Cambiamento tecnologico e mercato del lavoro: una survey · 2016-01-08 · 3.1 Progresso...

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Cambiamento tecnologico e mercato del lavoro: una survey Valerio Intraligi, Università degli Studi di Roma Tre Paolo Naticchioni, Università degli Studi di Roma Tre 1. Introduzione 2. Le ICT e l'economia nel XXI secolo: tendenze e prospettive 3. (ICT e mercato del lavoro: evidenze empiriche) 3.1 Progresso tecnologico e occupazione: compensation vs subtitution 3.2 Progresso tecnologico e composizione della forza lavoro: polarizzazione del mercato del lavoro e routine-biased technical change 3.3 Progresso tecnologico ed evoluzione della distribuzione dei salari 3.4 Brevi considerazioni su vincitori e vinti della digital economy: leverage tecnologico e winner-takes-all markets 4. Considerazioni di policy 5. Conclusioni 1

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Cambiamento tecnologico e mercato del lavoro: una survey

Valerio Intraligi, Università degli Studi di Roma Tre

Paolo Naticchioni, Università degli Studi di Roma Tre

1. Introduzione

2. Le ICT e l'economia nel XXI secolo: tendenze e prospettive

3. (ICT e mercato del lavoro: evidenze empiriche)

3.1 Progresso tecnologico e occupazione: compensation vs subtitution

3.2 Progresso tecnologico e composizione della forza lavoro: polarizzazione del mercato del

lavoro e routine-biased technical change

3.3 Progresso tecnologico ed evoluzione della distribuzione dei salari

3.4 Brevi considerazioni su vincitori e vinti della digital economy: leverage tecnologico e

winner-takes-all markets

4. Considerazioni di policy

5. Conclusioni

1

1. Introduzione

A partire dalla metà degli anni novanta, le conseguenze del progresso tecnologico e, in particolar

modo, della diffusione delle Infomation and Communication Technologies (ICT) sulle dinamiche

occupazionali e salariali osservabili nei mercati del lavoro delle moderne economie avanzate,

rappresentano uno dei principali oggetti di studio della ricerca empirica nel campo dell'economia

del lavoro. Negli ultimi anni, tuttavia, a fronte della sorprendente accelerazione del progresso delle

nuove tecnologie e del contestuale declino dei rispettivi costi di produzione (entrambi alla base

dell'espansione di quella che oggi viene generalmente indicata come digital economy), nonché delle

persistenti disuguaglianze che si sono intensificate in seguito alla Grande Recessione del 2008-

2009, l'argomento ha suscitato l'interesse di una platea sempre più ampia di studiosi e osservatori,

tanto da divenire oggetto di numerose analisi non solo di rilievo accademico ma, data l'accresciuta

rilevanza del tema, anche di tipo divulgativo e giornalistico: solo per fare un esempio, il noto

settimanale britannico The Economist ha recentemente dedicato un inserto di approfondimento

tematico a quella che oltre ad essere indicata, con l'abituale sensazionalismo della stampa

giornalistica, come una vera e propria terza rivoluzione industriale, viene definita “la moderna

rivoluzione digitale […] che sta perturbando e dividendo il mondo del lavoro su una scala che non

si vedeva da oltre un secolo”1.

In questo contributo si cercherà di delineare un quadro complessivo dell'attività di ricerca in

ambito economico sull'argomento, senza tuttavia trascurare le riflessioni da noi ritenute più

suggestive e meritevoli di menzione pervenute da giornalisti e studiosi di diverso ambito. Nel far

questo, naturalmente, abbiamo cercato di mantenere il rigore necessario per favorire una

comprensione quanto più cristallina dell'oggetto di studio e dell'attività di ricerca ad esso relativo,

nella speranza che il nostro tentativo aiuti il lettore ad intendere con sufficiente chiarezza i postulati

teorici e i risultati empirici delle diverse analisi qui considerate.

