CAPITOLO 5 – IL DE VULGARI ELOQUENTIA

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CAPITOLO 5 – IL DE VULGARI ELOQUENTIA E’ un trattato scritto in latino, ideato e composto nei primi anni dell'esilio (1303-1304), contemporaneo o di poco anteriore alla stesura del primo libro del Convivio, dove sotto un altro punto di vista, ma con evidente analogia di concetti, si affronta lo stesso problema della lingua e dell'arte in volgare. Nella lucida concisione di un pensiero, che vi si organizza dialetticamente su se stesso con logica e stringente necessità, e negli atteggiamenti stilistici, che assecondano con pause o clausole ritmiche ("cursus") il giro del periodo e l'animato tono della discussione, il trattato si rivela come il frutto di una salda cultura scolastica e dettatoria. Il fine didattico a cui s'ispira lo colloca nel solco della retorica tradizionale ("eloquentia", "arte del dire"); ed era, nelle intenzioni di Dante, indirizzato esclusivamente ai rimatori forniti di cultura e d'ingegno, perché nelle loro composizioni non procedessero "casualiter", con pieno abbandono all'onda della loro ispirazione, ma la dominassero "regulariter", con magistero d'arte, padroneggiando nel tempo stesso la materia e il reale. Dante concepì la sua opera come sintesi e somma di tutte le varie esperienze di lingua e di stile, in prosa e De vulgari eloquentia 33

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CAPITOLO 5 – IL DE VULGARI ELOQUENTIA

E’ un trattato scritto in latino, ideato e composto nei primi anni dell'esilio (1303-

1304), contemporaneo o di poco anteriore alla stesura del primo libro del Convivio, dove

sotto un altro punto di vista, ma con evidente analogia di concetti, si affronta lo stesso

problema della lingua e dell'arte in volgare. Nella lucida concisione di un pensiero, che vi

si organizza dialetticamente su se stesso con logica e stringente necessità, e negli

atteggiamenti stilistici, che assecondano con pause o clausole ritmiche ("cursus") il giro

del periodo e l'animato tono della discussione, il trattato si rivela come il frutto di una

salda cultura scolastica e dettatoria. Il fine didattico a cui s'ispira lo colloca nel solco della

retorica tradizionale ("eloquentia", "arte del dire"); ed era, nelle intenzioni di Dante,

indirizzato esclusivamente ai rimatori forniti di cultura e d'ingegno, perché nelle loro

composizioni non procedessero "casualiter", con pieno abbandono all'onda della loro

ispirazione, ma la dominassero "regulariter", con magistero d'arte, padroneggiando nel

tempo stesso la materia e il reale.

Dante concepì la sua opera come sintesi e somma di tutte le varie esperienze di

lingua e di stile, in prosa e in verso, attraverso le quali era passata la sua arte; qui

giustificata in se stessa nel suo valore formale ed espressivo: dichiarata e illustrata entro

lo svolgimento storico della lingua e della cultura letteraria italiana. Purtroppo il trattato,

incominciato con bell'impeto dimostrativo, rimase bruscamente interrotto a mezzo il

capitolo decimo quarto del libro secondo, proprio quando l'insegnamento dell'espressione

d'arte in volgare ("doctrina vulgaris eloquentiae") cominciava a disnodarsi e a concretarsi

con dovizia di argomentazioni e di esempi. Così come ci è pervenuta, l'opera ci nega la

possibilità di fissarne con esattezza la particolare fisionomia e di determinare quanto

manca alla sua compiutezza, pur sapendo per espliciti rimandi (II, IV, 1; XIII, 8) ch'essa

si sarebbe per lo meno estesa a un quarto libro. La prima pubblicazione a stampa è quella

curata da Jacopo Corbinelli a Parigi nel 1577.

