Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

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DARIO MORELLI CAMIONISTI UBRIACHI CONTRO IL RESTO DEL MONDO FANTASMI, LEGGENDE METROPOLITANE E ALTRE STORIE MESSINESI due :cunti piccole letture 1 >

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Quattro leggende metropolitane, quattro racconti di fantasmi in una Messina ai confini della realtà.

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DARIO MORELLI

CAMIONISTI UBRIACHI

CONTRO

IL RESTO DEL MONDO

FANTASMI, LEGGENDE METROPOLITANE

E ALTRE STORIE MESSINESI

due:cuntipiccole letture 1

>

Page 2: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

supplemento a

Ufficio Spettacoli n. 14 del 7/7/2006

direttore responsabile

Luciano Fiorino

editrice

ComunicAzione s.c.a r.l.

via Grattoni 1, 98122 Messina

Tel. 090/6411022

grafica

Marco Lo Curzio

stampa

Samperi s.a.s.

© ComunicAzione s.c.a r.l.

luglio 2006

CAMIONISTI UBRIACHICONTRO IL RESTO DEL MONDOdario morelli

due:cuntipiccole letture

Altri volumi pubblicati:

2/ IL PALLONAROenrico giorgio

3/ IL CIMITERO DELLE FEREmichela de domenico

In collaborazione con:

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1/ Una per cui perdere la testa

La chiesa di Porto Salvo sembra più bella e imponente se la si guar-

da da sotto il proprio braccio. Purtroppo non può farlo nessuno

tranne il fantasma con la testa fra le mani che s’aggira per quelle

zone. Quello spirito infelice testimonia la morte rocambolesca di

Goffredo Criscione, un mediocre impiegato ferroviere che ebbe un

impiego, un focolare e una stupenda moglie di nome Rosaria.

Praticamente tutto ciò che desiderava dalla vita. E non gli manca-

vano neanche le conoscenze importanti. Era stato infatti compa-

gno di classe del gerarca Filippo Medina fino alla seconda media.

Poi lui - sempre molto studioso - aveva proseguito fino al diploma,

mentre Filippo era stato espulso da tutte le scuole del Regno.

«Medina», gli aveva chiesto un giorno il professore. «Qual è il geni-

tivo di gens?» «Non lo so, signor professore». «Non sai mai niente,

Medina! Sai solo sputare, bestemmiare e fare il mariuolo! Sei un

inetto! Un asino fatto e formato!» «Me ne frego, signor professo-

re». «Che hai detto?!» «Niente». «Medina io ti ordino di ripeterlo!»

Filippo non l’aveva ripetuto. Piuttosto aveva estratto dalla cartella

una catena di ferro. S’era alzato in piedi. L’aveva roteata in mezzo

ai compagni. Il professore, tentando di fuggire, era caduto dalla

d:c

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A Roberta,

come quel vecchio numero di Frigidaire.

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sedia. Filippo l’aveva raggiunto. Un colpo di catena in piena faccia.

Uno spruzzo di sangue sul muro. I compagni gli erano saltati

addosso per trattennerlo come una bestia fino all’arrivo dei gen-

darmi. Poi il preside l’aveva espulso per sempre e il giudice lo

aveva condannato a qualche mese di galera. Subito dopo il ragaz-

zo si era trasferito al nord. Libero dagli impegni intellettuali, s’era

donato anima e corpo al Partito Nazionale Fascista. Dopo dieci

anni, il Duce l’aveva nominato Segretario della Federazione dei

Fasci di Combattimento di Ravenna.

Goffredo e Filippo non s’erano più rivisti dai tempi del fattaccio. Il

primo aveva seguìto sui giornali le avventure del secondo, ripro-

mettendosi d’incontrarlo. Certe aderenze sono utili e il gerarca si

sarebbe certamente ricordato del suo compagno di classe.

L’occasione arrivò un ventotto di ottobre. I giornali diedero notizia

che per le celebrazioni della Marcia su Roma, Filippo Medina,

federale di Ravenna, avrebbe tenuto un comizio nella sua natale

Messina. Per Criscione era arrivato il momento di avvicinarlo. Quel

fatidico giorno Goffredo s’alzò prima del sole. “Preparati, Rosaria,

che oggi vediamo Filippo!” Alle sette i Criscione erano già pronti

per la festa. Lei con un fiocco di taffetà sul colletto di un abito a

fiori che le camuffava il seno prosperoso. Lui in camicia nera, coc-

carda tricolore all’occhiello e pantaloni larghi sulle cosce, indeciso

solo sul fez (alla fine scelse di non metterlo per non sembrare un

Balilla troppo vecchio).

Quando uscirono non c’era nessuno per le strade. Arrivarono pre-

sto in una piazza Duomo ancora semi-deserta, così poterono avvi-

cinarsi al palco ai piedi della cattedrale. Sul palco era stato costrui-

to un podio di otto metri per venti a forma di testa del Duce. Due

enormi altoparlanti grigi sporgevano dalle orecchie. Attraverso

una scalinata che pareva un collo, gli oratori sarebbero saliti in

cima al cranio liscio e avrebbero parlato dentro tre microfoni che,

per via delle aste, assomigliavano a un ciuffo di capelli di neona-

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to. Ai lati della testa-podio, due enormi fasci littori sembravano

pugni chiusi sbattuti dal Duce nel mezzo della piazza.

Goffredo e moglie si accucciarono a ridosso di uno dei due fasci.

Pochi minuti dopo si levò un coro di stivali e voci bianche.

Preceduto da un corpo d’insegnanti in assetto da guerra, si fece

avanti a passo marziale una colonna di ottenni in divisa da Balilla,

al suono di “Giovinezza giovinezza primavera di bellezza”.

Passarono due minuti. Dal lato opposto di piazza Duomo irruppe

un battaglione di Piccole Italiane disposto in modo strano (viste

dall’alto, formavano la lettera M di Mussolini), in un tripudio di

bandiere tricolore ed aquile fasciste.

Una bambina, un tricolore, un’aquila fascista. Una bambina, un

tricolore, un’aquila fascista...

Subito dopo arrivò il grosso dell’Impero. I giovani Avanguardisti; le

locali sezioni Massaie Rurali e Operaie e Lavoranti a Domicilio; il

cinquantunesimo corpo dei Vigili del Fuoco, quello messinese, col

suo motto personale sulle bandiere: “In periculis virtutem alo”;

esponenti sparsi dei Littorali della Cultura e dell’Arte, dei G.U.F

(Gruppi dei Fascisti Universitari), delle Associazioni Fasciste della

Scuola, del Pubblico impiego, dei Ferrovieri dello Stato, dei

Postelegrafonici; una rappresentanza - sparuta ma rumorosa -

della squadraccia “Disperata” di Caltanissetta; gli intellettuali pro-

vinciali dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, “tutori e diffuso-

ri delle idealità e della dottrina del Fascismo”; e infine i membri

messinesi del Direttorio dei Fasci all’Estero, della Federazione dei

Fasci di Tripoli e dell’esotico Partito Fascista Albanese.

Quando la piazza fu gremita, Goffredo cominciò a stirare il collo

sopra il livello del popolo in cerca del gerarca ravennate. Le bande

si misero a suonare, i cori a cantare, la gente ad urlare e soprat-

tutto a puzzare di sudore. L’attesa proseguì ancora a lungo. Il

primo a farsi vivo fu il gerarca Cicciarella, pezzo grosso di Roma.

