non venga mai. Serbati pei figli, e sʼio dovessi soccombere, dì loro un giorno quando saranno nella condizione di comprenderti: “Vostra madre morì per vendicare il sangue di un fratello ucciso, ma morì da coraggiosa, da intrepida, da cristiana, maledi-cendo gli oppressori, difendendo gli oppressi; sappiate imitarla”.

LORETO: Cielo, proteggi gli sventurati e liberaci una volta da tanti mali.

Fine dellʼatto primo

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ATTO SECONDOLa scena rappresenta un bosco. È notte.

SCENA PRIMAMattia siede su di un masso. Vari banditi sono sdraiati per terra e dormono coi fucili fra le gambe. Uno di essi, collʼarma al braccio, passeggia nel fondo della scena stando di sentinella. Un silenzio

profondo regna allʼintorno.

MATTIA: (si scuote, guarda intorno a sé, vede i compagni distesi per terra e dice ) Ecco la vita del bandito! Vivere di sospetti e di palpiti, di ferocia e di delitti! Dorme un istante fra mille fantasmi che Passalano nel sonno. Il sole e le tenebre, il caldo e il freddo lo trovano sempre in mezzo al bosco, lacero ed affamato. F. la fiera e pure ha una tana ove riposa senza molestia, il bandito nʼè privo, soffre tutte le privazioni, è esposto a tutti i pericoli, scherza colla morte, la vede sempre avanti agli occhi. Ed è vita cotesta?

Sentinella: (da fuori) Chi va là?

SCENA SECONDAGiovanni, poi Vito e detti

GIOVANNI: (da dentro ) Vendetta!

Sentinella: O morte ... Avanti.

GIOVANNI: (da fuori ) Mattia!

MATTIA: Son qua, Giovanni. Con chi vieni?

GIOVANNI: Con Vito, nostro cugino.

MATTIA: Vito!

VITO: (esce) Son qua.

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MATTIA: Quel povero Bartolomeo è stanco. 1 compagni sono sdraiati per terra più stanghi di lui. Non ho chi il primo sostituisca. Mettiti tu in sentinella e spia col tuo occhio e col fino udito che hai se senti qualche rumore per questi contorni.

VITO: Son pronto. ( prende il fucile dalle mani della sentinella e si mette lui al posto di costui, mentre lʼaltro va ad accovacciarsi in mezzo ai suoi compagni )

MATTIA: Giovanni, mʼimmagino che non hai chiuso ancora occhio. Riposati su questa pietra, mentrʼio vado allʼincontro di Caterina. La mezzanotte è già vicina.

GIOVANNI: Io non ho sonno né potrei gustarlo. Fa quel che vuoi. Ti attendo qui. (va a sedere )

MATTIA: Ci rivedremo a momenti. (via )

SCENA TERZAGiovanni, Vito e detti

VITO:Giovanni, sai che incomincio a trovar gusto alla vita del bandito. Mi credo ora un uomo con questo fucile al braccio, anzi più di un uomo, un capobanda. Queste mummie gettate per terra sembrano la mia comitiva. Questi castagni che ci circondano, le nostre sentinelle. Gli armigeri sono là giù, quei pali di vigneti, che ci guardano e temono di attaccarci. Tu mi sembri...

GIOVANNI:Ma taci una volta, buffone. Non è tempo di scherzi. Tu ignori quale abisso si sta scavando sotto i nostri piedi, abisso in cui dobbiamo inesorabilmente cadere! Un altro passo, e questo mestiere che ora ti sembra bello, ti apparirà terribile, insopportabile. Non bisogna scherzare andando incontro al delitto.

VITO. E se è delitto, perché ci andiamo incontro?

GIOVANNI: E questa è la fatalità; e questo è il destino. Respingere la forza colla forza, lʼassassinio collʼassassinio, il delitto col delitto. Questa è la condizione di quella classe servile che chiamasi plebe.

VITO: Qui non saprei risponderti, lo non ò imparato che a putare le viti, a conoscere quanti magliuoli si lasciano sulle vernacce e sulle biancolelle; so come far venire più presto a maturità i pomidoro e i fichi;

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ma leggere e scrivere non ho imparato mai, e siamo tutti così, perché noi altri contadini quanto meno sappiamo, tanto più ci applichiamo al nostro lavoro e ci salviamo lʼanima. L̓ ha detto il predicatore domenica scorsa.

GIOVANNI: Il predicatore, se ha detto così, ha detto una menzogna.

VITO: Altro che menzogna! Dimmi un poʼ, Giovanni, giacché deve passare il tempo, tu e Caterina che sapete leggere bene, perché la buonʼanima di Zia Lucia, vostra madre, ebbe cura di mandarvi a scuola a quello scomunicato di messer Giampaolo, che cosa ne avete ricavato da quello che avete imparato? Tu, ogni mattina colla zappa sulle spalle, prima di far giorno devi, come me, correre in campagna e là, travagliare dallo spuntare fino al tramontar del sole per poter mangiare un pezzo di pane, nero e duro più della coscienza del nostro Catapane. Caterina parimenti, che tutte le domeniche or prende un libro da leggere or un altro, che ne ha ricavato da tanto studio? La conocchia ed il fuso ha lasciato in casa sua, il fuso e la conocchia ha trovato in casa del marito. Glʼimpieghi e i guadagni per coloro che stan seduti non son fatti per noi, ma pei patrizi, i figli dei patrizi. Per noi, o la zappa o il remo.

GIOVANNI: Quantunque la mia testa è una caldaia che bolle e non ho voglia di parlare, pure debbo dirti che questo è lʼerrore in cui vive la nostra classe. Le si fa credere che lʼignoranza salva, lʼistruzione danna. L sai perché ci si usa questʼinganno? Affinché non conoscessimo la nostra abiezione, affinché non potessimo reagire per scuotere le nostre catene, e quelle maglie dislocate dallʼintelligenza della plebe illuminata, istruita, gettarle in faccia dei nostri oppressori. Se la vii plebe, come ci chiamano i pa-trizi della Fedelissima Città ed Isola dʼIschia, discendenti da figli spuri e adulterini di soldati spagnuoli e catalani, congiunti da re Alfonso I dʼAragona a mogli e figli di altri mariti e padri, scacciati dallʼisola, se la vil plebe, che ha sangue legittimo nelle vene, venisse a sapere che Iddio ha creato gli uomini ugua-li, che Cristo venne a bandire la libertà a tutti i popoli, ad abbattere la schiavitù del povero, il dispotismo dei potenti, allora non vi sarebbero più Castellani che ci rubano, sbirri che ci assassinano.

VITO: E quindi neppure banditi e malandrini che si fanno giustizia a modo loro. Ho capito, ma questo giorno che tu desideri non verrà mai.

GIOVANNI: Verrà, verrà... Non sarà a tempo nostro, ma verrà quel giorno. Dopo le tenebre dovrà spuntare la luce, sempre così è andato il mondo. Dopo la barbarie succederà la civiltà. Dopo il servag-gio dovrà venire lʼemancipazione dei popoli oppressi. Si spargerà molto sangue, si farà in grande quello che ci spetterà far domani a questʼora in piccolo; ma da quel sangue, da quellʼincendio apparirà una

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nuova èra che io non so distinguere, non so indicare, ma abbatterà il feudalesimo, emanciperà i popoli e vestirà lʼarmigero e lo sgherro dʼoggi di una nuova divisa, della divisa dellʼonore e della gloria; e sarà esso non più strumento di dispotismo o di barbarie, ma fattore di potenza e di sociale garenzia, sarà il soldato della legge e della giustizia uguale per tutti.

VITO: Ora non ti comprendo. Chi sa in qual libro scomunicato hai letto ed imparato a memoria queste parole incomprensibili. E per aver letto questi libri, scritti dal diavolo, la Madonna ha voluto gius-tamente punirti, la vigilia delle principali delle sue festività, col farti passare questa disgrazia della morte di Francesco chʼè andato diritto in Paradiso perché è morto nel giorno della vigilia dellʼAssunta, quando il Paradiso è aperto per tutti, giusti e peccatori, come sempre ho inteso dire dai vecchi.

( Si sente rumore ) Chi vive? ... Chi vive?...

( Tutti i banditi si alzano, di botto, così parimenti Giovanni )

( da dentro ) Siamo noi! ( si sente la voce di Mattia )

SCENA QUARTA Mattia e detti

MATTIA: Figliuoli, (rivolto ai banditi ) dividetevi in due comitive; lʼuna, guidata da Bartolomeo Di Maio, vada a perlustrare dalla parte del Fango, se scovrite gente sospetta mandateci ad avvertire. L̓ altra, diretta da te, Paolo Castaldi, giri dalla parte della Pennanova collo stesso incarico. Attenti e silenziosi, andate e compite il vostro dovere.( La banda si divide in due drappelli, lʼuno entra a destra, lʼaltro a sinistra della scena)

GIOVANNI: Mattia, Caterina dovʼè?

MATTIA: Eccola che viene.

VITO: Sola! (significantemente)

MATTIA: No ( recisamente )

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SCENA QUINTA Caterina, seguita da Loreto e Lucia, e detti

Caterina indossa un abito di lutto. Lucia veste ancora di scuro. La prima appare molto abbattuta, mostra sul volto i segni del riconcentrato dolore. Lucia e Loreto mesti la seguono. Giunta Caterina in

mezzo alla scena si va a sedere sul masso senza badare ad alcuno. Momento di silenzio generale.

CATERINA: ( senza badare agli altri, come parlasse a se stessa, con voce cupa dice ) II povero Fran-cesco è là, è là disteso sul cataletto senza lume, senza croce, abbandonato. Niun parente intorno alla bara racconta le virtù dellʼestinto e, fra le distese grida, chiama pietosamente il suo nome. Il corpo di Francesco pare una balla sospetta, nascosta in casa di contrabbandieri.

VITO: E ̓questa unʼaltra che ha letto i libri e parla senza farsi intendere. ( piano a Lucia )

LUCIA: Taci, imprudente linguacciuto. ( piano a Vito )

CATERINA: Egli attende il nostro visito di condoglianza, la croce, i ceri, lʼesequie, il miserere, le messe, la sepoltura, il lutto. Ma voi lo sapete, ( rivolta agli astanti ) egli non può ottenere cosa al-cuna, perché nulla gli sarebbe gradito, se prima non veda lʼassassino scendere nella sepoltura prima dellʼassassinato, se non osserva che la pena tenga dietro al delitto come tuono al baleno.

LORETO: (frase) Oggi non riconosco mia moglie, ella mi fa paura.

CATERINA: Non crediate però che pria di vendicarlo non avessi pensato al mio morto. ( torna gra-datamente a riconcentrarsi ) La metà della notte lʼho spesa al suo fianco, lʼò lavato col vino, lʼò pettinato, facendomi aiutar da Lucia. Con molto stento, lʼho vestito della cappa della confraternita di Visitapoveri, gli ho coperto la faccia con un fazzoletto bianco non posto ancora, che nel giorno del mio matrimonio mi regalò la mia commara, in mezzo al quale stava ricamato il nome di Maria. Ciò fatto mi sono inginocchiato da piedi, sul terreno ignudo, ed aperto il breviario gli ho recitato lʼufficio dei morti, (agli astanti ) Vedete, ho fatto quello che mi comandava la chiesa, ora mi spetta ad adempiere lʼaltro non men sacro dovere che mʼimpone natura.

GIOVANNI: Qual è dunque, Caterina, la tua risoluzione? Esponila, poiché di qui a poco dobbiamo separarci.

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CATERINA: La mia risoluzione, tutti la prevedete. Occhio per occhio, sangue per sangue, assassinio per assassinio. Questa è la legge che oggi impera nel popolo privo di protezione e garentia.

LORETO: Questa legge è lʼultima a cui bisogna appigliarsi, se non si trova giustizia presso i nostri magistrati.

GIOVANNI: E i nostri magistrati, che dovrebbero farci giustizia, ove sono? Quali sono?

LORETO: Ricorrere prima al nostro Castellano, al Governatore e se sia bisogno al Viceré. Se costoro faranno i sordi e non puniranno il colpevole armigero, allora è il caso che la giustizia ve la facciate voi.

