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63 CAPITOLO 4 L’ABBANDONO DELLO SPORT: UNA FUGA IN RISPOSTA AI CONFLITTI? 1. Introduzione Sandra Vincenti (1992) definisce lo sport come un fenomeno transizionale, per poter dare un’interpretazione più precisa e attendibile sul perché dell’abbandono sportivo. Secondo l’autrice “superficialmente si potrebbe pensare che un abbandono sportivo sia giustificato dalla perdita di interesse per lo sport e per l’agonismo, dalla mancanza di futuro e di successi, dalla mancanza di tempo o di voglia; mentre ad un livello più profondo si può vedere che, quando lo sport non rappresenta più un’area equilibrata nella quale sperimentare i propri bisogni regressivi, i propri processi di separazione, la propria aggressività, la propria illusione creatrice, ecco allora che l’attività sportiva diventa un luogo di frustrazione” (p.114). Di conseguenza, la possibilità di un abbandono dello sport ha, nella maggior parte dei casi, il significato di una ricerca di altre aree transizionali , in cui il soggetto sia messo nella condizione di sperimentare e ricercare ancora soddisfazioni ai propri bisogni profondi; in altri casi, invece, i più sofferti, l’abbandono ha il significato di una fuga da un’esperienza divenuta intollerabile , con un conseguente senso di impotenza e di sconfitta da parte dell’atleta. Se si esaurisce, o si smarrisce, il senso dello sport come area transizionale, i significati che il giovane atleta ricercava nell’esperienza motoria non si trovano più e i vissuti non corrispondono più alle aspettative del ragazzo e l’effetto di ciò è l’abbandono sportivo. L’abbandono dello sport, quindi, può “assumere i connotati di un’elaborazione profonda dei bisogni dell’atleta, per arrivare a configurarsi come una ricerca di altre aree transizionali nelle quali investire emotivamente” (p.115); diverso è, invece, il caso dell’atleta frustrato, degli abbandoni-fuga dalla situazione. In questi casi, l’abbandono diventa una fuga provocata dalla frustrazione, dalla situazione conflittuale e ansiogena che trasforma lo sport in un’esperienza, intollerabile per le emozioni che provoca. In altre parole, per Vincenti, si verifica questo tipo di abbandono quando c’è una rottura fra il dentro dell’atleta e il fuori del suo mondo sportivo, rottura che impedisce la possibilità di continuare ad attribuire un “significato transizionale” alla propria esperienza sportiva; e questa rottura ricorda la profonda rottura esistente tra soggettivo e oggettivo, tra mondo interno e mondo esterno, nell’impossibilità di una conciliazione che faccia dello sport un’area intermedia nella quale sperimentare questa continuità.

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CAPITOLO 4

L’ABBANDONO DELLO SPORT: UNA FUGA IN RISPOSTA AI CONFLITTI?

1. Introduzione

Sandra Vincenti (1992) definisce lo sport come un fenomeno transizionale, per poter dare

un’interpretazione più precisa e attendibile sul perché dell’abbandono sportivo.

Secondo l’autrice “superficialmente si potrebbe pensare che un abbandono sportivo sia

giustificato dalla perdita di interesse per lo sport e per l’agonismo, dalla mancanza di

futuro e di successi, dalla mancanza di tempo o di voglia; mentre ad un livello più

profondo si può vedere che, quando lo sport non rappresenta più un’area equilibrata

nella quale sperimentare i propri bisogni regressivi, i propri processi di separazione, la

propria aggressività, la propria illusione creatrice, ecco allora che l’attività sportiva

diventa un luogo di frustrazione” (p.114).

Di conseguenza, la possibilità di un abbandono dello sport ha, nella maggior parte dei casi,

il significato di una ricerca di altre aree transizionali, in cui il soggetto sia messo nella

condizione di sperimentare e ricercare ancora soddisfazioni ai propri bisogni profondi; in

altri casi, invece, i più sofferti, l’abbandono ha il significato di una fuga da un’esperienza

divenuta intollerabile, con un conseguente senso di impotenza e di sconfitta da parte

dell’atleta.

Se si esaurisce, o si smarrisce, il senso dello sport come area transizionale, i significati che

il giovane atleta ricercava nell’esperienza motoria non si trovano più e i vissuti non

corrispondono più alle aspettative del ragazzo e l’effetto di ciò è l’abbandono sportivo.

L’abbandono dello sport, quindi, può “assumere i connotati di un’elaborazione profonda

dei bisogni dell’atleta, per arrivare a configurarsi come una ricerca di altre aree

transizionali nelle quali investire emotivamente” (p.115); diverso è, invece, il caso

dell’atleta frustrato, degli abbandoni-fuga dalla situazione. In questi casi, l’abbandono

diventa una fuga provocata dalla frustrazione, dalla situazione conflittuale e ansiogena che

trasforma lo sport in un’esperienza, intollerabile per le emozioni che provoca.

In altre parole, per Vincenti, si verifica questo tipo di abbandono quando c’è una rottura

fra il dentro dell’atleta e il fuori del suo mondo sportivo, rottura che impedisce la

possibilità di continuare ad attribuire un “significato transizionale” alla propria esperienza

sportiva; e questa rottura ricorda la profonda rottura esistente tra soggettivo e oggettivo,

tra mondo interno e mondo esterno, nell’impossibilità di una conciliazione che faccia dello

sport un’area intermedia nella quale sperimentare questa continuità.

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2. Il “burn-out” e il “drop-out”

Parlando di abbandono e demotivazione, sono due le situazioni (in alcuni casi si potrebbe

parlare di due sindromi) che risaltano: il burn-out e il drop-out.

La traduzione letterale del primo termine è “bruciato”, “esaurito”. E, infatti, in psicologia

clinica, questa definizione viene usata per descrivere uno stato di esaurimento fisico ed

emotivo, conseguente a condizioni lavorative non gratificanti.

Con il secondo termine, letteralmente “sgocciolare”, si indica il fenomeno dell’abbandono

precoce.

Il burn-out, osservato inizialmente nelle cosiddette “helping professions”, o professionisti

d’aiuto, (quali quelle del medico, psicoterapeuta, infermiere, assistente sociale,

insegnante), era stato individuato (Freudenberger, 1974) in un gruppo di volontari che,

inizialmente entusiasti del proprio lavoro assistenziale, manifestavano, successivamente,

un quadro contrassegnato da facile stancabilità, apatia, abulia, depressione.

La sindrome si presenta come una ritirata psicologica dal lavoro, in risposta allo stress o

all’insoddisfazione (Cherniss, 1980), con un abbassamento del livello della spinta

motivazionale, di interesse, di piacere, del senso di responsabilità nei confronti del lavoro

stesso.

In sostanza, ci si troverebbe in presenza (Maslach e Jackson, 1981) di esaurimento

emotivo (con la sensazione di svuotamento di energia fisica e mentale e il vissuto di non

aver più nulla da offrire a livello psicologico), depersonalizzazione (con atteggiamenti di

oppositività fino alla negatività, se non addirittura all’ostilità, nei confronti delle persone

del proprio ambiente lavorativo) e ridotta realizzazione professionale (con crollo

dell’autostima e della voglia di attivare e senso, quindi, di inadeguatezza professionale).

In definitiva, il burn-out “non sarebbe altro che l’espressione di una situazione di stress

occupazionale, ossia conseguente a situazioni stressogene quali ambiguità di ruolo,

risotto potere consultivo e decisionale, inadeguato riconoscimento delle capacità o,

quantomeno, delle potenzialità, carenza di spinte coesive del gruppo” (Tamorri, 1999).

In questo senso, il concetto di burn-out potrebbe essere applicato a tutte quelle situazioni

lavorative nelle quali l’operatore si trovi a contatto frequentemente e intensamente con

l’utente, con carichi affettivi impegnativi e accompagnati da stati d’ansia, tensione o

frustrazione.

