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La Rassegna d’Ischia 1/2001 39 Mostre Piazza del Plebiscito, negli ultimi anni, tra Natale e Capodanno, accende i riflettori sul lavoro di un artista contemporaneo e sottopone alla riflessione collettiva percorsi creativicomplessi e di difficile lettura. Quest’anno, dal 15 dicembre al 15 gennaio, le luci si sono accese sull’opera dell’artista anglo-indiano Anish Kapoor che, con la ritrovata identità indiana, ha saputo ridisegnare le forme, intrappolandole nei suoi contenuti. Il risultato è l’alternarsi di assordanti silenzi e pacati frastuoni. Napoli Anish Kapoor a Piazza Plebiscito Testo e foto di Carmine Negro

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La Rassegna d’Ischia 1/2001 39

Mostre

Piazza del Plebiscito,negli ultimi anni, traNatale e Capodanno,accende i riflettorisul lavoro di un artistacontemporaneo e sottoponealla riflessione collettivapercorsi creativicomplessie di difficile lettura.Quest’anno, dal 15 dicembre al 15 gennaio, le luci si sono accesesull’opera dell’artistaanglo-indiano Anish Kapoor che,con la ritrovata identità indiana,ha saputo ridisegnare le forme,intrappolandole nei suoi contenuti.Il risultato è l’alternarsi di assordanti silenzi e pacati frastuoni.

Napoli

Anish Kapoora Piazza Plebiscito

Testo e foto di Carmine Negro

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L’artistaAnish

Kapoor Anish Kapoor nasce a Bombay nel 1954 da padre Indù e da madre ebrea irachena, ma studia e si forma a Londra, alla Hornsey School of Art ed alla Chelsea School of Art, spinto dal desiderio di approfondire una ri‑cerca che lo porti a rispettare maggiormen‑te le sue ragioni interiori. Legge Jung e si appassiona alle macchine celibi di Marcel Duchamp; conosce Paul Neàgu che diverrà il suo maestro e produce una serie di istal‑lazioni tese ad indagare le tematiche princi‑pali del suo percorso artistico: l’androgino, ovvero la dicotomia femminile-maschile, la sessualità, il rito e un uso esteso del mezzo scultoreo che gli consenta una sintonia con la ricerca dell’arte povera senza rinunciare ad indagare in modo incisivo e approfondi‑to su nuove forme. Nel 1979 si reca in India per riscoprire le sue radici; dopo il viaggio il suo percorso creativo si sviluppa lungo la sottile linea di confine che lega le due cultu‑re, quella orientale e quella occidentale. Ka‑poor torna in Inghilterra con il colore puro,

il pigmento, e comincia ad eseguire la serie dei 1000 Names, oggetti scultorei instabili, forme tra l’astratto e il naturale, completamente ricoperte di pigmento puro, il cui intenso colore nasconde l’origine di manufatto e suggerisce l’idea di sconfinamento.Legati idealmente alla spiritualità dell’arte indiana, i suoi primi lavori sono sculture astratte, leggerissime, di piccole dimensioni caratterizzate dall’attenzione per il trattamento della superficie esterna, luminosa, colorata con pigmenti in polvere. “La pelle, la superficie esterna, è sempre stata per me il posto dell’azione. È il momento di contatto tra l’oggetto e il mondo. La pellicola che se-para l’interno dall’esterno” (1). La pelle è, per l’artista anglo-indiano, il momento della tensione e dell’azione dell’opera; è il luogo nel quale av‑vertiamo il cambiamento. Le opere sono configurazione di oggetti, diventano giardini o meglio luoghi, invadono lo spazio della sala e lo assorbono fino a renderlo parte dell’opera stessa. Hanno titoli che suggeriscono imma‑gini mitologiche induiste, tuttavia l’impatto con l’opera ci riporta sempre verso una dimensione fisicamente per‑cettiva, in cui l’unico mezzo di conoscenza sono i nostri sensi ed il nostro corpo.

1) Francesco Boriami, Anìsh Kapoor: Jumping into Void, in “Flash Art International”, nov-dic 1994.

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Verso la metà degli anni ‘80, le dualità vanno a poco a poco risolvendosi attraverso il riassorbi‑mento nell’unità, come se la” vagheggiata unione degli opposti, maschile e femminile, tangibile e immateriale, interiore ed esteriore, si fosse final‑mente avverata e vedessimo congiunti i poli in una configurazione unica. Nascono Place, 1983, PotforHer, 1984, Mother as a Mountain, 1985, ed altre opere. Lo spettatore viene colpito da una superficie di pigmento puro, poi, osservando me‑glio, posando lo sguardo sul manto dell’opera, scopre che essa rivela un’apertura, una fendi‑tura, una cavità pronta a suggerire altro. Tra le coppie di opposti quella interiore/esteriore gioca un ruolo molto importante, soprattutto alla luce del crescente interessamento da parte dell’artista verso il tema della rivelazione e dissimulazione, argomento centrale delle sperimentazioni degli anni ‘90.Il colore della scultura, colore assoluto, e la ten‑sione tra i pieni e i vuoti dei volumi della scul‑tura stessa divengono l’elemento di definizione

