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Capitolo VI Le spese nel processo tributario Sommario: 1. Le spese processuali e il contenzioso tributario. – 1.1. La pronuncia sulle spese del processo. – 1.2. La regola della soccombenza. – 1.2.1. L’estinzione del giudizio e la soccombenza virtuale. – 1.3. La compensazione. – 1.4. La condanna alle spese per lite temeraria. La tutela giurisdizionale comporta dei costi sia in capo alle parti processuali, che a carico dello Stato, il quale è tenuto ad affrontare le spese di organizzazione delle strutture materiali e personali approntate per la garanzia e l’esercizio della funzione pubblica della giurisdizione. Tuttavia, i costi della tutela giurisdizionale sono principalmente posti a carico dei litiganti che, attivando la vicenda processuale e alimentandola con la loro partecipa- zione, ne sono gli effettivi protagonisti, nonché i principali beneficiari della suddetta funzione pubblica esercitata nell’interesse generale della collettività. In particolare, le parti devono effettuare il pagamento delle tasse previste in re- lazione ai diversi atti e alle varie attività giurisdizionali, quali l’imposta di registro, il contributo unificato, i diritti di cancelleria e i diritti dell’ufficiale giudiziario, nonché sostenere la spesa per gli onorari dei difensori che le rappresentano e le assistono in giudizio. In generale, la parte deve provvedere alle spese degli atti che compie o che richiede e deve anticiparle per tutti gli atti processuali secondo quanto previsto dalla legge o dal giudice. Precisamente, l’articolo 8 del d.P.R. n. 115/2002 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) prevede che “Ciascuna parte provvede alle spese degli atti processuali che compie e di quelli che chiede e le anticipa per gli atti necessari al processo quando l’anticipazione è posta a suo carico dalla legge o dal magistrato”. Se la parte è ammessa al patrocinio a spese dello Stato, in presenza dei presupposti ed alle condizioni descritte nel capitolo precedente sulle parti del processo tributario, le spese vengono anticipate dall’erario o prenotate a debito, secondo le previsioni della parte III del d.P.R. n. 115/2002. L’anticipazione delle spese costituisce una situazione provvisoria che consente l’avvio e la prosecuzione del processo; sarà, infatti, con la decisione finale del giu- dizio che il magistrato stabilirà nella sua sentenza quale parte dovrà farsi carico del costo del processo, ossia quale parte sarà tenuta, oltre a sopportare le proprie spese, a rifondere le spese dell’altra parte, comprensive di quelle di rappresentanza e di difesa in giudizio.

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Capitolo VILe spese nel processo tributario

Sommario: 1. Le spese processuali e il contenzioso tributario. – 1.1. La pronuncia sulle spese del processo. – 1.2. La regola della soccombenza. – 1.2.1. L’estinzione del giudizio e la soccombenza virtuale. – 1.3. La compensazione. – 1.4. La condanna alle spese per lite temeraria.

La tutela giurisdizionale comporta dei costi sia in capo alle parti processuali, che a carico dello Stato, il quale è tenuto ad affrontare le spese di organizzazione delle strutture materiali e personali approntate per la garanzia e l’esercizio della funzione pubblica della giurisdizione.

Tuttavia, i costi della tutela giurisdizionale sono principalmente posti a carico dei litiganti che, attivando la vicenda processuale e alimentandola con la loro partecipa-zione, ne sono gli effettivi protagonisti, nonché i principali beneficiari della suddetta funzione pubblica esercitata nell’interesse generale della collettività.

In particolare, le parti devono effettuare il pagamento delle tasse previste in re-lazione ai diversi atti e alle varie attività giurisdizionali, quali l’imposta di registro, il contributo unificato, i diritti di cancelleria e i diritti dell’ufficiale giudiziario, nonché sostenere la spesa per gli onorari dei difensori che le rappresentano e le assistono in giudizio.

In generale, la parte deve provvedere alle spese degli atti che compie o che richiede e deve anticiparle per tutti gli atti processuali secondo quanto previsto dalla legge o dal giudice.

Precisamente, l’articolo 8 del d.P.R. n. 115/2002 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) prevede che “Ciascuna parte provvede alle spese degli atti processuali che compie e di quelli che chiede e le anticipa per gli atti necessari al processo quando l’anticipazione è posta a suo carico dalla legge o dal magistrato”.

Se la parte è ammessa al patrocinio a spese dello Stato, in presenza dei presupposti ed alle condizioni descritte nel capitolo precedente sulle parti del processo tributario, le spese vengono anticipate dall’erario o prenotate a debito, secondo le previsioni della parte III del d.P.R. n. 115/2002.

L’anticipazione delle spese costituisce una situazione provvisoria che consente l’avvio e la prosecuzione del processo; sarà, infatti, con la decisione finale del giu-dizio che il magistrato stabilirà nella sua sentenza quale parte dovrà farsi carico del costo del processo, ossia quale parte sarà tenuta, oltre a sopportare le proprie spese, a rifondere le spese dell’altra parte, comprensive di quelle di rappresentanza e di difesa in giudizio.

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La responsabilità per le spese processuali ha un fondamento di natura oggettiva, in quanto l’agire in giudizio costituisce l’esercizio di un diritto e non può essere quindi considerato un fatto illecito, ancorché l’atteggiamento soggettivo tenuto dalla parte nella vicenda processuale può variamente incidere sui criteri di ripartizione delle spese.

In definitiva, il processo rivela di avere un costo naturale, per cui è opportuno sta-bilire su quale delle parti gravi il carico delle spese e all’uopo analizzare la normativa di riferimento applicabile in modo particolare al processo tributario.

1. Le spese processuali e il contenzioso tributario

 Tomo III F042, F043

La disciplina delle spese nel processo tributario è contenuta nell’articolo 15 del d.lgs. n. 546/1992, di recente modificato dall’art. 9, comma 1, lettera f) d.lgs. 156/2015 al fine di rafforzare il principio in base al quale le spese del giudizio tributario se-guono la soccombenza, il quale al primo comma prevede che “La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza’’.

L’introduzione dell’articolo in questione rappresenta un elemento innovativo rispetto all’assetto normativo precedente, considerato che l’art. 39 del d.P.R. n. 636/1972, nel richiamare le norme contenute nel libro I del codice di procedura civile, escludeva ogni ingresso, nel giudizio davanti alle Commissioni, degli articoli da 90 a 97, rivolti appunto alla responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali, nono-stante tali norme fossero indubbiamente applicabili nei gradi che si svolgono avanti la Corte d’Appello e la Corte di Cassazione (1).

Una tale soluzione non poteva non generare dubbi di legittimità costituzionale, considerato che il principio victus victoria, secondo il quale la parte vittoriosa deve essere ristorata degli oneri inerenti al dispendio di attività processuale ponendoli a carico della parte soccombente, costituisce una garanzia di effettività della tutela giurisdizionale ai sensi degli articoli 3, 24 e 133 della Costituzione.

Tuttavia, tale contestazione è stata da sempre superata asserendo che il contenzioso tributario si configura come un processo strutturalmente diverso e più snello rispetto all’ordinario procedimento civile (2).

(1) Cass. civ., 15 aprile 1985, n. 2492; Corte Appello Milano, 14 luglio 1995. (2) V. M. LoVisetti, Commento all’art. 15 del d.lgs. 546/1992, in C. ConsoLo, C. GLendi, Commen-

tario breve alle leggi del processo tributario, Cedam, 2005, 131; in giurisprudenza v. Corte Cost., 24 novembre 1982, n. 196; Corte Cost., 28 aprile 1989, n. 244; Corte Cost., 22 febbraio 1990, n. 79; Corte Cost., 24 gennaio 1991, n. 29. Inoltre, nel codice Giustinianeo, accanto al principio victus victoria, venne introdotto il principio (fondato sui c.d. privilegia fisci) suggerito dalla par condicio, secondo il quale il fisco non veniva condannato alle spese di soccombenza ma per contro non riceveva quelle di vittoria (fiscus ex sui privilegio et pro sui conditione victor non exigit, nec socumbus solvit litis exparsa).

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Al contrario, secondo il criterio direttivo sancito dall’articolo 30 lett. i) della legge n. 413/1991, il Governo della Repubblica, nel progetto di revisione della disciplina del contenzioso tributario, è stato delegato ad introdurre un regime delle spese proces-suali basato sul principio della soccombenza, principio mutuato dall’articolo 91 c.p.c.