Salì sul palco e il popolo lo accolse con un boato. Nessuno lo cono-

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sceva, ma una divisa fascista su un palco riscaldava sempre gli

animi. Lo seguirono alla spicciolata l’anzianissimo gerarca Sipione,

pezzo grosso di Roma; poi Rustico, Serrentino, Cannarelli,

Parafera, Cacatani, Lombardo, Guarnacchia, Orlando e Trianiello,

tutti pezzi grossi di Roma. Alle dieci cominciò a parlare il vecchio

Sipione, che si rivolse ai combattenti di terra, di cielo e di “male”,

lapsus freudiano. Di Filippo Medina nemmeno l’ombra. Serrentino

si lanciò in un commosso ricordo della presa del potere, con l’in-

gresso a Roma nel lontano 1922 e i primi bagordi nei casini del-

l’urbe. Cacatani raccontò invece l’avvincente caccia all’uomo che

lo aveva visto protagonista della cattura d’un brigante messinese,

scannatore di più di mille onesti fascisti. Concluse in modo così

cruento che nessuno degli innumerevoli bambini presenti riuscì

mai più a dimenticare. Mentre Filippo Medina continuava a latita-

re, toccò al gerarca Guarnacchia salire sul testone di Mussolini per

rievocare i giorni della Marcia su Roma. Paragonò quel glorioso

ventotto ottobre al dì in cui Romolo fondò la futura caput mundi,

e disse che il Fascismo sarebbe riuscito in ciò in cui l’Impero

Romano aveva fallito: prosperare in Eterno.

Subito dopo, mentre il gerarca Lombardo enarrava di come aveva

riparato col proprio corpo dodici commilitoni dall’esplosione di una

granata durante la Grande Guerra, un’automobile nera con le inse-

gne del Fascismo si fece strada tra due ali di folla. Il Popolo ammu-

tolì. Dopo qualche istante anche l’oratore ammutolì. La sensazione

generale fu che dalla macchina potesse uscire lo stesso Mussolini.

Gli sportelli si aprirono. Scesero tre guardie armate. Poi due stiva-

li luccicanti spuntarono dallo sportello posteriore. Nient’altro.

L’uomo che l’indossava rimase seduto in ombra, come se la piazza

non lo meritasse. Passò ancora qualche istante. Affiorò una mano

guantata che s’aggrappo’ al tettuccio. Finalmente emerse la testa.

Goffredo lo riconobbe subito, nonostante i capelli ormai radi e il

pizzo che gli allungava il mento. Il gerarca si drizzò in piedi come

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una statua di Mussolini. Fece scattare il braccio destro a catapul-

ta, in un plateale saluto fascista. La folla esplose. Era lui. Era il

grande Filippo Medina.

Il gerarca fece scendere Lombardo dal testone senza neppure

lasciargli completare la frase. Salì al suo posto. Omaggi di rito al

Duce, al Re, al Partito, alle Forze Armate, al Popolo, a Messina e a

Dio in ordine di importanza. Il federale di Ravenna prese poi a trat-

teggiare un lucido affresco della situazione politica mondiale. La

sua ricostruzione vedeva da una parte le cattoplutocrazie occiden-

tali, la massoneria e i pederasti. Dall’altra il bolscevismo sovietico,

i banchieri giudaici e il brigante Musolino. In mezzo lui, Filippo

Medina, gomito a gomito col Duce, a frustrare le forze del male

riunite in mutuo patto.

Al termine della disamina, in un vortice di applausi e mortaretti, il

gerarca Medina scese dal podio e andò a sfilare dinanzi alla folla.

Fu qui che l’intuizione logistica di Goffredo si rivelò esatta. Il cor-

teo dei Campioni del Fascismo non poteva non passare dinanzi ai

fasci littori. Così quando Medina fu a portata di voce, Criscione

urlò: “Filippo!” Questi si volse e guardò in mezzo alla folla.

Goffredo si sbracciava, come tutti, e il gerarca pareva non vederlo.

Ma a un certo punto si avvicinò. Il piccolo corteo di pezzi grossi si

piantò di colpo.

«Filippo! Rammentate? Sono io, Goffredo Criscione. Eravamo com-

pagni di classe». Medina lo squadrò fieramente. «Sì, Criscione.

Sua Eccellenza rammenta...»

Goffredo non si stupì che l’amico parlasse di sé in terza persona.

Il rango glielo permetteva.

«Questa è mia moglie. Si chiama Rosaria».

Il gerarca sollevò ancora di più il mento e sporse ancora più in fuori

la mascella.

«Compiaciuto di conoscerla» disse artigliandole una mano per por-

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tarsela alla bocca. Schioccò un bacio sonoro e insalivato senza

abbassare la testa di un millimetro, tanto che Rosaria dovette alza-

re il braccio in modo innaturale.

«Noi vi seguiamo sempre» s’affrettò a dire Goffredo, «leggiamo sem-

pre dei vostri successi sul giornale! E’ vero cara?» «Certo, signor

Segretario. Voi siete il Segretario Federale dei Fasci di Ravenna!»

Mentre Rosaria pigolava per dimostrare affezione alle gesta del

Medina, questi estrasse dalla cintura il manganello d’ordinanza.

Ne poggiò la punta lucida sulle labbra della donna, esercitando

una lieve pressione come per entrarle in bocca.

«Il Segretario della Federazione dei Fasci di Combattimento di

Ravenna», disse il Segretario della Federazione dei Fasci di

Combattimento di Ravenna, «te lo legge in faccia che sei una

brava serva del Fascismo e che coltivi il littorio nel seno e nel ven-

tre...». Rosaria rispose «grazie signor Segretario» con voce timida,

da bambina. Arrossì nel rendersi conto dell’attenzione, degli

sguardi e dei sorrisi che anche il séguito di Medina cominciava a

dedicarle. «Siamo entrambi dei perfetti fascisti!» ribatté Goffredo

con un po’ d’imbarazzo. Il gerarca fece scivolare il manganello sul

mento, sul collo, tra i seni della giovane signora Criscione. «Dove

abiti, uomo?» chiese, continuando a fissare Rosaria. «Accanto alla

chiesa di Porto Salvo. Se vi venisse il capriccio di farci una visita,

per noi sarebbe un onore infinito...» «Ovvio, Criscione. Peraltro

risiedi in prossimità dall’ufficio dove Sua Eccellenza Medina dor-

mirà», disse ammiccando a Rosaria, «stanotte».

Il corteo riprese. Il federale montò in automobile e andò via. Dopo

l’intervento di un altro paio di notabili, svariate marce militari e

infiniti “viva il Duce”, la gente tornò a casa.

«Hai visto come si ricordava di me?» Goffredo era visibilmente

eccitato. «Appena gli ho detto il mio nome, pam!, subito m’ha rico-

nosciuto». «Sì amore... » «Tu non hai idea di quanto può essere

buono quell’uomo. Anche da ragazzo, sì, era un po’ scapestrato,

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però aveva un cuore d’oro! Se davvero ci venisse a trovare...

Un’aderenza del genere può cambiarmi la vita da così a così!»

Quel pomeriggio a casa Criscione si sentì bussare come se voles-

sero abbattere la porta.

«Signor Segretario, che onore, accomodatevi!» aveva detto Rosaria

aprendo fra mille inchini. «Adesso vi chiamo subito mio marito».

«Non c’è bisogno», aveva risposto Medina, afferrandole violente-

mente una mammella. «Ci penseranno gli uomini di Sua Eccellenza».

Entrarono due diciottenni in camicia nera coi manganelli in mano.

Medina s’accomodò sul divano del salotto insieme a Rosaria. I due

squadristi andarono incontro a Goffredo Criscione che usciva dalla

camera da letto dopo la pennichella pomeridiana.

«Chi siete voi?» «Gli angeli custodi del federale». «Il federale è

qui?!» «Il federale sta colloquiando con vostra moglie. Voi intanto

ci offrite un po’ di vino?» «Certo, amici! Ne ho dell’ottimo. Saluto

il federale e lo vado a prendere». «Il federale non vuole essere

disturbato» disse uno dei due ragazzi mostrando il manganello. «Il

vino ce l’offrite in un’altra stanza». «Ma che succede?» chiese

allarmato Criscione. Con una manganellata uno squadrista fran-

tumò il vetro di un quadro. «Succede che chiudi quella fogna e ci

offri un bicchiere di vino. Altrimenti a calci nelle palle ti facciamo

uscire la merda dagli occhi».

Nella cucina di casa Criscione, Goffredo teneva un bicchiere di

vino in mano e gli stivali dei ragazzi sulle ginocchia, come un pog-

giapiedi umano.

«Brinda, cornuto!» lo incitavano gli squadristi bevendo dalla fiasca.