dell’ambiente, fisico e spirituale insieme, nell’in‑tento di creare un luogo sacro, religioso e simbo‑lico, fulcro di energia e sede del silenzio, luogo di stasi degli opposti, di quiete delle tensioni. “Non voglio fare una scultura impostata sulla forma, vorrei creare una scultura della fede, della passio‑ne, dell’esperienza, tutti concetti al di fuori della materialità”. I colori usati sono quelli primari: il rosso, il blu, il giallo ed il bianco-luce, quest’ul‑timo usato come simbolo dello stato femminile e verginale, in antagonismo rispetto al nero-buio; le sculture hanno forme semplici, essenziali, pure, quasi immateriali. Nel 1990 partecipa come rap‑presentante della Gran Bretagna alla XLIV Bien‑nale di Venezia. È il successo. Viene premiato e considerato come uno dei maggiori protagonisti di quella che viene definita “nuova scultura ingle‑se”. Nel 1992 ottiene il Turner Prize, premio britan‑nico molto ambito. Si susseguono mostre in tutto il mondo; commissioni pubbliche e private. Da quando l’artista ha acquistato un grande studio

al piano terra di un edificio, ha potuto dedicarsi a lavori di note‑voli dimensioni e di considerevole peso. Sono così nati grandi lavori in pietra arenaria e pigmento nero, abbozzi di sculture, dalle superfi‑ci scabre. L’artista ha anche, dal lato opposto, dato luce a lavori in metallo di scarto, frammenti organici, dalle superfici levigate, come Turning the World Inside Out, opera del 1995, al Rijksmu‑seum Kröller Müller di Otterlo. Sperimenta con diversi materiali, dal granito, al marmo di Carrara, dall’ardesia, all’arenaria, per una serie di lavori rivolti alla verità innata nella pietra. Lavora con le superfici riflettenti, per le crea‑zioni di specchi deformanti o che

addirittura annullano l’immagine stessa, come in Doublé Mirror, 1997; o che la inghiottono verso un limite vertiginoso come in Turning the World Upside Down, 1995 o Suck, 1998. “Il mio lavo‑ro è una lotta, un inarrestabile combattimento”, dichiara Kapoor. Le sue opere hanno a che fare con la materia, la trasformano, la deformano, nel senso letterale di privare di una forma. I critici Homi K. Bhabha e Pier Luigi Tazzi sottolineano che l’opera di Kapoor consiste nella rivelazione di un’apparizione interna, innata alla materia, in un farsi originario dell’opera, verso la messa in scena di una realtà profonda, avvertibile in una transi‑zione, in un passaggio, in una visione diagonale. Tutta la grande produzione dell’artista di questa

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fase consiste nella messa in scena del vuoto, un vuoto reso tangibile da una cavità che si riempie o da una materia che si svuota.

L’opera di Piazza del Plebiscito è stata re-alizzata da Kapoor nel 1999 per il Baltic, Centro per l’Arte Contemporanea di Ga-teshead ed ha come.tito-lo: Taratantara. Realizzata in pvc rosso, consiste in un’e-norme doppia tromba, della lunghezza di cinquantuno metri per trentadue di altez-za massima. Essa è la più grande messa in scena di un enorme vuoto. “Mi ha sempre affascinato un certo concetto visuale della paura suscitata dalla sensazione di cadere, di essere spinti all’interno, di essere spinti in se stessi...” (A. Kapoor).

Attualmente l’artista sta lavorando alla creazio‑

ne di un monumento per il Millennium Park di Chicago. Si tratta di un grande struttura a forma di fagiolo,, della lunghezza di diciotto metri per nove, fatta di acciaio inossidabile. Essa è un gran‑de specchio deformante pronto a mettere in scena il tempo dell’esperienza, riflettendo il paesaggio e il cielo in una superficie unica. Opera senza cen‑tro, è la rappresentazione di un continuo diveni‑re, riflesso di un vivere fatto di momenti distinti e frammentati.Fonti:www.Luxflux.org/artists/kapoorwww.thegallerrynet.com/italiano/artistiwww.companatico.com/lucascarabelli/testi/ani‑shkapoorwww.exibart.com www.artplus.itwww.comuncdiprato.it/pecci/collezio www.ka‑taweb/kwcinema.it