Tale novità è strutturalmente connessa all’obbligatorietà dell’assistenza tecnico-pro-fessionale nei giudizi davanti alle Commissioni tributarie disciplinata dall’articolo 12 del d.lgs. n. 546/1992 e risponde alla necessità di rimborsare la parte vittoriosa degli oneri inerenti al dispendio di attività processuale, legati da nesso di causalità con l’iniziativa dell’avversario, ossia del soggetto che con le proprie domande o attraverso la resistenza a quelle di altri abbia causato la lite (3).

La ratio della norma in esame risiede nel principio cardine di ogni forma di giustizia sostanziale secondo cui “la necessità di ricorrere al giudice non deve tornare a danno di chi ha ragione”, con la conseguenza razionale che la parte vittoriosa venga esonerata dalle spese del giudizio, ponendole a carico della parte le cui ragioni vengano disco-nosciute e rigettate in tale sede.

L’istituto delle spese del giudizio a carico del soccombente, combinato con l’obbligo dell’assistenza tecnica, sebbene costituisca un maggior onere per il contribuente-ri-corrente, è funzionale a scoraggiare le c.d. liti temerarie e a ridurre sensibilmente il numero delle cause.

Ciascuna parte processuale, prima di agire o resistere in giudizio, deve valutare in maniera oculata il rischio di dover sostenere, in caso di soccombenza, le proprie e le altrui spese processuali e, quindi, sarà indotta a riflettere bene sulla fondatezza o meno delle proprie pretese e sul grado di probabilità di accoglimento delle stesse.

Ciò posto, l’articolo 15 del d.lgs. 546/1992, si ribadisce, è stato oggetto di una sostan-ziale modifica ad opera del d.lgs. 156/2015, che ha ampliato la scarna disciplina conte-nuta nel testo previgente, sopperendo alla necessità, avvertita dalla dottrina prevalente, di integrarne il dettato normativo mediante il rinvio agli articoli 90-97 c.p.c. in quanto compatibili con la struttura e le modalità di svolgimento del contenzioso tributario.

1.1. La pronuncia sulle spese del processo

Tomo II VI, 1.1

Come nel processo civile, anche nel processo tributario, ai sensi dell’articolo 90 c.p.c. ed – in termini generali – del sopracitato articolo 8 del d.P.R. n. 115/2002, ciascuna parte processuale deve provvedere ad anticipare le spese processuali degli atti che compie, quali il contributo unificato e degli atti che richiede ad altri soggetti, quali i costi di notifica, i diritti per il rilascio di copie di atti e documenti da parte della segreteria (4).

(3) U. MiGnosi, Le spese di lite nel processo tributario, in Il fisco, n. 2/2010, fasc. n. 1, pag. 208.(4) In deroga all’onere di anticipazione, e ricollegandosi alla garanzia della tutela giurisdizionale

anche per i non abbienti (art. 24 Cost.), l’art. 8 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 fa espressamente salve le norme sul patrocinio a spese dello Stato.

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In merito si precisa che inizialmente il contributo unificato per le spese degli atti giudiziari, previsto dall’articolo 9 del d.P.R. n. 115/2002, entrato in vigore il 1 luglio 2002 in sostituzione dell’imposta di bollo, delle tasse di iscrizione a ruolo e dei di-ritti di cancelleria, non trovava applicazione nel processo tributario, ma era riferito soltanto a ciascun grado del processo civile, compresa la procedura concorsuale e di volontaria giurisdizione, nonché al processo amministrativo (5).

Successivamente, l’art. 37 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria) ha introdotto l’obbligo di versamento del contributo unificato anche nel processo tributario, con la conseguente modifica di alcune disposizioni del d.P.R. n. 115/2002.

La manovra estiva (d.l. 98/2011) ha introdotto tale novità per finanziare i costi della giustizia tributaria con riferimento ai ricorsi notificati ai sensi del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 successivamente alla data di entrata in vigore del decreto, ossia il 7 luglio 2011.

L’ammontare del contributo unificato aumenta all’aumentare del valore della con-troversia, il quale viene determinato ai sensi del comma 2 dell’articolo 12 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (6), e deve risultare da apposita dichiarazione resa dalla parte nelle conclusioni del ricorso, anche nell’ipotesi di prenotazione a debito (7).

Altre spese possono essere correlate agli atti processuali disposti d’ufficio dal giu-dice oppure necessari alla prosecuzione del processo quale ad esempio la consulenza tecnica d’ufficio, il cui costo non necessariamente viene posto dal giudice a carico del ricorrente, ben potendo essere addebitata provvisoriamente all’amministrazione finanziaria oppure divisa equamente tra le parti.

Nell’ipotesi in cui la parte opponga il rifiuto (legittimamente o meno) di anticipare le spese, non si verifica la sospensione, la paralisi o l’estinzione del giudizio, ma si pro-cederà al recupero delle somme dovute mediante le procedure di riscossione coattiva.

Voce indubbiamente incidente in maniera determinante sui costi della lite è l’onora-

(5) La parte che per prima si costituisce in giudizio, depositando l’atto introduttivo, è tenuta al pagamento contestuale del contributo unificato. Il valore del processo determinato ai sensi dell’art. 12 comma 5 d.lgs. 546/1992 deve risultare da apposita dichiarazione resa dalla parte nella conclu-sione dell’atto introduttivo. In mancanza della suddetta dichiarazione si presume che la causa abbia il valore più alto ed è in riferimento a questo che viene determinato l’ammontare del contributo unificato. L’articolo 16 del d.P.R. n. 115/1992 dispone che in caso di omesso o ritardato versamento del contributo unificato si applica la sanzione amministrativa di cui all’articolo 71 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 sull’imposta di registro, cioè dal 100% al 200% della maggiore imposta dovuta. Il versamento del contributo unificato può essere effettuato ai concessionari presso un conto corrente postale intestato alla sezione di tesoreria provinciale dello Stato o presso le rivendite di generi di monopolio e di valori bollati tramite Modello F23 (art. 192 d.P.R. 115/2002).

(6) Per valore della lite si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali san-zioni irrogate con l’atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste.

(7) L’art. 37, comma 6, lett. t) ha previsto che all’articolo 13 del d.P.R. 115/2002 dopo il comma 6-ter deve essere introdotto il comma 6-quater, il quale contiene la tabella del contributo unificato dovuto per i ricorsi principale ed incidentale proposti avanti le Commissioni tributarie provinciali e regionali in relazione al valore della causa.

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rio del difensore che viene poi liquidato dal giudice secondo i parametri professionali applicabili al soggetto che ha svolto l’assistenza tecnica (8).

Specificamente, il nuovo comma 2-ter dell’art. 15 d.lgs. 546/1992 (introdotto dall’art. 9 d.lgs. 156/2015) indica tra le spese del giudizio oltre al contributo unificato, gli ono-rari e i diritti del difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre il contributo previdenziale e l’imposta sul valore aggiunto, se dovuti.

Ciò posto, l’anticipazione delle spese sopra descritte è una circostanza provvisoria, in quanto il giudice si pronuncerà definitivamente sull’allocazione dei costi del proces-so nella sentenza emessa a conclusione della vicenda processuale. Tuttavia, il nuovo comma 2-quater dell’art. 15 d.lgs. 546/1992 (introdotto dall’art. 9 d.lgs. 156/2015) ha previsto che con l’ordinanza che decide sulle istanze cautelari la Commissione provvede sulle spese della relativa fase.

Tale modifica ha destato numerose perplessità in dottrina atteso che tale dispo-sizione, tratta dalla disciplina del processo amministrativo e da quella del processo civile, non trova una felice collocazione nella disciplina del processo tributario, a causa della sua natura incidentale che difetta dei requisiti di autonomia provvedimentale che caratterizza i provvedimenti cautelari amministrativi o civili per i quali è previsto l’appello o il reclamo che, invece, non sono previsti nel rito tributario (9).

La pronuncia sulle spese conserva efficacia anche dopo il provvedimento che defi-nisce il giudizio, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito. Orbene, dal combinato disposto dell’art. 15, comma 2-quater e dell’art. 47, comma 4 deriva che l’ordinanza con cui il collegio rigetta l’istanza di sospensione e condanna il ricorrente al pagamento delle spese della fase cautelare non è impugnabile.

