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1 Capitoli tratti da Rullani, E. (2004), La fabbrica dell'Immateriale, Carocci: Roma

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Capitoli tratti da Rullani, E. (2004), La fabbrica dell'Immateriale,

Carocci: Roma

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CAPITOLO SETTIMO

L’ECONOMIA COGNITIVA DEL CAPITALISMO LIBERALE

o Nuovi mediatori: energia meccanica e conoscenza astratta Il rapporto tra economia e conoscenza cambia radicalmente con la rottura

introdotta dalla scienza moderna e dalle macchine, nel corso dell’ottocento, quando si afferma – sul piano produttivo, organizzativo e politico – il paradigma del capitalismo liberale.

Il suo presupposto cognitivo è la codificazione del sapere tecnologico astratto. Il sapere astratto, ricavato dalla scienza e dalla cultura ingegneristica ad essa collegata, viene incorporato nelle macchine da produttori specializzati (l’industria dei produttori di macchine utensili) e diffuso nel sistema economico attraverso i mercati.

La macchina è il nucleo portante del primo tentativo su vasta scala di artificializzare la produzione mediante l’impiego della conoscenza sociale. Infatti, le macchine che alimentano la rivoluzione industriale e la meccanizzazione dell’ottocento:

• sfruttano energia artificiale (carbone-vapore), aumentando notevolmente la potenza trasformativa messa al servizio dell’utilità economica. Di conseguenza, la produzione a macchina si caratterizza, in tutti i campi in cui è applicabile, per forti riduzioni di costo o per prestazioni superiori (dovute alla maggiore potenza, precisione, temperatura raggiungibili). Ciò è sufficiente, in moltissimi casi, a generare una elevata differenza utile (v) per ogni uso della macchina in luogo del lavoro manuale;

• sono costruite in funzione di un codice astratto che è replicabile in contesti e in impieghi diversi, contribuendo in modo significativo contributo alla loro propagazione moltiplicativa (n). L’elevato moltiplicatore potenziale che è implicito nella tecnologia meccanica rimane però tale fino a che nel sistema economico non si creano le condizioni per una reale applicazione delle macchine ai diversi usi. Perché n cresca effettivamente bisogna che i mercati si unificano (a scala nazionale e internazionale), favorendo in questo modo la penetrazione delle tecniche più efficienti, e che l’accumulazione di capitale renda disponibili nuovi mezzi finanziari, fornendo ai potenziali utilizzatori i capitali necessari per acquistare le macchine e i mezzi di produzione conseguenti (aree, edifici, scorte ecc.).

La propagazione della conoscenza si manifesta standardizzando tutte le attività e tutti i prodotti che sono collegati all’uso della macchina: all’astrazione (replicativa) della macchina, segue l’astrazione del lavoro (ridotto a tempo-lavoro), del prodotto (standard), dell’ambiente lavorativo (fabbrica).

I punti deboli del regime economico-tecnico inaugurato dalla prima modernità stanno soprattutto nel fatto che i grandi vantaggi della produzione a macchina, sia sotto il profilo dell’utilità che della moltiplicabilità, richiedono l’impiego di tecniche fortemente astrattive. Ossia di tecniche che richiedono una drastica riduzione della complessità: viene ridotta la varietà e variabilità dei prodotti, dei processi produttivi e dei lavori. L’indeterminazione, che può minare alla radice una tecnologia rigida per definizione, diventa un’insidia da prevenire con divieti e cinture protettive. Di conseguenza, il bacino di espansione della meccanizzazione risulta limitato dalla sua

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stessa rigidità. Molti processi sono ancora lasciati alle tecniche e soluzioni tradizionali (lavorazione a mano), mentre tutta una parte del consumo resta ancorata a prodotti tradizionali, meno standardizzati e banali di quelli ottenuti – a costi molto più bassi – dalle macchine.

o I regolatori del primo paradigma: accumulazione del

capitale e ampliamento dei mercati La prima modernità inaugura effettivamente una nuova epoca perché le

macchine consentono di impiegare conoscenze con un’elevata efficacia (v) e con un elevato moltiplicatore (n). Tuttavia, la moltiplicazione di un sapere che è, anche troppo, codificato in termini astratti, può rivelarsi poco difendibile sotto il profilo dei rendimenti privati e della sostenibilità (pi).

Dunque, il primo problema con cui la modernità si trova a fare i conti è quello di imbrigliare il potere moltiplicativo delle conoscenze messe in circolo nel sistema produttivo, in modo da rendere sostenibile nel lungo periodo il processo di crescita.

La conoscenza scientifica, che genera valore (aumentando n e v), ha l’effetto di ridurre le protezioni “naturali” di cui godeva la precedente conoscenza, legata com’era a condizioni di efficacia e di fiducia assolutamente ristrette (ai circuiti familiari e locali). Adesso che la conoscenza è diventata – per una parte importante – trasferibile attraverso codici scientifici e tecnologici che possono essere facilmente appresi, cadono le barriere alla propagazione, ma, allo stesso tempo, diventa più facile copiare, imitare, imparare dagli altri. Dunque, la conoscenza astratta si rivela assai meno controllabile di quella elaborata, in precedenza, dall’esperienza concreta e dalla tradizione.

La scienza e l’ingegneria delle macchine rimangono di dominio pubblico e creano una piattaforma di sapere riproducibile su cui possono lavorare gli inventori di macchine e gli imprenditori. Non solo gli innovatori, ovviamente, ma anche gli imitatori. In che modo la propagazione moltiplicativa può essere protetta dai suoi eccessi?

Le conoscenze che sono incorporate nelle macchine sono spesso coperte da brevetto. Inoltre, – almeno inizialmente – il vantaggio tecnologico della produzione a macchina è tale che è più conveniente comprare dagli specialisti (i produttori di macchine utensili che stanno sulla frontiera) che copiare o imitare in proprio.

Tuttavia, i “regolatori” più importanti della proliferazione delle macchine nell’economia dell’ottocento sono altri. I brevetti e il vantaggio del first mover non sarebbero stati sufficienti ad arginare la caduta del valore delle conoscenze incorporate nelle tecnologie meccaniche (astratte e riproducibili), una volta avviato il processo di propagazione. Ma, nell’economia del capitalismo liberale, la crescita esplosiva delle macchine è frenata da due regolatori di fondo:

- la disponibilità di capitale; - l’ampiezza dei mercati. Nelle prime fasi del paradigma, questi due regolatori consentono una

penetrazione della meccanizzazione solo nelle situazioni dove il capitale è sufficientemente concentrato (e disponibile per il nuovo impiego), e dove già esistono mercati ampi, non vincolati da barriere, dazi, difformità normative e fiscali, costi elevati di trasporto. Dopo questo avvio iniziale, la penetrazione viene regolata dal tasso di accumulazione del capitale disponibile (ossia dalla formazione di risparmio) e dalla

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velocità con cui procedono l’ampliamento e il perfezionamento dei mercati. Sono questi due regolatori che consentono al moltiplicatore n di crescere, ma

senza dare luogo ad un processo esplosivo, nonostante ci sia un forte vantaggio v ad adottare forme meccanizzate di produzione. E la moderazione con cui procede la propagazione permette di aumentare la produttività in modo sostenibile (consentendo così che i profitti ricavati siano reinvestiti).

Le macchine disponibili rimangono dunque, sia pure temporaneamente, scarse rispetto alla domanda potenziale e possono catturare una quota significativa del valore prodotto. E’ vero che, ogni tanto, si hanno rovinose crisi di sovrapproduzione, che interrompono la rincorsa verso l’Eldorado della meccanizzazione industriale, ma, nell’insieme l’evoluzione dei tre drivers (v+, n+, p=) consente di conquistare il centro del Triangolo delle Bermuda, prima richiamato. I capitali investiti nella meccanizzazione, dunque, rendono bene, e alimentano una rapida propagazione delle tecnologie industriali in tutti i paesi europei.

Nonostante questi limiti, dall’avvento delle macchine in poi, il mondo non sarà mai più come prima. Man mano che la propagazione procede – spinta dagli investimenti in condivisione e in regolazione – e man mano che le convenienze economiche richiamano investimenti nella produzione di nuova conoscenza, la produttività cresce e, con essa, crescono il reddito e la produzione di tutti i paesi che fanno parte del circuito cognitivo moderno.

o La teoria del capitalismo liberale: la conoscenza rimossa Non è un caso se l’economia politica – come disciplina scientifica – nasce in

questa epoca e assume, dopo qualche incertezza iniziale, la triade macchine-mercato-capitale come base di partenza nella spiegazione dello sviluppo. Una base che, assegnando valori elevati a v, a n e mantenendo un livello ragionevole di pi, poteva ben descrivere attraverso questi oggetti il modo con cui l’economia dell’ottocento generava valore.

Tuttavia, macchine, mercato e capitale – i fattori “visibili” cui viene imputato lo sviluppo – mettono in ombra il ruolo della conoscenza. La macchina, in effetti, è un elemento di ambiguità: essa contiene la conoscenza, ma la sua forza moltiplicativa non può operare fino a che il mercato non diventa abbastanza ampio e fino a che il capitale non diventa abbastanza abbondante.

Nasce così un equivoco, che è all’origine di tutte le successive rimozioni. Grazie alla mediazione della macchina - per metà conoscenza, e per l’altra capitale più mercato – la teoria economica del primo capitalismo può fare a meno di considerare la conoscenza, e le sue asperità, tra i suoi oggetti di studio. Al suo posto, può costruire una accettabile rappresentazione dell’economia reale dell’epoca usando capitale e mercato come controfigure della conoscenza: la grande narrazione dello sviluppo industriale viene comunque rappresentata sulla scena, ma la trama non sta in piedi se non si suppone che, dietro le quinte, i fili siano mossi da un burattinaio che fornisce gli incrementi di produttività e di valore necessari.

La conoscenza viene così rimossa dalla vista dello spettatore, ma eliminata dal gioco. La teoria, piuttosto la presuppone (implicitamente) all’azione dietro al capitale e dietro al mercato, nel momento in cui conferisce loro proprietà che non sono inerenti al capitale e al mercato, in quanto tali, ma che possono essere credibilmente attribuiti ad

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un capitale che contiene conoscenza e ad un mercato che spiana la strada alla propagazione moltiplicativa delle conoscenze più efficienti.

Dunque, anche nel capitalismo liberale dell’ottocento, è la conoscenza che, incorporandosi nelle macchine e propagandosi attraverso i mercati, genera il valore necessario allo sviluppo. Ma – una volta che la conoscenza viene metodologicamente rimossa dall’orizzonte di analisi delle due teorie prevalenti - quel valore viene imputato alle due “leve” che favoriscono anche (indirettamente) la propagazione della conoscenza incorporata nelle macchine: l’ampliarsi del mercato e la crescita del risparmio.

Sia dalla teoria classica che quella neoclassica - le due grandi narrazioni del capitalismo liberale – usano questo artificio per semplificare la scena, sostituendo la conoscenza con qualche altra cosa. Ma, come vedremo, non impunemente.

o I classici: l’accumulazione del capitale sostituisce la

propagazione delle conoscenze La teoria classica attribuisce la crescita della produttività e lo sviluppo

economico che ne consegue all’accumulazione di capitale, forse il fenomeno più vistoso – insieme a quello della meccanizzazione – che si osserva nel corso della rivoluzione industriale e negli svolgimenti successivi. L’accumulazione di capitale sembra, in effetti, una perfetta controfigura della conoscenza: poiché il mediatore principale della propagazione cognitiva, nel capitalismo liberale, è la macchina, la chiave di accesso alla nuova tecnologia, per gli imprenditori interessati, è soprattutto di tipo finanziario: chi dispone della somma di denaro richiesta per acquistare la macchina e per finanziare gli investimenti accessori (l’area,l’edificio, le scorte, le anticipazioni salariali ecc.) ha facilmente accesso anche alle conoscenze incorporate nella tecnologia meccanica.

D’altra parte, come abbiamo già detto, il riferimento all’accumulazione del capitale non “spiega” solo il driver n (moltiplicazione), ma anche il driver p (governance dell’appropriazione). L’accumulazione del capitale ha i suoi tempi incomprimibili: fino a che la propagazione delle tecnologie meccaniche è vincolata ai tempi dell’accumulazione, la proliferazione incontrollata della conoscenza è scongiurata. Il processo, salvo qualche defaillance locale, può essere facilmente tenuto sotto controllo.

In tal modo, la teoria può fare a meno di occuparsi direttamente della conoscenza e dei suoi drivers. Il loro posto sarà preso dall’accumulazione del capitale, che ha una dinamica assai meno discontinua a bizzarra della conoscenza: il capitale, infatti, esiste in uno stock misurabile e si accumula lentamente anno per anno, man mano che una parte del reddito di traduce in risparmio, e che, attraverso la mediazione degli investimenti, alimenta la crescita progressiva dello stock.

L’ipotesi messa in scena dalla grande narrazione dei classici è quella di un ciclo risparmio-investimento che, portando al sistematico aumento delle quantità di capitale impiegate nella produzione, spiega (da solo) la sistematica crescita della produttività del lavoro nel corso del tempo. Il ragionamento è semplice: se alla stessa quantità di lavoro si applica una dotazione crescente di capitale, il prodotto ottenuto crescerà, perché il lavoro potrà usufruire di maggiori mezzi (artefatti meccanici, strade, edifici, materiali disponibili ecc.). Ma di quanto?

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E basta il nuovo risparmio, disponibile anno per anno, ad offrire il punto di appoggio su cui basare tutta la trasformazione a valle (investimenti, crescita della produttività, remunerazione del capitale investito)?

Il maggiore capitale “fisico” disponibile nel circuito produttivo può portare, in effetti – se l’abbondanza dell’offerta di risparmio riduce il costo del capitale per gli investitori - anche ad un incremento dei mezzi strumentali impiegati nella produzione. E questi, a loro volta, possono portare ad un aumento del prodotto.

E’ una spiegazione suggestiva, ma parziale. Infatti, come documenta il lavoro di ricostruzione storica su quel periodo, l’aumento degli input impiegati (lavoro e capitale) “spiega” soltanto una parte limitata della crescita del prodotto. Le stime compiute per mettere in correlazione la crescita del prodotto con l’aumento della quantità dei fattori impiegati assegnano a questa causa una parte limitata della crescita della produttività. Facendo i calcoli, si scopre che la maggior parte della crescita ha invece natura residuale: essa è cioè dovuta a fattori diversi dall’incremento degli input immessi nel circuito produttivo (Abramovitz 1956).

Da dove nasce il residuo? E’ evidente che ha a che fare con il progresso tecnico, o meglio, possiamo dire, con la produzione e propagazione delle conoscenze (non solo tecniche) che sono impiegate nel circuito economico. Il residuo chiama in causa la conoscenza, rimasta dietro le quinte: se le nuove macchine o le nuove infrastrutture incorporano e propagano conoscenza, il capitale investito potrà avere accesso ad un valore addizionale (generato dalla conoscenza). Un valore probabilmente sufficiente a ripagare l’interesse e il rischio sul capitale investito e ad andare oltre.

Lo slittamento semantico dalla conoscenza alla macchina e dalla macchina al capitale mostra alla fine la corda. L’accumulazione occupa la scena della grande narrazione, ma è la conoscenza, che dalla scena è stata rimossa, a tenere insieme la trama del racconto e a renderlo plausibile.

Infatti, quel “residuo” – che rimanda alla conoscenza - non è un elemento accidentale che potrebbe anche non esserci. Al contrario è il perno attorno a cui ruota lo sviluppo economico del capitalismo liberale: è quello che spinge gli imprenditori ad investire, assumendo rischi e coinvolgendosi, anche personalmente, nelle innovazioni. E’ quello che spiega la crescita delle aziende più dinamiche e che traina la concentrazione del capitale, a sua volta premessa dei grandi impianti e dei grandi aumenti di produttività.

Infine, è quel “residuo” che dà continuità alla crescita di lungo periodo. Senza quel “residuo”, infatti, l’aumento dell’intensità di capitale nel ciclo produttivo (il passaggio a tecniche più capital intensive) rischiava seriamente di avvitarsi nella spirale dei rendimenti decrescenti, che scattano – come regola generale – quando l’uso di uno dei fattori si intensifica nella funzione di produzione. Oltre un certo limite, non c’è ragione per supporre che la produttività (per euro investito) cresca facendo più strade, ampliando le aree e gli edifici, aumentando le scorte o meccanizzando ulteriormente le lavorazioni.

Se non si chiama in soccorso la conoscenza incorporata nei nuovi beni capitali, gli effetti virtuosi dell’accumulazione nel lungo periodo possono difficilmente essere sostenuti.

In effetti, qualche dubbio su questo punto gli economisti classici debbono averlo avuto se hanno sviluppato una visione tutto sommato pessimistica sulle prospettive innescate dall’accumulazione di capitale. Se il fattore propulsivo fosse davvero solo l’accumulazione di capitale (senza progresso nelle conoscenze), la crescita finirebbe per

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impigliarsi in qualcosa di simile alla decrescenza storica del saggio di profitto, che ha – per fortuna senza ragione – dominato l’orizzonte di lungo termine economisti classici, e in particolare di Ricardo e di Marx1.

Dopotutto, che cosa – se non il valore generato dalla nuova conoscenza - mantiene elevato il livello di v (ossia il beneficio marginale), ma mano che cresce n (ossia la quantità del capitale investito)? Per mantenere elevato v, al crescere di n, bisogna immaginare che la propagazione abbia l’effetto, ogni volta, di riattivare il valore generato da ogni nuova lira investita. Non c’è modo di fare questo passaggio, se non si lega a filo doppio la crescita del capitale con la crescita delle conoscenze.

Non era dunque azzardato prevedere, una volta reciso il legame tra accumulazione del capitale e accumulazione della conoscenza, che la prima finisse per avvitarsi su se stessa. Cosa che, nella pratica, non è avvenuta proprio perché quel legame, di fatto, non si è affatto allentato, ma al contrario è diventano una delle forze portanti dell’evoluzione moderna.

La scelta metodologica dei classici, legando implicitamente capitale e conoscenza, ha fornito una importante via di fuga alla teoria. Che sarà praticata anche nei successivi paradigmi, proponendo il binomio capitale-conoscenza come fattore - implicito o esplicito - di sviluppo.

Che la molla dello sviluppo sia la decisione di investire, come suggerisce la tradizione prima classica e poi keynesiana, o la decisione di risparmiare (creando i mezzi disponibili per l’investimento), come suggerisce la tradizione neoclassica, il senso del racconto non cambia: è l’accumulazione progressiva del capitale, dovuta al reinvestimento del surplus risparmiato ogni anno, a generare – almeno in apparenza - la crescita annua della produttività del lavoro e, a parità di lavoro speso, la crescita annua della produzione.

o La sintesi neoclassica: il perfezionamento dei mercati

sostituisce la propagazione delle conoscenze La seconda grande narrazione dello sviluppo, elaborata in ambito neoclassico, è

quella che mette in scena la forza razionalizzatrice del mercato, lasciando però implicitamente agire dietro le quinte la propagazione della conoscenza che di quella forza è il motore necessario.

Sebbene classici e neoclassici si siano confrontati – come teorie alternative –

1 Per David Ricardo, la decrescenza del saggio di profitto conseguibile sul capitale a

lungo termine è legata ai rendimenti decrescenti della terra: rendendo più abbondante il capitale si finisce per aumentare le rendite del fattore strutturalmente scarso (la terra), a scapito del tasso di profitto sul capitale stesso. Per Karl Marx la questione della decrescenza storica del saggio di profitto sul capitale è più complessa, e ha dato luogo ad una discussione teorica, durata fino a pochi anni fa, sul tema della trasformazione del valore (lavoro) in prezzi, ossia sul procedimento matematico da Marx aveva ricavato il risultato della decrescenza del tasso di profitto al crescere della dotazione di capitale per addetto. Tuttavia, se si esclude dal ragionamento l’ipotesi implicita di un progresso tecnico che si accompagna (o meglio viene indotto) dalla meccanizzazione, non è difficile immaginare che il sentiero dei rendimenti decrescenti accompagni una dotazione di capitale che si limita a spostare i coefficienti tecnici della funzione di produzione. Anche i neoclassici, del resto, sempre escludendo la variabile esogena progresso tecnico, sono vincolati ad una prospettiva di rendimenti decrescenti che rende sempre più costoso l’allontanamento dall’equilibrio per effetto della crescita della disponibilità di un solo fattore produttivo (il capitale).

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nell’interpretazione del capitalismo liberale, il baricentro delle due visioni è molto differente. L’impostazione dei classici assume come proprio oggetto lo sviluppo, e la sua dinamica attraverso il tempo. L’impostazione neoclassica invece si focalizza sul problema dei prezzi, e, per renderlo trattabile con un certo grado di generalità, fa una scelta metodologica drastica: si concentra sulla statica dell’equilibrio tra le forze contrapposte (i costi versus le utilità) che, al margine, fissano il livello dei prezzi di ciascuna merce in rapporto a tutte le altre. I fenomeni dinamici di lungo periodo restano esclusi dall’orizzonte teorico principale della teoria e affidati a rami collaterali. La connessione sviluppo-progresso tecnico (o propagazione delle conoscenze) rimane dunque un fattore esogeno, che viene preso in considerazione solo in quanto muta i parametri di partenza di ogni processo statico di raggiungimento dell’equilibrio.

Tuttavia, la statica dell’equilibrio non si svolge fuori del tempo. Piuttosto, essa si sviluppa in un tempo virtuale: il tempo necessario perché gli squilibri siano eliminati e la convergenza verso l’equilibrio si compia. Fino a che ci sono forze attive che modificano l’equilibrio di volta in volta raggiunto, il processo non è arrivato al suo termine.

Si tratta quindi di una statica sui generis, in cui l’orizzonte temporale può essere dilatato se si prendono in considerazione processi che – nel tempo reale – hanno lunga durata. La versione normativa della teoria, quella che fornisce raccomandazioni di intervento per migliorare l’efficienza del sistema, si occupa soprattutto di due di questi processi di lungo periodo, che stanno a metà tra l’esogeno e l’endogeno: il perfezionamento dei mercati, inteso come eliminazione progressiva delle imperfezioni; e l’ampliamento geografico/merceologico degli stessi.

In tutti e due i casi, si realizza un guadagno di efficienza in termini di migliore allocazione delle risorse: l’economia rende di più perché i fattori vanno alle destinazioni che li rendono più produttivi. Più l’allocazione è priva di imperfezioni e più cresce la produttività: ogni processo che aumenti la trasparenza del confronto o favorisca la mobilità da un segmento di mercato all’altro diventa un driver della crescita della produzione e della produttività. E poiché questo processo di perfezionamento/ampliamento dei mercati richiede tempi lunghi, attraversando in pratica l’intero secolo del capitalismo liberale, ecco fornita una implicita teoria dello sviluppo che sfugge ai limiti statici dell’approccio neoclassico. Quando si prescrive che i mercati “si perfezionino” e si “estendano” si dice infatti qualcosa che non trova compimento nel tempo virtuale dell’equilibrio statico, ma che investe una dinamica storica pluriennale: bisogna infatti sviluppare un sistema di trasporti efficiente (le ferrovie costituiscono una vera rivoluzione da questo punto di vista), abbattere di dazi doganali, uniformare la normativa in grandi aree, separare l’economia dalla politica (serviranno a questo proposito le rivoluzioni borghesi che, durante tutto il secolo, porteranno alla formazione dello Stato di diritto), organizzare il sistema delle contrattazioni (borsa valori, borsa merci, mercato del lavoro, risparmio bancario ecc.), sviluppare standard unificati di misura e di regolazione ecc.. A questo potremmo aggiungere – arricchendo il quadro fornito dalla teoria dei mercati – il tempo necessario perché l’astrazione reale delle tecniche, del lavoro, dei prodotti e dei consumi faccia il suo corso, superando la precedente differenziazione dei prodotti e dei processi, confinati in segmenti locali, familiari e tradizionali.

I tempi del perfezionamento/ampliamento saranno, insomma, necessariamente lunghi, secolari. In una prospettiva del genere, la teoria dei mercati diventa una implicita teoria dello sviluppo. Il sistema economico, cioè, potrà svilupparsi, sfuggendo

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alla spirale negativa dei rendimenti decrescenti (temuta dai classici), ma mano che il lento processo di perfezionamento e di ampliamento dei mercati rende disponibili importanti guadagni di efficienza allocativa, che aumentano i rendimenti al margine, aumentando così le possibilità di sviluppo.

D’altra parte, come abbiamo già visto, la gradualità e lentezza del processo fornisce un argine implicito di difesa all’appropriazione delle conoscenze da parte dei produttori e dei primi possessori (rispetto ai new comers). L’imperfezione residua dei mercati e la lentezza con cui essa viene eliminata sacrificano la moltiplicazione delle conoscenze (n), ma forniscono un punto naturale di appoggio per mantenere p ad un livello sostenibile. Alla pari dell’accumulazione del capitale dei classici, il perfezionamento del mercato basta a realizzare – salvo qualche punto “debole” – un ragionevole compromesso tra n e p, fornendo allo sviluppo del capitalismo liberale un sentiero di crescita abbastanza stabile.

Diventa così possibile, anche per i neoclassici, fare a meno della conoscenza, che può essere confinata senza danno in una discreta zona d’ombra. I guadagni di efficienza allocativa riescono infatti a spiegare il “residuo”, almeno in apparenza, senza ricorrere alla propagazione della conoscenza: se le dotazioni dei fattori sono distribuite in modo diseguale, basterà migliorare la loro allocazione per aumentare la produttività che se ne può ricavare.

La conoscenza viene nuovamente sospinta dietro le quinte. Le uniche conoscenze che servono – nella teoria – sono quelle che perfezionano o ampliano i mercati: ma a questo pensano automatismi (il banditore di Walras, l’apprendimento evolutivo di von Hayek) che, fissando i prezzi di equilibrio, semplificano drasticamente il calcolo di convenienza di operatori e dunque il suo contenuto cognitivo.

Ma si tratta, in realtà, di un artificio: la grande giostra dello sviluppo si fermerebbe ben presto – esaurendo il “residuo” – , se l’energia che la muove fosse data (soltanto) dalla migliore allocazione di dotazioni di fattori date (esogene). Anche questo processo sarebbe infatti prigioniero della spirale dei rendimenti decrescenti: man mano che sono eliminate le maggiori imperfezioni e barriere, i guadagni allocativi sono destinati a ridursi.

Perché il perfezionamento/ampliamento dei mercati possa sfuggire al destino dei rendimenti decrescenti in cui si era già impigliata l’accumulazione di capitale dei classici, bisogna ricorrere alla risorsa rimossa: la conoscenza.

Se il sistema cognitivo della società produce continuamente nuove conoscenze, che si incorporano in fattori (macchine, professionalità, componenti tecnologici, nuovi materiali ecc.), la differenza tra “vecchio” e “nuovo” potrà rigenerare senza limiti il differenziale statico di produttività su cui lavorano i mercati. Se ogni anno diventano disponibili nuove macchine, a più elevata produttività rispetto alle precedenti, la loro propagazione può essere vista come un problema allocativo: inizialmente le novità si concentrano in certi luoghi, in certi settori, in certe aziende o in certe persone. Tocca al mercato (prescindendo dagli altri aspetti della propagazione cognitive) estendere il loro ambito di applicazione a tutto il sistema. Propagazione (cognitiva) e allocazione (delle nuove conoscenze) finiscono per sovrapporsi, anche se indebitamente: se si tratta di sostituire le vecchie macchine (meno produttive) con le nuove, si può immaginare che tocchi alla concorrenza di mercato svolgere questo compito.

