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Capitolo X L’OTTOCENTO: LA CORSA VERSO LE CODIFICAZIONI 1. Il Code Napoléon 1 2. L’organizzazione giudiziaria napoleonica 6 3. Uno sguardo ravvicinato al Code Napoléon (o Code Civil) : genesi e successo 8 4. La struttura del Code Napoléon 11 5. L’applicazione e le resistenze al Code Napoléon in Italia. 14 6. L’applicazione e l’eco del Code in Europa 16 7. Gli sviluppi dottrinali in Francia. La scuola dell’esegesi 17 8. L’Austria e il Codice civile del 1811 (ABGB). 21 9. La scuola storica tedesca 23 10. Il processo di codificazione in Germania 27 11. Il codice civile tedesco (“Bürgerliches Gesetzbuch”, o “BGB”). 28 12. La questione della completezza dei codici 30 13. Il rapporto tra codificazione commerciale e codificazione civile 33 14. I codici dell’Italia della Restaurazione (1814-1859). 37 15. L’Italia unita e il Codice civile del 1865. 48 1. Il Code Napoléon La monarchia francese grazie al suo assolutismo aveva mediato (o meglio: tentato di mediare, perché non riuscì nell’intento, come dimostrò la Rivoluzione) gli interessi di nobiltà e borghesia, e in tal modo aveva potuto 1) accentrare lo Stato dal punto di vista amministrativo assai prima di Napoleone, come capì subito Alexis de Tocqueville, acuto politico e scrittore del primo Ottocento, e 2) unificare (statizzandolo) il diritto commerciale già con Luigi XIV e poi, grazie all’opera del cancelliere Deguesseau entro la metà del ’700, certe materie del diritto privato. Per il resto il diritto era ancora gestito interamente dai giuristi e dai tribunali.

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Capitolo X

L’OTTOCENTO: LA CORSA VERSO LE CODIFICAZIONI

1. Il Code Napoléon 12. L’organizzazione giudiziaria napoleonica 63. Uno sguardo ravvicinato al Code Napoléon (o Code Civil) : genesi e

successo 84. La struttura del Code Napoléon 115. L’applicazione e le resistenze al Code Napoléon in Italia. 146. L’applicazione e l’eco del Code in Europa 167. Gli sviluppi dottrinali in Francia. La scuola dell’esegesi 178. L’Austria e il Codice civile del 1811 (ABGB). 219. La scuola storica tedesca 2310. Il processo di codificazione in Germania 2711. Il codice civile tedesco (“Bürgerliches Gesetzbuch”, o “BGB”). 2812. La questione della completezza dei codici 3013. Il rapporto tra codificazione commerciale e codificazione civile 3314. I codici dell’Italia della Restaurazione (1814-1859). 3715. L’Italia unita e il Codice civile del 1865. 48

1. Il Code Napoléon

La monarchia francese grazie al suo assolutismo aveva mediato (o meglio:tentato di mediare, perché non riuscì nell’intento, come dimostrò laRivoluzione) gli interessi di nobiltà e borghesia, e in tal modo aveva potuto

1) accentrare lo Stato dal punto di vista amministrativo assai prima diNapoleone, come capì subito Alexis de Tocqueville, acuto politico escrittore del primo Ottocento, e

2) unificare (statizzandolo) il diritto commerciale già con Luigi XIV e poi,grazie all’opera del cancelliere Deguesseau entro la metà del ’700, certematerie del diritto privato. Per il resto il diritto era ancora gestitointeramente dai giuristi e dai tribunali.

Fu la Rivoluzione a porsi il problema della codificazione per motivi politicicontro i privilegi di ceto, e quindi a fare un passo ulteriore. Solo laRivoluzione del resto avrebbe potuto metter mano a un’area del dirittoprivato altrimenti intangibile, come matrimonio e famiglia, fino ad allora ingran parte sotto l’influsso della Chiesa tridentina. Il risultato duraturo dellaRivoluzione fu appunto la ‘laicizzazione’ dello Stato, che poteva così intervenireanche in questi settori prima preclusi. Perciò il matrimonio contrattualestatale - inesistente per il diritto della Chiesa - entrò a far parte della vitaquotidiana come vi entrò addirittura la possibilità del divorzio, che fuintrodotto allora col Code Napoléon per la prima volta (e quindi anche, sia pureper pochi anni, in Italia); ugualmente, divenne normale l’anagrafe civile, primacurata invece dai parroci. Perciò anche i rapporti patrimoniali tra coniugitrovarono ora la loro completa regolamentazione nella legge, la qualeindividuò la famiglia come la prima cellula autoritaria della società, postasotto l’autorità del padre e marito, che deve sovrintendere alla attivitàgiuridica della moglie, ritenuta non all’altezza delle sottigliezze giuridiche.L’operazione di ‘statizzazione’ del diritto privato riesce dunque in Francia,grazie alla Rivoluzione che l’aveva prevista tra le sue riforme, col Code civilapprovato nel 1804, detto poi Napoléon per ossequio all’Imperatore deiFrancesi, che del resto intervenne attivamente alle riunioni per la suaredazione.Il Codice nell’intenzione di Napoleone doveva costituire una sorta di ‘Bibbiadel cittadino’, un libro che l’avrebbe accompagnato negli affari giuridici dallanascita alla morte, un libro che doveva essergli comprensibile - e perciò fuscritto chiaramente e nella lingua nazionale contro tutte le astruserie deldiritto d’Ancien régime. Napoleone vuole assicurare anche il superamento degliestremismi di sinistra del passato e le inconcludenze del governo delDirettorio. Il Codice vuole dare l’idea di una società pacificata e unificata,basata sul consenso (e egli ne ricevette certamente tantissimo: è il c.d.‘bonapartismo’ che tormenterà l’acutissimo Marx), sicura perché ordinata,popolata di proprietari (molti dei quali hanno comprato i beni ‘nazionali’ toltia chiese e monasteri) e al tempo stesso buoni mariti e padri con adisposizione gli strumenti giuridici per far valere il loro buon sensopatriarcale.Il Codice è perciò incentrato essenzialmente sulla proprietà (e, come vedremoin seguito nel presente capitolo, essenzialmente sulla proprietà immobiliare),sui suoi modi di acquisto e di trasferimento da parte del ‘cittadino’, che è lanuova figura astratta creata dalla Rivoluzione e accortamente non rinnegatada Napoleone.

Non più nobili, borghesi, mercanti e preti per la legge, ma l’unico soggetto didiritto: il cittadino. Napoleone imperatore creerà una sua nobiltà, così come ilclero, i militari e i commercianti continueranno ad esistere naturalmente, malo status soggettivo non doveva comportare regole diverse ai fini privatistici.Sul piano pubblicistico le differenze continuarono però ad esistere, dato adesempio che le leggi elettorali assicuravano l’elettorato solo a chi aveva uncerto ‘censo’, ossia una certa ricchezza. Ma il ricco, il nobile, il clochard (ilbarbone, pron. ‘closciar’) avevano ora tutti uguali strumenti a disposizione dalpunto di vista privatistico, ed essi erano chiaramente rinvenibili nel grandeCode.Strumenti, si badi, a disposizione di chiunque in tutte le parti del Paese. Per laprima volta nella storia francese, ora non ci sarebbero più state differenze traBretoni e Provenzali etc., ma un unico diritto privato uguale per tutti, cheeliminava l’antica divisione tra Paesi di diritto scritto e di dirittoconsuetudinario. Val la pena di sottolineare quanto ciò abbia giovato al sensodi Nazione dei Francesi e quanto anche alla penetrazione della propagandaportata all’estero da Napoleone?Il Code mirava a una società nuova, perché dava concretezza alla libertà eall’uguaglianza (solo giuridica) se non proprio alla fratellanza in concreto. IFrancesi riescono così a costruirsi l’immagine di coloro che si sacrificano,anche a prezzo della vita, per portare ovunque il nuovo Verbo, per spezzarele catene che hanno vincolato per tanto tempo le energie ‘naturali’ degliuomini. La novità di questa ideologia è dimostrata dalla relativa facilità concui essa trovò accoglienza - almeno in un primo tempo - all’estero,sollecitando contro le dinastie di diritto divino regnanti (terrorizzatedall’egualitarismo diffuso dai Francesi) il sorgere di nuclei di ‘patrioti’ pronti atrasferire localmente il Verbo rivoluzionario (moderato ormai, ma semprerivoluzionario di fronte ai regimi d’Antico regime) per creare la Grande Nationaffratellata contro il passato oscurantista. È questo il germe ancora confusoda cui si svilupperanno i moti liberali e risorgimentali anche in Italia.Anche se i Francesi furono poi localmente quanto mai autoritari e a favoredel centralismo parigino al punto da provocare presto risentimenti estesisfocianti anche in sanguinose rivolte - soprattutto per non aver rispettato letradizioni religiose profondamente radicate (pensiamo ai moti ‘sanfedisti’ alSud, o ai Viva Maria in Toscana) -, non c’è dubbio che la loro martellantepropaganda a favore dei diritti dei ‘cittadini’ e dei ‘popoli’ in rivolta contro igoverni dispotici di un tempo, contro i ‘signori’ feudali e i nobili del passato, ea favore di una fratellanza che andava al di là delle Nazioni storiche, deiconfini, delle differenze di religione, di lingua e di storia, contribuirono

enormemente alla diffusione entro il senso comune, di tutti, del razionalismomoderno ed egualitario prima appannaggio soltanto di ristrette élites.Anche se di fatto (un po’ com’è successo spesso nella storia della Chiesa)tradirono gli ideali da essi stessi propagandati, con i fermenti introdottiovunque in Europa, i Francesi finirono per contribuire potentemente, inpochi anni, direttamente o meno, e anche solo per reazione, a crearel’orizzonte ideale che sostanzia la civiltà contemporanea. Controsemplicistiche e/o frettolose sottovalutazioni della Rivoluzione apparse inoccasione del II centenario celebrato pochi anni fa, si può certamente direche la Rivoluzione e Napoleone, con i sommovimenti materiali e ideali chehanno provocato in Europa, sono direttamente collegabili agli eventigrandiosi dell’Ottocento e del Novecento, ai movimenti nazionali, italiani,tedeschi etc., liberali e democratici e così via ovunque radicatisi e stimolo divicende diversissime - e anche drammatiche: vedi il caso del ‘socialismo’sovietico -, ma con un minimo comun denominatore: 1) la dimensione dimassa dei fenomeni sociali, a cominciare dalla diffusione delle ideologie e, 2),il loro ‘temporalizzarsi’, secolarizzarsi - ossia l’essere ormai ancoratesaldamente ai problemi terreni, di ogni giorno ed entro un quadro politicodato, ‘regionale’, crollate le prospettive di salvezza universale delCristianesimo.Ma il Code è da un certo punto di vista anche più importante delle Costituzionifrancesi portate dalle truppe (in particolare quella dell’anno III, imitata quasiovunque a cominciare dall’Italia napoleonica), perché le costituzionimutarono con relativa frequenza, in relazione ai mutamenti politico-istituzionali decisi a Parigi (prima Repubbliche locali, poi monarchie collegateall’Impero napoleonico), mentre il Code espresse subito una normativa inaccordo con bisogni sociali profondi. La politica con le sue necessitàcongiunturali modificava (e modifica oggi) in continuazione gli equilibrigiuspubblicistici, anche se già allora diffuse potentemente l’idea che ogniPaese civile deve avere una ‘sua’ costituzione, mentre il diritto privato puòapparire ‘immobile’, ‘naturale’, una volta che esso è riuscito - appunto con ilcodice napoleonico - ad esprimere l’ordine della natura descritto da Domat edai Fisiocratici.Operazione ideologica di enorme portata, quindi, con la traduzione sul piano‘privatistico’ delle aspirazioni illuministe, che avevano presente un uomoastratto, ‘naturale’, al di là delle sue qualificazioni socio-economiche.Operazione bollata come ‘conservatrice’ naturalmente da chi si rende contooggi che il ‘soggetto unico’ del codice è pura forma mistificante, perchécomporta la conseguenza di oscurare le disuguaglianze reali presenti nella

società, dato che il clochard non avrà mai modo di utilizzare né i contratti delcodice né il testamento, visto che non ha proprietà di cui disporre.Ma intanto si è creato un quadro legislativo favorevole alla libertà economica,perché si può comprare e vendere liberamente tutto, ora che finalmente sisono aboliti feudi, grandi manomorte, primogeniture e fedecommessi. Laproprietà venne ‘socializzata’ nel senso che viene messa sul mercato, adisposizione di chi volesse investire e intraprendere. Da qui viene fuori anchequel ceto di piccoli e medi proprietari rurali (spesso conservatori) che haavuto un’importanza enorme nella storia di Francia: si pensi che il Code ètanto individualistico e ‘borghese’ che non solo valorizza la autonomia privatacon la libertà contrattuale, col consenso che basta a trasferire la proprietà, maguarda con sfavore alla comproprietà, perché si riteneva che non consentisseuna buona gestione dei patrimoni.È quindi il codice del ‘mercato’com’era pensato allora, essenzialmenteagricolo, che lancia un segnale politico inequivocabile. Non a caso durante laRestaurazione laddove esso fu conservato o imitato (e fu questa la regola),pur in ordinamenti ridivenuti ‘assolutistici’, cioè privi di libertà politiche, ilCodice fu riguardato come un baluardo di importanza ‘costituzionale’, perchégarantiva almeno un certo quadro ‘civile’, di libertà socio-economiche, anchese non accompagnate da quelle politiche come la libertà di stampa, diassociazione etc.Tra l’altro, i governi ‘restaurati’ non fecero tesoro soltanto di questeinnovazioni rivoluzionarie (guardandosi bene ad esempio dal restaurare ifeudi), ma presto cominciarono a guardare ad altre novità giuspubblicistichefrancesi molto utili al rafforzamento dei poteri centrali. Il prefetto ad esempio,l’onnipotente e onnipresente commissario governativo sovrintendente alleautonomie locali, divenne per tutti i governi un modello da copiare, come loerano altre novità ‘rivoluzionarie’.Si pensi ad una conseguenza importantissima della separazione dei poteri,come quella per cui si comincia a pensare che gli atti amministrativi nonpotevano essere sindacati dal giudice ordinario e che portò anche alla tesi chenon si potevano neppure inquisire penalmente i funzionari amministrativi,perché sarebbe equivalso a ledere la loro immunità derivante dallaseparazione dei poteri! Così le materie amministrative più interessanti per ilgoverno (quelle fiscali ad es.) vennero sottoposte a giudici speciali dipendentidal governo stesso: siamo alle origini dell’attuale giustizia amministrativa, di cuiil Consiglio di Stato è il frutto ottocentesco migliore. Per le stesse questionicivili, invece dei Parlements, che erano state corti sovrane decentrate

indipendenti una dall’altra, si organizzarono corti dipendentiburocraticamente l’una dall’altra, con in cima la Corte di Cassazione.

2. L’organizzazione giudiziaria napoleonica

Quel che é certo é che le linee dell’organizzazione amministrativa e giudiziariacreate in Francia nel periodo consolare ebbero grande successo non solo inFrancia, ma furono esportate in Italia e in altre zona d’Europa e seguite inseguito come modelli di razionalizzazione e semplificazione laddove inprecedenza allignavano caos o costanti sovrapposizioni di competenze.Le riforma giudiziaria é coeva di quella amministrativa: la prima é datata 18marzo1800, la seconda 17 febbraio dello stesso anno. Entrambe sono fruttodi un decreto consolare.Il protagonista della nuova amministrazione sarà senza dubbio il prefetto,rappresentante dello stato centrale nel dipartimento e superiore gerarchicorispetto alle varie branche dell’amministrazione locale.La nuova organizzazione giudiziaria, invece, pur rispondendo alle istanze diseparazione dei poteri fatte proprie dalla Rivoluzione (che già nel novembre1789 aveva abolito quegli organi misti amministrativi/giudiziari di grandeinfluenza che erano i Parlements), instaurerà una giustizia basata su una chiara eben disciplinata pluralità di gradi di giurisdizione ma composta questa volta dipersonale non più eletto dal popolo (come aveva previsto la prima grandelegge di riforma giudiziaria, quella varata tra il 16 e 24 agosto 1790), manominato dal governo e inamovibile solo dopo un certo numero di anni (5)diesercizio professionale, la qual cosa non scoraggerà le famose epurazioni dellamagistratura effettuate dal Bonaparte (e che rimarranno una costante dellastoria francese sino ad oggi!).