Non tutti gli autori, tuttavia, sono d’accordo sulla possibilità di riportare il modello anche

in campo sportivo. Alcuni, come Caccase e Mayberg (1984) e Sirigatti (1990) ne

ipotizzano l’uso solamente nel caso di tecnici, allenatori e preparatori atletici, assimilabili

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agli insegnanti (Vanden Eynde, 1982), mentre altri (Aguglia e Sapienza, 1989; Smith,

1986) ne dichiarano l’importanza anche negli atleti. In questo caso, il burn-out

corrisponderebbe alla crescente perdita di idealismo, energia e scopo, come risultato dello

stress lavorativo derivante, nel contesto sportivo (Cherniss, 1980), alle pressioni socio-

economiche, al non dover deludere le aspettative di dirigenti, sponsor e tifosi, al dover

sempre far progressi sul piano dei risultati (Sapienza, Aguglia e Santagati, 1990).

Nella genesi del burn-out nello sport, oltre allo stress, con tutte le conseguenze sul piano

delle risposte psiconeurofisiologiche e ormonali (Seyle, 1974), si affianca anche la teoria

dello scambio sociale (Thibaut e Kelly, 1959). Secondo questa teoria, l’uomo sarebbe

portato a fare un bilancio tra premi e costi: fintantoché i primi prevalgono sui secondi,

l’atleta continuerebbe a trovare motivazioni e impegno, ma nel momento in cui i costi da

pagare cominciassero a superare i benefici, neppure sempre sicuri, si avrebbe un ritiro

psicologico, fino a un effettivo abbandono.

Ciò che deve restare costante, tuttavia, affinché non si presenti una situazione di burn-out

per l’atleta, (come d’altra parte per il tecnico e per tutte le altre figure professionali che

concorrono al conseguimento della prestazione dell’atleta stesso), è il bisogno di

soddisfazione e di gratificazione o, per meglio dire, di riconoscimento: in altre parole, il

poter continuare a sentirsi utile, importante, approvato e inserito nel gruppo. Al contrario,

la paura del fallimento, un rapporto non soddisfacente con l’allenatore o con i compagni di

squadra, la pressione psicologica non correttamente canalizzata, la noia e la frustrazione,

sono tutte situazioni che concorrono alla comparsa del burn-out.

Diverso risulta essere il caso del drop-out, ma non meno allarmante, se è vero, come si

vedrà più avanti, che circa il 20% degli adolescenti praticanti attività sportiva, tra maschi e

femmine, va incontro a questo fenomeno.

I motivi per cui un giovane atleta, in evoluzione tecnica e fisica, dopo un periodo di

attività (gare, ma anche, e di più, allenamenti) già abbastanza lungo, decida di

interrompere il proprio impegno, sembrano essere molteplici.

Molti autori (Agosti, Baldo, Benzi, et al., 1986) sembrano d’accordo su alcune cause che

portano all’abbandono precoce; si può distinguere tra quelle legate alla sfera della

“crescita” del ragazzo come persona e quelle dipendenti strettamente dall’attività sportiva.

Tra le prime, sono da prendere in considerazione:

a) le crisi adolescenziali: il ragazzo non si riconosce più nel nuovo corpo che si sta

trasformando, modificandogli le coordinate fisiche e relazionali e, quindi, anche le

prestazioni e la considerazione degli altri;

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b) le difficoltà scolastiche: non tutti gli adolescenti riescono a reggere

contemporaneamente il doppio impegno scuola/sport, conservando lo stesso rendimento;

c) il bisogno di esperienze: diverse e nuove, base necessaria alla conoscenza del mondo

e alla costruzione del proprio io.

Tra le seconde, un ruolo importante va sicuramente a:

a) la monotonia dell’allenamento: spesso poco produttivo, in quanto protratto oltre il

limite di comparsa della noia senza dare obiettivi alternativi e diversificati;

b) l’ansia: specialmente nella forma preagonistica, in quanto, anche per la giovane età,

non sempre la capacità di gestione delle emozioni è ottimale;

c) l’integrazione nel gruppo: non sempre facile, in quanto lo sport, per sua natura, salvo

alcuni casi, favorisce più l’espressione dell’individualità che non quella della coesione,

come, invece, in questa fase della vita è prioritario;

d) il rapporto con l’allenatore: giacché il ragazzo, pur “proiettando” spesso valenze

genitoriali ideali nei confronti del proprio istruttore, non sempre si sente capito o,

addirittura, lo percepisce come un impedimento alla propria crescita e alla propria

autonomia.

3. Uno sguardo alla teoria

Durante gli anni ottanta, l’impegno sportivo (Scanlan, Lewthwaite, 1984; Scanlan, Stein,

Ravizza, 1989; Wankel, Kreisel, 1985), il drop-out (Gould, 1987; Gould et al., 1982;

Gould, Petlichkoff, 1988) e il burn-out (Feigley, 1984; Fender, 1989; Smith, 1986) sono

emersi quali tematiche rilevanti per la psicologia dello sport. In conseguenza di questo

nuovo interesse, i ricercatori hanno cominciato a sviluppare modelli teorici per la

spiegazione e la comprensione di questi fenomeni.

Il modello cognitivo/affettivo proposto da Smith (1986) del burn-out e il modello

motivazionale proposto da Gould (Gould, 1987; Gould, Petlichkoff, 1988) per il ritiro

dalla pratica sportiva (che tiene conto sia della partecipazione che del drop-out) fanno

riferimento alla teoria dello scambio sociale di Thibaut e Kelly (1959).

Purtroppo, secondo Greg W. Schmidt e Gary L. Stein (1994), entrambi i modelli

trascurano un importante aspetto di questa teoria e, a causa di ciò, sono da ritenersi non

appropriati a individuare e differenziare gli atleti che continuano a praticare uno sport da

quelli che lo abbandonano o che stancamente vanno avanti. In un loro articolo, questi due

autori offrono un ampliamento dei modelli recedenti e si basano su una versione ampliata

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della teoria dello scambio sociale di Thibaut e Kelly, proponendo due critiche ai modelli di

Smith e Gould.

3.1 La teoria dello scambio sociale

I concetti di Thibaut e Kelly di esito, livelli di confronto e livello di confronto per attività

alternative rivestono una notevole importanza sia nel modello di Smith (1986) che in

quello di Gould (1987; Gould, Petlichkoff, 1988).

Per “esito” si deve intendere “l’insieme delle ricompense e dei costi che una persona

sperimenta in una certa attività”. Maggiori sono le ricompense rispetto ai costi, migliore è

l’esito.

Dal punto di vista dell’atleta, le ricompense includono “conseguenze tangibili come

denaro, beni, trofei, così come conseguenze psicologiche quali il raggiungimento di mete

desiderate, sentimenti di competenza e di potere, l’ammirazione e la stima degli altri”

(Smith, 1986, p. 37). Anche i costi hanno a che fare con l’intero campo dell’esperienza

dell’atleta, “includendo la quantità di tempo e sforzi spesi, il sentimento di fallimento o di

disapprovazione, il sentimento di mancanza di risorse e di controllo, l’incapacità di

partecipare ad altre attività o relazioni” (ibid.).

Tuttavia, ricompense e costi non esistono di per sé. Per determinare la soddisfazione di un

individuo in un’attività, o la possibilità che un altro interrompa la sua partecipazione ad

un’attività, gli esiti devono essere confrontati su due livelli standard. Il primo livello, il

livello di confronto, è stato definito come “un punto centrale su una scala di bontà e

cattiveria”, ma può anche essere inteso come “l’aspettativa soggettiva circa un’attività”.

Queste aspettative possono essere basate sull’esperienza reale, oppure possono essersi

formate in assenza di un’esperienza diretta (ad esempio osservando ricompense e costi

relativi ad altre persone). La soddisfazione o l’attrazione per un’attività viene determinata

confrontando i risultati con il livello di confronto. Finché i risultati superano il livello di

confronto (LC), la persona è soddisfatta dell’attività; appena i risultati scendono sotto il

livello di confronto, la persona diviene scontenta dell’attività.