Lo stesso vale per le nuove conoscenze incorporate nel lavoro, nei componenti, nei materiali ecc.: la loro propagazione è, in parte, dovuta a canali cognitivi (di cui la teoria non si occupa), ma, in parte, è dovuta anche alla forza competitiva dei mercati,

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che non consentono al vecchio di sopravvivere e spianano la strada al nuovo. La propagazione cognitiva, in altri termini, può essere “trainata” da mercati che

diventano ogni anno più perfetti e più estesi e che, comunque, agiscono come propagatori di conoscenze che nascono imperfette (locali, personali, limitate a piccoli circuiti) e che la concorrenza estende di fatto, agendo come forza di allocazione razionale delle risorse.

Dunque, anche nel caso della teoria neoclassica, la conoscenza viene rimossa dalla scena principale, che è occupata da una controfigura (il perfezionamento del mercato). Ma la controfigura non potrebbe fare la sua performance se dietro le quinte, non ci fosse il motore della propagazione della conoscenza a generare il valore necessario alla crescita economica. In scena, si rappresenta lo sviluppo come effetto del perfezionamento e dell’ampliamento dei mercati. Ma, implicitamente, si suppone che una parte della produttività generata dalla maggiore efficienza allocativa provenga dallo sviluppo di nuove conoscenze che devono essere propagate, e che possono viaggiare – sotto mentite spoglie – al traino del perfezionamento/ampliamento dei mercati.

Ha buon gioco, in questo quadro, J. Schumpeter (1912) a suggerire – nei primi anni del novecento - un fattore che va oltre l’orizzonte neoclassico, ossia l’innovazione tecnologica, che per un verso attinge alle “invenzioni” (e dunque ai progressi conoscitivi realizzati dal sistema scientifico-tecnologico) e per un altro richiede l’intervento della soggettività imprenditoriale (l’”imprenditorialità”), per tradurre le invenzioni in nuovi prodotti, processi e soluzioni vendibili sui mercati.

Criticando l’idea che l’allocazione possa costituire una fonte di valore adeguata a “spiegare” lo sviluppo messo in moto dal capitalismo liberale, Schumpeter paragona i guadagni di efficienza ottenuti attraverso la migliore allocazione delle risorse ad uno sbattere di porte che avviene nel bel mezzo di un bombardamento. Il bombardamento, ovviamente, è l’incalzante cambiamento indotto dalle innovazioni. Chi porge orecchio allo sbattere di porte (allocazione) ha certamente un udito fine, ma – proprio per questo - è incomprensibile che non senta il contemporaneo rumore del bombardamento (innovazione).

L’innovazione è il grande assente nel panorama del pensiero economico che cerca di rappresentare il capitalismo liberale. Schumpeter ha dunque ragione: una vera rivoluzione cognitiva e tecnologica come quella sottesa all’irrompere della modernità nel panorama di una tradizione plurisecolare viene “normalizzata” e diluita in piccole dosi dalla doppia rappresentazione in termini di accumulazione di capitale e di perfezionamento del mercato.

Ma non è per niente facile accogliere il richiamo di Schumpeter, riportando la conoscenza all’interno della cornice dell’equilibrio. Lo stesso concetto schumpeteriano di innovazione è costruito in modo da non essere contro l’equilibrio, ma da allargarne semmai il campo di applicazione, uscendo dall’orizzonte statico dell’ottimizzazione allocativa senza tuttavia togliere valore ai prezzi di equilibrio. Piuttosto il concetto di innovazione del primo Schumpeter è un concetto-cerniera: consente a statica e dinamica di coesistere senza negarsi a vicenda. E, allo stesso modo, giustappone il mondo della scienza e della tecnologia (che fornisce le “invenzioni”) dal mondo dell’economia (che provvede alle scelte razionali): l’innovazione sta sul crinale, congiungendo i due mondi e al tempo stesso separando il loro funzionamento.

Si tratta, più che altro, di un virtuosismo analitico che il primo Schumpeter2 può 2 Il primo Schumpeter, quello di Teoria dello Sviluppo Economico (1912) considera

l’innovazione un atto individuale (dell’imprenditore-innovatore) che, detta con i nostri termini, introduce

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proporre solo assegnando natura transitoria alla perturbazione creata dall’innovazione. Se la perturbazione è transitoria e destinata a rientrare – con tutti i suoi effetti – nel lungo termine l’equilibrio è destinato a riemergere come regola tendenziale, sostegno durevole su cui il sistema economico appoggia il suo sentiero di sviluppo.

In definitiva, la rappresentazione che classici e neoclassici forniscono coglie alcuni aspetti del meccanismo di sviluppo proprio del capitalismo liberale: il paradigma prende forma, in effetti, man mano che l’accumulazione di capitale decolla e che i mercati si perfezionano. Ma questa rappresentazione del processo rimane parziale fino a che essa serve per rimuovere dall’orizzonte dell’analisi economica ciò che i due fenomeni evocano o presuppongono: la rivoluzione scientifica e tecnologica che, attraverso la scienza, le macchine e il processo di meccanizzazione in generale, attribuisce al capitalismo liberale la straordinaria forza della propagazione moltiplicativa della conoscenza, per la prima volta nella storia messa a disposizione della produzione.

Questa forza viene imbrigliata attraverso la distinzione tra scienza e tecnologia. La nuova “economia della scienza”, che cerca di tenere conto delle anomalie proprie della risorsa conoscenza (Nelson 1959, Arrow 1962, Gibbons e Johnston 1974, Rosenberg 1982, Dasgupta e David 1987 e 1994) assegna la scienza al dominio delle risorse pubbliche risorsa pubbliche, che non entrano nel processi di valorizzazione affidato al mercato, e presuppone che la parte rimanente (la tecnologia, ossia la conoscenza tecnica che resta in proprietà di privati) possa essere capitalizzata sotto forma di proprietà immateriale (brevetto, copyright, marchio commerciale) o sotto forma di capacità intellettuali o organizzative, associate a rendite monopolistiche (temporanee) da innovazione.

Una conveniente copertura della tecnologia attraverso i property rights, estesi ai beni immateriali, o una appropriata teoria dell’innovazione (neoschumpeteriana), legata a vantaggi stabili che il mercato riconosce e capitalizza, sono sufficienti, per un certo periodo, a neutralizzare la carica eversiva che l’impiego diffuso della conoscenza ha sulle strutture di equilibrio e dunque sulle rappresentazioni teoriche fornite. Anche la conoscenza, in questo modo, torna ad essere una risorsa da allocare razionalmente attraverso i mercati, sia in quanto asset immateriale, sia come conoscenza incorporata in macchine o in organizzazioni specifiche (a loro volta dotate di valore di mercato). Il criterio allocativo recupera la sua (minacciata) universalità.

Ma si tratta di un involucro fragile, che finge di non vedere l’incompatibilità di principio tra equilibrio (di mercato) e moltiplicazione propagativa (delle conoscenze).

una differenza utile (tecnologica o no) nell’economia di impresa e sul mercato. Con i suo atto, l’imprenditore introduce un evento non previsto e non calcolabile a priori, rompendo il determinismo dell’equilibrio, e creando una situazione nuova, in cui non tutti i redditi sono livellati dalla concorrenza, ma l’innovatore percepisce una rendita che il mercato non riesce immediatamente a riassorbire. Nel lungo termine, tuttavia, il “primo Schumpeter” ammette che la concorrenza torna ad essere piena nel lungo periodo, e la rendita dell’innovatore scompare. Lo stesso innovatore non ha più alcun vantaggio, rispetto agli altri operatori, nell’introduzione di altre innovazioni, cosicchè il processo cumulativo dell’apprendere e dell’innovare riguarda la società e non i suoi singoli membri (o imprese). In questo modo, la conoscenza rimane esterna rispetto all’economia e la sua dinamica (cumulativa) non gioca all’interno del sistema economico. Il concetto di innovazione è dunque un “ponte” che unisce conoscenza ed economia, ma anche che separa i due universi, lasciando a ciascuno la propria dinamica. Quando il “secondo Schumpeter”, quello della maturità e di “Capitalismo, socialismo e democrazia” cerca di endogenizzare l’innovazione non può andare oltre lo spirito imprenditoriale, scoprendo le ragioni della sua vitalità nei processi cognitivi che gli stanno alle spalle (le spese di R&S con cui le grandi aziende assumono la guida del processo innovativo, rendendolo cumulativo nel corso del tempo) (Schumpeter 1942).

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Infatti, il compromesso raggiunto sarà presto travolto da due opposti fattori: la sovrapposizione crescente tra scienza e tecnologia, attraverso spinoffs e ricadute di varia natura; Il prepotente bisogno di concentrare il comando sull’intera filiera della conoscenza, dalla produzione delle materie prime al consumo finale, per sfruttare fino in fondo le anomalie della conoscenza, considerate – dal fordismo – non più come imperfezioni di cui liberarsi, ma come forze attive, generatrici di valore, da sfruttare a proprio vantaggio.

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CAPITOLO OTTAVO

L’ECONOMIA COGNITIVA DEL FORDISMO o Nuovi mediatori: gestione della complessità e conoscenza

organizzativa Che accumulazione del capitale e efficienza allocativa non bastassero ad

alimentare lo sviluppo lo si capisce – nella pratica, prima che nella teoria – con l’avvento del nuovo secolo, quando si comincia a lavorare sul problema che la prima modernità aveva lasciato irrisolto: l’impossibilità di impiegare le macchine per compiere operazioni complesse, e quindi per produrre la maggior parte degli oggetti di consumo e la maggior parte dei servizi richiesti, troppo complessi da poter essere prodotti da macchine rigide e ripetitive.

La propagazione mediante macchine aveva, come abbiamo detto, una carenza di fondo: le macchine – e specialmente le macchine rigide e ripetitive della prima meccanizzazione – sono adatte soltanto per lavorazioni semplici, che non richiedono adattamenti alla variabilità e alla variabilità degli input, delle circostanze e dei risultati da ottenere. La macchina è un grande moltiplicatore a basso costo in quanto replica sempre la stessa sequenza di operazioni.

Tuttavia, sono pochi i prodotti che possono essere ottenuti da lavorazioni semplici e ripetitive come quelle che possono essere affidate alle macchine del primo capitalismo. La maggior parte delle lavorazioni non può dunque, in questa prima fase, essere meccanizzata, e rimane affidata agli uomini, con tecniche quasi-artigianali che abbassano drasticamente il valore del moltiplicatore medio del sistema produttivo.

Per rimediare alla meccanizzazione “a macchie di leopardo” bisogna trovare il modo di meccanizzare anche le operazioni complesse. E’ un problema di cui si comincia a venire a capo solo con l’avvento del fordismo.

Le realizzazioni iniziali, di F. Taylor e di H. Ford, risalgono ai primi decenni del secolo, anche se il compiuto svolgimento del paradigma fordista si avrà soltanto negli anni del dopoguerra (cinquanta-sessanta).

Col fordismo, la modernità compie un altro passo in avanti: cambiando il paradigma di riferimento, e sostituendo il principio dell’organizzazione a quello del mercato, si trova infatti il modo di estendere la meccanizzazione – e dunque la forza moltiplicativa della scienza e delle macchine – anche alle operazioni complesse, ossia alla maggior parte delle lavorazioni manifatturiere e a parte di quelle dei servizi.

o La fabbrica fordista: parcellizzazione e integrazione Per raggiungere questo scopo, il fordismo introduce un mediatore diverso, e più

potente, di quello centrato sul binomio scienza-macchina: la propagazione moltiplicativa viene direttamente e consapevolmente organizzata dal potere di comando.

La fabbrica fordista, della produzione di massa, che comprende migliaia di operazioni, migliaia di addetti e centinaia di macchine non è disegnata dalla scienza, ma da un bricolage pratico e sperimentale, che adatta l’organizzazione alle esigenze di

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volta in volta emergenti. Di conseguenza, il disegno organizzativo della fabbrica e dell’impresa fordista è unico, non riproducibile. La sua complessità eccede infatti la capacità della scienza di inquadrare nelle sue leggi i multiformi aspetti delle organizzazioni concrete, nonostante le illusioni in tal senso dell’”organizzazione scientifica del lavoro” (Taylor) o delle managerial sciences (Sloan).

L’organizzazione fordista è una combinazione di macchine e di organizzazione, ossia di sapere astrattivo contenuto nelle macchine, “organizzato” da un sapere concreto, firm specific, riguardante le relazioni tra le macchine e la gestione dei processi produttivi che le attraversano. La chiave di volta dell’organizzazione fordista è la parcellizzazione delle operazioni che permette di scomporre le operazioni complesse in una serie (concatenata) di operazioni semplici, ciascuna delle quali è abbastanza “stupida” e ripetitiva da essere affidata ad una macchina (invece che all’uomo). Le operazioni parcellizzate devono poi essere integrate tra loro mediante l’impiego di un programma che specifica l’esatta sequenza delle operazioni e le sincronizza nel tempo. Oppure, nei casi in cui il processo è abbastanza stabile, la sequenza di operazioni stabilita nel programma può materializzarsi come sequenza di macchine e di fasi produttive in una linea di produzione interamente dedicata ad un prodotto.

L’organizzazione ha dunque queste due caratteristiche fondative: a) parcellizza e integra comportamenti, operazioni, lavorazioni meccaniche; b) centralizza le informazioni e le decisioni che governano i singoli atti di una catena produttiva formata da migliaia di operazioni svolte, spesso, da migliaia di uomini. La fabbrica diventa un intreccio complicato, ma deterministico di ingranaggi che devono marciare insieme in modo calcolabile e programmato a priori: Si parla, infatti, di fabbrica-orologio: un meccanismo tanto precisa quanto fragile rispetto alla complessità esterna (Butera 1984). Dunque un meccanismo che va isolato dall’esterno, e fatto lavorare – per così dire – “in serra”, al riparo da imprevisti e contingenze.

o I tre drivers nel paradigma fordista Il fordismo, tuttavia, è soprattutto un regime di uso della conoscenza che si

distingue nettamente dal paradigma precedente. I punti di rottura riguardano tutti e tre i drivers:

l’efficacia v aumenta, nel corso del fordismo, sia per la possibilità di estendere la

meccanizzazione oltre i limiti raggiunti dal capitalismo liberale, sia per la possibilità di usare un metodo gerarchico di coordinamento, in campi in cui risulta più efficiente di quello ottenibile mediante rapporti di mercato (tipici del paradigma precedente);

la moltiplicazione n cresce, nel fordismo, per effetto della maggiore meccanizzazione, e in questo non ci sono differenze importanti rispetto al paradigma precedente, se non sul piano quantitativo. Ma per quanto riguarda il lavoro cognitivo investito nell’organizzazione, che ha natura firm specific, ci si trova in una situazione totalmente differente. La propagazione delle conoscenze firm specific o comunque delle conoscenze proprietarie avviene, infatti, all’interno dei confini proprietari o comunque di un sistema (indotto) indirettamente controllato. Per accrescere il loro bacino di ri-uso, non c’è altra via che estendere i confini proprietari, accrescendo le dimensioni di impresa, e sviluppare metodi di standardizzazione aziendale entro tali confini;

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la protezione proprietaria p viene facilitata dalla mutata natura della conoscenza che, essendo diventata – almeno in parte – firm specific non è facilmente utilizzabile in contesti diversi da quello dell’azienda di origine. Accanto alla tutela della proprietà intellettuale si sviluppa il segreto industriale e uno spirito autarchico di auto-produzione (interna) delle conoscenze, dei servizi e anche delle macchine che possono essere utili per particolari operazioni. Come si vede, nel passaggio dal capitalismo liberale al fordismo, il regime di

uso della conoscenza muta in profondità. Vediamo come, seguendo uno per uno i cambiamenti che interessano i tre drivers.

o La differenza utile prodotta dall’organizzazione fordista La crescita del valore connessa con l’avvento dei metodi di produzione fordista,

come abbiamo detto, fa capo a due fenomeni abbastanza diversi. Prima di tutto, grazie a parcellizzazione e integrazione, le macchine possono

essere impiegate anche per lo svolgimento di operazioni complesse, consentendo, così, di estendere la meccanizzazione ad operazioni che in precedenza dovevano essere lasciate all’uomo (al lavoro manuale). La produzione a macchina si generalizza a tutte le fasi della produzione e a moltissimi prodotti.

Unico requisito: la possibilità di replicare molte volte e per un lungo periodo di tempo il processo prima parcellizzato e poi integrato: il costo dell’operazione può infatti essere ammortizzato solo se la soluzione trovata viene sfruttata molte volte. Cicli ad alta varietà (con piccole serie) o ad alta variabilità (con frequenti mutamenti) non si prestano a questa forma di meccanizzazione. Restano fuori quasi tutti i servizi, i processi innovativi e quelli in cui è richiesto un apprendimento in corso d’opera, per adattarsi a situazioni molto mutevoli (moda, qualità, personalizzazione). Dove invece le serie possono diventare lunghe e stabili nel tempo, i vantaggi dell’organizzazione fordista sono davvero rilevanti.

Ma non si tratta solo di questo. Il paradigma fordista propone un collante (il coordinamento gerarchico) particolarmente efficace per governare processi produttivi nuovi, per i quali non esiste ancora un mercato ampio e collaudato; o per ridurre la complessità di cicli particolarmente complessi, che devono essere standardizzati, programmati, organizzati dal punto di vista delle interconnessioni con altri cicli e altri interessi. Il potere di comando, in questi casi, è più efficace del coordinamento di mercato. In termini di costi di transazione, il coordinamento gerarchico riduce i rischi ogni volta che le parti in causa devono impegnarsi in investimenti specifici, che le rendono interdipendenti: sottoporre tutte le parti ad un medesimo centro di decisione e controllo elimina la conflittualità e sincronizza i comportamenti.

o La propagazione nell’azienda fordista La propagazione, nel paradigma fordista, ha la caratteristica di essere interna al

circuito proprietario. Con due conseguenze: a) ha un bacino di ri-uso limitato (non potendo essere ri-usata all’esterno, da altre aziende); b) la moltiplicazione del valore delle conoscenze possedute può avvenire solo attraverso la via (difficile, e spesso

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sanguinosa) della crescita dimensionale (Di Bernardo 1991b). Eppure, ci sono poche alternative a questo quadro. Per costruire e gestire l’organizzazione servono infatti, come abbiamo detto,

molte conoscenze firm specific, essendo ogni impresa – nella sua parcellizzazione, concatenazione e comando - diversa da tutte le altre.

Accanto alle conoscenze astratte che sono incorporate e propagate dalle macchine, l’organizzazione utilizza una quantità crescente di conoscenze che sono ancorate al contesto aziendale. Si tratta delle conoscenze necessarie per organizzare la fabbrica, programmare la produzione, gestire i processi ecc.. La complessità di queste relazioni rende impossibile un approccio scientifico o tecnologico ai problemi, e incoraggia la ricerca di soluzioni ad hoc, che vengono poi sedimentate dall’apprendimento evolutivo in routines, procedure, regole, atteggiamenti, abitudini decisionali.

Le imprese fordiste fanno enormi investimenti in progettazione dei prodotti e dei processi, gestione operativa, amministrazione e finanza, reti di vendita e pubblicità, che forniscono le conoscenze necessarie a fare da collante al sistema. Queste conoscenze possono essere ri-usate, ma solo all’interno della stessa impresa: l’unico modo di moltiplicarne gli usi è dunque quello di far crescere i volumi e le dimensioni dell’organizzazione stessa.

L’organizzazione utilizza le risorse del comando per propagare le conoscenze entro i confini proprietari, e lo fa in diversi modi, tutti orientati a trarre vantaggio dal ri-uso della conoscenza posseduta. Quando ad esempio si centralizzando informazioni e decisioni, la ratio può essere quella del coordinamento; ma si pensi anche alle economie di replicazione che possono essere conseguite specializzando le competenze al centro e assegnando al vertice poteri decisionali che servono a programmare lavori, fissare standard (aziendali) e stabilire procedure. Per accrescere n (il moltiplicatore) bisogna, da un lato, standardizzare tutto ciò che si trova entro i confini aziendali e dall’altro estendere al massimo i confini stessi, facendo crescere le vendite e le dimensioni aziendali.

Il nuovo regime di uso delle conoscenze è all’origine di alcune caratteristiche specifiche del paradigma fordista, che emergono e sono rilevate dagli storici proprio in corrispondenza dei cambiamenti intervenuti nei mediatori della propagazione cognitiva.

Non potendo “uscire” dal circuito aziendale, le conoscenze firm specific contenute nell’organizzazione si propagano per linee interne, usando per un verso la standardizzazione (a scala aziendale) e per un altro la crescita dimensionale. Le imprese diventano grandi concentrazioni industriali e finanziarie, capaci di centralizzare il comando su un volume crescente di attività e di persone.

La propagazione organizzativa della conoscenza si manifesta sotto forma di subordinazione gerarchica di migliaia di uomini ad un centro di comando che impartisce ordini, coordina il loro comportamento mediante programmi dettagliati, e propaga la conoscenza per linee interne, proprietarie.

o Il controllo proprietario della conoscenza nel fordismo Il fordismo è un paradigma che utilizza il comando come potere ordinatore: il

controllo (anche proprietario) sull’uso delle conoscenze è un sottoprodotto del potere ordinatore del comando proprietario. Nella maggior parte dei casi, le imprese riescono a mantenere elevati livelli di p. Talvolta fin troppo elevati, andando a scapito di n.

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Il controllo p sulle conoscenze incorporate nelle macchine viene mantenuto, in questo paradigma, attraverso l’acquisto sul mercato delle macchine e delle licenze di uso delle tecnologie. Ma anche con l’auto-produzione, ossia sviluppando all’interno delle grandi aziende reparti consistenti di R&S che brevettano le innovazioni tecnologiche ottenute e che producono soluzioni firm specific, talvolta protette dal segreto, ma comunque difficilmente imitabili da parte di altre organizzazioni.

La proprietà azionaria sull’impresa, o il controllo di fatto sulla stessa, consentono anche di controllare le conoscenze firm specific che si accumulano nell’organizzazione, ai suoi vari livelli.

La natura poco trasferibile delle conoscenze chiave tende anche a creare discriminazioni importanti tra aree – paesi sviluppati contro paesi non sviluppati – e tra imprese. Ogni grande impresa ha il suo circuito e trasferisce la conoscenza la suo interno: se multinazionale, porta alcune conoscenze anche molto lontano dal luogo di origine, ma a patto di costruire sistemi chiusi, autarchici, che fanno fatica a radicare nei luoghi in cui “atterrano”.

Questa stratificazione minuta della conoscenza firm specific attraverso i luoghi e attraverso i confini proprietari è anche un fattore di gerarchizzazione e di discriminazione rilevante. Che viene amplificato dagli investimenti e dagli interventi regolatori pubblici che tendono, in genere, a ratificare la distribuzione delle competenze e dei redditi emersa dalla geografia della propagazione privata delle conoscenze.

Rendendo differenti i fattori disponibili e le condizioni in cui operano le imprese, il mercato perde una condizione essenziale: non c’è più uniformità delle condizioni di partenza. E questa differenza riguarda sia n (l’ampiezza di circuiti di propagazione a cui si ha la fortuna o la sfortuna di appartenere) che p (il grado di protezione e di scarsità delle conoscenze proprietarie che si ha fortuna o la sfortuna di possedere).

La produttività del lavoro – dipendendo dagli investimenti infrastrutturali fatti e dalla propagazione delle conoscenze ottenuta - non è uguale in tutti i paesi e in tutti i luoghi, ma dipende dagli investimenti in capitale umano e in welfare compiuti. Presenza di organizzazioni fordiste, capitale umano e welfare hanno effetti discriminatori sia dal lato dei costi che dei ricavi, e, rendendo “scarse” le strutture della produzione fordista nel mondo – oltre a rendere lenta la loro propagazione – consentono a paesi e aziende che ne dispongono di appropriarsi di una parte consistente dei benefici, compensando in questo modo i maggiori costi sostenuti (nella costruzione delle organizzazioni aziendali, nell’istruzione di massa, nel welfare diffuso).

Il mondo diventa più ricco e più differente. Ma la solidità del controllo proprietario sulle conoscenze lo fa apparire – a torto – più stabile e regolato di quanto potesse apparire, un secolo prima, il mondo tumultuoso capitalismo liberale.

o Le institutions del paradigma fordista: regolazione del

controllo, garanzia della domanda, negoziazione con i contropoteri

Data la particolare combinazione dei drivers che caratterizza questo paradigma,

le istituzioni fordiste non proteggono tanto la proprietà della conoscenza, quanto la propagazione della conoscenza, che, come abbiamo detto, è vincolata alla crescita.

Le istituzioni elaborate dal fordismo sono, in effetti, istituzioni della

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propagazione, piuttosto che della governance proprietaria. Ci si preoccupa, cioè, che la natura proprietaria della conoscenza ne ostacoli la propagazione, perché condiziona il ri-uso della conoscenza disponibile alla crescita dei volumi e del fatturato delle singole imprese. Ora, questa crescita non è affatto un dato che possa essere considerato scontato, se non altro perché non tutte le imprese possono crescere rapidamente e notevolmente: molte devono soccombere, facendosi assorbire o chiudendo i battenti, perché poche possano crescere e concentrare l’offerta.

Se la crescita delle imprese si impiglia infatti in tutta una serie di ostacoli, c’è il rischio che il suo eventuale arresto o regresso fermi la spinta moltiplicativa della propagazione delle conoscenze: le istituzioni devono dunque intervenire per aggirare o eliminare gli ostacoli, garantendo un percorso continuo e poco rischioso alla crescita dimensionale delle imprese. Ci sono almeno tre diversi terreni di intervento:

1) per favorire la continuità del controllo proprietario dell’azienda nei processi di crescita accelerata;

2) per garantire una domanda stabile e crescente, nonché le condizioni infrastrutturali e di welfare che sono necessarie per ridurre i rischi e aumentare il rendimento degli investimenti nella crescita aziendale;

3) per favorire il controllo e la prevedibilità dei comportamenti, addomesticando i contropoteri degli stakeholders con appropriati processi di negoziazione, concertazione, programmazione.

Il primo ostacolo che rischia di rallentare la crescita dimensionale delle imprese maggiormente dinamiche è il problema del capitale di controllo. Quando un’impresa cresce rapidamente, per poter conseguire i vantaggi moltiplicativi della propagazione delle conoscenze, si pone infatti un problema di controllo: se non si vuole rallentare la crescita, bisogna in qualche modo garantire, dal lato finanziario, la continuità degli assetti proprietari, che sono messi duramente alla prova dalla necessità di accrescere rapidamente e notevolmente le dimensioni di impresa (Di Bernardo e Rullani 1990).

Non appena le imprese provenienti dal capitalismo liberale iniziano la “corsa” accelerata verso le grandi dimensioni aziendali, si scopre la fragilità finanziaria delle élites imprenditoriali ereditate dal capitalismo liberale. Che raramente hanno i mezzi per seguire l’escalation dei capitali investiti nei grandi progetti di industrializzazione. La strozzatura finanziaria che frena la crescita dimensionale ha il suo epicentro nella posizione dell’imprenditore che sta al posto di comando e che non ha intenzione di andarsene. Per conquistarlo al nuovo progetto di sviluppo, bisogna che qualcuno garantisca la sua permanenza al vertice delle grandi organizzazioni che si stanno creando o che almeno valorizzi il capitale di cui è portatore.