A tal riguardo l’Agenzia delle entrate nella circolare del 29 dicembre 2015, n. 38/E, fornendo una prima interpretazione delle modifiche effettuate dal d.lgs. 156/2015 ritiene che la non impugnabilità dell’ordinanza in esame non costituisca un limite alla tutela della parte eventualmente dichiarata soccombente in ordine alle spese della fase cautelare; si legge nella suddetta circolare “il giudice conserva, invero, la possibilità di disporre diversamente in ordine alle spese della fase cautelare nel provvedimento adottato all’esito del giudizio. In questo caso, la sentenza che definisce il giudizio assorbe l’ordinanza sia sotto il profilo cautelare che nella disposizione sulle spese di lite. La parte che intenda dolersi della condanna alle spese della fase cautelare potrà, quindi, impugnare la sentenza nel relativo capo. Ove il giudice non provveda in sen-tenza sulle spese di lite della fase cautelare, l’ordinanza adottata in detta fase sarà assorbita dalla sentenza solo nella parte che ha deciso sull’istanza di sospensione, mentre conserverà la propria efficacia nel capo che dispone sulle spese del giudizio cautelare. La parte che intenda dolersi della condanna alla rifusione delle spese del giudizio cautelare – contenuta nella relativa ordinanza – potrà dunque, in tal caso,

(8) A tal riguardo si precisa che le tariffe sono state sostituite dai c.d. parametri, elaborati dal decreto del Ministero della giustizia 10 marzo 2014, n. 55 (in G.U. 2 aprile 2014, n. 77), ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247.

(9) In tal senso cfr. A. Russo, Revisione delle spese di lite nel processo tributario, in Il Fisco, n. 44/2015, pagg. 4234 e ss., Wolters Kluwer; M. Leo, La riforma del contenzioso tributario: cose fatte e cose da fare, in Il Fisco, n. 42/2015, pag. 4018, Wolters Kluwer.

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impugnare la sentenza in quanto ha omesso di disporre diversamente in merito alle spese della fase cautelare”.

La condanna al pagamento delle spese processuali costituisce una conseguenza legale della decisione della lite e in considerazione della sua natura accessoria tale decisione non può non essere adottata dallo stesso giudice dinnanzi al quale si è svolto il procedimento, la cui competenza in merito è inderogabile ed esclusiva (10).

In mancanza di un’esplicita richiesta della parte, poi rivelatasi vittoriosa, la con-danna alle spese può essere disposta dal giudice anche d’ufficio (11) e sempre che non vi sia stata una rinuncia esplicita proveniente dalla parte stessa o dal suo difensore munito di una procura speciale (12).

Inoltre la decisione sulle spese deve essere contenuta in ogni pronuncia che chiude definitivamente il processo, indipendentemente dalla forma ed anche per motivi di rito.

Pertanto, devono disporre sulle spese: a) la sentenza che dichiara il difetto di giu-risdizione o l’incompetenza della Commissione adita, anche se in quest’ultimo caso il processo può continuare dinanzi alla Commissione dichiarata competente (art. 5 d.lgs. n. 546/1992); b) il decreto presidenziale che, a seguito di esame preliminare (art. 27 d.lgs. n. 546/1992), dichiara l’inammissibilità del ricorso; c) la sentenza emessa ai sensi dell’art. 28, comma 5, d.lgs. n. 546/1992 che, sul reclamo contro i decreti presi-denziali di esame preliminare, ne conferma le statuizioni; d) la sentenza di rimessione della causa alla Commissione provinciale ex art. 59 d.lgs. n. 546/1992; e) la sentenza emessa dalla Corte di Cassazione con rinvio ai giudici di merito a mente dell’articolo 63 d.lgs. n. 546/1992; f) la sentenza che decide sulla domanda di revocazione; g) la sentenza che decide su un ricorso in ottemperanza.

Non devono invece statuire sulle spese, in quanto non chiudono il giudizio davanti al giudice adito: a) l’ordinanza che impone alla parte di munirsi di difensore tecni-co (art. 12, comma 10, d.lgs. n. 546/1992); b) l’ordinanza che, sul reclamo contro il provvedimento presidenziale, dispone la prosecuzione del giudizio (art. 28, comma 5, d.lgs. n. 546/1992); c) l’ordinanza con cui il collegio dispone la separazione dei giudizi riuniti dal Presidente (art. 29, comma 3, d.lgs. n. 546/1992); d) la pronuncia sulla sospensione cautelare (13).

La mancata statuizione sulle spese non integra un errore materiale emendabile con la speciale procedura della correzione prevista dagli articoli 287 e seguenti

(10) Infatti, la condanna alle spese non può essere oggetto di un apposito e separato giudizio: in tal senso vedi Cass. civ., 21 ottobre 1993, n. 10450; Trib. Milano, 4 febbraio 1991.

(11) Pertanto, in caso di riforma, anche parziale, della sentenza impugnata, il giudice deve anali-ticamente pronunciarsi sia sulle spese del giudizio svoltosi avanti a sé, sia su quelle relative ai gradi precedenti, a prescindere da una specifica impugnazione sul punto (Cass. civ., sez. I, 19 maggio 2000, n. 6540) mentre nel caso di conferma della sentenza impugnata si può rivedere la statuizione delle spese contenuta nel provvedimento precedente solo se ciò sia stato oggetto di specifica impugnazio-ne (Cass. civ., sez. II, 25 novembre 1992, n. 12551). Qualora, invece, sia dichiarata l’inammissibilità del gravame resta preclusa ogni cognizione sul merito del precedente giudizio e pertanto non è pos-sibile rivedere la statuizione sulle spese ivi compiuta, anche se oggetto di specifica impugnazione.

(12) Cass. civ., sez. lav., 5 giugno 1987, n. 4922.(13) B. BeLLè, Le spese del giudizio, in Il processo tributario, Giurisprudenza sistematica di diritto

tributario, a cura di F. tesauRo, Utet, 1998, 308; M. LoVisetti, Commento all’art. 15 del d.lgs. 546/1992, cit., 133.

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c.p.c., ma un vizio di omessa pronuncia suscettibile di autonoma impugnazione (14); mentre, laddove una statuizione in merito esista, la liquidazione delle spese operata dal giudice non può avvenire in maniera generica e globale per spese e competenze, dovendo invece essere eseguita in modo tale che la parte interessata sia in grado di verificare se il giudice abbia o meno rispettato le regole introdotte dal decreto sui parametri professionali n. 140 del 2012 (15).

Infatti, il legislatore tributario, considerata l’eterogeneità dei soggetti abilitati a portare la propria assistenza tecnica presso le Commissioni tributarie, ha dettato norme specifiche quanto ai parametri di riferimento per la quantificazione delle loro rispettive competenze, facendo riferimento in genere alle corrispondenti tariffe professionali.

Invero, ai sensi dell’art. 15, comma 2-quinquies, d.lgs. 546/1992, “i compensi agli incaricati dell’assistenza tecnica sono liquidati sulla base dei parametri previsti per le singole categorie professionali. Agli iscritti negli elenchi di cui all’articolo 12, comma 4, si applicano i parametri previsti per i dottori commercialisti e gli esperti contabili”.

Ai fini della liquidazione del compenso agli incaricati dell’assistenza tecnica occorre fare riferimento al valore della lite, il quale va determinato non già in base al crite-rio dettato dall’art. 12, comma 2, del d.lgs. medesimo – che individua detto valore al diverso fine di stabilire la necessità o meno dell’assistenza tecnica – ma sulla base di quanto previsto dal regolamento sui parametri professionali (16).

Inoltre, considerate le difficoltà di ricondurre all’interno dei rispettivi parametri professionali le attività svolte davanti alle Commissioni tributarie da soggetti abilitati alla difesa, ma diversi da avvocati, dottori commercialisti, ragionieri commercialisti e consulenti tributari (ossia i soggetti iscritti negli elenchi di cui all’articolo 12, comma 4) si è proposto di ricorrere anche in questo caso, in via analogica, alle tariffe vigenti per i ragionieri (17).

Meritevole di nota, in merito, è altresì la previsione del comma 2-sexies dell’artico-lo 15, il quale prevede che “nella liquidazione delle spese a favore dell’ente impositore, dell’agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell’importo complessivo ivi previsto”.