GIOVANNI. Si vede, cognato mio, che hai un cervello più piccolo di quello di una gallina. E puoi tu seriamente presumere che il Viceré potesse dar retta ai nostri reclami? Scriverebbe al Castellano, questi prenderebbe informazioni dal governatore; il governatore direbbe le cose a modo suo, che Francesco era un birbante, era appartenente alla banda dei malandrini, volea assalire la squadra, stava appostato per far fuoco su di essa e che lʼarmigero, per fargli una paura, aveva sparato e per sola casualità era stato colpito dalla palla, senza la minima intenzione di volerlo ammazzare. L̓ armigero sarà tramutato, noi perderemo lʼoccasione di vendicarci, tutti ci faranno la baia, i foriani ci chiameranno vilacchioni e carogne, casa DʼAmbra sarà disprezzata da tutti, tutti ci in-sulteranno, ci befferanno, niuno più ci temerà, e Francesco rimasto invendicato ci maledirà dallʼaltro mondo. No, Loreto, la proposta tua non possiamo accettarla; se abbiamo qui piantato il nostro tribunale e in questo bosco siamo radunati da giudici, domani agiremo da esecutori, perché i nostri padroni così vogliono.

MATTIA: Loreto, e pure tu dovresti ricordarti la mia storia e non aver fiducia alcuna nei nostri pa-droni. Tu sai che io ero guardiano dei lepri del Castellano, nel bosco della Vastia, che avea ricevuto lʼistruzione che qualunque cacciatore di contrabbando si fosse intromesso nel bosco ed avesse ammaz-zato una lepre avrei potuto ammazzar lui, sotto pena di dieci anni di remo alla catena sulle galeotte che danno la caccia ai corsari, nel caso che non avessi adempito a tali istruzioni. Un giorno, Pietrandrea Calise si ammazza una lepre, io lo sorprendo colla lepre uccisa addosso, non gli fo male, lʼavverto a non commettere una seconda volta simile abuso, mi giura e sacramenta che non lo avrebbe fatto più, gli lascio la lepre e non gli torco un capello. Non passa un altro mese e Pietrandrea fa lo stesso, sento il colpo, corro nel bosco, quando Pietrandrea, ricaricato il fucile, con altra lepre uccisa in ma-no, usciva dal bosco, mi vede, getta la lepre e lesto impugna lo schioppo contro di me. Io, più lesto di lui, per non

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essere ammazzato e per non andare in galera, sparo prima e lo ferisco. Dopo pochi giorni, Pietrandrea, perché mal curato, muore. Il Castellano dimentica lʼordine datomi, non si prende pensiero alcuno di me, fa che la giustizia mi perseguiti ed io divento bandito. Così agiscono i nostri padroni. Non dico il resto.

V1T0: Giudichiamo, dunque.

GIOVANNI: Sì, giudichiamo.

CATERINA: Morte!

LORETO: E per chi?

CATERINA: Per tutti!

LORETO: Per tutti? ( con sorpresa ) Se uno è stato il colpevole?

CATERINA: Ma chi è questʼuno? Cosa han fatto gli altri, quando Francesco è caduto freddo? Hanno forse disarmato lʼomicida? Lo hanno biasimato? Niente affatto, lo anno dato un bravo.

GIOVANNI: Sono tutti complici perciò, e tutti meritano la stessa pena. E poi, se anche non fossero tutti rei, non sono tutti spietati verso di noi, libertini verso le nostre donne?

LUCIA: Ma non tutti sono libertini! (confusa)

VITO: ( con risentimento ) Tutti son libertini e mezzo, e non serve che tu ( rivolto a Lucia ) li di-fendi.

CATERINA: Ma sia pure, come dice Lucia, che non tutti son libertini, sia pure, come vuole Loreto, che non tutti son colpevoli come poter distinguere e separare lʼinnocente dal reo? Quando si assale una piazza, si bombarda una città, può distinguersi il nemico che combatte dallʼinerme che prega pace e dal fanciullo innocente, inconsapevole delle ostilità? E ̓la fatale necessità della guerra, della lotta che con-fonde spesse volte innocenti e colpevoli, nemici che ci assaliscono ed inermi anche che non ci offesero. La nostra è lotta, come potremmo distinguere i rei daglʼinnocenti “se pur ve ne fossero fra essi? E se pur

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lo potremmo, se uniti van sempre per le vie, uniti sono in caserma, come colpire lʼuno e risparmiare i secondi? Per le vie, per le campagne non potremmo seco loro misurarci, non pel numero o pel coraggio, perché noi nellʼuno e nellʼaltro li superiamo, ma perché ci potrebbero sfuggire i rei o potremmo essere scoverti e ci sfuggirebbe la vendetta, colla sicurezza di essere accusati come ribelli carcerati, quindi, perseguitati senza aver fatto nulla. L̓ unica via adunque che ci resta è dʼagire senza aver riguardi. As-salirli nella loro caserma, nella ventura notte, notte opportuna perché succede ad un giorno di solenne festa in cui tutti si daranno in preda allʼallegria ed al vino, e stanchi ed ubbriachi andranno a letto.

VITO: E come cacceremo gli armigeri ubbriachi fracidi dai loro tavolati per venire alla lotta senza molto strepito?

CATERINA: Ubbriachi io li voglio, distesi sul loro tavolato, per farli passare dal sonno del vino a quello della morte. Morte spaventevole sarà la loro, se lʼanima di Francesco mi assiste. La nostra vendetta ( con impeto feroce ) sarà completa, dessa farà stupire i contemporanei, non sarà creduta dai posteri, renderà rispettato e temuto il nome di casa DʼAmbra.

GIOVANNI: Se la sorte ci sarà avversa, tutti, o Caterina, moriremo là sul luogo del combattimento e sarà un vile, un maledetto chi prenderà la fuga.

CATERINA: Noi non combatteremo, Giovanni. Il mio piano non posso qui comunicarlo a tutti ed intero. A te e Mattia darò le istruzioni per i preparativi. Tu, Mattia, abbi pronti i tuoi dipendenti di casa DʼAmbra per questa notte. Tu, Giovanni, avverti i nostri di casa DʼAmbra di non bere vino nel giorno che si avvicina, di esser pronti per agire. Ho bisogno di scale, di legna secca, di solfo, di polvere; le armi e i pali di ferro, abbiamo a sufficienza. Della legna, Mattia se ne incaricherà; delle scale, Giovanni; Vito ha la polvere e si provvederà di solfo. Io sarò la vostra guida; Lucia la mia aiutante. Là, sul luogo dellʼesecuzione, a mezzanotte, vi comunicherò domani il mio piano infernale.

SCENA SESTA Bartolomeo e detti

BARTOLOMEO: Separatevi tosto, poiché la gente che ieri sera andò a Montevergine di Zalo, allegra e festante, è incominciata a ritornare e potreste esser veduti per queste vie sospette, tanto lontane da quelle in questa notte frequentate.

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MATTIA: Hai ragione, Bartolomeo; andiamo. Caterina, ci siamo intesi, farò a puntino quanto mi hai ordinato. (via con Bartolomeo )

CATERINA: ( al marito ) Loreto, andiamo. Vieni, Lucia, (vìa)

LORETO: Che guaio mi era preparato! ( via )

GIOVANNI: Seguimi, Vito. (parte)

VITO: Eccomi.

SCENA SETTIMALucia e Vito

( Lucia si incammina con Giovanni per raggiungere Caterina. Vito la ferma )

VITO: Te ne vai? Doveva morire quel muto del... per non poterci dire una parola, per non poter sfogare neppure il mio dispetto e rinfacciarti che non mi ami affatto. ( con ira )

LUCIA: Zitto, imprudente. Non ti vergogni di dir queste parole con un morto in casa.

VITO: Come! Debbo vergognarmi appresso, dopo lʼincontro di questʼoggi coi maledetti sbirri, uno dei quali volea darti un bacio, e, se te lo avesse dato, sarebbe stato prima di me, che non ho ardito mai di chiedertelo da quando siamo fatti grandi e ci è entrata la malizia in corpo. La maledetta gelosia mi tormenta. Desidero tutti i dodici sbirri distruggere colle mie mani, farli a pezzi e salarli, come tonnina. Ti farò vedere che saprò fare, non già perché hanno ucciso il muto; del muto non mʼimporta, ma per-ché hanno ardito mettere le mani sopra di te, che adoro dopo la Madonna ed anco dopo la memoria di mamma mia. ( passeggiando adirato per la scena )

LUCIA: Va, che non sembri di casa DʼAmbra non meriti lʼaffetto mio, perché non usi convenienze né riguardi e sei un chiacchierone. Non sai distinguere tempo da tempo. Sei un pazzo geloso e niente più ... ed io non voglio per marito un geloso pazzo. Sceglierò un altro che sia docile, ragionevole, prudente come Loreto. ( va per partire )

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VITO: ( irritato dì più ) Come! Questo appresso? Vuoi un marito di stoppa, affinché puoi spaccare e pesare come la Caterina. Ti darò io questo pupo che desideri ... con una buona lama di Campobasso (ferma unʼaltra volta Lucia che sʼincammina) Se nti... se per la morte di un brutto mangione sordomuto si sacrifigheranno dodici cattivi cristiani, pel tradimento di una pettegola che ha tre palmi di lingua tagliente perché si crede bella, giuro, per San Vito di cui ho il nome, che farò dire un giorno: Qui fu Monterò ne!

Fine del secondo atto

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ATTO TERZO

La scena rappresenta una strada o piazza illuminata da panarmi di carta dipinta con lumi. Il brio di una festa popolare si vede da ogni parte. Drappelli di giovanetti e ragazzi, cantando e ridendo,

traversano la scena, fra venditori ambulanti di sorbetti, zucchini ed altri frutti del tempo. Da un lato vi è la panchetta del venditore di cocomeri, che grida; dallʼaltra quella del torronaro. Vari tavolini

sono sparsi pel teatro; intorno a questi siedono soldati, popolani; altri bevono, altri fumano; quattro popolani ad un tavolino in fondo giuocano alle carte.

SCENA PRIMAGiorgio e Michele son seduti ad uno dei tavolini. Il primo ha una bottiglia di vino avanti e beve in-

terpellatamente. Lʼaltro, molto preoccupato, fuma la pipa. Quattro popolani giuocano ad un tavolino opposto.

GIORGIO: Corpo di una granata! Non vuoi, Grigioni, assolutamente questa sera inaffiarti il gorgoz-zule? Stai muto come un certosino e rifiuti il tuo prediletto bicchiere come un devoto musulmano. ( si fa una risata e tracanna un bicchiere di vino )

GRIGIONI: Non ne ho desiderio, Capo-squadra.

GIORGIO: Ma da ieri al giorno a questa parte che diavolo ti passa per la testa? Tu sempre ciarliere, sempre spensierato, sei divenuto, in ventiquattrʼore, serio, riflessivo, taciturno come un cappuccino. Serio tu!? ( ritorna a ridere ) Tu! corpo di una bomba. Si vede che qualche foriana ti ha ferito... Ma sei corrisposto?... Me lʼimmagino. Se è di quaggiù, dei nostri contorni, avvezza a vederci, a trattarci, a vivere fra cristiani, la cosa va. Se poi fosse di lassù, del borgo e della collina, la faccenda è abbastanza dubbiosa. Le donne e fin le fanciulle di lassù, che vivono fra campi, lavorano più di un uomo, hanno un istinto selvaggio, fierino, ri-pussante verso di noi altri. Le contadine monteronesi, come dicevo, hanno lʼistinto del lupo e della tigre, per lʼanima di una colubrina. Ci odiano senza misericordia. Ma noi le accomoderemo per le feste, te lo assicura Lopez, il Capo-squadra. In fede di catalano purosangue, am-manzirò io quelle villanacce, le farò io divenire agnelle.

MICHELE: E perché tantʼodio vʼispira una gente che, onoratamente, vive a prezzo di continuo lavoro, stentato e penoso?