Di qui la rivoluzione istituzionale nell’assetto di vertice dei capitalismi nazionali, che accompagna il debutto del paradigma fordista e che è, in qualche modo, arbitrata dallo Stato. I capitalismi cosiddetti “anglosassoni” (Stati Uniti e Gran Bretagna) gestiscono le concentrazioni finanziarie e di comando richieste ricorrendo – in gran parte – a public companies, ossia a società che raccolgono il loro capitale in borsa e che, in rappresentanza del “pubblico” disperso dei loro azionisti sono spesso guidate da managers (Berle e Means 1932). Nei capitalismi “continentali” (Germania, Francia, Italia ecc.) l’assetto di vertice mantiene una maggiore continuità, perché lo Stato nazionale diventa arbitro di una trasformazione che, da un lato, favorisce la permanenza al vertice di grandi famiglie imprenditoriali3 e, dall’altro, assegna allo Stato

3 La continuità del comando familiare viene assicurata, anche in presenza di un

consistente salto nel fabbisogno e nella raccolta finanziaria, da apposite istituzioni che concentrano il

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un ruolo di regolatore in ultima istanza dei conflitti di interesse e di garante del finanziamento industriale. Allo scopo, i capitalismi continentali mobilitano le banche (Germania), la pubblica amministrazione (Francia) o Enti pubblici di gestione di attività industriali (Iri e Eni, in Italia). Un forte blocco di utilities pubbliche (nell’energia, nei trasporti, nelle infrastrutture, nell’acqua e nei servizi pubblici ecc.) completa il quadro. L’insieme dei caratteri specifici di ciascun ambiente nazionale genera vantaggi e svantaggi competitivi per le imprese che vi sono collocate (Rispoli 1998, cap. 3). Da un certo punto in poi – specialmente negli anni del declino del fordismo – il differente radicamento nazionale provoca anche un’evoluzione divergente dei modelli di organizzazione e di investimento strategico, tanto che Porter (1989) può parlare di “vantaggio competitivo delle Nazioni”.

Il secondo grande cambiamento istituzionale introdotto dal fordismo riguarda la gestione degli squilibri e dei rischi della crescita.

Come Keynes mette in luce fini dagli anni trenta, le istituzioni del capitalismo liberale (automatismo di mercato) non garantiscono una crescita della domanda abbastanza forte e abbastanza continuativa da corrispondere alla crescita che le tecniche e l’organizzazione fordista stanno realizzando dal lato dell’offerta. La domanda – che in precedenza era affidata all’automatismo di mercato, ossia a milioni di decisioni non organizzate – diventa in questo modo un fattore di instabilità e di rischio, tale da minare la possibilità di programmare e investire a lungo termine, come richiesto dalle tecniche fordiste di produzione.

Per controllare la domanda, e farla procedere al ritmo dell’offerta, serve una profonda revisione dell’assetto istituzionale dello Stato: bisogna intervenire attivamente, con politiche di bilancio appropriate, per sostenere la

domanda effettiva e coprire eventuali “vuoti di domanda”; devono essere legittimati i sindacati, che, rafforzando il potere contrattuale del lavoro,

creano una continua traslazione dei reddito dall’offerta (in crescita) alla domanda (che tale crescita deve “comprare”);

la spesa pubblica deve aumentare per garantire un livello elevato di servizi e di welfare a tutti i cittadini. Accanto alla domanda, lo Stato fordista garantisce la crescita fornendo una vasta

offerta di infrastrutture, di welfare e di servizi pubblici, che le imprese possono utilizzare senza avere l’incombenza e l’onere di produrli. Lo Stato, in altre parole, organizza il contesto in cui la crescita può realizzarsi senza costi e rischi eccessivi da parte degli investitori privati.

La prima esigenza che il contesto deve soddisfare è quella di una adeguata infrastrutturazione, condizione primaria per la propagazione della conoscenza. La popolazione si addensa in grandi aree metropolitane che costituiscono bacini di interscambio e moltiplicazione delle conoscenze: le aree vanno dotate di infrastrutture adeguate per fornire ai residenti i servizi di trasporto, abitativi, commerciali e produttivi necessari. La propagazione a lunga distanza deve essere organizzata mediante strade, ferrovie, porti, aeroporti. Le aree industriali in cui collocare grandi fabbriche devono essere attrezzate con servizi energetici, idrici, logistici e di controllo. Insomma, il

comando al vertice senza richiedere eccessivi investimenti nel controllo. Ricorrendo a gruppi articolati in più livelli e all’incrocio di partecipazioni tra società differenti, o alla mediazione di banche d’affari e altre istituzioni finanziarie, diventa possibile mantenere il controllo di grandi concentrazioni di denaro e di attività senza aumentare nella stessa proporzione il capitale di proprietà impegnato dal soggetto economico nel controllo.

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fordismo costruisce intorno alle grandi fabbriche un sistema assolutamente artificiale di insediamenti residenziali e abitativi, che richiedono enormi investimenti, per la maggior parte delegati alla spesa e alla progettazione pubblica.

Un secondo intervento di organizzazione del contesto riguarda la predisposizione di forza lavoro alfabetizzata e di un rilevante numero di quadri istruiti. Tutti i paesi in cui arriva la produzione di massa reinvestono una parte consistente dei proventi ottenuti dalle tecniche fordiste nell’istruzione di massa, ossia nella formazione di un sistema scolastico e di istruzione superiore che interessa la totalità della popolazione. In questi paesi il lavoro non è più una risorsa che deriva le sue capacità professionali dalle capacità biologico-culturali innate, e dunque comuni a tutti gli uomini, ma diventa capitale umano, ossia lavoro che ha capacità professionali artificialmente indotte da un investimento in education e in formazione professionale (Costa 1992 Camuffo e Costa 1993).

Il lavoro professionalizzato, che conduce un’esistenza sempre più artificiale, ha bisogno di un welfare garantito per la previdenza, la sanità, la sicurezza, i servizi richiesti dalla vita urbana. E’ questa garanzia che rende possibile e conveniente – per le singole persone - delegare le scelte più rilevanti della vita privata e lavorativa alle scelte di tecnostrutture (le grandi aziende, l’amministrazione dell’education) che se ne occupano, regolandole in funzione delle esigenze produttive.

La costruzione di un’educazione di massa e di un welfare pubblico effettivamente esteso alla generalità della popolazione richiedono tempo e innovazioni istituzionali di non poco conto. Non tutti i paesi e non tutti i luoghi realizzano allo stesso modo le condizioni adatte allo sviluppo delle grandi imprese fordiste e delle tecniche della produzione di massa.

Infine, bisogna intervenire sul contesto per renderlo prevedibile, programmabile, in modo da ridurre il rischio di comportamenti devianti o di situazioni incerte, capaci di inibire gli investimenti a lungo termine che devono essere compiuti sia dai privati che dallo Stato.

Per ridurre l’imprevedibilità, la ricetta del fordismo classico (quello di Henry Ford, per intenderci) puntava sull’autoritarismo tecnologico: molti ingegneri che calcolano e progettano, un comando solido e solitario che dà forza ai calcoli e realizza i progetti. Henry Ford non voleva tra i piedi il sindacato (fino al punto da raddoppiare le paghe dei dipendenti in modo da prevenirne la sindacalizzazione e ridurre il turnover) e nemmeno le banche, o altri finanziatori, che potessero limitare la sua discrezionalità.

Ma, cinquant’anni dopo, il fordismo maturo ha cambiato atteggiamento: in tutti i sistemi fordisti, a prescindere dalla colorazione politica prevalente, il sindacato è riconosciuto e chiamato a negoziare le condizioni dell’organizzazione del lavoro. Il management delle imprese non rappresenta più soltanto gli interessi degli azionisti (shareholders), ma tratta – con una certa autonomia - con una pluralità di portatori di interessi e di potere di influenza (stakeholders), ossia con le banche, con gli azionisti di minoranza, con gruppi importanti di fornitori e di clienti, con le istituzioni nazionali e locali, con rappresentanti dei consumatori e difensori dell’ambiente, e persino con i principali concorrenti ecc. (Rullani 2000a). La parola d’ordine è di declinare, per quanto possibile, la competizione con la cooperazione, ottenendo quello che più interessa: il controllo dell’imprevedibilità e dell’incertezza.

Questa evoluzione, del resto, era scontata. Se l’organizzazione fordista non è un fatto puramente tecnico, ma si appoggia sul potere di comando, è inevitabile che l’esercizio del potere produca tutta una serie di contro-poteri che si organizzano per

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resistere o per avere maggiore forza contrattuale. E con i contropoteri non si fanno previsioni o calcoli tecnici: si configge e si negozia. O meglio si negozia per prevenire il conflitto e si configge (potenzialmente) per dare forza al negoziato.

La cosa vale per le grandi imprese e vale, a maggior ragione, per lo Stato. Che elabora una complessa filosofia di partecipazione negoziata al potere di regolazione e di intervento in ultima istanza su un sistema produttivo diventato complesso, ma bisognoso di controllo dell’imprevedibilità e del rischio. Di qui tutta una serie di procedure di contrattazione, concertazione, programmazione che chiamano ad tavolo negoziale i grandi interessi, ridefinendo in forma latamente corporativa lo Stato di diritto ereditato dal capitalismo liberale. La cosiddetta école de la régulation, in Francia, ha chiarito bene questo ruolo delle istituzioni come dispositivi sociali che sono necessari per regolare, in contesti sempre diversi, il rapporto tra i grandi interessi organizzati (capitale e lavoro in primo luogo) (Aglietta 1997, Boyer 1979, Boyer e Saillard 1995, Petit 2003).

La politica, in questo modo, finisce per intrecciare l’economia in molti e decisivi punti, che condizionano pesantemente la crescita delle imprese e dunque lo sviluppo complessivo di ciascun paese. Il ruolo arbitrale e di regolazione negoziata assegnato allo Stato favorisce la formazione di capitalismi nazionali in cui la politica ha un ruolo importante, anche nella formazione delle élites dirigenti delle maggiori imprese.

Ed è questo, però, anche il suo tallone di Achille. La politica organizza e i ingessa sistemi nazionali troppo ampi e differenziati per essere regolati dal centro, anche attraverso il negoziato a cui partecipano i diversi interessi. La concertazione corporativa, in effetti, è spesso conservatrice, nemica del nuovo e dello sperimentale. Inoltre, la politica acquista un peso tale nell’equilibrio dei poteri interni a ciascun paese, da determinare una forte pressione sulle risorse, con aumento della spesa pubblica oltre i limiti della fiscalità, e conseguente inflazione.

Nonostante i molti “lacci e laccioli” con cui si cerca di imbrigliare il nuovo e l’imprevedibile, i capitalismi nazionali plasmati dal fordismo all’insegna della negoziazione e della programmazione degli investimenti a lungo termine sono giganti con i piedi d’argilla. Sul piano internazionale si trovano in una condizione di instabilità, perché manca – dopo la fine del dollar standard – un centro direttore che unifichi le strategie di regolazione a scala internazionale. E sul piano interno perché le procedure negoziali sono continuamente stressate dalla cronica mancanza di risorse addizionali, che apre un conflitto endemico tra la politica, insediata al centro del sistema, e l’economia, sempre più desiderosa di riacquistare la sua precedente libertà di movimento.

o Teoria economica: incontri ravvicinati con la conoscenza Il fordismo utilizza così direttamente ed esplicitamente la conoscenza come

risorsa produttiva che una strategia di pura e semplice rimozione – come quella vista durante il capitalismo liberale – non poteva essere riproposta.

La conoscenza di presenta agli economisti del secolo scorso attraverso tre fenomeni fondamentali, per lo sviluppo del paradigma, ma teoricamente ingombranti : l’organizzazione, che, come abbiamo visto, fornisce alla propagazione delle

conoscenze un mediatore cognitivo diverso dalle macchine e dal mercato; l’innovazione neo-schumpeteriana che lega le performances economiche ai risultati

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cognitivi ottenuti dagli investimenti in R&S e in capitale umano compiuti dalle maggiori imprese;

la crescita dimensionale, che rimanda alla conoscenza sia in termini di competenze del team manageriale, sia per le economie di scala che la crescita aziendale consente nell’uso della conoscenza firm specific. Si tratta di tre elementi che hanno un’importanza chiave - empiricamente ben

documentata – nello sviluppo del paradigma fordista. Ma che la teoria esita ad assimilare, un po’ per la forza di una tradizione (quella neoclassica) che si è molto rafforzata nel corso del novecento, e un po’ per la difficoltà di rendere organizzazione, innovazione e crescita compatibili con la scelta metodologica di base: l’equilibrio.

L’organizzazione, che fa da perno a tutta l’economia della conoscenza del paradigma fordista, sfugge quasi per intero ad una teoria che ancora pensa il coordinamento come un problema da delegare al mercato (o allo Stato). La grande impresa che sopprime il mercato tra imprese diverse e lo sostituisce con relazioni amministrate da un centro di comando unitario si configura come un monopolista che, riducendo la perfezione del mercato o la sua ampiezza, finisce per danneggiare la propagazione delle conoscenze e per imporre una rendita monopolistica sui consumatori. Da un punto di vista statico sembra una rappresentazione corretta, ma è totalmente sfuocata rispetto alla realtà, se solo si prende in considerazione (dinamicamente) il ruolo innovativo della grande impresa fordista e la sua capacità di aumentare la meccanizzazione e propagazione delle conoscenze rispetto al mercato. Si comincia a sentire la mancanza, nella teoria ereditata dal capitalismo liberale, di un concetto positivo di cooperazione che non sia banalmente risolto in quello di collusione (negazione della concorrenza).

Un secondo fronte in movimento è quello che discende dal ruolo determinante che comincia ad avere, nella pratica delle imprese, l’innovazione neo-schumpeteriana (adottata dal “secondo Schumpeter” in Capitalismo, socialismo, democrazia, 1942), ossia l’innovazione che non è più frutto di occasionali atti imprenditoriali, ma è il risultato di una sistematica attività di ricerca e sviluppo attraverso cui le maggiori imprese acquisiscono vantaggi permanenti (Antonelli 1982, 1995) nei confronti degli altri concorrenti. La concorrenza, perciò, non si svolge tra imprese astrattamente uguali, muovono dallo stesso nastro di partenza, ma si sviluppa tra imprese che hanno, già all’avvio, posizioni differenziate. Con due conseguenze metodologiche “forti”, non facili da accettare: la concorrenza viene progressivamente minata dal carattere cumulativo del vantaggio acquisito con la R&S; il carattere imprevedibile delle innovazioni, incidendo sull’assetto dei mercati e dei vantaggi competitivi, finisce per rendere indeterminato l’esito del confronto di mercato.

Infine, un altro “punto dolente” è rappresentato dall’acuta percezione che le imprese hanno imboccato – sulla scia delle esigenze di pronazione della conoscenza proprietaria – la via di una crescita permanente, avviandosi pericolosamente per un percorso che può scardinare alla radice il concetto stesso di equilibrio.

La crescita dimensionale, infatti, è un fenomeno intrinsecamente dinamico che consente di vedere in modo totalmente diverso quello che la tradizione neoclassica si affannava – con scarso successo – a spiegare con le diverse teorie della dimensione ottima.

Le teorie della dimensione ottima sono elaborate per neutralizzare la carica eversiva delle economie di scala, drammaticamente presenti e “pesanti” in tutte le storie imprenditoriali dei primi anni del fordismo. Le economie di scala, pensate inizialmente

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come un fatto tecnologico (una curva dei costi decrescente per cause esogene), avevano il doppio inconveniente di minare la concorrenza e di rendere impossibile l’equilibrio in presenza di costi marginali decrescenti, e perciò inferiori ai costi medi4.

Perché l’equilibrio esista e perché la concorrenza resista, bisogna che, al margine, la curva dei costi marginali sia crescente, non decrescente, ponendo in questo modo un limite superiore alla crescita (una volta raggiunta la dimensione ottima la crescita verrebbe arrestata dai costi crescenti che incontra). Basta immaginare, ad hoc, una curva dei costi ad U – con un primo tratto decrescente (economie di scala) e un secondo tratto crescente (equilibrio) – per conciliare il diavolo con l’acqua santa.

La teoria della dimensione ottima, espressa dalla curva ad U, aveva fornito un rimedio (apparente) alla innegabile presenza delle economie di scala senza mettere in pericolo, più di tanto, l’equilibrio. Ma aveva dovuto negare la crescita, un fenomeno altrettanto evidente quanto le economie di scala. Il fragile artificio che consente di tenere insieme i cocci è quello di immaginare che la crescita ci sia soltanto nella fase del ciclo di vita dell’impresa che corrisponde alla parte discendente (iniziale) della curva dei costi, e che, prima o poi, si arresti quando arriva al punto di minimo. Ma quando avanti deve essere il punto di minimo per non essere praticamente mai raggiunto nell’esperienza delle imprese reali?

Se la crescita è un requisito essenziale – cui le imprese non possono sottrarsi – allora ci troviamo in una condizione dinamica in cui le strutture non sono date, ma prodotte endogenamente nell’interesse della propagazione delle conoscenze. Un’impresa che cresce di anno in anno, in modo indefinito, è la negazione della dimensione ottima, essendo la sua dimensione definita non da una condizione esogena (struttura dei costi), ma da un processo auto-generato, che modifica in modo continuativo le strutture emergenti in ogni momento.

Le teorie della crescita si sviluppano progressivamente negli anni cinquanta e sessanta. In alcuni casi, la crescita di impresa è un concetto direttamente ancorato alla dinamica della conoscenza di cui l’impresa dispone. Ad esempio, per Edith Penrose (1959), l’impresa cresce per saturare – con nuovi problemi e nuovi campi di applicazione - le capacità di problem solving del gruppo manageriale. Man mano che il managerial team di un’impresa, nato dalla condivisione di esperienza, risolve problemi e routinizza situazioni problematiche, diventano disponibili risorse cognitive (altrimenti inutilizzate) per affrontare temi e cercare opportunità diverse.

In altri casi (Baumol 1959, Marris 1964) lo schema è più complesso e passa per una preferenza dei managers per la crescita dell’impresa invece che per la massimizzazione del profitto. Comunque, il risultato non cambia: un processo dinamico di crescita che non si arresta mai (al margine), è incompatibile con l’equilibrio. Se le aziende crescono ogni anno, non si arriva mai né alla dimensione ottima né a una condizione di equilibrio stabile.

4 Se il costo marginale è decrescente, in ogni punto della curva esso sarà inferiore al

costo medio (che tiene conto anche delle quantità iniziali, prodotte a costi più elevati). Se poi ci sono molti costi fissi, come accade di regola nella produzione fordista, la curva dei costi marginali sarà ancora più distante dal costo medio totale (il costo che comprende, pro-quota, anche il costo fisso). Poiché in condizioni di concorrenza il prezzo di mercato è destinato a scendere fino al livello del costo marginale, ne consegue che la presenza di economie di scala rende impossibile coprire i costi di produzione attraverso la vendita del prodotto in concorrenza. Solo condizioni, più o meno stringenti, di monopolio o di concorrenza imperfetta rendono sostenibili gli investimenti da fare nella produzione. Un esito, questo, disastroso per la teoria, che, accettandolo perderebbe la sua plausibilità nel mondo dell’economia reale, dove concorrenza ed economie di scala riescono (misteriosamente) a convivere.

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I tre concetti chiave che inaugurano la stagione fordista – organizzazione, innovazione e crescita – hanno, in definitiva, molto a che fare con l’economia della conoscenza, ma non possono facilmente essere interiorizzati nello schema di equilibrio. Tuttavia, non si può nemmeno continuare col gioco delle controfigure come si era potuto fare con l’accumulazione del capitale e con il perfezionamento dei mercati. Ad un certo punto, la conoscenza emerge all’interno del campo teorico come un elemento con cui occorre, in qualche modo, fare i conti. Ma come?

Su questo punto, le risposte si dividono: - da un lato, c’è chi aderisce ai nuovi problemi (organizzazione, innovazione e

crescita) senza filtri metodologici e senza remore, finendo per elaborare una nuova disciplina economica (l’economia manageriale);

- dall’altro lato, c’è chi, mantenendosi nell’alveo della disciplina tradizionale (l’economia neoclassica), tenta nuovamente una sintesi tra la statica dell’equilibrio e le nuove dinamiche messe in evidenza dall’innovazione e dalla crescita.

Nel primo caso, l’oggetto di studio cambia radicalmente e con esso il metodo: si accoglie senza riserve l’economia del fordismo, nei suoi meccanismi e passaggi interni, spostando il baricentro della teoria dal mercato all’impresa, matrice autentica dell’organizzazione, dell’innovazione e della crescita fordista.

Nel secondo caso, il compromesso è più difficile e incerto. La via maestra che viene seguita è quella di allargare l’oggetto tradizionale della teoria (l’equilibrio) fino a comprendere fenomeni che, almeno in apparenza, hanno a che fare con l’organizzazione, l’innovazione e la crescita, anche se non sono propriamente corrispondenti a quelli osservabili nelle imprese fordiste. In altri termini, si cerca di endogenizzare i fenomeni nuovi, cogliendone la logica economica interna invece di assegnarli alla sfera delle esogene. Non sempre la sintesi riesce, perché ci si muove su un terreno sdrucciolevole. Ma i suoi esiti sono comunque istruttivi, perché testimoniano di quanto sia grande la distanza che ancora separa l’economia della conoscenza (reale) dagli assunti epistemologici fatti propri dall’economia tradizionale.

Quello che conta, ai nostri fini, è che nella discussione sull’economia della conoscenza cominciano ad intrecciarsi due matrici diverse (quella manageriale e quella economica) che non hanno una demarcazione visibile quanto a problematiche affrontate, ma che fanno riferimento a premesse epistemologiche differenti.

o La matrice manageriale Il punto di partenza della visione manageriale del fordismo è, indubbiamente,

l’”organizzazione scientifica” del lavoro di F. Taylor, all’inizio del novecento. Parcellizzazione e integrazione, gestione calcolata e scientifico-sperimentale del lavoro vi sono compiutamente rappresentati. Accanto a questa, sta il sapere sull’organizzazione – altrettanto scientifica – della produzione fatta dagli “ingegneri” della fabbrica fordista, che applicano alle operazioni compiute dalle macchine gli stessi criteri razionalistici che Taylor aveva applicato al lavoro.

Ma si tratta solo della fase hard, di incubazione della nuova disciplina. Ben presto, il razionalismo delle origini viene confinato in ambiti delimitati (la fabbrica, i cicli produttivi, le tecniche), in cui la complessità dei problemi e dei comportamenti può essere dominata dal calcolo razionalistico dell’ingegnere o dello “scienziato”.

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L’eccessiva specializzazione e rigidità che la caratterizza demotiva le persone, che si sentono ridotte a pure macchine esecutive, e non sfrutta la loro intelligenza, confidando sulle virtù del “centro” o dell’”esperto” che, certamente, sono dotati di conoscenze pregiate, ma che stanno lontani dal problema e che intervengono spesso fuori tempo massimo.

La nuova organizzazione scientifica, ad esempio fallisce, dopo le prime enfatiche sperimentazioni, in tutto il lavoro di ufficio. E dà scarsi risultati nelle reti di vendita e nei circuiti finanziari. E’ difficile applicarla anche in fabbrica, ossia nelle condizioni ideali, perché non ha sensibilità per gli aspetti partecipativi e motivazionali, che invece saranno fatti propri dalla scuola delle human relations. Non parliamo di quanto la logica razionalistica sia improponibile nei rapporti con i concorrenti e con i vari stakeholders, che si comportano strategicamente5 nei confronti dei loro interlocutori.

Il risultato è che la nuova “scienza dell’organizzazione” o economia aziendale scopre molto presto gli aspetti soft del processo produttivo: la necessità di cooperare (Barnard 1938), la necessità di ricercare rappresentazioni e soluzioni condivise (Simon 1947) e di accumulare competenze (Bell 1973), il bisogno di gestire, negoziando, i countervailing powers che costellano l’universo fordista (Galbraith 1952). Il riferimento epistemologico per leggere l’organizzazione sociale cessa di essere il meccanicismo dell’equilibrio – ancorata alla meccanica newtoniana – e diventa al nuova teoria dei sistemi che si sta sviluppando in parallelo (von Bertalanffy 1969), e che porta l’attenzione sulle prestazioni funzionali (I “fini” del sistema), presidiate da appropriati dispositivi di feedbacks. Si compie, in questo modo, un salto concettuale, almeno nel campo delle teorie manageriali (non in quello delle teorie economiche): il modello assunto per rappresentare l’impresa e il sistema fordista non è più la macchina, ma l’organismo biologico, integrato dalle facoltà creative della mente umana e della cultura sociale (Rullani e Vicari 2000). La concezione sistemica fornisce un modo integrato, non burocratico, di considerare la governance dell’impresa, andando oltre il meccanicismo dell’ingegneria di fabbrica (Tagliagambe e Usai 1994, Golinelli 2000).

Il modello di economia proprio del fordismo abbandona il mercato, per l’organizzazione, ma – su questa strada – prende anche le distanze dal razionalismo del calcolo di convenienza per adottare una visione meno deterministica del problem solving che riprende la bounded rationality di Simon (1955, 1982). In effetti, tra la razionalità limitata delle decisioni soggettive e la logica soddisfacentista (inerziale) dell’organizzazione, il passo è breve: i due concetti si saldano abbastanza solidamente (March e Simon 1958, Egidi e Marris 1992, Egidi e Messori 1995)

La razionalità limitata rompe in modo diretto con la teoria dell’equilibrio perché interviene sui suoi presupposti metodologici: gli attori della nuova economia dell’organizzazione (fordista) non sono riducibili ad algoritmo di calcolo per il semplice fatto che le informazioni con cui alimentare l’algoritmo: non sono liberamente accessibili e sono anzi, di regola, insufficienti rispetto a quanto

5 Il comportamento strategico è quello che si sviluppa quando un soggetto, che opera in

condizioni di interdipendenza con altri, prende in considerazione l’interlocutore come soggetto complesso, che interpreta la situazione in base proprie aspettative, visioni, desideri o pregiudizi. Insomma non reagisce al rapporto con regole semplici e deterministiche, ma in base a schemi logici complicati e solo parzialmente visibili dall’esterno. Ogni scelta deve dunque tenere conto delle reazioni che innescherà, e sarà tanto più efficace quanto più potrà accompagnarsi ad attività o comunicazioni che influenzano lo schema di reazione degli interlocutori, portandolo su un terreno dove i diversi interessi possono coincidere o divenire complementari.

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richiesto da una decisione deterministica possono essere sì integrate da processi di search e di apprendimento, ma non si sa in

partenza quanto questi processi potranno richiedere e costare (potendo anche non arrivare mai all’informazione richiesta). In questo senso, viene modificato il concetto stesso di scelta razionale. Invece di

avere una scelta basata sull’applicazione di un algoritmo applicato automaticamente (calcolo di convenienza, selezione di mercato), la scelta avviene attraverso un processo di search che non risponde ad alcun algoritmo precostituito e che può avere diversi esiti. L’apprendimento, nell’impostazione suggerita da Simon, viene considerato endogeno al campo di osservazione dell’economista, anche ciò introduce un fattore di indeterminazione che fa a pugni con la razionalità formale, tenuta a ricercare l’one best way (l’ottimo) e non a ricercare soluzioni soddisfacenti qualsiasi. E’ più appropriato, dunque, parlare (in positivo) di razionalità procedurale piuttosto che di razionalità limitata (bounded) (Chaserant 2003, p. 166). Ossia di scelta (razionale) che nasce dal compimento di una procedura di search e di valutazione dei risultati, piuttosto che di una scelta che semplicemente viene fatta in condizioni di mancanza o incompletezza delle informazioni necessarie.