Dopo alcune considerazioni iniziali sulle prospettive future dell'avanzamento tecnologico nonché

sul contributo di lungo periodo delle ICT alla produttività del lavoro, il nostro intervento articola i

principali risultati della ricerca in tema di progresso tecnico e mercato del lavoro su tre diverse

dimensioni: i) l'impatto del progresso tecnologico sui livelli occupazionali; ii) l'impatto del

progresso tecnologico sulla composizione dell'occupazione per diverse tipologie di professioni; iii)

l'impatto del progresso tecnologico sull'evoluzione della distribuzione salariale. A questa

panoramica della letteratura empirica seguiranno delle brevi considerazioni sull'espansione

dell'economia digitale. L'intervento si chiude con alcune riflessioni su possibili indicazioni di policy

che lasciano il passo, infine, a delle sintetiche note conclusive.

2. Le ICT e l'economia nel XXI secolo: tendenze e prospettive

La larga diffusione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione che si è avuta negli

ultimi decenni, accompagnata e sostenuta da una intensa e particolarmente evidente accelerazione

1 “The Third Great Wave”, The Economist (special report), 4-10 ottobre 2014.

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del progresso tecnologico, sta suscitando e facendo riemergere numerosi interrogativi tra gli

economisti contemporanei, interrogativi cui la ricerca empirica, come si avrà modo di vedere lungo

le pagine di questa breve survey, ha tentato e sta tentando di fornire delle risposte. Aldilà delle

evidenze messe in luce dalla variegata letteratura tesa a studiare l'impatto delle ICT sull'economia e

sul funzionamento dei mercati (dei beni, dei servizi, del lavoro), un aspetto non secondario di quella

che ormai da molti viene indicata come una vera e propria “rivoluzione digitale” è costituito

senz'altro dalle prospettive economiche future che essa sta delineando.

Questa interessante questione è stata recentemente affrontata, tra l'altro in modo alquanto

suggestivo, da Brynjolfsson e McAfee (2011, 2014), i quali hanno cercato di individuare le

tendenze maggiormente salienti e le principali implicazioni economiche del rapido progresso

tecnologico. Alla base delle riflessioni dei due studiosi del MIT vi è infatti l'idea che l'accelerazione

nel progresso delle nuove tecnologie sia un processo ormai irreversibile che, seguendo un

andamento pressoché esponenziale, porterà in tempi brevi verso cambiamenti radicali per

l'economia, sia per le imprese che per i consumatori, come alcune delle più recenti conquiste

informatiche nel campo dell'automazione e della robotica sembrano in parte confermare2. Questa

crescita di tipo geometrico (che ricorderà le riflessioni malthusiane sulla crescita della popolazione)

viene ricondotta dagli autori alla natura intrinseca delle tecnologie digitali, in particolar modo alla

cosiddetta “legge di Moore”. Co-fondatore di Intel, Gordon Moore constatò infatti che, a parità di

costi di produzione, il numero di transistor per circuito integrato era in grado di raddoppiare circa

ogni anno (Moore, 1965). L'evidenza empirica suggerisce che, effettivamente, a parità di costi di

produzione le performance dei beni e dei servizi prodotti dal settore delle ICT raddoppino in media

ogni diciotto mesi. Ricorrendo ad una popolare leggenda cinese sulle origini del gioco degli scacchi,

secondo la quale l'inventore riuscì ad essere ricompensato dall'imperatore con un ammontare di riso

tale che, partendo da un singolo chicco da posizionare sul primo tassello della scacchiera, venisse

raddoppiato di tassello in tassello fino al sessantaquattresimo (per un totale di 263 chicchi di riso -

circa nove miliardi di miliardi), gli autori sottolineano la capacità della crescita esponenziale di

portare rapidamente verso numeri che sfuggono all'umana comprensione. Secondo alcune versioni

della leggenda, infatti, una volta superata la seconda metà della scacchiera (soglia oltre la quale la

duplicazione costante iniziò a interessare intere coltivazioni di riso), l'imperatore si trovò costretto

ad ordinare l'uccisione dello scaltro inventore, dando modo a Brynjolfsson e McAfee di avanzare la