Il decreto del 18 marzo 1800 prevede, alla base della piramide giudiziaria, ilgiudice di pace, figura “vicina al popolo”, con funzioni sia giudicanti vere eproprie che di arbitrato tra la parti. In materia civile, é competente in unicaistanza per le cause fino a 50 franchi di valore, con appello fino a 100 franchi.In materia penale, é competente per i reati di più lieve entità. In secondaistanza, é poi creato un tribunale (collegiale) di “arrondissement” (distretto,circoscrizione del dipartimento), formato da un minimo di tre giudici secondol’importanza e la popolazione del distretto: ha competenza in civile per causefino a mille franchi, e oltre tale soglia solo in prima istanza, in penale invece

per reati comportanti pene correzionali e in ogni caso non superiori ai dueanni di reclusione. Infine, sono creati dei tribunali d’appello (chiamati “cortid’appello” dal 1804, “corti imperiali” dal 1810) costituiti da una o più sezionie a competenza unicamente civile, in ragione di uno per ogni tre dipartimentie giudicanti in appello le sentenze emesse dai tribunali civili d’arrondissement.In penale, si ha la creazione di tribunali criminali giudicanti anch’essi inappello dalle sentenze penali dei tribunali di distretto, o, in istanza unica, sullepene più gravi (le c.d. “pene infamanti”) previste dalla legge penale (il Codepénal del 1791, cui succederà il Code pénal napoleonico del 1810). Si tengainoltre presente :

a) che presso ogni tribunale di distretto e tribunale criminale funzionavauna giuria, analoga alle attuali giurie popolari. Tale giuria era presiedutada un “direttore della giuria” che era normalmente uno dei magistratiche componevano il relativo organo giudicante;

b) che presso ogni tribunale (salvo che presso i giudici di pace) erapresente, come rappresentante del pubblico interesse, un pubblicoministero, chiamato “commissario del governo”. A partire dal periodoimperiale (dopo il 1804), esso prenderà il nome di procuratore imperiale(procuratore generale per i tribunali/le corti d’appello);

c) che, nonostante tutto, si ricorrerà spesso, in periodo napoleonico(specialmente a Napoli), all’istituzione di tribunali “speciali” e militarideroganti alla competenza dei normali tribunali criminali e volti areprimere reati quali il brigantaggio, la renitenza alla leva ecc.

Vertice assoluto della piramide era l’importantissima Cour de cassation sedente aParigi, creata nel 1790 e giudice, come si é detto, di mera legittimità.

E’ utile tenere presente questo rapido schema, poiché esso attraverserà lapenisola durante tutto il periodo napoleonico, resterà durante laRestaurazione e costituirà un precedente importante del decreto 6 dicembre1865 sull’organizzazione giudiziaria del Regno d’Italia.Infatti, l’organizzazione giudiziaria dell’Italia unita – che ormai suonafamiliare alle nostre orecchie di contemporanei con la sua articolazione ingiudici conciliatori, pretori monocratici, tribunali di circondario, cortid’appello e d’assise e corti di cassazione (la cassazione unica verrà creata solonel 1923) recava ancora i segni evidenti della razionalizzazione napoleonica.

3. Uno sguardo ravvicinato al Code Napoléon (o Code Civil) : genesi esuccesso

Promulgato il 21 marzo 1804, il Code Napoléon (all’epoca chiamato “CodeCivil des Français”) è senza dubbio un traguardo storico non solo per lastoria del diritto francese, ma europea in senso lato. Esso chiude per semprel’era – più che millenaria – del cosiddetto “diritto comune” (quellafondamentale fonte di diritto, costituita dal complesso del diritto giustinianeoa cui si era aggiunta e sedimentata, col passare dei secoli, la massa delle opinioiuris, delle sentenze delle supreme giurisdizioni, degli editti imperiali ecc.) ecostituisce il punto di partenza ( o perlomeno uno dei punti di partenza) deldiritto contemporaneo.

In Francia, più d’un giurista d’antico regime aveva auspicato l’unificazione diun diritto privato già diviso territorialmente tra “pays des coutumes” (norddella Francia, ove era in vigore un diritto consuetudinario, originariamentenon scritto, di origine germanica, pur se costantemente influenzato dal dirittocomune) e “pays de droit écrit” (sud della Francia a partire grosso modo dallaLoira, ove il diritto comune scritto era fonte di diritto a pieno titolo, pur seaccanto alle consuetudini locali). In fondo, le grandi opere di giuristi comeDomat e Pothier miravano ad una tale unificazione nel nome della “raisonécrite” romana, sebbene rimangano circoscritte al piano dottrinale, e non aquello “de iure condito”. Nonostante una Francia dell’89 ancora localistica elegata alla tradizione non formulasse quasi nessun auspicio agli Stati generaliper un’unificazione del diritto civile (mentre nel penale si auspicavaabolizione della tortura, la trasparenza delle procedure etc.), l’AssembleaCostituente scaturita dalla Rivoluzione dell’Ottantanove decreterà invece che“sarà fatto un Codice di leggi civili comune a tutto il Regno”.Per realizzare una tale ambizione, uno dei più noti giuristi francesi, ilCambacérès, aveva presentato tre progetti – rispettivamente nel 1793, 1794 e1796 – naufragati però di fronte all’incalzare degli eventi rivoluzionari eall’instaurazione del Terrore robespierriano.

Nel nuovo clima di “legge ed ordine” instaurato dal Consolato, BonapartePrimo Console, può ‘riprendere l’opera codificatoria. E soprattutto, quel chepiù conta, egli può disporre dell’appoggio di gran parte dei giuristi, desiderosidi collaborare con il nuovo regime.

Si tratta di nomi spesso famosi, come Tronchet, Target, Cambacérès e altri,caduti in disgrazia a rischio della vita durante il Terrore (1792-1794), e checredono nella necessità di un ristabilimento dell’ordine (nel linguaggioodierno, seppure approssimativamente, potremmo parlare di desiderio di“svolta moderata”) e della concordia nazionali. Bonaparte appare ai loroocchi come l’incarnazione di questo auspicio politico. Tale singolare contestopsicologico, che ha reso così gradita agli occhi della classe dei giuristi la figuradel Bonaparte, è stata oggetto di recenti ricerche, tra l’altro ad opera di Jean-Louis Halperin in Francia (il quale, nel suo volume “L’impossibile CodiceCivile” ben ha messo in evidenza come Napoleone abbia “sbloccato” unasituazione giuridico-politica che in precedenza non si prestava certo allaredazione di un nuovo codice civile in tempi rapidi, nonostante l’unificazionedel diritto in Francia fosse un’aspirazione di vecchia data dei pratici deldiritto, pur “affezionati” alle loro consuetudini locali) e di Adriano Cavannain Italia.

Bonaparte può quindi riprendere l’iniziativa : un nuovo progetto di codice èaffidato, nell’anno 1800, alle cure di una commissione governativacomprendente quattro grandi nomi del diritto francese : Tronchet (losfortunato difensore ufficiale di Luigi XVI nel processo intentatogli dallaConvenzione nel 1792, e che si concluderà, per un solo voto di maggioranza,con la sua condanna a morte), Portalis, Bigot de Préameneu e Maleville. Illoro lavoro durerà cinque mesi.

Successivamente, il progetto di Codice è trasmesso ai tribunali e rivisto dalConsiglio di Stato nel corso di una serie di un centinaio di sedute (a buonaparte delle quali lo stesso Bonaparte interverrà attivamente), per poi esseresottoposto per parere e voto finale ad altri importanti organi costituzionaliquali il Tribunato ed il Corpo Legislativo. L’opposizione di parte dei Tribunie del Legislatori (gli odierni deputati) sarà superata dal Bonaparte grazie adepurazioni e al voto finale da parte di assemblee completamente sottomessealla sua volontà (1802-1803). Anche per questo motivo, il Code può benmeritare l’appellativo di Code Napoléon che gli fu dato qualche anno dopo!

Il Code, come accennato sopra, unisce desiderio di codificazione unitaria eculto della legge. Sarà figlio della Rivoluzione nelle sue norme di libertàgiuridica ed eguaglianza (“ogni francese godrà dei diritti civili”, proclamal’articolo 8 confermando così l’abolizione di ogni privilegio di casta o classe e

tirando un tratto di penna rivoluzionario su tutto l’Antico Regime), laicità (ilmatrimonio esclusivamente civile ed il divorzio sono introdotti) e trionfodella proprietà, ma si coniugherà nondimeno con un quadro politiconapoleonico di autoritarismo (riflettuto, curiosamente, nel microcosmofamiliare costruito nel Code : le disposizioni sulla famiglia sono infattiimprontate nettamente alla rigida supremazia maritale).

In Francia, per ottanta anni, il Code non sarà oggetto di alcuna modifica dirilievo. La prima in ordine di tempo sarà la reintroduzione del divorzio,abolito durante la Restaurazione e ripristinato appunto nel 1884 (peraltro informa ristretta, essendo la sua esperibilità limitata a casi – es. adulterio –tassativamente prescritti) . Ma occorrerà attendere il secondo dopoguerra perassistere ad un’importante opera di novellazione su un testo ancora vigorosopur nel suo progressivo invecchiamento. Attualmente, si calcola che circa lametà delle sue originarie 2281 disposizioni siano ancora in vigore nella formaprimigenia.

Al di fuori della Francia, il Code ha avuto, per buona parte del XIX secolo,grande successo, sia come testo adottato in molti paesi a seguitodell’occupazione o influenza francese su buona parte dell’Europa tra il 1800e il 1814 e sopravvissuto alla bufera napoleonica (conclusasi definitivamentenel 1815), sia come modello ispiratorio di ulteriori codificazioni civilistiche.

Nel primo caso, occorre ricordare la sua sopravvivenza nei territori dellaRenania fino al 1900 (anno dell’entrata in vigore del BGB tedesco), nelCantone di Ginevra sino al 1912, in Polonia e in Romania sino al 1945. NelBelgio e nel Lussemburgo, poi, entrato in vigore con l’occupazionenapoleonica, esso vi è tuttora in vigore (e incarna una sorta di -- parziale -“unità del diritto” dei paesi francofoni d’Europa).In Italia, fu mantenuto in vigore nel Principato di Lucca sino al 1865, aNapoli sino al 1819 e a Genova sino al 1837.

Ma ben più importante fu il suo fungere da modello per codificazionisuccessive. E qui, l’esempio italiano è quanto mai significativo : il primocodice civile dell’Italia unificata, il Codice Pisanelli del 1865 (così chiamato dalnome del Guardasigilli dell’epoca) si pone, per la sua struttura e parte dellesue disposizioni, nel solco del Code.

4. La struttura del Code Napoléon

Tecnicamente, il Code si presenta diviso in tre libri (seguendo così da vicinol’antica ripartizione in personae, res e actiones cara al diritto romano) : il primo èdedicato alle persone, il secondo alla proprietà, il terzo ai modi ditrasmissione o modifica della stessa. In realtà, il terzo libro é comprensivo dinorme sulle obbligazioni, i contratti, le successioni ecc. tutte però viste eaccorpate sotto l’angolo visuale della proprietà come manifestazione concretae fisica della nuova “libertà” acquisita dal cittadino e sanzionata nelleCostituzioni dell’epoca rivoluzionaria e post-rivoluzionaria, in America e inFrancia.

Il primo libro del Code crea un diritto delle persone improntato all’eguaglianzae alla libertà individuale : il cittadino è ora libero di possedere, di disporre egodere dei suoi beni senza più vincoli o limiti derivanti dalla sua appartenenzaa ceti, caste o classi, e senza più discriminazioni. Ogni privilegio in tal senso èabolito. Un’impostazione certo rivoluzionaria, perché, opponendosi al“passato prossimo” di un Antico Regime popolato da privilegi e vincoliindividuali, feudali e territoriali di ogni sorta, crea una società di “eguali”, omeglio di cittadini “liberi nell’eguaglianza”, le cui differenze sono ora dateunicamente dalle singole possibilità economiche. E’ per questo che si è spessoparlato e si parla tuttora di un Codice “borghese”, intendendo con taleespressione una codificazione indubbiamente funzionale alle aspirazioni diuna borghesia fondiaria e commerciale (non ancora però industriale, aglialbori del XIX secolo in una Francia ancora agricola al 90%) in ascesa, oralibera di comprare e intraprendere, in gran parte acquirente dei “beninazionali” e desiderosa di consolidare il proprio ruolo sociale.

Ma attenzione : tale espressione di Codice “borghese”, ahimè usata e abusata,non deve risolversi in una generica banalizzazione, poiché in prospettivastorica non è da perdere di vista il grande e rivoluzionario progresso di libertàdel codice rispetto alle angustie feudali degli anni precedenti al 1789 (sempreche si voglia adottare tale data come spartiacque tra un “prima” e un “dopo”).

Alla libertà “esterna” nella società corrispondeva comunque, nel Code, una“autorità interna” che era quella dell’uomo nel microcosmo familiare.

Napoleone fu spinto a tale “maschilismo” familiare per sue presunteconvinzioni antifemministe? Gli storici hanno azzardato anche tale ipotesi,tra le altre.

Comunque stiano le cose, é certo che la famiglia disegnata dal Code si presentaestremamente squilibrata a favore dell’uomo. L’uomo, come sposo e padre,era capofamiglia unico e unico titolare della patria potestà; alla donna –secondo il tradizionale concetto giuridico dell’inferiorità femminile - eraimposto un dovere di obbedienza e di seguire il marito ovunque egliintendesse stabilirsi, ed eventuali trasgressioni agli obblighi di fedeltà(adulterio) erano sanzionati più severamente per la donna che per l’uomo.

Inoltre, fatto di non poco rilievo, la donna abbisognava dell’autorizzazionemaritale per ogni atto di natura patrimoniale (eccetto il testamento) ed eraesclusa da ogni autorità sui figli, mentre l’uomo deteneva nei loro riguardiampi poteri disciplinari ed era peraltro usufruttuario dei loro beni.

A tale riguardo, occorre però, con senso della storia, notare due elementi :

a) tali disposizioni, oggi ovviamente totalmente anacronistiche e in stridentecontrasto col comune sentire sociale, sono state abolite nel corso dei decennida una costante modifica per novellazione (norme di produzione legislativache si inseriscono nel Codice modificandolo settorialmente) che ha finito percreare progressivamente la parità tra i coniugi. E non molto tempo fa: si pensiad esempio che l’autorizzazione maritale è stata abolita in Francia,parzialmente, solo nel 1938 e, definitivamente, nel 1967 (in Italial’autorizzazione fu abolita ipso iure nel 1919).

b) nonostante questo, persino la materia familiare presentava notevoliprogressi e innovazioni rispetto all’antico regime : pensiamo all’introduzionedell’istituto del divorzio (esperibile anche da parte femminile), pur se con unaportata limitata nell’originaria versione del Code, o al fatto che i doveri diassistenza e fedeltà familiare avevano pur sempre una valenza reciproca(imponendo così doveri anche all’uomo), o alla possibilità per la donna diricorrere al giudice in caso di ingiustificato rifiuto dell’autorizzazione maritale.Infine, i poteri sui figli non erano vitalizi ma avevano fine con la maggioreetà: né il Code prevedeva più nei riguardi dei figli, come talune codificazionieuropee di antico regime, una crudele casistica di pene corporali (la“Züchtigung” di prussiana memoria, lett. “castigo” inflitto dal padre).

In tema di proprietà, il Code innova ovviamente in profondità. Nella suaispirazione liberale, il Code considera la proprietà come un diritto individualeper antonomasia, e non più come un diritto spettante, collettivamente, agruppi o famiglie. Essa è, secondo l’articolo 544, “il diritto di godere edisporre delle cose nel modo più assoluto, purché se ne faccia un uso lecitosecondo le leggi o i regolamenti”. Una definizione che non potrebbe esserepiù chiara e intelligibile! Ne consegue che il proprietario può escludere ildiritto altrui, e proteggere il bene contro possibili intrusioni : l’espropriazioneha carattere eccezionale.