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La materia o "subiectum" che Dante pone a fondamento della sua trattazione è la

"locutio vulgaris"; il linguaggio umano inteso nella sua universalità, come mezzo di

espressione e di comunicazione da uomo a uomo; "naturalis", in quanto risponde ai fini

immanenti alla natura umana ordinata essenzialmente alla vita sociale o politica, ma

opera dello spirito e della libertà, che s'aggiunge allo sforzo della natura e la continua

nella sua stessa linea. Accanto alla "locutio vulgaris" si pone, ma non sempre, una

"locutio secundaria potius artificialis": il linguaggio della cultura, espressione di una

determinata civiltà, come svolgimento propriamente umano e principalmente

intellettuale, morale (pratico e artistico) e spirituale, nella più generica accezione della

parola. Questo linguaggio della cultura si dice anche "grammatica", come forma

linguistica ideale che si conquista con lungo addestramento e assiduo studio,

imponendosi come norma a coloro che, nella vivente realtà del linguaggio, prendono

coscienza del suo valore espressivo. A dar sostanza di verità a questi due concetti

("locutio vulgaris" e "locutio secundaria") Dante procede con ragionata dimostrazione

che occupa tutto il primo libro e ne dichiara il carattere specifico di introduzione

generale. Il linguaggio, come attività spirituale che presuppone il pensiero, è necessario

soltanto all'uomo; non agli angeli, che nella loro beatitudine celeste possiedono una

reciproca intuizione dei loro pensieri; non ai bruti, che sono guidati dall'istinto. Solo

l'uomo, che è un composto di anima e di corpo, ha bisogno della parola: un "signum"

intellettuale e sensibile a un tempo, di cui si serve per far presente agli altri il proprio

verbo interiore ("ratio") e risvegliare negli altri la stessa attività del pensiero; in modo

che colui che ascolta pensi ciò che pensa l'intelligenza di colui che parla. Animale

naturalmente socievole, l'uomo tende a manifestarsi mettendo in luce la sua persona

morale con quell'attività del pensiero ("forma locutionis") che fu concreata con l'anima

prima. Ond'è ragionevole supporre che Adamo, creato in istato di grazia, sia stato il

primo parlante, manifestando con la parola la sua gioia e la sua gratitudine verso Dio

creatore.

Di questa stessa attività di pensiero, che fu un dono gratuito di Dio e per la quale

il primo parlante si rivelò spontaneamente come persona rilegata a Dio per amore, si

servirono i discendenti di Adamo fino a Cristo, perché il linguaggio della grazia era pure

il linguaggio umano del figlio di Dio. L'idioma che Adamo si foggiò con le sue labbra si

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storicizzò nella lingua del popolo ebraico: fu l'ebraico. Ma quel naturale orgoglio che fece

gli uomini ribelli a Dio al tempo della torre di Babele, infranse l'unità spirituale della

prima famiglia umana. I vari gruppi dei costruttori della torre, volti appassionatamente ai

loro fini particolari e soggettivi, non s'intesero più tra loro. Così la primitiva "forma

locutionis" propria della persona morale si continuò soltanto nel popolo eletto, mentre,

accanto a essa, sorsero altre "formae locutionis" nate dall'orgoglio e dall'egoismo. Esse

originarono nuovi idiomi, come espressione comune delle singole comunità sociali che si

costituirono vitalmente per opera della ragione. Queste comunità si dispersero in varie

direzioni per tutta la terra; e quella che si diffuse in Europa portò con sé un unico idioma,

presentemente differenziato in triplice varietà ("tripharium"): a nord il germanico, con i

suoi molteplici volgari; a sud-est il greco; a mezzogiorno un terzo idioma, che a sua volta

si differenzia nei tre volgari d'"oc" d'"oil" e di "sì". Quest'ultimo "idioma tripharium" non

può essersi costituito al tempo della confusione babelica delle lingue, opponendosi a tale

ipotesi la convenienza di molte voci nei tre volgari che lo differenziano: convenienza da

cui si deduce un'anteriore unità. Se poi osserviamo il volgare di "sì", eccolo differenziato

in altri volgari particolari.