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GIORGIO: E me lo domandi? O bella! E sono più sicure le vie fuori il centro abitato? Sono più sicure le campagne, suonato lʼAngelus Domini della sera fino a quello del mattino e forse anche più tardi? Siamo, oggi o domani, più sicuri nella nostra stessa caserma? Bisogna esterminare, perciò, cotesta brutta razza di terrazzani: uomini, donne, vecchi, fanciulli. Spazzar tutti, sangue di una bottiglia. Gior-gio Lopez è uomo che quello che dice mantiene. Ha giurato che Monterone dovrà rimaner disabitata e lo vedrai. Così quella contrada sarà sicura. Le case diroccate, gli abituri abbattuti, i malandrini isolati, vietato ai terrazzani di andare in campagna coi ferri del mestiere o provvisione da bocca, pena la vita. Allora, quando tutto ciò si sarà eseguito, possiamo star tranquilli e Monterone e le sue campagne saran sicure

MICHELE: Vʼingannate, Capo-squadra Allora sareste bruciato vivo fin nella caserma. Voi non sapete come diventano più feroci i popoli, per quanto più cercate di opprimerli. Volete un animale più docile dellʼElefante? E pure questa mole gigantesca, — che lentamente, attraversa lande, deserti e pianure, portando pazientemente sul setoloso dorso eccessivi pesi fino ad una torre di legno; sulla proboscide a cavalcioni, per scherzo, lʼinsolente scimmettuola e vive, schiavo dellʼuomo, fino a 130 anni — fate che questa mole gigantesca, calma e intelligente, sia irritata, sia eccitata, sia scossa dalla sua calma, non vi sarà belva feroce più terribile di lei. Con quella sua tromba muscolosa che dicesi proboscide ove la scimmia scherzava, rovina e distrugge quanto gli si para davanti, eserciti di uomini, file di casolari e di annosi alberi, mandre di a-nimali, moltitudine di belve e fin leoni, tigri, pantere, colla sua proboscide abbatte, sbudella e schiaccia, portando intorno a sé lʼesterminio e la morte. Così è il popolo, mole ec-cessiva, ma schiava ed ubbidiente, quando si sa trattare; mole terribile e feroce quando sʼinsulta.

GIORGIO: No. lo non la penso così. Il popolo è come il cavallo, tu lo lasci senza morso e senza freno, libero e sciolto vagar nella foresta, diventa tosto un quadrupede selvaggio, un zebra, con calci, morsi e salti disperati, si libera da ogni freno, scanza ogni laccio e si rende indomabile e feroce. Tu, al contrario, questo cavallo lʼhai educato al freno, al morso ed alla briglia lo hai domato con lacci e con frustate, lo hai ridotto allo stato di domesticità e di subordinazione e lo tieni colla cavezza al capo e coi ferri alle zampe, questo cavallo sarà docile e mansueto, lo cavalcherai con sicurezza ed esso ti servirà e si farà ammazzare per te senza ricalcitrare.

Un popolano che gioca: Ho fatto scopa.

Un altro popolano: E ̓stata lʼultima carta.

Il primo popolano: Il canchero che ti afferra.

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Il secondo popolano: II diavolo che ti porta. ( gitta le carte in faccia al compagno, questi lo afferra, gli altri giuocatori si frammettono )

GIORGIO: Ma la finite, bricconi? Andate là, malnati, se non volete che vi accomodi le ossa. ( mette mano alla sciabola; i giuocatori, contrastando sempre fuggono. Parimenti il venditore di cocomeri e lʼaltro di zucchero e torrone vanno via coi loro arnesi e tavole. I lumi si smorzano)

SCENA SECONDAGiorgio e Michele

MICHELE: Ma, Capo-squadra, un poco più di pazienza. Se conoscete che tutto il popolo ci odia, per-ché volete accrescere il malcontento?

GIORGIO: E chi è questa canaglia che chiami popolo? Un branco di cenciosi, una meschinissima ac-cozzaglia di straccioni nati per la forca e per le legnate, per le sciabolate e per il piombo. Sangue dʼuna bottiglia, noi dobbiamo rispettare e servire i messeri, i patrizi; di patrizi e messeri ne ha ben pochi la terra di Forio. Con costoro, che sono i cittadini, siamo in buona armonia, essi sapranno proteggerci presso il Castellano ed il Governatore, perché ci prestiamo ciecamente ad ogni loro comando e sap-piamo non vedere e non sentire tutti i loro soprusi, angarie, violenze e fin i loro assassinii.

MICHELE: E credete che lʼindignazione dei braccianti e dei miserabili non ci possa pregiudicare un giorno? Così pur fosse! Per esempio, lʼuccisione di quel contadino di ieri al giorno, senza una ragione ammazzato, non supponete che possa attirarci sulle spalle qualche vendetta?

GIORGIO: Quello era una spia, un matricolato briccone. Così ho riferito al Castellano, anzi, vi ho ag-giunto che questo birbante era lì appostato per far fuoco su di noi e che la comitiva dei banditi attendeva il segnale di costui per fare una scarica e trucidarci tutti. Che la nostra salvezza la dobbiamo alla nostra preveggenza. Ho scritto ancora che venissi autorizzato a carcerare tutti i parenti dellʼucciso, perché sono tutti malandrini, uomini e femmine, in strette relazioni di parentela coi banditi e manutengoli di costoro. Così, arrestati i parenti del morto, gettati a marcire parte nel fosso del Torrione, parte nelle seg-rete micidiali del Castello dʼIschia, tutti moriranno di stenti e di privazioni in poco tempo, e noi saremo sicuri e più temuti da cotesti terrazzani.

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MICHELE: Ma tutto questo è una menzogna che potrà scoprirsi. Se si riesce a sapere che lʼucciso era sordomuto, non si potrà credere che fosse stata una spia.

GIORGIO: Fingeva il sordo e il muto, il mariuolo, per allontanare da lui ogni sospetto. Quella stupidag-gine che voleva far credere era tutta malizia. Abbiamo già pronti testimoni, procuratici dai Messeri di qui, che lo attesteranno in caso di bisogno. Parimenti era una spia quella femminuccia che ci precedeva ieri al giorno, quando salivamo a Monterone. Tu la volesti proteggere, credendo che in tal modo te lʼavresti potuto far amica. Ma, caro Gri-gioni, ho saputo che quella squaldrina è sorella al capo-banda dei banditi ed è un osso troppo duro pei denti dʼun armigero. Solo il ratto e la violenza potrebbero giovare; ma, rapire e violare, un armigero non può. Queste specie di conquiste sono riserbate ai patrizi. Costoro non ci perdonerebbero se invadessimo le loro prerogative, per cui, caro Grigioni, era tempo perduto usare con quella fanciulla mezzi cavaliereschi; era meglio se, più lesto di quello stupido di Sangez, gli avresti dato tu un bacio.

MICHELE: (offeso) Ma, capo-squadra...

GIORGIO: Che capo-squadra e capo-squadra. Sono stato giovane prima di te. Sono soldato da 30 anni. Sono vecchio nel mestiere. Fiuto la selvaggina a due leghe di distanza. Ho fatto anchʼio delle strava-ganze quando militavo nelle bande di ventura. So come queste cose vanno. Perciò non ti ho posto agli arresti, né ho fatto rapporto per quel tuo tratto dʼinsubordinazione. Senza permessoti hai lasciati per via, poco dopo il fatto della fanciulla, ritornando in caserma più tardi di noi.

MICHELE: Chiamate, dunque, insubordinazione alla disciplina evitare uno scandalo, frenare un abuso ed un delitto? L̓ aver compito un atto di divozione, che sempre mi avete permesso di praticare anche senza domandarvelo, cioè quello di lasciar per poco la squadra ed entrare a pregare per un momento nella chiesa di S. Lucia, credete che sia stata altra mancanza? Era la vigilia della Madonna che sale al Cielo, ogni cristiano alza una preghiera alla consolatrice degli afflitti in quel giorno chʼè il giorno della di lei morte, la vigilia del di lei risorgimento e del di lei trionfo. Ritornai più tardi di voi in caserma, perché di voi andai in cerca senza potervi incontrare e senza poter supporre che avreste preso la via delle colline e, correndo come dàini per timore di essere inseguiti dai parenti dellʼucciso, foste venuti per sentieri impraticabili a ricoverarvi nella vostra angusta cittadella, (con ironia ).

GIORGIO: Giovinotto mio, la tua è una scusa. Tu non hai pregato né hai visto ieri la chiesa. Ma se anche fosse stato ciò, dopo lʼalterco colla villanella non dovevi allontanarti, perché non potevi prevede-

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re quello che sarebbe accaduto dopo quel fatto. Fu dettato da prudenza il non ritornare per la via prima da noi battuta, (beve) Sappi, Grigioni, che il soldato non ha volontà, è una macchina. Si muove quando chi lo comanda dice “marcia”; si ferma quando gli si dice “alt”... Spara quando gli si comanda “fuoco”. La sua volontà sta in chi comanda, la sua religione, la divozione sua, il suo affetto, la sua passione è il fucile. Questa è la disciplina. Se il superiore gli dice: ammazza tuo padre, brucia la casa ove sei nato, metti i ferri al tuo fratello, il soldato, venduto ad un potente assoluto, deve ammazzare, bruciare, incatenare, senza osservazione. Ecco la nostra disciplina. Non siamo noi carne venduta? Non siamo al servizio di un monarca potente e assoluto? Non è questa lʼistruzione che abbiamo? Bisogna eseguirla. ( torna a bere )

MICHELE: E bevete ancora?

GIORGIO: ( che comincia a divenir brillo ) Corpo di una palla e quando ho bevuto io? E ̓festa! Non ho bevuto per lʼintera giornata perché ho perlustrato il paese girando di qua e di là. Bisogna che questa sera facessi il mio rancio a vino... vino, per Dio... ( si sente una rissa nelle scene )

MICHELE: Che sarà successo?

GIORGIO: Sangue di un toro castigliano, nemmeno ora vogliono farmi rimaner tranquillo ( si alza e sguaina la sciabola ) accanto alla mia prediletta bottiglia. Voglio sparger sangue più del... del... vino che... mi ho bevuto in un anno. ( via )

SCENA TERZAMichele solo

MICHELE: ( dopo aver guardato sulla scena ove è entrato Giorgio ) Sono i miei compagni che, ub-briachi, altercano fra loro. Non ini prenderò la pena di andarli a calmare, è meglio che si ammazzino, (si mette a passeggiare ) Così mi libererò dalla vergogna di stare in mezzo ad essi. Ora che mi ho fitto in testa di essere tramutato da questo posto, mi conviene che domani andassi dal Governatore e gli chiedessi il mio tramutamento. Se nulla ne ricaverò col Governatore, farò una supplica al Castellano e gli esporrò i motivi. Andrò a fare il mio penoso mestiere in altro punto e, possa essere la più disperata stazione, io lʼaccetterò. Almeno lì spero di non incontrare incolti e rozzi terrazzani che mi danno lezioni da farmi arrossire, come mi toccò sopportare ieri al giorno in quella casa ove mʼimbattei col capo ban-dito, Mattia, il guardiano de ̓lepri del marchese del Vasto. ( siede riconcentrato )

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SCENA QUARTA Giovanni ( travestito da marinaio ) e detto

GIOVANNI: ( uscendo dallʼosteria ) Ho eseguito le istruzioni datemi da Caterina. Dieci armigeri sono già ubbriachi fracidi... li ho fatto bere mezzo barile di vino salato. Pasquale lʼoste, mio amico, mi ha ser-vito bene; i miei compagni mi hanno assecondato a meraviglia. Ma eccone un altro. (guarda a Michele) Tastiamolo. Buona sera, caporale.

MICHELE: Buona sera, marinaio.

GIOVANNI: Ehi, Pasquale, ( da fuori parlando nella scena ) una carafa di San Giuliano a Montecorvo, ma che sia buono. Perdonate, caporale, se vi disturbo.

MICHELE: Niente affatto. Accomodatevi, bevete a vostro piacere.

GIOVANNI: Voi non mi farete lʼonore di bere anche un bicchiere?

MICHELE: Vi ringrazio. Ho bevuto... Ora penso ai miei guai.

GIOVANNI: Che! Avete guai? Mandateli alla malora. Oggi è festa, non si pensa a guai; i guai bisogna serbarli per domani. Beverete un bicchiere con me, fra soldati e marinai, vivadio, vi è sempre della sim-patia. ( esce un garzone dellʼoste con una carafa ed un bicchiere ) Posa qui. ( fa mettere la carafa ed il bicchiere sul tavolino ove è seduto Michele ) Porta un altro bicchiere. ( esce di nuovo col bicchiere )

MICHELE: Per me.... vi ringrazio; non ne ho più voglia.

GIOVANNI: Che voglia e voglia. ( con familiarità marinaresca si siede allʼaltro lato del tavolino ) Non è festa quando non si mangia bene e non si beve meglio. Che ne vediamo di questo mondo? Un poco di spasso ed un bicchiere di vino e poi lavorare, chi con la zappa e chi col remo, da mattina a sera, e, per noi altri marinai, anche da sera alla mattina, digiuni e ignudi.

MICHELE: Tutto questo è vero!