Il secondo livello, il livello di confronto per attività alternative (LCA), è definito come

“l’esito più basso che una persona accetterà senza abbandonare un’attività a favore di

un’altra”. Sostanzialmente, rappresenta la migliore alternativa che una persona può avere

all’attività in corso. Il legame con una certa attività è determinato dalla relazione tra i

risultati e il livello di confronto per attività alternative. Quando i risultati superano il LCA,

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il legame aumenta; nel momento in cui i risultati scendono sotto al LCA, non c’è più

dipendenza dall’attività in corso e la persona l’abbandona.

La teoria dello scambio sociale ritiene che sia fondamentale che attrazione e dipendenza

siano concettualmente distinte. Questo spiega l’osservazione evidente che le persone che

si divertono in un’attività, spesso ci restano, mentre quelle che vi trovano poco

divertimento, di solito, scelgono di abbandonarla. Ma questa teoria illustra anche il motivo

per cui le persone che sono soddisfatte, alle volte abbandonano (le loro alternative

superano i risultati attuali) e come mai quelle che sono insoddisfatte restano (i risultati

sono sotto il livello di confronto, ma sopra il LCA). Smith (1986) ha osservato che non

tutti gli atleti che abbandonano uno sport lo fanno a causa del burn-out ed egli usa i

risultati, il LC e il LCA, per distinguere il drop-out dal burn-out. Egli ipotizza che alcuni

atleti smettano quando le loro alternative superano i loro risultati. In una rassegna relativa

al drop-out degli atleti, Smith (1986, p. 38) osserva: “sembra che la ragione principale del

drop-out sportivo nei giovani sia l’interesse per altre attività […]. Il desiderio di

partecipare ad attività diversificate (compresi sport diversi) è stato messo in rilievo quale

principale ragione del drop-out nello sport. Nei termini di Thibaut e Kelly, ciò

implicherebbe che i risultati attesi in altre attività portano il LCA al di sopra del risultato

di partecipazione allo sport in corso”.

In accordo con quanto appena detto, il drop-out si verifica quando i risultati discretamente

alti sono superati da alternative ancora più elevate. Il burn-out, d’altra parte, “è dovuto

all’aumento dei costi indotti dallo stress” (Smith, 1986, p. 39). Da questo punto di vista,

l’aumento nei costi, senza l’aumento compensatorio nelle ricompense, spinge i risultati

sotto il LC e il LCA. Quindi, drop-out e burn-out rappresentano due tipi diversi di ritiro

dallo sport.

Mentre il modello di Smith (1986) era stato proposto per spiegare del burn-out indotto

dallo stress, Gould e Petlichkoff (1988) hanno sviluppato un modello per considerare un

campo di comportamenti più ampio. Questi due autori erano interessati ai motivi per cui

gli atleti più giovani scelgono di iniziare uno sport, ai motivi per cui continuano a

praticarlo e alle cause del loro ritiro (burn-out e drop-out). Questo approccio seguì il

modello di Smith, includendo una fase di analisi di costi/benefici basata

sull’interpretazione fatta da Smith del lavoro di Thibaut e Kelly (1959). Gould e

Petlichkoff raggiunsero conclusioni simili a quelle di Smith circa le cause potenziali di

drop-out e burn.out.

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3.2 Due critiche ai modelli di Smith e Gould

I modelli di Smith e Gould rappresentano un contributo importante per l’individuazione di

un quadro teorico di riferimento per lo studio della partecipazione sportiva, del drop-out e

del burn-out. Nonostante ciò, Greg W. Schmidt, Gary L. Stein (1994) rivolgono due

critiche alle loro formulazioni.

La prima è di tipo sperimentale. Sebbene sia possibile, come sostiene Smith (1986), che il

drop-out sia il risultato di un innalzamento del LCA, è allo stesso tempo probabile che il

drop-out, nel momento in cui un certo sport smette di sostenere le aspettative di un atleta,

risulti da un abbassamento delle ricompense (ad esempio meno tempo di gioco) e da un

aumento nei costi (ad esempio incidenti). Può accadere, cioè, che i risultati diminuiscano,

mentre il LCA rimanga stabile. Se questo è vero, sostengono Schmidt e Stein, risulta

difficile, allora, distinguere il drop-out dal burn-out, così come viene descritto da Smith.

Purtroppo, scarseggiano studi empirici dettagliati sui cambiamenti nel tempo, delle

ricompense, dei costi e delle alternative (ad esempio altre cose da fare, richieste da altri

sport) e alla diminuzione della soddisfazione (ad esempio non divertirsi più, troppa

pressione, allenamenti troppo difficili). Drop-out e burn-out potrebbero, quindi, non essere

chiaramente differenziati in base alle ricompense, ai costi e alle alternative. Secondo i due

autori, poi, si potrebbe considerare se le differenze tra drop-out e burn-out siano

quantitative piuttosto che qualitative (ad esempio pensando che i processi che conducono

al drop-out e al burn-out sono gli stessi, ma che il burn-out ha luogo in un arco di tempo

maggiore). Ad esempio, una improvvisa diminuzione delle ricompense e un aumento

parallelo dei costi (stress acuto) conduce al drop-out; al contrario, alte ricompense,

controbilanciate da costi in aumento, che col tempo finiscono col superare le ricompense,

conducono al burn-out. La considerazione che fa Smith (1986) su una componente

temporale per il burn-out è problematica, secondo Schmidt e Stein, perché si basa su

un’assunzione che non è sostenta dalla teoria dello scambio sociale. La seconda critica,

quindi, riguarda Thibaut e Kelly e la loro originale formulazione della teoria dello scambio

sociale, la sua applicabilità al burn-out come concettualizzato da Smith e, di conseguenza,

la sua applicabilità al drop-out in generale.

Seguendo altri teorici (Chernis, 1980; Freudenberger, 1980), Smith (1986, p. 37) ha

definito il brun-out come “una reazione allo stress cronico” con componenti fisiche,

oncologiche e comportamentali. La cronicità implica la presenza di una componete

temporale, un aumento e, successivamente, uno stabilizzarsi dei costi indotti dallo stress.

Di conseguenza, Smith sostiene che l’atleta provi un alto livello di stress e una

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diminuzione della soddisfazione, per un periodo discretamente lungo, prima che si

verifichi il burn-out.

Tuttavia, Thibaut e Kelly (1959, p. 21) hanno mostrato che “appena i risultati scendono

sotto il LCA, l’individuo abbandona la relazione”. Nei termini indicati da Smith, ciò

implica che l’atleta, nel momento in cui lo stress fa scendere i suoi risultati sotto il LCA,

abbandoni lo sport.

Secondo la definizione di dipendenza di Thibaut e Kelly, quindi, il burn-out non potrebbe

esserci, dato che l’atleta abbandona lo sport ancora prima che lo stress raggiunga lo stato

di cronicità.

In conclusione, Schmidt e Stein sostengono che la teoria dello scambio sociale di Thibaut

e Kelly (1959) sembra non fornire una spiegazione teorica completa dei fenomeni del

drop-out e del burn-out negli atleti. Prima di tutto, non è chiaro come gli atleti che

incorrono nel drop-out o nel burn-out differiscano, per quel che riguarda le ricompense, i

costi e le alternative possibili. Inoltre, la teoria dello scambio sociale è priva di una

componente temporale che giustifichi il fatto che, di fronte allo stress cronico, gli individui

possano scegliere di continuare una certa attività.

4. Alcuni dati sull’abbandono dell’attività sportiva in Italia

Dallo studio effettuato nel 2002 da Nomisma/Swg su scala nazionale, è possibile riuscire a

individuare quali sono le curve di entrata e di uscita dalla pratica sportiva, guardando il

problema da diverse angolature. Infatti, dal grafico, si può notare che, per il 63% delle

persone che iniziano a praticare una qualsiasi disciplina sportiva, l’età è compresa entro i

18 anni, con un significativo aumento di nuovi entranti (+ 23%) nella fascia che va dai 9 ai

13 anni, e uno meno consistente (+ 13%) in quella che va dai 13 ai 18.

Grafico 4.1 - Curve di entrata e di uscita dalla pratica sportiva in Italia, per fasce d’età

(2002). Fonte: Nomisma/SWG – (% cumulate per fasce d’età).

