Canto Liberoche sono vivi oggi è nato dal 20% di chi era vivo in passato. Insomma, ci troveremmo di...

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1 Canto Libero Opinioni, approfondimenti, idee da condividere tra amici Grani di sale Ormai ce lhanno detto in tutte le salse, ma la notizia non sembra allarmare più di tanto: nessuno al mondo fa meno figli dellOccidente opulento. Lo storico francese Pierre Chaunu è giunto addirittura a parlare di peste bianca”, per evocare le conseguenze disa- strose prodotte sul piano de- mografico dalla peste nera. Ma con un aggravante: nel XIII secolo il morbo colpì un terzo della popolazione conti- nentale, costituita da giovani e da vecchi. Ora la sterilità vo- lontaria si abbatte per forza di cose solo sui giovani, aumen- tandone limpatto devastante. E lItalia, con un tasso di fe- condità per donna sceso ad 1,34 (1,27 se si escludono le straniere, meno dell’1 se si considera solo il Nord), occu- pa gli ultimi posti in Europa. Se nel 1950 il nostro Paese era al 10° posto della classifi- ca mondiale per numero di abitanti, ora è sceso al 23°. Ed anche lOnu inizia ad inte- ressarsi di noi. Secondo la Population Division del De- partment of Economic and Social Affairs, gli italiani sono un gruppo etnico in via de- stinzione. La sua popolazione, se non si invertisse questo trend negati- vo, potrebbe scendere, dagli attuali 60 milioni di individui, a 40 nel 2050, ed a circa 10 alla fine del secolo. In Valle dAosta, negli ultimi 10 anni, le nascite sono calate del 25%, in provincia di Bre- scia del 30%, in Veneto del 20%. Perché questi picchi negativi che superano addirittura quelli registrati nel corso della prima guerra mondiale, quando le condizioni di vita nel nostro Paese non erano certo miglio- ri di quelle attuali? Il declino si è accentuato a partire dal 2008, in concomi- tanza con la crisi economica che ha investito lItalia, ma è in atto dalla fine degli anni settanta, e non sembra legato a fattori transitori e passegge- ri, bensì strutturali. Le poten- ziali madri di oggi sono quelle nate negli anni ottanta, quan- Lincubo della denatalità in Italia Quando tutto il mondo fu citta- dino romano, Roma non ebbe più cittadini, e quando cittadino romano divenne sinonimo di cosmopolita, non si amò più né Roma né il mondo. Lamor patrio di Roma, divenu- ta cosmopolita, divenne indiffe- renza, inattività, nullità. E quando Roma si identificò con il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo dimostrarono coi fatti. Giacomo Leopardi Lultima cosa al mondo che dovremmo desiderare è che tutti si uniformassero alle no- stre abitudini caratteristiche. Questa terra non sarebbe più la nostra patria se cessassimo di distinguerci dalle altre. C. S. Lewis

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Canto Libero

Opinioni, approfondimenti, idee da condividere tra amici

Grani di sale

Ormai ce l’hanno detto in tutte le salse, ma la notizia non sembra allarmare più di tanto: nessuno al mondo fa meno figli dell’Occidente opulento. Lo storico francese Pierre Chaunu è giunto addirittura a parlare di “peste bianca”, per evocare le conseguenze disa-strose prodotte sul piano de-mografico dalla peste nera. Ma con un aggravante: nel XIII secolo il morbo colpì un terzo della popolazione conti-nentale, costituita da giovani e da vecchi. Ora la sterilità vo-lontaria si abbatte per forza di cose solo sui giovani, aumen-tandone l’impatto devastante. E l’Italia, con un tasso di fe-condità per donna sceso ad 1,34 (1,27 se si escludono le straniere, meno dell’1 se si considera solo il Nord), occu-pa gli ultimi posti in Europa. Se nel 1950 il nostro Paese era al 10° posto della classifi-ca mondiale per numero di abitanti, ora è sceso al 23°. Ed anche l’Onu inizia ad inte-ressarsi di noi. Secondo la Population Division del De-

partment of Economic and Social Affairs, gli italiani sono un gruppo etnico in via d’e-stinzione. La sua popolazione, se non si invertisse questo trend negati-vo, potrebbe scendere, dagli attuali 60 milioni di individui, a 40 nel 2050, ed a circa 10 alla fine del secolo. In Valle d’Aosta, negli ultimi 10 anni, le nascite sono calate del 25%, in provincia di Bre-scia del 30%, in Veneto del 20%. Perché questi picchi negativi che superano addirittura quelli registrati nel corso della prima guerra mondiale, quando le condizioni di vita nel nostro Paese non erano certo miglio-ri di quelle attuali? Il declino si è accentuato a partire dal 2008, in concomi-tanza con la crisi economica che ha investito l’Italia, ma è in atto dalla fine degli anni settanta, e non sembra legato a fattori transitori e passegge-ri, bensì strutturali. Le poten-ziali madri di oggi sono quelle nate negli anni ottanta, quan-

L’incubo della denatalità in Italia

Quando tutto il mondo fu citta-

dino romano, Roma non ebbe

più cittadini, e quando cittadino

romano divenne sinonimo di

cosmopolita, non si amò più né

Roma né il mondo.