GIOVANNI: ( mettendo il vino nei bicchieri ) Dunque, a noi. ( da un bicchiere pieno a Michele e lʼaltro

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lo prende lui ) Alla nostra salute.

MICHELE: Per non dispiacervi, assaggerò. ( prende il bicchiere per bere )

GIOVANNI: Aspettate... bere senza metter prima qualche cibo sullo stomaco ci potrebbe far male, bisogna ordinare qualche piccola cosa.

MICHELE: ( ripone il bicchiere sulla tavola ) E ̓troppo questo! Andrò io a far portare qualche cosetta da mangiare. Spetta a me questo. ( entra )

GIOVANNI: Ecco quello che aspettavo per salarti il vino. ( prende dalla saccoccia un pizzico di sale e lo pone nel bicchiere di Michele. Michele ritorna, seguito da un garzone dellʼosteria con un piatto di frutti di mare che pone sul tavolo e va via ). Frutti di mare! Su questi il vino è indicato. ( si prende un frutto e se lo mangia: lo stesso fa Michele forzatamente )

MICHELE: L̓ oste mi ha detto che non aveva altro, che tutto era terminato.

GIOVANNI: ( bevendo ) Alla nostra salute.

MICHELE: Alla vostra consolazione. ( beve un poco e ripone il bicchiere sulla tavola )

GIOVANNI: E così poco?

MICHELE: Ho accettato le vostre cortesie. ( mostra che il vino lo ha disgustato ).

GIOVANNI: ( se ne accorge e finge anche lui ) Mi sembra che questo vino abbia un sapore amaro.

MICHELE: A me pure sembra così. Credo che dipenda dal frutto di mare mangiato ovvero dal mio palato, perché or ora ho finito di fumare.

GIOVANNI: ( sollecitamente getta a terra il vino rimasto da Michele nel suo bicchiere e dice ) Allora chiameremo unʼaltra carafa.

MICHELE: Non serve per me, vi ringrazio. Vi ripeto che questa sera non ho affatto desiderio di bere. E

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poi il tempo sembra che si voglia guastare, veggo apparir delle nubi per lʼaria, comincia a spirar vento; non possiamo trattenerci molto, qui fuori.

ʻGIOVANNI: Non è tempo di acqua. Il vento di qui a poco si calmerà. Avrà fatto a qualche parte una di quelle, così dette da noi “tropee”, solite a vedersi di questa stagione. E poi non è ora di ritirarvi. Possiamo, bevendo, raccontare un poco, voi, le vostre prodezze, io i miei viaggi, e così consumare questʼaltro poco di vino che rimane nella carafa. ( mesce il vino nei bicchieri ).

MICHELE: ( Prende il bicchiere e ne beve un poco; così parimenti pratica Giovanni. Michele, deposto il bicchiere sulla tavola, dice ) Ora mi sembra buono.

GIOVANNI: Mi era uscito di mente di farlo cambiare. Ma anchʼio ho visto che ora aveva altro sapore. Forse i bicchieri non erano stati ben puliti. In essi, prima del nostro, si avea dovuto versare vino di-fettoso, e che ora, lavati col nostro vino, è svanito il difetto. Questi osti, quando è festa, servono male, bestemmiano peggio e lucrano benissimo.

MICHELE. Non è sempre... Vedete, marinaio; domani venite voi alla cantina? Ci viene il villano? Certo che no.

GIOVANNI: II contadino ed il villano domani pensano a rubare per coteste campagne. Fare unʼora di lavoro ad un padrone e farsela pagare per una giornata. Succhiare il sangue dei generosi Messeri per u-na settimana e poi venire, la domenica, a consumare tutto il denaro, male esatto, qui, a bere ed a giuocare alle carte. Questa razza di terrazzani è cattiva, precisamente quella di Monterone... Beviamo. ( beve )

MICHELE: (soprapensieri, accosta il bicchiere al labbro e beve un poco ) Anche voi vivete nella sup-posizione che i monteronesi siano gente trista,.

GIOVANNI: Tristissima. Le bricconate che fanno costoro non hanno riscontro in altra parte dellʼIsola. Avete inteso parlare della briga fra quei di Casa Castaidi e di Casa Morgera e le tristi conseguenze dì essa?

MICHELE: No. Quella del guardiano dei lepri, so in parte.

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GIOVANNI: Sentite prima lʼaltra e poi vi racconterò ciò che non sapete della storia del guardiano dei lepri.

MICHELE: Vi ascolto.

GIOVANNI: Pochi anni or sono, uno di Casa Castaldi, anche monteronese, convalescente da lunga malattia, andava a diporto un giorno per la strada marina ovʼè la vostra caserma. Sʼincontra con altro popolano di Casa Morgera, vengono a contesa fra loro e questi percuote quello che, ancora infermo, poteva avere la lingua lunga, ma le forze corte. Ritiratosi in casa, lʼoffeso, sia a causa del sofferto maltrattamento, sia del dispetto, sia perché non era sano di salute, fu colpito da una sincope e morì poco dopo. Saputa, i fratelli Castaldi, la briga avvenuta ed a quella la morte del loro germano, de-cisero punire, nella notte stessa, lʼautore dei maltrattamenti fatti al morto; quindi, mentre il cadavere stava ancora sul cataletto, corsero ad incendiare la casa del Morgera, ammazzarono due persone della famiglia e poi si diedero in campagna. Un giorno la squadra degli armigeri, saputo che i banditi di Casa Castaldi erano nascosti presso un loro parente, corse a quella volta nel vico del Carrubo, a Monterone, per sorprenderli nel loro nascondiglio. Comandava la brigata un tal Biagio. Il volgo lo chiamava Capurà Biase. Questi, avendo fatto inutile diligenza nella casa e visto un vano che dava sul giardino, cacciò il capo per osservare se laggiù vi fossero persone appiattate, ma quei malandrini non diedero il tempo a quel povero caporale di fare scoverta alcuna, poiché partì un colpo a palla da una pianta di agrume, ove erasi nascosto uno di quei fuggiaschi, ed il proiettile fracassò una mascella al caporale. A questo nuovo attentato, gli astanti senza smarrirsi, ma soddisfatti dalla bravura mostrata da uno dei loro amici o parenti, non si diedero alcun pensiero del povero caporale, anzi, vi fu uno di cotesti monteronesi che, volendo aggiungere allʼoffesa lo scherno, voltosi al povero caporale che, pesto, insanguinato, con una mascella fracassata, non poteva neppure sfogare la rabbia in bestemmie, come solea per abitudine fare, glʼimprovviso il seguente rozzo sarcasmo: Caporà Bià, ammocchete ste tregghie Mo che nderre so gghiute le gangagghie.

MICHELE ( si mette a ridere nel ciò sentire ) E che ne avvenne poi?

GIOVANNI Che ne avvenne? Che gli armigeri, offesi, delusi ed anche derisi, si dovettero ritirare colla coda fra le gambe, perché i Castaldi avevano preso le alture, appena tirato il colpo, approfittando del momento. E oggi costoro formano parte della comitiva di Mattia, il guarda lepri, che ammazzava un povero padre dì famiglia perché, spinto dalla fame, gli aveva ucciso una lepre nel bosco privilegiato del Marchese del Vasto, nostro Castellano. ( beve ed invita Michele a bere che poco sempre ne tracanna).

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MICHELE: Ma lo aveva prevenuto e pure disubbidì per la seconda volta il cacciatore di contrab-bando.

GIOVANNI: ( sotto voce ) L̓ amico sarà quello che ha parlato ieri al giorno con Mattia in casa di Cate-rina. ( a voce alta) Ma sentite appresso. I parenti dellʼucciso giurarono pigliar vendetta sullʼuccisore, ed una mattina di domenica si erano preparati per e-seguirla. Mattia, che non dormiva, sʼapposta coi suoi aderenti in un punto che forma gola al pendio di Piellero, verso la Pannocchia, per dove dovevano passare i parenti dellʼucciso, onde andare ad assalire Mattia nel suo ricovero, posto al disopra di detta gola di pendio. Appena che sono al varco i voluti assalitori, tosto vengono assaliti da Mattia e dai suoi compagni, appiattati nel sovrapposto poggio selvoso, e sono astretti a gettare le armi e chi resiste è disarmato dal guarda-lepre, e poi obbligati a tornarsi indietro disarmati e mortificati. Non contento di questa prima bravura, questo birbone di guarda-lepri escogita unʼaltra sua prodezza: fa in pezzi minutissimi le armi tolte; di tutti questi pezzi ne fa un mucchio sul luogo stesso e quel cane, volendo insultare ancora i nemici disarmati, li manda ad invitare a venirsi a scegliere ognuno il suo fucile perché stavano tuttavia dove li avevano rimasti e consegnati.

MICHELE: Da questo racconto risulta che il guardiano dei lepri è di unʼintrepidezza che trascende allʼaudacia. Ma ditemi un poco, marinaio.... I parenti dellʼucciso contrabbandiere, che volevano ven-dicarlo, erano anchʼessi monteronesi?

GIOVANNI: No. Erano di basso, abitavano in paese; era gente più docile.

MICHELE: E perciò ne approfittò il guarda-lepre.

GIOVANNI: Ma non è tutto. La giustizia, non potendo aver costui nelle mani, gli confiscò il vino che teneva riposto nel suo cellaio al Monte. Mattia lo sa, la notte sfonda i fusti e ne fa uscire tutto il vino, il quale, scendendo in rivoli e ricagnoli per quei scoscesi sentieri, andò a portar la nuova ai giustizieri e trafficanti chʼera inutile dʼincomodarsi. Questi sono i monteronesi.

MICHELE: Ma tutti non sono così.

GIOVANNI: Tutti. Ma beviamo questʼaltro vino che ci è rimasto, (bevono) Voglio farne venire un altro poco. ( entra nellʼosteria )

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SCENA QUINTAMichele e Lucia

Lucia, avvolta in un grande fazzoletto che le covre la metà del volto, esce, tutta guardinga e sospet-tosa, dalla scena opposta a quella ove entra Giovanni. La stessa ode le ultime parole del fratello e

lo vede entrare nellʼosteria. Scorge Michele, seduto colle spalle a lei, tutto pensieroso, che guarda in platea ed ha un bicchiere con del vino dentro sul tavolo. Riflette un istante, ma colpita da un senti-mento di compassione e gratitudine, attraversa la scena sollecitamente senza far rumore, arrivata alle spalle di Michele, gli dice alle orecchie le seguenti parole ed entra sollecitamente nella scena

opposta a quella da cui è uscita.

LUCIA: ( piano a Michele) Non bere più! ( si nasconde nella scena)

MICHELE: ( si scuote, volta gli occhi dalla parte opposta ove si è nascosta Lucia, indi guarda per la scena, si alza, da alcuni passi, non scovre alcuno, maravigliato dice:) Mi sono ingannato o veramente ho inteso sussurrarmi allʼorecchio: Non bere più? Io mi sono subito voltato .... non ho visto persona. (si calma ) Quali funesti presentimenti, che non so spiegare, occupano il mio spirito da 24 ore! ( riconcen-trato nei suoi pensieri, entra nella scena dovʼera uscita Lucia).

SCENA SESTAGiovanni, chʼesce dallʼosteria con una bottiglia in mano, e poi Lucia.

GIOVANNI: ( dopo aver guardato per la scena ) E lʼarmigero? Se nʼè andato senza neppure aspetta-rmi... Il cane era molto sospettoso, come se avesse supposto che volevo farlo ubbriacare, non ha voluto bere. Ora questo vino non più mi serve. ( chiama nella scena ) Pasquale vieni a prenderti la bottiglia. (esce un garzone a cui la consegna ) Si è accorto, il mangia sego, che il primo vino era amaro. Dia-volo! Ho versato molto sale in quel bicchiere. Non ha voluto bere molto, quantunque avessi tirato così a lungo i miei racconti, che lo hanno interessato, e con questi mezzi, senza avvedersene, ha bevuto un poco. Ma era vino puro, perché dovevo beverlo anchʼio.

LUCIA: (a voce bassa) Giovanni!

GIOVANNI: Chi sei? ( Lucia si avvicina, egli la riconosce) Come, tu qui? A questʼora? Chi ti manda?

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LUCIA: Caterina.

GIOVANNI: A far che?