In merito la giurisprudenza ha sottolineato che lo specifico riferimento alle spese processuali e alla riduzione percentuale dei soli onorari di avvocato chiarisce il diritto dell’ente alla rifusione sia dei costi affrontati, sia dei compensi spettanti per l’assistenza tecnica fornita in giudizio dai dipendenti (18).

(14) Cass. civ., sez. II, 11 marzo 1995, n. 2869.(15) Tuttavia la liquidazione globale può essere ammessa qualora sia presentata la nota spesa,

dovendosi in tal caso presumere che il giudice abbia voluto liquidare le spese in conformità a tale nota (Cass. civ., sez. II, 20 maggio 1997, n. 4468).

(16) Cass. civ., sez. trib., 7 marzo 2002, n. 3355.(17) B. BeLLè, Le spese del giudizio, cit., 313.(18) Cass. civ., sez. trib., 6 aprile 2007, n. 8622; Cass. civ., sez. trib., 14 dicembre 2001, n. 15858.

In senso contrario Comm. trib. prov. Genova, sez. XIII, 31 dicembre 2004, n. 270.

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La riscossione delle spese di lite avviene mediante iscrizione a ruolo a titolo defi-nitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

La richiesta di condanna della controparte alle spese di lite, come si comprende dalla lettura del comma 2-quinquies dell’art. 15 d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, deve essere accompagnata dalla nota spesa di lite (19): le spese processuali devono essere riportate in modo dettagliato in apposita nota che, ai sensi dell’art. 75 disp. att. c.p.c., deve contenere, in modo distinto e specifico, gli onorari e tutti i costi sostenuti.

Il difensore, infatti, al momento del passaggio in decisione dopo la discussione (20) in pubblica udienza, od unitamente all’atto processuale depositato, deve unire al fascicolo di parte la nota delle spese, indicando in modo disgiunto e specifico gli onorari e le spese.

In caso di mancata presentazione della nota spese, il giudice tributario deve liqui-darle in base ai parametri riportati nel nuovo decreto del Ministero della giustizia 10 marzo 2014, n. 55.

Invece, qualora venga regolarmente depositata la nota specifica delle spese, al giudice è riconosciuta la facoltà di ridurle o eliminarle, purché fornisca un’adeguata motivazione delle ragioni che nella valutazione del costo del processo l’hanno indot-to a discostarsi dal prospetto fornito dalla parte (21). Al contrario, il giudice non può liquidare onorari di importo superiore a quelli indicati nella nota spese, in quanto oltrepasserebbe i limiti della domanda (22).

In ogni caso, l’accertamento ai fini della condanna al pagamento delle spese di giudi-zio è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito e la pronuncia è sindacabile in sede di legittimità nell’ipotesi in cui dette spese siano poste, anche parzialmente, a carico della parte totalmente vittoriosa.

Saranno rimborsabili soltanto le spese effettivamente sostenute in correlazione alla partecipazione della parte nel processo e, pertanto, la parte che si difende da sé, qualora vittoriosa, ha diritto alla refusione soltanto delle spese vive; diversamente, il soggetto abilitato che svolge l’assistenza tecnica a se stesso, sembrerebbe avere diritto al rimborso delle spese legali quantificate applicando i parametri professionali. Pari-menti, non saranno rimborsate spese processuali alla parte vittoriosa, rimasta però contumace (il che nel processo tributario, almeno in primo grado, può accadere solo con riferimento all’ufficio finanziario, all’ente locale o al concessionario del servizio di riscossione).

(19) Cass. civ., sez. trib., 18 gennaio 2008, n. 1035; Comm. trib. reg. Roma, sez. XX, 11 febbraio 1997, n. 8.

(20) n.s. di PaoLa, Contenzioso tributario, cit., pag. 263; B. BeLLè, Le spese del giudizio, cit., 311. Si ritiene che tale termine coincida, qualora non sia stata chiesta la discussione in pubblica udienza, con quello previsto per il deposito di repliche (cinque giorni liberi prima della camera di consiglio: art. 32, comma 3, d.lgs. 546/1992); se invece è prevista la trattazione pubblica, si discute se il deposi-to possa avvenire fino al termine previsto per le memorie illustrative (dieci giorni liberi prima dell’u-dienza ex art. 32, comma 2, d.lgs. 546/1992; circolare 291/E del 1996), oppure anche all’udienza. In giurisprudenza vedi Comm. reg. Lazio, 11 febbraio 1997, n. 8.

(21) Cass. civ., sez. II, 7 maggio 1981, n. 2977; Cass. civ., sez. III, 3 marzo 1994, n. 2124.(22) Cass. civ., sez. trib., 14 dicembre 2001, n. 15858. Non è infatti consentito al giudice disappli-

care il principio dettato dall’art. 112 c.p.c. e travalicare i limiti della domanda liquidando le spese di lite in misura maggiore a quelle richieste con la nota spese.

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LE SPESE NEL PROCESSO TRIBUTARIO 177

La sentenza, nella parte in cui definisce la ripartizione dei costi del processo può contenere anche la pronuncia sulla distrazione delle spese, ossia la condanna dell’altra parte a rifondere direttamente al difensore gli onorari e le spese che questi non ha ancora riscossi dal proprio assistito.

Infatti, l’istituto della distrazione delle spese, disciplinato dall’articolo 93 c.p.c. trova applicazione anche nel processo tributario, consentendo al difensore con procura di chiedere che il giudice, nella sentenza di condanna alle spese, distragga in favore suo gli onorari non riscossi e le spese.

L’istanza di distrazione, ammessa anche oralmente in udienza, non richiede parti-colari formalità e può essere proposta in qualsiasi fase e grado del processo e potrebbe addirittura essere implicita, quando dalla dichiarazione di aver anticipato le spese risulti la volontà del difensore di chiederne la distrazione. L’unico limite è costituito dall’esigenza che il provvedimento di distrazione, anche se autonomo rispetto alle altre statuizioni della sentenza, venga cumulato con questa; non è pertanto consentito proporre la domanda di distrazione dopo che sia stata emessa la sentenza.

Accolta l’istanza di distrazione, il difensore diviene creditore diretto della con-troparte soccombente, ferma restando la concomitante responsabilità del cliente: il difensore, infatti, potrà rivolgersi indifferentemente alla parte destinataria dell’ordine di distrazione ovvero al proprio cliente e la pronuncia costituisce titolo esecutivo.

Il difensore distrattario può assumere la qualità di parte, sia attivamente che passivamente, soltanto quando sorga controversia sulla distrazione, cioè quando la sentenza impugnata non abbia provveduto sull’istanza o l’abbia respinta ovvero quando il gravame investa la pronuncia stessa di distrazione, con la conseguenza che la legittimazione compete esclusivamente alla parte rappresentata allorché l’impu-gnazione riguardi invece l’adeguatezza della liquidazione delle spese (23).

Secondo la recente giurisprudenza, in caso di omessa pronuncia sull’istanza di distrazione delle spese proposta dal difensore, il rimedio esperibile, in assenza di un’e-spressa indicazione legislativa, è costituito dal procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., e non dagli ordinari mezzi di impugnazione, non potendo la richiesta di distrazione qualificarsi come domanda autonoma (24).

Tuttavia, se il difensore ha conseguito dal cliente il rimborso che gli è stato attri-buito, la parte può richiedere al giudice, con le forme stabilite per la correzione della sentenza, la revoca del provvedimento, dimostrando di avere soddisfatto il credito del difensore per gli onorari e le spese. Conseguita la revoca del provvedimento di distrazione il cliente-creditore potrà agire nei confronti dell’avversario soccombente condannato al pagamento delle spese.

(23) Cass. civ., sez. III, 3 maggio 2011, n. 9699.(24) Cass. civ., sez. un., 7 luglio 2010, n. 16037; Cass. civ., sez. III, 10 gennaio 2011, n. 293 “La

procedura di correzione, oltre ad essere in linea con il disposto dell’art. 93, comma 2, c.p.c. – che ad essa si richiama per il caso in cui la parte dimostri di aver soddisfatto il credito del difensore per onorari e spese – consente il migliore rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, garantisce con maggiore rapidità lo scopo del difensore distrattario di ottenere un titolo esecutivo ed è un rimedio applicabile, ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c., anche nei confronti delle pronunce della Corte di Cassazione”. Contra Cass. civ., sez. III, 8 luglio 2010, n. 16153.