2 Gli autori forniscono l'esempio particolarmente calzante della self-driving car progettata dal colosso americanoGoogle (https://www.youtube.com/watch?v=bDOnn0-4Nq8). La creazione dell'automobile, in grado di percorrereautonomamente percorsi urbani con l'aiuto del noto servizio Google Maps e di un sistema radar a sensori luminosi(LIDAR), venne annunciata nel 2011, quando solamente sei anni prima numerose imprese del settore hi-techstatunitense, candidate ad una competizione indetta dall'Agenzia per i progetti di ricerca avanzata del Dipartimentodella Difesa (DARPA), fallirono nell'intento di far percorrere ai propri veicoli privi di conducente più di unamanciata di miglia nel deserto. Un esempio ulteriore è fornito dai nuovi sistemi di traduzione simultanea(recentemente adottati anche da Skype, https://www.youtube.com/watch?v=G87pHe6mP0I), un tipo di tecnologiache nel lungo periodo potrebbe portare ad una forte riduzione della domanda di traduttori, come in parte suggeriscequanto già avviene nei call-center di alcune imprese statunitensi (Cfr. Brynjlofsson e Mc Afee, 2011, 2014). Nelcampo della robotica, invece, si ritengono di particolare interesse i progressi compiuti dal progetto ASIMO delgruppo Honda (https://www.youtube.com/watch?v=e5CViTDt2LY), mentre per quanto riguarda lo sviluppo disorprendenti capacità cognitive da parte dei computer, segnaliamo il caso, particolarmente celebre negli Stati Uniti,della macchina “Watson” progettata da IBM (Cfr. Kelly e Hamm, 2013), che verrà anche utilizzata nei prossimi annia scopi di consulenza sanitaria (http://www.ibm.com/smarterplanet/us/en/ibmwatson/health/).

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suggestiva interpretazione che individua nei primi anni duemila la soglia tra la prima e la seconda

metà della scacchiera su cui avanza il progresso delle tecnologie informatiche. Aldilà della

pittoresca metafora proposta dai due studiosi, non sembra insensato sostenere che, al punto cui

siamo arrivati oggi, una continua accelerazione del progresso tecnologico possa portare a

cambiamenti rilevanti per il funzionamento delle moderne economie avanzate, in particolar modo

per quanto riguarda l'evoluzione dei processi produttivi e del mercato del lavoro.

Il punto di vista proposto da Brynjolfsson suggerisce dunque di guardare all'evoluzione delle ICT

in prospettiva storica, portandoci ad affrontare la questione del loro contributo di lungo periodo alla

produttività ed ad altre variabili economiche. È infatti noto che durante la prima diffusione delle

ICT negli anni ottanta, come constatò Robert Solow (1987), l'era dei computer si poteva “vedere

ovunque tranne che nelle statistiche sulla produttività”. La celebre osservazione del premio Nobel,

passata alla storia come il “paradosso di Solow”, diede origine a un lungo dibattito che, in un certo

qual modo, giunge fino ad oggi, anche se a partire dalla metà degli anni novanta si è registrato un

sensibile aumento nella crescita della produttività statunitense. Tale repentina ripresa significò per

gli Stati Uniti la fine del lungo ventennio di stagnazione della crescita della produttività iniziato nel

1973, e il fatto che si sia verificata dopo circa un decennio dall'introduzione dei computer si presta

naturalmente a una molteplicità di spiegazioni e interpretazioni. Brinjolfsson e McAfee (2014)

riportano l'esempio dell'introduzione della corrente elettrica nel settore agricolo statunitense,

un'innovazione che prima dei necessari aggiustamenti organizzativi (inizialmente un unico grande

generatore elettrico andava a rimpiazzare il vecchio motore a vapore collegato meccanicamente ai

vari macchinari, mentre solo decenni più tardi i singoli macchinari vennero dotati di un proprio

motore elettrico e quindi messi in grado di operare a distanze maggiori) non fu in grado, grazie alla

sua semplice comparsa, di contribuire alla produttività delle fattorie americane. In modo analogo, le

ICT avrebbero richiesto del tempo per innescare un impatto significativo sulla struttura produttiva e

sull'aumento della produttività. Secondo Jeorgenson et al. (2007), il ruolo delle ICT è stato

fondamentale nell'accelerazione della crescita della produttività statunitense avutasi dalla metà degli

anni novanta e, malgrado un certo rallentamento negli anni precedenti la Grande Recessione, non ci

sono elementi per prevedere che il trend sia destinato ad esaurirsi. Tuttavia, altri studiosi

suggeriscono maggiore cautela nel considerare le ICT alla stregua di una panacea per gli andamenti

futuri della produttività. Fernald (2014), ad esempio, trova che negli anni precedenti la Grande