La rottura è verticale e attacca sia l’ipotesi della conoscenza come bene pubblico (liberamente disponibile per il calcolo), sia il determinismo dei processi di scelta, intesi come pura e semplice massimizzazione di una funzione-obiettivo. Giocando il realismo contro la teoria, Simon propone che le scelte (limitatamente) razionali siano non massimizzanti, ma soltanto soddisfacenti, ossia capaci di superare la soglia minima della prestazione richiesta. Con la conseguenza che non esiste l’one best way vagheggiato – insieme – dalla teoria economica e dal fordismo classico, perché possono esistere infinite soluzioni soddisfacenti (sopra la soglia) che sono considerate equivalenti (in condizioni di informazione limitata). Non solo, ma, proprio per questo, una soluzione soddisfacente non viene rimessa ogni volta in discussione: finché “funziona” (nel senso che basta ad andare oltre la soglia minima di prestazione), viene conservata e mantenuta valida. E rimane la scelta, fino a nuova prova. E diventa routine, sapere che l’organizzazione conserva e che riproduce nel problem solving quotidiano, propagandolo e generando valore utile senza costi addizionali.

Le organizzazioni diventano il nuovo attore economico di riferimento, che ruba la scena all’homo oeconomicus neoclassico. Le organizzazioni sviluppano sapere, lo conservano e lo usano. Con la loro logica soddisfacente sono sistemi intelligenti: sanno scegliere, sanno difendere un certo livello di prestazione, sanno fornire agli uomini che le compongono un frame adatto all’azione collettiva (March e Simon 1958).

Su questa base, la razionalità simoniana diventa la matrice comune a un po’ tutte le alternative che si sviluppano nel terreno intermedio tra l’economia della conoscenza fordista e la teoria economica tradizionale.

In primo luogo, il modello di razionalità che propone per le organizzazioni è sostanzialmente omogeneo a quello fatto proprio dalla teoria dei sistemi, che offre forse la rappresentazione più compiuta della logica fordista. Un sistema non è infatti definito, come un soggetto, dal fine che persegue, ma è piuttosto identificato da un vincolo di prestazione (minima) che il sistema garantisce utilizzando un meccanismo di feedback. Il feedback correttivo scatta ogni qual volta un meccanismo di monitoraggio segnala che la prestazione è divenuta insoddisfacente e che occorre dunque ristabilire la funzionalità perduta.

Forse il concetto che meglio rende la matrice sistemica del fordismo è quello,

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suggerito da Galbraith (1968), di uno Stato Industriale in cui le tecnostrutture pubbliche e private, al di là delle rappresentazioni di facciata, sono unite da un’esigenza e da un obiettivo comune: quello della stabilità. Una condizione che, riducendo l’incertezza e il rischio, consente di programmare i forti investimenti a lungo termine che sono necessari e assicura alle tecnostrutture pubbliche e private la delega in bianco di un pubblico di dipendenti, consumatori, cittadini che si mette sotto la benevola protezione del sistema esperto, sapiente (Giddens 1990, Micelli 1998).

Non ci vuole molto per cogliere la stretta analogia tra la razionalità limitata dei soggetti economici simoniani e la logica sistemica con cui si cominciano a descrivere tutte le organizzazioni complesse (von Bertalanffy 1969, Delattre 1982). La razionalità limitata è definita da un prestazione (la garanzia di un rendimento minimo) assistita da un circuito di feedback (la ricerca di routines sostitutive nel caso che la prestazione non superi la soglia minima). Anch’essa privilegia la stabilità e la riduzione dell’incertezza mediante replicazione del già noto. Anch’essa rende sapiente l’organizzazione pur in presenza di individui dalle conoscenze e capacità limitate, che delegano al sapere distribuito nel sistema le loro scelte.

Del resto, Simon modella la sua idea di organizzazione riferendosi non tanto ad un problema economico, quando al problema centrale delle nascenti scienze cognitive: il problem solving di un agente intelligente che riproduce conoscenze e abilità “naturali” nel mondo dell’artificiale (Simon 1981, Newell e Simon 1972, 1976).

Ma nell’impostazione simoniana rimane aperta anche la possibilità di interpretare la razionalità limitata in senso evoluzionistico. Uno dei temi ricorrenti del suo lavoro, infatti, è la modularità del sapere che prende forma in situazioni ad elevata complessità (Gaio, Gino e Zaninotto 2002, Marengo 2003). Scomponendo un problema complesso in molti sotto-problemi semplici e trovando una risposta soddisfacente per ciascuno di essi (modulo), è possibile affrontare una gamma di varianti nuove o impreviste modificando soltanto l’architettura che ricombina i moduli e non il contenuto dei singoli moduli. La modularità consente di replicare una quota significativa di conoscenza anche in presenza di una elevata varianza dei problemi da affrontare6.

La modularità è esattamente il modo con cui lavora l’evoluzione biologica e culturale. Che non parte mai da zero, ma assembla e riassembla, con qualche variante, un vasto sistema di moduli già funzionanti. Il bricolage evolutivo è visibile anche nelle

6 La modularità ha non solo i vantaggi della divisione del lavoro (specializzazione delle

competenze, con assegnazione selettiva dei sotto-problemi da risolvere agli esperti competenti in quel campo), ma anche quelli della invarianza (o robustezza) di sottosistemi complessi che conservano la loro validità anche se le applicazioni (che li combinano con altri in vista di uno scopo determinato) non riescono. Nell’evoluzione biologica questo vantaggio viene indicato come evolubilità (capacità di evolvere utilizzando soluzioni funzionalmente stabili, che non vengono distrutte dagli eventuali errori). L’evoluzione non può sempre ricominciare da capo: i sottosistemi evoluti (genotipi) devono essere mantenuti e riprodotti anche se le loro combinazioni fenotipiche vengono eliminate: nei nuovi tentativi si partirà ricombinando elementi già complessi, e conservando quindi il sapere in essi contenuti (anche se questo comporta una certa rigidità, perché le possibilità evolutive sono vincolate alla ricombinazione di moduli pre-esistenti, mentre diventa difficile assemblare nuovi moduli). In economia l’ipotesi di fondo formulata nella main stream neoclassica è che il sistema sia totalmente scomponibile (fino agli individui) e che le forme pluri-individuali risultino sempre dalla contingente combinazione di forme individuali. Oggi, questa ipotesi è contrastata, all’interno del sistema neoclassico stesso, da teorie che invece cercano di spiegare come emergono regole e istituzioni che, successivamente, danno ai processi economici individuali uno scheletro sistemico durevole. La quasi-scomponibilità dei problemi, ipotizzata da Simon, viene dunque riscoperta per altra via, attraverso istituzioni che forniscono il collante per moduli economici non meramente atomistici (Dosi 2003).

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organizzazioni, quando si adattano all’ambiente ricombinando le routines di cui dispongono o introducendo alcuni moduli nuovi, in una gamma di conoscenze e di pratiche che resta invece invariata.

Attraverso Simon, la matrice manageriale comincia ad affrontare le tematiche di economia della conoscenza (nel fordismo) utilizzando modelli epistemologici che si rifanno alla teoria dei sistemi e alla teoria dell’evoluzione e che mettono l’accento sulla complessità e unicità dei singoli casi considerati.

o La matrice economica Nel campo più strettamente economico, intendendo con questo la disciplina che

corrisponde alle premesse epistemologiche neoclassiche (individualismo metodologico, determinismo, equilibrio), il fordismo viene metabolizzato come una sfida che pone problemi nuovi, difficili da affrontare, ma non tali da rinunciare all’impianto tradizionale.

La sfida è cioè quella di endogenizzare il nuovo per non farlo “arrivare” dall’esterno (come variabile esogena) ma per farlo scaturire dalle stesse regole – appena modificate – che in precedenza si applicavano soltanto all’equilibrio. E che ora assumono nuovi oggetti: l’organizzazione, l’innovazione, la crescita.

Sul terreno dell’organizzazione la sfida viene raccolta attraverso tutta una serie di approcci che mirano a “spiegare” la convenienza dei comportamenti cooperativi nell’ambito della tradizionale razionalità di individui self-interested. Nella teoria dei giochi, il dilemma del prigioniero è l’archetipo di una serie di varianti sul tema: cooperare conviene, e dunque la cooperazione può derivare semplicemente dall’applicazione delle regole tradizionali in un contesto diverso (ad esempio in un contesto di giochi ripetuti, o di possibili minacce). Ci possono essere mille circostanze che spiegano come e perché la razionalità individuale possa diventare, senza attrito, una logica di cooperazione collettiva: nella produzione congiunta, ad esempio, non è possibile separare gli apporti dei diversi fattori al risultato finale; nei contratti incompleti (quasi tutti) occorre fidarsi della controparte, e non basta l’enforcement giuridico degli impegni sottoscritti; nei rapporti di agenzia, l’agente deve avere adeguate motivazioni e incentivi per stare al gioco del mandante; e così via.

Tocca soprattutto alla nuova teoria istituzionale di Williamson, nei primi anni settanta, raccogliere questi tentativi parziali di fondare una teoria dell’organizzazione che, pur collocandosi nell’alveo della razionalità limitata, consente di trattare le organizzazioni con strumenti non troppo lontani da quelli impiegati dalla teoria dell’equilibrio. La chiave proposta da Williamson è quella dei costi di transazione, ossia dei costi relativi al “collante” che tiene insieme, nell’organizzazione economica, le diverse unità elementari, definite come unità tecnologicamente indivisibili.

Competendo tra loro sulla base dei costi di transazione, le diverse institutions possibili forniscono collanti differenti che la concorrenza si incaricherà, di volta in volta, di selezionare. Mettendo il mercato (come “collante”) sul mercato (come concorrenza), Williamson scopre che tutte le istituzioni che regolano i rapporti tra diversi soggetti economici (e tra diverse unità elementari) hanno dei costi, detronizzando così il mercato dal piedistallo in cui l’avevano collocato i classici e i neoclassici. Ma se il mercato ha i suoi costi (di coordinamento), la concorrenza tra forme potrà fare emergere, in certi campi, forme alternative come la gerarchia (della

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grande impresa) o, successivamente, le alleanze strategiche o le relazioni a rete, destinate ad acquisire grande importanza negli anni recenti.

La teoria dei costi di transazione, tuttavia, propone un concetto di organizzazione che sarebbe difficilmente rintracciabile nel sistema fordista. L’organizzazione – come sistema - è infatti dissolta nelle mille transazioni atomistiche che la compongono, ciascuna ottimizzata e selezionata di per sé. Inoltre, le forme efficienti emergono da un confronto statico (sui costi di transazione) che è insufficiente, se non altro perchè non guarda all’insieme dei drivers della conoscenza, ma solo al costo del “collante”.

Era difficile, tuttavia, fare di più. Un destino simile tocca alla teoria (neo-schumpeteriana) dell’innovazione, che prende le mosse dai grandi investimenti in ricerca e sviluppo che caratterizzano l’epoca fordista e che creano asimmetrie non rimediabili tra le imprese.

In tentativo, non dissimile da quello compiuto con la teoria dell’organizzazione, è quello di endogenizzare l’innovazione, spiegandone le “cause” con motivazioni e calcoli economici. Il passaggio chiave, a questo riguardo, si ha con la teoria della conoscenza localizzata (Antonelli 1999) che prova a vedere in una prospettiva dinamica la funzione di produzione. Se l’innovazione che introduce nuove combinazioni tecniche tra i fattori nasce dalle conoscenze che si accumulano sui diversi terreni in cui si fa ricerca o su cui si fa learning by doing, bisogna tenere presente che questa accumulazione di conoscenze avviene non per tutte le combinazioni teoricamente previste dalla funzione di produzione, ma solo per alcune: quelle di cui si ha esperienza. Le altre, rimanendo fuori dall’orizzonte di apprendimento saranno anche – molto probabilmente - prive di possibili progressi.

Non è un risultato che può meravigliare: se l’avanzamento della frontiera tecnologica si configura come apprendimento è del tutto ovvio che un passo dipenda dai precedenti e che il contesto di cui si fa esperienza conti. Cercando di endogenizzare l’innovazione tecnologica, l’economia non fa altro che riscoprire le (vecchie) leggi che regolano qualunque processo di apprendimento.

Gli avanzamenti nella funzione di produzione sono dunque localizzati in un intorno della combinazione in essere o poco più in là (salvo salti radicali della tecnologia). I nuovi avanzamenti saranno poi allineati con i precedenti, formando alla fine una traiettoria più o meno lineare. E’ possibile così dinamicizzare la funzione di produzione seguendo la traiettoria dei possibili avanzamenti: la tecnologia non è più un dato assunto staticamente, ma è un prodotto endogeno dell’apprendimento localizzato, che porta avanti la frontiera tecnologica in punti e traiettorie riconoscibili, trascurando altri punti e altre possibili traiettorie.

La “localizzazione” del cambiamento tecnologico, con gli stessi argomenti, può essere giustificata in relazione al luogo (fisico) o all’organizzazione in cui si realizza il processo di apprendimento: i nuovi sviluppi si avranno, più probabilmente, nei luoghi e nelle organizzazioni in cui si sono avuti i precedenti.

Ma se la tecnologia si auto-produce seguendo traiettorie temporali che danno continuità ai diversi cambiamenti, ne discendono due conseguenze inquietanti: la dipendenza dalla storia (path dependence); la dipendenza dal contesto.

Se ogni passo dipende dai precedenti e se ogni luogo/organizzazione conserva la memoria dei passi precedenti, l’economia generata da migliaia di traiettorie diverse di apprendimento è lontana mille miglia da quella richiesta per calcolare l’equilibrio. Il

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mondo economico della conoscenza localizzata è segnato da potenti fattori di unicità (ogni impresa è, al limite, diversa da ogni altra, in funzione della diversa storia che sta alle spalle di ognuno) e di irreversibilità dei passi compiuti da ogni soggetto (i passi errati non possono essere corretti senza costo, e ciò allontana in modo permanente dall’equilibrio).

Irreversibilità e unicità danno un’immagine molto vivida del fordismo, vicina al modo con cui in questo paradigma si producono e si propagano le conoscenze: con grandi investimenti irreversibili (firm specific), che, rendendo ogni impresa diversa dalle altre, chiudono la propagazione della conoscenza in circuiti proprietari condannati, gioco forza, a crescere nel corso del tempo.

La teoria della crescita trova in effetti modo di saldarsi a questa visione delle cose spostando l’accento dalla crescita delle capacità del team manageriale (Penrose) alla formazione di competenze e capabilities che sono il frutto cumulato dell’apprendimento organizzativo (Prahalad e Hamel 1990). Si comincia sempre più a pensare all’impresa come ad una learning organization, una struttura che è capace di crescere, rimodellando la propria attività e la propria identità differenziale in funzione delle esperienze (Hayes, Wheelwright e Clark 1988, Senge 1990, Senge e Sterman 1992).

Le imprese, in altri termini, non si giustificano tanto come “nessi di coordinamento” delle transazioni, quanto come strutture cognitive che alimentano la produzione e la ricombinazione di conoscenza al loro interno (Kogut e Zander 1992, 1996). La resource-based view propone questa visione della crescita aziendale come sviluppo di capacità che si realizza lungo un sentiero unico, in aziende che si portano dietro – cumulativamente - la propria storia e la propria differenza (Barney 1991, Peteraf 1993). Essa è inizialmente centrata sulla differenziazione statica di competenze e rendite ereditate dal passato, ma si sviluppa in seguito in una visione maggiormente dinamica, dove le differenze vengono prodotte e rigenerate nel corso del tempo (Teece e Pisano 1994, Teece, Pisano e Shuen 1997), dando luogo ad una architettura integrata di capacità (Grant 1996) in movimento, capace di riconoscere e usare anche competenze esterne. Viene in questo modo contraddetto, e storicizzato, lo schema strutturalistico proposto dall’economia industriale, per cui le risorse sono mobili e dunque le scelte si propongono in modo simile ai diversi concorrenti, anche se poi, di fatto, tenteranno strade differenti. Se invece si pensa che le risorse e le conoscenze sono differenziate e non mobili, ogni scelta diventa unica: la concorrenza è intreccio di storie che provengono da punti di partenza diversi, e che si incontrano contingentemente in un punto, per poi divergere nuovamente (Siano 2001, p. 88-89).

o Problemi aperti Attraverso le tre linee critiche che abbiamo brevemente ripercorso –

l’organizzazione, l’innovazione e la crescita – la teoria entra in contatto con i nuovi processi cognitivi che generano valore e produttività nel paradigma fordista. Rimangono tuttavia distanze importanti da colmare. Due soprattutto:

- la revisione teorica dilata le categorie e forza i concetti per inglobare l’impresa fordista nelle categorie teoriche ereditate dall’equilibrio. Ma si tratta quasi sempre di una razionalizzazione ex post, tesa a recuperare il recuperabile con molti artifici e qualche drastica semplificazione. Che il

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problema non sia in realtà superato lo si capisce quando l’impresa fordista comincia ad entrare in crisi, lasciando spazio a nuove forme di produzione e propagazione della conoscenza. L’aggiustamento deve allora ricominciare da capo;

- in molti casi, i concetti di organizzazione, innovazione, crescita che residuano dopo il “trattamento” sono così esili da non offrire alcun solido punto di appoggio per lo studio dei tre drivers da cui dipende il valore prodotto dalla conoscenza (efficacia, propagazione, appropriazione). Segno che non si è tanto tirato il modello dell’equilibrio verso l’economia della conoscenza, ma si è fatto semmai il contrario, facendo migrare alcuni concetti ricchi di conoscenza verso le spiagge assolate della statica dell’equilibrio.

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CAPITOLO NONO

TRANSIZIONE: CAPITALE SOCIALE E SISTEMI TERRITORIALI

o Fordismo addio A partire dagli anni settanta, e poi col passaggio di secolo, anche il fordismo

comincia a mostrare i suoi limiti, entrando in crisi sotto la pressione delle forze da lui stesso suscitate (Roobeek 1987). Della crisi risentono soprattutto gli Stati Uniti, che si trovano a fronteggiare la doppia sfida dell’eccessiva rigidità delle strutture e di una concorrenza giapponese aggressivo. Nascono allora, soprattutto al MIT (Boston), le riflessioni chiave sul declino del fordismo e sulla necessità di trovare modelli alternativi di produzione (Piore e Sabel 1984, Womack, Jones, Roos 1990).

L’organizzazione fordista tendeva ad interiorizzare tutte le possibili conoscenze (tecniche, organizzative e commerciali) contando su due performances che si sono rivelate, col tempo, sempre più difficili da realizzare: il controllo dei fattori di turbolenza o incertezza; e la realizzazione di volumi sempre maggiori di vendite, per assorbire gli elevati costi fissi di programmazione e controllo.

In effetti, la “fabbrica-orologio” dell’organizzazione fordista ha funzionato perfettamente solo fino a che il potere di comando che l’ha progettata e programmata nei suoi minuti dettagli è riuscito davvero a prevedere e governare la complessità ambientale, consentendo grandi volumi, produzioni standardizzate e serie “lunghe”, capaci di durare anni con poche varianti (Butera 1984). Il risultato è il repentino emergere del rischio e di variabili fuori controllo, che mettono in moto dinamiche imprevedibili (Kelly 1994), da affrontare con metodi sperimentali e intuitivi, da usare con fantasia e spirito imprenditoriale. L’impresa diventa, in questo senso, post-manageriale (Pilotti 1990) e il sistema precedente evolve lungo un sentiero a crescente complessità (Paoli 2000 , Usai 2002). Il futuro della grande corporation manageriale, per la prima volta, sembra distante dal modello ereditato dal passato (Vaccà 1993).

Ad un punto di svolta arriva anche l’ingente spesa in infrastrutture, istruzione, ricerca e welfare che schiaccia i bilanci pubblici in tutti i paesi sviluppati: anche la crescita della spesa pubblica scommette sulla continuità e forza dell’espansione economica. Ma i margini per adattarsi ad eventuali fluttuazioni o battute d’arresto sono pochi.

Rigidità della programmazione aziendale e della spesa pubblica sono sostenibili solo in presenza di un elevato grado di controllo sulla dinamica evolutiva del sistema, sia all’interno delle aziende che nell’ambiente esterno. Non importa se il controllo deriva da capacità tecniche di previsione, da un potere impositivo che previene gli scostamenti dal programma o da un processo negoziale con i portatori di interesse: quello che conta è che le dinamiche reali siano non troppo distanti da quelle programmate, imposte o negoziate.

Fino a che il controllo è possibile, il modo di produzione fordista resta senza avversari. Le cose cambiano, tuttavia, quando questa condizione diventa impossibile da realizzare. La transizione che porta fuori del paradigma fordista inizia, quando la “turbolenza” nazionale e internazionale raggiunge un livello tale da vanificare le previsioni, i mezzi di controllo e le procedure di negoziazione programmatica e concertativa. L’icona che meglio rappresenta questo momento critico, di passaggio, è la

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congiunzione di crisi monetaria (svalutazione del dollaro), energetica (petrolio) e sociale (autunno caldo), tutte e tre concentrate negli anni settanta. Ma prosegue, poi, con la continua riproduzione di situazioni fuori controllo, che accorciano sensibilmente l’orizzonte della prevedibilità e rendono impossibile pianificare il comportamento a lungo termine.

I grandi moltiplicatori della produzione fordista si scontrano così con una varianza dell’ambiente, del consumo e dello stesso sistema produttivo interno, rendendo insostenibili i grandi sunk costs delle conoscenze firm specific (Sabel 1989, Di Bernardo e Rullani 1990).

Ne discende una (insoddisfatta) domanda di flessibilità che le grandi strutture fordiste non sono attrezzate a soddisfare, ma che è quanto serve per far fronte alla complessità emergente. Al posto delle grandi serie, si ricercano le piccole serie. Al posto dei tempi lunghi richiesti per ottimizzare progetti e cicli produttivi, cresce la domanda di prodotti e processi da compiersi in tempi brevi, chiudendo un occhio sull’ottimizzazione. Al posto del fai-da-te che era regola aurea della grande impresa fordista, si va adesso a cercare il sapere dove già è, aprendo i circuiti della circolazione delle conoscenze tra imprese diverse (Piore e Sabel 1984).

o Nuovi mediatori: capitale sociale, interazione locale Dagli anni settanta in poi, il moltiplicatore della modernità cerca nuovi

mediatori per la produzione e propagazione delle conoscenze, utilizzando l’interazione comunicativa, il comune contesto di esperienza e il capitale sociale condiviso (fiducia, riconoscimento reciproco, condivisione identitaria) (Lipparini 2002, Rullani 1998a). Il territorio fornisce ai sistemi decentrati il bene relazionale di cui avevano bisogno per passare da un sistema disperso, mediato da mercati impersonali, a rete localizzata di relazioni di scambio e di condivisione tra persone e imprese concrete, direttamente coinvolte nella relazione (Storper 1997, 1998, Lanza 2002). Dall’espansione dimensionale della singola azienda, tipica del fordismo, si passa alla costruzione di reti sociali che alimentano, in outsourcing le maggiori imprese (Vaccà 1986)). Il territorio collega forme cognitive e forme di relazione, creando una gamma molto ampia di varietà distribuite nella geografia di una regione (Grassi 2001, cap. 3).

Emergono nuovi protagonisti. In Giappone, grandi imprese dall’intricata catena di comando e molto indebitate,

che possono tuttavia contare su estese catene di subfornitura, organizzate con sistemi sofisticati di coordinamento: lean production (produzione “senza scorte” o col minimo di polmoni intermedi), just in time (consegne in linea, al minuto secondo), grande varietà di prodotti (piccoli lotti) e grande flessibilità di adattamento, anche grazie al kaizen (apprendimento continuo). La base di questa divisione del lavoro sul territorio, organizzata da grandi aziende e frazionata in molti piccoli fornitori dipendenti, si regge sul tradizionale atteggiamento di lealtà e fedeltà all’azienda-istituzione, sia dei dipendenti (che vi lavorano “a vita”) sia dei fornitori e clienti. Questo consente alle aziende di investire tempo e denaro nella formazione del personale e nei teams di lavoro, che creano grande condivisione delle conoscenze, senza rischi di perderne il controllo.

In Europa, lungo una “mezza luna” che comprende l’Italia del centro-nord, la Germania Sud-occidentale, e, attraversando la Svizzera, arriva fino a Londra, l’alternativa al fordismo ha preso le forme che Piore e Sabel (1984) hanno battezzato

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col termine “specializzazione flessibile”. Verso questo modello vanno anche paesi in cui lo sviluppo, essendo arrivato in ritardo, non ha potuto produrre le grandi concentrazioni finanziarie e industriali della stagione fordista: la Spagna e il Portogallo, molti paesi est-europei, e, tra i paesi emergenti, Cina, Brasile e India (Sabel 1989, 2002).

Il centro perde forza e alimenta la crescita diffusa delle periferie (Bagnasco 1977, Goglio 1982, Anastasia e Rullani 1982, Garofoli 1992). In questo modello alternativo – che in Italia trova il suo baricentro nei distretti industriali - l’alternativa al collante organizzativo del fordismo è trovata nel territorio, ossia nel ricco capitale sociale che la storia ha sedimentato nella cultura e nelle pratiche delle società locali (Putnam 1993, Becattini 2000a, Bonomi 1996, 1997). L’economia si decentra, ed emergono piccole imprese che lavorano in sistema (distretti industriali, catene di fornitura), società locali che addensano competenze e capacità di governance in luoghi specifici, persone che investono su “se stesse” avviando nuove iniziative imprenditoriali, lavoratori che accumulano e diffondono professionalità in campi specializzati, reti locali che mobilitano finanza, servizi alle imprese, idee di business, mercati di nicchia (Becattini 2000b, Fortis 1998, Albertini e Pilotti 1996).

Ciò che meglio caratterizza questa fase è il ruolo di frontiera assunto dall’impresa diffusa, ossia dall’impresa specializzata e di piccola dimensione che si addensa in certi luoghi, dove la sua stessa “leggerezza” innesca processi di proliferazione e imitazione tali da moltiplicare il numero delle imprese, il numero degli addetti e il numero delle idee in gioco (Brusco e Paba 1997, Belussi, Gottardi e Rullani 2003). L’economia diffusa non è soltanto il regno del “piccolo”, ma anche il terreno di sviluppo di leadership locali nate dal basso ed espressione delle forza competitiva della “provincia” italiana: medie imprese che non hanno la cultura dell’autosufficienza fordista, ma quella del radicamento territoriale (Conti A. 2002, cap. 13, Amatori e Colli 2001).

L’organizzazione industriale cambia pelle: dal modello del “castello” – chiuso nella sua gerarchia verticale che domina il territorio – si passa a quello della rete, che collega e mette a sistema tante energie decentrate, che si addensano nei luoghi ricchi di “capitale sociale”, dove crescono le reciproche interazioni (Butera 1990).