LUCIA: A dirti che ti sei esposto abbastanza; potresti essere denunziato per quel che veramente sei, arrestato dalla squadra ed allora tutto il di lei piano sarebbe svanito. La stessa mi ha fatto ravvolgere in questo fazzoletto, dicendomi che, atteso lʼimpetuoso vento che spira e qualche stilla dʼacqua che cade, sarebbe stato non marcato da chi, nella metà dʼAgosto, mi avrebbe vista come alla metà di Dicembre.

GIOVANNI: Cara sorella, i Foriani dʼoggi sanno muovere le mani per una giusta causa, fare a scop-pettate a viso aperto, ma non sanno né de-nunziare e tradire i loro conterranei, né essere le spie dei nostri oppressori. Sono i vili che si nascondono, si appostano e per una mercede, una promessa, per unʼinsinuazione di altri più vili di essi, attentano alla vita, alla riputazione, alla stima di un loro com-paesano; sono i miserabili, dispregevoli, vigliacchi che esercitano lʼinfame mestiere di denuncianti e di spie. I Foriani non sono, oggi, tali, sanno conservare il segreto, difendere e proteggere il compaesano. Ma possiamo andarcene, non vi è più necessità che io qui restassi. Andiamo.

LUCIA: Andiamo, perché mi pare mille anni che non entri in casa. Vito ci aspetta, poco da qui discosto. ( via)

SCENA SETTIMAGiorgio esce ubbriaco dallʼosteria, va barcollando sulla scena; Michele ritorna dalla parte opposta

da cui Lucia e Giovanni sono entrati.

GIORGIO: Cor r r po di una bom...ba. Sangue..... dʼuna granata. Io vado a dividere la briga.... e quella marmotta di Grigrigioni non mi segue. E mi espone a fronte di dieci cani ... dannati ... ubbriachi fracidi, divenuti dieci le...oni. ( chiama ) Grrrrigioni, Grrriiii-gioni.

MICHELE: ( esce, lo vede, si ferma e dice ) E questi è tornato qui? E questʼaltro ubbriaco ci mancava! Io ero venuto a salutare il marinaio, perché, sotto il fascino della voce misteriosa, mʼero allontanato senza attenderlo che fosse uscito dallʼosteria per ringraziarlo ed invece del marinaio trovo questo brutto arnese. ( mentre Michele sta per entrare nella scena per ritirarsi, Giorgio lo vede e lo ferma )

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GIORGIO: Oh! sei qui.... Carogna di svizzero che mʼhai lasciato solo allʼattacco. Ora ti... voglio sbudellare ( sguaina la sciabola) In... guardia. Io.... andato sedare rissa, tu....rimasto qui. In guardia.

MICHELE: Vedi il diavolo come vi si è ficcato di corna, stasera! Andiamo a ritirarci. ( lo scansa )

GIORGIO: ( gira di squadrone la sciabola e, barcollando sul teatro, tira colpi per lʼaria, sui tavolini, sul piatto rimasto e bicchiere; chiude il passo a Michele che vorrebbe schivarlo ). In guardia o ti.... am-mazzo. ( si avventa contro Michele. Michele lesto prende una sedia e di quella si fa scudo per non esser ferito, ma lʼaltro più tenace vuole inveire. Perduta la pazienza, Michele gli getta la sedia fra le gambe. Giorgio traballa e cade sulla sedia ) Cane di svizzero, do....mani ti farò fucilare.

Fine ATTO TERZO

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ATTO QUARTOLa scena rappresenta una strada col mare a vista. Notte oscura

SCENA PRIMALampi, seguiti ad intervallo da tuoni lontani, appelesano un uragano che si approssima. Traversano

la scena contadini, chi portando fascine, chi sbarre, chi scale, chi pali di ferro e armi lunghe da fuoco, uscendo dal lato destro dei spettatori ed entrano nella scena a sinistra.

Caterina, Lucia, Mattia, Giovanni e Vito con un paniere. Ognuno dʼessi uomini è armato,chi di schioppo, chi porta legna, chi altro.

CATERINA: ( Dopo aver guardato intorno si ferma ed incomincia ) Notte propizia alla vendetta ed alla morte, io ti saluto! Quanto solenne è questo momento in cui la disperazione, la più legittima, arma il braccio di una famiglia di derelitti e, tra i fulmini e la tempesta, le dice: uccidete, uccidete... son vostri carnefici... sono stranieri.

MATTIA: E questa famiglia ubbidirà e getterà in faccia alla prepotenza il guanto di sfida, della lotta la più disperata, se la storia un giorno non la dimenticherà.

GIOVANNI: L̓ oblio della storia è la morte dei popoli, caro Mattia; così mi ricordo di aver letto in un libro.

VITO: Lasciamo i libri e veniamo ai fatti. ( si sente uno scroscio di tuoni ) Non sentite il tamburo o la tromba del diavolo, quale volete che sia, la quale ci chiama allʼattacco?

CATERINA: Mattia, i tuoi son tutti arrivati?

MATTIA: Essi sono alle vicinanze della caserma, lʼhan circondata; attendono gli ordini.

CATERINA: ( a Mattia ) Va, osserva se è tutto pronto, se ognuno conserva il suo posto, se hanno sco-verto nulla, se vi sono novità, lo qui attendo colla febbre dellʼimpazienza. ( va a sedere ad un pogge tto ).

MATTIA: Vado e torno subito. ( via )

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SCENA SECONDACaterina, Giovanni, Lucia e Vito

CATERINA: Dunque, Giovanni, hai osservato stasera, tutto con attenzione?

GIOVANNI: Tutto. La caserma, come sai, è isolata. Dalla parte esterna è bagnata dal mare, sul quale sporge il terrazzo coverto da una tettoia di rami di mirto, seccati dal sole. L̓ unica porta della caserma, composta di una sola stanza ben grande, porge su questa spiaggia. La indicata porta si può abbarrare dalla parte esterna, chiusa comʼè, perché in essa ho visto delle anella di ferro ove sʼintromette il cat-enaccio, quando si chiude da fuori.Ho portate delle funi nuove di canape, queste ripasserò e ripasserò negli anelli, indi legherò una forte sbarra di castagno, che tiene pronta Bartolomeo lì accosto, con quelle funi, la barra sarà posta a traverso la porta, ben stretta e fermata, così da dentro, qualunque sforzo faces-sero, non potrebbero, quei dannati, aprirsi uno scampo.

CATERINA! E sul lastrico, vi è ancora, come una volta, la cappa del camino?

GIOVANNI: Sì. E ̓coverta da un pezzo di lapillo battuto, facile ad esser rimosso con un colpo di palo di ferro. Il lastrico si può facilmente scalare. Sarà unʼoperazione che farò io e Vito.

VITO: Eccomi pronto a tutto quello che volete, purché mi facciate capire qualche cosa.

CATERINA: Sul lastrico lavoreremo Lucia ed io. Voi sarete destinati altrove. Ora vi comunicherò il mio piano. ( si alza) Lasciate che ritorni Mattia.

SCENA TERZA

Mattia e detti

MATTIA Tutto è allʼordine. Ognuno attende con impazienza che si dia il segnale, perché il tempo stringe.

VITO: Segnale! Di che?

MATTIA: Di far fuoco, incenerire, diroccare la caserma, sfondare lʼuscio, assalire.... che so io cosa

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dobbiamo fare? Siamo qua, ma non so ancora a far che. (un po ̓risentito )

CATERINA Ora vi comunicherò il mio piano. Ascoltatemi bene. ( fa un lampo da abbagliare, seguito subito dallo scroscio terribile di lina saetta. Caterina rimane un istante sconcertata, poi si ripiglia e, in modo decisivo e convulso, loro dice: ) Mattia, piazzerai i tuoi dipendenti a guardia della porta di via della caserma^ porta che Giovanni avrà cura di abbarrare. Questa porta non potrà essere atterrata. Se per caso venisse abbattuta, essi, prima colle armi bianche e poi coi fucili, ammazzeranno tutti coloro che varcheranno quella soglia senza risparmiarne alcuno. ( Lucia, mentre sente tale ordine, tacitamente sospira in segno di compassione ).

GIOVANNI: Non usciranno. Sono tutti ubbriachi. Uno solo sarà meno degli altri avvinazzato, ma nep-pure ci sfuggirà. ( Lucia impallidisce ).

LUCIA: ( in disparte ) Povero disgraziato! Ieri mi difese e questa notte non posso salvarlo.

VITO: ( a Lucia ) Che borbotti sola? ( in sospetto di lei )

LUCIA: Dico se a me spetterà qualcuno ad ammazzare..CATERINA Tutti. Perché a noi donne spetta adempiere la giustizia, perché tu fosti ieri direttamente offesa, io ebbi, poco dopo, ucciso un fratello... Noi due scaleremo la caserma, monteremo sul lastrico; da lì, getteremo la morte, la distruzione nellʼinterno, in mezzo a quei mostri dellʼumanità, a quei carn-efici. Mi segui, Lucia. Prendi da Vito il paniere ovʼè la polvere ed il solfo. ( Lucia esegue) Io un fascio di legna. ( lo prende ) Tutti al nostro posto... Tu, Vito, resterai di guardia a questo sbocco, ci preverrai di qualche novità se la scorgi. Un colpo di fucile sarà il segnale.

VITO: Come! Mi vuoi privare di una piccola soddisfazione con un certo ladro di fazzoletto. ( dice queste parole significatamente, guardando a Lucia, e questa, indispettita, gli volge le spalle e si allon-tana ).

CATERINA: Io soddisferò a tutti i desideri. ( un forte tuono ) Andiamo, dunque; il cielo ci seconda, la natura cʼincoraggia, lʼombra di mio fratello mʼeccita alla vendetta. Sarà per lui questo sacrificio di sangue il più gradito refrigerio che potea attendere da sua sorella. ( parte con un fascetto di legna sotto al braccio ed entra nella scena a sinistra dello spettatore ).

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GIOVANNI: L̓ immolazione di dodici sgherri del dispotismo feudale vicereale sarà la pompa funebre del muto di Casa DʼAmbra. ( segue Caterina )

MATTIA: Maledetti siano coloro che rendono gli uomini più feroci delle tigri, delle pantere, delle le-onesse, perché queste fiere rispettano la loro specie, non si sbranano tra di loro. ( via )

VITO: ( a Lucia che segue il fratello Mattia ) Anche tu te ne vai?

LUCIA: ( si volge indignata ) Vorresti che facessi io la guardia a te, buona lana?

VITO: ( fermato al punto opposto della scena ) Buona lana, io? Io che per te. Basta. ( si trattiene con rabbia )

LUCIA: Dunque, addio. ( sʼincammina; Vito la trattiene )

VITO: Senti: (a Lucia) io son deciso. Se la tempesta di questa notte la supereremo senza che cʼingoi lʼinferno, io ho giurato... o la tua mano o il tuo sangue. O per me o pel diavolo. ( incollerito)

LUCIA: ( con dispetto ) La mia mano, te lo ripeto, non è per te. Il mio sangue poi... è facile. Ti avviserò quando dovrò salassarmi. ( sʼincammina unʼaltra volta )

VITO: ( più concitato ) Mi burli? Va bene! Pensa a ritornar viva.

LUCIA: ( con ironia ) Pensa a mantenerti lontano quanto più puoi dal pericolo.

VITO: ( idem ) Ti raccomando lʼamico del fazzoletto, tiralo su sano e salvo.

LUCIA: ( offesa a questa parola, dice ) E non ti vergogni in questi momenti essere tanto ridicolo?

VITO: ( con rabbia repressa) Maledetta strega.

LUCIA: Pazzo geloso, (via di fretta )

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SCENA QUARTA Vito solo

VITO: ( dopo averla seguita cogli occhi ) E mʼingiuria appresso! Non ci è che dire, le femmine sono più terribili dei sbirri. Costoro si possono affogare in una bottiglia di vino, in un vortice di fumo; quelle neppure in un fiume dʼoro, in un torrente di amore si possono saziare. ( passeggia ) E, sempre assetate, ti tormentano ̂ ti flagellano, ti disonorano e ti fanno passare giorni disperati e se non altro colla gelosia. Ah! Maledetta gelosia! Questa è la piaga che mi consuma e mi rende importuno, lo so, me ne avveggo, ma che ci ho da fare se mamma mia mi ha fatto così? Io amo Lucia, siamo cresciuti assieme, lʼamore è cresciuto cogli anni ed è nato senza accorgermene, senza saperlo, come è nato lʼamore per mamma e pel babbo mio. Ella è una buona giovanetta, lo so, affezionata, timorata di Dio, caritatevole, accorta, coraggiosa, faticatrice, ma ha un difetto: è dispettosa e caparbia, quando la tormento colla gelosia. Questo forma la mia disperazione, la vorrei docile, perché io vado presto in furia, ma io mʼirrito e quella, invece, di calmarmi, mi da motivo ad irritarmi di più, perché sa che sono un amante eccezionale, che so parlare, ma non muovere le mani con lei, come fanno gli altri amanti e mariti.( guarda verso la scena ove sono entrati gli altri e si ferma ) Che veggo! Un lume sul tetto della caser-ma. Due ombre come due furie si aggirano lassù! ( fa un lampo seguito da tuono )Che veggo! Son Caterina e Lucia! Che fanno? Accendono delle frasche. Per far che? Le gettano nel camino, altra ancora! Ma lʼincendio comincia anche da fuori, dalla parte del terrazzo. A-vranno dato fuoco alla tettoia di fascine. Dunque, sʼincendia la caserma? Distruzione da ogni parte!