Recessione il rallentamento della crescita della produttività negli USA, lungi dall'essere

riconducibile a motivi di natura finanziaria associati alla bolla immobiliare, si è concentrato

soprattutto nei settori ICT-intensive, declassando così il boom degli anni novanta a un fenomeno di

natura eccezionale e concludendo che, per il futuro, sembrano esserci maggiori probabilità di un

ritorno al trend stagnante degli anni settanta e ottanta che di una nuova ripresa della crescita.

Aldilà dei diversi punti di vista sulle prospettive future, dalla letteratura empirica sull'argomento

sembrano emergere poche ambiguità sulla sostanza, potendosi osservare una prevalenza di studi che

confermano il contributo positivo delle ICT alla produttività dei settori che investono in

innovazione. In particolare, come illustrano Cardona et al. (2013), l'effetto positivo sulla

produttività risulta generalmente crescente nel tempo, con evidenze di un effetto maggiore negli

Stati Uniti rispetto ai paesi europei quando si tratta di studi al livello aggregato o settoriale,

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differenza che tuttavia viene meno quando si prendono in considerazione analisi al livello di

impresa. Indicativamente, la maggior parte dei lavori sul tema rileva la centralità degli investimenti

complementari in innovazione organizzativa e personale qualificato, confermando l'idea che gli

investimenti in ICT di per sé non siano in grado di innescare meccanismi virtuosi apprezzabili per la

produttività senza i necessari aggiustamenti da parte delle imprese, con particolare riferimento ai

cosiddetti investimenti in asset intangibili (modelli di business, organizzazione dei processi

produttivi, adozione di best pratices associate alle ICT, etc.).

Un'altra spinosa questione riguarda gli asset intangibili, ai problemi cioè di misurazione associati

alle ICT, con particolare riferimento alla continua espansione del mercato dei cosiddetti “beni

digitali”3. Essi si distinguono dai beni tradizionali in quanto caratterizzati da costi marginali di

riproduzione prossimi allo zero e da una generale non rivalità nel consumo. La crescita del consumo

di beni siffatti (informazioni, media, comunicazioni, social network) sta in effetti comportando

importanti incrementi di utilità per i consumatori, mentre è in progressivo aumento il consumo di

beni prodotti quasi gratuitamente (i cosiddetti user generated contents, ad esempio l'enorme massa

di materiale audiovisivo caricato e consumato quotidianamente su YouTube, le informazioni

disponibili su Wikipedia e le recensioni su hotel e ristoranti generate e consultate su piattaforme

web e app per smartphone) e il consumo di telecomunicazioni sostanzialmente gratuite (Skype e

What's app, solo per fare due esempi particolarmente noti). Tuttavia, a causa dell'irrilevanza dei

costi, gli incrementi di utilità derivanti dal consumo di tali beni vengono plausibilmente sottostimati

da indicatori economici tradizionali quali il prodotto interno lordo, mentre i beni tradizionali

sostituiti dai nuovi beni digitali costituivano quote rilevanti di tale indicatore (editoria, industria

musicale, telecomunicazione, video e cinema, enciclopedie, etc.), quote che sono in decisa

diminuzione negli ultimi anni.

Pertanto, è ragionevole pensare che nei prossimi decenni il progresso tecnologico costringerà i

policy makers a fare i conti con importanti cambiamenti di natura strutturale, come le tendenze

appena descritte sembrano suggerire. Altresì, è pressoché ovvio che quanta parte di tale progresso

migliorerà le prospettive economiche, e quanta parte invece comporterà perdite di benessere,

dipenderà soprattutto dall'esatta comprensione di queste ultime. Per quanto ci riguarda, in questa

sede ci limiteremo a presentare le evidenze messe in luce dalla letteratura empirica in tema di ICT e

mercato del lavoro, iniziando con la vexata quaestio sul fenomeno della disoccupazione

tecnologica.