Goffredo beveva a comando. Un brivido gli attraversava la schiena

ogni volta che Rosaria chiedeva aiuto dal salotto. Uno dei due

squadristi gli tolse i piedi di dosso. Si alzò. Gli appoggiò lentamen-

te le natiche sulla faccia. Emise un peto fragoroso. Scoppiò a ride-

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re insieme al camerata. Dal salotto, Rosaria continuava ad implo-

rare pietà.

«Smettetela», chiese quasi sottovoce il signor Criscione. «Noi

siamo gente onesta, fascisti della prima ora...»

Una manganellata lo colpì in pieno viso e gli tagliò uno zigomo.

«Tu il sacro nome del Fascismo non lo devi nemmeno pronuncia-

re», ringhiò lo squadrista che aveva sferrato il colpo. «E’ la marma-

glia come te che inquina lo spirito Fascista! Voi mezzi uomini senza

ambizioni! Squallidi borghesi che implorate noi, dico noi di difen-

dervi nelle vostre case, di proteggere le vostre donne e il vostro

stesso culo! Siete il ventre molle della Nazione, il fango che impe-

disce all’aquila di volare. Non osare mai più dirti fascista in mia

presenza, merda! Mettitelo bene in testa: il Fascismo è la cura del

male che tu rappresenti!»

Filippo Medina e la sua scorta andarono via dopo meno di un’ora.

Rosaria in salotto piangeva e si stringeva addosso i vestiti strappa-

ti. Fra molte lacrime, ormai a notte fonda, trovò il coraggio di rife-

rire quanto accaduto. Dopo averla esplorata con la forza, il federa-

le le aveva dettato ordini irrevocabili. Rosaria avrebbe avuto solo il

tempo di salutare e preparare le valigie. L’indomani mattina un’au-

tomobile l’avrebbe prelevata di buon’ora per condurla nell’appar-

tamento di Sua Eccellenza. Da lì, la donna si sarebbe trasferita

definitivamente a Ravenna, dove sarebbe stata a completa dispo-

sizione del federale fino a nuovo ordine. Ogni insubordinazione

avrebbe comportato la progressiva soppressione dei suoi cari

(marito, madre, sorelle) e infine la sua.

Passò la notte, arrivò il giorno. Estenuanti riflessioni avevano por-

tato a concludere che non c’era scelta. Rosaria mise senza convin-

zione quattro stracci in una valigia e attese il suo destino fissando

il vuoto. Goffredo era un uomo distrutto. La sua psiche devastata

trovava un degno specchio nel volto smunto, simile a quello di un

cadavere. L’automobile nera del federale giunse davanti casa

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prima delle otto. L’autista urlò il nome della signora dalla strada, e

intravedendo Goffredo dietro la porta gli strillò: «non si preoccupi,

Criscione Goffredo, sua moglie è in buone mani!»

I tre giorni successivi furono molto intensi per Medina. Gli toccò

inaugurare strade e negozi e benedire statue e cantieri. Dovunque

andasse era un trionfo di musica, bandiere ed inni al federale.

Messina lo adorava come il suo figlio migliore e di maggior suc-

cesso; e così come lui aveva “conquistato” e dominato la lontana

Ravenna, anche i messinesi si sentivano un po’ conquistatori e

padroni di quella città. Sul finire del terzo giorno, quando erano già

entrati nel vivo i preparativi per il ritorno in Romagna, presso l’uf-

ficio di Medina si presentò Goffredo Criscione.

Prima che il federale lo ricevesse passarono quarantacinque

minuti. Quando entrò nello studio dalla porta comunicante con la

camera da letto, Medina si stava ancora abbottonando i pantalo-

ni. Per un istante, prima che la porta si richiudesse, Goffredo e

sua moglie poterono intravedersi. Lui appariva curvo sotto il peso

insostenibile delle sue angosce. Lei era nuda sotto una vestaglia

di seta che le lasciava scoperto il seno generoso e la gamba

destra fin sopra l’inguine.

«Cosa vuoi?» chiese il gerarca accomodandosi dietro la scrivania.

«Chiedervi scusa», rispose Goffredo, in piedi. «E per cosa?»

«Perché non sono stato collaborativo, soprattutto coi vostri uomi-

ni. Ho fatto un po’ di resistenza...» «Se hai fatto resistenza non se

n’è accorto nessuno», rise di gusto il Segretario. «Già», rise a sua

volta Goffredo, «non sono capace di nulla. Eppure... A scuola ero il

primo della classe... Ricordate?» «Sì», ammise Medina ridacchian-

do, «eri bravino...» «Quindi forse qualcosa valgo. So fare bene i

conti, per sempio. Sapete, lavoro alle ferrovie e ho anche un ruolo

di responsabilità. Io pensavo che... Così come avete trovato una

buona sistemazione per mia moglie...» «Ottima», ghignò Medina

portandosi una mano al cavallo, «ti assicuro che è ottima...» «Già»,

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sorrise complice Criscione. «Voi che date conforto e lavoro, forse

potreste trovare qualche migliore impiego anche per me...»

Medina lo fissò con aria interrogativa. Poi, allargandosi in un sor-

riso bonario, rispose: «Tu, uomo, te ne approfitti perché ho un

cuore di pane!» A queste parole Goffredo s’illuminò in volto. «E sia.

Hai perso una moglie, ma grazie a me otterrai quanto stai suppli-

cando. Un posto migliore. Farai carriera. E i nostri conti saranno

irrevocabilmente chiusi».

Goffredo pianse di gioia.

«Oh grazie, maestro e signore! Grazie, mille volte grazie!»

«Così ho detto e bada a non farmi cambiare idea!»

«Sono vostro servitore, in debito verso di voi! Lasciate che vi

abbracci!»

Filippo Medina si alzò per congedarlo. L’amico lo abbracciò come

un figlio folle di felicità. Il gerarca si rese conto d’avere appena

compiuto un’ottima azione.

Ma a un tratto sgranò gli occhi. «Senti il freddo nelle tue viscere?»

gli sussurrò Goffredo, mutando il sorriso commosso in un ghigno.

«E’ il freddo della tua anima dannata», proseguì, ancora abbraccia-

to al gerarca. «Sei un uomo come me. E come me, gli uomini sono

niente. Per morirli basta una lama nel fegato. Dieci centimetri

come questi», e girò il coltello in senso orario. Medina rantolò di

nuovo, con la bocca piena di sangue. «Qui non ci dovevi più torna-

re. Hai sbagliato. E hai sbagliato anche a prendertela con un debo-

le come me, perché ora questo debole t’ha ucciso. Non sbaglierai

una terza volta».

La porta dell’ufficio s’aprì di schianto. Le guardie videro uscire

quella caccola di Goffredo Criscione con le mani alzate, ricoperto

di sangue fino ai piedi. «Sono un assassino. Arrestatemi».

Quando gli fu riferito, il Podestà di Messina stentò a crederci.

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«Voglio una cosa cruenta», ordinò al fedele Calogero Crascio,

detto Clemenza.

L’ultima cosa che Goffredo vide da vivo fu la prima che rivide da

fantasma. La chiesa di Porto Salvo. Dietro di essa, due camionette

dell’esercito erano state legate per i paraurti posteriori da una

corda che scorreva attorno collo di Criscione, steso per terra. Gli

autisti scaldarono i motori. Uno, due, tre, via. L’urlo fu brevissimo.

La testa saltò via come un tappo di sciampagna. Giustizia era fatta,

secondo i canoni fascisti. Ma anche Goffredo non era granché

scontento. Per quanto decapitato e ancorato al luogo della sua

esecuzione, da fantasma poté vegliare sulla sua amata Rosaria

fino agli ultimi giorni, fino a quando cioè la morte non li riunì.

2/ Mattatoio Boccetta

Se Dio si lasciasse dettare dagli uomini l’agenda delle riforme del

mondo, molti gli chiederebbero di cancellare dei rumori. Ad esem-

pio quello del carrello-della-spesa-poco-oliato-spinto-su-marcia-

piede-a-quadrettoni, che è una miscela di ogni sonorità sgradevo-

le. Rotelle che stridono su viti, cigolìo di piedi rotanti, grate del

carrello che sussultano, rombo cavernoso di marciapiede raschia-

to etc. Al piatto manca solo un ingrediente, lo stridore di unghie

su lavagna. Ma Eliseo, barbone-Re del viale Boccetta e principale

produttore del suddetto mix, compensa il deficit di sgradevolezza

con la propria puzza.