Nel 1804,anno di nascita del Code, il padre di famiglia, che abbiamo vistoprotagonista del Libro I, è un buon padre di famiglia se è proprietario e selascia in eredità dei beni ai figli. Il Code è, in fondo, dedicato a lui : a questopadre di famiglia/proprietario, saggio, buon padre e buon cittadino, marito epadre, attento ad aumentare il capitale che possiede per poterlo, un giorno,trasmettere ai propri discendenti.

Ma gli artefici del Code hanno esplicitamente voluto richiamarsi ad unafalsariga di proprietà individuale già tracciata dal diritto romano. Il dirittoromano aveva infatti conosciuto e regolamentato una proprietà unitariamenteconcepita e intesa come dominium (l’odierno diritto di godere, e di disporre, diun bene), che poi il diritto feudale, per sue esigenze di organizzazione dellasocietà, aveva scisso nel dominium eminens del titolare del diritto e nel dominiumutile di chi concretamente lo utilizza.

Orbene, il Code (pur non ignorando forme di “scissione” della proprietà, qualil’usufrutto) vuole rompere col diritto feudale e ritornare ad una concezioneunitaria del dominium, che non però poteva non essere quanto di piùfunzionale si potesse porre in essere in omaggio al principio – sancito dal giàcitato articolo 544 - della illimitata facoltà di disporre di un bene. E allalettura di tale norma, è inevitabile il pensiero di quanto essa abbia influenzatole codificazioni successive (ivi compresa, in fin dei conti, quella vigenteattualmente in Italia)!

La disciplina del possesso, poi, qualificato dall’articolo 2228 del Code, in sensoestremamente liberale, come “la detenzione di un bene che è in nostro possesso o ilgodimento di un diritto esercitato da noi stessi o per mezzo di un altro che detiene la cosa oesercita tale diritto in nostro nome”, forse più di ogni altra norma di codificazioni

moderne o contemporanee permetterà e avvallerà il crearsi e consolidarsidella nuova classe dei proprietari.

Gli sconvolgimenti patrimoniali verificatisi in Francia e in Europa a seguitodegli eventi rivoluzionari con l’espropriazione e la vendita dei “beninazionali” (proprietà ecclesiastiche ecc. fino ad allora inalienabili) trovavanoora, infatti, una base giuridica che consentiva una legittimazione all’acquistodi tali beni. E una legittimazione alla loro libera circolazione : per i nuoviproprietari, infatti, il possesso varrà titolo, dato che l’articolo 2279 permetteràil trasferimento di proprietà di un bene mobile mediante la sempliceconsegna, anche nel caso il cui l’alienante non ne sia proprietario!!

Il regime successorio, infine, visto non in sé (come nel codice attualmentevigente, che gli dedica un intero libro), ma come pura “tecnica” ditrasmissione della proprietà , veniva anch’esso grandemente semplificato : eraabolita, ad esempio, l’accettazione di eredità, e gli eredi potevano direttamenteentrare in possesso dei beni (a tal proposito si innovava rispetto al passato,poiché veniva creata eguaglianza tra eredi di sesso maschile e femminile).Non solo, ma con la disposizione dell’articolo 732 (“la legge non considera, ai finidella successione, né la natura né l’origine dei beni”) tutti i beni venivano dichiaratilibero oggetto di successione.

5. L’applicazione e le resistenze al Code Napoléon in Italia.

Per un certo tempo, il Code divenne legge vigente anche in Italia. Questoaccadde a seguito dell’occupazione e annessione diretta all’Imperonapoleonico, dal 1802 al 1810, di vaste parti della penisola (Piemonte, Liguria,Parma, Toscana, Lazio), nonché a seguito della creazione di Stati italianisatelliti della Francia (regno d’Italia, con capitale Milano, dal 1805 ; Regno diNapoli dal 1806).

Per il regno d’Italia napoleonico, ad esempio, Bonaparte dispone la messa invigore del “suo” Code a partire dal 1° gennaio 1806, data che poi “slitterà” alprimo aprile dello stesso anno (Terzo Statuto costituzionale del Regno,articolo 56). Grande attenzione è riservata all’elemento linguistico, e perevitare problemi se ne dispone la traduzione in italiano (“Il Codice sarà in seguitostampato e pubblicato in latino, in italiano e in francese. La sola traduzione italiana potràessere citata nei tribunali, ed avere forza di legge”).

La vigenza del Code durò pochi anni, poiché nel 1814 gli antichi sovranitornarono sui loro troni restaurati e richiamarono più o meno tutti in vigore(ad eccezione di Lucca e Genova) le antiche leggi prenapoleoniche;cionondimeno, tale esperimento ebbe grande importanza se non altro come“laboratorio di prova” per la formazione di una nuova classe di giuristi,teorici e pratici, nonché per gli echi futuri che tale testo susciterà,allorquando, due generazioni più tardi, sarà ripreso a modello dellacodificazione dell’Italia unita.

In vigore dunque su gran parte della penisola per un arco di tempo di pocomeno di un decennio, il Code sarà ben accetto, in generale, ma susciterà taloraanche resistenze.

Ben accetto innanzitutto e sostanzialmente, con le sue norme in tema difamiglia ma anche di circolazione dei beni, ad una società “borghese”portatrice, anche in Italia – almeno nelle sue regioni più avanzate -, di quellestesse esigenze di certezza giuridica e libertà economica, ma anche di ordinegerarchico, domestico e sociale, già viste in precedenza in Francia.

Ma ben accetto anche ai “tecnici” : la classe dei giuristi chiamati a gestirlo sirenderà infatti ben presto conto degli enormi vantaggi in termini disemplificazione del diritto applicabile, rispetto alla molteplicità di fontinormative del diritto comune (spesso una vera e propria giungla : chi nonricorda l’Azzeccagarbugli, riuscita caricatura manzoniana di tale caosgiuridico?). E alla facile critica del carattere “straniero” del Code, essireplicheranno in gran parte che, certo, esso proviene innegabilmented’Oltr’alpe, ma che sostanzialmente, nei suoi istituti (es. la disciplina dellaproprietà), esso riprende, razionalizza e semplifica una tradizione romanisticanata, sviluppatasi e fiorita innanzitutto in Italia prima di partire alla conquistadell’Europa e diventarne patrimonio comune.

Se resistenze al Code vi furono, esse riguardarono essenzialmente taluni istitutiforse più difficilmente “digeribili” dal punto di vista sociale nell’Italia –ancora scarsamente laicizzata – dell’epoca : é il caso del divorzio, o dellacomunione dei beni. Vi furono in effetti su questi punti vaste perplessitàovunque, e, soprattutto nel regno di Napoli, proposte di ritardarnel’applicazione o addirittura di emendarlo, stralciando il divorzio. A Bologna,

nel 1806, il Senato cittadino ebbe a protestare pubblicamente di fronte alprefetto.In generale, si può dire che relativamente pochi furono –secondo un ormaicelebre scritto di Croce degli inizi del secolo – i casi di divorzio nell’Italianapoleonica.

La lingua non rappresentò minimamente un problema di comprensibilità taleda suscitare resistenze o perlomeno perplessità poiché, salvo nelle regionidirettamente annesse, in cui il francese era più o meno conosciuto(Piemonte), furono rapidamente approntate traduzioni in lingua italianafacenti fede in ogni circostanza. E nel 1810 Napoleone, forse memore dellesue origini corse, dispone, che nella Toscana da poco annessa all’imperofrancese, le disposizioni del Code faranno fede in italiano.

In definitiva, se resistenze da parte dei giuristi vi furono, esse poteronoprovenire non già dai teorici, ma dai pratici del diritto: resistenze“semiclandestine”, ed esempio, di magistrati formatisi alla scuola del dirittocomune, e quindi abituati da sempre ad utilizzarlo : essi, presumibilmente,potrebbero aver continuato, per mentalità o abitudine inveterata, a usare,nelle loro sentenze, lo ius commune come fonte sussidiaria del Code. Taleipotesi, ampiamente dimostrata e fondata per certe aree della Germania(Renania) non é pero ancora dimostrata per l’Italia e attende di esseresuffragata da future ricerche sull’immenso materiale giudiziario dell’epoca.

6. L’applicazione e l’eco del Code in Europa

Analogamente, e come accennato sopra, il Code Napoléon ebbe una vasta ecoin ambito europeo : fu applicato direttamente (o “in fotocopia” tradotta,come nel Baden nel 1806) in territori annessi o satelliti dell’impero francesenel decennio 1804-1814 (es. Belgio, Olanda, Renania, Svizzera, Polonia, Italiacome già visto), ed é servito in seguito, più in generale, come punto diriferimento di una prima riuscita codificazione. La sua fortuna declinò poicon l’emergere, alla fine del XIX secolo, di altri codici di grande rilievo :primo fra tutti, il BGB tedesco.

Un’analisi storica compiuta di quello che rappresentò il Code Napoléon inEuropa non può però prescindere - soprattutto nel momento attuale in cui cisi accinge a celebrarne il bicentenario dell’esistenza in Francia, Belgio,Lussemburgo e in molti altri paesi europei ed extraeuropei, come quellid’America Latina – dalla considerazione di base che, se da un lato esso fufunzionale alla nuova libertà economica legata all’ascesa della borghesiacommerciale, dall’altro si scontrò, anche in Europa e non solamente quindiin Italia, con le resistenze dei “pratici” : spesso giudici che malvolentieririnunciavano dall’oggi al domani ad applicare lo ius comune (essenzialmente, ilcorpus del diritto giustinianeo) e che quindi hanno continuato, nella loroattività quotidiana, ad integrare (contra legem, s’intende) il Code con tale fonte didiritto.

Un esempio è stato oggetto di ricerche esaustive : la giurisprudenza dellaCorte d’Appello di Treviri, competente in materia civile per tutti i territorirenani annessi alla Francia napoleonica. Vi sono frequentissime sentenze, giàin piena vigenza del Code, la cui base legale è costituita non solo da articoli ditale testo, ma anche (come in piena età del diritto comune) dalle disposizionidel Codex giustinianeo, o dalla menzione di principi tratti dal diritto romanoquale “ragione scritta” che s’impone sempre e comunque al legislatore.

7. Gli sviluppi dottrinali in Francia. La scuola dell’esegesi

Il Codice napoleonico è stato esaltato come un capolavoro giuridico elinguistico. Stendhal ne raccomandava la lettura a Balzac proprio da questopunto di vista. In realtà c’è molto di vero in questo ‘mito’ codicistico.

Esso ha infatti avuto un successo enorme, venendo presto imitato anche inAmerica latina e poi nei Paesi socialisti, oltreché in Europa continentale, doveviene portato subito dalle armate napoleoniche.Perché? Esso si presenta come ‘legge di ragione’, approvata dalla ‘volontàgenerale’ del popolo più che dai giuristi (anche se fu preparato da giuristi), dicui la Rivoluzione diffidava considerandoli controrivoluzionari. Le Facoltà digiurisprudenza vennero persino chiuse per un certo tempo e si auspicaronosistemi di giustizia privi di tecnici del diritto! Il codice doveva fornire unargine ai poteri dei giudici, che dovevano divenire bouche de la loi (bocca dellalegge), ma anche le leggi dovevano intanto operare in questo senso.

Il Code è il frutto di un’opera di semplificazione di quattro diversi progetti,alcuni giudicati troppo casistici, altri troppo astratti. Esso risulta dunque unpunto di equilibrio tra questi due estremi, ed è rimasto come modello diredazione delle norme giuridiche ancora oggi seguito nella tradizione giuridicacontinentale, detta di “civil law”. La ‘regola’ codicistica non deve esseretroppo generale, perché se così fosse non fornirebbe nessuna guida, maneppure troppo casistica dovendo applicarsi a una categoria intera disituazioni. Il codice non può risolvere tutte le questioni che si presenteranno,ma deve accogliere un insieme di regole che nel loro complesso, vistecomplessivamente - in sistema - lo consentano. Esso deve essere senza lacunee contraddizioni, per evitare di creare quell’incertezza del diritto che darebbedi nuovo spazio ai giudici.In realtà il codice non è privo di ambiguità e lacune, come osservarono prestoanche i pandettisti. Il diritto di proprietà - si dice ad esempio - è al centro delcodice, che lo definisce come ‘diritto assoluto’, ma poi si aggiunge cheregolamenti e atti amministrativi per necessità pubbliche possono consentirnel’esproprio o modificare l’uso del bene, e quindi lo possono annullare.Nell’art. 1108 per il contratto, che si dice libero e autonomo, si prescrive una‘causa lecita’ che all’art. 1133 si precisa esserci quando il contratto non ècontro i buoni costumi o l’ordine pubblico: ma come vanno intesi i dueconcetti che sono causa di invalidità del contratto? Rimane incerta, insostanza, la validità di qualsiasi accordo.La responsabilità civile viene basata sulla colpa, ma che cosa è la faute(pronuncia fot, colpa) codicistica? Non sarà da riempire di contenuti in base acerti criteri che non sono indicati?Il mito del codice autosufficiente, completo, non regge alla critica storicaodierna, eppure venne già alimentato dai giuristi che lo applicarono per primi- quelli che furono poi detti giuristi della École de l’exégèse, ossia della Scuoladell’esegesi, che tanta importanza ha avuto in Italia fino alla seconda metàdell’Ottocento. Essi infatti temerono di essere tacciati di manipolare il dirittosotto veste di equità come avevano fatto i giudici dei Parlements e i ‘dottori’secondo le accuse degli illuministi, ma in realtà per fini clientelari e politici.Perciò accettarono in toto la teoria ‘positivistica’ delle fonti proposta dallaRivoluzione, ossia

1) del primato assoluto della legge e2) della riduzione ad essa del diritto.

Essi si presentarono infatti come semplici ‘esegeti’, burocrati del codice,facendo continue affermazioni di rispetto per la lettera della legge e dellavolontà del legislatore. Non vollero pertanto assumersi (almeno

esteriormente) responsabilità politiche, come avevano fatto invece i giuristi didiritto comune con la loro interpretatio (estensiva o restrittiva), ma sipresentarono come meri esecutori della legge, accettando l’assunto che tutto ildiritto fosse nella legge. È appunto un carattere precipuo della Scuoladell’Esegesi, ossia il mos (= lo stile) francese ottocentesco di interpretare ilcodice, in opposizione netta alla Scuola storica tedesca.In realtà le cose andarono ben diversamente, perché i giuristi anche francesi(giudici compresi) in pratica usarono tutte le tecniche interpretative elaboratenel corso dei secoli a partire dalla ‘rinascita’ bolognese. Gli esegeti perciò nonfurono affatto succubi della norma codicistica. Per cui:1) salvo novità di grande rilievo politico (come il divorzio) c’è una certa (e percerti aspetti notevole) continuità di contenuti, ossia di disciplina concreta, tra iuscommune e diritto codificato. Il Codice napoleonico infatti fonde la tradizioneromanistica, per la proprietà e le obbligazioni in particolare, con quella didiritto consuetudinario (famiglia e successioni), mettendo a livello legislativoquello che a livello dottrinale aveva ‘combinato’ il Pothier, che avevaarmonizzato le varie fonti del diritto francese tradizionale. Ma c’è anche2) qualcosa di più profondo che bene colgono gli studiosi stranieri, inparticolare gli anglo-americani, guardando al problema del rapporto dirittocomune-diritto codificato: ossia che il sistema introdotto dal Code Napoléonvoleva fare completamente a meno del diritto comune, l’esecrato dirittodell’Ancien régime, ma in realtà continuò per certi aspetti quel sistema. Certo, nonc’è più da riferirsi ora, nelle sentenze, alle leggi del Corpus iuris quanto inveceagli articoli del Code, ma si continuò il sistema nel senso che vi continuò adavere una larga parte l’interpretazione dei giuristi.Questo è in fondo il grande contrassegno dei sistemi di civil law, cioè quelli diorigine romanistica dell’Europa continentale: il ruolo importantissimo che viha sempre svolto (in misura più o meno ampia in base alle circostanze) ilgiurista, ossia la dottrina, a differenza di quanto avviene nei sistemi di commonlaw, a sviluppo giurisprudenziale in senso giudiziario, ossia guidato dai‘giudici’, più che dal legislatore e dal ‘dottore’. La discontinuità quindi tra iuscommune e Code è da un lato nei modi della formulazione delle norme, oraraccolte in un unico testo e formulate in modo generale ed astratto, edall’altro nel ruolo della legge, che vi appare come fonte assoluta diproduzione normativa, e perciò non ‘eterointegrabile’.Il codice quindi richiama e si fonda su quello stesso sistema che era statocostruito dai giuristi sulla base del Corpus iuris. Quanto alla responsabilitàcivile, ad esempio, all’art. 1382 dichiara che “il danno obbliga chi lo hacommesso per sua colpa a ripararlo”. Una formula tanto ampia favorì in