SCENA QUINTALoreto e detto

LORETO: (viene frettoloso, giunto sulla scena, si ferma attonito) Che veggo? Che inferno è quello?

VTTO: Loreto, giacché sei venuto, resta tu di guardia qui, che io corro là. {via)

LORETO: ( senza aver badato a Vito ) Ma chi sono, diavoli o uomini, quelli sul lastrico della caserma? Per lʼanima di mamma... due femmine! Caterina e Lucia certamente, tramutate in anime dannate fra i vortici di fumo e fiamme. Gettano non so che. Da qui non si distingue se al di fuori o dentro al camino.Ma che veggo!! Hanno rotto la cappa, le fiamme mi fanno osservar tutto, gettan per quella bocca fascine intere accese ed altre ancora. Vi scaricano un paniere, ora otturano la bocca del fumaiolo. O Dio, che spettacolo! Che grida strazianti giungono fin qua. Che tempesta in tutti gli elementi. Neppure

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lʼinferno potrà inventare si spietata carneficina. Il fuoco, il fumo, la distruzione, tutto è là.... E questo pensiero, questa esecuzione è di mia moglie? Essa è che da la morte a dodici cristiani? Che sarà per me? Son perduto! (si prostra in un canto e chiude il volto fra le mani )

SCENA SESTACaterina, Lucia e Loreto

La tempesta incalza. Caterina, coi capelli sciolti, il volto affumicato, scinta nelle vesti, agitando con-vulsa in una mano il fazzoletto insanguinato, apparisce sulla scena, seguita da Lucia.

CATERINA: ( a passi concitati si muove sulla scena e dice: ) Sangue di mio fratello, ( baciando il faz-zoletto ) ti ho vendicato. Là, ( additando alla caserma dalla quale le fiamme dellʼincendio rischiarano la scena ) là, i tuoi assassini vomitano disperati, fra tormenti dʼinferno, la loro anima maledetta.

LORETO: ( alla voce di Caterina si scuote e si alza ) Caterina, che hai fatto? E chi ti perdonerà di tanto eccidio?

CATERINA ( sorpresa, si volta, riconosce il marito e dice ) Tu qui! ( La stessa è presa da un riso con-vulsivo in modo che dimostra essersi alterata la sua ragione dallʼeccesso delle commozioni diverse, succedutesi nel di lei animo, prende il marito per un braccio, lo trascina in mezzo alla scena, lo fa guardare dalla parte o-ve si figura la caserma in fiamme e dice, con accento di pazzia:)Godi, dunque, tu pure di questa illuminazione che tinge color di sangue la spiaggia, il mare, i promon-tori e fin la volta del cielo, da cui, ritirate le stelle per paura, vi passeggia il fulmine e la tempesta, per assistere a questo dramma di sangue.

LORETO: Dramma! Altro che dramma! Carneficina, piuttosto.

LUCIA: Il povero uomo che mi salvò sarà morto anche lui! ( afflitta).

SCENA SETTIMAMattia, Vito e detti

MATTIA: L̓ opera è compita. La vendetta consumata. ( riconcentrato)

VITO: Sono tutti certamente abbrustoliti.

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CATERINA: Ma vi siete assicurati?

VITO: ( tende lʼorecchio ) Parmi sentir delle voci.

MATTIA: Rumori di passi accelerati. Si corre da questa parte.

CATERINA: Siamo traditi! ( caccia un pugnale dal seno, così fanno gli altri)

MATTIA: Fermati, cane.... ( trattiene una persona ed avventa il pugnale).

SCENA OTTAVAMichele Grigioni, Giovanni e detti

MICHELE: ( seguito da Giovanni, appare sulla scena, mezzo vestito, portando il solo pantalone, i capelli scomposti ) Salvatemi.....( sʼinginocchia )

CATERINA: Chi sei?

GIOVANNI: Uno sbirro scampato dalla morte.

CATERINA e VITO: Mori, assassino! ( si avventano su Michele coi loro pugnali. Michele fa un passo indietro, si alza e si mette in guardia coi pugni, perché inerme).

LUCIA: ( che ha riconosciuto Michele alla voce, getta un grido, si covre il volto con ambo le mani, corre fra le braccia di Loreto chʼè rimasto impietrito in un canto ) Ahi!

MATTIA: ( che del pari ha riconosciuto dalla voce Michele, alla vista dei pugnali allʼatteggiamento dellʼarmigero inerme, al grido della sorella, che gli conferma essere quegli Michele Grigionit si scuote e, gettandosi fra gli assalitori e la vittima, dice ) Fermatevi!... Non confondete rei con innocenti, ven-detta con assassinio. Questo infelice non è responsabile ( indica Michele ) della morte di Francesco.

VTTO: Come lo sai?

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MATTIA. Come dovresti saperlo anche tu che lo trovasti meco in casa di Caterina, poco dopo lʼuccisione di Francesco.

CATERINA: Questi in casa mia! ( con meraviglia ) Quando? Perché?

LUCIA: Per portarmi il fazzoletto che mi era caduto, allorché mi svincolai dal suo compagno, quando presi la fuga, fuga che costui mi consigliò, prendendo la mia difesa. ( con calore )

VITO: ( da parte ) E questo mariuolo neppure la morte lʼha voluto! E Lucia è sempre pronta ed ha la lingua lesta a prenderne la difesa. ( si allontana con dispetto )

MICHELE: ( con dignità ) Potete voi altri vendicarvi ancora di me. Quando, scampato dalla morte, corsi fin qui e mi prostrai per un atto di debolezza che detesto, pentito di averlo commesso. Allora io non supponevo chʼeravate voi e che la carneficina dei miei compagni era stata preparata da voi, gente feroce e vendicativa. Allora supposi che la pietà per una sventurata brigata, chiusa in una caserma in-cendiata, vi chiamava in aiuto delle vittime. Ora che vi ho conosciuto, che ho visto non esser voi ancora sazi di sangue*, vʼinvito a sfogarvi contro di me, inerme e mezzo asfissiato. Non faccia caso che Mattia e la sorella mi proclamassero innocente della morte del sordo-muto. La tigre, la iena, la leonessa nella loro strage distinguono forse se la vittima che sbranano sia proprio colui che loro involava i figli, loro piagava il compagno o un innocente passaggiero? Cosa siete voi in questa notte se non tigri, iene, le-onesse inferocite, avide di strage e di massacri? Io sono affranto per aver lottato unʼora quasi colla più spaventevole, colla più straziante morte, che ha colpito undici miei compagni. Se la sorte mi ha aperto un varco attraverso la porta che: menava sul terrazzo, la quale sʼincendiava anchʼessa, ed in mezzo alle fiamme, passando dal fumo asfissiante della caserma al fuoco dellʼincendio del terrazzo, da questo con un salto mi gettavo nelle sottoposte onde e fumo, fuoco, acque mi rispettareno. Se sfuggii alla vista dei vostri compagni e la riva mi accolse, se la terra mi aprì un varco e fece che uno di voi non mi avesse raggiunto prima di venire alla vostra presenza, tutto è accaduto onde la stessa mano, che ha spento i miei compagni, spegnesse ancora la mia misera esistenza. Ecco il petto coverto da scottature, trapas-satelo coi vostri pugnali. ( tutti restano colpiti e mutoli )

MATTIA: Non siamo noi le iene e le tigri che credi, perché non abbiamo mai dato morte a chi non la meritava, né la daremo a te, o Grigioni. Chi ci offre sangue, noi restituiamo sangue, chi ci offre difese, noi restituiremo altrettanto. Il beneficio non dimentichiamo mai e la gratitudine come la vendetta sono eterni in noi come Dio. Tu potevi denunziarmi, quando mi scovristi in casa di Caterina, e non lo facesti.

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Potevi afferrare Lucia per lʼaltro braccio e compiere lʼinsulto, te ne astenesti. Potevi incoraggiare il tuo compagno a colpirla col fucile, nellʼatto della fuga, e gli trattenesti il braccio. Queste buone azioni ti salvano. Non siamo noi i generosi?

CATERINA: Ma questo fazzoletto dovʼè? ( sempre commossa e convulsa )

MATTIA : Eccolo ! ( lo caccia da una sacca e lo da a Caterina ) Bastava di avertelo detto.

CATERINA: Non lʼho chiesto perché dubitavo. Ma per unirlo a questʼaltra reliquia. ( trae lʼaltro faz-zoletto ) Alla reliquia della vendetta e della morte deve essere congiunta quella della riconoscenza e della vita. ( Piega i due fazzoletti e se li mette in seno ).

VITO: ( di ritorno ) Si è allarmato il paese alla vista dellʼincendio, partiamo. Mentre altrimenti da qui a momenti non lo possiamo più.

CATERINA: Tu sei libero, o Grigioni. Ti hanno salvato le tue azioni. Ritorna fra i satelliti del dis-potismo, racconta loro che nella terra di Forio, la notte del 15 agosto 1723, una villana, abituata alla conocchia ed al fuso, ha mandato allʼinferno undici tuoi compagni, perché il giorno prima le avevano proditoriamente ammazzato un fratello. Dì che la pena ha seguito il delitto, come lo scroscio del tuono il guizzo del lampo. Dì che gli assassini hanno preceduto nella fossa lʼassassinato. Dì, infine, (con forza) che questa plebea, capace di tanto, si chiama Caterina DʼAmbra.

FINE DELL̓ ATTO QUARTO

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ATTO QUINTO

La scena rappresenta un vestibolo interno di una chiesa, aperto in fondo, in modo che si figuri esser quella la porta o lʼentrata del sacro luogo. Una tavola, poche sedie formano i mobili di questo recin-

to. Sono passati 12 anni, nellʼintermedio, dai quattro primi a questo quinto atto.

SCENA PRIMACaterina e Loreto

Caterina, nel veder entrare il marito, sospende di lavorare la calzetta.

LORETO: ( con un paniere sotto al braccio) Buon giorno, moglie mia. Ecco la provvista per la giornata. ( caccia dal paniere un pane, una bottiglia ed altri commestibili, che ripone sulla tavola ) Fa un freddo insopportabile.

CATERINA: Siamo a dicembre. Ieri ha nevicato. San Nicola sarà imbianchito come la barba del suo Eremita, Giuseppe dʼArgut.

LORETO: Ecco un altro Natale, cara Caterina, che si avvicina e che dovrai passare qui, sola, in questo carcere volontario, che soffri da dodici anni per quella maledetta risoluzione di volerti vendicare del-lʼuccisione di tuo fratello, col far morire, affogati dal fumo, undici armigeri del governo.

CATERINA: Risoluzione santa.... di cui non mi pento né ne soffro rimorso.

LORETO: Coloro che ti seguirono nella diabolica impresa sono tutti spariti. Mattia, Giovanni, gli altri parenti non ci sono più. Eccetto Vito e Lucia, che vennero per fortuna salvati e non compresi fra i col-pevoli perché creduti non partecipi, atteso la loro età giovanile e la mancanza di prove. Gli altri, chi è morto in un modo, chi emigrato senza sapersi dove. Caterina, io te lo diceva: Iddio è un padrone che non paga il sabato!

CATERINA: Lasciamo tali discorsi, poiché in questo argomento le nostre opinioni sono in perfetta op-posizione. Dimmi un poco: Lucia persiste ancora nella risoluzione di non voler sposare Vito, se prima non mi veda riacquistare la libertà?