L’amor patrio di Roma, divenu-

ta cosmopolita, divenne indiffe-

renza, inattività, nullità.

E quando Roma si identificò

con il mondo, non fu più patria

di nessuno, e i cittadini romani,

avendo per patria il mondo,

non ebbero nessuna patria, e

lo dimostrarono coi fatti.

Giacomo Leopardi

L’ultima cosa al mondo che dovremmo desiderare è che tutti si uniformassero alle no-stre abitudini caratteristiche. Questa terra non sarebbe più la nostra patria se cessassimo di distinguerci dalle altre. C. S. Lewis

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quando il boom demografico

era ormai finito e la denatalità

era già un fenomeno in atto.

Del resto una ricerca islandese

dimostra che l’80% di coloro

che sono vivi oggi è nato dal

20% di chi era vivo in passato.

Insomma, ci troveremmo di

fronte ad una trappola micidia-

le: meno madri = meno figli,

meno figli oggi = meno madri

domani, e così via. Dati indub-

biamente veri, perché fondati

su statistiche rigorose, ma che,

da soli, non sono in grado di

spiegare fino in fondo il feno-

meno.

La risposta fornitaci dai sociolo-

gi, al riguardo, è semplice e

drammatica al tempo stesso: i

figli sono bellissimi, ma poco

convenienti, e in una società

che sembra promuovere solo la

convenienza, metter su famiglia

non è una bella idea. I figli co-

stano e rendono più difficile

godersi la bella vita. Dunque la

denatalità è principalmente ri-

conducibile ad un fenomeno

culturale, peraltro già manife-

statosi in passato, come nella

Roma della tarda età imperiale

o nella Grecia classica.

Come asserisce il sociologo

francese Henry Mendras ci tro-

viamo di fronte ad una rivolu-

zione ideologica che rischia di

mettere in pericolo la civiltà

italiana, perché, come la storia

insegna, i popoli possono an-

che estinguersi. “Abbiamo sem-

pre più auto, gadget, vacanze e

metri quadri a nostra disposi-

zione, ma meno figli che possa-

no goderne”. Se in passato chi

moriva senza figli era guardato

con compassione, ora viene

visto come una persone che ha

compiuto una scelta responsa-

bile.

In realtà, a ben vedere, si tratta

di un atteggiamento tipico delle

civiltà che hanno perso la vo-

glia di guardare con speranza

al domani, che teorizzano la

propria superiorità spirituale,

ma muoiono di apatia. Perché

quando il 40% della popolazio-

ne è formato da sessantenni la

società diventa passiva, priva di

ambizioni. E pensare di vivere il

presente senza preoccuparsi

del futuro non è semplicemente

assurdo, ma anche foriero di

conseguenze gravissime. Sen-

za giovani neppure gli anziani

potranno farcela. Non potrà

esserci alcun Welfare in grado

di sostenere un Paese costitui-

to prevalentemente da vecchi,

e, sebbene andrà ad accen-

tuarsi sempre più la tendenza a

posticipare l’età pensionabile,

le spese sanitarie diverranno

insostenibili, al punto tale che

eugenetica ed eutanasia ver-

ranno presentate come una

scelta altruistica.

Perché investire sulla ricerca

scientifica per prolungare la vita

di persone che nessuno sarà in

grado di mantenere? Un Paese

prevalentemente di vecchi, inol-

tre, sarà

un Pae-

se sem-

pre più

vulnera-

bile. Chi

dovrà

garantire

la sicu-

rezza in

città ri-

dotte a

case di riposo? Chi dovrà ga-

rantire la difesa dei confini di

una nazione che avrà sempre

meno soldati, e dovrà ricorrere

a mercenari stranieri? In tale

contesto la riduzione del ruolo

internazionale, economico e

politico dell’Italia è solo un co-

rollario conseguenziale. Certo, come viene indicato da

alcuni, non è detto che il suici-

dio demografico del Bel Paese

si accompagni necessariamen-

te al suo collasso economico,

se si sarà in grado di accogliere

migranti provenienti da altri

Paesi. Ma è di tutta evidenza

che ci troveremo di fronte ad

una realtà che non avrà nulla a

che vedere con l’Italia che co-

nosciamo noi, con la sua cultu-

ra, la sua identità, le sue tradi-

zioni. Potremmo anche conti-

nuare a chiamarla Italia, se ci fa

piacere e se i nuovi padroni

riterranno di doverlo fare, ma

sarà un’altra cosa.