Arte in piazza - “Sono pochi anni e pure par n’eternità. Vi ricor date, signora Anna, quando le macchine e i pullmar riempivano questo bello spazio?” - “ E come faccio, signora-mia, a non ricor‑dare’; Era uno-schifo” - “Quando arriva questo periodo, io i ragazzi di Lucia, la mia prima figlia, quella che si è sposata con Simmaco, il carrozziere, li porto sempre qua. Voi capite, mia figlia deve aiu‑tare un po’ la baracca, va a fare i servizi e mi lascia Antonio, Salvatore, Rosa e Gennarino che sono degli autentici diavoli. A dicembre li porto in piazza e il tempo passa meglio, passa prima. Io queste cose moderne non le capisco ma quei mobili attaccati sotto il colonnato o la montagna di sale, sapete ne tengo ancora un poco contro il malocchio, non si può mai sapere, o il porco che grida a me piacciono”. Donna Anna ha i capelli bianchi e la pelle se‑gnata dalla vita, ma è ancora energica e forte. È seduta come tanti, ogni giorno, tutti i gior‑ni, sui sedili collocati subito dietro le garitte che sono situate ai lati dell’ingresso princi‑pale del Palazzo Reale. Un edificio dove una volta si gestivano i destini di una nazione e si affacciava su Largo di Palazzo e ora chiude come un fondale prospettico l’emiciclo con il colonnato dorico e i palazzi laterali.Quei sedili più di altri sanno raccontare sen‑timenti, pensieri e umori di chi si ritrova in piazza per riposare, mangiare o semplice‑

mente passare del tempo. Sono giovani, stu‑denti, turisti stanchi, innamorati in viaggio che tumultuosamente si cercano, famiglie, anziani in libera uscita, visitatori senza rife‑rimento. Su quelle panche la piazza riscopre la sua funzione, diventa palcoscenico dove i presenti sono i protagonisti e il copione è il bagaglio quotidiano e gli elementi che la piazza offre per la discussione. Le pietre di queste panche sono le mute testimoni dei cambiamenti della piazza, delle atmosfere, degli umori, delle rappresentazioni dell’arte che negli ultimi anni si offrono alla discussio‑ne. Quest’anno è la volta di Anish Kapoor, un artista anglo-indiano che ha ricostruito una sua composizione che, come recita il drap‑po, si chiama Taratantara. Realizzata in pvc rosso, consiste di un’enorme doppia tromba, della lunghezza di cinquantuno metri per

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trentadue di altezza massima sostenuta da due strutture tubolari. “Le impalcature rap‑presentano le sovrapposizioni culturali che si sono stratificate durante i secoli in oriente e in occidente e il ponte è il collegamento che unisce le due culture” dice Francesco, secon‑do anno di Architettura al collega Antonio, mentre osserva l’opera seduto sulle panche di Palazzo Reale di Piazza del Plebiscito e con‑suma velocemente il proprio panino. Antonio racconta di aver letto che “La simbologia del‑le cose e dei colori, il mito, sono molto im‑portanti per leggere l’opera di Kapoor, come fondamentale è capire il problema degli op‑posti, delle polarità.” Francesco annuisce e conferma l’importanza dei pieni e dei vuoti architettonici. Sono quasi le 15.00 e France‑sco ed Antonio si allontanano velocemente. L’anziano signore, con la sciarpa rossa, che stava seduto nell’angolo ed ha ascoltato in silenzio, finalmente ha il coraggio di interve‑nire e rivolgendosi a chi gli sta a fianco con il cappello a falda, lo distoglie dalla lettura per inveire contro tutto e tutti. ‘Io li ho visti dall’i‑nizio del mese a lavorare chissà juant’ hanno rubato. So tutti na mass e mariuoli. Io io due figli disoccupati che si devono arrangiare in‑vece e fa mangia i disoccupati....” Il signore con il cappello si sottrae per un attimo alla lettura, gli sorride. “O no!?, continua, io ca‑pisco sono persone intelligenti, fanno fare il

turismo però almeno fate qualcosa per i di‑soccupati.” Ma ormai l’altro non lo segue più gli occhi sono sui fogli e i pensieri nello spa‑zio e nella dualità del vuoto e della materia capaci di creare il dramma e la dimensione del silenzio. Un vuoto che ha molte presenze, un vuoto che gli consente di centrare da una parte il tempo con l’orologio, quando è con le spalle rivolte alla parte centrale del colonna‑to e dall’altra la religione con la statua posta sulla facciata della chiesa di San Francesco di Paola e conclude che è stata una felice in‑tuizione disporre l’opera in quella direzione. Mentre è assorto in questi pensieri, viene chiamato da una giovane turista che gli chie‑de a segni di scattare una foto ricordo con la struttura rossa come fondale mentre ripete: “Great Beatiful, a big red bridge”. Quando ri‑torna, tutti i posti sono occupati perché altri possano fruire del caldo sole invernale, della discussione fatta senza conoscere l’interlo‑cutore con la sola voglia di scoprire con l’al‑tro un altro mondo. Prima di lasciare sente i poco più che ragazzi ironizzare furtivamente sulla forma erotica del “buco” Con lo sguardo torna sull’opera, rivede quel vuoto, si ritro‑va con gli apprezzamenti dei giovanetti. Si, è anche questo, un nulla che invade pensiero e cose, un vuoto fertile.

Carmine Negro