527

5063 66 68 71 74 75

3 13 22 29 38 40 42

0

50

100

A B C D E F G H I

Età di fine pratica

Età di fine pratica Età di inizio pratica

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A = Entro i 5 anni B = Entro i 9 anni C = Entro i 13 anni D = Entro i 18 anni E = Entro i 23 anni

F = Entro i 27 anni G = entro i 39 anni H = Entro i 48 anni I = Dopo i 48 anni

Grafico 4.3 - Curve di entrata e di uscita dalla pratica sportiva in Italia per grado di istruzione basso (2002). Fonte Nomisma/SWG – (% cumulate).

7

34

6378 81 83 85 86 86

211

2331

41 44 46

0

50

100

A B C D E F G H I

Età di fine pratica Età di inizio pratica

A = Entro i 5 anni B = Entro i 9 anni C = Entro i 13 anni D = Entro i 18 anni E = Entro i 23 anni

F = Entro i 27 anni G = entro i 39 anni H = Entro i 48 anni I = Dopo i 48 anni

Andando più nello specifico, dallo studio condotto da Nomisma/Swg sul settore sportivo

italiano è anche possibile valutare quali siano le età d’entrata e d’uscita dei singoli

individui, ripartite per le diverse discipline sportive

Dai dati, si osserva che gli sport che hanno l’età media di inizio più bassa sono la

pallavolo, il basket e lo sci, mentre quello che ha l’età media di inizio più alta è il fitness.

Tabella 4.1 - Età media di inizio e abbandono per le diverse discipline sportive (2002).

atletica Arti marziali

basket fitness Calcio e

calcetto

ciclismo jogging nuoto pallavolo sci tennis

Età media inizio

12 11 10 18 11 13 14 12 10 10 13

Età media abbandono

22 22 21 32 25 27 33 24 20 30 33

Fonte: Nomisma/SWG.

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La disciplina nella quale il fenomeno dell’abbandono si manifesta prima è la pallavolo,

dove l’età media in cui si smette è di 20 anni, mentre jogging e tennis sono i due sport in

cui l’età media di abbandono risulta essere più elevata, ben 33 anni.

Il concetti di abbandono, però, è assai vago e può rappresentare diverse situazioni. Si

possono elencare una serie di casi che, in qualche modo, possono rientrare in questo

fenomeno (Bortolotti, 2002):

- il soggetto cambia società, ma rimane in attività anche nello stesso sport (in questo

caso è il dirigente della società di partenza che può considerare il trasferimento un

abbandono);

- il soggetto smette di praticare un’attività sportiva per iniziarne un’altra, anche

rimanendo nella stessa società, se si tratta di una polisportiva (questo perciò verrà

considerato abbandono da parte della federazione di appartenenza), oppure cambiando

società (allora viene considerato abbandono sia da parte del dirigente sia dalla federazione

di appartenenza);

- il soggetto smette l’attività sportiva agonistica per proseguire la pratica sportiva a

livello amatoriale (si tratta di abbandono dall’attività agonistica federale);

- il soggetto smette l’attività agonistica per dedicarsi al cosiddetto fitness, il quale, a

sua volta, rappresenta un contenitore al cui interno, oggi, esiste un’ampissima gamma di

scelte diverse (è abbandono dello sport, ma si svolge comunque un’attività motoria);

- il soggetto non svolge più alcuna attività motoria, continuativa o organizzata.

5. Le motivazioni alla base dell’abbandono dell’attività sportiva

Le cause che inducono i giovani all’abbandono dell’attività agonistica possono essere

riconducibili a molti fattori, come la difficoltà di conciliare lo studio o il lavoro con

l’attività sportiva, le divergenze con i genitori, le incomprensioni con gli allenatori, il fatto

di non andare d’accordo con i compagni di squadra, i costi troppo elevati, ecc.

Statisticamente, sempre analizzando i dati della ricerca CONI/Nomisma, la difficoltà a

conciliare l’attività principale del soggetto, che può identificarsi nello studio o nel lavoro,

con lo sport, è quella che genera il maggior numero di abbandoni. Quest’affermazione può

trovare una conferma indiretta osservando il precedente grafico 4.1 sulle curve di entrata e

di uscita dalla pratica sportiva. Non è un caso, infatti, che parte del numero di abbandono

avvenga nella fascia d’età che va dai 13 ai 18 anni, periodo in cui si iniziano le prime

esperienze lavorative o si cominciano a frequentare le scuole superiori. La maggior

quantità di tempo e di energie che sono richieste al ragazzo per svolgere questi impegni,

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diventano spesso la fonte di situazioni che non si riescono a conciliare con l’attività

sportiva e conducono, nel tempo, all’abbandono dell’attività. In simili situazioni, la

capacità del soggetto di organizzare il tempo a disposizione diventa un fattore

determinante nella possibilità di continuare a fare sport.

Le cause dell’abbandono che sono, invece, legate alla disciplina, sono quelle che vedono il

giovane spesso in conflitto con l’ambiente nel quale si trova: difficoltà a dialogare con i

compagni, opinioni diverse con l’allenatore o con la società, divergenze sulle scelte e sui

ruoli, divergenze sui metodi di allenamento, troppo duri o troppo scarsi, ma anche, e

spesso, incapacità ad accettare il modo con il quale l’allenatore fa il suo lavoro.

Oggi, la figura dell’allenatore è cambiata, come è cambiato, negli ultimi anni, tutto il

panorama sportivo. In passato, c’era la figura dell’allenatore esigente e severo, perché si

pensava che la durezza formasse il carattere dei giovani; oggi, piuttosto, esiste la figura

dell’allenatore “direttivo”, quello che sa, fa e decide, senza considerare che anche gli

allievi hanno le loro opinioni e vorrebbero esprimerle e confrontarle, vogliono essere

chiamati a pensare, creare o fare anche da soli. E’ quello più convinto di esser lui

l’allenatore, quello che dice “tu pensa a giocare che a pensare ci penso io” (Prunelli,

2002).

In queste situazioni, il giovane vede negarsi non solo la possibilità di discutere le proprie

convinzioni, ma rischia anche di acquisire un comportamento passivo, che lo porterà, in

futuro, a limitarsi ad eseguire ciò che gli altri dicono. In poche parole, si corre il pericolo

che nel giovane non si sviluppi la consapevolezza delle proprie capacità.

Un altro fattore che può far scattare la molla che porta ad abbandonare l’attività sportiva è

il gruppo. Le incomprensioni che spesso si creano, le antipatie, le gelosie, ecc., possono,

infatti, condurre, anche nello sport, a veri e propri conflitti, soprattutto tra i giovani, nei

quali la razionalità è ancora sottomessa dalle emozioni e dal desiderio di primeggiare sui

coetanei.

Si tratta delle motivazioni che sono addotte più di frequente dai ragazzi nelle varie

indagini, ma spesso, dietro queste cause, si annidano altri problemi ben più difficili da

rilevare, e qui bisogna entrare nell’ambito strettamente psicologico.

Alcuni imputano il problema dell’abbandono a difetti del giovane d’oggi che, troppo

appagato da altri interessi, avrebbe una scarsa attitudine a impegnarsi per qualcosa che

costa fatiche e rinunce e non paga immediatamente. Oggi, i giovani sono cambiati rispetto

al passato, perché sono cambiati i miti e gli stimoli che agiscono su di loro. Non hanno più

bisogno dello sport per trovare degli interessi e sono meno sensibili al gusto della vittoria

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e del successo, al gusto di misurarsi per vincere. E’ però incoraggiante constatare che, se

trovano le condizioni e gli stimoli favorevoli, si impegnano con dedizione, per ottenere il

riconoscimento degli adulti, e, quindi, dipende anche, e soprattutto, da loro il grado di

interesse dei ragazzi per lo sport (Prunelli, 2002).