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Ed in molti, fuorché i diretti inte-

ressati, sembrano averlo capito

bene. “Fate cinque figli per cop-

pia e sarete i padroni dell’Euro-

pa”, ha appena tuonato il presi-

dente Erdogan ai turchi presen-

ti nel Vecchio Contenente. Co-

me a dire: non abbiamo biso-

gno del vostro consenso per

aderire all’U.E, perché tra qual-

che anno potremmo prenderci

da soli ciò che ci interessa.

Di fronte a questa emergenza

nazionale, risulta incomprensi-

bile il silenzio delle istituzioni,

incapaci di mettere a punto

politiche sociali e tributarie a

sostegno delle famiglie con

figli.

Eppure in Francia, da oltre set-

tant’anni, progetti stabili ed a

lungo termine, stanno produ-

cendo i loro risultati. Le nascite

sono superiori del 60% alle

nostre, mentre la popolazione

di ultrasessantacinquenni è di 4

punti inferiore a quella italiana.

Insomma una sfida epocale di

cui anche i cattolici dopo le pro-

fetiche denunce del Cardinale

Biffi e di pontefici come Giovan-

ni Paolo II e Benedetto XVI,

dovrebbero tornare ad occupar-

si.

Perché il vero problema non

sembra solo quello di una più

equa ridistribuzione di ricchez-

ze tra ricchi e poveri, ma tra vivi

e non ancora nati.

Un problema enorme in un

Paese che ha lasciato una vo-

ragine di debito pubblico alle

generazioni future.

Anche dalle colonne di Canto Libero ci siamo occupati del diritto di cittadinanza, per cer-care di capire se possa consi-derarsi più giusto mantenere lo jus sanguinis, attualmente in vigore nel nostro Paese, o sia meglio adottare lo jus soli. Crediamo, tuttavia, che il ricor-so a qualche esempio pratico possa risultare più chiarificato-

re di ogni pur approfondita ana-lisi tecnica. Ipotizziamo che una coppia di nostri connazionali, tra i 120.000 che ogni anno sono costretti a lasciare l’Italia per trasferirsi all’estero in cerca di lavoro, si sposti momentanea-mente in un Paese dove sia in vigore lo jus soli. Se dovesse avere una figlia, questa impa-

rerà a parlare la lingua dei suoi genitori, cono-

scerà dai suoi nonni la storia recente dell’Italia, respirerà, anche a tavola, la nostra cultu-ra, vivrà secondo le nostre usanze e le nostre tradizioni. Se rimanesse in vigore la no-stra attuale legislazione, sarà anche cittadina italiana e potrà vedere tutelati i propri diritti dai Consolati italiani all’estero, ai quali potranno rivolgersi i suoi

genitori per vedere ricono-sciuta la propria potestà geni-toriale. Ma se il governo di Roma dovesse adottare lo jus soli, quella bambina avrà la cittadinanza del Paese in cui è nata. Così, se la sua famiglia, l’an-no successivo, dovesse rien-trare in Italia, lei sarà una straniera.. Ipotizziamo, al contrario, che una famiglia di migranti, ap-prodata in Sicilia in attesa di potersi trasferire nel nord Eu-

Figli di una civiltà o di viaggiatori occasionali?

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L’orto delle delizie

* Il Comune di Noli vuole dedi-care una targa commemorativa a Giuseppina Ghersi, una ra-gazzina di 13 anni stuprata ed uccisa dai partigiani? No, era solo una fascista!! Povia vuole fare un concerto a Trezzano sul naviglio? No, non è politica-mente corretto. ANPI (Associazione Nazionale Parti-giani d’Italia), sorta per difende-re democrazia e libertà, e di-ventata la parodia di se stessa.