Il linguaggio umano - eccetto quello che fu concreato con l'anima del primo

parlante - si ricostituì dunque come mezzo di comunicazione da uomo a uomo dopo la

confusione delle lingue, e poiché l'uomo è un animale estremamente instabile e mutevole,

il suo linguaggio, in quanto effetto della libera attività dello spirito, continuamente si

trasforma e si differenzia per lontananza di tempi e di luoghi, come nel tempo e nello

spazio si differenziano e si trasformano usi e costumi. Per ovviare a tale instabilità

sorsero coloro che determinarono le forme in cui artisticamente si realizza l'espressione

("inventores gramaticae facultatis"), non essendo la grammatica che una "certa identità

di linguaggio inalterabile attraverso a tempi e luoghi diversi". Un linguaggio letterario o

"secondario" nelle cui forme espressive concorda, come libera attività dello spirito che

crea, una vasta comunità di parlanti, opponendosi all'arbitrio individuale. Questo

linguaggio permette agli uomini di intendersi tra di loro anche se di regioni diverse, e di

tramandare il loro pensiero ai discendenti più lontani. Chiarito in tal modo il concetto di

linguaggio, nella sua universalità di natura e di lingua letteraria o "grammatica", le cui

forme ideali, nella vivente realtà del linguaggio, coincidono con le forme storiche, Dante

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passa a paragonare tra loro le tre lingue letterarie (francese, provenzale e italiano) nate in

seno al triforme idioma dell'Europa meridionale.

Egli rileva subito che una certa preminenza pare arrogarsi la lingua letteraria

italiana, per il fatto che i codificatori dell'uso ("gramaticae positores") hanno preso "sic"

come avverbio di affermazione. Tuttavia egli riconosce alla lingua d'"oil", in virtù della

sua facile e piacevole diffusione, il vanto della prosa narrativa e didattica; a quella d'"oc",

come più dolce e più perfetta, il merito di aver servito ai primi poeti in volgare; e a quella

di "sì" un duplice pregio: primo, perché coloro che presero coscienza del suo valore e

l'ebbero cara, poetarono con dolcezza d'accenti e con nobiltà di pensiero, come Cino da

Pistoia e il suo amico (Dante); secondo, perché mostra d'appoggiarsi maggiormente alla

lingua letteraria ("gramatica") che è comune: cioè al latino, che sovrasta alle tre lingue

volgari. Con questi due criteri, che sono d'arte e di maggiore aderenza delle forme

espressive volgari alle forme letterarie del latino, Dante passa in rassegna, paragonandole

tra loro, le varietà dialettali del volgare italico ("vulgare latium"), individuandole

ciascuna entro i limiti segnati dalla geografia e dalla storia.

Sono quattordici le varietà principali; e queste si differenziano in varietà

secondarie; e ognuna di esse in ulteriori varietà, sì che a volerle annoverare si

supererebbe il migliaio. In mezzo a tanta varietà di parlate regionali, municipali e locali,

Dante si pone in cerca di una lingua che risponda, in se stessa, alle esigenze di una lingua

letteraria che sia veramente italiana ("decentiorem atque illustrem Italiae loquelam"). Ed

è qui che si rivela lo spirito informatore del trattato: lo spirito di Dante, nel volgare

italico, come egli stesso afferma nel Convivio (I, XIII, 4 sgg.), sente vibrare la vita della

sua anima, profondamente radicata nella vita della sua nazione, e perciò nella storia dello

spirito italiano. Sotto questa luce e in armonia con i due criteri prima fissati, di stile e di

lingua, Dante esamina i singoli dialetti italiani nell'immediatezza delle loro espressioni

concrete e nella particolarità delle loro pronunzie; e li condanna tutti, riconoscendo però

che alla lingua letteraria d'Italia si sono avvicinati quanti si risollevarono dal linguaggio

regionale o municipale. In primo luogo i poeti della Corte di Federigo II e di Manfredi, i

due principi che favorirono quanto nelle cose umane è opera della ragione e delle virtù;

onde ciò che di meglio compirono allora gli italiani uscì dalla loro Corte; e poiché il loro

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titolo era di re di Sicilia, si disse siciliana la prima produzione lirica nata nella penisola

italiana.