L’impresa diffusa, facendo di necessità virtù, impara a lavorare in rete con molte altre imprese per utilizzare le competenze, i capitali, le risorse degli altri. In questo, contraddice apertamente i canoni autarchici del fordismo. Dovendo necessariamente dipendere da altri si dà da fare perché la dipendenza o l’interdipendenza sia gestita e non troppo pericolosa. E spesso ci riesce (Rullani 2002f).

La sua risorsa chiave è il legame sociale che consente di accettare e gestire l’interdipendenza in piccoli gruppi, dotati di ragioni durevoli per cooperare (lo si vede quando, dopo una eventuale rottura, si crea un fossato tra gli ex partners). L’impresa familiare, ad esempio, è una forma di rete sociale che è in grado di assumere rischi condivisi e di strutturare una gerarchia, sia pure con qualche tensione interna. Un’impresa che riesce a mettere in comune i capitali e le conoscenze, favorendo la specializzazione tra i membri. Famiglia, proprietà e impresa si intersecano, spesso virtuosamente, come aspetti complementari del lavorare e del produrre (Compagno, Nanut e Venier 1999, p. 14).

Si tratta di un modello originale, anche se riprende – riscoprendole – molte delle caratteristiche e risorse ereditate dalla tradizione pre-moderna e sopravvissute a due secoli di crescita industriale. In questo senso, non possiamo dire che siamo di fronte ad

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un paradigma alternativo al fordismo, ossia ad una nuova costruzione tecnologica, organizzativa e istituzionale. Il modello dell’impresa diffusa emerge da un bricolage tra vecchio e nuovo che si compie, molto in fretta, nel momento in cui la ritirata delle grandi imprese dai punti maggiormente esposti alla complessità lascia spazio alla riscoperta e valorizzazione di elementi rimasti, in precedenza, ai margini della modernità.

L’outsourcing, praticato in questa fase da grandi e piccole imprese, riduce il grado di integrazione verticale, e dunque la chiusura aziendalistica dei circuiti di apprendimento organizzativo. Adesso gli investimenti per produrre e propagare la conoscenza non sono fatti da un’unica impresa, ma da una rete di imprese (una supply chain), in cui ciascuno si focalizza sul suo core business e accetta di dipendere da altri per tutto il resto.

o Dal comando all’interazione La struttura che rende possibile la condivisione delle conoscenze non è più il

comando proprietario sull’intera filiera produttiva/cognitiva, ma la rete: un sistema di relazioni di stabile fornitura o di partnership che si basa su investimenti fatti dalle diverse imprese per comunicare, organizzare la logistica degli scambi, rendere affidabili e garantiti gli impegni presi. La rete fornisce il collante senza il quale non ci potrebbe essere né divisione del lavoro, né sviluppo di competenze specializzate (Lipparini e Sobrero 1994).

La rete che più rapidamente si afferma in corrispondenza della crisi del fordismo (anni ottanta/novanta) è una rete territoriale, più o meno centrata su aziende leader, ma soprattutto appoggiata al sapere diffuso nel territorio. Il territorio è infatti il contesto comune di esperienza che consente la moltiplicazione delle professionalità e delle vocazioni imprenditoriali, la circolazione/imitazione delle informazioni, la divisione del lavoro – volontaria o involontaria – nell’apprendimento e nella sperimentazione del nuovo.

Proprio perché il collante impiegato per generare flessibilità è un collante “naturale” (il territorio), è abbastanza scontato che i bacini di propagazione siano limitati all’ambito locale. Il territorio, come luogo di condivisione di contesti cognitivi e di una tradizione culturale e istituzionale, torna ad essere uno dei motori della crescita, dopo essere stato per molto tempo dimenticato.

Il territorio non è tuttavia l’unico “collante” della divisione del lavoro già disponibile per occupare gli spazi lasciati liberi dal declino dell’organizzazione fordista. In alcuni paesi – segnatamente in Giappone, ma non solo – la tradizione mette a disposizione sistemi di imprenditorialità diffusa addensati intorno ad imprese leader, che praticano da tempo l’outsourcing verso una catena di fornitori legati al l’identità aziendale, più che a quella territoriale (Faccipieri e Calcagno 1995).

La domanda di flessibilità trova dunque risposte diverse, attivando in ogni paese le risorse disponibili allo scopo. Risorse che possono essere anche molto differenti, ma che hanno un punto in comune: recuperano valori e legami da una tradizione che l’espansione del fordismo ha, in molti casi, distrutto o seriamente inibito. Si pensi ad esempio allo spirito imprenditoriale, al senso dei legami familiari e sociali, alle relazioni inter-personali, allo stile informale di gestione del lavoro e dell’organizzazione. Oppure, si pensi alle molte risorse inutilizzate che sono disponibili nelle piccole città, o addirittura nella campagna, che hanno lavoro, spazi, ambiente a disposizione per un

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possibile sviluppo industriale e che erano però state emarginate dalle linee di propagazione della crescita fordista, concentrata sulle metropoli e sui grandi centri (Rullani, Micelli e Di Maria 2000).

In Italia emergono i distretti industriali, ossia sistemi di divisione del lavoro cognitivo addensati, settore per settore, su territori molto ristretti, per sfruttare i vantaggi della contiguità e del contatto diretto, interpersonale.

In Giappone, il contesto aziendale è altrettanto forte del contesto territoriale. La divisione del lavoro prende soprattutto la forma di una catena di fornitura organizzata just in time da un’impresa leader che “governa” molti subfornitori abbastanza docili e puntuali, da essere inquadrati secondo i principi della gestione senza scorte (lean production). Anche in questo caso grande importanza hanno i rapporti interpersonali diretti (Faccipieri e Calcagno 1995).

Distretti industriali italiani e aziende giapponesi costituiscono, in questo periodo, i due modelli di riferimento. Non che non ci siano esperienze simili in altri paesi, ma n3ei due campi – la condivisione territoriale e la condivisione aziendale – Italia e Giappone forniscono esempi emblematici.

o I drivers cognitivi del modello dell’impresa diffusa Lo spostamento del baricentro della condivisione dall’organizzazione fordista al

territorio (o all’impresa leader) cambia in modo rilevante il funzionamento dei tre drivers v, n e p.

Prima di tutto, cambia la differenza utile (v) che assegna un vantaggio competitivo ai prodotti e processi provenienti dai sistemi di impresa diffusa.

La prestazione che viene richiesta, sopra ogni altra, è la flessibilità ossia la disponibilità a porre il proprio sapere e il proprio lavoro al servizio di esigenze del cliente che possono essere varie, variabili e, talvolta non determinabili a priori, ma destinate ad essere precisate in corso d’opera. Si tratta in altri termini di una flessibilità non passiva, ma attiva: bisogna rispondere in modo innovativo, e originale, a bisogni complessi che altri – più potenti e organizzati – tendono a tralasciare per disattenzione o per scelta strategica.

In alcuni casi, il ricorso al decentramento di lavorazioni a piccole imprese da parte di una ex impresa fordista è giustificato da un risparmio di costi, legato ad un costo del lavoro mediamente più basso, o a risparmi legati alla gestione familiare dell’azienda. Non sono rari i casi in cui una differenza di costo a favore della piccola impresa discende dalla possibilità di “sommergere” una parte dell’attività, risparmiando su tasse e contributi, o di ricorrere a subforniture totalmente in nero7.

Questa casistica regressiva (emblematicamente sintetizzata nello slogan, di matrice sindacale: “piccola impresa, grande sfruttamento”) poteva apparire l’elemento decisivo dei processi di decentramento produttivo visti nell’ottica della grande impresa decentrante. Ma era l’ottica giusta con cui guardare alla transizione che inizia negli anni settanta?

Trenta anni di esperienza in questo campo ci dicono di no. La grande impresa fordista, irrigidita dalla sua struttura interna, cercava nel decentramento non tanto

7 Cfr. il numero monografico di Economia e Politica Industriale n. 6, 1974 ,dedicato al

decentramento produttivo in Italia e la ricostruzione del dibattito in Pennacchi (1980) e Del Monte e Raffa (1977).

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risparmio di costo, quanto un polmone di flessibilità che era, dal suo punto di vista, anche più importante del risparmio di costo. D’altra parte, le piccole imprese che si sviluppano in forma diffusa non servono solo la domanda di decentramento delle grandi, ma rispondono anche ad un bisogno latente di varietà, variabilità e indeterminazione che è presente nel sistema produttivo e nel consumo, eccessivamente ingessati da decenni di fordismo militante. L’efficacia delle conoscenze elaborate dall’impresa diffusa nasce dal contributo originale che la nuova imprenditorialità porta alla definizione dei bisogni e alla sperimentazione del nuovo.

L’inventiva imprenditoriale si manifesta nello sviluppo di conoscenze che si rivolgono a usi di nicchia, in cui il numero dei potenziali utilizzatori è limitato perché si risponde a bisogni personalizzati, a esigenze transitorie (ma da soddisfare velocemente) o a segmenti di qualità, in cui il livello del prezzo riduce la domanda disponibile. In certi casi, si risponde in modo appropriato e affidabile alla domanda di un committente abituale, ponendo le proprie competenze e risorse al servizio delle sue esigenze.

La risposta flessibile e personalizzata può avere, in certi casi, un valore superiore a quello creato dalla tipica risposta fordista (più meccanizzazione, più programmazione). E’ specialmente il caso di settori in cui il bisogno si specifica in corso d’opera (come la moda) o in cui bisogna fare i conti con una grande varietà e variabilità.

L’efficacia della flessibilità (v) si moltiplica utilizzando un circuito di propagazione completamente diverso da quello fordista. Il ri-uso delle conoscenze non si appoggia più alla crescita dei volumi e del fatturato del produttore, ma viene trainato dal procedere della specializzazione e della crescita del sistema locale. Contano la dimensione e la crescita del sistema locale, non la dimensione e la crescita della singola azienda. E questo significa una rivoluzione nel modo di trarre valore da un’idea di mercato o da un’innovazione tecnica.

La piccola impresa specializzata in un distretto industriale, infatti, svolge, nella filiera cognitiva, lo stesso ruolo che nella grande impresa fordista svolgeva il reparto specializzato nella stessa mansione. Solo che ora quel reparto, divenuto un’impresa autonoma, vende a tutti i potenziali clienti a cui ha accesso nella filiera cognitiva (locale e non solo). Non è confinato, cioè, al servizio di un solo sistema proprietario che lo usa solo per le proprie vendite e che scoraggia la propagazione esterna.

Dunque, se il piccolo produttore si specializza, può avere accesso - nel sistema locale – a un moltiplicatore degli usi che è, talvolta, maggiore di quello su cui, nello stesso campo, poteva contare la grande azienda fordista.

Diverso, in questo circuito, è anche il mezzo di governance della filiera, che regola p. Poiché la conoscenza che circola assume natura network o district specific, nel senso che la sua interpretazione e validità è condizionata dalla condivisione del contesto locale, le conoscenze che vengono elaborate nel distretto o nella catena di subfornitura sono abbastanza protette – naturalmente – dalla copia, imitazione o assimilazione esterne. Ma non sono protette dalla copia, imitazione o assimilazione da parte di concorrenti interni al distretto, o anche da parte di lavoratori dipendenti che progettano di “mettersi in proprio”.

In questo caso, le imprese distrettuali sentono un acuto desiderio di difendere la propria conoscenza dai potenziali concorrenti locali, ma – per fortuna o per sfortuna – non riescono a soddisfarlo. La conoscenza sfugge loro per i mille canali predisposti dalla società locale: gli intrecci familiari e amicali, i lavoratori che passano da un’impresa all’altra, gli spin off di neo-imprese che nascono da dipendenti di altre, più

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vecchie e consolidate, le “comunità epistemiche” di professionisti, fornitori, clienti specializzati in un campo che sanno valutare e interpretare segnali deboli, che sfuggirebbero al profano o all’esterno.

L’incapacità di trattenere la conoscenza entro il circuito ristretto della proprietà della singola impresa si traduce in un elemento di vantaggio per la filiera e per il sistema territoriale nel suo insieme. Rispetto alla grande organizzazione fordista, che contava soltanto sulle sue forze (sulla sua finanza, sui suoi rischi, sulle sue competenze ecc.), le reti locali tra imprese possono dividere lavoro e rischio tra molti operatori indipendenti che, pur facendo una certa fatica a coordinarsi tra loro, hanno il grande vantaggio di avere pochi sunk costs (costi affondati). Ciascuno di essi, infatti, lavora su business molto focalizzati e rapidamente adattabili, anche grazie al contributo diretto e creativo dell’imprenditore-persona (che era invece inibito nella grande organizzazione gerarchica)

o Il segreto dell’impresa diffusa: cooperazione involontaria Il circuito della propagazione sul territorio ha, dunque, una caratteristica

singolare, che non esisteva nell’impresa fordista: si basa sulla cooperazione involontaria di molte imprese nello sviluppo di un apprendimento che viene fatto da alcuni ma di cui molti beneficiano. L’apprendimento condiviso – anche se involontariamente condiviso - che si realizza nei distretti industriali propone un modello peculiare di apprendimento, ossia di produzione di (nuova) conoscenza.

Se una grande impresa di abbigliamento deve prevedere il colore che andrà di moda quest’anno, il suo metodo di risposta al problema è quello tipicamente razionalistico, dello studio e comprensione ex ante. Si comincia a fare un certo volume di ricerche di mercato (da tenere ovviamente riservate), si consultano esperti e distributori, si sceglie una soluzione e si progetta una risposta corrispondente. A questo punto, sono passati mesi, il prodotto non è ancora sul mercato e i consumatori non hanno ancora avuto la ventura di vederlo o di sentirne parlare. Ma il futuro produttore è già fuori con qualche milione di euro di spese “preventive”. Se poi, una volta messa la soluzione trovata alla prova, ci si accorge di aver sbagliato, il milione è perso e diventa difficile immaginare di ricominciare daccapo. Comunque, se si decide di cambiare rotta, la cosa non si compirà in breve tempo.

In un distretto industriale le cose funzionano in tutt’altro modo. Prima di tutto non ci sarà un solo sperimentatore, ma cento, che andranno in ordine sparso e possibilmente all’insaputa l’uno dell’altro ad esplorare cento possibili strade (colori). Siccome ciascuno sa di poter adattare la soluzione inizialmente trovata, non ci saranno né ricerche di mercato, né grandi investimenti preventivi, né mesi di attesa perché la conoscenza emerga. Al contrario, usando le tecniche dell’apprendimento evolutivo, si andrà avanti senza copione e senza modello. Cento imprese proveranno, e una di queste avrà scovato (per caso o per intuito) la soluzione giusta. Non sono passati mesi ma giorni. E nessuno ha immobilizzato forti somme nell’esplorazione delle possibilità, avendo ciascuno soltanto “provato” una delle cento soluzioni. Una volta emersa la soluzione vincente, grazie al meccanismo della cooperazione involontaria, tutti saranno in grado di sapere la risposta al problema in poco tempo e a basso costo. E potranno rapidamente adeguarsi.

Il risultato è che, se tutto va come deve andare, l’innovatore avrà speso poco,

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fatto presto ma avrà soltanto un lieve vantaggio (di settimane) nei confronti degli altri. Chi deve imitare, avrà anche lui speso poco (o niente), ma sa che non verrà tagliato fuori: la propagazione (involontaria) della conoscenza che serve basterà a tenerlo in gioco. Alla fine, gli investimenti e i rischi dell’esplorazione saranno limitati per ciascun concorrente, ma l’apprendimento realizzato da uno diverrà ben presto – con un lieve distacco – apprendimento di tutti (gli interni).

Nel distretto l’apprendimento avviene mediante una rete di imprese ciascuna delle quali ha la propria strategia e autonomia (Varaldo e Ferrucci 1997,Alberti 2002), ma ciascuna delle quali dipende dall’evoluzione dell’insieme per la produzione della propria conoscenza. E’ una rete cooperativa se si guarda alla funzione svolta, che mette i singoli apprendimenti in sinergia (spesso involontaria); ma è anche una rete competitiva se si guarda all’autonomia rivendicata da ciascuna impresa nel suo stare nella filiera. Le due strategie – quella etichettata come cooperation e quella, canonica, della competition – in realtà coesistono, dando luogo ad un ibrido (co-opetion?) che consente alle singole imprese di crescere più velocemente e con meno rischi forzando in questa o quella direzione, a seconda delle circostanze, un rapporto che resta comunque multidimensionale (Padula 2000, p. 252).

Da cosa dipende il valore di p in questo processo? Il punto essenziale è la chiusura del circuito di propagazione nei confronti di

concorrenti esterni. Fino a che la propagazione involontaria riguarda le imprese locali, si potrà contare sul fatto che il loro numero è limitato e la loro dimensione anche. Difficilmente la propagazione a scala locale porterà ad un eccesso di offerta nel mercato mondiale a cui il distretto si rivolge.

Il valore di p può dunque appoggiarsi alla dimensione tutto sommato ristretta del sistema locale. E alla capacità dei concorrenti locali di gestire i prezzi in modo ragionevole, senza cadere nella spirale di una concorrenza troppo aggressiva.

Bisogna però che non cada la barriera che protegge p dalla concorrenza esterna. Se, ad esempio, la conoscenza distrettuale viene codificata o incorporata in una macchina (per lavorare il legno, il ferro, le piastrelle ecc.) il circuito di propagazione può allargarsi all’esterno, ma p, in questo caso, rischia di cadere drasticamente: una volta che il circuito della propagazione si allarga ai grandi numeri del mercato mondiale, e si appoggia a rapporti impersonali, non garantiti, è abbastanza facile perdere il controllo proprietario della conoscenza, erodendo in questo modo i fondamenti della differenziazione distrettuale.

o La riscoperta del territorio La rottura dei circuiti proprietari, diluiti sul territorio dalla limitata dimensione

delle imprese, segna una demarcazione netta rispetto alla letteratura che aveva preso il fordismo come riferimento. Lo sviluppo viene ora a dipendere non tanto dalle decisioni di un’unica grande azienda, ma dall’apprendimento endogeno, diffuso, realizzato nelle società locali e nei sistemi produttivi locali (Garofoli 1992).

La flessibilità giapponese, che rivaluta l’interazione personale e il coordinamento just in time, rimane tutto sommato nell’alveo dei “capitalismi nazionali” e delle loro specialità. Solo che adesso – al contrario di quanto accadeva durante il fordismo – le “specialità” nazionali non sono più percepite come varianti storiche e locali di un unico one best way (sottinteso: il modello americano), ma sono percepite come differenti vie, che competono tra loro (Blasutig 2001). Anzi l’economia, diventata

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mondiale, è destinata ad ospitare varianti nazionali strutturalmente diverse, non riducibili ad unum (Berger e Dore 1996, Albert 1991). Il modello giapponese, col successo competitivo degli anni ottanta, è una sorpresa ma anche una fonte di ripensamento. Il fordismo americano era diventato rigido per la sua incapacità di usare la leale collaborazione dei dipendenti alle fortune dell’azienda e la loro disponibilità a cooperare. La linea generale è quella del rapporto locale/globale: si usa la specificità locale per acquisire vantaggi nella concorrenza globale. Ma non è detto che non si possa imparare dagli altri, rimettendo mano – nello spirito della lezione giapponese – alle forme organizzative delle imprese ereditate dal fordismo (Womack, Jones e Roos 1990).

I giapponesi, riportando il “capitale umano” in prima linea, forniscono una diversa rappresentazione dell’organizzazione (come learning organization), ma soprattutto forniscono mille e una ragione per il sistematico ricorso all’outsourcing (fornitori esterni, non meno leali dei dipendenti diretti). Di particolare interesse, in questo quadro, la rappresentazione di Nonaka, che vede nell’impresa la sede della creazione della conoscenza e della spirale che ne amplifica il bacino di uso (Nonaka 1991, Nonaka e Takeuchi 1995).

Sui distretti industriali italiani, la riflessione supera ben presto l’orizzonte delle forme organizzative e delle tecniche di gestione, per ancorarsi alla specificità della società locale (Becattini 1979, 1991) e delle sue istituzioni (Brusco 1982, 1993). Il distretto realizza in forme spontanee, e in gran parte involontarie, quel passaggio della conoscenza dalla sfera individuale a quella collettiva che Nonaka attribuisce alla prassi di management giapponese. Solo che, in questo caso, non esiste un involucro proprietario – come la corporation – che possa acquisire e trattenere, nei suoi confini, il sapere dei singoli e quello loro estratto dalla codificazione. Tutto si affida alla specificità del contesto e al suo potere di escludere gli esterni.

In questa forma generalissima, il distretto industriale cessa di essere una particolare forma di organizzazione industriale e diventa invece un laboratorio che indica un modo di essere del capitalismo moderno, che si nutre di complessità e che utilizza le risorse della società locale – insediata e integrata sul territorio - per fronteggiare questa complessità (Becattini, Bellandi, Dei Ottati, Sforzi 2001).

Il territorio, in altri termini, è un mediatore cognitivo, un “integratore versatile” (Becattini e Rullani 1993), che rielabora continuamente l’identità locale per utilizzarla come tratto distintivo nelle relazioni a scala globale.

In questo senso, le problematiche territoriali si legano non tanto all’esistenza di una particolare forma di organizzazione dell’economia locale (come il distretto industriale), quanto all’esistenza di una risorsa condivisa, rilevante per la concorrenza. Una risorsa cioè che, non essendo né pubblica, né privata, è accessibile mediante un’esperienza di vita o di lavoro che consenta a molte persone di condividere il contesto e le conoscenze ad esso associate (Crouch, Le Galès, Trigilia e Voelzkow 2001). In questo quadro, le istituzioni acquistano un peso particolare, non solo perchè le ecologie territoriali hanno bisogno di una sottile regolazione politica (Messina 2001), ma anche perchè le forme di questa regolazione non seguono i classici canoni dettati dalle rappresentazioni ideologiche, ma dinamiche più sottili che, in Italia, rendono, ad esempio, il Veneto “bianco” confrontabile con la Toscana o l’Emilia Romagna, due classiche regioni “rosse” (Bagnasco e Trigilia 1984, 1985). Il ruolo delle istituzioni è poi reso problematico dal fatto che lo sviluppo “dal basso” in certe situazioni è più rapido e torrentizio in assenza di regolazioni, e tende ad essere frenato quando viene incanalato in argini troppo stretti, o maldisegnati. Molto istruttivo il doppio confronto

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tra Veneto e Toscana, fatto recentemente da Burroni (2001), e quello tra Veneto ed Emilia-Romagna, fatto, invece, da Messina (2001). Come mette in evidenza Carlo Trigilia (2001), nella sua presentazione del libro di Burroni, la dinamica spontanea di una regione in cui la tradizionale regolazione “bianca” ha fatto un passo indietro può essere più aperta e sperimentale – nel bene e nel male – di una regione in cui il modello distrettuale viene confermato e canalizzato maggiormente dal lavoro delle istituzioni. La governance dei sistemi locali, postfordisti, è dunque un processo molto aperto e problematico, che non sostituisce un nuovo sistema, ancorato al territorio e alle sue istituzioni, al precedente sistema che rispondeva al comando della grande impresa fordista. Piuttosto, come si è detto, le persone e le imprese, provvisoriamente sciolte dalla tutela delle tecnostrutture, tendono a creare ecologie locali che rendano governabile la loro interdipendenza, ma senza mai arrivare a chiudere gli spazi di indeterminazione, autonomia e frammentazione che si sono aperti.

o Una nuova cornice epistemologica: l’evoluzionismo

(imperfetto) L’esplosione del sistema fordista di organizzazione economica e sociale rende

obsoleta tutta una parte della letteratura che quel modello aveva adottato come riferimento ultimo.

Il punto focale della trasformazione si coglie nel passaggio – per quanto riguarda le conoscenze - dal sistema chiuso dell’organizzazione fordista al sistema aperto delle formazioni che si incontrano sul territorio postfordista.

L’organizzazione fordista era, nella sua essenza, un sistema chiuso, dal punto di vista cognitivo e del potere. Era stata, infatti, costruita intorno ad un preciso centro di comando e dotata di confini proprietari ben definiti. Le conoscenze che impiegava erano tipicamente autoprodotte al proprio interno, avevano natura firm specific e si propagavano all’interno dei confini proprietari.

Invece i sistemi che usano il territorio come mediatore cognitivo sono sistemi aperti, nel senso che le conoscenze e il potere sono distribuite tra un gran numero di imprese e di persone. L’intelligenza che sta sul territorio è intelligenza distribuita, la cui chiave di accesso è la condivisione del contesto locale. La conoscenza esce dai confini proprietari e circola in filiere che non dipendono da un unico decisore, ma dall’interazione di molti. Conoscenze, persone, imprese possono penetrare e attraversare questo sistema, senza incontrare barriere contrattuali o proprietarie. La chiave di accesso è la condivisione, e la condivisione è un’esperienza aperta a tutti coloro che vogliono farla.

L’idea del sistema aperto, privo di testa e di centro, sposta l’accento dai processi decisionali che danno forma al sistema fordista, ai processi evolutivi che danno forma al sistema postfordista, senza testa e senza centro. Le strutture del sistema fordista sono decise dal soggetto di comando, e sostenute da appropriati investimenti. Invece le strutture del sistema postfordista si auto-generano, emergendo da processi di apprendimento evolutivo che restano spesso inconsapevoli, ma che lavorano senza sosta nel plasmare il territorio e i suoi schemi di relazione.

Non per niente, il grande ispiratore di Giacomo Becattini è Alfred Marshall, e più precisamente l’anima biologico-evoluzionistica di Marshall. Concetti come il ciclo di vita dell’impresa, l’albero che diventa la foresta, l’impresa rappresentativa (ai fini del prezzo) che non è né troppo vecchia né troppo giovane sono tutte metafore che hanno in

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comune la necessità di descrivere un sistema che si auto-produce, dove i processi di costruzione e de-costruzione non sono diretti da una master mind, ma si generano spontaneamente nel rapporto tra l’individuo (l’albero) e la specie (la foresta).

La tradizione razionalistica dell’economia considerava date (esogene) le strutture entro cui gli attori economici compivano le loro scelte. Ma, nel sistema territoriale aperto, non è così: le strutture prendono forma attraverso i comportamenti. Sono schemi che ricorrono, routines che si conservano, conoscenze che si replicano. Niente è sottratto al principio della riproduzione circolare. Ma tutto può avere una maggiore o minore stabilità, far parte delle contingenze o delle forme organizzate che resistono al cambiamento e hanno la forza di riproporsi invariate o con pochi cambiamenti.

La stessa definizione di distretto o di sistema locale ha natura processuale: il territorio “prende forma” nel corso e per effetto del processo che riproduce i suoi legami e le sue conoscenze, ad esempio attraverso il circuito degli spostamenti degli uomini dalla casa al lavoro e viceversa. Di qui la complessità del compito di “disegnare” i confini delle unità di analisi – ad esempio i distretti industriali esistenti - sulla carta geografica (Sforzi 1992,. Bellandi e Sforzi 2001).

La transizione al postfordismo ha bisogno, per essere descritta in modo appropriato, di un salto epistemologico, che faccia fare alla teoria il grande passo che porta dal razionalismo meccanicistico delle origini all’evoluzionismo biologico.

E’ su questo passaggio stretto che si giocano anche le novità più importanti in termini di teoria economica e di economia della conoscenza.

Concetti di origine biologica punteggiano la storia del pensiero economico. Ma rimangono sempre ai margini del modello prevalente.