* Vuole cambiare la toponoma-stica italiana per cancellare nomi e personaggi a lei sgraditi. Fa a pugni con la grammatica per renderla conforme ai canoni dell’ideologia di genere. Inten-dere stravolgere l’urbanistica di Paesi e città per per dare loro un’impronta meno maschilista. Laura Boldrini, la Presidenta della Camera che ambisce a vedere il suo nome annoverato nei libri di storia, ma deve ac-contentarsi di vederlo citato in tutte le barzellette.

abbia anch’essa un figlio. Anche lui parlerà la lingua dei suoi genitori, sentirà raccontare le storie del suo Paese di origi-ne, sarà educato alla sua reli-gione, vestirà probabilmente all’orientale, e, arrivato in Ger-mania o in Svezia, non avrà nessun ricordo del nostro Pae-se. Ma in forza dello jus soli, ne avrà la cittadinanza, al raggiun-gimento della maggiore età acquisirà il diritto di voto, che potrà esercitare iscrivendosi all’anagrafe degli italiani all’e-stero, e potrà candidarsi alle cariche pubbliche del nostro Paese. Vi pare ispirata a principi di giustizia una riforma di questo tipo? Ma, si potrà obiettare, lo jus sanguinis, con i suoi richiami ai legami familiari, è ormai anacronistico in un mondo in cui le comunità nazionali si sfaldano, le famiglie si disgra-gano, i rapporti sono sempre più fluidi, e gli spostamenti più costanti. Forse è vero, ma separare la cittadinanza del figlio da quella dei genitori è molto pericoloso, e dà luogo ad una serie di aberrazioni che pochi cono-scono. Ritorniamo allora al metodo degli esempi, per illustrare un

paio di casi significativi. Se la nostra famigliola italiana, la cui figlia, nata all’estero, è priva della cittadinanza italiana, finisse in un Paese dove la stessa potesse essere presa in sposa a 12 anni, cosa potreb-bero fare i suoi genitori per pro-teggerla? Prevarrebbe la tutela della potestà genitoriale ricono-sciuta dal diritto italiano, o il rispetto del diritto del Paese di cui la minore è cittadina? Secondo caso pratico, assai frequente ma sottaciuto all’opi-nione pubblica. Il Paese più importante tra quelli che applicano lo jus soli

sono gli Usa. Molte donne sono attratte dall’idea di andarvi a partorire per poter dare al figlio la cittadinanza statunitense. Peccato, tuttavia, che l’ingres-so nel territorio dello Stato deb-ba avvenire legalmente. Se avviene clandestinamente si determina una conseguenza che ha dell’incredibile: la ma-dre, dopo il parto, viene imme-diatamente espulsa perché clandestina, ma tale provvedi-mento non può essere applica-to al figlio, cittadino statuniten-se, che quindi potrà essere reso adottabile. Vogliamo introdurre anche a casa nostra questa legislazio-ne? No di certo, risponderanno i ben pensanti. Possiamo atte-nuare le conseguenze negative dello jus soli applicando il prin-cipio del ricongiungimento fa-migliare. Ma ciò equivarrebbe ad intro-durre, per legge, un principio che consente la violazione del-la legge contro l’ingresso clan-destino. Non è allora più equilibrata ed equa la legislazione sullo jus sanguinis, che legando la citta-dinanza ai rapporti di parentela, ne fa un fattore identitario e non un freddo dato burocrati-co?

No allo jus soli

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Ruta Sepetys

Avevano spento anche la luna

Ed. Garzanti Lina ha appena compiuto quindici anni quando scopre che basta una notte per cam-biare il corso di tutta una vita. E' il 14 giugno del 1941 quan-do la polizia sovietica irrompe con violenza in casa sua, in Lituania. Verrà deportata con la madre ed il fratellino, e, ammassata con centinaia di persone su un treno, inizia un viaggio senza ritorno tra le steppe russe. Settimane di fame e di sete fino all'arrivo in Siberia, in un campo di lavoro dove tutto è grigio. Dove il freddo uccide e non resta niente, se non la polvere della terra che i de-portati sono costretti a scava-re, giorno dopo giorno. Ma c'è qualcosa che non pos-sono togliere a Lina. La sua dignità, la sua forza, la luce nei suoi occhi. E il suo corag-gio, che si esprime in disegni, realizzati di nascosto, perché il mondo, un giorno, possa sapere. Ispirato ad una storia vera, il romanzo spezza il silenzio su uno dei più terribili genocidi della storia, che i pochi so-pravvissuti cercano oggi di raccontare nel disinteresse generale.