pochi anni, di fatto, l’affermazione della regola opposta, che cioè di regolainvece non si risarcisce il danno. Questa interpretazione venne giustificatacon il fatto che se l’art. 1382 si trovava nel capitolo dedicato ai ‘delitti e quasidelitti’, ai fini del risarcimento si doveva innanzitutto avere un atto illecito.Ogni volta quindi bisognava rintracciare una norma proibitiva di un datocomportamento! Solo in un secondo tempo si ampliarono progressivamentele ipotesi di responsabilità civile, ma come si vede sempre (e inevitabilmente!)per via interpretativa.Insomma, i giuristi francesi furono dei tecnocrati molto abili, la cui operatrasformò profondamente il codice, ma essi accreditarono comunque il mitoche il codice fosse organico e completo come richiesto dall’opportunitàpolitica e dalla cultura del tempo! Essi operarono abilmente tra principigenerali e regole di decisione, ad un livello diverso da quello del legislatore,usando entrambi i livelli e con sinergie tra dottrina e giurisprudenza. Il che fupossibile perché gli stessi autori del codice erano dei pratici, profondiconoscitori della giurisprudenza (dei dottori e dei tribunali). Ad esempio,consigliere di Napoleone fu il Merlin, poi Procuratore generale presso laCassazione fino alla Restaurazione, che non lo perdonò di aver votato lacondanna a morte di Luigi XVI nel 1793.Dal Merlin prende avvio comunque un dialogo tra dottrina e giurisprudenza, cheoperò in modo molto libero, ma senza darlo a vedere, con prudenza. Il che fupossibile perché i tribunali, in particolare la Cassazione, da subito seguendoun po’ la prassi dei Parlements soppressi dalla Rivoluzione, motivò conun’unica frase, il tipico attendu que (‘atteso che’, detto stile del jugement à phraseunique, ‘giudizio a frase unica’), che fa mostra di applicare il sillogismogiuridico, ma in realtà consente di operare molto liberamente.La motivazione di questo tipo è un ottimo modo per tenere lontano occhiindiscreti, ma impedisce che si formi una giurisprudenza consolidata, ancheperché tace sui fatti, per cui non si può ricostruire il distinguishing, l’arte didistinguere, ossia come si sono differenziate le fattispecie. Essa dà solo ladecisione nel caso concreto.La dottrina in sostanza provvede a sistematizzare gli indirizzi dellagiurisprudenza. Non per niente la migliore opera, ancora oggi utilizzabile,dell’École de l’Exégèse, è quella di due giuristi dell’Università di Strasburgo,Aubry e Rau (pron. ‘obrì’ e ‘ro’), nata dall’opera in tedesco di Zachariae vonLingenthal (‘Zacarie fon linghental’), professore a Heidelberg. Questi avevascritto un manuale di diritto francese, dato che il codice continuò adapplicarsi in alcuni territori della Germania pur dopo la Restaurazione;l’opera, fortemente sistematica, alla tedesca, fu dai due francesi tradotta e

ampliata al punto di renderla un’opera nuova, autonoma: ebbene, essa è stataancora riedita nel 1933 e a suo tempo, nel corso dell’800, tradotta in italiano!Tuttavia, mentre la sistematica della Pandettistica tedesca fu rigorosa, perchéfaceva discendere le applicazioni dai principi primi, quella della scuolafrancese dovette sempre fronteggiare la giurisprudenza dei tribunali, per cuifaceva delle regole e poi ammetteva come eccezioni gli indirizzigiurisprudenziali dissenzienti.Ad esempio, Aubry e Rau alla III edizione cessarono di sostenere una certatesi in tema di azioni possessorie perché - ammisero - la giurisprudenza era insenso contrario. Altre volte furono più duri e criticarono aspramente lagiurisprudenza. Nel complesso, comunque, la dottrina fu molto vivace eanche polemica al proprio interno: ciò che importava era convincere i giudicia dare certe interpretazioni.Si ebbe così una vera e propria fioritura della letteratura giuridica. Si contanoben 17 trattati di diritto civile della Scuola, di cui uno, quello del Laurent(pron. ‘loràn’), in ben 33 volumi! Il codice portò insomma a complesseinterazioni tra dottrina, legge e giurisprudenza. Particolare importanza poirivestì la Corte di Cassazione, che si discostò raramente dai propri precedenti,pur non essendo obbligata a seguirli (come anche in Italia), e che nel giro dipochi decenni dominò le Corti d’Appello che si ostinavano a interpretare inmodo libero, sentendosi soggette solo alla legge!

8. L’Austria e il Codice civile del 1811 (ABGB).

Ben diverso fu il contesto nel quale si sviluppò e vide la luce il codice civileaustriaco del 1811. Esso é il portato e la conseguenza dell’opera riformatriceinstancabile di Maria Teresa prima (1740-1780) e del figlio Giuseppe II poi(1780-1792), opera volta a razionalizzare e semplificare il diritto dei paesifacenti parte della Casa d’Austria (tra cui é da annoverare ovviamente anche,dal 1714, la Lombardia). Una prima tappa é raggiunta nel 1776 grazie alcosiddetto Codex Teresianus ; però, a partire dal 1780, Giuseppe II si convinceche la codificazione – in cui (come nelle compilazioni tipiche del ‘700 qualiModena, 1723, o il Piemonte, 1770-71) ampio spazio trovavano ancora ilriconoscimento dei diritti locali e il diritto comune - necessita di una faseulteriore di modernizzazione.

Il suo obbiettivo, del quale la codificazione rappresenta una parte, seppureimportante, é infatti più vasto : la riduzione o eliminazione dei privileginobiliari ed ecclesiastici e il consolidamento del potere centrale.In effetti, negli anni ’80 del ‘700, l’instancabile sovrano emana una serie diprovvedimenti che anticipano, in un quadro di riforme pacifico e ordinato, leturbolente e spesso convulse conquiste della Rivoluzione francese di quasi undecennio successive : nel 1781, un editto di tolleranza pone le basi dellaseparazione tra Stato e chiese e dell’eguaglianza dei sudditi/credenti di frontealla legge, nel 1783 é “creato” il matrimonio civile, nel 1785 sono ridotti iprivilegi nobiliari in materia successoria ed é varato un editto sulla libertà dicommercio (1786) e infine, in quel 1789 rivoluzionario in cui nella turbolentaFrancia i contadini indigenti per la carestia daranno l’assalto alle dimorefeudali, é adottata invece in Austria una legge sui riscatti delle terre feudali checonsente ai contadini l’affrancamento e la loro trasformazione in affittuariereditari.

Nel 1787 fu poi emanato il primo libro di un Codice che conteneva ladisciplina delle persone e della famiglia e a cui avrebbe dovuto seguirne unsecondo dedicato alla proprietà, ma che rimarrà incompleto. La morte diGiuseppe II e le vicende legate alle guerre contro la Francia rivoluzionaria enapoleonica bloccheranno per diversi anni il completamento dell’operacivilistica, che vedrà la luce solo nel 1811 per entrare poi ufficialmente invigore, nei vasti, eterogenei e multilingui domini della Casa d’Austria, il 1°gennaio 1812 col nome di “Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch”(letteralmente “codice civile generale”).

Il codice civile austriaco costituisce, nel campo del diritto, una vera e propriaalternativa ideale rispetto al Code Napoléon.

Innanzitutto, esso é grandemente legato all’influsso che il diritto naturale –nella sua grande tradizione del XVII-XVIII secolo in Inghilterra e nei paesigermanofoni, tradizione legata a Locke, Thomasius, Pufendorf e Wolf - ebbesui giuristi che ne curarono la redazione, primi fra tutti lo Horten e il Martini.Contrariamente alla concezione – giuridica e codicistica - francese, ancor oggifortemente statualistica, secondo cui il legislatore crea ed istituisce dirittiindividuali prima inesistenti, l’idea alla base dell’ABGB é che un corpo dileggi (statali) non é se non il migliore strumento per dare attuazione a dirittisoggettivi già preesistenti ma che senza una trasposizione in norma positivanon avrebbero certezza giuridica.

Inoltre, pur inaugurando anch’esso la serie dei codici “moderni” cheescludevano – come il Code Napoléon - ogni possibilità di integrazione esternada parte del diritto comune, l’ABGB consente (una sua disposizione loprevede esplicitamente) un accoglimento di “principi tratti dal dirittonaturale” in caso di lacuna.

Nella struttura, poi, pur seguendo la tradizionale suddivisione in una (breve)parte generale, una prima parte sul diritto delle persone, una seconda parte suldiritto delle cose, e una terza parte (di circa 160 articoli) dedicata alle“disposizioni generali”, l’ABGB é anche qui ben diverso rispetto al suo(quasi) coetaneo omologo francese :

a) in primo luogo, é ben più breve e conciso di questo (700 articoli inmeno : 1502 contro 2281);

b) inoltre, la terza parte dell’ABGB prefigura per la prima volta, seppureper sommi capi, quella figura del negozio giuridico che avrà poi enormefortuna nella dottrina giuridica continentale grazie soprattuttoall’elaborazione fattane dalla Pandettistica;

c) infine, l’ABGB lascia più largo margine di quanto ne lasci il Code allavoro dell’interprete. Anche per questo motivo, la dottrina giuridicanon si limiterà ad essere, in Austria (e ancor più in Germania), unasemplice “scuola dell’esegesi” all’ombra di un invadente codicemonocentrico, ma assumerà iniziative molto più autonome nell’ambitodell’elaborazione, innovazione e riforma del diritto.

Occorre poi dire, da ultimo, che l’ABGB é stato anch’esso parte integrantedella storia del diritto italiana, in quanto fu introdotto nel Lombardo-Venetoa partire dal 1° gennaio 1816 (Restaurazione) e vi rimase in vigore fino allavigilia dell’Unità d’Italia.

9. La scuola storica tedesca

Il Giusnaturalismo in Francia – nella misura in cui ebbe un seguito tra igiuristi - fu gestito, oltreché da filosofi, da giuristi operanti a stretto contattocon la giurisdizione nazionale, per cui ebbe riflessi molto pratici e politici. InGermania invece fu sviluppato da professori d’Università e da governanti, in

una situazione di frammentazione politica e giurisdizionale. I giusnaturalistitedeschi erano lontani dalla pratica, per cui l’insegnamento loro rimaselontano dall’usus modernus del foro e collegato piuttosto alla giurisprudenza c.d.elegante di tipo umanistico, molto in uso tra i giuristi olandesi del Seicento.La ‘Scuola storica’ nacque e crebbe nello spazio lasciato da questa lacuna delladottrina. La Scuola storica, per quanto nata in contrapposizione algiusnaturalismo, ora a distanza di tempo è vista accanto ad esso comemanifestatosi in Germania. L’una e l’altra corrente elaborarono unadogmatica fondata sulla sistematica giuridica e sul metodo induttivo (scuolastorica) e deduttivo (filosofica): diritto soggettivo, diritto oggettivo, negoziogiuridico sono elementi di studio comuni a entrambe le scuole.Dove si ha una divergenza è nell’apriorismo del giusnaturalismo, che la scuolastorica non condivide affatto; inoltre nel fatto che Savigny è un veropositivista, perché parte dal diritto ‘dato’, perché ritiene che il giurista debbaoccuparsi solo del diritto positivo - bandendo diritto naturale etc. Eglisosteneva che le Università - come quella di Berlino, di nuova fondazione,1810, sulla base del programma riformatore di von Humboldt - si dovesserooccupare di nuovo seriamente di diritto positivo per formare davvero deibuoni giuristi (che la Germania aveva solo in misura limitatissima allora). Cosìle Università forgiarono i concetti raffinati con cui affrontare i probleminuovi degli Stati liberali e dell’economia capitalistica.Secondo la Scuola storica tedesca infatti (portando alle estreme conseguenzele dottrine di Thomasius e Montesquieu) il diritto non risulta dalla naturadell’uomo - come vogliono i giusnaturalisti - ma dalla storia di ogni popolo, omeglio dalle sue forze latenti, indicate nell’espressione Volksgeist (‘spirito delpopolo’, pron.: ‘folksgaist’), ma non da intendersi in modo democratico,perché la scuola fu piuttosto aristocratica, elitaria, politicamenteconservatrice, attenta alla consuetudine.Infatti, per loro il popolo non si esprime direttamente, ma solo per il tramitedei giuristi, che sono gli unici tecnici abilitati a capire che cosa il popolostesso ha prodotto. Quindi questi studiano il diritto del proprio popolo perstabilire quale è il ‘patrimonio’ che si deve amministrare, e in sostanza spetta aloro definire come ‘ringiovanirlo’, come renderlo attuale. Quindi il giuristadeve essere anche storico e ricostruire la letteratura giuridica della Nazione,che permette di conoscerne il diritto.Orbene, tale letteratura era di tipo romanistico, perché è vero che tra ifondatori della scuola ci furono anche degli studiosi di diritto germanicoantico, ma gli studi in questo campo erano allora appena agli inizi, per cuiinizialmente non poterono influire in modo efficace. Savigny invece ebbe

subito una grande fortuna e fu considerato fondatore della scuola, anche se adire il vero iniziatore era stato un professore dell’Università di Gottinga,Gustav Hugo (1764-1844). Savigny però fu subito molto noto anche per lostile: il suo famoso scritto contro la codificazione, ossia Della vocazione delnostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza, venne considerato una delleprose più belle della letteratura tedesca.Savigny era un romanista, per cui lavorò sulle fonti romanistiche in mododotto, come nella giurisprudenza elegante e umanistica, ripudiando il lavorofarraginoso dei Commentatori italiani, che giudicava negativamente - comegià avevano fatto gli umanisti prima di lui -, perché a suo avviso avevanocorrotto il diritto romano. Egli passava direttamente dai Glossatori ai Cultinel tentativo di meglio capire il diritto giustinianeo e la sua genesi (capire queldiritto per applicarlo ammodernato e sistematizzato nel presente).Inizia da qui la c.d. giurisprudenza dei concetti, che dal nome dato ai libri prodotti,cioè i manuali di Pandette, prese anche il nome di pandettistica. Gli esponentipiù celebri, oltre a Savigny e al suo allievo Georg Friederich Puchta (m. l846),furono Brinz, Arndts, Dernburg e soprattutto Bernhard Windscheid (m.1892), il cui manuale di Pandette compendiò il lavoro di tutta la scuola: setteedizioni durante la vita dell’autore!Idea base della pandettistica è che l’ordinamento giuridico costituisca unsistema completo, chiuso. Il che si adattava molto bene al nazionalismodell’Ottocento e all’idea d’uno Stato sovrano, non comunicante con gli altriStati che in modo formale, tramite le istituzioni legittimate a farlo. Quindi leeventuali lacune delle leggi non erano anche lacune del sistema che avevasempre, nelle sue strutture logiche, i mezzi per colmarle. Il giurista nondoveva far altro che ‘trovare’ la soluzione già presente nel sistema.Quest’ultimo ha in sé la propria validità in quanto la sua logicità è garanzia digiustizia. In ciò si vede un chiaro influsso dell’idealismo del filosofo Hegel:vera realtà sono i concetti e le proposizioni dommatiche. Che il dominio(proprietà) sia ‘elastico’ è non una conseguenza di quanto dice la legge, ma uncarattere reale della proprietà!Una critica ad essi mossa fu che, conoscendo anche il diritto romanopregiustinianeo, i pandettisti nel loro lavoro dommatico armonizzarono fontidiverse, costruendo un diritto romano che non ha mai avuto vigenza storica.Essi cioè misero assieme, entro il tessuto connettivo della sistematica, undiritto romano ‘meta-storico’, al di là della storia, fittizio. In particolare ciòemerse nell’elaborare la parte generale (Allgemeiner Teil), ossia i concetti basedel diritto privato, in cui andarono ben oltre l’elaborazione dei giusnaturalistie dell’ABGB (pronuncia ‘abeghebé’), ossia il Codice civile austriaco del 1811.