Già che c’è, perché Dio non abolisce anche l’odore di Eliseo? Un

lezzo di pesce, seme maschile e vino-che-sembra-benzina (o vice-

versa), unito spesso a odore di peperoni, acetone, capelli bruciati,

acido da batteria, peti al formaggino, tabacco e cadavere. Di tali

rumori e puzze Eliseo popola il viale Boccetta da decenni. Quella è

l’unica sua casa, non avendo posseduto mai altro che due mani e

un mucchio di stracci in un carrello della spesa.

d:cdario morelli

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Eliseo è uno scemo di paese. Da tre generazioni. Figlio d’arte ed

unico rampollo metropolitano d’una famiglia di scemi di paese

della provincia di Messina. Suo padre, universalmente inteso

Vastiano Puttusu, era scemo professionista in un piccolo borgo

sulla costa ionica. Il padre del padre, inteso Costanzo Catarro, a

sua volta non brillava per eccessiva scaltrezza. Bracciante in terra

altrui, lavorava dodici ore al giorno senza salario in cambio solo di

una ciotola di zuppa. Benché Costanzo Catarro avesse sognato per

il figlio un avvenire radioso come il suo, capì presto che da

Vastiano Puttusu poteva pretendere ben poco. Così, per avviarlo al

lavoro, gli regalò una carriola mezza rotta con cui raccogliere lo

sterco per le strade. Da quella carriola il futuro padre di Eliseo non

si separò mai più, da bravo scemo di paese. Durante i begli anni

della gioventù, trascorse ogni settimana portando in giro la carrio-

la piena di cacca. Poi il sabato, in cambio di un bicchiere di vino,

esibiva in trattoria la sua unica dote, cioè la forza strepitosa della

sua testa. Con la fronte sbriciolava indifferentemente pigne e

mandorle. Una frustata del suo collo taurino spalancava pure le

porte chiuse a chiave. Colpiva sempre e solo con un punto ben

preciso sopra il naso, in corrispondenza del nervo ottico. Perciò,

dopo ogni colpo, subiva tremende allucinazioni e cominciava a

urlare, tremare e delirare. Al prezzo modico d’un bicchiere di vino,

i paesani avevano insomma di che sbellicarsi.

Per il resto, Vastiano viveva di elemosine, alcune più misere, altre

più consistenti come quelle del notaio Uccuzza. Quest’ultimo arri-

vava a sborsargli persino due o tre lire all’anno, spinto forse dal

rimorso per gli atroci scherzi che amava giocargli. Almeno una

volta al mese, infatti, il notaio convocava Vastiano dalla finestra

del suo studio. Alla presenza dei soliti amici (zu’ Cosimo, Geremia

il latifondista e i due fratelli Atanasio) gli consegnava un assegno

senza firma da un milione di lire. “Vai al mercato di Messina,” gli

ordinava, “e compra venticinque asini e una scecca». Prima di par-

tire per il pellegrinaggio, Vastiano Puttusu chiedeva sempre come

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mai una sola femmina a fronte di tanti maschi. «Accussì ‘a sceccasâ passa bbona» gli rispondeva il notaio, e giù risate. Dopo ogni

viaggio a vuoto, Vastiano tornava da Messina coi piedi zuppi di

sangue. Si sedeva a terra e per due giorni non camminava più.

Una volta il buon notaio decise che per Vastiano Puttusu fosse

giunta l’ora di sistemarsi. L’occasione, secondo lui, l’aveva creata

qualche settimana prima una levatrice finita sotto la carrozza del

latifondista Geremia. L’incidente era accaduto verso sera, in un

momento in cui per giunta minacciava di piovere. Al cocchiere era

parso sconveniente perdere tutta la notte per portare la vecchia da

un dottore. Così era sceso e l’aveva trascinata all’angolo della stra-

da, rimandando ogni questione al giorno dopo. Il problema poi non

s’era neanche posto perché all’alba la donna aveva già smesso di

respirare. Rosetta, la figlia della levatrice morta – avendo già perso

il padre in mare – s’era quindi trovata completamente orfana a

sedici anni. Povera e per di più malata di mente dalla nascita,

Rosetta era rimasta in balìa di qualunque paesano o forestiero

avesse gradito farle del male. Fortunatamente però non correva

grossi rischi per via del suo aspetto. Con la testa minuscola, la

mascella ravvicinata al naso e i capelli secchi e radi, ai paesani

non sembrava nemmeno del tutto umana.

Solo il gran cuore del notaio Uccuzza si preoccupò di lei, organiz-

zandole il “matrimonio” con Vastiano Puttusu. Il giorno stesso in

cui la levatrice fu sepolta nella fossa comune, il notaio ed i fratel-

li Atanasio, insieme a un paio di contadini loro dipendenti, anda-

rono a prelevare Rosetta dalla sua baracca. Le cacciarono in bocca

un fazzoletto. Le chiusero la testa in un sacco. La trascinarono in

una delle stalle del notaio. Le intimarono con un coltello di stare

buona e zitta. La spogliarono. L’adagiarono su un pagliericcio per

le vacche. Fecero entrare l’ancora ignaro Vastiano, dicendogli: «vai

bello, è già pronta». Intanto, nascosto in un angolino, il notaio si

godeva lo spettacolo.

d:cdario morelli

15

Page 16: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

Nove mesi dopo, nella medesima stalla, era tempo di sgravare.

Sua Eccellenza Uccuzza dirigeva le operazioni come un maestro

d’orchestra. Fin lì aveva atteso la nascita del piccolo monstrum

con ansia febbrile. Le sue morbose e inconfessabili curiosità gene-

tiche esigevano soddisfazione. A Rosetta toccò partorire nelle

mani di una levatrice che per sua madre era stata una sorella. I

dolori, per lei incosciente, furono tanto atroci quanto inspiegabili.

Con lo sguardo sperduto, mostrava di non capire cosa le stesse

accadendo. Il parto fu straziante, ma alla fine se ne venne a capo.

La vita dimostrò ancora una volta di essere strana anche con gli

strani. Da Rosetta e Vastiano Puttusu nacque infatti il bambino più

bello del mondo.

In quell’atmosfera da Natale dell’anno zero, con un notaio ed un

barbone a fare le veci del bue e dell’asinello, sembrava fosse giun-

to un nuovo figlio degli Dei. La delusione per Uccuzza fu tremen-

da. Dapprima cominciò a urlare, sentendosi deprivato di un’occa-

sione unica. Poi decise di non voler sapere mai più niente di nes-

suno di quei tre. Ordinò a Vastiano Puttusu di sparire per sempre.

Questi adagiò suo figlio, il capolavoro, e la madre nella carriola

dello sterco. Tutti e tre andarono a vivere nella baracca di Rosetta.

Saputa la notizia, il prete si preoccupò solo di battezzare il bimbo.

Lo chiamò come il santo di quel giorno: Eliseo. Da allora, per la

nuova famiglia, la vita proseguì tra i soliti stenti.

Vastiano e Rosetta non si separarono e decisero di soffrire insie-

me. Eliseo, crescendo denutrito e malaticcio, perse la bellezza e la

salute della nascita ma dimostrò un’indole buona e un carattere

gentile ed aperto. Non fosse stato per l’embargo di tutti i genitori

del paese, che proibirono ai propri pargoli di avvicinare il figlio di

Vastiano e Rosetta, Eliseo si sarebbe facilmente confuso tra gli

altri ragazzini. Lui del resto voleva giocare con loro e loro con lui.

Ma era impossibile. Non per colpa sua, né per colpa loro, ma per

qualche motivo che Eliseo non riuscì mai a capire.

CAMIONISTI UBRIACHI CONTRO IL RESTO DEL MONDO

Page 17: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

Passarono gli anni e passò anche il tempo dei giochi per strada.

Eliseo avrebbe potuto lavorare nei campi, gli sarebbe bastato farsi

avanti a offrire le braccia. Ma non ebbe il coraggio di farlo e nes-

suno lo fece mai per lui. Semplicemente trovava più naturale ele-

mosinare come i suoi genitori. E così fece, fino a quando non

arrivò la svolta sotto forma di pallone.