LORETO: Ieri sera, Vito - che non mi ha lasciato più da dodici anni, dal giorno che ti chiudesti in que-

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sto sacro asilo per godere dellʼimmunità — mi diceva chʼè risoluta a non maritarsi se tu non esci da questa chiesa e ti ritiri in casa tua, senza timore di nuove persecuzioni. Perché, dice, se foste compagne nella colpa, bisogna che lo siate nelle privazioni.

CATERINA: Povera cugina! ( ridendo ) Quanto mi è affezionata! Ma il giorno della mia liberazione non verrà. Piuttosto, commettendo qualche altra imprudenza, come quella di anni sono, potrei essere catturata e punita severamente, ma la liberazione non è possibile.

LORETO: Chi avrebbe creduto che non avessi tu ottenuta la grazia, ora chʼè entrato un altro re... uno spagnuolo che risiede in Napoli, che tutto vede lui e, non come prima chʼeravamo soggetti ad un viceré dellʼAustria e tutto si doveva decidere a Vienna, secondo quel viceré rapportava.

CATERINA: Austriaco o spagnuolo è sempre lo stesso..... Stranieri gli uni, stranieri gli altri. Saziati i primi o disturbati mentre ci succhiavano il sangue, sono subentrati gli altri con maggior sete e fame, e siccome più sangue non ci troveranno nelle vene, ci decorticheranno la pelle.

LORETO: Non credo come tu dici e ti dirò il perché. Ieri, siccome era caduta molta neve e per le vie di campagna se nʼera alzato un pal-, mo e forse più, così non andiedi al Monte e me ne scesi alla piazza, per assistere, sotto il portone di Quattrocchi, al parlamento, dovendosi scegliere i deputati per lʼanno venturo ed il prosindaco; nominare lʼErario, i Rassieri, i Razionieri. I quaranta parlamentari aspetta-vano che fosse venuto il Governatore, il quale,, delegato dal Sopraintendente Capo-Ruota della Real Camera di S. Chiara, doveva presediere il parlamento. Dovendo a-spettare ed essendo andato il Sindaco a rilevare il detto Governatore in casa di Sì Giuseppe Cafiero, lʼorefice, il prosindaco con Erasmo Ca-staidi, Gioacchino Mendella, Notar Fabio Coppa e Rocco Iaconp si posero a parlare di questo nuovo re, delle bel-. � le cose che aveva promesse, delle buone leggi che già aveva principiato a fare, degli abusi che aveva cominciato a togliere. Che teneva con sé un ministro chiamato Ta... Ta....( ricordandosi) Tanucci, nato per quel mestiere. Notar Coppa assicurava che questo nuovo re, chiamato Carlo III, era giusto, e, se è giusto, non può non farti la grazia.

SCENA SECONDAVito, con premura, e detti

VITO: Caterina, perché tieni aperta la porta della chiesa?

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LORETO: Sciocco di me.... Nellʼentrare mi son dimenticato di chiuderla.

CATERINA E che timore potea esserci, stando aperta? Non sta sempre così la mattina quando si dice messa? Forse i monisteri, i conventi, le chiese e i loro recinti non godono più lʼimmunità, non sono più luoghi di asilo?

VITO: Non dico questo, ma perché potresti avere qualche sorpresa, vedendoti comparire avanti chi meno conosci. Per esempio, cʼè fuori un Eremita di San Nicola che desidera parlarti. E ̓stato in casa tua a chiedere di te. ( a Caterina ) Io gli ho fatto sentire che non ci eri. Mi ha domandato con premura: “ Sta lontana?,, Qui mi sono imbrogliato ed ho detto no. L̓ Eremita in ciò sentire ha mostrato interesse di parlarti e mi ha soggiunto che cose di sommo rilievo doveva comunicarti. Allora non ho saputo che rispondergli. Non lo credo una spia... ma non lo conosco. Sarà un Eremita venuto da poco.

LORETO: Forse il compagno di Fra dʼArgut, che scende ogni sabato.

VITO: Questi lo conosco. Come ancora lʼaltro eremita, fra Giorgio il Bavaro, che tutti tengono per santo e che, sei mesi fa, Caterina, ti fé la profezia che saresti liberata da questa prigione in breve tempo. Questi è un altro. Vuole parlarti perché dice che deve soddisfarti un debito, contratto dodici anni die-tro.

CATERINA: ( con meraviglia ) Un debito con me! da dodici anni? e per parte di chi?

VITO: Nel sentire debiti da soddisfare, mi sono precipitato qui, con lui appresso, che attende fuori la mia chiamata.

CATERINA: E fallo entrare.

VITO: Son lesto, (via)

CATERINA: Loreto, marito mio, tieni tu un poco di compagnia allʼErerriita, mentre io vado a mettere in luogo sicuro questa roba da mangiare! ( toglie vino, pane e quanto ci è sulla tavola, ripone tutto nel paniere. Via ).

LORETO: Ritorna subito.

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SCENA TERZAMichele Grigioni, con abito da eremita e lunga barba, Loreto e Vita, da parte che sente per curiosità.

MICHELE: Buon giorno, buon vecchio.

LORETO: Benvenuto, fratello. Accomodatevi un momento. ( gli offre una sedia ) Caterina, mia mo-glie, or ora uscirà. ( siedono Michele e Loreto )

MICHELE. Faccia a suo comodo. Teco sono ancora in buona compagnia e, giacché dobbiamo occupa-re questo poco di tempo, sarei desideroso di conoscere se vostra moglie ha avuto la costanza da dodici anni di non lasciare questa chiesa come suo sacro asilo, come volontaria prigione.

LORETO: Sì.... Una volta sola uscì, nellʼestà di sei anni dietro. Fra un dopo pranzo. Fila si tratteneva nella vicina bottega, posta a fianco di questa chiesa, quando vide comparire la squadra al capo via, credendosi perduta, non lo da a divedere e, affettando indifferenza, coglie lʼoccasione propizia di un bambino che scherzava sul cortile della chiesa medesima e sʼincamminava per entrarvi. Ella, filando e camminando colla massima indifferenza, si accosta pian piano verso il fanciullo che, sentendosi chiamar figlio da lei, che punto non gli era madre invece di avvicinatesi se ne allontana e sʼaccosta alla soglia della chiesa; la Caterina lo raggiunge, mentre la squadra era a poca distanza dal cortile e non si era accorta dello stratagemma, perché non la conoscea. Costei, arrivata alla chiesa, entra in men che ve lo dico, chiude la porta, da i tre tocchi alla campana e cade a terra svenuta. Uno di quegli armigeri, per dispetto e per rabbia di esser loro sfuggita la preda, che non potevano aver nelle mani, si diede tale morso ad un dito che ne distaccò un pezzo di carne.

MICHELE: E i tre tocchi alla campana che dinotavano?

VITO: ( da parte ) Vedi come è curioso Fra... come si chiama?

LORETO: Per avvisare i banditi che la brigata saliva onde essi si fossero andati a mettere al sicuro.

MICHELE. E sono ancora salvi? ( offre una presa di tabacco a Loreto che la prende e la sorbisce )

VITO: ( fra sé ) Scommetto che questo birbante, sotto lʼabito dʼeremita, nasconderà la pelle di spia; quel babbeo di Loreto dice tutto e non guarda neppure da questa parte che gli farei segno a starsi zitto.

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LORETO: Niuno è più salvo! ( con dispiacere ) Giovanni, fratello di Caterina, passò a Procida con altro cugino, al servizio di Don Cìovan Battista DʼAvalos, primogenito del principe di Troia, che tro-vavasi in quellʼisola esiliato per un mese, in pena di aver ammazzata per imprudenza una fanciulla del Vasto, mentre costei ritornava dalla fontana con una brocca dʼacqua in testa. Questo signore si spaccia-va per valente cacciatore, scommise con amici che avrebbe tirato alla brocca senza colpir la fanciulla, scherzi soliti a fare. Avvenne fatalmente il contrario, la colpì e I ammazzò. Per questo scherzo, con cui si manda una povera figlia allʼaltro mondo, fu punito il nobile signorino con un mese di divertimento in Procida, terra su cui casa DʼAvalos conserva signoria, e diritto di baglivo sullʼuniversità dʼIschia, qual signore di quellʼisola. Scorso il tempo della cosiddetta pena, il principe ritornò al Vasto, in casa di suo zio. Don Cesare DʼAvalos DʼAragona, che lo aveva nominato successore ne! privilegio del governo di questʼisola. Giovanni col cugino dovevano raggiungerlo colà, ma vennero ben presto a sapere che il principe o marchese, non so come si facea chiamare, appena arrivato nelle terre dello zio a Vasto, era stato avvelenato. Allora questi due disgraziati presero la solita via di Terracina. Partirono da qui sul gozzo dei Ciechi Guagliuni, marinai così chiamati, usi a questi traffici clandestini. Ma non ne avemmo più notizia.

SCENA QUARTACaterina e detti

CATERINA: Mi perdonate, fratello, se vi ho fatto aspettare. Quale ventura vi porta in questa casa di Dio, in cerca di una misera penitente, chiusa in carcere?

MICHELE: Or ora lo saprai. Rispondi, o donna, alle mie domande. Sei tu Caterina DʼAmbra, colei che, nella notte del 15 agosto 1723. provocò la distruzione di una squadra di armigeri, che era di stazione in questa terra?

CATERINA: ( che, a tale domanda, diviene cupa ) Son quella per lʼappunto.... E ne vado altera. Per-ché non la viltà mi guidava a dare un passo sì temerario, sì pericoloso, sì incerto e feroce, a cui altra soriana né prima né dopo di me, potrà vantare di essersi spinta, ma invece mi ci spingea un sentimento nobile, santo, quello dellʼamore fraterno. Frate, la Foriana è terribile sì nellʼamore come nellʼodio. Sa amare fino alla follia, sa odiare fino alla ferocia. Chi le rapisce il primo sarà irremisibilmente vittima del secondo.

MICHELE: Ascoltami, adunque. Tu in quella fatale, terribile risoluzione che riempì di stupore, di

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meraviglia, di orrore quanti ne videro, nel seguente giorno, il risultato, quanti ne intesero il raccon-to, quanti ne seppero la storia; in quella fatale circostanza fosti generosa un istante: la natura umana disarmò la ferina, la donna si sostituì alla iena. Tu, satolla di sangue e di vittime, risparmiasti un solo dal totale esterminio.

CATERINA: Non mi opposi che fosse salvo, poiché non fu ritenuto colpevole quanto gli altri e la for-tuna poi lo volle aiutare, non io.

MICHELE: E gli altri forse erano tutti degni di tanto martirio? Forse non era stato uno/il colpo che aveva ucciso tuo fratello? No, Caterina, nella tua inaudita ferocia fosti generosa. Questa generosità, lʼarmigero salvato dalla morte se la ricordò sempre, e in mezzo ai campi di battaglia, e nelle piazze di difesa, e fra le mura degli assediati, fra le trincee degli assedianti, e negli attacchi e nelle ritirate e nella caserma e sotto la tenda, da gregario fino a capitano, in tutti i gradi che percorse, per dodici anni, o Caterina, questo sgherro, come tu lo chiamavi, si ricordò del beneficio.

CATERINA: E che mʼimporta, o frate?

VITO: ( fra sé ) Vuoi vedere che quel cane non si ha ancora dimenticato Lucia e, dopo dodici anni, credendomi crepato, ha risoluto sposarla ed ha mandato questʼeremita a far da mezzano? Preti e frati, sapevo chʼerano valenti per tali negozi, pur gli eremiti poi, me ne accorgo oggi.

MICHELE: Ascolta il resto. Stretta alleanza fra Luigi XV di Francia con la Spagna e la Sardegna contro il nostro imperatore, Carlo VI dʼAustria, questi richiamava da Napoli i suoi soldati. L̓ esercito tedesco, comandato dal generale Trawn, ebbe uno scontro con le truppe di Don Carlo, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese fra San Germano e Presenzano. Una divisione tedesca piegò e si riconcentrò ʻparte a Gaeta te parte rinforzò la guarnigione di Capua, ma al figlio di Filippo V arrise la vittoria: i spagnuoli occuparono Bitonto, indi Capua, Gaeta e poi la SiciHa. I pochi superstiti delle trup-pe tedesche andarono dispersi. Militava fra costoro lʼarmigero sfuggito dallʼassassinio nella notte del 15 agosto, dodici anni dietro, il quale era giunto al grado di capitano. Questi si ritirò allora dalla vita mi-litare e, prima di abbandonare il mondo, chiese a Carlo di Spagna una grazia, e fu per te, o Caterina.