L’edicola

della cultura

Il prossimo 22 ottobre in Lombardia (ed in Veneto) si terrà un referendum consultivo sul seguente quesito: “Volete voi che la Re-gione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’Unità na-zionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attri-buzione di ulteriori forme e con-dizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 116 III comma della Costituzione, e con riferimento ad ogni materia legislativa per cui tale procedi-mento sia ammesso in base all’articolo richiamato?” Si tratta di una consultazione alla quale possono partecipare tutti i cittadini residenti ed iscritti nelle liste elettorali della Regio-ne, che sarà valido a prescin-dere dal quorum raggiunto. Il referendum, di fatto, è soste-nuto, pur con sfumature diver-se, dai maggiori partiti (centro-destra, M5S, centro-sinistra), dopo che il Pd, superata l’inizia-le contrarietà, si è detto favore-vole per bocca dei suoi sindaci più rappresentativi (Sala e Go-ri). L’iniziativa mira a garantire alla Lombardia maggiori spazi d’a-zione rispetto alle competenze ordinarie, senza che ciò com-porti il riconoscimento dello “statuto speciale”, che oggi ap-pare anacronistico anche per le regioni che lo possiedono. Si va dalla riorganizzazione della giustizia di pace alle nor-me generali sull’istruzione, dal-la tutela dell’ambiente ai beni culturali, dal commercio con l’estero alla protezione civile, dalla produzione e distribuzione dell’energia al coordinamento del sistema tributario. La “specialità regionale”, citata anche nel quesito, sembra rife-rirsi al suo disavanzo fiscale, consistente nel fatto che, ogni anno, la Lombardia eroga allo

Stato 56 miliardi di euro in più di quanti ne riceva. E ciò non sarebbe dovuto solo alla sua struttura industriale, che ne fa, insieme a Catalogna, Baden-Wurttemberg e Rhone-Alpes, uno dei 4 motori dell’economia reale europea, ma soprattutto alla sua eccellenza amministra-tiva. Una eccellenza in grado di mi-gliorare ulteriormente, attraver-so il reinvestimento sul territorio della maggior parte delle ric-chezze prodotte, per incremen-tarne i servizi e porsi come esempio per il resto del Paese. In caso di esito positivo, quindi, si aprirà un tavolo di trattative con il Governo, al quale seguirà una proposta di legge concor-data tra Stato e Regione da sottoporsi ai due rami del Parla-mento.

Un referendum per la Lombardia

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La storia occultata

Nel scorso del 2016 sono sbarcati in Italia oltre 180.000 clandestini. In 123.000 hanno presentato domanda per l’asse-gnazione dello status di rifugia-to, che è stato riconosciuto e concesso in 4940 casi. Il 23% delle persone che l’han-no ottenuto proviene dall’Eri-trea, che vanta il triste primato di costituire la più numerosa comunità di rifugiati presente nel nostro Paese. Eppure quando sentiamo parla-re di profughi di guerra il pen-siero corre subito alla Siria o all’Irak, non certamente al pic-colo Paese del Corno d’Africa. Perché? Cosa sta succedendo in quell’angolo di mondo da co-stringere migliaia di uomini ad attraversare il Sahara, a conse-gnarsi nelle mani dei trafficanti di uomini, a dilapidare i risparmi di una vita ed a mettersi in ma-re su gommoni di fortuna, pur di arrivare nella tanto agognata Italia? In fondo, della piccola Eritrea, il cui nome greco (Erythraia) ve-niva utilizzato nell’antichità per designare il Mar Rosso e che vanta una storia antichissima, sappiamo effettivamente poco. Ci è noto che venne abitata da popolazioni provenienti dall’A-rabia attorno al 1000 a.c., che conobbe la nascita e lo svilup-po del Regno Axumita, la cui espansione giunse fino a toc-care i territori dell’attuale Ye-men. Che abbracciò il cristianesimo, ma, a partire dalla seconda metà del 1500 venne assogget-tata all’Impero Ottomano, con l’islam che penetrò nella fascia costiera, ma non riuscì a scalfi-

re la fede delle popolazioni degli altopiani. Ma l’Eritrea entra ufficialmente nei libri di storia, al-

meno di quella più recente, solo con l’apertura del Canale di Suez, quando la ne-cessità di costituire scali maritti-mi nel corno d’Africa spinse l’armatore genovese Raffaele Rubattino, nel 1869, a siglare un accordo con il Sultano loca-le, per l’acquisizione della baia

di Assab. La successiva cessione della stessa, un decennio dopo, al Governo italiano, l’acquisizione di altre importanti città portuali, come Massaua, e la penetra-zione nell’entroterra, portò alla nascita di quella che, nel 1890, venne ufficialmente dichiarata la prima colonia italiana. Con l’inevitabile strascico di tensioni con l’Egitto inglese, dai cui territori meridionali (attuale Sudan), partivano le spedizioni armate dei Dervisci islamici, per il rapimento di eritrei da depor-tare e ridurre in schiavitù, e con l’Etiopia, che si riteneva ammi-nistrativamente responsabile dell’area. Furono proprio gli italiani ad annientare definitivamente i Dervisci, e sotto la lungimirante amministrazione del Governa-tore Ferdinando Martini, a rea-lizzare importanti investimenti che attrassero anche capitali stranieri. Fu incoraggiato, con l’assegnazio-ne di terre e la concessione di aiuti economici, il rientro di molti profughi eritrei dal Tigray, furono liberati gli ultimi schiavi in mano alle tribù dancale,