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CAPITOLO VI 178

In conclusione, il provvedimento finale del processo contiene la pronuncia di condanna delle spese anticipate dalle parti durante la vicenda processuale e poste in genere a carico della parte soccombente.

Si tratta ovviamente dei costi anteriori alla sentenza che, ai sensi dell’articolo 91 c.p.c., vengono liquidati dal cancelliere con nota a margine alla stessa; mentre quelle successive (25), che con riferimento all’addebito seguono comunque le sorti di quelle principali, sono liquidate dall’ufficiale giudiziario con nota a margine all’originale e alla copia notificata. Contro tali liquidazioni è possibile proporre reclamo al capo dell’ufficio cui appartengono il cancelliere e l’ufficiale giudiziario (art. 91, comma 3 c.p.c.).

Si rammenta, infine, che le sentenze emesse dalle Commissioni tributarie non sono soggette a registrazione.

1.2. La regola della soccombenza

Tomo II VI, 1.2

L’articolo 15, disponendo la condanna alle spese del giudizio della parte che ne risulti soccombente, recepisce il principio processual-civilistico della soccombenza sancito dall’articolo 91 c.p.c.

Tale principio entra in gioco nel momento in cui il procedimento sia stato definito (26) ed il giudice abbia deciso quale delle parti sia risultata vittoriosa e quale soccombente ed implica che sulla parte soccombente gravino non solo le spese dalla stessa effettuate ma anche quelle anticipate e sostenute dall’avversario risultato vincitore (27).

È parte soccombente: a) la parte alla quale è negato, in tutto o in parte, il ricono-scimento della situazione giuridica dedotta in giudizio, come accade, ad esempio, nel caso del ricorrente cui viene respinto il ricorso per infondatezza dei motivi addotti ovvero per motivi di rito (28); b) la parte nei confronti della quale è dichiarata l’esistenza di una situazione giuridica altrui, anche se essa non abbia contestato in giudizio la pretesa avversaria o addirittura non si sia costituita (29).

(25) Per le notifiche eseguite per posta ex art. 16, comma 3, d.lgs. 546/1992, rileva la documenta-zione rilasciata dall’ufficio postale (tagliando di ricevuta della raccomandata).

(26) Ad eccezione di quanto previsto dall’art. 15, comma 2-quater sulle spese della fase cautelare.(27) Cfr. Cass. 21 gennaio 2015, n. 930 “la parte interamente vittoriosa non può essere condanna-

ta, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese processuali”.(28) Cass. civ., sez. III, 7 agosto 2001, n. 10911; Comm. trib. reg. Milano, 19 novembre 1996, n. 1.(29) In questa situazione si trova, ad esempio, l’Amministrazione quando il ricorso è accolto, an-

che in mancanza di costituzione in giudizio o di sua opposizione, oppure l’appellato, che non abbia proposto appello incidentale, in caso di riforma del provvedimento impugnato. La giurisprudenza di legittimità ha precisato che “Il soccombente deve individuarsi facendo ricorso al principio di causa-lità per cui, obbligata a rimborsare le spese processuali è la parte che, con il comportamento tenuto fuori dal processo, ovvero dandovi inizio o resistendo con modi e forme non previste dal diritto, ab-

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LE SPESE NEL PROCESSO TRIBUTARIO 179

La situazione di soccombenza deve essere riferita alla parte, non al suo rappre-sentante legale o volontario, né a chi è titolare di poteri di assistenza, soggetti che non patiscono degli effetti negativi di una sentenza sfavorevole (v. circolare Min. fin. 98/E del 1996) (30).

La ratio della norma in esame deve essere ricercata tra i principi basilari della giustizia secondo cui la “necessità di ricorrere al giudice non deve tornare a danno di chi ha ragione”, quindi è giusto che le spese di giudizio non siano a carico di chi è risultato nella controversia totalmente vittorioso.

Diversamente, la parte vittoriosa si vedrebbe riconosciuto un diritto non integro, ma ridotto in misura corrispondente alla diminuzione patrimoniale derivata dalle spese sostenute.

La soccombenza si determina in base all’esito obiettivo della lite, cioè al raffronto tra le domande ed eccezioni delle parti e il risultato del processo, e prescinde da una con-dotta colposa, non avendo il carico definitivo delle spese una finalità sanzionatoria (31).

Infatti, proporre una domanda al giudice, così come difendersi da essa, non è un atto illecito, ma l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.) pur quando alla fine risulti che chi ha agito o resistito aveva torto.

Se le parti soccombenti sono diverse, l’articolo 97 c.p.c. prevede che ciascuna di esse risponda in proporzione del rispettivo interesse nella causa, ma attribuisce al giudice la facoltà di pronunciare condanna solidale quando abbiano interesse comu-ne, stabilendo che, laddove la sentenza non statuisca sulla ripartizione, questa viene effettuata in quote uguali (32).

Creditore per il rimborso delle spese è la parte vittoriosa, ossia la parte alla quale è riconosciuta, anche parzialmente, la situazione giuridica dedotta in causa (come nel caso del ricorrente che vede accogliere il ricorso o dell’appellante che ottiene la rifor-ma della sentenza impugnata) oppure la parte nei confronti della quale è dichiarata

bia dato causa al processo ovvero abbia contribuito al suo protrarsi” (Cass. 13 gennaio 2015, n. 373).(30) Va tuttavia condannato alle spese il difensore privo di valida procura, in quanto l’attività

processuale è riferibile al medesimo e non alla parte falsamente rappresentata (Comm. trib. reg. Bologna, 20 settembre 2001, n. 152).

(31) Occorre altresì precisare che, ai fini della condanna alle spese del giudizio, la soccombenza non è frazionabile in rapporto alle diverse fasi del giudizio e quindi l’individuazione della parte soc-combente dev’essere operata in considerazione dell’esito finale della controversia, sulla base di una valutazione globale ed unitaria, senza che possa rilevare l’esito di una particolare fase processuale: potendosi pertanto condannare alle spese di tutte le fasi e gradi del giudizio, a seguito di una sen-tenza di rinvio pronunciata dalla Cassazione, anche la parte soccombente che, anteriormente a tale sentenza, era risultata vittoriosa in una fase di legittimità del processo medesimo (Cass. civ., sez. III, 25 marzo 2002, n. 4201).

(32) In caso di litisconsorzio ex art. 14 d.lgs. n. 546/1992, instauratosi a seguito di ricorso presen-tato da più ricorrenti (litisconsorzio originario) o di intervento o chiamata in causa (litisconsorzio successivo) o anche da riunione di procedimenti ex art. 29 d.lgs. 546/1992 (Cass. civ., sez. I, 8 gen-naio 2001, n. 197), la pluralità di parti può tradursi in pluralità di soccombenti. In ogni caso, colui il quale sia intervenuto in un procedimento fra altre parti facendo propria la posizione di uno dei contendenti ed assumendo attiva posizione di contrasto verso l’altro, resta soggetto al principio della soccombenza, al fine della regolamentazione delle spese, a prescindere da ogni questione sulla natu-ra, sul titolo o sulla legittimità dell’intervento.

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CAPITOLO VI 180

l’inesistenza di una situazione giuridica altrui anche se essa non abbia contestato in giudizio la pretesa avversaria o addirittura non si sia costituita (33).

La regola generale della soccombenza può essere derogata nelle ipotesi contemplate dal primo comma dell’articolo 92 c.p.c, il quale trova applicazione anche nel processo tributario, giusta il rinvio alle norme del codice di procedura civile operato dal se-condo comma dell’art. 1, d.lgs. 546/1992. Si precisa che, anche prima dell’intervento del legislatore, nonostante l’art. 15 d.lgs. 546/1992 richiamasse solo l’art. 92, comma 2 c.p.c., si riteneva applicabile anche il comma 1 proprio per il rinvio generale di cui all’art. 1, comma 2 su richiamato. A maggior ragione, avendo l’attuale formulazione dell’art. 15 espunto qualsiasi riferimento all’art. 92, si può senz’altro ritenere applicabile il comma 1 ma non il comma 2 in materia di compensazione delle spese.

La norma codicistica prevede che il giudice può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se ritenute eccessive o superflue.