L’abbandono può avere, sempre secondo Prunelli (1996, 2002) cause anche meno

profonde e legate soprattutto allo sport e alla sua pratica. Ad esempio, il giovane può

rendersi conto di essere meno dotato degli altri e, di conseguenza, non essere più disposto

a misurarsi per non sentirsi sempre perdente o per paura di rimediare una brutta sconfitta,

avere qualche complesso, a volte banalmente anche la paura di fare la doccia con gli altri,

che lo metta in imbarazzo con i compagni, abbattersi perché attraversa un momento critico

del suo sviluppo fisico che lo rende impacciato e introverso, o di quello psicologico che gli

procura disinteresse e insicurezze.

E’, però, più probabile che si sia stancato di essere trattato come un piccolo professionista

troppo sollecitato perché vinca sempre. Oppure che sia entrato in polemica o che si trovi a

disagio con la società sportiva o con lo stesso allenatore, che non lo apprezza o non lo

considera sufficientemente; che voglia punire i genitori perché non lo hanno capito, hanno

mancato in qualcosa che lo ha ferito o non sono stati in grado di proporre uno sport più

gradevole di altri.

Si tratta di stati nei quali i giovani, spesso, rimangono coinvolti, e che rilevano tutta la

debolezza che, classicamente, caratterizza questa fascia d’età, ma anche la cecità o

l’egoismo delle persone deputate, sulla carta, all’educazione prima psichica e poi fisica del

giovane, e che, in realtà, non si dimostrano tali.

Se non si presta attenzione alle differenze inconciliabili tra i vari momenti dello sviluppo,

alle motivazioni comuni e a quelle di ognuno e ai diversi problemi che si possono

presentare, come la sfiducia nelle proprie possibilità, un’eventuale fase critica di crescita,

altri interessi, magari per un altro sport, eccessive illusioni e pressioni esagerate, tutti i

giovani sono a rischio. A volte, addirittura, i professionisti decidono di smettere

anzitempo, spesso perché e presente un’eccessiva esasperazione dello sport, il peso di un

lavoro privo di piacere e pieno di ansie e di pressioni, la voglia di non essere sempre “in

trincea” e di vivere tranquillamente come gli altri.

Quasi sempre, in questi casi, è lo sport il vero responsabile dell’abbandono, poiché si

crede di poter raggiungere i livelli più elevati di rendimento imponendo ai soggetti uno

stress difficile da sopportare a lungo.

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Poi ci sono quelli che abbandonano pur continuando a fare sport. Sono le persone che si

chiudono dietro mille scuse e mille problemi, tra infortuni che non guariscono mai, la

forma che va e viene e le crisi senza motivo, e si trascinano fino a fine carriera a livelli

modesti, facendosi prendere per mano, quando, invece, avrebbero gambe e testa per

camminare da soli (Prunelli, 2002).

Qualche volta, a finire, nel giovane, è il talento o, per meglio dire, le capacità di un

ragazzo che non sono messe in condizioni di creare soddisfazioni e stimoli evolutivi nuovi

per il giovane, che così si “brucia” subito, abbandonando uno sport che, probabilmente,

avrebbe potuto regalargli molto. Spesso, la causa di tutto questo è l’allenatore, che

dimentica o non si accorge di avere un ragazzo che ha bisogno solo di essere “curato”

individualmente, per poter esprimere ottimi risultati nel tempo.

Vi sono, quindi, molte responsabilità dello sport nel fenomeno dell’abbandono e, in

particolare, nella programmazione dei metodi di allenamento, che molte volte vengono

utilizzati e che, all’esterno, vengono criticati. Ad esempio, gli atteggiamenti sbagliati verso

i bambini, che invece di essere trattati come tali, vengono visti come adulti ai quali cercare

di spremere tutte le risorse per arrivare al risultato finale.

Basta pensare alle sollecitazioni ed alle pretese esagerate e premature, ai drammi per una

sconfitta, ai ritiri nei quali si vive nella noia, agli allenamenti monotoni, alle sollecitazioni

e ai climi di tragedia creati per stimolare un impegno che diventa sterile proprio perché

l’atleta è troppo stimolato dal “tu pensa a giocare che a pensare ci penso io” quando,

invece, il gioco è prima di tutto pensare e creare, e trattare gli atleti da bambini, anche se

c’è bisogno che rendano come adulti. Sono sistemi che sovraccaricano il bambino, o anche

il giovane che non ha prospettive di carriera, con un’organizzazione e metodi troppo

oppressivi e allenamenti “scientifici” privi di divertimento.

L’applicazione di un metodo di allenamento standardizzato, che predilige le esecuzioni e

le ripetizioni, e che mira a condizionare il ragazzo, quando quest’ultimo trova il massimo

rendimento solo attraverso la critica e il confronto con gli altri.

La richiesta di un agonismo sbagliato, basato sul giocare solo per vincere e con ogni

mezzo, che, in definitiva, si traduce nel “giocare per non perdere”, e che, oltre ad essere un

limite al rendimento, va contro il piacere del gioco e del gusto del divertimento. In sintesi,

si arriva a fare uno sport che condiziona l’atleta senza lasciare spazio alla persona, e

dunque non lo coinvolge e lo porta ad allontanarsi per mancanza di interesse (Prunelli,

2002).

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In sostanza: l’ansia di competere è negativa se impedisce la cooperazione con gli altri o

giustifica il tutto per vincere o, ancora, sfocia nell’abbandono sprezzante del prossimo

meno capace e meno e meno fortunato (Bassetti, 1999).

La conseguenza che si scatena di fronte ad allenatori troppo esigenti e metodi di

allenamento che mirano non tanto a formare e ad educare un giovane, ma a costruire una

“macchina da risultato”, è conosciuta come burn-out, cioè, il ragazzo viene subito

“bruciato”, e ciò porta, come conseguenza, al drop out, l’abbandono precoce.

Nella tabella 4.2 vengono riportate alcune fra le cause più comuni di drop out, in ordine

decrescente di influenza. I risultati della ricerca che ha permesso la realizzazione di questa

tabella sono emersi nel “IV Simposio multidisciplinare” di aggiornamento per tecnici e

dirigenti di tutti gli sport su “L’attività sportiva giovanile” del 13 ottobre 2001 a Cordens

(PN).

Tabella 4.2 - Motivazioni che portano al drop out dell’attività sportiva nei giovani

• Problemi con l’allenatore • Infortuni

• Problemi con i compagni • Altri interessi

• Eccesso di competizione • Altre attività

• Noia • Lavoro/Studio

Un altro motivo che, alla lunga, può portare all’abbandono è la convinzione che il risultato

venga prima dello sviluppo della persona e delle regole che dovrebbero guidare un

educatore.

Esistono spesso allenatori che vivono solo per il risultato, che adottano comportamenti che

portano a sottili ingiustizie all’interno della squadra e che, quasi sempre, portano a perdere

qualche atleta per strada. Ragazzi che vengono esclusi dalle partite senza neppure essere

informati, perché non utili ai fini del risultato finale, e favoritismi, invece, verso coloro

che sono bravi e che con la loro bravura possono contribuire al risultato positivo. Si

osserva, molto spesso, che i più bravi non vengono mai puniti e non sono mai colpevoli

quando sbagliano, mentre altri, meno bravi, sono sempre i capri espiatori di ogni sconfitta.

Come si può vedere, le ingiustizie penalizzano spesso gli allievi meno capaci e meno

rappresentativi, ma sono proprio le piccole ingiustizie con i più deboli ad alimentare la

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trasgressione dei più forti. In questo clima, sono i genitori a portarsi via i figli, e magari a

portarli in un’altra società o verso un’altra disciplina, ma, poco più tardi, saranno i figli

stessi a non voler più saperne di sport, perché ne avranno la nausea (Prunelli, 2002).

Spesso, sono proprio i genitori che “danno una mano” al ragazzo ad abbandonare lo sport,

soprattutto quando incominciano a notare un’eccessiva stanchezza a fine giornata oppure,

in questo caso diventa un vero campanello d’allarme, quando si vede che dalla scuola o

dal lavoro arrivano segnali poco incoraggianti. In questi casi, l’atteggiamento protettivo

verso i figli viene fuori in modo preponderante, e il genitore consiglia (ma più spesso

impone) al giovane di guardare il suo futuro con realtà, e di scegliere la strada più sicura

da seguire. In tali situazioni, è quasi sempre lo sport ad avere la peggio.