Un’altra critica riguardò il loro formalismo, la loro insensibilità per i bisognidella pratica e la pretesa di fissità del loro sistema, che portava al quietismolegislativo (“si lascino fare i giuristi”). Critiche furono mosse ad esempio daRudolf von Jhering (‘fon ierin’, m.1892) e da Otto von Gierke (‘fon ghirke’,m.1921) nonché dalla Scuola del socialismo giuridico, e sboccarono nellagiurisprudenza degli interessi. In Serio e faceto nella giurisprudenza (1884, ed. ital.1954), Jhering immaginò che nell’aldilà ci fosse un paradiso dei concettigiuridici in cui venivano ammessi in eterna beatitudine solo i giuristidogmatici; gli eletti dovevano essere abili ad usare la macchina spacca-capello.Paradiso rimasto a lungo vuoto, ma poi con l’ingresso di Puchta, nel 1846,esso cominciò finalmente ad essere popolato di giuristi tedeschi; lo stessoSavigny, però, morto dopo il suo allievo, nel ‘61, rischiò di non essereammesso! Egli infatti aveva paventato la sistematica astratta e la separazionedi teoria e prassi, difetti propri del giusnaturalismo, ma i suoi allievi si feceroprendere la mano dagli strumenti che il Savigny stesso aveva loro consegnatoe finirono per ricadere in difetti del genere.Tra le opere del Savigny - oltre a Della vocazione già citato - ricordiamo: Ladottrina del metodo giuridico, corso tenuto a Marburg nel 1802-03 ove ebbe dueallievi d’eccezione, i fratelli Grimm (proprio loro: quelli delle fiabe!), chepresero degli appunti alle lezioni del Savigny poi ritrovati e editi soltanto nel1951; Il diritto del possesso (I ed. del 1803), dove con metodo rigoroso, costituìun modello per ricerche successive; la Storia del diritto romano nel medioevo (in 7voll. usciti tra il 1815 e il 1831 in I ed.), opera ancora oggi utile per lo studiodella giurisprudenza medievale (tradotta in italiano dalla I ed. soltanto); ilSistema del diritto romano attuale (8 voll., 1839-49, solo parte generale); il Dirittodelle obbligazioni (che è una parte speciale dell’opera precedente). I suoi Scrittivari occupano 5 voll., in buona parte pubblicati sulla “Rivista per lagiurisprudenza storica” da lui fondata e che si continua ancor oggi col titolodi Rivista della Fondazione Savigny per la storia del diritto (si chiama infatti“Zeitschrift für Rechtsgeschichte der Savigny-Stiftung”). Tra gli scrittiprogrammatici importante il Della vocazione già citato, del 1814, scrittopolemico contro un altro del Thibaut, professore a Heidelberg, scritto infavore della codificazione anche in Germania, sempre del 1814. Lo scritto diSavigny è un po’ la carta programmatica della sua scuola.La Scuola è quindi molto diversa da quella esegetica francese, che trionfò inItalia almeno fino al codice del 1865 e agli anni ’70 dell’Ottocento. Ma c’èanche qui una fondamentale esigenza positivistica che consentiva la saldaturadella Pandettistica con le correnti liberali del tempo e fece sì che in Germaniala codificazione si svolgesse alla sua insegna. Inoltre non va dimenticato che

la Pandettistica ha svolto la funzione storica primaria di unificareculturalmente i giuristi tedeschi ben prima che la Germania lo fosse grazieall’opera di Bismark, con la proclamazione del Reich nel 1871!

10. Il processo di codificazione in Germania

All’inizio dell’Ottocento infatti, quando operava il Savigny, la Germania sipresentava ancora politicamente disunita ben più dell’Italia. Il Sacro RomanoImpero (ed il Tribunale camerale dell’Impero) era stato dichiarato estintodall’imperatore asburgico nel 1806. Il Deutscher Bund (la lega tedesca, ‘doiccerbunt’) che uscì dal Congresso di Vienna invece dei preesistenti 400 Stati fucomposto ancora di ben 40 stati sovrani (35 principati più 5 città libere), dicui due in forte contrasto tra loro: Prussia e Austria, entrambi con un lorocodice, rispettivamente l’ALR (letteralmente ‘diritto territoriale generale’) del1794 e ABGB (letteralmente: ‘libro della legge civile generale’) del 1811; laRenania e il Baden conservarono il Code Civil. Nonostante il frazionamentopolitico, la coscienza nazionale si rafforzava e Thibaut esprimeva appuntol’idea dei progressisti liberali che lottavano per l’unificazione del Paesepensando che il codice l’avrebbe favorita, così come avrebbe modernizzato ilPaese.Savigny replicava nella Vocazione in modo molto articolato. Per lui i codicierano da considerare un intervento o inutile o dannoso, perché sono i giuristigli interpreti dello spirito popolare e non il legislatore; loro devono cercarenella storia le soluzioni migliori. Roma l’ha mostrato chiaramente: il diritto sievolvette praticamente in assenza di legislazione grazie ai suoi giuristi e fu ilmigliore mai esistito! I codici per lui erano modesti, anche l’ABGB - che pureè ancora in vigore oggi in Austria. Comunque i giuristi tedeschi erano per luiancora impreparati a predisporre un codice, perché non l’avrebbero potutofare veramente ‘tedesco’. Si dovevano a suo avviso studiare prima il dirittovigente, la recezione e il diritto romano, che è poi il diritto dell’Europauniversale, che avrebbe salvato la Germania dal provincialismo e dalparticolarismo.Il discorso del Savigny, anche se abile, non era privo di contraddizioni: ildiritto romano veniva proposto come fulcro delle tradizioni tedesche, perchécosì i giuristi tedeschi sarebbero stati i più universali, i primi in Europa.Comunque il suo scritto ebbe successo anche perché, per motivi politici, uncodice unitario non era possibile.

Tuttavia anche in Germania ci furono momenti legislativi importanti, come lalegge cambiaria del 1848 (rimasta in vigore fino dopo la Convenzioneinternazionale di Ginevra del 1930), ma poi soprattutto il Codice generale dicommercio del 1861, adottato entro il ’65 da tutti gli Stati. Esso ovviamentefavoriva i rapporti interstatali e commerciali ed ebbe un taglio molto pratico;fu sostituito solo nel 1900 da un nuovo codice di commercio - ancora invigore.

11. Il codice civile tedesco (“Bürgerliches Gesetzbuch”, o “BGB”).

Il BGB, codice civile tedesco, entrò in vigore nel 1900 dopo lavoripreparatori durati più decenni, e a quasi trent’anni di distanzadall’unificazione del paese.

Nel 1873, due anni dopo l’unificazione della Germania, fu varata una leggeche stabiliva per la prima volta una competenza legislativa a livello federale,rompendo così la competenza fino allora esclusiva dei singoli stati tedeschi.Era la premessa indispensabile per partire alla carica con un nuovo codicecivile nazionale: nel 1874 si insediò una prima commissione formata da ottoeminenti esperti, col compito di presentare un progetto di codice civileunitario. Tale progetto, elaborato in più di settecento sedute dellacommissione, fu presentato ben tredici anni dopo (1887), ma subito si presto’a energiche critiche. Von Gierke e altri non mancarono di rilevarnel’eccessiva astrattezza, la lontananza dalla prassi, nonché il fatto di nonrispettare le tradizioni tedesche, cioè di essere troppo romanistico, mentreMenger, un esponente del socialismo giuridico, lo bollava come codice delcapitalismo. Apprezzamenti vennero invece sul piano linguistico, per laprecisione dei concetti esposti e delle espressioni utilizzate.

Le critiche obbligarono a continuare i lavori : una seconda commissione siinsediò, lavorando dal 1891 al 1895. Il nuovo progetto fu presentato alReichstag (il parlamento tedesco) sotto forma di progetto di legge il 17gennaio 1896, fu approvato e fu pubblicato nella gazzetta ufficiale in agostodello stesso anno. La sua entrata in vigore (che pose il suggello alla definitivaunificazione giuridica della Germania) avvenne il 1° gennaio 1900.

Con i suoi 5 libri, articolati in parte generale, diritto delle obbligazioni, dirittireali, di famiglia e successioni, finisce l’epoca di formale vigenza delle normeromanistiche in Europa! La sua parte generale, con una sezione apposita sulnegozio giuridico, divenne stimolo per la dottrina giuridica di tutta Europa enon solo. Il BGB fu copiato, ad esempio, dalla Grecia e dal Giappone (chepur aveva prima chiamato un francese per modernizzare le proprie tradizionigiuridiche), perché si ritenne tale codice tecnicamente migliore.In effetti è di grande livello, ma certo diversissimo da quello napoleonico.Questo era per i cittadini, quello si dirige espressamente ai tecnici, perché haun linguaggio estremamente difficile, dato che è un tedesco derivato dallinguaggio scientifico romanistico; inoltre è anche molto poco maneggevoleperché essendo una specie di trattato dottrinale sistematico (ed infatti è dettoanche “il piccolo Windscheid” per indicare che è una specie di riassunto deltrattato pandettistico di quest’autore!), per seguire la disciplina di un singolocontratto bisogna prima andare alle regole generali sulla capacità d’agire, poi aquelle generali sui contratti, poi a quelle specifiche sul singolo contratto!

Con tutto ciò (e veniamo all’oggi), il BGB è ancora in vigore, ma con enormimodifiche. Se infatti si può affermare che la versione iniziale costruisse econtenesse concetti cari all’economia liberale – l’assoluta libertà negoziale – oriprendesse nella sua purezza concetti già cari al Code Napoléon – es. laproprietà come diritto assoluto -, é però anche vero che ormai da decenni ilBGB va soggetto ad un’incessante opera di modifica e di riforma (per impulsinazionali e soprattutto europei), tanto da renderne irriconoscibili intere eampie parti. E’ stato grandemente modificato il diritto di famiglia, certo, che èquello che più ha risentito, in tutta Europa, del riconoscimentodell’uguaglianza dei coniugi e della pari loro responsabilità nei confronti deifigli. Ma mutate sono anche – per fare alcuni esempi - la materia societaria,quella delle condizioni generali di contratto e quella, introdotta nel BGB perrecezione di direttive della UE, della (accresciuta) tutela del consumatore.Certi concetti-base cari al liberalismo, poi, come quello della proprietà“assoluta”, sono stati profondamente ripensati nel segno di una maggioresensibilità sociale : si pensi alla materia delle locazioni e alla forte tutela dellocatario ivi contenuta - in uno stato, la Germania, in cui la costituzionevigente (“Grundgesetz”) richiama espressamente il concetto di “economiasociale di mercato”.

12. La questione della completezza dei codici

Generalmente si dice che il diritto comune cessò di aver vigore quandoentrarono in funzione i codici (1804 Francia; 1811 Austria; 1900 Germania).Il codice civile austriaco caduto Napoleone venne introdotto nel RegnoLombardo-Veneto, per cui si tratta di un codice che riguardò direttamente lastoria del diritto in Italia.I codici statalizzarono il diritto, per cui ufficialmente non vi fu più spazio peril diritto di formazione giurisprudenziale, sia in senso dottrinale chegiudiziaria. Con il codice si entrava ufficialmente nel regno dello ‘Stato didiritto’; ciò voleva dire che non solo le attività delle amministrazioni eranoregolate dalla legge, ma che ci devono essere la costituzione a fissare i dirittidei cittadini e delle leggi (e non atti governativi) a disciplinare l’attività delleamministrazioni. Il cittadino è tutelato nei confronti dell’attività di Governo,può ricorrere all’attività giudiziaria ordinaria per far valere le sue pretese, e allagiustizia amministrativa per le violazioni nella sua sfera giuridica da parte diatti amministrativi. Tutto nel rispetto della divisione dei poteri, perché dovenon c’è questa, non ci sarebbe neanche lo Stato di diritto, dato che un potereprevarrebbe sull’altro - come aveva insegnato Montesquieu, notissimonell’Ottocento.Corollario di questa visione è il giudice ritenuto “bouche de la loi” (boccadella legge), secondo l’espressione che troviamo già in Montesquieu. A metàSettecento infatti si diceva polemicamente che perché il diritto fosserispettato era necessario che il giudice, nel pronunziare una sentenzaapplicasse semplicemente il diritto, non mettendoci niente di suo, a differenzadi quello che facevano i giudici di Ancien régime, che con le loro decisionisviluppavano giurisprudenzialmente il sistema. Ora invece abbiamo unavisione nettamente positivistica, dove l’unico diritto è quello positivo, datodal legislatore, per cui il giudice non può aggiungere niente.Il principio di legalità dell’amministrazione che si va creando in questo periodosancisce la preminenza della legge. Questo fu il quadro delle fonti tipicamenteottocentesco, che si chiama anche dell’assolutismo giuridico o legislativo,diverso da quello politico (Luigi XIV: “Lo Stato sono io”, e pertanto sonoanche momento di unificazione dei poteri statuali). Quest’ultimo eraincompatibile con una costituzione, perché il sovrano si riteneva libero davincoli secondo la massima già vista: Princeps legibus solutus. L’assolutismogiuridico invece è quello della legge, dove questa è vista come fonte da cuidipende non solo l’esecutivo e il giudice, ma anche la dottrina (perciò‘esegetica’, alla francese). Conformemente a questa idea c’era quella del

sillogismo giudiziario: il giudice deve soltanto trovare la norma che include lafattispecie concreta e sussumerla nella fattispecie generale, applicandolameccanicamente.I codici hanno così portato a due conseguenze: sono completi e non sonoeterointegrabili. Eterointegrabile significa che un codice non può esserecolmato, quando si trova una lacuna, ricorrendo a principi esterni al codicestesso. Questo è vietato perché si darebbe al giudice un grimaldello permodificare il codice riferendosi a principi che non vi sono dentro.Un appiglio a sostenere questa tesi esisteva nel Codice civile napoleonico che,all’art. 4, disciplinava il diniego di giustizia, secondo cui il giudice non potevarifiutarsi di amministrare la giustizia (“Il giudice che rifiuterà di giudicaresotto pretesto di silenzio, di oscurità o di insufficienza del diritto potrà essereperseguito come colpevole di diniego di giustizia”); ebbene, sulla base diquesto articolo si disse che se il giudice non poteva ‘denegare’, era ovvio checi fosse sempre una norma da applicare. L’idea era quella di contenerel’arbitrio dei giudici, ma già nell’opera di un commentatore si cominciò a direche qualora ci fosse stata una lacuna ‘completa’ bisognava ricorrere all’equità.Ebbene, questo dell’equità è evidentemente un criterio di eterointegrazione,perché con esso si consente al giudice di seguire propri criteri equitativi,esterni (‘etero’ rispetto) al codice. Una cosa era quindi la teoria ufficiale dellefonti, secondo cui dottrina e giurisprudenza non facevano diritto, ed altracosa fu la prassi giudiziaria concreta, tanto è vero che le lacune econtraddizioni del codice vennero risolte in parte dalla dottrina ed in partedalla giurisprudenza, e in particolare dalla corte di Cassazione, grande novitàdelle riforme giudiziarie francesi.Essa fu istituita proprio per garantire l’esatta applicazione del codice, per cuinon fu (e non è) che una corte di legittimità, perché non entra nel ‘merito’ dellesentenze pronunciate dai giudici di prima istanza e di appello, e quindi operasolo sulle interpretazioni che i giudici hanno dato. La sua principale funzione èappunto di ‘cassare’ la sentenza quando i giudici hanno interpretato male lalegge, e in questo modo essa assicura l’uniforme interpretazione della legge(funzione c.d. nomofilattica). Le sue decisioni, che circolarono ampiamente,riuscirono ad integrare le lacune del codice napoleonico e a coordinarne levarie parti.Il Codice austriaco invece, come si é detto in precedenza, aveva un articolosull’eterointegrazione che recitava: “Qualora un caso non si possa decidere nésecondo le parole, né secondo il senso naturale della legge, si avrà riguardo aicasi consimili (analogia)... rimanendo nondimeno dubbioso il caso si dovràdecidere secondo i principi del diritto naturale ....”, che fungevano quindi da