Un giorno Eliseo, che aveva quasi vent’anni, camminava lungo un

campo guardando le nuvole. Poco prima gli era sembrato di veder-

ne una che somigliava a sua mamma. A un tratto un pallone di

gomma lo colpì in testa. Qualche metro più in là, c’era un bimbo

di cinque anni che lo guardava ridendo. Eliseo diede un’occhiata

intorno e capì che quella palla doveva averla tirata lui. Nessun

bimbo l’aveva mai fatto prima. Il ragazzo per poco non si commos-

se. Sorrise felice e si chinò per raccogliere il pallone. Lo porse al

bambino con le braccia ben tese in avanti. Questi corse a prender-

selo. Poi disse semplicemente: «grazie». Eliseo non riusciva a cre-

derci. Ripensò alla mamma che aveva appena visto in cielo.

Quell’incontro gli parve un suo regalo meraviglioso. Allora prese

coraggio. Allungò una mano tremante sulla testa del piccolo

amico. Il bimbo rispose alla carezza con un nuovo sorriso.

In quello stesso istante, Eliseo vide il volto del bambino stravolger-

si d’orrore. Avvertì al tempo stesso una strana sensazione alla

spalla. S’accorse che un dente di forcone gliel’aveva trapassata da

parte a parte. Con tutt’e due le mani sul manico, un uomo gli gira-

va nel deltoide quei dieci centimetri d’acciaio acuminato, urlando:

«lassa stari a me figghiu!»Il villano estrasse di colpo il forcone. Eliseo sentì su tutto il corpo

l’ondata calda del proprio sangue. Quando riprese conoscenza era

piegato dentro la carriola. La spalla era fasciata di stracci e gli

doleva come se la schiacciasse una pressa. Vastiano Puttusu spin-

geva di corsa la carriola. Rosetta gli correva accanto. Nonostante

la vista appannata, Eliseo riuscì a vedere il sangue sui loro volti.

d:cdario morelli

17

Page 18: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

Capì che quella fuga dal paese sarebbe stata definitiva.

Durante il cammino, Rosetta aveva lamentato di non farcela più.

Nessuno le aveva risposto. Un minuto dopo s’era gettata in una

scarpata. Vastiano ed Eliseo l’avevano intravista come un’ombra in

fondo al burrone. Pensarono di non avere scelta e la lasciarono lì.

La mattina dopo arrivarono a Messina. Vastiano, col nuovo clima,

contrasse in pochi mesi la polmonite. L’agonia fu lunga. Esalò l’ul-

timo colpo di tosse nella corsia di un’ospedale sovraffollato. Molti

anni dopo, in suo onore, il figlio avrebbe fatto di un carrello di

supermarket abbandonato la propria carriola personale.

Eliseo continuò a vivere per sempre là dove inizialmente s’era inse-

diato con suo padre: sulle rive del torrente Boccetta, anche dopo

che la Democrazia Cristiana ne trasformò l’acqua in asfalto. Da

allora sono passati molti decenni. Eliseo ha visto arrivare le prime

automobili. Poi i primi TIR. Poi, insieme ai primi TIR, anche i primi

cadaveri. Ha visto tutt’e tre le cose crescere a dismisura giorno per

giorno, notte per notte, decennio dopo decennio. Quando il selcia-

to cotto da milioni di ruote cominciò a sudare smog, un perenne

tumore spray al gusto di catrame, Eliseo era lì. Ha assistito all’a-

scesa e alla caduta della grande Rivoluzione Messinese. Da un

lato, l’illuminismo dello sviluppo, della trasformazione di un borgo

terremotato in una grande città italiana; l’ultima. Dall’altro, le ghi-

gliottine rotanti marca Michelin e Firestone. In mezzo, Eliseo col

suo carrello degli stracci.

Invecchiando, il barbone ha visto tanti freni cedere lungo le penden-

ze del Boccetta. A ogni freno che cedeva, un camion di passaggio

per la Calabria si trasformava in un’incontrollata mietitrice d’anime.

Certe cose, in paese, non erano nemmeno immaginabili.

Mammuth della strada lanciati come rulli compressori verso il

livello mare. Gente stampata per terra sulla propria stessa ombra

dalle ruote distratte di camion forestieri. Vecchie tagliate in due da

autocisterne di gasolio. Passanti arpionati da TIR e trascinati a fac-

CAMIONISTI UBRIACHI CONTRO IL RESTO DEL MONDO

Page 19: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

cia in giù per chilometri e chilometri. Donne gambizzate. Scontri

fra titani da quarantaquattromila chili l’uno. Rimorchi senza freni

sopra automobili trasformate in scatolette Simmenthal. Camionisti

ubriachi contro il resto del mondo. Autobotti di kerosene come

biglie su un piano inclinato. Scolaresche sepolte da carichi di assi

di legno. Il Boccetta intriso di sangue più d’una macelleria di muc-

che emofiliache.

E poi i bambini. Tanti bambini hanno lasciato il loro futuro sotto le

ruote fangose di qualche “Camion dell’Anno” MAN F2000. Fra

questi, Eliseo ne ricorda soprattutto uno: il piccolo Giovanni.

Compiva 13 anni, 9 mesi e 8 giorni quella mattina di maggio in cui

un parafango più grande di lui lo colse in mezzo alle strisce pedo-

nali. Stava risalendo il Boccetta verso casa insieme al suo compa-

gno di classe Mirko. Con gli zainetti sulle spalle, i due si sfidavano

alle capitali.

«Capitale dell’America», diceva Giovanni. «Washington», risponde-

va Mirko. Eliseo, dietro di loro, spingeva il carrello e tendeva le

orecchie. «Tocca a te». «Capitale del Messico». «Città del Messico.

Nepal?» «Mmmh... Nuova Delhi?» «No! Kathmandu!» «Vabbé, ma

così non vale...» «Non le sai!» «Capitale della Corea!» «Seoul». «Ah

ah, hai sbagliato! Dicevo Corea del Nord!» «Pyongyang!» «Troppo

tardi, non vale più!» «Vale!» «Stiamo dieci a nove per me».

I due scesero dal marciapiede per attraversare.

«Che dici?! Ma se stavamo undici a nove per me!» «Dimmi la capi-

tale dell’Olanda». «Bruxelles». «Sbagliato!» «E’ giusto, Bruxelles!»

«No, Bruxelles è in Francia!» «Ma sei pazzo? E’ giusto come dico

io!» «Lo vuoi sapere meglio di me?! Bruxelles è in Francia!» «E allo-

ra qual è la capitale dell’Olanda?»

Bum.

Mirko rimase in coma per tre giorni. Si svegliò spastico per via dei

d:cdario morelli

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Page 20: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

traumi cerebrali permanenti. Era ancora vivo solo perché Giovanni

gli aveva fatto involontariamente da scudo umano. Quest’ultimo fu

seppellito subito dopo l’autopsia. A tre metri dall’incidente, Eliseo

aveva visto tutto. Lì per lì aveva sentito un fortissimo dolore al

petto. Era sicuro che sarebbe morto anche lui. Mentre la gente

accorreva, era scappato lontano. S’era seduto su una panchina

dove aveva pianto in silenzio per tutto il giorno. Passata la notte,

era entrato in un’edicola e aveva fatto del suo meglio per spiegar-

si. L’edicolante, che in fondo era una brava persona, aveva capito

e – conservato il carrello con gli stracci nel retrobottega – aveva

accompagnato Eliseo al funerale di Giovanni.

Tanta attenzione il morto non l’avrebbe più dimenticata. Da allora,

infatti, Eliseo e Giovanni sono rimasti buoni amici. Nelle notti più

profonde, quando il silenzio del Boccetta si fa così livido da arros-

sare le orecchie, il ragazzo ed il barbone camminano insieme lungo

il marciapiede.

L’aspetto di Giovanni non è dei migliori. Il corpo nudo bianco-latte

è attraversato dagli squarci dell’autopsia. Sulla fronte mezza fra-

cassata s’intravede il logo della Mercedes che il camion gli ha

marchiato a fuoco.