Il genitore, quindi, può essere il fattore essenziale per un buon rapporto con lo sport, ma

può anche costituire la causa di un rifiuto.

Molto spesso, un genitore non lascia giocare il figlio se non ottiene voti alti a scuola. Usa

quindi lo sport per ricattarlo, ma il figlio può risolvere la situazione abbandonando

l’attività sportiva e impegnandosi ancora meno a scuola.

Il ragazzo finisce per dover lasciare lo sport, perché non tiene il passo degli altri e perché

non riesce farsene una ragione, ma comincia a calare anche il suo rendimento a scuola,

perché da una parte si abbatte nel constatare la delusione del genitore e, dall’altra, per

punirlo, non fa nulla per rimediare. (Prunelli, 2002).

5.1 La ricerca di Salvini e Faccia del 1999

Altri due autori (Salvini A., Faccia E., 1999) si chiedono quali possono essere i motivi che

concorrono ad allontanare i giovani dalla pratica sportiva, se è vero che lo sport è un

mezzo importante per il soddisfacimento di molti bisogni, poiché fornisce occasioni di

incontro e di confronto, favorendo una migliore percezione di sé, migliorando il senso di

autoefficacia fisica.

Analizzando i risultati di diversi lavori, i due autori riconoscono che la famiglia, gli

impegni scolastici ed extrascolastici (amicizie, divertimenti, sentimenti…) sono le prime

voci cui ci si appella nel voler dare una spiegazione. In realtà, si tratta di fattori prioritari,

apparentemente esterni allo sport, ma che di fatto, se integrati ad una debolezza del

sistema sportivo, lo rendono incapace di sostenere un confronto competitivo con altri

interessi, opportunità e impegni.

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5.2 La ricerca del Centro Toscano di Psicologia dello Sport del 1998

In una ricerca realizzata dal Centro Toscano di Psicologia dello Sport (1998), 300

preadolescenti della provincia di Firenze, assidue praticanti di varie attività sportive,

hanno indicato, come primo motivo che potrebbe allontanarle dall’attività sportiva,

l’impegno scolastico.

Forse anche a causa della giovane età dei soggetti considerati nella ricerca (11-14 anni), le

motivazioni prioritarie dell’abbandono sono legate solo in parte a impegni extrasportivi. Il

secondo e il terzo motivo individuato riguardano, infatti, gli aspetti relazionali: i cattivi

rapporti con gli istruttori e con i compagni. Questo dato dà una conferma che il bisogno di

affiliazione sia uno tra i più importanti, ma solleva anche qualche dubbio rispetto al modo

in cui lo sport contribuisca a soddisfarlo. Potrebbe sembrare, infatti, secondo gli autori,

che il timore di rapporti poco gratificanti o conflittuali sia tutt’altro che lontano.

Non stupisce, invece, lo scarso rilievo attribuito ad elementi spesso usati, evidentemente in

modo improprio, per giustificare l’abbandono sportivo: il “pericolo agonismo”, il “rischio

di noia”, il “peso della famiglia”. Dal confronto effettuato tra le risposte ottenute dalle

preadolescenti e quelle ottenute dai genitori, emergono informazioni di rilievo: i genitori

vedono in prospettiva lo sport nella vita delle figlie, ma lo considerano come secondario e

temporaneo.

Sembra che, per quasi un terzo dei genitori, sia normale pensare ad un impegno sportivo

limitato ai 16 anni, quindi ad un’interruzione molto precoce.

Le risposte cambiano innalzando, anche se di poco, il livello d’età, se la domanda è riferita

al figlio maschio. Mentre cambiano, e di molto, se la domanda riguarda il livello

d’impegno nella vita di figli e/o delle figlie.

Ai figli maschi viene attribuito un vissuto sportivo più intenso, e vi è su di essi un maggior

investimento, soprattutto in prospettiva. Per le figlie, invece, si tende a ridimensionare

l’aspettativa: lo sport viene inteso come una palestra alla quale chiedere divertimento e

sviluppo delle capacità relazionali. Si chiede, infatti, molto all’organizzazione sportiva: lo

sport deve offrire un sostegno emotivo e educativo, quasi di integrazione rispetto alla

funzione genitoriale.

Gli autori ipotizzano che l’enfasi posta, dalle ragazze e dai genitori, sulle variabili di

interazione, contribuisca ad attribuire a queste ultime, più che agli impegni extrasportivi,

un forte potere motivante e demotivante nello stesso tempo: se questo forte bisogno di

relazione e, per suo tramite, di autostima e fiducia in sé, viene soddisfatto, l’adesione

all’attività sportiva è molto più stabile e continuativa.

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5.3 La ricerca di Agosti, Baldo, Benzi, Gatti e Piccarelli del 1986

Altri autori (Agosti, Baldo, Benzi, Gatti, Piccarelli, 1986), hanno anch’essi condotto una

ricerca sul drop-out, seguendo per un anno quasi centocinquanta nuotatori, con età media

sedici anni e mezzo, metà maschi e metà femmine, in cinque piscine romane. È stato

scelto il nuoto, in quanto questa disciplina è in testa alla classifica degli sport demotivanti:

tre ragazzi su dieci e cinque ragazze su dieci, più o meno, prima o poi si nauseano del

nuoto. Si tratta di uno sport in cui si entra molto presto e da cui si è messi in pensione a

poco più di ventenni.

Lo scopo della ricerca era quello di cogliere sul nascere, e cercare di capirne il motivo, i

primi segni di demotivazione, verificatisi nel 10% dei maschi e nel 21% delle ragazze. A

tale percentuale, si deve aggiungere il 7% dell’intero gruppo che, nel corso dello stesso

anno, ha sospeso per un determinato periodo l’attività natatoria, per poi riprenderla, in

seguito a sollecitazioni da parte del gruppo nuoto, dei familiari, per motivi di nostalgia,

ecc.

I risultati di questa ricerca hanno permesso di individuare i seguenti motivi responsabili

del fenomeno dell’abbandono precoce:

- Ansia pre-agonistica. Avviene costantemente che, a causa del livello di ansia in cui

si trovano, alcuni atleti realizzino, durante le gare, prestazioni inferiori a quelle realizzate

durante gli allenamenti e alle aspettative. Questo fatto genera un ciclo chiuso tra ansia e

abbassamento dell’autostima e viceversa, al punto da rendere intollerabile all’atleta la

situazione competitiva, con il conseguente decadimento del livello motivazionale. Alcuni

atleti rendono di più in allenamento che in gara, perché “sentono” troppo la gara, a livello

sia emotivo che psicosomatico (tensione muscolare, senso di gambe molli, dolori allo

stomaco, ipertemia, tachicardia, ipertensione). Quando la vittoria è troppo ambita, si

allontana fino ad essere irraggiungibile, portandosi via il gusto di insistere.

- Mancanza di successi. Ogni atleta vive il momento della gara come una meta

significativa: se le proprie aspettative vengono ripetutamente deluse, può accadere che il

ragazzo investa di connotazioni negative il contesto sportivo: il momento dell’allenamento

diviene, in tal modo, pesante da gestire, così da spingere il ragazzo ad attuare meccanismi

di fuga. L’abbandono è una logica conseguenza.

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- Monotonia dell’allenamento. È noto quanto l’uniformità e la costanza degli stimoli

ambientali siano fattori che aggravano la condizione di fatica. Fare per tre ore al giorno,

per mesi e anni, 100 vasche al giorno, 10 km di bracciate, su e giù lungo la stessa corsia,

ognuno per conto proprio, non è certamente piacevole né stimolante. È la prova del fuoco

per valutare l’autenticità della motivazione. Non tutti riescono a superarla. Nuotare è bello,

ma allenarsi lo è molto meno.