La perfezione artistica nelle proprie singole parlate Dante la riconosce ai toscani:

Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, "un altro" (se stesso) e Cino da Pistoia; ai bolognesi

Guido Guinizelli, Guido Ghisilieri, Fabruzzo e Onesto; ai faentini Tommaso e Ugolino

Bucciola e a Ildebrandino da Padova. Quanto ai dialetti settentrionali di confine, Dante

nega che possano assurgere al vero parlare italiano ("vere latium"), a causa della loro

contiguità a parlate straniere. Poiché ciò che Dante cerca è un linguaggio letterario che

sia, in se stesso, spiritualmente italiano ("latium illustre"); il quale c'è, esiste, dando

sentore della sua presenza in ogni città d'Italia, senza essere di nessuna.

Italianità del linguaggio, la quale è un "unum in multis", qualcosa che non si può

cogliere nella sua essenza semplicissima se non trascendentalmente, attraverso le sue

manifestazioni concrete, come segni esteriori che ne dichiarano l'esistenza. Italianità che

si rivela nei costumi, nelle disposizioni naturali e nel linguaggio di tutti gli italiani,

costituendo in se stessa l'essenza propria di quel volgare "illustre, cardinale, aulico e

curiale", sul quale si misurano, si pesano e si paragonano i vari volgari municipali d'Italia.

In ordine alla sua essenza (il "quid"), questo volgare deve dirsi "illustre", perché,

sublimato dall'arte, si illumina e illumina: cioè si mette in luce nelle sue proprie capacità

espressive dominando gli animi, mentre dà luce di gloria a coloro che lo coltivano e se ne

servono. Ne sono esempi Cino da Pistoia e l'amico suo (Dante). In ordine alle sue

operazioni, tale volgare deve dirsi "cardinale", in quanto agisce da cardine; ossia, con le

sue proprie virtù, da vero "pater familias", trae i dialetti municipali dal loro stato di

selvatichezza o incultura e li solleva a una sfera superiore di cultura, che è appunto la

"civilitas" italiana. E poiché tale linguaggio è manifestazione di "civilitas", che è "forma

rationis", deve ancora definirsi "aulico" e "curiale". E cioè: "colto o civile", come è il

linguaggio della Corte ("aula"), che è la casa comune del regno e la governatrice augusta

di tutte le sue parti. E "curiale", perché l'esprimersi civilmente è un dovere che scaturisce

dal seno stesso della "civilitas", che è vita di ragione e di virtù: un dovere morale, che le

"curie" sanzionano come equilibrata norma di agire ("curialitas") e che in Italia è dettato

dalla sua curia più alta. È vero che in Italia non c'è, come in Germania, una curia unificata

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da un solo principe; ma ce ne sono le membra, le quali sono unificate dal lume della

ragione naturale, che è un dono gratuito di Dio.

Questa ragione naturale, a cui Dante allude, è quella che opera vitalmente nelle

cose umane, stringendo tra loro gli uomini in organismi sociali sempre più vasti e

complessi, dalla "domus" alla "civitas", dal "regnum" all'"imperium" (Convivio, IV, 4;

Monarchia, I, 5). Il volgare che è di tutta l'Italia, e nel quale poetarono maestri illustri di

distinte regioni, è il "vulgare latium": il linguaggio della "civilitas" italiana; il "volgare

italico", che Dante esalta nel Convivio (I, VII, 5) in quanto per esso si sente unito, in una

vita che è di storia, di usanze e di costumi, "con li parenti e con li proprii cittadini e con la

propria gente". Fissati i caratteri del volgare illustre, Dante passa, nel secondo libro, a

farlo oggetto della sua arte del dire ("eloquentia"). Il volgare illustre, che si può usare

tanto in prosa quanto in verso, esige uomini che concordino con lui per similitudine di

natura ed eccellano perciò per ingegno e dottrina.