venne istituita una limitata am-ministrazione indigena con la costituzione del Consiglio degli anziani, ma, soprattutto, si pro-cedette all’arruolamento di trup-pe indigene locali (ascari), de-stinate progressivamente ad inquadrarsi nelle strutture mili-tari italiane, come il corpo fore-stale, i Carabinieri, la guardia di Finanza, e, naturalmente l’eser-cito. Ma il vero punto di svolta, che consentì all’Eritrea di diventare la più sviluppata ed industrializ-zata tra le colonie italiane, av-venne col fascismo. Vennero costruiti migliaia di chilometri di strade e ferrovie, a volte considerate prodezze in-gegneristiche per le difficoltà che il territorio presentava, si ammodernarono i porti, le città furono pianificate e sviluppate secondo precisi dettami urbani-stici ancor oggi visibili ad oltre settant’anni di distanza. Sotto la guida dell’Istituto Coloniale Agricolo, si incrementò l’agricol-tura, fu organizzato il sistema scolastico e l’assistenza sanita-ria, con la costruzione di ospe-dali e presidi sanitari volti alla profilassi delle malattie tropicali. Ed il legame tra italiani ed eri-trei, anche grazie al sentimento di fedeltà e di riconoscenza che gli ascari dimostrarono nei nu-merosi conflitti affrontati dal nostro Paese, crebbe.

In fuga dall’inferno eritreo

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Basti considerare che la capita-le Asmara, costruita in soli 5 anni e considerata uno dei 20 luoghi riconosciuti come patri-monio dell’umanità dall’Unesco, contava 98.000 abitanti, di cui 53.000 italiani. Tutti dati ovvi, per che ha l’one-stà di guardare alla storia sen-

za paraocchi, ma messi al ban-do dai testi scolastici, intenti solo a denunciare gli errori del colonialismo sorvolando sulle conseguenze gravissime della decolonizzazione. Possiamo infatti dire che i guai, per l’Eritrea, iniziarono proprio con la fine del dominio italiano, quando la regione venne occu-pata dalle truppe inglesi, dive-nendo un protettorato britanni-co fino al 1952. La Gran Breta-gna, infatti, manifestò fin dall’i-nizio un sostanziale disinteres-se per la piccola nazione non solo smantellando e trasferen-do altrove molte infrastrutture industriali, ma, soprattutto, ce-dendo alle pretese dell’Etiopia, che ambiva a crearsi uno sboc-co sul mare. Il Negus etiope Hailè Selassiè, del resto, aveva schierato il proprio Paese a fianco delle potenze occidentali, e diveniva un prezioso alleato locale nell’imperversare della guerra fredda. Si decise così che l’Eri-trea dovesse diventare una regione federata dell’Etiopia, la quale, di fatto, non rispettò mai tale statuto, e si limitò ad annet-terne definitivamente i territori. E così le potenze occidentali, che in nome della difesa della sovranità abissina si erano

schierate contro l’Italia nel 1935, fecero orecchie ed occhi da mercante quando si trattò di difendere la sovranità eritrea dalle prepotenze di Addis Abe-ba. Si innescò così una guerra destinata a durare oltre trent’anni con continui colpi di scena. La caduta della monar-

chia etiope e la nascita di un regi-me di ispirazione marxista, infatti, aprì interessanti prospettive strate-giche per l’Urss, che iniziò ad ap-poggiare pesante-mente il nuovo alleato, mentre, a partire dagli anni settanta, influenze ideologiche crea-rono una preoccu-

pante spaccatura nel versante eritreo tra il Fronte di Liberazione Nazionale, tradi-zionalmente moderato, ed il Fronte Popolare comunista. Così l’ex colonia italiana, nel frattempo divenuta poverissi-ma, si trovò a dover combattere su due versanti: quello esterno, con il Paese confinante, e quel-lo, tutto politico, interno. Ma la caduta del muro di Berli-no, il disimpegno sovietico e la collaborazione tra le diverse fazioni eritree rovesciarono le sorti del conflitto. Così nel 1991 la guerra terminò con la sconfit-ta dell’Etiopia, e nel 1993 un referendum sancì l’indipenden-za dell’Eritrea. Ma quella che poteva sembrare una nuova primavera si trasformò ben pre-sto in un buio inverno. Il capo del Fronte Popo-lare,