- Poco tempo libero. Ad un atleta impegnato agonisticamente rimane poco tempo a

disposizione per la propria vita sociale; si riescono a consolidare, al di fuori dell’ambiente

natatorio, non molte amicizie. Gli amici sono necessari per il sano sviluppo

dell’adolescente. Chi non riesce a frequentarli come vorrebbe, può sentirne la mancanza, e

mollare tutto per raggiungerli, per non lasciarsi emarginare, per non perdere quello stare

insieme agli altri, così come capita apparentemente senza obiettivi. È invece risaputo come

proprio queste ore apparentemente perse siano utilissime all’adolescente per confrontarsi

con gli altri, in un’atmosfera tranquilla, forse rilassata, comunque non impegnativa sul

piano emotivo. Basti pensare a com’è importante per un adolescente parlare molto, non

solo per comunicare con l’altro, ma soprattutto per usare l’altro come uno specchio che gli

permetta di parlarsi e di capirsi.

- Rapporti con l’altro sesso. Non tutti i gruppi sportivi favoriscono i rapporti fra i due

sessi; anche in questo caso possono venire a mancare le preziose occasioni poco

impegnative, casuali, non organizzate. Talvolta l’abbandono può essere motivato da

problemi di coppia: la gelosia di lui per la troppa autonomia di lei o per il fascino con cui

lei ammira l’allenatore, oppure la gelosia di lei per il narcisismo atletico di lui (“tu ami il

nuoto più di me!”). Talvolta, infine, lo sport può venire abbandonato perché, ottenuta

l’ambita conquista sentimentale grazie (forse) a qualche successo sportivo, lo sport stesso

ha assolto le funzioni per cui era stato fino ad allora praticato.

- Difficoltà di coesione con il gruppo. Ogni individuo, stando in gruppo, soddisfa

bisogni fondamentali, come quelli di appartenenza, di contatto sociale, di scambio

relazionale. Nelle piscine dove non sono previste attività ricreative extranatatorie, è

difficile che il gruppo degli atleti si mantenga coeso.

- Rapporto genitori-allenatori. È noto come i famigliari intervengano, anche

pesantemente, nelle scelte dei figli. Il giovane nuotatore si trova spesso in mezzo a due

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fuochi: da una parte i genitori, dall’altra l’allenatore. Se c’è contrasto tra i due poli, l’atleta

vive la situazione con un forte senso di oppressione e di incapacità di scegliere da che

parte stare, sicché può cavarsela al meglio scegliendo, con l’abbandono, la libertà e

l’indipendenza.

- Ricerca di altri interessi. Un adolescente ha continuamente bisogno di nuovo

stimoli, di nuove esperienze, conoscenze. Cacciarsi ogni giorno nel tunnel della solita

corsia della solita piscina, può essere vissuto come un’intollerabile frustrazione della

naturale smani di novità.

- Difficoltà scolastiche. Affrontare e sostenere contemporaneamente due attività

impegnative come la scuola e il nuoto è, spesso, vissuto con difficoltà. Laddove i genitori

e/o i professori lamentano scarso rendimento scolastico, si esercitano spesso pressioni

perché il ragazzo abbandoni l’attività agonistica; spesso, inoltre, il nuotatore è costretto a

nascondere a scuola tale impegno, temendo eventuali ritorsioni. È evidente che, per molti,

questa tensione continua diventa insopportabile stimolandoli ad abbandonare tutto.

- Lo sport come soddisfazione di bisogni adolescenziali. A volte, l’atleta abbandona lo

sport per un motivo molto semplice: non gli serve più. Spesso, infatti, lo sport viene

praticato dagli adolescenti come mezzo di costruzione dell’identità personale, oltre a

essere vissuto come strumento di conoscenza, rafforzamento, verifica delle caratteristiche

dell’Io. Superati tutti questi “esami”, lo sport può non servire più!

- Contrasti con i genitori sull’autonomia. Quando un adolescente si da allo sport

agonistico, i suoi genitori lo perdono per un po’, come perdono un po’il figlio/a che si

sposa. Siccome, però, l’età è diversa, nel caso dello sport, i genitori sono ancora più forti e

gelosi. Anche se in un primo tempo smaniavano perché i loro figli partecipassero, si

impegnassero, vincessero, a un certo punto sembrano voler fare marcia indietro: lo sport è

troppo emancipante, lascia troppa autonomia, distacca dalla famiglia, fa perdere la

femminilità alle ragazze e via di seguito. Nasce, allora, una subdola campagna denigratoria

e disfattista che, alla lunga, può indurre l’adolescente a disamorarsi dello sport e a

mollarlo, se non altro per amore del quieto vivere familiare.

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- Crisi adolescenziale. L’atleta, in seguito al cambiamento corporeo, che avviene

durante io periodo adolescenziale, può avvertire una stasi nelle sue prestazioni; occorrono

tempi lunghi di allenamento impegnativo per colmare gli scompensi legati alla nuova

struttura psico-fisica. Quando, malgrado l’impegno, non si ottengono risultati gratificanti,

si tende ad abbandonare.

- Rapporto allenatore-atleta. Quando non è soddisfacente, è la causa più decisiva di

abbandono. All’inizio, l’allenatore è vissuto, in genere, come un modello di adulto

alternativo ai modelli genitoriali, da cui l’adolescente cerca di staccarsi per raggiungere la

sua autonomia. Ma, poi, può accadere che questo modello si inquini. Per diversi motivi. In

alcuni casi viene esplicitato molto chiaramente un vissuto di strumentalizzazione.

All’atleta, cioè, sembra di essere al servizio (mezzo, strumento) dell’allenatore. Altre

volte, gli atleti sottolineano come il rapporto insegnamento-apprendimento sia troppo

arido. In altre parole, essi non si sentono protagonisti del proprio apprendimento, ma

semplici esecutori di decisioni prese da altri e scarsamente motivate. Anche lo scarso

rapporto personale con l’atleta viene considerato negativamente da vari intervistati. A

volte, viceversa, il rapporto con l’allenatore non viene ritenuto soddisfacente, perché

questi è considerato come troppo invadente sul piano educativo.

Anche se in questa ricerca si è parlato prevalentemente di nuoto, gli autori ribadiscono

come il discorso valga per tutti gli sport.

5.4 La ricerca di Vinello e Russo del 1986

Infine, si possono citare le interviste condotte da Renzo Vinello e Patrizia Russo (1986)

nell’ambito di una convenzione di ricerca tra il CONI e i dipartimenti di psicologia e di

psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell’università di Padova, che hanno

permesso la formulazione di alcune ipotesi-guida sulle possibili cause di ordine

psicologico sottostanti all’abbandono sportivo.

1) Ai margini del gruppo dei pari

Come si apprende dalla letteratura sull’argomento, le situazioni di marginalità psicologica

volontaria rispetto alla famiglia e le situazioni di marginalità sociale possono provocare un

indebolimento del senso della propria identità sociale. L’adolescente tenta di reagire a

questa insicurezza, soprattutto attraverso l’inserimento in un gruppo di coetanei.

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Il giovane sportivo può, a questo proposito, trovarsi nella particolare situazione di “viversi

ai margini del gruppo dei pari” (terza forma di marginalità). Le interviste effettuate

durante la ricerca suggeriscono, inoltre, che questo rischio è diversamente considerato dai

soggetti, dato che è riconosciuto come particolarmente importante, soprattutto dagli atleti

che hanno abbandonato.

Ciò che può portare l’individuo a viversi come un po’ diverso dagli altri coetanei (e ad

avere una qualche crisi di identità sociale) non è tanto il fatto che deve dedicare molte ore

allo sport, quanto il fatto che la propria vita è organizzata diversamente, il fatto che deve

pensare alle proprie attività di studio o di tempo libero con una mentalità di

“programmazione”, che i compagni non hanno così esasperata. È, ad esempio, frequente

che il giovane atleta chieda molto al tempo libero (cioè di viverlo in modo molto intenso),

così come chiede molto alle ore in cui pratica sport. Basti pensare a come è importante per

un adolescente parlare molto, non solo per comunicare con l’altro, ma, soprattutto, per

usare l’altro come uno specchio, che gli permetta di parlarsi e di capirsi.