3 Con “beni digitali” si vuole indicare l'insieme dei beni e dei servizi convertibili in un flusso di bit. Cfr. Brinjolfsson e McAfee (2014).

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3.1 Progresso tecnologico e livelli occupazionali: compensation vs substitution

“L'opinione propria della classe operaia, che l'impiego di macchinari sia

spesso nocivo ai suoi interessi, non è fondata su pregiudizi od errori, ma è

allineata con i corretti principi dell'economia politica” (David Ricardo, 1817)

“Siamo affetti da una nuova malattia […] chiamata disoccupazione

tecnologica. Questo significa disoccupazione causata dalla scoperta di nuovi

mezzi per risparmiare sull'utilizzo del lavoro a una velocità superiore a quella

con la quale riusciamo a trovare nuove forme di impiego.” (J. M. Keynes, 1930)

“Il ruolo degli umani, inteso come il più importante fattore della produzione, è

destinato a diminuire, come già accadde per i cavalli nella produzione agricola, il

cui ruolo prima diminuì e dopo fu eliminato a causa dell'introduzione dei

trattori.” (Wassily Leontief, 1983)

La questione dell'impatto potenzialmente negativo del progresso tecnico sui livelli occupazionali

non è estranea al pensiero economico moderno e, come chiaramente illustrato dalle citazioni in

apertura, è stata oggetto delle riflessioni di grandi economisti in epoche assai diverse4. Tuttavia,

come è noto, sin dagli albori dell'era industriale gli incrementi di produttività associati al progresso

tecnologico sono stati accompagnati dalla crescita sostenuta piuttosto che dal declino

dell'occupazione, ed è questa la ragione per la quale il timore della disoccupazione tecnologica è

sovente indicato con l'appellativo di “fallacia luddista”5. Malgrado ciò, negli ultimi anni l'argomento

ha assunto maggiore rilevanza non solo in ragione dello stupefacente avanzamento delle tecnologie

informatiche di cui s'è detto, ma anche del trend decrescente che può osservarsi nella crescita

dell'occupazione in alcune importanti economie avanzate, in particolar modo negli Stati Uniti degli

ultimi decenni.

Al livello teorico, sulla questione si sono storicamente confrontate due diverse impostazioni: la

prima a sostegno dell'ipotesi che la tecnologia sia in grado di portare a una riduzione strutturale

dell'occupazione attraverso una prevalenza dell'effetto di sostituzione (substitution theory), la

seconda a sostegno dell'ipotesi che i meccanismi di mercato riescano a compensare l'effetto

sostituzione neutralizzando l'impatto negativo della tecnologia sui livelli occupazionali

(compensation theory). L'ipotesi di prevalenza dell'effetto di sostituzione poggia sull'idea che la

diffusa innovazione dei processi produttivi dovuta agli investimenti in ICT, aumentando la

produttività del lavoro, riduca ceteris paribus la domanda di lavoro rispetto a quella di capitale,

portando così verso una generale diminuzione dei livelli di occupazione. Quest'ipotesi è divenuta

4 Va comunque tenuto presente che David Ricardo, sebbene venga spesso annoverato tra i “pessimisti”sull'argomento, in realtà riconosceva l'esistenza di meccanismi di mercato compensativi, e il passo citato si riferivaal caso in cui l'incremento dei profitti (dovuto agli effetti labor saving dell'impiego di macchinari) non si fossetradotto in un aumento degli investimenti o in un aumento dei livelli di produzione. Cfr Vivarelli (2014).

5 Si narra che Ned Ludd fu il carismatico leader del movimento dei luddisti, un gruppo di lavoratori britannici chedurante la prima rivoluzione industriale avrebbe reagito al timore della disoccupazione tecnologica distruggendo iprimi prototipi di telaio meccanico acquistati dalle imprese tessili in cui lavoravano. Cfr Hosbawn (1968).