Abbiamo detto di Marshall, che usa le metafore biologiche per sfuggire alla standardizzazione astrattiva tanto cara alla tradizione deterministica dell’economia: se l’impresa rappresentativa è il benchmark per la fissazione del prezzo, essa non esaurisce la varietà presente nella foresta, che è proiettata nel tempo e ammette storie e età differenti. Ma la critica di Sraffa colpisce proprio questo bisogno di uscire dallo standard astrattivo, raccordandosi con la storia e la sua varietà (Becattini 1985). Il paradigma del mercato – nella sua forma meccanicistica – soffoca sul nascere le forme concrete, uniche, di conoscenza che si propagano come fanno gli alberi in una foresta.

Analogie biologiche suggestionano, nel dopoguerra, Alchian (1950) e Penrose (1959), che si interrogano sul loro possibile uso. Ma, tutto sommato, l’anticipazione di Marshall rimane un fuoco di paglia. Non troverà seguito negli studi successivi fino a che si resta all’interno del paradigma fordista.

Tuttavia, il contesto fordista – con il suo accento sull’organizzazione – offre un terreno di sviluppo fertile per l’apprendimento evolutivo. L’organizzazione della grande impresa fordista è, infatti, assai più vicina ad un organismo vivente che ad una funzione astratta di produzione. In primo luogo, è frutto di un percorso di apprendimento unico, che metabolizza e consolida soluzioni ad hoc, trasformandole in routines. In secondo luogo, nell’organizzazione si sedimentano capacità e conoscenze tacite che non possono essere osservate e calcolate, come richiederebbe la teoria razionalistica (Polanyi 1967). Sommando unicità e tacitness l’organizzazione sfugge alla standardizzazione imposta dal mercato e rimane dunque un oggetto anomalo tra quelli osservati dalla teoria.

L’apprendimento evolutivo che caratterizza la learning organization non risponde ancora completamente ai canoni della teoria evoluzionistica di origine biologica, ma è un primo passo importante in quella direzione. Le ragioni della

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difformità risiedono in due caratteristiche portanti dell’organizzazione fordista. Prima di tutto, la grande impresa fordista è un organismo fatto per durare, non

fa parte di una specie che “apprende” attraverso il ricambio delle generazioni (ossia attraverso la morte dei vecchi organismi e la nascita dei nuovi). L’organismo apprende, metabolizzando l’esperienza, ma accumula in sé stesso una storia senza fine. La propagazione delle buone soluzioni avviene, dunque, non per moltiplicazione delle organizzazioni più adatte, ma attraverso la crescita dimensionale di alcune delle organizzazioni esistenti, che assorbono o sostituiscono altre.

In secondo luogo, la grande impresa fordista non è un luogo dove possono proliferare le varianti e le mutazioni da consegnare alla selezione del mercato o di valutazioni di efficienza ex post. La natura gerarchica della piramide, il più delle volte, ostacola le varianti che nascono dal basso, perchè il piano canalizza l’azione dei diversi reparti in direzioni precostituite. Le irreversibilità e rigidità che caratterizzano i suoi percorsi, molto path dependent, aumentano il costo e il rischio degli eventuali errori: è dunque preferibile studiare bene prima che cosa fare, e poi mettere alla prova solo la soluzione che appare migliore, piuttosto che procedere per tentativi, moltiplicando le varianti. Di conseguenza, la grande impresa fordista segue percorsi evolutivi di apprendimento solo come second best. Laddove non è possibile calcolare razionalmente l’ottima soluzione, o laddove l’organizzazione diventa opaca, o inerziale, togliendo spazio alla decisione razionale, lì si apre uno spazio per l’apprendimento evolutivo (Cohen, March e Olsen 1972, 1976) o per la creazione di senso (Weick 1977, 1979, 1995), o per lo sviluppo di alternative progettuali concorrenti, destinate ad essere selezionate ex post (Warglien 1990, 1995, Levinthal 1990).

E’ ancora lo schema logico della “razionalità limitata” di Simon ad accogliere e sistematizzare queste forme di apprendimento evolutivo senza dover recuperare il “vecchio” Marshall dell’evoluzione localizzata che Sraffa aveva prematuramente messo in soffitta. Più semplicemente, si propone di guardare all’economia fordista e alla successiva transizione adottando un nuovo tipo di soggettività: non più quella (semplice) degli individui, a quella (complessa) delle organizzazioni.

L’organizzazione non ha preferenze totalmente esogene, come si assume per gli individui neoclassici, ma che genera endogenamente, almeno in parte, i propri patterns cognitivi e decisionali, sedimentando nel tempo esperienze ripetute di apprendimento. Le routines efficienti, che sono selezionate alla prova della prestazione soddisfacente e che si conservano nel tempo, costituiscono una sorta di struttura soft, da cui l’organizzazione prende le mosse nei processi decisionali correnti. Incorporandosi nei contesti organizzativi, i processi di search generano sempre nuove routines emergenti (Dosi e Egidi 1991, Egidi 1996, Arrow 1987). E queste si trasformano in regole capaci di orientare e disciplinare il comportamento (Dosi e Marengo 1993, 1994), facendo emergere schemi efficienti – anche se non massimamente efficienti – di coordinamento sociale (Warglien 1991). In questo modo, dalla originaria condizione di incertezza o ignoranza, emerge una struttura di competenze (Dosi, Marengo e Fagiolo 1996) e una struttura di norme che guidano l’azione, sia in senso prescrittivo che in senso abitudinario.

Nella rule-based action (Egidi 1995), la regola già tiene conto del (particolare) contesto locale che rende conseguibile, con quell’azione, una prestazione soddisfacente (Porac e Shapira 2001, p. 206). La nuova soggettività, che si auto-genera mediante esperienza, d’altra parte, non è un’eccezione nel mondo economico, ma è semmai la regola. L’experimental economics (Tversky e Kahneman 1986, 1994) ha mostrato come

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gli attori reali non seguono i dettami della “razionalità “olimpica”, che, rendendo l’azione astrattamente calcolabile, riduce la decisione ad un algoritmo. In realtà, gli attori reali tengono comportamenti ragionevoli, ma in questa ragionevolezza rientra l’uso dell’esperienza pregressa condensata nelle routines, la familiarità (acquaintance) col contesto specifico in cui si svolge l’azione, l’uso di schemi interpretativi pragmatici, che semplificano il processo decisionale pur dando, in casi particolari, risultati logicamente non corretti.

o Oltre il Rubicone Il succedersi delle routines, che ha avuto notevole attenzione nella letteratura,

prende alla fine la forma di una compiuta teoria evolutiva dell’impresa col lavoro di Nelson e Winter del 1982. In questo, i due autori oltrepassano il Rubicone epistemologico che separa meccanismo ed evoluzionismo, capitalizzando una storia di tentativi più timidi e dimessi, da Simon in poi. Le routines diventano i “geni” dell’organizzazione, che li rinnova – con appositi processi di search - in funzione delle prestazioni competitive ottenute con i concorrenti.

Il modello di apprendimento, tuttavia, non è ancora compiutamente evoluzionistico, nel senso del modello standard di epistemologia evoluzionistica ricavato dalla biologia (Campbell 1981).

I protagonisti dell’apprendimento, nello schema di Nelson e Winter, sono ancora gli organismi (le organizzazioni in concorrenza) e non la specie. I “geni” competono all’interno dell’organismo per renderlo più adatto e più vitale. Ma per arrivare ad una compiuta svolta evoluzionistica bisogna che questi organismi muoiano e che siano in grado, con la loro morte, di trasmettere selettivamente quanto appreso ad altri (i nuovi nati). La selezione evoluzionistica delle soluzioni adatte deve dunque esercitarsi sulla popolazione e non all’interno del singolo organismo. La teoria della cosiddetta population ecology of organizations (Hannah e Freeman 1977, 1989) compie questo ulteriore passo che mancava per avere uno schema evoluzionistico compiuto, in tutte le sue parti. Attraverso questi due passaggi – la condensazione del sapere in “moduli” genetici trasferibili e la selezione competitiva tra popolazioni – si sviluppa in economia una vera e propria concezione evoluzionistica che recupera il concetto di razionalità limitata di Simon, ma lo integra con procedimenti di variazione, selezione, ritenzione e propagazione differenziale (Axelrod e Cohen 1999) che sono propri della visione evoluzionistica, dando luogo a quella che Giovanni Dosi chiama post-simonian evolutionary economics (Dosi 2003, p. 55).

Il riferimento al territorio, come oggetto di analisi, offre una straordinaria opportunità di vedere all’azione la svolta evolutiva, in tutta la sua differenza rispetto al meccanicismo dei modelli neoclassici.

Il territorio, infatti, è un’ecologia, il risultato di un lento apprendimento evolutivo. Solo che nel territorio non c’è una sola organizzazione: ci sono molte imprese concorrenti, che nascono e muoiono in modo frequente e regolare. Non solo: nel territorio troviamo – oltre le imprese - persone, idee, storie, istituzioni, edifici, strade, opere estetiche, il tutto integrato in un’ecologia che è stata resa coerente, nelle sue diverse parti, da una lunga storia di selezioni e riproduzioni. In questo senso la rete che collega i diversi punti di un sistema di localizzazioni territoriali che si dividono tra loro il lavoro cognitivo svolto origina un’economia-arcipelago (Perulli 1998), un insieme di isole autonome ma collegate tra loro. L’arcipelago non è un dato naturale,

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ma un prodotto storico che viene, ad un certo punto, istituzionalizzato, appoggiando le strutture di relazioni a norme e ad organi di governo che gli possono conferire, in certi casi, proprietà sistemiche (nel senso dell’identità e del feedback) (Golinelli C.M. 2002).

Accettando l’idea che sia l’evoluzione a creare l’ecologia territoriale, diventa possibile:

- allontanarsi dal modello astrattivo (neoclassico), perchè ogni territorio è unico nella sua organizzazione ecologica delle specie che lo popolano, delle conoscenze che vi sono sedimentale e delle regole istituzionali che ha elaborato nel tempo;

- superare l’orizzonte dell’organizzazione proposta dal modello fordista, ammettendo invece una popolazione di interessi e progetti nati autonomamente e messi a confronto dalla contiguità e sovrapposizione sullo stesso territorio.

Il territorio è organizzato ma secondo circuiti di relazione che non sono “punti fissi”, intorno a cui ruota il resto del mondo, ma soluzioni provvisorie, che – così come sono state costruite – possono essere decostruite e innovate, sia pure con le resistenze e i rischi conseguenti. Nell’ecologia territoriale sono dunque le persone, le imprese, le culture, le comunità ad avere il ruolo di protagonisti primari del processo evolutivo. Sono essi che apprendono e che, nel confronto, vengono selezionati in funzione anche delle economie “esterne”, accessibili nel sistema ecologico locale (Lazzeretti e Storai 2000).

Il territorio diventa, in questo senso, un fattore attivo di sviluppo, innervato di potenzialità e popolato da attori (Viesti 2000). Il territorio diventa, in questo senso, un fattore attivo di sviluppo. Nella “nuova geografia economica” (Krugman e Venables 1990, Krugman 1991b, 1995, 1999), il territorio genera rendimenti crescenti man mano che si sviluppano clusters specializzati di attività, che propagano economie esterne e funzionano da attrattori di nuovi insediamenti. Per effetto di queste dinamiche agglomerative, che amplificano le differenze tra luoghi, la conoscenza si localizza sul territorio, specialmente se si tratta di conoscenza tacita, acquisibile solo attraverso la condivisione locale delle esperienze e del contesto.

I rendimenti crescenti, teorizzati in economia da Arthur (1988, 1994) e caratteristici della teoria della complessità, sono processi auto-catalici (self-reinforcing) alimentati da un feed positivo, per cui il risultato di ogni ciclo rafforza le premesse di partenza, provocando una crescita cumulativa, fino a che non vengono esaurite le risorse disponibili o non ci si scontra con un vincolo non superabile. I rendimenti crescenti, in economia, funzionano da fattori amplificatori che trasformano micro-comportamenti – riguardanti, ad esempio, una singola impresa o una singola innovazione - in effetti macroscopici, di portata assai più ampia. Essi destabilizzano l’equilibrio e prevengono – anche sul territorio - il destino inerziale di un’economia vincolata alla statica dell’equilibrio. Spiegando, ad esempio, come un distretto possa nascere, grazie ad un processo di amplificazione moltiplicativa, da una singola impresa (la prima), o come un’innovazione possa crescere di ruolo e di ampiezza fino a trasformarsi in una traiettoria di ordine generale o in un paradigma.

Anche la teoria dei rendimenti crescenti di Krugman si allontana dal modello neoclassico perchè la conoscenza e i fattori agglomerativi non dati esogeni, prodotti dalla storia o dalla cultura, ma vengono generati endogenamente dal clustering (addensamento, agglomerazione) che ha il potere di amplificare piccole differenze iniziali o eventi accidentali. I territori, a differenza delle strutture tipiche dell’economia

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neoclassica, hanno dunque una storia e un’identità, cosa che li avvicina al modello evoluzionistico: essi danno accesso a economie esterne sia di tipo tecnologico (coefficienti tecnologici più favorevoli) che pecuniario (prezzi dei fattori e servizi più bassi). Ma, come osserva Cooke (2002, p. 38), l’allontanamento dal modello neoclassico è solo parziale: infatti, Krugman “sottolinea il ruolo della concorrenza imperfetta, dei rendimenti crescenti e delle esternalità …. ma finisce per trattarle come se fossero concorrenza perfetta, ritorni costanti e economie interne di scala”, se non altro perchè gli attori che si muovono nelle ecologie territoriali sono “slightly less than perfect rational individuals” (Krugman 1994, p. 213), ossia individui quasi-perfettamente razionali.

In realtà l’ecologia territoriale “contamina” con la sua unicità non solo le conoscenze “oggettivamente” disponibili sul territorio, ma anche il modo di essere dei soggetti e dei loro sistemi di relazione. Come sostiene Becattini, l’identità personale e sociale si lega al luogo attraverso la condivisione della storia, della cultura e anche caratteri antropologici che influiscono sul modo di ragionare dei singoli: Prato è Prato, alla fin fine, non solo perchè è oggettivamente un cluster di lavorazioni e professionalità tessili, ma anche perchè è popolata di pratesi (Becattini 1997). I meccanismi di riconoscimento e di cooperazione che nascono all’interno di questo frame condiviso sono importanti quanto e più delle economie esterne oggettivamente legate alla contiguità fisica, intrecciando il learning alla fiducia e al capitale sociale (Cooke 2002, cap. 4).

Non si può immaginare un sistema locale separatamente dai suoi abitanti, perchè la condivisione cognitiva non è solo condivisione di sapere strumentale, ma anche condivisione di sapere riflessivo, che agisce sull’identità. Semmai, andando avanti su questa via, che si allontana sempre più dal modello neoclassico degli agenti astrattamente razionali, si corre il pericolo opposto: quello di precipitare i soggetti individuali e le imprese in una concezione olistica del territorio, inteso come sistema dotato di una propria razionalità (collettiva), di una logica strategica unitaria e di una gestione condivisa dei problemi (governance). E’ una deriva pericolosa, perchè ingessa il territorio nella sua attuale identità e composizione, senza considerare invece che esso – come ecologia – ospita molte specie e molti interessi differenti, anche se complementari (Rullani 2002a, 2002c).

Guardando all’evoluzione in questo modo, diventa facile compiere un ulteriore passo verso la concezione evoluzionistica, dando forma e organizzazione alle ecologie prodotte dall’evoluzione, in modo da renderle sistemi coerenti e assistiti da qualche forma di feedback (culturale e istituzionale). La base tecnologica, in ciascuna ecologia locale, si sposa con una costruzione di persone, organizzazioni, regole, istituzioni coerente. In generale, l’apprendimento evolutivo non realizza soltanto l’adattamento della base tecnologica astratta ai contesti concreti (locali), ma costruisce veri e propri paradigmi tecnico-economici, modelli articolati di azione e di relazione tra la base tecnologica e i comportamenti sociali.

I paradigmi non solo altro che ecologie trasformate e rese coerenti per essere usate come “motori” dello sviluppo. L’evoluzione, in altri termini, non lavora sempre alla cieca, ma, in presenza di innovazioni fondamentali, tende verso un punto di arrivo, un modello compiuto e coerente (il paradigma) che funziona da attrattore evolutivo.

L’idea di paradigma sviluppa quella di traiettoria tecnologica (Dosi 1982, 1984), che, come abbiamo visto, era un modo per endogenizzare l’innovazione ancora entro i canoni fordisti. Quando ci si trova in presenza di una discontinuità tecnologica di

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rilevante importanza per l’economia (l’invenzione del telaio a vapore, l’introduzione del petrolio tra le fonti energetiche, lo sviluppo del microprocessore e dell’informatica ecc.) l’innovazione fondamentale, come abbiamo detto, si trascina dietro tutta una serie di innovazioni derivate, di prodotti/servizi complementari, e di cambiamenti istituzionali (Freeman 1984, Freeman e Perez 1986, 1988). L’ecologia del paradigma deve essere tale da fornire prestazioni efficaci: non basta far coesistere le diversità, bisogna farle funzionare insieme e in modo efficace.

L’economia territoriale, dunque, non appare soltanto come un insieme di varianti locali o nazionali che adattano una base tecnologica unitaria a condizioni di contesto diverse e a forme di apprendimento (locale) che restano differenziate. L’economia territoriale, al contrario, si propone come paradigma: un paradigma postfordista, o, come suggeriscono Piore e Sabel (1984), parallelo e opposto al fordismo.

C’è un divide, uno spartiacque, che separa l’economia fordista dall’economia territoriale; e che cambia il ruolo della conoscenza, “estraendola” dal chiuso delle organizzazioni proprietarie e mettendola in circolazione nei territori e tra i territori. Questo divide si è manifestato, come abbiamo detto, in corrispondenza della crisi del fordismo, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. Ma diventa più profondo e irreversibile con l’avvento di un nuovo mediatore cognitivo comincia a proporre, sul finire del secolo, un’alternativa sia all’organizzazione fordista che al territorio: la rete della comunicazione a distanza, che trasforma i luoghi in piattaforme di l’interazione con altri luoghi (traslocale), aprendo verso l’economia globale.

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CAPITOLO DECIMO

L’ECONOMIA COGNITIVA DEL CAPITALISMO COMUNICATIVO

o Nuovi mediatori: reti virtuali e condivisione di significati Il ricorso al capitale sociale e alla condivisione territoriale segna una fase

transitoria, che risponde alla crisi del fordismo ma che non ha, da sola, la forza di fornire un attrattore evolutivo altrettanto generale e potente.

Per un po’ si procede su due strade parallele: la produzione flessibile viene fatta con largo impiego di capitale sociale, di origine territoriale o aziendale; la produzione standard, che pure trova occasioni di crescita con la globalizzazione dei mercati, resta invece appannaggio delle grandi imprese e dei loro codici proprietari, appena corretti secondo i principi della lean production (“produzione snella”) e dell’outsourcing.

Con lo sviluppo delle tecnologie ICT, tuttavia, le cose cambiano, perché entra in gioco un mediatore realmente alternativo, dotato di grande potere di attrazione. La propagazione può appoggiarsi a reti di condivisione e interazione comunicativa a distanza, non limitate al locale o ai circuiti dominati dallo spirito aziendale (Garrone e Mariotti 2001, Micelli e De Maria 2000). E’ attraverso questo tipo di interfaccia tecnologica che il territorio (locale) può acquisire le economie di scala dell’economia globale senza perdere la sua differenza, il suo radicamento specifico (Butera 2003, Rullani 2003b)

Questo tipo di reti, per un verso rispondono ad una esigenza che era maturata con la crisi del fordismo (aderire in modo più flessibile alle pieghe della complessità, estendere il bacino di riuso delle conoscenze a scala planetaria), ma per un altro sono esse stesse a generare nuova complessità, perchè: portano ad esplorare regioni nuove dello spazio delle possibilità; tolgono forza alle vecchie strutture che organizzavano i rapporti all’interno delle

imprese e tra imprese, rimettendo in discussione i precedenti poteri e equilibri. In particolare va segnalata, da questo punto di vista, una tendenza storia

connessa, in gran parte alla digitalizzazione, e conosciuta col temine convergenza (Valdani, Ancarani e Castaldo 2001). Con questo termine si intende il progressivo abbattimento delle barriere competitive che separavano, in passato, settori legati a media differenti, oggi spinti a convergere verso un unico baricentro (o meta-settore) dal fatto che la digitalizzazione di tutte le informazioni le canalizza verso gli stessi media, superando in parte del barriere precedenti: per fare un esempio, una storia interessante può apparire inizialmente su un giornale, per poi – con qualche aggiustamento - essere narrata in tv, scritta in un libro, cantata in una canzone, recitata in teatro, immortalata in un film, usata nelle suonerie dei cellulari e fonte di ispirazione per conferenze ed eventi turistici. Chi possiede il canale comunicativo digitale ed è competente nei diversi media che questo alimenta è in grado di passare da un campo all’altro, facendo “economie di scopo”(di ampiezza) con il ri-uso della stessa conoscenza o dello stesso medium.

Non che le competenze relative ai contenuti non siano più importanti, ma i grandi media della comunicazione digitale (tv, telefoni, Internet) premono massicciamente con la loro forza unificante sui segmenti differenziati da cui prendono i contenuti. Il gioco competitivo sarà, nel contempo, più aperto e più chiuso. Più aperto, perchè chi elabora e propone contenuti, ha di fronte un bacino di riuso maggiore e avrà

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quindi la possibilità di generare un maggior valore sommando più segmenti di uso (che fanno crescere n). Ma il sistema sarà anche più chiuso perchè ciascuno si troverà come interlocutore un sistema fortemente integrato e potente di comunicazione e confezionamento dei prodotti destinati alla fruizione finale: un sistema che non si limiterà – è abbastanza ovvio – a trasmettere segnali, ma vorrà sfruttare il rapporto diretto col pubblico per controllare i prodotti, agendo su v e su p.

Per diverso tempo lo sviluppo dell’informatica mette in circolo una maggiore potenza di calcolo e di comunicazione a distanza, ma senza incidere sul modo di funzionare delle organizzazioni e dei mercati. Di conseguenza, sembrava giustificata l’osservazione di Robert Solow: i computer si vedono dappertutto fuori che nelle statistiche della produttività. Ma le ICT consentivano in potenza di moltiplicare n (grazie al superamento della distanza) e di accrescere v (grazie all’interazione con fornitori, clienti e consumatore finale): questo valore potenziale emerge, ad un certo punto, con il boom della Internet economy, creando smisurate aspettative di profitto – per il lungo periodo – che si riflettono sulle quotazioni delle imprese.

Si tratta, è vero, di un fuoco di paglia, che porta rapidamente ad uno sboom altrettanto forte e sorprendente. Tanto da riabilitare anche l’iniziale scetticismo sul reale upgrading della produttività legato alla crescente applicazione dei computers (Bailey e Gordon 1988).

Tuttavia, lo scoppio della “bolla speculativa” è stato soprattutto un fenomeno finanziario, che certo ha rallentato gli investimenti in ICT ma non ha fermato il progresso della tecnologia del calcolo e della comunicazione a distanza; né ha cambiato lo scenario di lungo periodo: Del resto, tutti i paradigmi che abbiamo visto, hanno sperimentato un periodo di mismatching iniziale, in cui il nuovo paradigma tecnologico non si trasforma in crescita e produttività, ma semmai in crisi, perchè spiazza il vecchio nelle aspettative e nei mercati, senza però poterlo davvero sostituire col nuovo, ancora troppo imperfetto e immaturo. Il capitalismo comunicativo è un paradigma cognitivo che potrà crescere e consolidarsi, col tempo, solo se non cade nella trappola del “tutto virtuale”, che ha caratterizzato la grande illusione della new economy di fine secolo. Il tutto-virtuale, infatti, fa esplodere n annichilendo sia v (la qualità, l’affidabilità) che pi (la regolazione dei rapporti). La Internet economy ha prima illuso, e poi deluso, perchè è diventata una economia di massa all’insegna del gratuito, del sovrabbondante, dell’inaffidabile.

Ma questo percorso non è l’unico possibile. L’evoluzione che il paradigma ha preso dopo la sbandata iniziale è quella di un recupero paziente di v (qualità, selettività, affidabilità) e di pi (regolazione dei rapporti a distanza, pagamento dei servizi e degli accessi di pregio).

C’è spazio, in questa evoluzione verso le reti, sia per la crescita di piccoli produttori specializzati, sia per grandi imprese che, appoggiandosi a qualche sistema mediatico forte, abbiano diramazioni nel campo dei contenuti, sviluppando così una competizione diseguale con i loro competitors privi di sbocco mediatico proprietario (Rullani 2001).

Alla lunga, col consolidamento e la standardizzazione dei media digitali, si può prevedere che i contenuti cessino di essere captive (prigionieri) dei media che li trasportano e li distribuiscono agli usi.

Man mano che il paradigma si rafforza, la sua tecnologia tende a diventare matura, rendendo di conseguenza banali servizi oggi innovativi e sperimentali come il calcolo e la comunicazione a distanza. E’ un po’ quello che è accaduto all’energia

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elettrica, anch’essa straordinario elemento di innovazione nei primi anni del fordismo, e poi sempre più servizio banale, scontato. Anche il servizio comunicativo tenderà a banalizzarsi, diventando un mediatore impersonale – e non troppo incidente - tra produttori di contenuti e fruitori degli stessi.

Ma il paradigma attuale ha ancora molti anni per arrivare a questo stadio di maturità. Nelle fasi intermedie di questa evoluzione, il controllo dei media potrà costituire una formidabile arma competitiva per discriminare tra i produttori di contenuti e per “tenere in pugno” un pubblico non ancora capace di far giocare a suo vantaggio la concorrenza tra molti potenziali offerenti. I passaggi di questo ciclo, dalla nascente convergenza alla maturità della comunicazione digitale, sono segnati dal progressivo emergere delle reti di interazione comunicativa a distanza, che usano i media digitali, ma consentono – con opportune strategie – ai produttori di contenuti e ai fruitori di entrare in contatto sempre più direttamente e personalmente, senza l’anonima (e assorbente) mediazione di chi controlla il canale (Chiarvesio e Micelli 2000).

o Il nuovo tessuto connettivo: la rete dell’interazione

comunicativa a distanza Una rete non è altro che una filiera cognitiva i cui membri si riconoscono a

vicenda come interdipendenti e si attrezzano per governare la loro interdipendenza attraverso lo sviluppo (oneroso) di linguaggi e standard comuni di comunicazione, mezzi logistici per facilitare il trasferimento di cose, persone e informazioni, sistemi di affidamento e di garanzia che consentono ai soggetti della rete di fidarsi l’uno dell’altro.

Una volta che i soggetti della rete hanno investito nella creazione di un circuito dedicato (e specifico) di comunicazione, logistica e garanzia essi si trovano vincolati – dai loro stessi sunk costs – ad agire in modo concorde e reciprocamente utile. All’interno della rete, possono svilupparsi rapporti di scambio e di divisione del lavoro, o anche rapporti conflittuali, che tuttavia i soggetti hanno interesse a superare se non vogliono perdere gli investimenti network specific fatti per creare una piattaforma di relazione affidabile.