Afewerki, divenne capo del Paese, e, nel giro di poco tem-po instaurò una delle più feroci dittature oggigiorno presenti sulla terra. “Abbiamo combattuto gli etiopi per avere democrazia, libertà e sviluppo”, dicono molti profughi, “e invece ci troviamo un uomo solo al comando”. Dopo aver studiato in gioventù nella Cina di Mao Tze Tung, Isaias Afewerki rientrò infatti in patria deciso ad applicarne le teorie politiche comuniste, at-traverso la costituzione di un regime staliniano che, ormai da vent’anni, sta uccidendo il pro-prio popolo. Anche i suoi più stretti collabo-ratori sospettati di dissentire finiscono nelle famigerate pri-gioni sotterranee, dove, si dice, siano rinchiusi più di 10.000 oppositori. Negli anni 1998/2000, quando tensioni con l’Etiopia per la defi-nizione dei confini crearono nuovi scontri armati, ben 12 ministri su 15 furono arrestati perché non ritenuti in linea col capo del governo, e si sospetta che la metà di loro sia morta. In Eritrea non ci sono giornali né radio libere, esiste una sola università, ovviamente control-lata dal partito unico al potere, ed è vietato il transito sia di uomini che di merci con l’Etio-pia, verso la quale sono inter-rotte anche le linee telefoniche.. Dalle scarse notizie che filtrano, pare che nei primi mesi del 2013 ci fu un tentativo di insur-rezione da parte di alcuni repar-ti dell’esercito schierati ai confi-ni occidentali del Paese, poi

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stroncato dall’intervento dei carri armati. In questo clima dittatoriale, l’unica voce dis-senziente che si erge a difesa della popolazione, manco a dirlo, rimane quella della picco-la Chiesa cattolica, visto che anche quella Copta sarebbe pesantemente controllata dal regime. Così l’Eritrea, un tempo fioren-te, è ridotta ad essere un Pae-se poverissimo, dove sulle trat-te ferroviarie circolano ancora vecchie littorine lasciate dagli italiani e la sopravvivenza è legata agli aiuti internazionali. Ma molti di questi finiscono solo nelle mani del regime, tanto che il sacerdote Mussie Zerai, venuto a conoscenza dell’intenzione dell’U.E di stan-ziare aiuti economici per oltre 300 milioni di euro, ha lanciato una petizione alle autorità eu-ropee: se volete veramente aiutarci vigilate sull’uso di que-

sti fondi che farà il governo, pretendendo il rispetto dei dirit-ti e delle libertà fondamentali. Altrimenti non serviranno a nulla, e la mia gente continue-rà a scappare dalla sua terra, proseguendo un trend che sta annientando demograficamen-te una nazione. Eppure, nonostante ciò che è accaduto in tutti questi decen-ni, l’Italia rimane il secondo partner commerciale dell’Eri-trea, quasi a perpetrare un legame storico-culturale tra i due popoli che si mantiene nel tempo. E la sua presenza è ancora ben radicata: dalla lingua alle abitudini alimentari, dalle cen-trali elettriche agli acquedotti, dalle insegne di bar e locali alla toponomastica, dagli inse-gnanti delle scuole italiane ai missionari.

E l’ex colonia sembra chiama-re: è tempo che l’Italia torni in Eritrea?

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NOTIZIE DALLA CONTEA

Non tutti a Precotto sanno che, da una esperienza di vita e di condivisione della fede, è nato un gemellaggio tra la Parrocchia di San Michele Arcangelo e quella di San Francesco ad Aleppo. In forza di ciò, questa estate a fine Luglio ho avuto la possibili-tà di recarmi nella martoriata città siriana. Insieme ad alcuni amici siamo stati ospiti della Parrocchia latina dove padre Ibrahim guida la piccola comuni-tà cristiana diventata catalizza-tore di vita e di speranza per tutti. Viaggiando in macchina da Bei-rut fino ad Aleppo (l’aeroporto è ancora chiuso ai voli civili) si percepisce bene cosa voglia dire una guerra. Posti di blocco, case distrutte, infrastrutture ridotte in macerie, tralicci interrotti ed una lunga fila di autocarri che portano tutto quello che possono verso una città ridotta allo stremo dai lun-ghi anni di guerra combattuta nelle proprie strade. E’ impressionate vederlo dal vero ma questo, in fondo, è quello che ci aspettiamo. Quello che invece non ti aspetti sono le persone che incontri. Non facce tristi e disperate, ma