Si ritengono superflue le spese non necessarie o inopportune rispetto al risultato da raggiungere (34); mentre sono da considerare eccessive le spese che riguardano atti processuali necessari o utili ma sproporzionate rispetto al risultato da raggiungere, in particolare in ordine agli onorari richiesti dai periti di parte, oppure esposti dal difensore.

Inoltre, indipendentemente dalla soccombenza, la Commissione può condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che la stessa abbia causato all’altra per trasgressione del dovere di lealtà e probità di cui all’articolo 88 c.p.c.

A tal fine rileva soltanto il comportamento lesivo tenuto nel corso del giudizio e non in un momento anteriore e tale circostanza rappresenta un’ipotesi in cui la responsa-bilità per le spese processuali, di natura fondamentalmente obiettiva, è determinata in relazione all’atteggiamento soggettivo della parte.

Un’ulteriore deroga al principio della soccombenza è stata recentemente introdotta dal d.lgs. 156/2015, che ha aggiunto all’art. 15 d.lgs. 546/1992 il comma 2-octies, ai sensi del quale “qualora una delle parti abbia formulato una proposta conciliativa, non accettata dall’altra parte senza giustificato motivo, restano a carico di quest’ultima le spese del processo ove il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata. Se è intervenuta conciliazione le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione”.

(33) In questa situazione si trova, ad esempio, l’ufficio finanziario o l’impugnante quando rispet-tivamente il ricorso o il gravame sono respinti, anche per motivi di rito. Nell’ipotesi di pluralità di parti vittoriose, per ciascuna di esse dovrà essere disposta separata liquidazione delle spese, essendo inammissibile al riguardo una determinazione cumulativa, a maggior ragione quando si siano avval-se di difensori diversi (Cass. civ., sez. II, 25 gennaio 1999, n. 663). In particolare, non si dubita che possa essere disposta, a carico del soccombente, la refusione delle spese a favore del terzo chiamato in giudizio (Cass. civ., sez. III, 17 maggio 2001, n. 6757), mentre si esclude a favore dell’estromesso.

(34) Con l’avvertenza che non può essere considerata superflua la stessa proposizione del ricorso e del processo per il solo fatto dell’assenza di ogni opposizione dell’Amministrazione finanziaria, sia perché la disposizione in esame si riferisce a singoli atti e non all’intero processo, sia perché l’impu-gnazione è necessaria per evitare che l’atto impositivo si consolidi, rendendo inattaccabile la pretesa tributaria (vd. GRasso, Della responsabilità delle parti, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da E. aLLoRio, Utet, 1973).

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LE SPESE NEL PROCESSO TRIBUTARIO 181

Tale modifica, introducendo nel processo tributario una sanzione processuale che evoca quella prevista dall’art. 91 c.p.c., ha lo scopo di spingere le parti ad avviare trattative serie per la definizione conciliativa della controversia ed evitare l’instaura-zione di un lungo processo al cui esito la parte ottenga ciò che fin dall’inizio l’altra si è dichiarata disposta ad offrire.

Tale previsione potrebbe trovare applicazione con riferimento ad un eventuale rifiuto di una proposta transattiva avanzata ai fini della conciliazione giudiziale e recepita nei medesimi termini dalla Commissione in sede di decisione.

O ancora nel caso di formulazione da parte della Commissione di una proposta conciliativa, rifiutata da una sola delle parti e recepita poi in sentenza.

Giova precisare che già prima della riforma operata dal d.lgs. 156/2015, si rite-neva applicabile al processo tributario, in virtù del generale rinvio operato dall’art. 1, comma 2, d.lgs. 546/1992, l’art. 91 c.p.c., ai sensi del quale il giudice, “se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92”.

Le disposizioni richiamate, senza dubbio accomunate dalla eadem ratio, presentano tuttavia significative differenze che, in attesa di future delucidazioni giurisprudenziali, sembra opportuno evidenziare.

Una prima differenza è rinvenibile nella stessa fattispecie contemplata. Infatti, in presenza del medesimo presupposto – la mancata accettazione, senza giustificato mo-tivo, della proposta conciliativa formulata da controparte –, la sanzione processuale prevista dal comma 2-octies dell’art. 15 d.lgs. 546/1992 troverà applicazione ove le pretese della parte vengano riconosciute in misura “inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata”; mentre per l’art. 91 c.p.c., sarà sufficiente che il giudice accolga la domanda “in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa”. La differenza, pertanto, consisterebbe nel fatto che, in caso di riconoscimento delle pretese della parte in misura pari al contenuto della proposta conciliativa rifiutata, nel processo civile troverebbe applicazione la sanzione ex art. 91 c.p.c., mentre in quello tributario non scatterebbe l’applicazione del nuovo comma 2-octies dell’art. 15.

Una seconda e più importante differenza concerne il contenuto delle sanzioni processuali in oggetto. Infatti, mentre la norma processual-civilistica prevede un vero e proprio provvedimento di condanna alle “spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta” e “salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92”, quella processual-tributaria sancisce che “restano a carico di quest’ultima le spese del processo”. A ben vedere, la differenza è duplice: infatti, nel processo civile la parte sarà tenuta a rifondere a controparte le spese processuali sostenute successivamente alla (e a causa della) mancata accettazione della proposta conciliativa, e salvo – per espressa previsione normativa – che ricorra una delle ipotesi previste dal secondo comma dell’art. 92 c.p.c. (onde il giudice potrà compensare tali spese tra le parti, con valutazione autonoma rispetto a quella concernente le spese della lite che seguirà il normale criterio della soccombenza totale o reciproca, ex artt. 91, comma 1, e 92, comma 2, c.p.c.); nel processo tributario, invece, la conseguenza cui andrà incontro la parte che rifiuti la proposta conciliativa senza giustificato motivo, sarà di vedersi defi-

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CAPITOLO VI 182

nitivamente addossato il peso delle spese processuali dalla stessa anticipate e relative all’intero processo. Pertanto, se da un lato la parte non dovrà rifondere a controparte le spese processuali sostenute successivamente alla (e a causa della) mancata accet-tazione della proposta conciliativa (salvo, naturalmente, che la rifusione di tali spese consegua all’applicazione del criterio della soccombenza ex art. 15, comma 1, d.lgs. 546/1992, in relazione all’esito complessivo del giudizio), dall’altro resteranno a suo carico le spese dell’intero processo (non soltanto quelle successive al rifiuto della pro-posta conciliativa), e ciò, si badi bene, in deroga alla stessa operatività del richiamato criterio della soccombenza. Inoltre, stante il mancato richiamo del comma 2, sem-brerebbe che la sanzione processuale in oggetto debba conseguire obbligatoriamente al verificarsi della fattispecie descritta, non potendo invocarsi le “gravi ed eccezionali ragioni” a giustificazione della mancata accettazione della proposta conciliativa.

Alla luce delle considerazioni che precedono, sembra possa concludersi che la disci-plina prevista dal nuovo comma 2-octies dell’art. 15, d.lgs. 546/1992, sia improntata da un rigore ancora maggiore di quello sotteso alla legge di riforma del c.p.c. n. 69/2009, nell’intento di determinare le parti alla definizione conciliativa delle controversie tribu-tarie. Infatti, a fronte della “minaccia” – in sede civile – di dover rifondere a controparte le spese processuali successive al rifiuto ingiustificato della proposta ricevuta, ferma restando, per il resto, la piena operatività del criterio della soccombenza, in sede di contenzioso tributario la parte dovrà valutare ancor più accuratamente l’eventuale proposta conciliativa, pena il vedersi definitivamente addossato il peso delle spese processuali sostenute per l’intero processo, anche in caso di accoglimento totale delle proprie pretese, sebbene in misura inferiore al contenuto della proposta rifiutata.

1.2.1. L’estinzione del giudizio e la soccombenza virtuale

Tomo II VI, 1.2.1

Il decreto sul contenzioso tributario contiene una serie di norme specifiche volte a disciplinare la ripartizione delle spese al verificarsi di determinate vicende del processo che ne determinano l’estinzione.

L’estinzione del giudizio dinnanzi alle Commissioni tributarie si verifica in tre ipotesi previste espressamente dal legislatore tributario: per rinuncia al ri-corso, ex art. 44, d.lgs. n. 546/1992; per inattività delle parti, ai sensi dell’art. 45 dello stesso decreto; per cessazione della materia del contendere, ai sensi del successivo art. 46.