Questi investimenti in conoscenze network specific (utilizzabili per comunicare e integrarsi all’interno di un specifica rete) forniscono ai partecipanti una capacità di relazione che dissolve le vecchie catene proprietarie e crea ne crea di nuove, allacciando unità reciprocamente autonome con una colla (glue) non meno efficace di quella, precedente, del comando (Rullani 1997c). Blown to bits, fatti a pezzetti, dicono Evans e Wurster (2000), dei vecchi imperi che si stanno aprendo all’outsourcing. Adesso, nello spazio virtuale della rete, richness (ricchezza del rapporto cognitivo) e reachness (vicinanza, raggiungibilità tra le parti) non sono più scelte alternative: il trade off su cui si è retta la precedente divisione del lavoro è saltato. Evans e Wurster ci avvertono che si possono avere intensi rapporti cognitivi a distanza, che possono superare – nella concorrenza per il valore – sia gli intensi rapporti face-to-face (limitati nel numero), sia i “poveri” rapporti a distanza (limitati nel valore) che c’erano prima. Dunque la rete, per un verso, integra, ma per un altro dissolve i precedenti legami.

Tutto il sistema industriale entra in movimento: non sono venute meno le economie di scala in certi campi particolari (la finanza, la pubblicità, la rete distributiva), ma certo non è più stagione per la continua crescita dei conglomerati, alimentata dall’acquisizione di sempre nuovi settori e business, nella logica della diversificazione. Adesso, se si deve investire per sviluppare competenze eccellenti nei

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business in cui si opera, ci si rende conto che occorre prima di tutto specializzarsi, o meglio focalizzare il proprio campo di attività su un campo e su una competenza particolare. Le grandi imprese rimangono grandi, quanto a fatturato, ma svuotano spesso le linee interne di lavorazione delegando una quota crescente di lavorazioni all’esterno. Le reti sono una risorsa per crescere – in quantità e qualità - senza investire troppo e in troppi campi diversi: si vende al cliente anche quello che sanno fare i propri potenziali fornitori, meglio se già organizzati in filiere cognitive collaudate e in reti comunicative efficaci.

Le reti hanno due caratteristiche teoricamente rilevanti: tendono ad accrescere continuamente il loro bacino di utenza, trascinate da economie

di rete che, ad ogni nuovo utente, aumentano l’utilità (e quindi il valore) di una rete per tutti i suoi utenti precedenti;

sono lo strumento fondamentale per accettare e sfruttare economicamente elevati livelli di complessità. o Metabolizzare la complessità Le reti consentono di esplorare la complessità a costi accettabili. E di sviluppare,

in questa esplorazione del nuovo e del sorprendente emozioni e identità collettive. La complessità è la nuova tappa da affrontare per “liberare” la conoscenza dai

condizionamenti del modello meccanicistico tradizionale, andando oltre la prospettiva aperta dal modello sistemico, prima, e dal modello evoluzionistico, poi. Adesso, si tratta di fare un passo ulteriore, integrando la teoria della complessità nella descrizione dei processi di produzione e propagazione delle conoscenze.

Complessità significa varietà e variabilità, ossia estrema duttilità e flessibilità nell’aderire a contesti o situazioni differenti. Ma significa anche indeterminazione, ossia capacità di affrontare situazioni non predeterminate in anticipo, contando sull’efficacia dell’apprendimento in corso d’opera. Infine complessità significa non linearità, ossia accumulazione di energia latente (inattiva), da un lato, e liberazione improvvisa di tale energia, non appena scatta un trigger appropriato.

In un mondo complesso, piccole cause possono dare grandi effetti (amplificazione) e grandi cause possono invece implodere, non producendo effetti di sorta e trasformandosi, così, in energia latente.

L’economia della conoscenza si caratterizza appunto per processi di sommersione, in cui le conoscenze si traducono in potenziale latente, e in processi di emersione, che invece utilizzano l’energia latente stratificata nel contesto dell’esperienza e resa disponibile da qualche dispositivo.

o Le reti come sistemi aperti e condivisi di relazione “No business is an island” (Hakansson e Snehota 1989). La divisione del lavoro

cognitivo, nel capitalismo comunicativo, avviene mediante reti, ossia strutture di relazione che implicano la condivisione dei mezzi che generano la relazione stessa (Albertini e Pilotti 1996). La divisione del lavoro cognitivo, nel capitalismo comunicativo, avviene mediante reti, ossia strutture di relazione che implicano la condivisione dei mezzi che generano la relazione stessa. Nelle reti, sono le persone e le imprese che si dividono il lavoro ad investire nelle risorse di comunicazione, logistica e

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garanzia che rendono le loro attività più vicine e più integrabili. Nel capitalismo liberale, i servizi di connessione sopra richiamati venivano

forniti da imprese specializzate del terziario, che fornivano molte e differenti settori o luoghi. In epoca fordista, questi servizi sono stati in gran parte internalizzati dalle grandi imprese, se legati in modo rilevante al core business. Nella transizione che avvia il post-fordismo, i servizi in questione si sono territorializzati, dando anche una forma locale alle reti di divisione del lavoro.

Nel capitalismo comunicativo, questi servizi tornano ad essere forniti da produttori specializzati (i connettori), che, tuttavia, fornendo una pluralità di reti, non vanno molto oltre lo standard. La connessione che rende possibile la comunicazione, la logistica e la garanzia nella rete ha dunque bisogno di investimenti network specific che adattano i linguaggi, gli standard di qualità, i mezzi di trasporto, le procedure di garanzia alla specificità di ciascuna rete. Bisogna infatti creare canali collaudati di relazione tra specifiche imprese, in specifici luoghi e per specifiche finalità. La rete, dunque, non è una struttura di relazione astratta, dove si entra senza investimenti di ingresso e dove si può uscire senza perdere dei “costi affondati”: in questo senso, la rete non è Internet (che è soltanto una tecnologia), ma è l’insieme delle relazioni concrete che si allacciano tra aziende concrete, usando anche Internet (eventualmente).

Le reti sono tuttavia strutture aperte nel senso che l’investimento di accesso può essere compiuto da più aziende, anche successivamente, senza un preciso confine proprietario che assegni un diritto di esclusività ai primi “fondatori”. Un distretto, ad esempio, non fornisce la conoscenza in esso sedimentata in modo free, a chiunque si presenti. Per accedere servono investimenti che portano il nuovo aspirante a condividere esperienza e attività nel luogo. Ma, se questi è disposto a partecipare all’impresa, non c’è un confine che a priori lo escluda. Lo stesso vale per l’insieme dei fornitori che adotti uno standard tecnico di progettazione condivisa o di gestione dell’ordine. Ma vale anche per una comunità virtuale di professionisti o di consumatori, o per un circuito di fornitura aperto, che accoglie tutti coloro che superano le condizioni di accesso prescritte (Micelli 2000a, De Pietro 2000).

La rete è qualcosa di profondamente diverso da un consorzio, dalla catena di subfornitura messa in piedi da un’impresa leader o dal rapporto fornitori-clienti che si realizza nella gestione di un ordine. La rete, più precisamente, è un sistema organizzato di interazione comunicativa, che, nel suo funzionamento, generare in continuazione nuovi ordini, nuove relazioni cliente-fornitori, nuove catene di subfornitura. La rete – come sistema virtuale – prende forma, momento per momento, attraverso le specifiche supply chains cui ha dato origine, ma non si riduce alle supply chains osservabili (Rullani 1998a).

Materialmente una rete si riconosce attraverso gli addensamenti relazionali concreti che essa produce, ma mentre questi sono sistemi chiusi e temporanei, finalizzati ad uno scopo preciso, la rete rimane un sistema di relazione aperto, che contiene potenzialità di relazione eccedenti quelle di volta in volta attualizzate.

In questo senso, la rete del capitalismo comunicativo è diversa sia da quella proposta dal mercato (senza barriere di accesso), sia da quella fordista (chiusa in rigidi confini proprietari). Assomiglia piuttosto alla rete territoriale della transizione, ma con la differenza che le condizioni di accesso non hanno tanto a che vedere con al localizzazione quanto con l’acquisizione di capacità relazione (comunicative, logistiche e di garanzia) che prescindono, in parte, dalla localizzazione.

Vicari (2001a, 2001c) sottolinea questa differenza tra rete virtuale (aperta a un

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numero potenzialmente infinito di relazioni) e network attuale (chiuso entro precisi confini), che prende forma tra (alcune) imprese o all’interno di un’organizzazione. Nel capitalismo comunicativo che usa le tecnologie ICT la rete virtuale si sviluppa secondo dinamiche “connessionistiche”, basate sull’auto-organizzazione, che danno il “potere” a chi ha, di fatto, “la capacità di progettare, creare e gestire una rete”, in modo che possa ampliarsi e affermarsi rispetto ad altre (p. 15). L’architettura della rete non è programmata a priori, ma nasce dall’interazione e dalla propagazione della fiducia che rende accettabile la dipendenza dalla rete per un numero crescente di partecipanti. Quando la base di fiducia diventa consistente, la rete può sfruttare, nella sua crescita competitiva, il traino dei rendimenti crescenti e dell’intelligenza collettiva emergente dalle connessioni (p. 46).

Virtuale e attuale sono due dimensioni complementari in tutti i cosiddetti sistemi autopoietici (che si auto-producono) (Zeleny 1981). I sistemi viventi sono, ad esempio, sistemi autopoietici. Ma anche i sistemi sociali – la filiera cognitiva, ad esempio – possono diventarlo se si organizzano con regole capaci di riprodurre la rete di relazioni e le sue proprietà auto-riproduttive. Al contrario di quanto accade nei sistemi meccanici in cui la struttura del sistema è data, nei sistemi autopoietici la struttura può cambiare, secondo le regole selettive generate dall’organizzazione. E’ questa che deve rimanere invariata, al mutare delle strutture, mantenendo così attive le proprietà autopoietiche che caratterizzano il sistema (Maturana e Varela 1980, 1985).

Una filiera cognitiva, nella sua propagazione, costituisce un sistema autopoietico che mantiene le sue proprietà (la sua capacità di propagazione) mutando la forma concreta delle conoscenze applicate ai diversi contesti di uso. In questo senso, la plasticità dell’organizzazione cognitiva – che rigenera la propria capacità di propagazione – conferisce alla conoscenza un potere ordinatore sul mondo caotico e incostante che attraversa (Kaufmann 2000).

La distinzione tra rete (virtuale) e network (attuale) non riguarda soltanto il mondo del Web, anche se viene accentuata dall’interazione in real time che si realizza in Internet. Riguarda in realtà il nuovo modo di essere del business – di tutti i business - nel capitalismo comunicativo.

Le due caratteristiche della rete virtuale (apertura e condivisione del sistema relazionale impiegato) sono decisive per l’economia della divisione del lavoro cognitivo che ne può nascere. L’apertura garantisce che la rete resti dinamicamente in contatto con il mondo esterno, essendo possibile uno scambio – sia pure costoso e non immediato – tra chi è dentro e chi è fuori. Nella crescita, l’apertura difende le ragioni della moltiplicazione contro quelle dell’appropriazione. La condivisione è, a sua volta, il principale antidoto all’opportunismo: grazie agli investimenti network specific fatti da ciascuno, si crea una condizione di reciproco lock-in, che ciascun partner deve valutare prima di entrare e che lo vincola dopo essere entrato. E’ partendo da questo presupposto che anche la gestione della conoscenza, nella rete, sarà diversa da quella che si avrebbe nel libero mercato, dove chiunque è in grado di uscire senza costo da un rapporto da cui ha tratto opportunistici vantaggi. Esiste, in altre parole, una social liability, una responsabilità sociale verso la comunità dei co-investitori nella rete di appartenenza: e questa, nel bene e nel male, costituisce un legame (Uzzi 1997).

Attraverso questi investimenti si rende la propria attività, in un qualche misura network specific e si assume un rischio condiviso: il rischio che, se la rete non decolla o se non funziona bene, gli investimenti fatti siano svalorizzati, dovendo cercare un sistema relazionale alternativo.

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Una rete dà accesso alle risorse degli altri partecipanti, ma è essa stessa un capitale relazionale che eccede, virtualmente, le relazioni allacciate (Burt 1992). In questa funzione la prestazione relazionale fornita dalla rete può certo essere misurata dalla sua ampiezza (numero di contatti), dalla forza o debolezza dei contatti (Granovetter 1973) dalla gerarchia (verticale o orizzontale), dalla posizione dei nessi (centrali o periferici) o dalla forma del circuito, secondo i numerosi algoritmi sviluppati dall’analisi delle reti (Lomi 1991). Ma, nel funzionamento concreto della rete, conta anche la sua plasticità, la sua coerenza, o la presenza di structural holes (buchi strutturali) che indeboliscono i rapporti in certe relazioni critiche (Burt 1992).

o Diverse specializzazioni nelle reti In presenza di una rete che sia duttile e affidabile, scatta la convenienza degli

operatori a specializzarsi in ruoli diversi. Troveremo innanzitutto degli specialisti, che si occupano di un problema molto limitato (core business) e che ricorrono all’outsourcing per tutto il resto.

La specializzazione è decisiva perchè favorisce la moltiplicazione degli usi (della stessa conoscenza) ricorrendo a professionisti che operano autonomamente nella rete . Per collegare i diversi specialisti di una filiera occorrono specializzazioni di collegamento e relazione, ossia occorrono sistemisti (che progettano il prodotto, assemblando le diverse parti), connettori (che forniscono mezzi di comunicazione, logistica e garanzia) e meta-organizzatori, che regolano gli accessi e mantengono vivo lo spirito della rete.

Si tratta, come si vede, di reti complesse, che prendono il posto della fabbrica integrata verticalmente e autosufficiente. Le reti postfordiste non sono a-territoriali, ma multi-territoriali, perché mettono in relazione soggetti appartenenti a contesti diversi, ma spesso fortemente caratterizzati da radici e identità locali. La propagazione soft – propria del capitalismo comunicativo – utilizza linguaggi e risorse fiduciarie di interazione che sono spendibili a scala globale, ma che non fanno per niente a meno dei luoghi e dunque dei circuiti locali emersi nel corso della fase di transizione.

Il nuovo paradigma, e che è tuttora in corso di formazione, sostituisce al fordismo e ai sistemi territoriali della transizione, una forma di capitalismo comunicativo: un sistema di propagazione della conoscenza basato sull’infrastruttura delle reti e dei linguaggi della comunicazione, ossia sulla condivisione di conoscenze, di capitale sociale e di investimenti relazionali a scala globale (Rullani 2002f).

o I drivers cognitivi nel capitalismo comunicativo La comunicazione tra i molti soggetti che sono presenti nel circuito

globale/locale e la flessibilità delle tecnologie conseguenti permettono di prendere le distanze: a) dalla standardizzazione e dalla rigidità che aveva caratterizzato il paradigma

fordista. Le risorse della flessibilità, della personalizzazione, della rapidità di risposta ad esigenze del cliente non sono più limitate ai piccoli numeri dei circuiti locali, ma possono andare alla ricerca di nuovi clienti potenziali nel grande mercato mondiale;

b) dalla limitatezza dei circuiti proprietari (tipica del fordismo) e locali (transizione), estendendo la propagazione in una geografia molto più ampia ed al limite globale;

c) dalla strategia di protezione passiva, ancorata alla specificità della conoscenze e al

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capitale sociale che “olia” gli scambi, per passare ad una strategia attiva di costruzione delle condizioni richieste per realizzare un’efficace governance della filiera.

Per rispondere con flessibilità e rapidità alla grande varietà di situazioni e di domande serve la mediazione intelligente e autonoma di uomini che si prendono il rischio delle proprie decisioni. Comincia così, dopo il periodo di eclisse subito nel corso della stagione fordista, la rivalutazione di v , ossia dell’apprezzamento personale che ciascun imprenditore, lavoratore o consumatore fa delle conoscenze impiegate. Apprezzamento sia nel senso della qualità delle cose che si fanno, sia nel senso del rischio che si assume. La tecnostruttura fordista organizzava, prevedeva, programmava le cose da fare e il loro senso per tutti i ruoli sociali, lavoratori e consumatori in primo luogo. Oggi non più: la grande impresa e lo Stato si “sganciano” da un ruolo che assegna loro un grande potere ma anche un compito impossibile. Dunque, lavoratori e consumatori devono fare da soli: e per questo, hanno bisogno di più autonomia e di più intelligenza per fronteggiare il compito valutativo e il rischio che viene riversato sulle loro spalle dalla “ritirata” strategica delle tecnostrutture (Gambardella 1999, p. 16). Il lavoro non è più lo stesso, perchè diventa atipico, autonomo, precario o imprenditivo secondo i punti di vista (Bonomi 2000a, Rullani 2001c, 2002e). Ma nemmeno il consumatore può essere uguale a quello che delegava e subiva: adesso, se vuole recuperare il senso e la funzionalità di quello che fa, deve (necessariamente) sperimentare, differenziarsi, condividere insieme ad altri desideri ed emozioni (Micelli 2000a, Codeluppi 2002). C’è una nuova tensione antropologica verso la dimensione virtuale, esplorativa, della vita intesa come desiderio, definizione identitaria che si auto-sostiene (Volli 2002).

E’ questa competenza e responsabilità personale la risorsa necessaria, in condizioni di complessità, per mantenere livelli elevati di moltiplicazione (n). Internet e la globalizzazione cambiano totalmente la scala della moltiplicazione cognitiva. I limiti del sistema proprietario e del sistema locale sembrano superati, avendo mezzi che possono facilmente interagire con clienti e fornitori potenziali anche molto lontani in termini fisici. Tuttavia, questa prospettiva può essere realmente praticata, in un mondo popolato da un numero crescente di concorrenti, se ci si mette nello spirito della nicchia globale: un prodotto-specialità che cerca e trova i suoi potenziali clienti/fornitori in un sistema ampio, tendenzialmente globale.

Anche il problema del controllo p cambia natura: non si tratta più di escludere gli utenti abusivi o opportunisti, ma di mantenere il bacino di uso delle conoscenze entro un circuito di relazioni stabili, in cui i diversi attori non hanno, di regola, interesse a danneggiare il produttore o ad impoverirlo con azioni predatorie o opportunistiche.

Le grandi imprese possono, grazie alla rete, “sganciarsi” dal ruolo di sistemista manifatturiero e qualificarsi come meta-organizzatori di un sistema esteso, formato da molti produttori di varia dimensione e nazionalità, in cui controllano però – anche in forme non proprietarie, ma ugualmente cogenti - le conoscenze critiche (il rapporto col mercato finale, la rete distributiva, le catene di subfornitura, l’innovazione tecnologica rilevante ecc.). I marchi commerciali e gli investimenti nella comunicazione verso il cliente finale – anche mediante la rete ICT - attraggono prepotentemente le imprese leader, le più pronte ad occupare i “buchi strutturali” (Burt 1992) che si aprono nel processo di allargamento dei mercati alla scala globale (Mandelli 2001, p. 173).

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o Dalle reti locali alle reti translocali I sistemi territoriali incontrano, nel nuovo paradigma, un contesto competitivo

più difficile. Intanto si trovano di fronte grandi imprese che, sfruttando l’organizzazione a rete, sono diventate post-fordiste: si sono specializzate su un core business in cui fanno investimenti per eccellere, ricorrono estesamente all’outsourcing per essere flessibili e non incorrere in eccessivi rischi, sfruttano appieno i vantaggi della globalizzazione, perchè hanno investito da tempo in paesi emergenti, in cui oggi diventa più facile trasferire conoscenze e attività, grazie alla liberalizzazione dei mercati e alle ICT.

In secondo luogo, si sta indebolendo la forza dei drivers del valore di cui dispongono. L’informalità delle relazioni e la tacitness della conoscenza locale sono stati vantaggi importanti, ma hanno un costo: il circuito della divisione del lavoro cognitivo viene chiuso entro i confini del sistema locale, con una forte riduzione di n rispetto a chi, invece, può contare su una rete translocale, che attraversa diversi luoghi e diversi paesi. La perdita di posizioni (visibile anche nella caduta delle quote di mercato) che viene subita sul versante di n è, in parte, compensata con un netto aumento di v, attraverso politiche che tendono a posizionare i nostri produttori verso la fascia alta di qualità del mercato, l’unica che possa sottrarsi alla concorrenza di costo con i paesi emergenti. L’equilibrio tra un n che decresce e un v che cresce è abbastanza precario, perchè la “piramide” delle quantità si restringe notevolmente quanto i prezzi di mercato si allontanano dalla fascia bassa: non è possibile slittare tutta l’attuale produzione dei sistemi locali italiani, ad esempio, verso l’alto. Non ci sarebbe posto per tutti, cosicchè è necessario immaginare una contemporanea politica di espansione della domanda dei segmenti alti, raggiungendo i consumatori ricchi che oggi cominciano ad essere presenti in Unione Sovietica, Asia, Est Europa.

Ma il problema più serio si ha col sistematico arretramento che le reti locali subiscono sul terreno dell’appropriazione (p). La ragione è strutturale: i distretti industriali emersi nella fase della transizione sono ancora, per la maggior parte, centrati sulla manifattura. In questa fase della filiera, la concorrenza dei paesi emergenti abbassa i margini, riducendo il loro pi, a vantaggio delle fasi a valle, dove si formano margini maggiori, perchè i prezzi al consumo calano lentamente. Ma entrare nelle fasi a valle della filiera (commercializzazione, distribuzione globale, pubblicità, centri di servizio e rete logistica verso i mercati mondiali) non è per niente facile per imprese che hanno finora trascurato queste funzioni, delegandole al sistema distrettuale locale (Varaldo e Ferrucci 1997). L’impresa distrettuale, ad esempio, fatica a riconvertirsi nel senso delle relazioni a rete, translocali, perchè non ha investito abbastanza, in passato, in funzioni relazionali: anzi ha sfruttato come vantaggio competitivo il basso costo e l’elevata qualità delle relazioni dirette nella filiera cognitiva locale.

Tuttavia, la partita non è ancora chiusa: il problema è accelerare l’evoluzione dei distretti verso forme reticolari aperte, che sono raggiunte attraverso tante strade diverse (Corò e Grandinetti 2001a, Grandinetti 2003): delocalizzando fasi di lavorazione all’estero, seguendo l’impresa leader nella sua mini-multinazionalizzazione, agganciandosi a reti commerciali internazionali, formando consorzi e reti per la difesa della qualità e l’investimento nel terziario, funzioni commerciali prima di tutto. E’ decisivo, in questa fase, il rapporto tra il sistema locale e le imprese translocali (che svolgono attività in più luoghi diversi, creando in questo modo un collegamento tra i luoghi stessi). Queste possono essere più o meno “illuminate”, ossia consapevoli delle

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differenze tra i luoghi che collegano e del loro potenziale valore economico, potendo diventare importanti veicoli di condivisione delle conoscenze tra economia globale e locale (Vaccà e Cozzi 2002). Ma anche vero che ci sono imprese translocali che perseguono strategie di mobilità che le portano a non legarsi ai luoghi in cui operano, preferendo avere con questi un puro rapporto di scambio, in cui i rischi e i destini a lungo termine restano separati (Becattini).

Il ruolo delle imprese translocali in uscita dal fordismo era modellato sull’esperienza storica dell’impresa multinazionale (tipicamente americana) che badava soprattutto a mantenere il pieno controllo delle attività decentrate nei vari paesi, replicando il sapere elaborato dalla casa madre e “paracadutato” nei cento (diversi) luoghi di attività. Oggi molte multinazionali hanno adottato un atteggiamento meno imperialistico, anche perchè il modello della casa-madre ha cessato di essere identificato per definizione con l’one best way da seguire. Ma le reti translocali dell’economia globale cominciano anche ad essere popolate di moltissimi altri canali di comunicazione e di intreccio tra il locale e il globale (Grandinetti e Rullani 1996, Corò e Grandinetti 2001a): formazione di “piccole multinazionali” che cominciano ad operare anche in Cina o negli Stati Uniti, estensione all’estero della rete di subfornitura portandosi dietro alcuni fornitori locali, gemmazione di nuovi distretti dai precedenti, reti locali che vanno insieme all’estero, alleanze commerciali tra reti transnazionali di distribuzione e sistemi manifatturieri locali, ecc..

Nell’internazionalizzazione che nasce “dal basso”, si scopre quanto importante è la rivoluzione ICT – oggi anzi tempo messa da parte - per estendere le reti di relazione dal locale al traslocale (Chiarvesio 1998, Di Maria 2000), anche se in forme non riprese dalle architetture gerarchiche proposte dalle grandi imprese o dalle forme troppo codificate e anonime del commercio elettronico (Di Maria 2001). I distretti sono in effetti, attualmente, “reti senza tecnologia”(Micelli e De Pietro 1997), che, in questa forma, fanno fatica a realizzare esperienze importanti lontano dal loro nucleo manifatturiero. E’ solo estendendo il loro campo di operazioni alla rete transnazionale, che i distretti attuali potranno fare evolvere la funzione della loro manifattura locale, scoprendo che essa ha ancora un ruolo importante solo se riesce a differenziare le sue prestazioni da ciò che si potrà fare, nei prossimi dieci anni, nel nuovo stabilimento aperto in Romania o da quello che sarà in grado di offrire il temibile concorrente cinese, affacciatosi all’orizzonte del mercato (Corò e Micelli 2001).

La manifattura che può elevare il valore di p, e alimentare v e n per la filiera degli users, non è quella che punta sulla concorrenza di costo, ma quella di sviluppare competenze distintive che sono collegate alla densità e qualità della filiera locale: risposta flessibile e rapida alle nuove idee, specializzazione dei ruoli nella rete locale e nelle filiere, prestazioni di qualità, eccellenza tecnica, garanzia di affidabilità. Tutto ciò richiede investimenti espliciti nello sviluppo di nuove conoscenze e capacità di cooperazione consapevole: due aspetti su cui le reti locali non hanno brillato in passato.

Dunque, la formula tradizionale dei “vecchi” distretti è entrata in crisi da tempo, e sta mutando in modo riconoscibile. Non si sta tornando, salvo casi eccezionali, verso il modello fordista della grande concentrazione produttiva e finanziaria, ma certamente i nuovi distretti saranno in alcuni aspetti importanti diversi dai precedenti (Sabel 2002).

Ma diversi come? Per iniziativa di chi? Non si può pensare che la “mutazione genetica” degli attuali sistemi locali

avvenga spontaneamente, attraverso tante iniziative separate, chiuse ciascuna all’interno della singola impresa. Bisogna piuttosto pensare ad una risposta di sistema, che utilizza

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la forza della divisione del lavoro innovativo (Arora e Gambardella 1993, 1994), facendo spazio alle nuove imprese terziarie e alle nuove reti che nascono senza il “peso” di un precedente investimento in capannoni e macchine e senza i sunk costs legati ad una lunga storia.

Accanto alle reti territoriali, la natura sempre più globale della comunicazione apre la strada allo sviluppo di reti mondiali di divisione del lavoro cognitivo, che sfruttano bacini amplissimi di ri-uso e che, dunque, sono potenzialmente in grado di far fare un salto di qualità ai moltiplicatori che danno valore alle conoscenze. L’economia globale, considerando soltanto i paesi avanzati, comprende un miliardo di potenziali consumatori e di potenziali produttori. Grandi paesi come Cina, India e Brasile si stanno avvicinando a grandi passi. Le barriere allo scambio di conoscenze, con l’avvento delle ICT, sono diventate sempre più labili, e questa tendenza proseguirà in futuro ancora per molti anni.

Nelle reti trans-territoriali – nazionali, continentali o globali – la moltiplicazione delle conoscenze si appoggia a investimenti network specific che vengono fatti per integrare il circuito cognitivo di imprese situate in contesti diversi.