norme integrative del codice. Una situazione del genere si ha oggi in Irlanda, cheesplicitamente ammette l’integrazione giusnaturalistica, il che poi nonmeraviglia molto tenuto conto che è un Paese cattolico in modo anche piùnetto del nostro.Altro punto da notare. Abbiamo ripetuto che il diritto comune con i codicimuore, ma va ricordato che spesso nei commenti che vennero fatti ai codicinel corso dell’Ottocento per capire meglio la norma del codice si utilizzòanche il diritto romano, perché c’erano dei concetti non spiegati nel codice.Classico l’articolo del Codice napoleonico in questioni di beni mobili: “ilpossesso equivale a titolo”, ci dice, ma chi ci spiega cos’è il possesso, il ‘titolo’ecc.?Questa idea che il Codice richiedesse solo esegesi letterale anziché un vero eproprio lavoro di interpretazione è quindi un’idea ingenua, ma tornava benealla congiuntura politica e alle polemiche dei pandettisti, i quali in Germaniasostenevano che, fatto il codice, fosse finito il lavoro del giurista. Questoinvece fu appieno valorizzato in Germania non essendo più vigente in nessunLand (salvo poche limitate eccezioni) un codice di tipo francese. In questomodo il giurista rispondeva alle domande più ardue in caso di lacune o diconflitti tra norme locali sulla base della logica giuridica e dei principi chediscendevano della sistematica dottrinale pandettistica. I giuristi vissero inquesto clima di diritto comune - e non per niente proseguirono i consilia datidalle Facoltà giuridiche - fino all’entrata in vigore del codice, nel 1900,applicando quindi, quand’era il caso, un diritto dottrinario elaborato atavolino sulla base della storia, lo stesso diritto che, per il singolare prestigiodi questi giuristi, diresse l’opera dei legislatori e la stessa interpretazione dellesingole leggi.Il diritto comune quindi è stato ufficialmente superato da noi, anche se vivenella cultura giuridica - e lo si è visto nella decisione delle Sezioni uniteriportata a suo tempo. Ma ci sono Paesi in cui per circostanze varie è ancorapossibile far riferimento esplicito a principi del diritto comune europeoprecodificatorio. Pensiamo alla Repubblica di San Marino, a quella diAndorra, ma anche a realtà ben più corpose, come il Sud Africa - che peressere stato colonizzato dagli olandesi ricevette il diritto romano-olandese del’700, conservato poi nonostante l’occupazione inglese -, oppure il Quebec, inCanada - che ha conservato il legame con l’antico diritto europeo comemomento di identità culturale -, oppure ancora alla Lousiana, che è una mixedjurisdiction, un Paese cioè in cui convivono con grande difficoltà tradizioneromanistica europea locale e common law in conseguenza delle giurisdizionifederali. Non a caso a New Orleans esiste una Bartolus’ Society, per coltivare il

ricordo del grande giurista di Sassoferrato, ignoto in Italia; si pensi piuttostoancora alla Scozia (Edinburgo è un centro di studi romanistici importante),che recepì nella propria cultura giuridica il diritto continentale dal ’500,quando i suoi giovani cominciarono a formarsi una cultura nel Continente,evitando l’Inghilterra proprio per non perdere un’identità sempre minacciatadalla egemonia inglese.Ora in questi Paesi il diritto comune ha uno spazio naturalmente residuale -può essere invocato solo in casi rari, con molte differenze però da un postoall’altro -, ma rimane come rivendicato contrassegno di significato più chealtro culturale. In che senso? Perché qui non c’è stato o non ha avuto grandeimportanza l’illuminismo, né ciò che esso ha significato, ossia il tentativorazionalistico e antistoricistico di far tabula rasa del passato. Non c’era unproblema politico di lotta contro i giudici, per cui non si sentì neppurebisogno di fare una lotta culturale anti-romanistica - come si sentì invece inPaesi che avrebbero avuto ben maggiori motivi di rimanere aderenti al dirittocomune! È uno dei tanti paradossi della storia, e non meraviglia più di tanto.Ma bisogna almeno esserne consapevoli.

13. Il rapporto tra codificazione commerciale e codificazione civile

Il Codice civile non fu l’unico codice napoleonico. In pochi anni sisusseguirono gli altri, ossia quello penale a quelli di procedura penale ecriminale, fino a quello di commercio. Con essi il principio codificatorio siimpose nei vari rami del diritto relativo ai privati, che erano i più interessati asuperare la incertezza ed arbitrarietà dell’Ancien régime e della suadiscutibilissima giustizia. Tuttavia i codici per il solito fatto di metter perscritto in modo precettivo e chiaro i comportamenti richiesti davano maggiorgaranzia di certezza (e di nuovo furono imitati come modello negli altri Paesianche dopo o durante la Restaurazione), specie quello penale, ma non èsempre detto che fossero anche innovativi come quello civile. Quelli diprocedura derivarono da una semplice razionalizzazione e modernizzazionedelle Ordonnances di Luigi XIV (ma la Rivoluzione portò la novità della giuria,importante come momento di valorizzazione del ‘cittadino’, che veniva cosìgiudicato dai suoi ‘pari’), come anche quello di commercio. E qui bisognarichiamare il discorso già fatto per l’Inghilterra, che unificò il diritto delleobbligazioni in anticipo rispetto a tutti - noi ci siamo arrivati col 1942 e sivedrà come -, favorendo così lo sviluppo del capitalismo.

La dicotomia dei due codici invece è rimasta sia in Francia che in Germania, econ un significato diverso. In Francia il Codice di commercio napoleonico fu soloin parte innovativo, perché dipende ampiamente dall’Ordinanza delcommercio e della marina di Luigi XIV. Ma perché si conservò a parte?Perché il Codice civile rappresentava la normativa per il cittadino ‘normale’,che era (quando gli andava bene) un (nobile o borghese) proprietario terriero,che comprava per sé e la famiglia, e non per speculare. Perciò su quellaproprietà era incentrato il codice. Esso rifletteva pertanto una società ancoraagricola, come era il Continente a quel tempo. Tanto è vero che quando ametà Ottocento comincerà a diffondersi la società industriale, il Codice eraper alcuni aspetti invecchiato: si pensi che non prevedeva una disciplinaspecifica per il rapporto di lavoro, ancora inteso come una particolarelocazione (d’opera, come nel diritto romano), e perciò cominciò ad attirarsianche le critiche, sempre piú incisive verso la fine del secolo, del c.d. socialismogiuridico.La società più dinamica dei traffici, rappresentata dalla borghesia degli affari edel capitale mobiliare, era appunto prevista dalla normativa commercialistica,ma ancora come disciplina speciale rispetto a quella ordinaria del codice civilein Francia. Ciò significa che i valori civilistici erano largamente prevalenti equelli commerciali ancora in netta minoranza. Comunque, il codice dicommercio francese non poteva aspirare ad assumere l’importanza di quellocivile, perché disciplinava

1) solo gli atti di commercio, ossia di speculazione, anche se da chiunquecompiuti (disciplina oggettiva, quindi, e non più soggettiva come inpassato), come le compere per rivendere, i cambi, le operazioni dibanca, le mediazioni, le costruzioni; e,

2) i commercianti, intendendo per tali coloro che facessero quegli attiprofessionalmente, e che quindi venivano sottoposti a regole soggettiveparticolari a tutela del pubblico dei contraenti, come le regole sulfallimento e sui libri di commercio nella tradizione di Luigi XIV.

Ma che fosse una disciplina secondaria, per così dire, quella commercialisticalo fa vedere bene come si svolgeva la concorrenza tra i due diritti. Se l’attored’una causa era un commerciante contro un altro commerciante nulla quaestio:si andava al tribunale di commercio (ove sono presenti dei commercianti); seera contro un cittadino doveva invece convenirlo nel tribunale civile, che inogni caso riceveva gli appelli contro il tribunale di commercio; se poi era uncittadino l’attore, egli poteva invece scegliere a quale corte rivolgersi, e seandava in quella di commercio si applicava comunque in prima istanza il

codice civile e solo per quanto non disposto (contratti appunto commerciali)il codice di commercio.Le corti commerciali naturalmente erano più accessibili, perché più rapide emeno costose, potendosi anche evitare il patrocinio del legale, ma ciò nontoglie che il diritto commerciale fosse poco sviluppato, un diritto veramente‘sussidiario’ in Francia, e che quindi non ledeva l’uguaglianza dei cittadini difronte alla legge.Questa situazione si ricreò in Italia con i due codici unitari, civile e dicommercio del 1865, largamente tributari di quelli francesi. Ma intanto eravenuto fuori un nuovo modello ben diverso, ossia quello tedesco del 1861-accettato da tutti gli Stati tedeschi entro il 1865. È molto significativo che laGermania ancora prima dell’unificazione politica potesse conseguire quella deldiritto commerciale. Il fatto ci conferma che, come di solito nella storia, ildiritto commerciale è stato un diritto ‘speciale’ più dinamico, che haanticipato quello che poi sarebbe avvenuto nel diritto civile, il quale è undiritto più tradizionale, più lento a modificarsi e ad accettare delle novità.In Germania così, in piena Pandettistica, grazie all’accordo doganale tra gliStati si impose una disciplina uniforme delle obbligazioni commercialisticheche rappresenta un passo in avanti rispetto al modello francese; modellomolto significativo, perché il codice tedesco disciplinava per intero - dovendoapplicarsi tra ‘commercianti’ di Stati diversi nei quali il diritto privato avevadifferenti discipline - i rapporti obbligatori, e creava quindi una disciplinaesaustiva, parallela a quella privatistica. Con in più due regole che indicavanoin che direzione si voleva andare, cioè a favore dello sviluppo mercantile eindustriale anche a sfavore dei semplici cittadini:

1) che cioè il diritto commerciale si applicava anche quando uno solo deicontraenti era un commerciante. Nasce da qui una disparità ditrattamento, perché il cittadino non commerciante viene sottoposto allagiurisdizione mercantile sempre, in deroga al suo giudice ‘naturale’;

2) in mancanza di precise regole commercialistiche, prima delle normeprivatistiche si applicavano gli usi commerciali, naturalmente creati daicommercianti e pertanto tendenzialmente a loro favore.

Questo è il modello che fu recepito in Italia quando nel 1882 fu riformato ilCodice di commercio, ed è facile immaginare le polemiche cui dette l’avvio. Èchiaro che si trattava di favorire la circolazione delle merci, favorire laconclusione dei contratti e i creditori in modo che potessero reinvestire e cosìvia, ma proprio in quegli anni veniva fuori in tutta evidenza la questioneoperaia (che portava in quell’anno alla costituzione del partito operaio e poi aiprimi deputati di vera opposizione al sistema politico e al governo), per cui ci

furono i giuristi che, sensibili al clima da ‘socialismo giuridico’ gridarono alloscandalo. Ma come, si disse, ci sono cittadini di serie A e di serie B?È un diritto di classe quello commerciale, e ad esso sacrifichiamol’uguaglianza tra i cittadini? Perciò alcuni, primo tra tutti un commercialistavalidissimo come il Vivante, cominciarono a richiedere con forza l’unificazionedel diritto privato mediante un codice unico in modo da avere un’ugualenormativa per tutti, che assicurasse un equilibrio tra esigenze dei traffici edella vita ‘normale’, e quindi la solidarietà tra le classi.È quanto riuscì a fare proprio allora, nel 1883, la Svizzera, con il Codice unicodelle obbligazioni, ma l’Italia rimase sulla vecchia strada come ci rimase laGermania, che solo nel 1900 si dette un nuovo codice anche di commerciomolto moderno, che proiettò il Paese sui mercati internazionali, favorendo undiritto commerciale uniforme a livello internazionale, a disposizione deiprofessionisti degli scambi.In Italia il Codice di commercio del 1882 si fuse con quello civile solo nel 1942,alla fine dell’epoca fascista, non certo per una esigenza di uguaglianza deicittadini, ma perché il fascismo era contrario alla lotta di classe, che la duplicitàdei codici quasi sottointendeva, e per svecchiare la società ancora rurale. Soloche l’unificazione del diritto delle obbligazioni in tal modo effettuata, fatta perintegrare il corpo sociale, avvenne a scapito del diritto civile, perché nelcodice del ’42 i principi del Codice di commercio furono talvolta recepiti edimposti a tutta la società, attuandosi la c.d. commercializzazione del diritto privato.Si era eliminata così la polemica contro gli “atti unilateralmente commerciali”,per cui bastava che una delle parti fosse un commerciante perché la normaapplicabile fosse quella del codice di commercio, più favorevole aicommercianti, ma ora tutti erano sottoposti alle regole ‘mercantili’.Francesco Galgano, un commercialista che ha studiato a lungo questi temi,segnala in particolare questi punti:- la disciplina dell’acquisto ‘a non domino’ di cose mobili, che non hariscontro in altre discipline, protegge dal ’42 l’acquirente di buona fede anchequando trattasi di cose rubate o smarrite;- la norma che subordina l’azione di annullamento del contratto allariconoscibilità dell’errore, per cui si è vincolati al contratto non voluto;- o che subordina l’annullamento del contratto dell’incapace alla prova dellamalafede dell’altro contraente;- o che rende la simulazione inopponibile al terzo acquirente di buona fede;- o quando si fanno salvi i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buonafede.

14. I codici dell’Italia della Restaurazione (1814-1859).

In seguito al crollo del sistema napoleonico nel 1814, dappertutto in Italia (aTorino, Milano, nei Ducati padani, a Firenze, nello Stato della Chiesa, aNapoli) fecero ritorno i sovrani “restaurati”, vale a dire coloro chedetenevano il potere anteriormente all’irruzione delle armate napoleoniche inItalia. Con alcune eccezioni, però : ad esempio, il Congresso di Viennadecretò la fine delle Repubbliche di Genova (annessa al Piemonte) e diVenezia (che fu annessa alla Lombardia già austriaca, per formare il c.d.Regno Lombardo-veneto), e alcune modifiche minori (es. il Ducato di Parmae Piacenza fu affidato all’arciduchessa Maria Luisa d’Austria, già secondamoglie di Napoleone).

Un passo indietro, tale da cancellare il passato recente, politico e giuridico?Seppure in apparenza sembrerebbe così (a leggere ad esempio il brano dellememorie del piemontese Massimo D’Azeglio sul ritorno a Torino dei“codini” del seguito della corte di re Vittorio Emanuele I), in realtà il colpo dispugna sul passato era di ben difficile realizzazione. Gli storici (come A.Saitta) già da decenni parlano di una “impossibile Restaurazione”, persignificare che il fermento provocato nelle coscienze degli italiani dal periodonapoleonico (su più aspetti : ideale, politico, anche militare visti i tanti italianiche avevano valorosamente combattuto nelle armate napoleoniche) eradestinato a dar ben presto i suoi frutti.

Sul piano della storia del diritto il discorso é analogo, sebbene più “tecnico”, esi può riassumere in una constatazione di fondo : il dato dell’esperienzacodicistica (civile, penale, di procedura) era ormai ineliminabile in buona parted’Italia, e un ritorno all’epoca del diritto comune o delle compilazionisettecentesche era impossibile. L’elemento “codice” era ormai acquisito,oltreché uno strumento efficace aumentare il proprio potere e accentuare neiloro domini il già annoso processo di “statualizzazione” del diritto. Per CarloGhisalberti, acutamente, “la forza stessa delle cose finiva con l’imporre il mantenimentodi quella soluzione codicistica realizzata nell’intera penisola durante la dominazionenapoleonica e, persino, progettata nella Sicilia in quegli anni restata sotto la sovranitàborbonica. Il fatto che anche in quell’isola dove non era stato evidentemente possibile recepiredalla Francia un sistema normativo codificato se ne fosse studiata egualmente

l’introduzione, offriva senza dubbio una prova della generale diffusione di quelle istanzecodicistiche alle quali non avrebbero più potuto sottrarsi i sovrani della Restaurazione”.

Eppoi, in fin dei conti, anche ragioni di buon senso militavano a favore diun’accettazione del modello codicistico in buona parte degli stati italiani : isovrani più “illuminati” si rendevano infatti conto che un nuovosconvolgimento nel modo di legiferare avrebbe nuociuto notevolmente allacertezza del diritto e quindi alla stabilità dei domini recentemente recuperati, equesto non era certo nel loro interesse.

Insomma, il dato “codice” fu culturalmente ineliminabile, anche se non vifurono dappertutto codici nella penisola.