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piuttosto popolare a metà degli anni novanta con l'opera divulgativa di Jeremy Rifkin (1995),

momento a partire dal quale la diffusione delle ICT sembra aver iniziato a favorire la crescita della

produttività statunitense. Lo scenario apocalittico delineato dalle ipotesi di Rifkin, noto come “the

end of work”, ha trovato una prima autorevole critica circa un decennio più tardi da parte di Levy e

Murnane (2004). In particolare, gli autori hanno argomentato che sebbene le macchine siano in

grado di svolgere con relativa facilità mansioni espletabili in base a regole fisse (automazione in

senso stretto), esse non sono idonee ad assolvere funzioni che richiedano interazioni o processi

cognitivi di tipo complesso (intelligenza artificiale), un dato oggettivo che rende poco plausibile

l'ipotesi di prevalenza di lungo periodo dell'effetto sostituzione. Tuttavia, come illustrato attraverso

numerosi esempi da Brinjolfsson e McAfee (2011, 2014), a distanza di un ulteriore decennio le

macchine stanno sviluppando capacità che esulano dalla mera automazione, rendendo il punto di

vista suggerito da Levy e Murnane in parte meno attendibile.

Diversamente, la seconda impostazione teorica affonda le radici in quei meccanismi di mercato

in grado di neutralizzare o addirittura rovesciare l'effetto sostituzione provocato dal labor saving

bias associato agli investimenti in nuove tecnologie. I principali canali attraverso i quali opera

l'effetto di compensazione sono sostanzialmente tre: innovazione del prodotto, diminuzione dei

prezzi e incrementi del reddito. Nel caso di innovazione del prodotto, il meccanismo di

compensazione dovrebbe agire grazie alla domanda appunto di prodotti innovativi, che si assume

essere superiore rispetto quella di vecchi prodotti e, pertanto, in grado di compensare la riduzione

della quantità di lavoro domandata attraverso un aumento dei livelli di produzione. I meccanismi

associati alla diminuzione dei prezzi e agli incrementi del reddito, invece, sono entrambi

riconducibili alla diminuzione dei costi di produzione derivante dall'innovazione dei processi

produttivi. In un mercato concorrenziale, infatti, la riduzione dei costi di produzione dovuta

all'introduzione della nuova tecnologia dovrebbe riflettersi in un abbassamento dei prezzi e in un

conseguente aumento della domanda, e la forza del meccanismo di compensazione, quindi, sarebbe

proporzionale all'elasticità della domanda del mercato di riferimento. Ove la domanda fosse

inelastica, l'effetto reddito a beneficio dei consumatori si tradurrebbe comunque in una maggiore

spesa verso altri prodotti, comportando plausibilmente un aumento della domanda di lavoro in altri

settori dell'economia. Nel caso di mercati non concorrenziali, la riduzione dei costi di produzione

dovrebbe riflettersi anche in un aumento degli extra profitti percepiti dall'impresa, il che può

tradursi, a seconda della propensione a investire degli imprenditori e/o del potere di contrattazione

salariale della forza lavoro, in un aumento dei dividendi, degli investimenti o dei salari. In tal caso

vale grossomodo quanto detto a proposito dell'effetto reddito in caso di mercati concorrenziali e

domanda inelastica, con la differenza sostanziale che l'effetto reddito si avrebbe a beneficio degli

agenti coinvolti nel processo di produzione invece che a beneficio dei consumatori.

Quanto alla letteratura empirica, i lavori recenti che affrontano il tema dell'impatto del progresso

tecnologico sui livelli occupazionali sono relativamente scarsi se paragonati alla vasta letteratura

tesa a studiare gli effetti sulle quote d'occupazione e/o la distribuzione dei salari, mentre i risultati

da essi ottenuti si presentano frammentati e non univoci e pertanto non permettono il

raggiungimento di un consenso generale sull'argomento. Inoltre, le strategie analitiche sono

abbastanza eterogenee e la tecnologia è approssimata a seconda dei casi da variabili differenti, che

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vanno dagli investimenti in capitale innovativo a quelli in R&S6. Infine, non tutti gli studi

distinguono l'innovazione dei processi dall'innovazione del prodotto, e quando la distinzione viene

adottata non sempre è operata in base agli stessi criteri. Tuttavia, se il fine è quello di far luce sulla

prevalenza o meno dei meccanismi individuati dalla teoria e brevemente discussi in questa sede, i

risultati si ritengono sufficientemente convergenti per evidenziare alcuni fatti stilizzati. Dopo aver

passato in rassegna alcuni degli studi condotti negli ultimi anni, sintetizziamo le evidenze principali

in delle note conclusive che chiudono il paragrafo (per una rassegna degli studi precedenti

rimandiamo a Sabadash, 2013, e Vivarelli, 2014)