Questa conformità ("convenientia") si richiede ancora circa gli argomenti da

trattarsi; i quali non possono essere se non il massimo e l'ottimo secondo la triplice natura

dell'uomo (vegetativa, sensitiva e razionale) ordinata a un triplice fine: utile, dilettevole e

onesto; e cioè: "salus, venus et virtus", prodezza d'armi, gaudio d'amore, rettitudine della

volontà ("drittura"). Tre motivi poetici, nel primo dei quali si distinse Bertrand de Born,

nel secondo eccelsero Arnaldo Daniello e Cino da Pistoia, e, nel terzo, Giraut de Borneil

e Dante. Tra le forme metriche consuete, canzone, ballata e sonetto, soltanto la prima si

conviene al volgare illustre, perché propria dello stile più elevato o tragico; mentre le

altre due s'addicono allo stile mediano o comico; al di sotto del quale è lo stile umile o

elegiaco. Distinzione di stili sanzionata dai retori antichi, ma legata medievalmente a tre

forme letterarie, che sono poi tre atteggiamenti della coscienza estetica. Poiché la poesia

è "invenzione o creazione fantastica espressa in versi con bello stile e arte musicale", la

canzone, che è la forma lirica più nobile, non deve essere composta "a caso". Essa deve

esemplarsi sul modello dei grandi poeti latini, "regulares", poiché "i grandi hanno

poetato con lingua e arte regolare". Ideale dantesco di una poesia in volgare "italico", che

si sollevi alle altezze della poesia classica, imitandola in ciò che è il suo principio

interiore ("forma"); cioè ricreando in noi stessi l'attività del poeta creatore, mentre

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tendeva alla bellezza dell'opera come fine in sé e "supremo" ("lo bello stile che m'ha fatto

onore").

Ma a fare ciò occorrono, egli dice, ispirazione naturale, fervido ingegno, lungo

esercizio d'arte come regolazione impressa nella materia, e immediata intuizione sul da

farsi "scientia" nell'ordine operativo: e perciò "abito" o virtù dell'intelligenza, che è

propriamente la virtù d'arte. Dopo aver così dichiarato la sua poetica, Dante passa a

trattare dell'endecasillabo come il verso che meglio conviene alla canzone per la durata

ritmica e le possibilità che offre al pensiero, alla costruzione della frase e alla scelta dei

vocaboli. Se associato al settenario, e purché lo subordini a sé, l'endecasillabo acquista

rilievo e vigore. In relazione allo stile tragico Dante fissa non solo il tipo e il carattere

della "constructio" - organismo della frase in cui si congiungano insieme profondità di

pensiero ed eleganza di forma - ma ancora i criteri di scelta delle singole parole.

Finalmente egli può esporre, con larga copia di esempi, la teoria della canzone

come complesso artistico di stanze, la natura della stanza e gli elementi ond'è costituita:

la musica, la disposizione delle rime e il numero dei versi. Ma qui l'opera s'interrompe

bruscamente. E tuttavia, anche così incompiuta, essa resta un documento prezioso di

quella che fu la prima fase del pensiero di Dante, esule da Firenze e ormai peregrino per

ogni parte d'Italia. Sul fondamento di una viva esperienza d'artista e di una larga

informazione letteraria, con originalità di ricerche e di logiche deduzioni, egli viene

applicando alla storia del linguaggio e alla formazione degli idiomi o lingue comuni il

concetto aristotelico tomista della "civilitas"; premessa a ulteriori svolgimenti di

pensiero, che informeranno il Convivio, la Monarchia e la Divina Commedia.

Il sentimento d'italianità che anima il primo libro con la ricerca del "volgare

illustre", si associa in Dante all'amore della poesia, come ispirazione d'ordine naturale che

la bellezza suscita: sia questa la bellezza, che nelle cose ci diletta come un bene

dell'anima; sia questa la bellezza, che nell'azione ci esalta come un bene della volontà: un

bene morale (Rime). Ma qui Dante si individua tra i poeti italiani come il cantore della

rettitudine ("drittura") e se ne dà vanto in nome di quel volgare illustre che glorifica i

suoi cultori; un'esperienza che egli sente di dover esaltare poiché "per la dolcezza di tale

gloria" si sente superiore ai dolori dell'esilio: "huius dulcedine gloriae nostrum exilium

postergamus".

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