Hanno molto da raccontarsi, il vecchio ed il bambino. L’uno sulla bel-

lezza della vita di paese. L’altro sulla sensatezza della morte di città.

3/ Ron Riàvulu & il dottor Sozzenstein

«Ma che sono, gatti in calore?» «Capace». «O sono lamenti?» «No,

che lamenti... Gatti in calore sono». «Sei sicuro?» «Sì dai. Pensa a

cacciare, che non hai preso un cazzo». «Secondo me sono lamen-

ti». «Ti lamenti ma che ti lamenti, pigghia lu bastuni e tira fora lidenti...» «Cazzo, hai sentito?!» «Cosa?» «Ha chiesto aiuto!» «Chi?»

«La voce!» «Che voce?» «Andiamocene». «Ma che hai?» «Prendi

quel cazzo di fucile, prendi tutto e andiamo!» «Ma che ti sei impaz-

CAMIONISTI UBRIACHI CONTRO IL RESTO DEL MONDO

Page 21: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

zito?» «A-N-D-I-A-M-O-C-E-N-E!» «Oddio!» «Che c’è?» «Li ho senti-

ti! Sono bambini, Totonno! Sono bambini!» Martino e Totonno si

tuffarono in auto. «Non possiamo scappare, dobbiamo chiamare la

polizia!» «Lo sai che qui non c’è campo». «E allora parti, che aspet-

ti?!» «E’ diesel, un attimo». «Forza, forza, forza!» «ODDIO TOTONNO

GUARDA!»

Tre bambini bianchi come cadaveri incollati al parabrezza. Gli occhi

spalancati. La bocca piena di sangue. Urlavano con voce da orchi,

provando a scavare il vetro come fosse terra. L’auto partì. I mostri

scivolarono via. Totonno e Martino tornarono dal fiume Doale al

centro di Gualtieri Sicaminò in una d ecina di minuti. Soltanto allo-

ra ripresero un respiro normale.

«Silenzio, - disse Totonno, - silenzio con chiunque». «Io devo dirlo

a qualcuno...» «NO!» «Ho bisogno di dirlo a qualcuno...» «Se vuoi

finire al manicomio, dillo a chi cazzo vuoi. Ma non mi coinvolgere!»

«Al prete... Lo posso dire al prete». «Che cazzo dici al prete? Che

hai visto gli zombie?! Quello chiama la neuro. Chiunque chiama la

neuro!» «No, il prete non può dire niente a nessuno. Ha il coso, il

segreto professionale». «Come no...» «Professionale o confessio-

nale?» «Mavaff...» «Non possiamo tenerci il segreto, Totò!

Dobbiamo parlarne con qualcuno!» «Parlane con Dio». «...» «Ho

trovato!» «Cosa?» «Diciamolo al dr. Sozzenstein! Eh? Almeno lui

non ci prenderà per pazzi! L’hai vista la pubblicità su

TeleSicaminò?»

Totonno l’aveva vista.

“... il TG-Gualtieri torna dopo la pubblicità, con le notizie sportive

sul Messina e la Sicaminese.

Time Code: 00.00.01

Evento rvm: Rapido montaggio di scene tratte da film horror. Il

vampiro di “Fracchia contro Dracula”, la bambina-fantasma di

d:cdario morelli

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Page 22: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

“Operazione paura”, il feto strappato a Serena Grandi e divorato in

“Antropophagus”, Veronica Lario con la mano mozza in “Tenebre”,

lo spettro del violinista in “Paganini Horror” e altre. In grafica

appare a 00:10:00 la scritta: ‘IL SANATORIO DEL DOTTOR SOZZENSTEIN’.

Audio: “Profondo Rosso” dei Goblin.

Time Code: 00:15:00

Evento rvm: Appare il dr. Sozzenstein dietro un tavolo operatorio.

La scenografia alle sue spalle riproduce un laboratorio da scienzia-

to pazzo. Fuori da una finestra s’intravedono lampi e pioggia. Il

dottore è illuminato dal basso. Indossa un caffettano da pascià ric-

camente decorato.

Audio: «Salve amici. Che le tenebre siano con voi! E’ il dr.

Sozzenstein che vi parla dal suo misterioso Sanatorio di via

Gaspare Pisciotta numero 15».

Time Code: 00:25:00

Evento rvm: La telecamera stringe sempre più sul volto del dr.

Sozzenstein, animato da espressioni di puro Mistero.

Audio: «O forse no? Forse è il Destino che vi parla per bocca mia!

Il Destino che vi vuole trionfatori sulle forze del Male, che afflig-

gono voi o i vostri parenti e affini».

Time Code: 00:40:00

Evento rvm: In rapida successione: un uomo in un ristorante svie-

ne su un piatto di pesce spada a ghiotta; una vecchietta con una

maschera da mostro si dimena sulla tazza del water; un uomo di

mezza età si gratta la barba come un cane; un ragazzo spara con

un fucile sul televisore che trasmette le estrazioni del lotto.

Audio: «Fatture, possessioni demoniache, licantropismo, malocchio?»

CAMIONISTI UBRIACHI CONTRO IL RESTO DEL MONDO

Page 23: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

Time Code: 00:46:00

Evento rvm: In studio, primissimo piano del dottore. Lampeggiante

ai piedi dello schermo la scritta: «CONSULTO GRATUITO».

Audio: «Che aspetti allora? Corri dal dr. Sozzenstein per un consul-

to gratuito! Il dottore ti ascolta, di esperienza ne ha molta/ risolveil misteryo con un atto d’imperio!»

Time Code: 00:53:00

Evento rvm e audio: Stessa musica della sigla d’apertura. Va in

grafica la scritta lampeggiante «VIA GASPARE PISCIOTTA N.15»

sul sorriso, per la verità un po’ cariato, del dottore. Nero a

01:06:00.”

Il Sanatorio del dr. Sozzenstein era al secondo piano di una palaz-

zina di proprietà dell’Ente Autonomo Case Popolari. Quando

Martino e Totonno arrivarono erano le tre del pomeriggio. Il piane-

rottolo profumava di caffé.

«Avete appuntamento?» chiese il dottore aprendo la porta. «No»,

risposero i ragazzi, «ma è una cosa urgente». «Eh, urgente ra min-chia. Trasìti, va».

Il dottore vestiva un pigiama leggero, tutto aperto sul petto villo-

so. Era molto più basso di quanto non sembrasse nello spot. Anche

il Sanatorio non era misterioso come in pubblicità. Anzi, non diffe-

riva in nulla da un normale appartamento privato.

«’U pigghiàti corretto, ‘u café?» chiese il dottore. I suoi ospiti

risposero di no. Lui gli porse l’espresso in due bicchieri di carta,

dicendo «teccà». Nel suo bicchiere versò tre dita di grappa.

«Cuntate, figghioli».

Martino e Totonno raccontarono tutto. Finita la grappa corretta al

caffé, Sozzenstein riprese colore in viso.

d:cdario morelli

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Page 24: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

«Capìa», disse poi. «Ho capito tutto. Aspettate ccà». Il dottore uscì

dalla cucina. I ragazzi lo udirono scartabellare a lungo tra libri e

carte. «L’ho trovato!» urlò poi dall’altra stanza. Passò un minuto

buono. «No, non era quello!» Passarono altri cinque minuti. «’Utruvai!» urlò ancora il dottore. Tornò ciabattando con un librone in

mano. Sulla copertina di pelle c’era scritto a lettere dorate:

“NECRONOMICUS SICULUS”.

«Qua», spiegò, «c’è la storia terribile del malefico don Fernando,

meglio conosciuto come ron Riàvulu!»

Probabilmente s’aspettava una reazione di terrore. I due clienti

rimasero indifferenti. Con un gesto di stizza il dottore cominciò a

sfogliare.

«Ccà», disse a un tratto, porgendo il libro. «Liggìti ccà!»Martino lesse a voce alta:

«Kronica Fernandi cognosciuto Don Diaboli. Fernando, nobile filiode usuraio ke proprietéa multe anime de laboratores imprestandodinaro ad strozzum in tempus de particulare scarsitate, proprietéaanco illo multo rispecto et honore sin da ke era parvulo».