CATERINA: ( con sorpresa e meraviglia ) Per me!

MICHELE: Per te.

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LORETO: E lʼottenne? ( con premura )

MICHELE: ( con gravità ) L̓ ha ottenuta. Or sei libera, o Caterina. Puoi ritornare a casa, in mezzo alla tua famiglia.

LORETO: Ed è vero? ( con gioia ) Madonna di Loreto, ti ringrazio.

VITO: Ora posso sposare Lucia; corro ad avvertirla. ( via con allegrezza )

SCENA QUINTACaterina Michele e Loreto

CATERINA: ( rimasta muta in preda alla commozione, alla fine si scuote e dice: ) Frate, voi certa-mente non siete un miserabile impostore che venite ad ingannare una povera disgraziata con artifizi e lusinghe, macchinati fra la solitudine di un eremo, per indurre unʼinfelice a prestar credenza alle vostre parole, ritirarsi in casa sua affinchè possa essere catturata dalla forza, armata da un nuovo padrone, onde i sgherri spagnuoli facciano la prodezza che indarno tentarono, per dodici anni, i sgherri tedeschi.

MICHELE: (sorpreso) Che dici mai?

CATERINA: Sentitemi ancora. Voi non sarete un mentitore, sarete un messo dellʼarmigero salvato, egii vi avrà incaricato di una tale missione, lo voglio credere. Ma che Caterina DʼAmbra fosse divenuta tanto debole dʼintelletto, talmente affranta ed avvilita da dodici anni di patimenti, da perdere le rimem-branze del passato, neppure dovete supporlo. Essa non ha affievolito di un sol grado lʼodio tremendo contro una classe di uomini feroci. Essa non è ridotta tanto miserabile da stendere la mano ai suoi carnefici o a coloro che indossarono la divisa dei carnefici della sua famiglia e dir loro: “ Liberatemi dalla mia lunga prigionia ʻ. Io sento ancora la dignità di donna, vado ancor fiera del mio stato. Se le vostre parole sono veridiche, o Eremita, io rifiuto la grazia che mi procurò un armigero appartenente alla squadra di Forio del 15 agosto 1723.

LO RETO: ( stupefatto e sorpreso ) Come!

MICHELE: ( che rimane impassibile e colle braccia piegate mentre parla Caterina, con gravita le risponde ) Dunque, lʼodio è eterno nel tuo cuore, o donna? E questʼodio non può essere spento da un

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rimorso di dodici anni, da un mutamento di vita, da una trasformazione radicale, da un sacrificio di affetti?

CATERINA: ( risoluta ) Eremita, lʼarmigero che vi manda nunzio di pace, angelo di conforto, mes-sagggiero di grazia in una misera ed avvilita famiglia, ha visto gli effetti della vendetta del suo simile in una notte sola, e, in questa notte, in unʼora, non più. Svanito il pericolo, lʼha dimenticato gradatamente col tempo chʼè trascorso, si è solo ricordato che fu salvo e, in dodici anni, ha poco o niente meditato sul pericolo affrontato una volta, ma ha goduto il bene della vita, che tra commozioni ha trascorsa. Al contrario, questa donna che vi sta dʼinnanzi ha cominciato a trascinare la catena dei suoi patimenti da quella stessa notte, dopo quellʼora fatale, e lʼha trascinata per dodici anni, impavida e costante, senza lagnarsi e senza avvilirsi giammai. Ha sopportato il freddo, la fame, la sete, le privazioni e, più di questi tormenti fisici, quelli morali: il divorzio coi più dolci affetti di madre, di moglie, di sorella..... e questo non è tutto ancora. Ha sopportato i timori per sé, lʼansia pei suoi, le indefesse persecuzioni degli uomini, briachi di ferocia, chʼor le hanno ucciso un parente, latitante come lei, or esterminato il meschino podere del suo marito, or data la caccia alla famiglia, ai congiunti, a tutto il suo casato, il quale si è disperso, quasi distrutto, tanto che di quaranta chʼerano aella notte del Ì5 agosto 1723, oggi, 20 dicembre 1735, appena è rimasta questa donna, la quale, senza cacciare un lamento, non ha chiesto la compassione degli uomini ed in questo sacro asilo, protetta da Dio, ha trascinato i suoi giorni e qui intende rimanere, rifiutando la grazia.

SCENA SESTALucia, Vito e detti

LUCIA e VITO: ( entrano tutti allegri; nel sentire pronunziare le ultime parole di Caterina, che rifiuta la grazia, esclamano ) Che dici? Rifiuti la grazia?

CATERINA: Quando mi viene da chi detesto senza conoscerlo.

MICHELE: ( conservando il suo dignitoso carattere ) Se questʼuomo che non conosci, e mentre non conosci detesti, fosse un penitente?

CATERINA: Gran Dio, qual sospetto! Siete forse voi? (con premura)

MICHELE: ( con dignità ) Son io.......

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LORETO, LUCIA e VITO: ( con meraviglia ) Voi!!! ( sorpresa generale )

MICHELE: Io son quegli a cui salvasti la vita, o Caterina. Io stesso, adempiendo ad un sentimento di gratitudine, vengo ad annunziarti che il nuovo sovrano ti ha fatto grazia. ( caccia dal petto un plico e lo pone in seno a Caterina che, stando seduta, rimane colpita da tale altra inaspettata sorpresa ) Eccovi la copia autentica del decreto di grazia.

LUCIA: ( dopo averlo guardato bene ) Chi veggo? Michele de ̓Grigioni, colui che mi difese dalla squadra!

VITO: ( piano a Lucia ) L̓ amico del fazzoletto?

LUCIA: (forte) Sì.... Dio, ti ringrazio!

VITO: ( fra sé ) E dopo dodici anni costui mi perseguita ancora!

CATERINA: ( si scuote, fra sé ) A questa sorpresa non ero preparata. ( a Michele ) E voi da soldato diveniste eremita?

MICHELE: Questo fu il primo voto al quale ieri adempii là, sulla vetta dell ̓Epomeo, ove il mio fratello di nazione, di anni, di sventure, di pericoli e di risoluzione, Fra Giuseppe DʼArgut, mi ha chiamato. Oggi vengo a compiere il secondo e portarti, o Caterina, la grazia di tua acquistata libertà. Vedi che io non vengo alla tua presenza colla divisa della forza e del comando, ma con quella dellʼumiltà e dellʼub-bidienza. Non è lo sgherro che dice: “ Prendi”; è il penitente anacoreta, che giammai ti offese, che ti dice: “Accetta”. ( Caterina a tale discorso rimane commossa; Lucia, Loreto e Vito le si avvicinano )

VITO: Ma è pazzia a fare lʼostinata. Se la grazia esiste, non saprei come non si potesse accettare. Or vedrò io. ( prende il plico e lʼapre ) Ma, sciocco me! Mi avevo dimenticato che non so leggere. Ecco-telo a te, Loreto. ( lʼoffre a costui)

LORETO: E quando ho saputo leggere io?

LUCIA: Date a me. ( prende il plico ) Questʼuomo non sa mentire. Ora son contenta che lʼavvertii a non bere la sera della festa dellʼAssunta, dodici anni dietro, quando Giovanni, vestito da marinaio, lo

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tentava a bere per farlo ubbriacare.

VITO: ( con sorpresa ) Anche questo?

MICHELE: ( a Lucia ) Tu.... fosti quellʼombra che intesi e non vidi?

LUCIA: Sì.

MICHELE: E non sei tu Lucia, la sorella di Mattia il guarda-lepri?

LUCIA: Appunto.

MICHELE: Ed io ho pensato anche a te, o giovine virtuosa, perché fosti offesa dai miei compagni e ti scorsi onesta.

VITO: ( fra sé ) Forse le avrà trovato marito. Ma ora metto tutto io in chiaro. Lucia, or Caterina ha ottenuto la libertà, non ci sono più ostacoli al nostro matrimonio, non puoi più trovare scuse per a-dempirlo, se vuoi; se poi hai mutato pensiero, dillo una volta per sempre e finiamo questa storia, fatta bastantemente noiosa. Vuoi o non vuoi sposarmi?

LUCIA: E ne dubiti ancora? E dodici anni di costante prova, dʼaffetto sincero, puro, santo ^non sono stati sufficienti a dileguare i dubbi, a dileguare i sospetti, a dar bando alla gelosia? Dunque per te gli anni non arrecano alcun vantaggio, alcuna esperienza e, come pensavi da giovinetto, pensi tuttavia da giovane maturo?

CATERINA: ( scossa dalla sua meditazione ) Fra Michele deʼ̓ Grigioni, il patimento è allʼuomo come il fuoco al fino metallo, questo e quello nʼescono purificati. Io in te non più veggo lo sgherro del 1723 ma lʼanacoreta del 20 dicembre 1735. Non ti odio, ma ti rispetto ed ammiro.

LORETO: Moglie mia, sii benedetta.

VITO: Ora possiamo sposarci, Lucia.

LUCIA: La mia mano è tua.

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MICHELE: L̓ anello nuziale te io dono io, o Lucia. ( caccia dal manico lʼanello e lo dà a Vito ) Questo è il donativo che avevo pensato farti se ti trovavo viva e nubile ancora. Questʼanello, benedetto dal sa-cerdote, donato dal penitente, posto al tuo dito dal giovane del tuo cuore, sarà lʼemblema della fedeltà, della virtù ed il ricordo della memoria di uno sventurato. Sarà il simbolo della concordia e dellʼaffetto che dovrà legare i nostri cuori, per sempre.

CATERINA: (caccia un involto dal seno, da quello trae il fazzoletto di per-calla, lo spiega e pone al collo di Lucia, dicendo ) Per questo giorno, o sorella, ti avevo conservato questa reliquia che in sé racchiude tante memorie. Io te la restituisco perché te ne adorni in questʼistante. Questo fazzoletto fu la innocente cagione di tanti funesti e terribili avvenimenti.

MICHELE: Questo fazzoletto fu pure cagione di prodigi, perché fu la causa che fece lʼarmigero tra-mutare in anacoreta.

LO RETO: Dunque, abbiamo obbligazione a questo fazzoletto, se tanti segni di virtù si videro in mez-zo a tanti delitti?

CATERINA: Sì.... dice bene... fra tanti delitti, che abbiamo però espiati abbastanza. E se pure i sofferti patimenti non fossero stati sufficienti a calmare la giustizia di Dio, dopo di aver placata la giustizia degli uomini collʼaccordatomi perdono. Deh, Vito, Lucia, mentre congiungete le vostre destre alla pre-senza di Dio, (si sente il suono dellʼorgano ) mentre il popolo in questa chiesa, intrecciando i cantici e le preci alle melodie dellʼorgano, vi augura felicità e concordia, mentre questʼEremita, reso venerando dai suoi sacrifici, dalla sua abnegazione, dai suoi voti solenni, assiste al vostro sacramento e lo santifica, voi, o sposi, ricordatevi di vostra sorella.

LUCIA: Di nostra madre, o Caterina, che tale sei stata per noi. Per cui, prima di entrare in questa chie-sa, pria di prostrarci avanti a quellʼaltare, prima di pronunziare le sacramentali parole, ti diciamo: “Ci benedici, o Caterina” ( Lucia da la mano a Vito e fanno segno di prostrarsi avanti a Caterina )

CATERINA: Alzatevi!... Benedirvi non posso... commetterei opera sacrilega... le mie mani sono mac-chiate di sangue... e questo sangue, con dodici anni di penitenza, non è ancora sparito.

MICHELE: Sì chʼè sparito, o Caterina, perché Iddio non è severo coglʼinfelici che peccano per eccesso di santo affetto.

Page 65: CATERINA DʼAMBRA - ischialarassegna.comischialarassegna.com/Letteratura/libripdf/catdambra.pdf · Sua moglie lo definisce uomo di ghiaccio. Pur tuttavia, quantʼamore in questʼuomo

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CATERINA: ( prende per mano gli sposi, li porta alla presenza dellʼEremita e dice ) Tu, o anacoreta, li benedici per me, perché ne sei più degno.

MICHELE: (alzando gli occhi al cielo, in preda alla commozione, allungando le mani sul capo degli sposi, dice ) Signore, fummo tutti rei, oggi tutti pentiti. Ascoltate la preghiera del penitente che ha la-sciato il mondo e si è distaccato dalla terra: “ Siano questi sposi da voi benedetti e fate che siano sempre felici”.

Fine del QUINTO ATTO