Ma quel che è interessante è che anche nel contenuto della codificazione icodici degli stati italiani preunitari si rivelano in buona parte “figli” dellacodificazione napoleonica. Essi infatti riprendono non pochi (eimportantissimi) elementi di derivazione francese : si pensi all’uguaglianzagiuridica e civile (e all’eliminazione di privilegi di casta), già comunqueconcettualmente non ignota e al centro dei dibattiti e delle riformesettecentesche, o alla disciplina dei beni, e segnatamente della proprietà –seppure tale scelta di rendere “assoluta” la proprietà è giustificata riferendosialla tradizione locale e quindi allo ius comune.

E non solo questo: sul lungo periodo i codici preunitari svolgonostoricamente anche una funzione - importantissima - di “cinghia ditrasmissione”: come ha infatti brillantemente ipotizzato A. Padoa Schioppa,essi hanno costituito il tramite attraverso il quale l’idea stessa di codice, conquanto essa comportava riguardo al sistema delle fonti del diritto privato e alrapporto tra legge, dottrina e giurisprudenza, si è trasmessa al futuro statounitario.

Dove ci si discosta dal dato napoleonico, è unicamente nel tentativo diresuscitare, ma sempre nel corpus dei codici, taluni vieti istituti di antico regime(rafforzamento della patria potestà, limitazione della posizione successoriadella donna).

Eccezioni alla tendenza ad adottare nuovi codici ?

Non mancarono. Il regno di Sardegna vivrà un processo codificatorio assailento, durato due decenni ma pur alla fine riuscito ; il Ducato di Modena e ilGranducato di Toscana, pur percorrendo vie diverse, si risolverannoestremamente tardi ad una codificazione moderna, quando ormai irivolgimenti politici che avrebbero accelerato l’unificazione della penisolaerano alle porte. Lo Stato Pontificio, non da ultimo per l’intrinsecacommistione - giuridica e politica - tra elemento civile e religioso, saràincapace fino all’ultimo di varare codici modernamente intesi. In tutti gli altristati, invece, il processo codificatorio procederà più o meno speditamente.

Se il modello è indiscusso, va però tenuta presente una differenza dicontenuti tra codificazione civile e codificazione penale: così, se nel campodel diritto civile l’autorità del Code Napoléon è più difficilmente discutibile, noncosì sarà per le norme severe del Code pénal francese del 1810 (che ai finidella pena non distingueva, ad esempio, tra reato tentato e consumato, oancora irrogava la pena capitale in una serie estesa di casi), da cui i codificatoripreunitari, pur emanando anch’essi codici penali, si discosteranno spesso.Insomma, ben presto i due codici finiranno per godere di un prestigioineguale!

Fatte queste premesse, esaminiamo ora più da vicino i codici dei principalistati italiani preunitari, percorrendo la penisola da nord a sud.

a) Il regno Lombardo-veneto. Creato dal Congresso di Vienna nel 1815 e formatodall’unificazione delle terre lombarde, sotto il controllo dell’Austria fin dal1714, con l’antico territorio della Repubblica di Venezia (che però già nel1797 a Campoformio aveva perso la sua millenaria indipendenza), ilLombardo-Veneto viene integrato ai domini della Casa d’Austria. Vi vieneintrodotta tout court la legislazione austriaca, civile e penale, e segnatamente,dal 1° gennaio 1816, l’ABGB del 1811 (cfr. paragrafo 7). il Lombardo-Venetonon vedrà quindi nascere una codificazione autoctona. Come ha giustamentenotato il Bonini, “si tratta di un singolare gioco del destino, in forza del quale proprionei territori che avevano costituito il centro intellettuale, sociale ed economico del precedenteRegno d’Italia il codice francese veniva soppiantato dal suo grande rivale austriaco, senzasopravvivere di conseguenza, come in altri territori italiani, neppure a livello di fonted’ispirazione”.

b) Il Regno di Sardegna. Formato da territori estremamente eterogeneigeograficamente e linguisticamente, venuti ad aggregarsi progressivamente aiprimitivi nuclei piemontese e savoiardo, il Regno di Sardegna ottenne ilterritorio di Genova dal Congresso di Vienna – e quindi uno sbocco sul mare- come sorta di “risarcimento” per la lunga occupazione francese. Ed éproprio qui, in odio alla dominazione francese, che il sovrano restaurato,Vittorio Emanuele I, sembra voler realizzare allo stato puro l’idea di unritorno integrale al passato: un editto del 21maggio 1814 cancella d’un trattol’intero corpus delle leggi francesi e richiama in vigore il diritto anteriore, vale adire le Regie Costituzioni del 1771, gli statuti locali, il diritto comune.

Ma tale involuzione giuridica si realizzerà a prezzo del sacrificio dell’unitàlegislativa del Regno : a Genova, infatti, il potere centrale si rassegnerà alasciare in vigore non solo il Code Napoléon, ma anche il Code de commerce chesopravvivranno poi ancora per vent’anni (fino al 1837): un fatto, questo,pressoché unico in Italia (se si esclude il principato di Lucca), nonchéparadossale se si pensa che é accaduto nel regno più “reazionario” d’Italia !Peraltro, il re di Sardegna, in una prammatica del 1817, si era ripromesso diaddivenire ben presto alla redazione di nuovi codici, abbandonando così leleggi di antico regime. Ma tale progetto, viste le notevoli resistenze, non potràcompiersi che nel 1837, dopo 20 anni di immobilismo pressoché assoluto,rotto unicamente da un compilazione locale sarda (le “Leggi civili e criminali”del 1827) valida localmente e per niente innovativa sotto il profilo tecnico.Fino agli anni Trenta dell’Ottocento, quindi, i territori piemontesi, la Savoia ela Contea di Nizza saranno rette dal diritto di antico regime ; a Genovaresistevano invece il Code Napoléon e il Code de commerce ; in Sardegna vigeva lacompilazione del 1827.

L’avvento al trono, nel 1831, di Carlo Alberto – più aperto dei suoipredecessori - sbloccherà la situazione e consentirà l’emanazione di nuovicodici che daranno finalmente al Regno quell’unità giuridica mancata (interraferma) : il Codice civile del 1837 (la cui denominazione ufficiale sarà“Codice civile per gli Stati in terraferma del Re di Sardegna”), il Codice penaledel 1839, il Codice di commercio del 1842 e il Codice di procedura penale del1847. Il tutto fu frutto di un imponente, lungo e arduo lavoro di riforma,affidato da Carlo Alberto ad eminenti giuristi tra cui quel Federico Sclopische sarà l’autore, agli albori dell’Unità, di una famosa “Storia della legislazioneitaliana” e che difenderà contro ogni attacco, all’indomani della sua entrata invigore il 1° gennaio del 1838, il “suo” Codice civile.

Visto il regime bilingue del Regno e il rapido approntamento di una versionefrancese del Codice civile, esso era quello che più si prestava, infatti, ad essereletto a conosciuto all’estero. E critiche non mancheranno, tra l’altro,dall’ormai vecchio Portalis (l’autore del famoso “Discorso Preliminare” alCode Napoléon, vi ricordate?) sulle norme di privilegio per la chiesa cattolica(come la dichiarazione iniziale, ripresa un decennio dopo nello Statuto, dellareligione cattolica “religione dello Stato”) e sull’indebolimento della posizionesuccessoria delle figlie rispetto ai dettami del Code Napoléon ( che nelfrattempo – come si sa – era pur sempre in vigore in Francia, sebbene senzapiù divorzio).Il Codice civile piemontese del 1837 segue la partizione napoleonica in trelibri. Tra le sue norme – molte delle quali poi sorpassate dalla successivalaicizzazione e modernizzazione del regno a partire dagli anni ’50dell’Ottocento (cfr. infra) – la più nota resta senza dubbio quella, iniziale, delrichiamo ai “principi generali del diritto” come metodo per colmare eventualilacune ; una norma che fece scuola e che esiste ancor oggi nel Codice vigente!

Quanto al codice penale del 1839, esso è portatore di alcune importantimodifiche rispetto al Code pénal francese del 1810 : una più ristrettaapplicazione della pena di morte, la distinzione, ai fini delle pene da irrogare,tra delitto tentato e consumato, una maggiore articolazione dell’imputabilità aseconda della situazione del reo, maggiori poteri affidati al giudice nellostabilire le pene (con possibilità di applicare le circostanze attenuanti) rispettoalla rigidità applicativa del Code pénal (di cui spesso il magistrato divenivasemplice esecutore meccanico), e infine il computo della custodia preventivanella durata globale della pena. Il codice penale risente dei principi, cari airiformatori piemontesi dell’epoca, della rieducazione ed emenda del reo, percui rilevante diventa la condizione carceraria e l’importanza di migliorarla.Dal preambolo al codice è utile leggere che l’intento del Codice penale, adetta dei suoi compilatori, era infatti quello di dettare “leggi penali che, eguali pertutti, e fondate su regole certe, e tra di esse coordinate, dessero ai giudici sicure normenell’applicazione delle pene, lasciando loro però nella misura di esse quella discretalatitudine che la molteplice varietà di circostanze, non tutte dalla legge prevedibili, consigliadi confidare al prudente loro arbitrio. Ebbimo pure di mira di stabilire un’equaproporzione tra i reati e le pene, e che queste non solo inserissero al pubblico esempio, ma(…) pel miglioramento dei luoghi di detenzione fossero dirette all’emendazione deicolpevoli..” (Vinciguerra, p.356). Particolarmente dura resta comunque, in

omaggio alla stretta compenetrazione tra Stato e chiesa, la repressione deireati contro la religione cattolica.

Il codice del 1839 fu riformato nel novembre 1859 per renderlo adeguato aitempi : il Piemonte si era nel frattempo in buona parte laicizzato (leggiSiccardi, cfr. infra), e l’unificazione politica in corso imponeva uno sforzo diuniformizzazione con le leggi penali di altre regioni italiane. Il nuovo codicepenale, entrato in vigore il 1° gennaio 1860, riprenderà però in gran parte lenorme di quello precedente e costituirà la base della legislazione penalevigente in Italia (salvo che in Toscana) fino all’entrata in vigore del CodiceZanardelli (cfr. capitolo seguente, par. 13).

c) Il Ducato di Parma

Retto per un trentennio (1816-1847) dall’arciduchessa Maria Luisa d’Austria,seconda moglie di Napoleone, il Ducato di Parma potrà evitare, grazie ad unaclasse dirigente illuminata, gli eccessi del “ritorno al passato” del Piemonte: lacodificazione napoleonica vi resterà infatti in vigore senza soluzione dicontinuità fino all’emanazione dei nuovi codici civile, penale e di procedura,nel 1820.

Il codice civile parmense, giudicato da taluni studiosi (Ghisalberti, PadoaSchioppa) come il più pregevole tra tutti i codici preunitari, pur seguendostrutturalmente e ratione materiae il modello del Code Napoléon se ne allontanain talune parti (per Parma, vista la provenienza dell’arciduchessa e del suoconsigliere, il conte Neipperg, occorre parlare infatti di influenza di modelliaustriaci) : ad esempio, è abolito l’obbligo della dote per le figlie, e il regimepatrimoniale dei coniugi ridiventa (conformemente alla tradizione generale diius commune) la separazione dei beni.Quanto al (coevo) codice penale (adottato il 5 novembre 1820 e in vigore dal1° gennaio 1821), gli storici ne hanno a volte sottolineato (alla stregua diquello piemontese) una certa durezza, specie nei reati contro la religione, maanche una estrema articolazione in fattispecie ignote tanto al Code pénal del1810 che al codice penale del Regno delle Due Sicilie (1819) : la previsionedel sordo-mutismo come causa di diminuzione dell’imputabilità, le modalitàdi conversione delle pene pecuniarie in detentive, una specifica disciplina –con dovizia di distinzioni – della complicità nella commissione dei reati (ilCode pénal invece irrogava quasi invariabilmente la stessa pena all’autore e al

complice, e non distingueva tra più tipologie di complici) o ancora, nella partespeciale, le specifiche fattispecie del duello, della falsa moneta e dell’esercizioarbitrario delle proprie ragioni. Il legislatore penale piemontese del 1839 siispirerà a tali fattispecie che, accoltevi, si trasmetteranno, seppuremediatamente, nella legislazione penale del Regno d’Italia.

d) Il Ducato di Modena

Il Ducato di Modena si risolverà ad una codificazione moderna pochi anniprima dell’Unità con un codice civile, del 1852, e un codice penale, del 1855,emanati per volontà dell’ultimo duca, Francesco V. Quest’ultimo ebbepertanto almeno il merito di mitigare in extremis la severissima legislazionepenale e di polizia estense durata fino ad allora e provvida di fattispecie in cuiera in uso la tortura giudiziaria.

Modena fu quindi retta per quasi tutto il periodo della Restaurazione daquelle “Leggi e costituzioni per gli Stati Estensi” (detti comunemente “CodiceEstense”) emanate nel 1771 e richiamate in vigore nel 1814. Taluni storici deldiritto tendono a vedere nella estrema modernità del settecentesco CodiceEstense una sorta di “mitigazione” nella durezza di questo ritorno all’ancienrégime modenese. Come infatti ha acutamente notato il Bonini, il CodiceEstense si presentava già al suo nascere nel 1771 come un codice moderno epionieristico in quanto, contrariamente alle altre consolidazioni settecenteschedi materiali preesistenti, esso conteneva norme positive nuove eorganicamente strutturate.

e) Il Granducato di Toscana

Nel Granducato di Toscana (annesso all’impero napoleonico dal 1808 al1814) fu richiamato in vigore, alla caduta di Napoleone, il complesso delleantiche leggi granducali unitamente al diritto comune: ma il tutto siaccompagnò (diversamente da Modena o dai primi anni della restaurazionepiemontese) ad un’intensa opera di riforma da cui si poteva chiaramentecapire che il passato regime giuridico era orami tramontato: furono infattiaboliti i fedecommessi, gli statuti municipali, i feudi. Il Code de commerce,introdotto nel 1808, vi fu mantenuto, e fu, questo, un dato di grandeimportanza per la vita commerciale e mercantile della Toscana.

L’intento riformatore fu quindi presente e si accentuò con l’ultimo duca,Leopoldo II il quale, pur non riuscendo a varare un nuovo codice civile,emanerà almeno un codice penale in piena linea con la tradizionale mitezzadella penalistica toscana risalente all’ormai celeberrimo Codice Leopldino del1786 (primo nell’abolire la pena di morte : cfr. capitolo seguente, par. 13).

Questo codice penale “illuminato” (da cui sarà poi stralciata la pena di morteper decreto del governo provvisorio toscano costituitosi nel 1859 in attesadell’annessione al Regno d’Italia) resterà in vigore in Toscana fino al 1890 eavrà un profondo valore propulsivo del diritto penale postunitario: esso staràad indicare che là, in Toscana, e contrariamente al resto d’Italia, si eraconcretizzata una alternativa penale “progressista”.

Le pene vi erano nettamente più miti che negli altri codici della Restaurazionee nel Codice piemontese/italiano del 1859; i reati non erano più distinti,secondo la loro gravità, in crimini e delitti, ma considerati tutti,egualitariamente di fonte alla legge, come delitti – segno, anche questo, dimaggiore mitezza e dell’assenza di un “preconcetto punitivo”; contrariamenteall’archetipo francese e secondo la tradizione toscana si adottava quindi ilcriterio della bipartizione, e non più tripartizione dei reati; la pena capitalequando era prevista (e fino al 1859, come si è detto), lo era solo in rari casi(es. omicidi compiuti con particolare efferatezza); dovunque, infine, allignavapoi l’idea dell’emenda, e non già della punizione esemplare del colpevole.

f) Lo Stato della Chiesa

Nello Stato della Chiesa, come giustamente ha notato il Ghisalberti, “non siaccompagnò mai l’attuazione di un disegno legislativo di rifondazione di un organicosistema giuridico”, e né Papa Pio VII e l’illuminato cardinale Consalvi riuscironomai “a portare innanzi l’elaborazione di codici, opera questa naturalmente più difficilenello Stato Pontificio che il altri Stati anche per il peso che vi esercitava il diritto canoniconella vita civile e per la conseguente rilevanza assunta tradizionalmente da questo nelsistema delle fonti del diritto”.