Nel caso di rinuncia al ricorso, il ricorrente è tenuto a rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra le stesse (art. 44, comma 2); mentre nell’ipotesi di inattività delle parti, le spese restano a carico delle parti che le hanno anticipate.

Laddove infine, sia dichiarata la cessazione della materia del contendere, l’art. 46, comma 3, come recentemente modificato dall’art. 9 del d.lgs. 156/2015, prevede che “nei casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge le spese del giudizio estinto restano a carico della parte che le ha anticipate”.

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LE SPESE NEL PROCESSO TRIBUTARIO 183

Si precisa che la modifica del legislatore si è resa necessaria in quanto l’art. 46 comma 3 nella precedente formulazione “le spese del giudizio estinto restano a carico della parte che le ha anticipate” è stata dichiarata incostituzionale con sentenza n. 274 del 2005. Infatti, a differenza di quanto avviene nel processo civile – ove l’estinzione del giudizio per intervenuta cessazione della materia del contendere implica che la pronuncia relativamente al regolamento delle spese processuali sia decisa secondo il principio della soccombenza virtuale ovverosia stimando le probabilità normali di accoglimento della domanda in base ad apposita indagine sommaria, volta alla delibazione del merito – il legislatore tributario aveva espressamente disposto che l’estinzione del processo davanti alle Commissioni quando dipesa da cessata materia del contendere (art. 46), importava che le spese del giudizio estinto restassero a carico delle parti che le avevano anticipate.

Pertanto, la Corte Cost. con sentenza n. 274/2005 aveva dichiarato costituzional-mente illegittimo l’art. 46, comma 3 d.lgs. 546/1992, nella parte in cui si riferiva alle ipotesi di cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge, atteso che tale previsione della compensazio-ne ope legis delle spese nel caso di cessazione della materia del contendere rendeva inoperante il principio di responsabilità delle spese del giudizio, e si traduceva in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento di regola determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui ragioni e, corrispon-dentemente, in un ingiustificato pregiudizio per la controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi dell’assistenza tecnica di un difensore.

In aderenza, dunque, alla suddetta sentenza della Consulta, il legislatore della ri-forma ha modificato il comma 3 dell’art. 46 prevedendo, appunto, che solo nei casi di definizione delle pendenze tributarie le spese del giudizio rimangono a carico di chi le ha anticipate. Deve, però, aggiungersi che anche prima di tale intervento legislati-vo del 2015, il giudice tributario, uniformandosi alla sentenza della Consulta, aveva rivalutato la possibilità di condannare alle spese l’Amministrazione anche nel caso di annullamento dell’atto impugnato in autotutela (35).

La stessa Corte di Cassazione (36) aveva poi evidenziato come la pronuncia della Corte Costituzionale avesse legittimato, a posteriori, l’operato di una Commissione tributaria regionale, la quale, dopo aver dichiarato la cessazione della materia del contendere, a seguito dell’intervenuto annullamento d’ufficio dell’atto impugnato, aveva condannato alle spese l’Amministrazione.

(35) Cfr. Cass. n. 373 del 13 gennaio 2015.(36) Cass. civ., 4 ottobre 2006, n. 21380.

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CAPITOLO VI 184

1.3. La compensazione

Tomo II VI, 1.3

Sebbene l’articolo 15 d.lgs. n. 546/1992, in armonia con l’articolo 91 c.p.c., ponga la regola generale della condanna della parte soccombente alle spese del giudizio, nella prassi delle Commissioni tributarie è invalsa la tendenza a ricorrere frequentemente all’istituto della compensazione totale o parziale dei costi del processo che ha portato il legislatore del 2015 a modificare il suddetto art. 15.

Infatti, prima della riforma, nell’articolo 15 si leggeva che “La Commissione tribu-taria può dichiarare compensate in tutto o in parte le spese, a norma dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile”; adesso, invece, il nuovo comma 2 dell’art. 15 d.lgs. 546/1992, stabilisce che “le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla Commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qua-lora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate”.

A ben vedere, l’attuale formulazione dell’art. 15 richiama pedissequamente la precedente formulazione dell’art. 92, comma 2 c.p.c. prima della modifica del d.l. 132/2014, convertito in l. 162/2014. Pertanto, sarebbe stato opportuno lasciare il rinvio all’art. 92, comma 2 atteso che la nuova formulazione dell’art. 92, comma 2 c.p.c. risulta senz’altro maggiormente rigorosa rispetto a quella precedente ricopiata nel nuovo comma 2 dell’art. 15. Infatti, l’attuale art. 92, comma 2 c.p.c. ammette la compensazione solo “nel caso di soccombenza reciproca o nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni diri-menti”, l’art. 15, invece, come il precedente art. 92, comma 2, richiama una formula priva di contenuto ovvero quella delle “gravi ed eccezionali ragioni” che continuerà a lasciare spazio di manovra ai giudici per compensare le spese soprattutto quando la parte vittoriosa è il contribuente. Per cui, di fatto, tale modifica del legislatore, che ha eliminato il richiamo all’art. 92, comma 2 c.p.c. ma ne ha di fatto ricopiato il contenuto previsto fino al 2014, ha reso immutata la disciplina della compensazione delle spese e ha impedito l’applicazione del regime più severo disposto dall’attuale art. 92, comma 2 c.p.c. (come modificato dal d.l. 132/2014, convertito in l. 162/2014). In definitiva, con la compensazione le spese anticipate rimangono definitivamente, in tutto o in parte, a carico della parte che le ha anticipatamente sostenute per l’avvio e la prosecuzione del processo.

Si ha una compensazione parziale qualora il giudice ritenga di liquidare ad una delle parti solo una quota delle spese anticipate, riducendole così globalmente di una data percentuale; si avrà invece una compensazione totale quando il giudice non disponga alcuna condanna alle spese, le quali graveranno così definitivamente sulle parti che le hanno anticipate.

La compensazione totale deve essere disposta in maniera espressa, atteso che in caso di mancata statuizione sulle spese non si può presumere tacitamente disposta la compensazione, con l’effetto che la sentenza è sul punto affetta da vizio di omessa pronuncia, non emendabile tramite procedimento di correzione.

La Commissione tributaria può dichiarare la compensazione delle spese del processo qualora sussista la soccombenza reciproca o ricorrano altre gravi ed

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LE SPESE NEL PROCESSO TRIBUTARIO 185

eccezionali ragioni. Si tratta di una decisione rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, sebbene temperata dall’obbligo di motivazione espressa e sindacabile in sede di impugnazione della sentenza, anche limitatamente al punto che ha statuito sulle spese.

Tuttavia, la giurisprudenza, ed in particolare quella di legittimità, al fine di sottrar-re la compensazione al mero arbitrio del giudicante ha individuato delle ipotesi di giusti motivi di compensazione che potrebbero validamente supportare la decisione della Commissione in merito all’applicazione della soluzione residuale di cui trattasi.

Il presupposto della soccombenza reciproca può configurarsi nei casi in cui ad esempio: a) vengano rigettate alcune delle domande proposte dalla medesima parte, circostanza che può verificarsi allorché il medesimo atto includa più contestazioni in ordine a diverse imposte (ad es. Irpef e Ilor), non invece quando la domanda vie-ne integralmente accolta, anche se sono stati respinti alcuni motivi di ricorso; b) la Commissione determini un quantum, a titolo di tributo, o di rimborso, intermedio rispetto alle prospettazioni offerte dalle parti; c) siano riformati solo taluni capi di sentenza tra quelli impugnati, o vengano accolti sia motivi contenuti nell’impugna-zione principale, sia motivi contenuti in quella incidentale.

A parte il presupposto logico della soccombenza reciproca, potrebbero costituire gravi ed eccezionali ragioni per disporre la compensazione (37): la natura controversa e dubbia della vertenza; la complessità, la novità e la controvertibilità delle questioni trattate; la mancanza di un consolidato orientamento giurisprudenziale; la condotta processuale o extraprocessuale delle parti; quando l’esito della lite in tutto o in parte sia stato determinato dallo ius superveniens o dalla dichiarazione di incostituzionalità di una norma in pendenza del processo; il fatto che la causa verta su leggi recenti o di difficile interpretazione; l’obiettiva difficoltà della causa; ragioni di natura morale o talora anche di semplice solidarietà sociale.