In questo caso, le conoscenze non sono mediate “naturalmente” – e senza costi – dalla condivisione del contesto territoriale. Ma devono essere mediate da connettori creati artificialmente, attraverso scelte volontarie di cooperazione e attraverso costi e investimenti conseguenti. Lo stesso vale per la capacità delle reti di mantenere il controllo sulle proprie conoscenze, impedendo accessi non autorizzati a concorrenti esterni: anche in questo caso non c’è una barriera naturale, ma la barriera va creata con regole appropriate, che vincolino i comportamenti dei diversi partners.

Il passaggio ai grandi moltiplicatori della globalità è ancora tutto da compiere. Ma, proprio per questo, diventa oggi cruciale chiedersi in che modo il moltiplicatore che sta entrando in gioco – e che è cinque, dieci volte quelli conosciuti in precedenza – può appoggiarsi a strutture di efficacia, moltiplicazione e appropriazione adeguate. Alla fine, è questa la domanda latente a cui deve rispondere un’economia della conoscenza che prende forma oggi, e a cui devono essere dunque proposti i problemi dell’oggi, non quelli – in parte già superati e in parte dimenticati – a cui dovevamo trovare risposta qualche tempo fa.

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CAPITOLO UNDICESIMO (CONCLUSIONI)

LA NUOVA ALLEANZA: MODERNITA’, COMUNICAZIONE, ESTETICA

o Una prospettiva: ridare senso alla moltiplicazione e alla

rendita L’economia della conoscenza è prima di tutto un modo per vedere la trama e i

significati sottostanti alla produzione di valore nella società contemporanea. Essa non riguarda tanto i suoi oggetti, per quanto questi siano analizzati ed esposti, quanto gli occhi con cui vengono guardati, interpretati, comunicati (Canevacci 1995). Nella comunicazione visuale, ciò che si vede non è dato oggettivamente, ma è costruito e proiettato nello spazio virtuale in funzione dell’angolo di visuale prescelto: le cose cessano di essere oggetti suscettibili di essere esaminati dall’esterno e diventano parte di una relazione coinvolgente, riflessiva, con le persone e gli attori sociali: in questo senso, acquistano una vita sociale (Appadurai 1986, 1990, Brown e Duguid 1991).

Quale angolo di visuale è proprio dell’economia della conoscenza? In che modo il mondo cognitivo che essa ci restituisce può essere guardato, interpretato e comunicato senza perdere l’essenziale?

La molla che ha spinto la modernità così lontano, nello spazio virtuale di quello che si sa e di quello che si sa fare, è stata la moltiplicazione della conoscenza impiegata negli usi produttivi. I mediatori che sono stati inventati e messi in opera negli ultimi due secoli e mezzo ruotano tutti intorno a questo fine: sono fatti per moltiplicare, o per rimediare agli effetti negativi o indesiderati della moltiplicazione. La correzione riflessiva che è stata elaborata al riguardo ha lentamente spostato l’accento dalla quantità alla qualità, dalla massa alle singole persone o ai singoli luoghi, dallo standard alla differenza. Ma non ha cambiato la direzione generale di marcia della modernità. Che ha continuato a moltiplicare il moltiplicabile, anche per fornire qualità, singolarità, differenza a costi decrescenti.

Il postmoderno ha oltrepassato i confini della prima modernità, andando oltre l’orizzonte del razionale e del calcolato, per incontrare esperienze plurime, dai molti possibili significati e esiti (Podestà e Addis 2003). Prendere le distanze da una modernità divenuta asfittica era necessario. Ma la trama del postmoderno ha bisogno, per espandersi e rigenerarsi nel corso della sua propagazione, dei moltiplicatori ancorati alla scienza e alla riproducibilità. E’ su questa impalcatura che ogni sentiero di esplorazione del nuovo deve necessariamente muoversi: si tratta di aumentare l’intensità delle esperienze senza perdere il controllo dei moltiplicatori, e di personalizzare le esperienze senza far saltare la loro regolazione sociale.

La modernità, dunque, non è finita: ha ancora un posto centrale in tutti nostri possibili futuri, escludendo – s’intende - le alternative catastrofiche. Ma questo non significa che si vada verso una pacificazione senza rischi: “l’instabilità e il pericolo (sono divenuti) parti costitutive dell’attività economica e delle relazioni sociali”

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(Maione 2001, p. 197) La nuova modernità, per andare avanti sulla via della moltiplicazione, deve imparare non solo a ridare senso alla vita e al lavoro delle persone, ma anche ad assumere le responsabilità della risk society, connaturata alla natura esplorativa – e perciò pericolosa – dal sapere che impieghiamo (Beck 1997, 1999). Esiti catastrofici possono derivare da scelte di ordinaria amministrazione, fatte con scarsa consapevolezza degli effetti e con scarsa condivisione sociale delle ragioni che le giustificano.

Non si tratta solo di far fronte alla complessità che viene generata dal processo moltiplicativo e di esplorazione del nuovo, e che richiede di essere affrontata, più che in passato, con una strategia di anticipazione e di movimento (Valdani 2000). Nel vaso di Pandora che la conoscenza sta lentamente schiudendo c’è molto di più. La “banalità del male” torna ad agire nella storia: non si insinua più nelle guerre, nelle frenesie nazionalistiche, nell’ideologia politica. Ma prende le forme della massificazione della cultura macinata dalla televisione, delle grandi povertà che stanno azzerando la storia di metà della popolazione mondiale, delle guerre di religione e di civiltà che ricordano altre epoche e altro sangue. Ne discende un bisogno latente, e durevole, di maggiore sicurezza, di maggiore condivisione e di maggiore responsabilità. Anche l’evoluzione verso una più compiuta modernità non potrà sottrarsi a questi imperativi: accanto alla natura aperta, libera, sperimentale del conoscere si dovrà porre il senso del limite, l’etica della responsabilità, la consapevole assunzione dei rischi individuali e collettivi che sono impliciti nel sapere e nel fare.

o Uomini Grigi corrono (ancora per quanto?) La seconda modernità, dunque, non potrà che essere riflessiva. Più e meglio che

in passato. Se non è in arrivo alcuna radicale alternativa alla modernità, nel senso di un post-moderno che chiude definitivamente i conti con la storia da cui proviene, non si può, infatti, nemmeno immaginare di proseguire nella dilatazione senza limiti dei paradigmi emersi dalla prima modernità. Per andare avanti, bisogna diventare capaci fermarsi a riflettere e cambiare. Come nel racconto di Michael Ende (Momo) gli Uomini Grigi della prima modernizzazione corrono in avanti, sempre più veloci, ma, così facendo, rimangono fermi perchè il punto di arrivo si allontana sempre più. Insomma, per arrivare presto, bisogna sapersi fermare o andare all’indietro, (quanto basta), prendendosi tutto il tempo che serve.

Il fast food, frenetico, della prima modernità è meno affollato e rende meno di un tempo. Da mille segni si capisce che è venuto il tempo della riflessione e dell’ascolto. Si è scoperto il valore dello slow food e l’economia si sta lentamente adeguando.

Ma, attenzione: il mulino della modernizzazione non è in disarmo lavorerà a pieno ritmo ancora per molto tempo. Se non altro perchè il cammino della moltiplicazione cognitiva – baricentro pratico e teorico della modernità - è ancora lontano dal capolinea. Dunque, la forza produttiva della propagazione della conoscenza è destinata crescere, nei prossimi anni, senza risentire più di tanto degli ostacoli che ancora oggi incontra.

Si pensi soltanto alla globalizzazione dei mercati e delle conoscenze, che, integrando aree continentali finora separate (Stati Uniti, Europa, Giappone e newcomers asiatici), moltiplica per tre la dimensione media del bacino di ri-uso delle conoscenze produttive. E sullo sfondo, per il futuro, si deve mettere in conto l’ingresso in questo

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bacino di altri “giganti” semi-continentali, come la Russia, la Cina, l’India e forse la nuova America Latina di questi anni. Già esistono canali imprenditoriali – le imprese transnazionali – che fanno da ponte al trasferimento delle conoscenze dal nucleo storico dei paesi industrializzati ai new comers: la massima parte dei problemi incontrati riguarda la carenza quantitativa e qualitativa del capitale umano che opera in questi circuiti (Vaccà e Zanfei 1989, Vaccà 1997). Una parte di questi canali, tuttavia, è ostruito da una tradizione di presenza multinazionale che privilegia le opportunità di mercato più facili e il comando gerarchico, monoculturale. C’è tuttavia una progressiva apertura degli operatori transnazionali ad un’impostazione dialogica dei rapporti da intrattenere con i paesi emergenti (Rullani 2002d).

D’altra parte, all’estensione geografica si affianca – e in parte si sovrappone – un’evoluzione tecnologica che fa perno su mezzi di comunicazione globale in real time (Internet, videotelefono mobile, tv interattiva) e sullo sviluppo della virtual reality: la propagazione delle conoscenze, attraverso questi nuovi mezzi, promette di mettere insieme quantità e qualità, meccanizzando la riproduzione artificiale di situazioni, sensazioni e comportamenti complessi. Le biotecnologie, infine, stanno aprendo spazi virtuali nuovi – e pericolosi – alla creazione di forme di vita non scaturite dall’evoluzione naturale. Dunque, la logica della macchina e della sua potenza moltiplicativa ha ancora molte, e sorprendenti, cose da dire: anche per questo la modernizzazione deve diventare più riflessiva che in passato, più capace di intervenire sulle sue premesse.

Insomma, indietro non si torna, anche se la nostalgia per la tradizione – con tutto quello che le sta intorno - sembra oggi aver riempito la scena dell’immaginazione collettiva: ricerca delle radici, culto dell’identità, narcisismo della propria diversità. Un numero crescente di persone va alla ricerca di qualche forma di intensificazione della propria esperienza e conoscenza. Ed è disposto a pagare un prezzo elevato per avere accesso a servizi ed esperienze personalizzate, coinvolgenti.

Si cerca una moltiplicazione che non banalizzi, ma sia flessibile e creativa nel rispondere ad esigenze personali, sia nella produzione (un lavoro interessante, un processo esteticamente ricco, un servizio portatore di significati) che nel consumo (prodotto e servizi corrispondenti a desideri e identità profonde). Lo stesso avviene sul terreno della rendita. Il cliente può essere indotto a pagare non solo dalla scarsità della conoscenza di cui ha bisogno, ma anche dalla personalizzazione delle conoscenze che desidera per alimentare la sua immaginazione e le sue esperienza. Si cerca perciò una rendita che non nasca dalla forza dei meccanismi di esclusione (segretezza, brevetti o copyright, marchi commerciali), ma dalla disponibilità a pagare di chi viene coinvolto emotivamente in esperienze uniche, che non potrebbero realizzarsi senza una attiva cooperazione dei produttori di conoscenza. La rendita, in questi casi, è una sorta di redistribuzione a monte (verso i partners-fornitori) del valore creato dall’esperienza unica, realizzata dal fruitore grazie agli input ricevuti.

Si tratta, per ora, di una ricerca di intensità che si svolge in superficie, senza rimettere in discussione gli standard del consumo e della produzione di massa, così vantaggiosi sotto il profilo dei costi e del ri-uso delle stesse conoscenze. Nuovi intensificatori – la pubblicità, la moda, i nuovi miti narrativi dell’epoca contemporanea – caricano il consumo e la produzione di massa di significati simbolici, senza però cambiare la loro natura di fondo.

Il nuovo nasce, ma rimane a metà. La “vecchia” moltiplicazione e la “vecchia” rendita non scompaiono di colpo, perchè hanno avuto i loro vantaggi e hanno tutt’oggi i

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loro sostenitori. Insieme, ci hanno viziati irrimediabilmente. Dunque, la domanda latente di intensificazione rimane in gran parte senza

risposta. O almeno senza una risposta forte. Nel trade off tra intensificazione e moltiplicazione, la soluzione prevalente è quella di fare dell’intensificazione di superficie, lasciando che il profondo sia ancora dominato dalla logica iterativa, seriale, della moltiplicazione.

Per uscire dall’impasse, la domanda va cambiata, ponendola in questo modo: c’è un modo riavere l’intensità senza rinunciare alla moltiplicazione e alla rendita?

o L’asino di Buridano Il dilemma tra intensità e moltiplicazione (con rendita) riproduce le alternative

fondamentali che la modernità ha sperimentato, in tutti i paesi sviluppati, negli ultimi anni. La vita di milioni di persone – lavoratori, risparmiatori, consumatori, cittadini – sta sospesa, e oscilla pericolosamente, tra le opposte istanze dell’intensificazione e moltiplicazione. Tra la qualità coinvolgente, che costa fatica ma emoziona, e la serialità ripetitiva, che conviene, ma non coinvolge e non dà emozioni, se non superficiali, effimere.

Come l’asino di Buridano, il valore economico insegue questi due attrattori senza sapersi decidere: ora scopre i vantaggi dell’uno, ora il fascino dell’altro, senza riuscire a crederci fino in fondo. Amleticamente, si affeziona alla qualità della vita, quando sta sfruttando senza tanti riguardi il moltiplicatore che la svuota di fascino e di significato. Oppure si applica con grande impegno a serializzare e banalizzare qualunque esperienza di successo, attentando, pur di venderla, alla sua intensità e unicità.

Naturalmente la via d’uscita c’è, anche se è più facile a dirsi che a farsi: bisogna aumentare insieme intensità, moltiplicazione e rendita. Superare insomma il trade-off che abbiamo dato, finora, per scontato. Si tratta di trovare emozioni intense che possano diffondersi a grande scala, dando luogo a ricavi unitari elevati, in ragione della loro qualità e personalizzazione. Oppure si tratta di concepire e vendere prodotti di massa che possano emozionare intensamente.

Insomma, bisogna utilizzare la produttività e la rendita generata dal moltiplicatore per recuperare la materialità del corpo, le identità singolari, i contesti unici. Tutto quello che dà significato alla vita di persone che non possono essere qui e altrove, e che, dunque, sono disperatamente e entusiasticamente contingenti, provvisorie.

o Alla ricerca del senso e dell’intensità delle esperienze Questo libro è stato scritto immaginando un’evoluzione della modernità che

torna verso il significato, senza perdere sè stessa e il moltiplicatore che, fin dall’inizio, l’ha accompagnata.

L’economia del consumo si sta trasformando, lentamente ma inesorabilmente, in economia dell’esperienza (Pine II e Gilmore 1999): i beni materiali vengono consumati, le esperienze – invece – sono progettate, rappresentate, comunicate, vissute e ricordate.

Dopo la modernità meccanica che ha praticato senza remore la moltiplicazione, stiamo andando a piccoli, decisi, passi verso una modernità comunicativa ed estetica (Lash 1992) che vuole recuperare l’intensità ma – per ora - non sa bene come farlo e se

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può, davvero, farlo. E’ un processo in fieri, che va accompagnato. E chiarito nei suoi presupposti di

fondo, nelle sue possibilità aperte. E’ quanto abbiamo cercato di fare con questo libro. Andando a ricercare i casi e

i modi in cui: il processo moltiplicazione determina una perdita di senso (e dunque di intensità),

anche per effetto del suo stesso successo. L’abbondanza quantitativa toglie, infatti, significato alla moltiplicazione degli artefatti materiali, che una volta erano oggetto di desiderio per soggetti immersi in uno stato di povertà e di bisogno delle origini;

si va dalla ricerca di nuova intensità, dando valore ai pochi momenti di qualità che punteggiano il deserto delle merci banali, prive di significato, creato dalla produzione di massa. Quali sono i nuovi intensificatori che, rompendo con la logica della produzione

di massa, possono controbilanciare l’azione di un processo moltiplicativo che continua, per suo conto, a marciare a tutta velocità? In che modo possono svilupparsi senza inibire le convenienze associate al processo moltiplicativo?

Il recupero di esperienze intense, ma individuali e irriproducibili, non basta: può avere un significato per la singola persona che coltiva queste esperienze, ma non genera di per sé valore economico in misura sufficiente a competere con la forza del moltiplicatore ripetitivo, massificante. Perché un intensificatore abbia peso bisogna che l’esperienza individuale acquisti non solo maggiore intensità, ma anche un carattere condiviso: il maggior valore unitario dell’esperienza deve essere moltiplicato per i numeri della condivisione.

Diventano fondamentali, in questo senso, i canali e i media della condivisione che consentono di creare e propagare significati, sensazioni, valori estetici. La costruzione di linguaggi e di comunità estese, capaci di proliferare oltre il bacino di origine, è l’elemento chiave di questa evoluzione. Che, nel mettere insieme intensificatori e moltiplicatori, si organizza in forme reticolari, usando la forza dei legami deboli (the strengh of weak ties: Granovetter 1973, Micelli 2000a).

L’economia della nuova alleanza tra intensità e moltiplicazione è, appunto, un’economia della reti, che può prendere forma solo lentamente, man mano che le strutture a rete saranno effettivamente costruite e messe in funzione. E’ grazie a questa emergente forma organizzativa che l’economia della conoscenza può superare la fase acerba della moltiplicazione povera, astrattiva, che ha assunto nella modernizzazione meccanica e diventare matura recuperando senso e valore alla fruizione estetica della vita (Lash 1994).

o Il ritorno della conoscenza personale Dopo tanto moltiplicare e rendere, dunque, è tornata in scena la conoscenza

personale, trainata dalla ricerca di significati estetici che oggi investe sia la produzione che il consumo (Bettiol e Rullani 2003).

Lo sboom della borsa, gonfiata dalle previsioni delle rendite moltiplicative dell’e.business, ha fatto rinsavire molta gente. La new economy era un’economia “senza anima”, governata dalla logica fredda del capitalismo finanziario. Nel futuro della seconda modernità, c’è bisogno di recuperare un’anima alle organizzazioni per renderle creative, sensibili (De Masi 2003, p. 678). La new economy appare lontana, ma

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altrettanto lontana è rimasta la old economy della trasformazione energetica e materiale. Davanti, nella strada che ci accingiamo a percorrere a noi, c’è la riscoperta del profondo e dell’invisibile che sta in noi. Torna la conoscenza personale.

La conoscenza personale è tornata perché è cresciuta, in modo esponenziale, la domanda di senso e il desiderio di valutare le merci non solo per le loro prestazioni funzionali, quanto per la percezione estetica ricavabile dalla loro esperienza. Solo legando le conoscenze al vissuto soggettivo, ossia assumendo il punto di vista di qualche uomo in carne ed ossa, il conoscere viene ancorato ad un punto fisso, ad un perché su cui la moltiplicazione e l’arricchimento possono fare leva.

All’inizio, la ricerca di questo perché è stato un fatto più che altro nostalgico, o “politico”. Ha giocato rifiuto, istintivo, di “quotare in borsa”, oltre al proprio lavoro, anche la propria vita. Il rifiuto di affidarla al meccanismo fragile, insicuro, delle aspettative di profitto su cui si arrampicano le speculazioni.

Come abbiamo detto, la conoscenza non è un puro strumento, un mezzo per conseguire qualcosa d’altro: essendo specchio di quello che si è e di quello che si vuole, la conoscenza è anche un fine in sè. O per lo meno, l’esperienza cognitiva è capace di influire sui fini, plasmandoli in rapporto a quanto viene capito e vissuto. Conoscendo il mondo e sé stesso nel mondo, il soggetto conoscente si evolve, cambia. Elabora la sua specifica identità e la rigenera con l’esperienza, in un modo che non può essere previsto prima e che emerge dal vissuto reale, post factum.

Questa esperienza è preziosa: non può essere sacrificata alle esigenze della moltiplicazione, che vorrebbe conoscenze molto più impersonali, o alla rendita, che vorrebbe conoscenze molto più segrete e “blindate” nella loro armatura proprietaria.

Spersonalizzare e monetizzare la conoscenza di cui si dispone – tutta la conoscenza di cui si dispone – significa restringere il mondo delle esperienze e delle emozioni possibili.

E quando questo mondo si restringe oltre certi limiti, nemmeno la moltiplicazione e la privatizzazione funzionano più bene. Si rivelano drammaticamente precari tutti i passaggi che vanno verso la moltiplicazione seriale degli Uomini Grigi, tutti uguali, e tutti avidi di tempo.

Alla fine del film, ci si accorge che la favola della prima modernità racconta una storia che non sta in piedi. Il preconizzato trionfo della conoscenza sociale e della conoscenza proprietaria, che surclassa la conoscenza personale dei “vecchi tempi andati”, non c’è stato. Anzi si è scoperto quanto la base di conoscenza personale sia rimasta importante per comprendere, comunicare, fidarsi, agire governando in modo appropriato i processi “esplosivi” e disordinati, messi in moto dalla conoscenza sociale e proprietaria.

Dopo anni di abbandono, stiamo assistendo alla “vendetta” della conoscenza personale, che torna ad essere la base indispensabile su cui costruire un circuito cognitivo efficiente. Una risorsa di cui moltiplicazione cognitiva e il controllo proprietario non possono fare a meno.

o Cercare significati, assumere rischi, avere responsabilità Si scopre, infatti, che consumatori, lavoratori, imprenditori hanno bisogno di

alimentare il processo moltiplicativo e finanziario con significati personali, che nascono da esperienze uniche, non orientate al denaro ma al senso. Un mondo privo di

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“conoscenze personali” è privo di senso per i suoi abitanti: e difficilmente può continuare a moltiplicare e far rendere le conoscenze di cui dispone.

Quando il significato del consumo è banalizzato da una produzione sovrabbondante, chi consuma, non lo fa più con quell’impegno e con quella soddisfazione che lo inducono a pagare un prezzo elevato per l’esperienza compiuta. Eliminate l’emozione della conoscenza personale e avrete un consumatore svogliato, che, riempiendosi di cose inutili, si accorge alla fine di non sapere che cosa farsene. E che, dunque, non è disposto a pagare e consumare di più (Bettiol e Rullani 2003).

Lo stesso accade al lavoratore. Chi lavora si accorge dopo un po’ che la sua vera ricchezza – il tempo della vita – non è bene speso se serve soltanto per attività che risultano, per lui, prive di senso e di partecipazione emotiva. Se deve lavorare per denaro (soltanto), tanto vale chiedere molto e rendere poco. Tutto il sistema motivazionale collassa non appena il raggiunto benessere toglie senso al lavoro come puro mezzo di sostentamento o arricchimento.

Chi produce – l’imprenditore – ha lo stesso problema. All’inizio, in una società povera, l’arricchimento materiale sembra un motivo che basta e avanza per mettere in piedi un’impresa, subire lo stress decisionale della sua guida, assumere i rischi di investimento che ciò comporta. Ma poi …. si cerca qualcosa che possa coinvolgere e dare soddisfazione al di là del denaro. Qualcosa, cioè, che abbia senso, prima di tutto, come esperienza personale.

Dappertutto, per far funzionare le cose, torna in primo piano la conoscenza personale. L’unica che riesce a motivare il consumo, a spronare il lavoro, a rigenerare lo spirito imprenditoriale. Tutti ci devono mettere del loro. E, in qualche caso, il contributo personale si sedimenta nella conoscenza sociale, moltiplicandosi, e si manifesta nella conoscenza proprietaria, generando nuove ricchezze e nuovi ricchi. Prima di diventare famosi, i Beatles erano soltanto ragazzi appassionati di musica, alla ricerca di un senso estetico e comunicativo da dare alla propria vita. Ma, mettendo a frutto quello che sapevano fare, hanno fornito un alfabeto comunicativo ed estetico alle nuove generazioni della loro epoca, contribuendo potentemente ad alimentare, con le proprie royalties e la propria immagine, la bilancia dei pagamenti della Gran Bretagna.

Anche la nuova geografia del potere è intrisa di conoscenza personale. Il potere prende forma in base alle capacità di accedere al regno delle esperienze possibili e desiderabili. Il denaro è solo uno dei requisiti necessari per l’accesso, perchè le esperienze importanti vanno immaginate, comunicate e fatte personalmente: non basta comprarle o delegarle ad altri. Il potere si allontana dal meccanismo espropriativo, tipico di una società dove tutto si misura in denaro, per legarsi ad altre dimensioni del vivere sociale: alla capacità di guidare le azioni collettive, di comunicare la propria visione del mondo e di conferire senso all’esperienza condivisa. Tutte cose che sono irrimediabilmente immerse nel contesto concreto di vita e di azione.

Anche il potere, in questa nuova dimensione, fa parte dell’esperienza con cui le persone si legano tra loro, accettando di dipendere l’una dall’altra non in base al parametro astratto della ricchezza-denaro, ma in base alla mobilitazione di mezzi progettuali o comunicativi, alla credibilità acquistata, alla condivisione di idee o di significati.

Attribuire significati vuol dire assumere le responsabilità che quei significati comportano: verso noi stessi e verso gli altri, con cui quei significati sono condivisi. La modernità riflessiva si regge su questa rete circolare: i significati si traducono in responsabilità, e questa diventa condivisione. E poi, in circolo, la condivisione torna

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riflessivamente a proporre nuovi significati e nuove responsabilità, senza soluzione di continuità.

L’etica della responsabilità presuppone l’esistenza, o la scoperta in corso d’opera, di un progetto per costruire un mondo abitabile: un progetto che possa essere condiviso, comunicato e reciprocamente riconosciuto come proprio da molti, se non da tutti. Questo progetto è la trama emergente della seconda modernità, il senso che guida le esplorazioni e la stesura delle mappe che ne risultano. Non è un progetto scritto in un documento o in un libro. Ma è, esso stesso, distribuito nell’ipertesto del sapere virtuale: è latente ad ogni passaggio, ad ogni download, ad ogni contatto. Bisogna costruire un alfabeto e una grammatica che lo rendano riconoscibile ai viaggiatori che lo incontrano. Arrivati a metà del cammino, e avendo di fronte l’ipertesto infinito che ancora li aspetta, i viaggiatori hanno soprattutto bisogno di sostare, scoprendo, in qualche punto dell’orizzonte, la meta che giustifica il viaggio. Quel punto di arrivo così difficile da dire e da scrivere, ma che diventa visibile se solo si alza lo sguardo oltre la nebbia e le colline.

Il libro del sapere sociale, che era all’inizio di 100 pagine, è diventato un grande ipertesto, distribuito in uno spazio virtuale di cui non si vedono più i confini. Nuove pagine del libro si aggiungono, giorno per giorno, perché una folla di innovatori, imitatori, profittatori si innamora di un’idea o, più semplicemente, tenta la fortuna. Ciascuno di questi – con i suoi progetti e con le sue capacità di mobilitazione – si pone al centro della vita sociale, coinvolgendo molti altri. Nel quartiere della città della conoscenza si aprono in continuazione nuovi garages, popolati di aspiranti inventori, giornalisti, cantanti, sportivi, hackers, programmatori, “creativi” della pubblicità, divi cinematografici e televisivi, designers, artisti ispirati a tutte le possibili arti. Nessuno sa davvero – forse nemmeno loro - se lo fanno per bisogno, per denaro, o perché danno senso, divertendosi, al tempo dell’esperienza e della sperimentazione.

Si dice persino – ma sarà sicuramente una leggenda metropolitana – che, passando di garage in garage, uno di essi sia diventato, da un anno all’altro, l’uomo più ricco del mondo e che ora, tra una causa legale e l’altra, dedichi il suo tempo alla filantropia, all’arte e ad opere di bene.

Ma mille altri rimangono dove sono, cercando ogni sera, con ansia, quel punto sull’orizzonte.

De te fabula narratur.

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