volti sorridenti, animati da una voglia di ricomin-ciare. Tra le macerie di una guerra che ha devastato gran parte della Siria, in un contesto di dimenticanza e di chiara re-sponsabilità di nazioni e interes-si stranieri, è ancora possibile trovare i segni della rinascita. Una rinascita umana, materiale e spirituale, che tiene viva la speranza di un futuro migliore per questo Paese, e che viene alimentata ogni giorno dalla pre-senza dei cristiani di varie con-fessioni. Questo contrasto è quello che più di tutto rimane negli occhi e nel cuore. Visitando il centro città, una vol-ta orgoglio degli aleppini, famo-so per il suq, i ristoranti, i cortili delle case, vediamo le residen-ze, ormai ridotte a scheletri, di una borghesia cittadina operosa e vivace. La stessa implacabile mano che le ha distrutte, ha colpito, con metodo, la cattedra-le maronita, fino al crollo del suo tetto. Al suo interno non è rima-sto niente, se non le pietre che ne costituivano l'ossatura. Al suo fianco sorgeva la catte-

drale melchita, colpita anche più duramente, il cui vescovo ha resistito ben oltre il possibile sotto la continua pioggia di bombe, decidendo di lasciarla dopo l’ennesima strage di suoi

collaboratori. Si potrebbero descrivere a lun-go queste distruzioni, ma quello che rimane più impresso è il pavimento della chiesa, orgo-gliosamente ripulito, sono i vicoli della città, rigorosamente spaz-zati e liberati dai detriti nei limiti del possibile E in tutto questo contesto, la presenza di uomini che non hanno rinunciato a vivere. Non sanno se torneranno mai o se le loro botteghe, in cui si in-travedono una cassaforte ab-bandonata, un forno arrugginito, una sedia di barbie-

Dal nostro inviato ad Aleppo

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re rinasceranno. Ma sono li, grati perché qualcuno è andato a trovarli, e fieri di non essersi spezzati nella loro tragedia. Sono la testimonianza che il cuore dell'uomo, con i suoi de-sideri, è insopprimibile, perché Dio ci ha fatto simili a lui. Cammino nella parte di città profondamente ferita, piena di fili elettrici improbabili, genera-

tori a gasolio, cisterne che ero-gano acqua poco potabile, ma abitata e piena di una vita che rifiorisce. La Chiesa latina finanzia micro-progetti che, con poche migliaia di euro, non solo fanno partire una attività; fanno riemergere l'uomo. Un laboratorio di pastic-ceria, una sartoria, un Bar, un camioncino di trasporti, una laboratorio di ghiaccio. Chi ci prova sa bene che que-ste attività difficilmente potran-no riportare il benessere prece-dente, ma certo fanno tornare a guardare se stessi con occhi nuovi. Per alcuni questo per-mette di metter su famiglia, e non scappare all’estero. Molte altre cose le ho descritte in un piccolo diario di bordo, che pubblicheremo sul nostro blog. Padre Ibrahim è un gigante che affascina e muove la libertà di chi incontra, ma non è solo. C’è il Vicario Apostolico Latino di Aleppo Georges Abou Kha-zen, che non ha mai lasciato Aleppo condividendo la paura dei suoi abitanti, e che ha volu-to incontrarci.

Quasi sorvoliamo sulla intricata situazione politica, dalla quale emerge il complicatissimo mo-saico siriano dove la gratitudine per la liberazione della città non esaurisce certo i problemi del futuro. Alla periferia di Aleppo si spara ancora, ma lui preferisce parlar-ci dell'eroismo delle suore, del rispetto che il maggioritario

mondo circostante tributa loro, di alcuni universitari musulma-ni che iniziano ad interrogarsi sulle ragioni della loro fe-de. Nessuna illusione, ma la determinazione a non rinun-ciare all'annuncio, anche vis-suto nel realismo del contesto in cui opera. Ci racconta an-che di un centinaio di conver-sioni tra i curdi e gli alawiti, e ben sappiamo le conseguenze che queste conversioni por-tano. E’ tantissimo ciò che porto a casa da questo viaggio, ma preferisco ricordare l’insosti-tuibile ruolo dei cristiani in medio oriente. Una presenza che va asso-lutamente difesa. Nell’ultimo incontro a Milano il Vicario latino, alla doman-da su cosa succederebbe se i cristiani sparissero dal me-dioriente, ha risposto: «Voi Europei avreste i talebani alle porte. La nostra presen-za in quelle terre è importan-te per tutti. Ed è una missio-ne che noi viviamo volentie-ri. Noi testimoniamo Cristo. E vi chiediamo di pregare

perché ci sia data la possibilità di portare le persone a Cristo. Paolo, il persecutore dei cristia-

ni, si è convertito proprio alle

porte di Damasco, che è in Si-

ria. Ciò che è capitato una vol-

ta, chissà, forse si potrà ripete-

re».

In una società che esce da una

guerra, e che si porta dietro

tutte le tentazioni di vendetta,

testimoniare il perdono è vitale

per poter ripartire. Ed i cristiani

sono quelli che lo possono fare,

perché sperimentiamo quotidia-

namente il perdono ricevuto da

Gesù.