E qui può emergere un paradosso: l’adolescente, che si è avviato alla pratica sportiva

proprio per soddisfare alcuni bisogni fondamentali dell’Io, può, ad un certo punto, trovarsi

carente proprio nella possibilità di utilizzare maggior tempo libero per soddisfare altri

fondamentali bisogni dell’Io.

Il pericolo di sentirsi ai margini del gruppo dei pari sembra, comunque, essere minore se il

gruppo sportivo in cui l’atleta è inserito è caratterizzato da rapporti di profonda amicizia

dei suoi membri.

A conferma dell’esistenza del vissuto di essere ai margini del gruppo dei pari vi è il fatto

che, con una certa frequenza, gli atleti intervistati hanno manifestato il timore di “trovarsi

da soli a fine carriera”. Questo timore sembra, in particolare, presente più negli atleti che

praticano sport individuali, rispetto a quelli che praticano uno sport di squadra.

2) Povertà del gruppo sportivo

Le interviste con gli atleti hanno evidenziato che i gruppi sportivi non sempre sono ricchi,

organici e caratterizzati da rapporti di amicizia profonda fra i componenti. In particolare,

vari atleti hanno sottolineato come la competizione fra i compagni appartenenti alla stessa

squadra o allo stesso gruppo sportivo può, a volte, raggiungere livelli particolarmente

ansiogeni.

Infine, non bisogna dimenticare una particolare situazione: il cambiamento di squadra di

una giovane promessa. Proprio gli atleti più dotati, infatti, possono trovarsi nella

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situazione di essere inseriti in una squadra o gruppo sportivo particolarmente qualificato,

fin da molto giovani. È frequente, in questi casi, un disorientamento iniziale, una perdita di

identità sociale, in definitiva un vissuto più o meno intenso di solitudine.

3) Rapporto non soddisfacente con l’allenatore

Quasi tutti gli atleti intervistati che hanno abbandonato la pratica sportiva hanno, in un

modo o nell’altro, sottolineato la notevole importanza che può avere l’allenatore sulla sua

decisione di abbandono.

Nei casi in cui tale influenza è risultata negativa sono state, comunque, riportate

motivazioni fra loro diverse.

In generale, si è verificato come, nei primi anni di pratica sportiva, possa esserci una vera

e propria idealizzazione dell’allenatore, vissuto come un modello di adulto alternativo ai

modelli dei genitori, da cui il ragazzo, o la ragazza, deve lentamente staccarsi per

raggiungere la propria autonomia personale.

Sono molte le cause che possono provocare la caduta di questo modello. Sembra,

comunque, che le cause più frequenti (importanti anche nei casi in cui l’allenatore fin

dall’inizio non è visto come un modello) siano le seguenti.

In alcuni casi viene dichiarato molto apertamente un vissuto di strumentalizzazione.

All’atleta, cioè, sembra essere al “servizio” (mezzo, strumento) dell’allenatore.

Altre volte, gli atleti sottolineano come il rapporto insegnamento-apprendimento sia

troppo arido. In altre parole, essi non si sentono protagonisti del proprio apprendimento,

ma semplici esecutori di decisioni prese da altri e scarsamente motivate.

Anche lo scarso rapporto personale con l’atleta viene considerato negativamente.

Altre volte, viceversa, il rapporto con l’allenatore non viene ritenuto soddisfacente perché

questo è considerato come troppo invadente sul piano educativo. Vengono, a questo

proposito, riportati esempi relativi a disapprovazioni sui capelli troppo lunghi, la frequenza

alle discoteche, ecc.

4) Rifiuto dell’atmosfera totalizzante della società sportiva

Non è affatto raro intravedere, in alcune società sportive, una tendenza totalizzante che si

esprime in diversi modi: l’allenatore che non si limita a fare il tecnico, ma che insegna

come si deve vivere; il dirigente che si sente padrone dei propri atleti perché paga; la

convinzione che non ci sono problemi per il futuro se rimane nell’ambito dello sport.

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5) I rapporti con l’altro sesso

Non tutti i gruppi sportivi favoriscono i rapporti fra i due sessi. E non è sempre possibile

trovare il ragazzo/a nell’ambiente del gruppo sportivo.

In questi casi, il giovane sportivo può vivere la propria attività come particolarmente

limitante. Anche in questo caso, analogamente a quanto già sottolineato per i gruppi fra

pari, possono venire a mancare proprio le occasioni poco impegnative, occasionali, non

organizzate.

In altri casi proprio il rapporto di coppia può essere alla base dell’abbandono sportivo.

Genericamente, si potrebbe dire che il/la partner del/la giovane atleta è geloso/a,

soprattutto se non appartiene al mondo dello sport, della pratica sportiva.

Specificatamente abbiamo riscontrato una certa frequenza di almeno due tipi di gelosia.

In alcuni casi è emerso che il partner può manifestare gelosia per il rapporto che la

compagna ha con l’allenatore e/o per la notevole autonomia di cui sembra godere

nell’ambito sportivo.

In altri casi, soprattutto da parte della fidanzata, la gelosia è causata da quello che

potremmo chiamare “narcisismo dell’atleta”, e cioè dal fatto che l’atleta è particolarmente

centrato su se stesso, sul proprio corpo, sulle prestazioni che il proprio corpo gli permette

o potrà, in futuro, permettergli.

Altre volte ancora, il rapporto di coppia può evidenziare un fenomeno talmente elementare

ed ovvio da non richiedere, in un certo senso, delle spiegazioni: lo sport ha assolto le

funzioni per cui era stato fino ad allora praticato

6) Lo sport come soddisfazione di bisogni adolescenziali

Alcune volte, l’atleta abbandona lo sport per un motivo molto semplice: non gli serve più.

Già è stato sottolineato che lo sport viene praticato dagli adolescenti come mezzo di

costruzione dell’identità personale. Gli intervistati hanno detto a tal proposito che si sono

avviati allo sport ed hanno continuato a praticarlo perché permette un colloquio con se

stessi, serve per misurare la propria forza d’animo, si vede se si è capaci di sopportare le

sofferenze, insegna a vincere la paura, è una continua lotta con se stessi, ti fa sentire

differente.

In altre parole, lo sport è utilizzato come strumento di conoscenza, di rafforzamento, di

verifica delle caratteristiche dell’Io.

Se nel corso della pratica sportiva non intervengono modificazioni nelle motivazioni, è

inevitabile che, una volta superata la fase adolescenziale, con l’emergere di nuovi bisogni,

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la pratica sportiva non soddisfi più. Tanto più ciò succede, quanto più essa ha soddisfatto

quei bisogni per cui era stata intrapresa.

7) Disaccordo con i genitori sul problema dell’autonomia.

Da quanto è emerso nelle interviste, soprattutto per alcune ragazze, la problematica

dell’autonomia dei genitori è più influente di quanto si sospetti.

Sembra abbastanza frequente che parecchi genitori (anche tra quelli che precedentemente

avevano favorito l’inserimento delle figlie in un gruppo sportivo) vivano lo sport come

eccessivamente emancipante, che lascia troppa autonomia alle ragazze.

Sembra opportuno sottolineare che anche questi conflitti possono concorrere ad un

abbandono sportivo soprattutto perché essi sembrano agire in modo velato, sotterraneo.

Non è certo un caso che questo tema sia emerso soprattutto alla fine delle interviste, con i

soggetti più collaboranti.

8) Paura di perdere la propria femminilità

Anche la paura di perdere la propria femminilità (Cancellieri A., Salvini A., Tosato R.,

1981) sembra essere una delle motivazioni. Tanto più influente sembra questa

motivazione, quanto più essa è condivisa, a livello più o meno consapevole, dai genitori o

dal proprio ragazzo.

Anche in questo caso, questa paura può non avere molta influenza finché la ragazza è

rivolta alla costruzione della propria identità personale, ma acquista importanza con il

passare degli anni e con il progressivo decadere delle problematiche adolescenziali.