Ed ancora: accoglimento di un’istanza che rappresenta la prima parte di quanto richiesto nel ricorso introduttivo; presentazione tardiva di documenti da parte dell’ap-pellante, contumace in primo grado; accoglimento del ricorso per motivi meramente formali (decadenza, incompetenza, ecc.); rinuncia ad alcune parti del ricorso; buona fede della parte soccombente.

Il valore della causa – modesto o rilevante che sia – non può costituire parametro di riferimento equo, ragionevole e sufficiente a giustificare la compensazione delle spese di giudizio, nel quale, invece, l’importanza della materia del contendere è data dalla complessità e difficoltà delle questioni giuridiche implicate.

Diversamente opinando l’interesse ad agire in giudizio da parte del soggetto econo-micamente debole sarebbe condizionato, se non addirittura sacrificato, dalla capacità o meno di far fronte comunque – anche in caso di vittoria – al pagamento delle proprie spese processuali, in palese violazione dei fondamentali diritti costituzionalmente riconosciuti ad ogni cittadino (38).

Il legislatore della riforma ha inteso relegare la compensazione delle spese ad eccezione marginale della regola della soccombenza, in quanto il giudice dovrà moti-

(37) U. MiGnosi, Le spese di lite nel processo tributario, cit., pag. 209.(38) Comm. trib. reg. Bari, sez. XIV, 29 gennaio 2010, n. 8.

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vare l’eccezionalità che designa una probabilità remota e la gravità che evidenzia una ragione particolarmente seria (39).

Tuttavia, a parere di chi scrive, con il nuovo comma 2 dell’art. 15 non è stata per-seguita la ratio della riforma ovvero quella di valorizzare l’istituto della condanna alle spese in quanto è stato eliminato il richiamo all’art. 92, comma 2 c.p.c., che nell’attuale formulazione prevede davvero come eccezionale (solo per novità della questione trat-tata o mutamento giurisprudenziale) la compensazione delle spese, ed è stato inserito il vecchio disposto dell’art. 92, comma 2 (come modificato dalla l. 69/2009), che era praticamente quello che già si applicava al processo tributario a far data dal 2009. Pertanto, si può senza dubbio affermare che nel periodo che va dall’11 novembre 2014 (data di entrata in vigore della nuova e più rigorosa formulazione dell’art. 92, comma 2 c.p.c.) all’1 gennaio 2016 (data di entrata in vigore del nuovo art. 15, comma 2 d.lgs. 546/1992 che ricopia la precedente formulazione dell’art. 92, comma 2) il regime della compensazione delle spese nel processo tributario era maggiormente “eccezionale”.

In ogni caso, la compensazione delle spese deve sempre figurare nella sentenza, nel senso che non potrà considerarsi tacita o implicita: la sua omissione o anche l’omessa indicazione della motivazione può essere motivo di impugnazione per vizio di forma.

Infine, applicando l’ultimo periodo del comma 2-octies dell’art. 15 d.lgs. 546/1992, se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.

1.4. La condanna alle spese per lite temeraria

Tomo II VI, 1.4

Ferma restando la natura obiettiva ed accessoria della responsabilità per le spese processuali, in sede di allocazione dei costi l’atteggiamento soggettivo delle parti vien preso in considerazione non soltanto quale giusto motivo per disporre la compensazione totale o parziale delle spese ai sensi del primo comma del sopra esaminato articolo 92 c.p.c., ma anche con riferimento alla fattispecie della lite temeraria disciplinata dall’articolo 96 c.p.c. applicabile al processo tributario per espresso richiamo effettuato nel nuovo comma 2-bis dell’art. 15 d.lgs. 546/1992 introdotto dal d.lgs. 156/2015. Invero, alla colpa grave o allo spirito di malafede del litigante può essere dato peso dal giudice tributario in vista di un aggravamento della responsabilità della parte in relazione allo svolgimento e alle spese del processo.

Secondo l’articolo 96 c.p.c., rubricato “responsabilità aggravata”, l’abuso processuale ricorre quando “risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave”; in tal caso, la parte soccombente è condannata, oltre che alla refu-sione delle spese processuali, anche al risarcimento del danno subito dalla controparte.

(39) e. soLLini, Consulenza tecnica e giudice tributario alla luce della l. n. 69/2009, in Il fisco, n. 4/2010, fasc. 1, 533.

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Analizzando tale previsione, la responsabilità per lite temeraria sussiste in presenza dei seguenti elementi: a) un presupposto oggettivo rappresentato dalla completa soc-combenza di una parte; b) una condizione soggettiva riferita alla parte soccombente, la quale deve aver tenuto una condotta connotata da male fede o colpa grave; c) l’aver tenuto, inoltre, una condotta tale da aver provocato, quale conseguenza diretta ed immediata, un pregiudizio alla controparte (40).

I due elementi psicologici alternativi sopra richiamati concorrono a definire il concetto di temerarietà, la quale ricorre ove la parte agisca o resista in giudizio senza la normale diligenza che consentirebbe di avvertire l’ingiustizia o l’infondatezza della domanda ovvero addirittura per fini estranei a quelli istituzionali del processo (41).

Tale condotta deve, inoltre, costituire causa diretta ed immediata di un danno alla parte vittoriosa, la quale, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, è onerata a richiedere il risarcimento e a dimostrare la concreta ed effettiva esistenza del pregiudizio in conseguenza del comportamento processuale della controparte.

Il comma 2 dell’articolo 96, c.p.c. riguarda, invece, l’esecuzione di provvedimenti latu sensu cautelari o esecutivi. In tali casi la responsabilità aggravata presuppone: a) l’accertata inesistenza del diritto in base al quale si è agito, ravvisabile anche nel caso di notevole sproporzione tra quantum accertato e quello per cui sono state sollecitate le misure attuate; b) il difetto dell’ordinaria prudenza (42).

Infine, l’art. 45, comma 12 della legge n. 69/2009 ha aggiunto all’articolo 96 il comma 3, prevedendo una norma di chiusura della materia, in base alla quale il giudice, ogni qualvolta provvede sulle spese, può sempre, anche d’ufficio, “condannare la parte soccom-bente al pagamento a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Con il nuovo terzo comma dell’articolo 96 c.p.c., a prescindere dalla prova del danno, al giudice è affidato il compito di valutare in termini equitativi la liquidazione di un risarcimento del danno a favore della parte vittoriosa desumendo il pregiudizio sofferto dagli atti e dai comportamenti di causa (43).

(40) In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato alcuni criteri per il riconoscimento della temerarietà della lite, affermando che “oltre alla soccombenza totale e non parziale, la con-danna per responsabilità aggravata postula che l’istante deduca e dimostri la concreta ed effettiva esistenza di un danno in conseguenza del comportamento processuale della controparte, nonché la ricorrenza, in detto comportamento, del dolo o della colpa grave” (Cass. 5 marzo 2015, n. 4443).

(41) In particolare, per “mala fede processuale” s’intende la consapevolezza del proprio torto ossia la coscienza dell’infondatezza della domanda e dell’eccezione o ancora l’intenzione di agire slealmente abusando del proprio diritto. La colpa grave ricorre invece quando il soccombente abbia omesso quel minimo di diligenza che gli avrebbe consentito di avvedersi dell’infondatezza della propria pretesa o di prevedere e quindi valutare le conseguenze dei propri atti. È esclusa la mera opinabilità del diritto fatto valere.

(42) Con riferimento alla prima condizione, il difetto del solo periculum in mora non fa scattare la responsabilità in esame, salvo valutare se ricorrono gli estremi della responsabilità di cui al comma 1 dell’articolo 96 c.p.c.; mentre, l’elemento psicologico richiesto è meno grave rispetto a quello previsto nel primo comma dell’articolo 96, essendo identificabile nella colpa anche lieve.

(43) Dalla lettera della norma non si evince né un limite massimo alla condanna, né la necessaria valutazione circa la colpa grave o la mala fede nell’aver proposto la domanda giudiziale o nell’aver-vi resistito. Tuttavia, essendo la nuova previsione inserita nell’articolo relativo alla responsabilità aggravata, la mala fede o la colpa grave o altro elemento psicologico devono ritenersi presupposto