«Ma che è, Brancaleone?» s’interruppe Martino. «E’ ‘na cronaca

dell’ottocento», spiegò Sozzenstein infastidito. «La volevano scri-

vere in latino ma non lo parlavano. Leggi!»

«Cresciuto et diventato magno, Fernando si fece robusto et galiar-do giovinotto, perfectus sub omni latus. Avéa un solo vizio, ma dafar venire la pelle de chapone. Di tempus in tempus, Fernandosentìa una ispecie de fame. Non de verdura o de carnem o depiscem, ma de filii de honesta gentem. Cum multo dinaro de suopater, Fernando iva in paesi prossimi ad satisfare illo diabolicovizio et poi tornava indreto verso casa, scapando alla iusta vindic-ta de li stranieri inferociti. Tanta impunitate fece cogitare ad issoke potéa facere la istessa cosa ne lo suo paese. Una sera, col cul-tellazzo ispianato, spingette per i boscki de la frasketa verso lo

CAMIONISTI UBRIACHI CONTRO IL RESTO DEL MONDO

Page 25: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

ruscello Doale il filio di Rosolino Trapani lo cerusico; il filio diOrazio cognosciuto come Nasca et il filio di Paulus ‘Filifierru’.Fernando sodomita fece decumparire i tre parvuli ne lo torrente ettornò spensieratus ne lo mezzo de la gentem. Ei pensava di esseinsospettabilis, ma kuando passàro uno iornum et una noctem eti parvuli non tornàro indreto, con li forconi et le zappe et le torcielo populus captivò Fernando et lo fece confessare. Don Diabolo fuprima torturato, poi brusiato et fatto a tocki, et infine sperduto perla frasketa. Da allora kuei boscki sunt infestati da la anima danna-ta di Don Diaboli et de li tre parvuli ke fùro da isso transformati inhorribili servi de lo dimonio».

«Stop», disse il dottore riprendendosi il libro. «Avete sentito?» «Sì,

ma che vuol dire?» chiese Totonno. «Ohu, ma ch’avi ‘a scoccia u tàcumpari?» domandò il dottore a Martino. «Qui», spiegò, «c’è scrit-

to che Fernando, detto ron Riàvulu, era un porco figlio di usuraio

che si chiavò a tre picciriddi. E ‘u fìciru fora». «Eh», annuì Totonno.

«E allora?» «E allora», riprese Sozzenstein con aria tenebrosa,

«anche se non lo sapete, io ho già affrontato l’anima persa di ron

Riàvulu molti anni fa. Destino volse... com’è? Volle? Vabbé, Destino

volle che già un’altra volta sia toccato a me liberare il Doale da

quello schifìo di mostro. E adesso eccovi qui, di nuovo a chiamar-

mi. Uno a st’ura penserebbe a un puro caso, visto che noi tre non

c’eravamo mai visti prima. Ma io so che non è così. E’ evidente che

io sono il nuovo Van Wood!» Un attimo di silenzio. «Che c’è? Non lo

sapete a Van Wood? Quello di Dracula!» «Van Helsing», lo corresse

Totonno. «Com’è?» «Van Hel-sing». «Sicuro sei? E Van Wood chi

era?» «L’astrologo di “Quelli che il calcio”. Lo chiamavano Van Goof

perché portava sfiga». «Non portava sfiga», intervenne Martino.

«Faceva i pronostici, quindi si diceva che “gufava”». «E uno che

gufa non porta sfiga?» «Non è detto». «’A finému? Facéte le perso-

ne serie. Che avete la macchina? Bene. Mi dovete accompagnare

al Doale». «Subito?» «Il tempo di attrezzarmi».

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Page 26: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

Scesero tutti e tre in garage. Sozzenstein estrasse da un armadio

un bidone d’acqua. «E’ santa», spiegò. «Fate i gavettoni», disse ai

due ragazzi indicandogli sul tavolo un imbuto e una boccia piena

di preservativi. «Che spreco», commentò Totonno.

Nel frattempo il dottore si mise al collo un crocifisso con due led

luminosi incastonati nelle orbite di Gesù. Da sotto il tavolo raccol-

se una valigia di pelle con la faccia di Padre Pio stampata su

entrambi i lati. La aprì per controllarne il contenuto. C’era il

“Trattato di magia” di Silvan; un paletto di frassino col ritratto di

Padre Pio in rilievo; un ostensorio-revolver col tamburo da sei

colpi; una bomba fumogena a forma di Padre Pio; i “Versetti sata-

nici” di Salman Rushdie in edizione tascabile “Cento pagine mille

lire”; il quarto volume (“Esorcismi”) della “Grande Enciclopedia dei

Miracoli di Padre Pio”; un aspersorio allungabile “a telescopio”;

una barba finta uguale a quella di Padre Pio; un Padreterno gon-

fiabile a grandezza naturale; il deodorante griffato “Padre Pio”; un

laccio emostatico; quattro shuriken, le stellette di metallo lanciate

dai ninja, con l’effige di Padre Pio; due paia di guanti di lattice; un

ombrello magico di Padre Pio; un pacchetto di fialette puzzolenti;

una sciarpa da stadio con la scritta “San Pio da Pietralcina”; una

bomboletta d’aria di santità; un pugnale kriss col manico di Padre

Pio; un fucile mistico visibile solo agli angeli; una cartina della

Puglia autografata da Padre Pio; la locandina de “L’Esorcista” nel

formato cartolina della rivista “Ciak”; un tirapugni coi ritratti di

Padre Pio sulle nocche; un autentico stinco di santo imbalsamato;

lo spray al peperoncino di Padre Pio; una bambolina voodoo di

Lucifero; un simil-Rolex col quadrante di Padre Pio; un flacone

d’acqua ossigenata Carlo Erba e una fialetta d’acido col tappo di

Padre Pio.

I ragazzi prepararono una decina di gavettoni d’acqua santa. Il dr.

Sozzenstein li legò con uno spago e l’indossò a tracolla come una

cartuccera. Poi prese la valigia, calzò un cappelo a tesa larga e

CAMIONISTI UBRIACHI CONTRO IL RESTO DEL MONDO

Page 27: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

disse semplicemente «andiamo».

L’auto si arrestò alle soglie del bosco attorno al fiume Doale.

«Voi restate qui», ordinò il dottore. «Entrerò soltanto io. E’ una que-

stione fra me e quell’essere ignobile». «E’ sicuro?» chiese Martino.

«Sì bello, non ti preoccupare», gli rispose il dr. Sozzenstein con un

sorriso bonario.

Scese dall’auto con la valigia in mano e s’addentrò a passi lenti nel

bosco. Di lui non si seppe mai più nulla.

4/ Colli arrosto

La sirena ululava. La contraerea attaccava concerto. Nel bunker

sui Colli Sarrizzo ci si preparava all’inferno. Ancora pochi secondi.

Poi la terra avrebbe cominciato a tremare e la temperatura si

sarebbe impennata di colpo. L’odore rarefatto del bosco sarebbe

sparito. Al suo posto, l’aroma di benzina e polistirolo delle bombe

‘mmericane. Di che cazzo erano fatte quelle bombe ‘mmericane

per incendiare foreste intere, arrostire i palazzi fino alle cantine e

i colli fin dentro i rifugi? Sei lettere, cominciava per N. Napalm.

Una parola con cui nessuno, a Messina come a Dresda, indicava

la diarrea incendiaria ‘mmericana. Nessuno, a Messina come a

Dresda, faceva molto caso alle parole. L’importante era «resistere,

resistere, resistere», come ripeteva il caporale Ricupero - venti-

quattro anni - citando una cartolina della prima guerra mondiale.

Lui e il suo coetaneo camerata Golia erano rimasti gli unici a fare

la spola rifugio-città, o meglio rifugio-macerie, per procurare cibo

e acqua alle quaranta anime – quasi tutte donne e bambini – che

avevano tratto in salvo da una sicura morte di città.