Mancò, sostanzialmente, in quello che possiamo senza ombra di dubbiodefinire il “fanalino di coda” giuridico tra tutti gli Stati preunitari, l’idea divoler riformare in senso moderno ( e laico) il diritto. Mancarono poi anchequei dibattiti e (a volte) scontri tra “progressisti” e “conservatori” che altrove(come in Piemonte), seppure in ambito ristretto, avevano già caratterizzato eaccompagnato la nascita dei codici preunitari.

Videro la luce, certo, un codice di procedura civile nel 1817 e un codice dicommercio nel 1827, e, sotto il papato di Gregorio XVI (1831-1846) sivararono una riforma della procedura civile e penale nel 1831, e, nel 1835,addirittura un “Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili”. Ilfatto è però che tale opera ebbe sostanzialmente un carattere compilativo distampo settecentesco, che non abrogava il diritto comune, né gli statuti localie il diritto canonico. Né la breve vita della Repubblica romana del 1849 (cfr.capitolo seguente) riuscirà a sradicare tale stato di cose, ché si prolungheràsino all’annessione al regno d’Italia nel 1870.

g) Il Regno delle Due Sicilie

Si é scelto l’approccio geografico da nord a sud per parlare dei codici deglistati italiani preunitari, ma occorre ora tenere ben presente che il Regno diNapoli, qui trattato per ultimo, fu invece il primo in ordine cronologico adarsi una codificazione civile, penale, di procedura. E fu una codificazioneper molti aspetti non troppo retrograda rispetto all’archetipo francese invigore sino al 1815. Ovvio, quindi, che tale codificazione fosse poi imitata inaltri Stati della penisola (specie in Piemonte).

A Napoli, nonostante il ritorno dei Borboni sul trono nel 1815 e la fine delperiodo di regno del cognato di Napoleone, Gioacchino Murat (econtrariamente a quanto accadde in Piemonte, a Modena o a Roma) non vi fualcun greve revival di passati ordinamenti: semplicemente, i codici francesipoterono restare in vigore (ad eccezione delle norme sul divorzio, subitoabrogate) fino a quando non furono sostituiti, nel 1819, da un corpo di leggicivili, penali e di procedura chiamato, nel suo insieme, “Codice per lo Regnodelle Due Sicilie”. Nel regno che la pubblicistica italiana successiva(influenzata dagli eventi del 1848-48 e dalle repressioni poliziesche degli anniseguenti) dipinse come la quintessenza della “reazione” e dell’anti-liberalismo,il modello codicistico di importazione francese ( e austriaca) fu dunqueaccettato senza riserve, riprodotto e ....imitato in altri stati !

Re Ferdinando I istituì il 2 agosto 1815 una commissione incaricata diredigere una nuova codificazione. Ne fecero parte anche giuristi attivi duranteil decennio napoleonico (come Donato Tommasi, ex allievo di GaetanoFilangieri). Già questo fatto, oltre all’incarico della commissione illustrato neltesto del decreto reale di nomina, rende evidente che non si voleva ritornaretout court al passato; al contrario, il futuro corpus di leggi avrebbe dovuto essere“adatto all’indole dei nostri popoli, allo odierno stato della civilizzazione”, e garantire “il grande oggetto della sicurezza delle persone e della proprietà”.

Anche dal punto di vista formale, e nell’impianto strutturale, le analogie congli archetipi francesi sono evidenti. Basti dire che il “Codice per lo Regnodelle Due Sicilie”, proprio come i cinq codes francesi di epoca napoleonica, sisuddivideva in cinque parti (civile, penale, di procedura “ne’ giudizi civili”, edi procedura “ne’ giudizi penali”, commerciale) ma si presentava formalmentein veste unitaria. Nella sostanza, poi, si può rilevare come il “Codice”,perlomeno nella parte civilistica, accetti di mantenere in vita quanto dellenuove conquiste civili non era incompatibile con la Restaurazione. I suoiredattori non potevano certo, a Napoli, ignorare le novità del decennionapoleonico (1806-1814) di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, e inparticolare l’abolizione degli istituti feudali!Così, per citare due esempi, le “Leggi civili” mantengono il regime di liberaproprietà oramai instaurato, rendendolo di fatto irreversibile, e garantisconol’eguaglianza civile e giuridica. E accolgono, disciplinandolo negli effetti eforme di pubblicità, una tipologia di matrimonio civile incompleto e menoarticolato rispetto a quello regolato dalla famosa “patente” di Giuseppe II del

1783 nonché rispetto al Code Napoléon, ma pur sempre distinto dalmatrimonio canonico.

Quanto alle “Leggi penali”, esse seguono la falsariga del Code pénal del 1810(con ad esempio la tripartizione dei reati in crimini, delitti e contravvenzioni),discostandosene in taluni punti come le pene (severe) per i reati contro lareligione e la (diffusa) applicazione della pena di morte.Vengono tuttavia introdotte figure che, totalmente inesistenti nel Code pénal,diverranno poi, per imitazione ed accoglimento in altri codici, patrimoniocomune della penalistica italiana : ci riferiamo alla distinzione, ai fini dellepene, tra reato consumato e reato tentato (o addirittura mancato), alladettagliata disciplina della complicità nel reato (in cui i complici sisuddividono in varie categorie : mandanti, istigatori ecc.), ed infine allarinuncia alla pena fissa, cara al Code pénal, con una articolata previsione dicircostanze attenuanti oggetto di più libera valutazione da parte del giudice.

Concludendo questa veloce disamina dei codici della Restaurazione, possiamofocalizzare alcuni punti importanti :

a) la derivazione, come si é ampiamente visto, da modelli francesi, benpresto imitati largamente e quindi sempre meno posti in discussione coltempo anche negli stati più “reazionari”. E qui, l’esempio “propulsore”e di “accettazione” di tali modelli fornito dal Regno di Napoli già nel1819 é innegabile;

b) il maggiore prestigio goduto dal Code Napoléon rispetto al Code pénal : ilegislatori italiani, primo fra tutti quello di Napoli – per non parlaredella Toscana e della sua grande tradizione penalistica – non esiterannoad opporre infatti al Code pénal del 1810 figure ed istituti totalmenteinesistenti oltr’Alpe (lo si é detto : bipartizione dei reati, distinzione trareato consumato e tentato, complicità, disciplina più dettagliata dei varicasi di imputabilità, a volte riduzione drastica dei casi di previsione dellapena capitale ecc.).

c) La presenza, in materia penale, di norme “antiliberali”, che rivelano unforte influsso della religione dominante e hanno il sapore di una sorta di“braccio secolare” - nel senso dell’alleanza trono-altare : si pensi, adesempio, alla dura punizione del prestito ad usura, modellata sullaperdurante condanna canonistica del prestito ad interesse. Tutti i codici

penali preunitari sanzionano l’usura (seguendo peraltro una falsarigapunitiva tracciata dalla legge francese del 1807), e occorrerà giungereall’unità d’Italia e alla “laicizzazione” del diritto e dello stato perché talesanzione cada in nome del principio della libertà di contrarre, e dellalibera fissazione degli interessi (lasciando peraltro insoluta questa gravepiaga sociale).

d) Infine, la totale inadeguatezza politica di tali opere codificatorie con ilprogredire del Risorgimento italiano e l’affermarsi di ideali politici piùschiettamente liberali e costituzionali. Come ebbe a scrivere uno dei piùfamosi teorici del costituzionalismo moderno, Benjamin Constant,commentando la “Scienza della Legislazione” di Gaetano Filangieri, évana speranza pretendere che “delle buone leggi bastino ad assicurare lasicurezza e la generale prosperità, senza bisogno di istituzioni costituzionali volte aproteggere queste stesse leggi. Sarebbe come pretendere che le fondamenta di un edificiosiano superflue per la sua solidità”.

15. L’Italia unita e il Codice civile del 1865.

Gli eventi che portarono all’unificazione politica dell’Italia subirono, come ében noto, una rapida accelerazione tra il 1859 e il 1860 : dapprima la guerracontro l’Austria del 1859, e successivamente, tra il 1859 e il 1860,l’instaurazione di governi provvisori nell’Italia centrale abilmente diretti dietrole quinte dal Cavour e dai suoi collaboratori (con la forzata, ma tuttosommata benevola acquiescenza della Francia di Napoleone III, poi“ricompenasata” con l’annessione della Savoia e di Nizza) e la dirompenteSpedizione dei Mille garibaldina – anch’essa alla fine ricondotta nell’alveodella politica di annessione diretta dal Piemonte – fecero si’ che, il 17 marzodel 1861, con la proclamazione dell’unità italiana da parte del Parlamentoriunito a Torino, un nuovo, eterogeneissimo paese si aggiungesse al contestoeuropeo.

Ben si espresse allora il D’Azeglio con la famosa frase “fatta l’Italia, occorrefare gli italiani”, per sintetizzare la situazione di un paese che necessitava intempi rapidi dell’allestimento di una solida intelaiatura giuridica volta acementare e rendere irreversibile l’unificazione politica raggiunta.

Come unificare giuridicamente l’Italia? Diciamo subito che, nel campo deldiritto penale, l’unificazione si farà attendere per un trentennio, vale a direfino al 1° gennaio 1890, data dell’entrata in vigore del Codice Zanardelli (perquesti aspetti, cfr. il capitolo seguente, paragrafo 13). Per il dirittocommerciale (per cenni esaustivi in tale materia cfr. il paragrafo precedente),il diritto civile e la vasta legislazione amministrativa (tra cui farà spicco lalegge abolitrice del contenzioso amministrativo, cfr. capitolo seguente),invece, l’opera poté dirsi compiuta già nel 1865, ma le scelte da compiere pergiungervi non furono scontate.

Occupiamoci in particolare della codificazione civile, che avrà a suocoronamento il Codice Pisanelli del 1865. Come ci si arrivò? Diverseopzioni, pure teoricamente possibili, furono scartate : così, non si rinunciòad un diritto codificato, ché tale esperienza durava in Italia da ormai uncinquantennio ; né si sceglierà come codice unitario – opzione politicamenteimpraticabile - uno dei codici ancora in vigore negli stati preunitari ( é notoche Federico Sclopis, già protagonista della codificazione piemontese, avevaproposto, con grande imparzialità di scegliere il codice napoletano!), oaddirittura lo “straniero” Code Napoléon. Scartata fu anche, dopo poco tempo,una delle ipotesi più “solide”, consistente nell’estendere il codice civilepiemontese del 1837 al resto del territorio italiano. Il codice piemontese fuesteso unicamente alle province pontificie conquistate e annesse nel 1860(Romagna, Marche, Umbria), visto il vuoto legislativo che colà esisteva, ma fuuna mera soluzione transitoria in attesa di un codice unico, poiché gli altriterritori poterono mantenere in vigore i codici preunitari. Man mano che irappresentanti dei territori annessi al nuovo regno confluirono poi a Torino ecominciarono a partecipare alle discussioni su un codice unico, nonmancarono polemiche e dure prese di posizione contro l’eccessiva“piemontesizzazione”, per cui si paventava – e alla fine si rintuzzò – ilpericolo di un’estensione ipso facto del codice piemontese.I progetti di codice civile unico, comunque, si succedettero alla Camera deideputati e al Senato (siti a Torino fino al trasferimento della capitale a Firenzenel 1865), presentati volta a volta dai guardasigilli Cassinis, Miglietti, Pisanelli,Vacca. La svolta si ebbe nel 1864, allorché, per accelerare i tempi, si ricorse(per la prima volta nel neonato Regno d’Italia) allo strumento della legge-delega (é noto che tale metodo diverrà poi prassi; se ne ricorreràcostantemente, dal Codice Zanardelli sino al recente codice di procedurapenale del 1989). In tal modo, promulgato nel gennaio del 1865, il Codice

civile (chiamato “Codice Pisanelli” dal nome dell’ex guardasigilli che ne furelatore in Parlamento) poté entrare in vigore il 1° gennaio 1866. Nelfrattempo, erano entrati in vigore la legge sull’unificazione legislativa (2aprile 1865) e, nello stesso anno, il nuovo codice di commercio, modellato suquello piemontese del 1842.

Tecnicamente, il Codice Pisanelli riecheggia immediatamente l’archetipo delCode Napoléon (che a sua volta ha però alla base, lo ripetiamo, lo schemaromanistico della tripartizione in personae, res et actiones). Comunque sia,all’epoca non si mancherà di evidenziare che la derivazione del nuovo Codicedal modello napoleonico nasceva da una “adesione” di entrambi allo schemaromanistico, presentato da una parte non trascurabile della nostrapubblicistica come “diritto patrio”, di tradizione cioé schiettamente italiana).

L’opera é divisa in tre libri, dedicati rispettivamente alle persone (libro primo),ai beni e alla proprietà (libro secondo) e ai modi di trasmissione dei beni,della proprietà e degli altri diritti (libro terzo). Anche nel Codice Pisanelli,infatti, la proprietà, diritto assoluto, ha sicuramente un ruolo da protagonista ;e purtuttavia, qualcosa si riesce ad innovare anche rispetto al Code francese: adesempio, si introduce il concetto di proprietà intellettuale, e si disciplina latrascrizione a garanzia della certezza del diritto nei trasferimenti immobiliari.

In tema di diritto di famiglia, il Codice Pisanelli innova rispetto alle scelteeccessivamente retrive di taluni codici preunitari. Il Bonini ha osservato cheesso si colloca “a mezza via fra i principi più avanzati del Code Napoléon e i ritorniall’”indietro registratisi all’epoca della Restaurazione”. Così, il divorzio non vi éintrodotto. In omaggio però al principio, liberale e cavouriano, dellaseparazione tra Stato e chiesa, vi trova spazio (e nasce così nell’Italia unita)una compiuta disciplina del matrimonio laico civile, totalmente slegato eaffrancato da qualsiasi ipoteca religiosa (si tenga presente, d’altronde, chespesso nella storia dell’Italia liberale l’opposizione al divorzio fu giustificataadducendo una maggiore tutela per la donna, in una società in cui il lavorofemminile oltre le mura domestiche non era certo ancora moneta corrente).

Non fu soppressa l’autorizzazione maritale (presente nel Code francese, maassente nell’ABGB austriaco e quindi, fino ad allora, anche in Lombardia eVeneto), ma (novità assoluta) fu riconosciuta alla donna unacompartecipazione alla patria potestà, seppure in subordine al marito o incaso di sua impossibilità ad esercitarla. La comunione dei beni di napoleonica

memoria fu rigettata, e si mantenne l’istituto romanistico tradizionale delladote già presente nei codici preunitari. La patria potestà, infine, fu temperatada talune norme innovative : fu bandita ad esempio (e mai più ripristinata inItalia) la diseredazione, e semplificata la procedura per ottenere il consensopaterno al matrimonio.Si deve infine all’iniziativa di Pasquale Stanislao Mancini (eminente studiosodi diritto internazionale nonché uomo politico della Sinistra) l’articolo chedisponeva la parificazione dello straniero al cittadino quanto al godimento deidiritti civili.

All’adozione del Codice Pisanelli – che sarebbe quindi banale e riduttivoconsiderare una mera imitazione del Code, viste le novità apportate - seguiràuna relativa stasi nella riforma del diritto civile italiano, quasi che la civilisticasi reputasse paga del risultato raggiunto. La prima modifica avvenne nel 1877,con la legge che aboliva l’arresto per debiti (mentre la diffusa piaga dell’usura,cadute ormai le norme di derivazione canonistica accolte spesso nei codicipreunitari e sancita la libertà dei tassi di interesse come corollario della libertànegoziale, non trovava più una sanzione specifica se non nella classica normasulla rescissone dei contratti per lesione ultra dimidium). In seguito, nonmancheranno – soprattutto - progetti di legge sul divorzio, presentati concadenza quasi regolare ma mai coronati da successo, e, dagli anni Ottantadell’Ottocento, si acuirà la critica “sociale” ad un codice che sarà ormaiaccusato di ignorare, con la sua “divinizzazione” della proprietà, l’emergeredirompente della “questione sociale”.

Occorrerà attendere la fine della prima guerra mondiale – in un contestopolitico-sociale totalmente mutato, caratterizzato da una mutata sensibilitàper la “questione sociale”, dallo sviluppo di norme sul c.d. “welfare” edall’irruzione delle “masse” nella vita politica, preludio tuttavia al fascismo -per assistere ai primi organici disegni di riforma del diritto civile, forieri dellapreparazione di quel codice civile del 1942 che é tuttora il codice vigente inItalia.