“Resistere, resistere, resistere”. Non all’invasione ormai inevitabi-

le, ma alle bombe che spianavano la strada all’invasione. Per

quanto riguardava Ricupero e Golia, la strada era già spianatissi-

ma e la tavola era già bella e cunzata. Non vedevano l’ora che ‘sti

d:cdario morelli

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Page 28: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

‘mmericani smettessero di seminare morte e scendessero a racco-

gliere il loro meritato Nulla.

«Dovremmo arrenderci», miagolava a volte Golia nel buio del

bunker, mezzo soffocato dall’odore di neonati, muschio e umanità

stipata. «Siamo già arresi», rispondeva Ricupero. «Difficile è far-

glielo capire. Come si fa? Mandiamo una lettera sull’apparecchio?

Un palummo viaggiatore? C’ittamu vuci? L’unica è restare vivi,

resistere, resistere, resistere. Tanto fra un po’ è finita...»

Novecento metri più in alto, a capo della prima formazione d’attac-

co, il bombardiere “100% Alabama’s Fire” del Maggiore Osvald

Turdslice sfidava l’esausta contraerea fascista come un Prometeo

contro gli Dei dell’Olimpo. Proprio come ai tempi di Prometeo,

anche il Maggiore Turdslice veniva a portare il fuoco agli umani

mentre qualcuno tentava d’impedirglielo. Invano. Il triangolo di

aeroplani sfrecciava indenne sui cosiddetti cieli della Patria. I can-

noni della gloriosa contraerea fascista, Dei di un Olimpo appiccica-

to con lo sputo, sembravano sparare alla cazzo. Non andò a segno

manco un colpo finché - con un’unica precisissima bomba - i ‘mme-

ricani fecero scoppiare la postazione come un brufolo maturo.

Sipario.

Nella cabina di comando del “100% Alabama’s Fire”, secondo

l’uso dei reparti più patriottici dell’American Air Force, il Maggiore

Turdslice copriva il riporto e le cuffie militari con un cappello bian-

co da cowboy. Come una pressa da rottamazione, la sua mascella

larga e squadrata martellava tenacemente un chewingum. «Ci

siamo!» urlò il Maggiore nel microfono di bordo. «Start the music!»La pancia dell’”Alabama” s’aprì per prima. Una collana di bombe

si distaccò da tutto il triangolo d’aeroplani e in pochi secondi s’ab-

batté, a mo’ di ghigliottina, sul manto verde dei colli Sarrizzo. In

mezzo a quel tappeto d’alberi color smeraldo s’aprì uno squarcio

di fuoco in rapido allargamento, come un portale spalancato sulle

fiamme dell’inferno. In pochi minuti il Maggiore invertì la rotta del

CAMIONISTI UBRIACHI CONTRO IL RESTO DEL MONDO

Page 29: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

suo p-38. Quando fu in condizioni di godersi lo spettacolo, i colli

Sarrizzo già ardevano in un’unica fiammata.

Pochi istanti prima, tra l’acciaio ed il granito del rifugio, il capora-

le Ricupero ascoltava nel buio la sinfonia di contraerea e rosari.

Passava i polpastrelli sulle mostrine della divisa, pensando al futu-

ro. Cosa sarebbe stata l’Italia senza Fascismo? In passato, qualche

volta, s’era interrogato sulla morte del Duce. Se da bambino spe-

rava che gli scienziati dell’Impero trovassero il modo di rendere

immortali Mussolini e i suoi strateghi, col tempo aveva visto che il

gerarca Bianchi era morto di malattia, Italo Balbo era stato

ammazzato in cielo e anche Mussolini non se la passava troppo

bene. Aveva allora immaginato un’Italia senza di loro. A reggere

l’Impero sarebbe arrivato un degno successore, magari Romano

Mussolini o qualche illustre delfino del Duce. Ma se con un po’ di

fantasia poteva anche darsi uno Stato senza Cavaliere, di certo

nessuno poteva immaginare l’incubo che invece si andava profi-

lando: un’Italia senza Fascismo. La Patria di nuovo abbandonata

nelle mani avide dei barbari, al bivio infame tra anarchia e comu-

nismo. Le madri, gli anziani ammassati nel rifugio, gli stessi Golia

e Ricupero erano pronti a scontare una vita senza speranze di feli-

cità, dove tutto sarebbe stato l’opposto di ogni sogno mai sognato

prima? Per il caporale pensare il domani era come immaginare il

Nulla assoluto. Impossibile per più d’un solo, terrificante attimo.

«Vieni qua», mormorò a Golia. Questi stava disteso accanto a lui e

gli si avvicinò strisciando. Ricupero l’abbracciò. Difficilmente Golia

sopportava il contatto fisico. Era il suo punto debole, una cosa che

l’esponeva a facili attacchi. Bastava toccarlo - al di fuori di un rap-

porto sessuale - per infastidirlo oltremisura. Una volta s’era persi-

no sorpreso a pensare che il massimo che il Fascismo avesse fatto

per lui era stato sostituire le strette di mano col saluto a braccio

teso. Eppure non disse niente. Forse perché l’abbraccio del came-

rata gli impediva di tremare. I due accostarono le guance e le lab-

d:cdario morelli

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bra, respirando gli stessi respiri. Presagendo l’immediato futuro,

chiusero gli occhi e aspettarono la fine. Che arrivò pronta dal cielo,

fischiando come l’ultimo treno della notte.

L’equipaggio non poteva vedere quello che le carte segnalavano

come l’ultimo damn motherfuckin’ fascists’ bunker finché non fu

centrato da una bomba. Nelle cuffie degli uomini di bordo l’urlo di

gioia del Maggiore Turdslice superò le zufolanti musiche del

Pinocchio di Walt Disney. Il Maggiore le aveva scelte come sound-

track della campagna d’Italia. Inizialmente scettici, divisi più che

altro tra Montana Slim e Jimmie Rodgers, alla fine anche i suoi

boys avevano gradito la scelta di Pinocchio. Soprattutto quando

s’accorsero che l’arancione e il nero delle colonne di fuoco al

napalm ricordava i colori caldi del film. La musica era il principale

metodo escogitato dal Maggiore Turdslice per evitare che la vista

del rudere fumante in cui s’era trasformata la città deprimesse l’e-

quipaggio.

I rifugiati cominciarono a scappare dal bunker come animaletti da

un formicaio in fiamme. Con tutte le colline divorate dal fuoco, ai

fuckin’ bastards restava solo da scegliere se friggere nello scanti-

nato o all’aria aperta, a seconda che preferissero il cartoccio o il

barbecue. Mission accomplished. Le difese del nemico erano state

neutralizzate. Come il nemico, del resto.

«Let’s go home!» ordinò il Maggiore.

La squadriglia sorvolò quella specie di enorme posacenere pieno

che le mappe chiamavano ancora Messina. Al largo del mar

Mediterraneo, una portaerei grande e sicura come la mamma

accolse i suoi eroici figli ormai scarichi di ordigni.

Alcuni dicono che le bombe, anche se al napalm, non uccidono l’a-

nima. E’ la stessa gente che, addentrandosi lungo i tornanti dei

colli Sarrizzo in qualche assolata mattina di luglio, racconta di aver

incontrato due ragazzi bellissimi in divise della seconda guerra

CAMIONISTI UBRIACHI CONTRO IL RESTO DEL MONDO

Page 31: Camionisti Ubriachi Contro Il Resto Del Mondo

mondiale, che si tenevano per mano e guardavano preoccupati il

cielo. Chi li ha visti parla di esseri tristi, stanchi, impauriti, che

all’avvicinarsi di anima viva scappano terrorizzati verso una parete

di rocce dove un tempo pare esistesse un rifugio antiaereo.

Proprio lì i due fantasmi si tuffano e scompaiono.

In una fiammata.

d:cdario morelli

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CAMIONISTI UBRIACHICONTRO IL RESTO DEL MONDO

Un uomo senza testa alle porte di una chiesa.

Un bambino fantasma sul viale Boccetta.

Un mistero da risolvere per il leggendario dottorSozzenstein, prima che sui colli Sarrizzo ricominci apiovere napalm.

Quattro leggende metropolitane, quattro storie difantasmi messinesi raccontate con sarcasmocorrosivo.

Messina non è mai stata così inquietante e surreale.

euro 2,50