Per il caso statunitense, un'analisi interessante è stata condotta da Coad e Rao (2011), i quali

hanno usato dati relativi alle imprese del settore hi-tech per il periodo 1963-2002 e hanno

approssimato l'innovazione tecnologica sia con la spesa in R&S sia con il numero di brevetti,

entrambi in rapporto al volume delle vendite. Attraverso tecniche di regressione convenzionali,

l'analisi mostra un impatto positivo della tecnologia sui livelli futuri di occupazione.

Per il caso europeo, Harrison et al. (2014) utilizzano dati dell'European Community Innovation

Survey (CIS) relativi alle imprese di Francia, Germania, Spagna e Gran Bretagna nel biennio 1998-

2000. Tra le variabili di maggiore interesse, oltre ai livelli occupazionali e le vendite, il questionario

contiene informazioni sull'introduzione o meno di innovazioni tecnologiche che distinguono tra

innovazione del prodotto e dei processi produttivi. Con tecniche di stima che utilizzano variabili

strumentali per far fronte al problema dell'endogeneità (OLS-IV) gli autori trovano che

l'innovazione dei processi produttivi non riduce il livello di occupazione: se i guadagni di

produttività dipendenti e non dipendenti dalle innovazioni dei processi produttivi distruggono

congiuntamente posti di lavoro, nel periodo osservato la crescita della domanda ha decisamente

compensato l'impatto negativo sui livelli occupazionali, in accordo con quanto previsto dalla

compensation theory. Nello stesso studio, l'innovazione del prodotto risulta invece aumentare i

livelli occupazionali: la creazione di posti di lavoro risulta più accentuata nel settore manifatturiero,

e la riduzione di lavoro associata alla perdita di quote di mercato nelle imprese che non innovano il

prodotto (in altre parole, imprese oggetto di business stealing da parte delle imprese product

innovator) corrisponde, nelle stime, a circa un terzo della creazione netta di posti di lavoro nelle

imprese innovatrici.

Allargando l'orizzonte temporale, Bogliacino e Pianta (2010) usano i dati SID (sectoral

innovation databse) dell'Università di Urbino al livello industriale per otto paesi dell'Unione

Europea nel periodo 1994-2004 e, adottando una tassonomia di Pavitt rivisitata, eseguono una

regressione col metodo dei minimi quadrati generalizzati che tiene conto dell'uso della tecnologia in

termini sia di competitività tecnologica sia di competitività di costo: i risultati mostrano un

potenziale effetto positivo sull'occupazione quando l'innovazione e orientata allo sviluppo di nuovi

prodotti (e quindi di nuovi mercati), mentre si rileva un effetto negativo nel caso di innovazione dei

processi produttivi, a prescindere dal tipo di settore.

Bogliacino et al. (2012) invece usano dati JRC-IPTS della Commissione Europea relativi a 677

6 Va però tenuto presente che gli investimenti in R&S sono prevalentemente associati a innovazioni del prodotto e, separagonati a quelli in capitale innovativo (prevalentemente associati a innovazione dei processi), sonomaggiormente labor friendly.

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imprese europee nel periodo 1990-2008 e approssimano il progresso tecnologico con la spesa in

R&S. Effettuando una regressione LSDVC (Least Square Dummy Variable Corrected), gli autori

trovano un effetto positivo e significativo (sebbene di scarsa ampiezza) degli investimenti in R&S

sull'occupazione, in particolar modo nel settore dei servizi e nel settore manifatturiero hi-tech.

Nessun effetto emerge invece nel settore manifatturiero tradizionale.

Bogliacino e Vivarelli (2012), sempre in riferimento agli effetti occupazionali degli investimenti

in R&S, usano dati OCSE (STAN e ANBERD) con informazioni relative al settore manifatturiero e

dei servizi per 15 paesi europei nel periodo 1996-2005. Con unità di analisi al livello industriale, gli

autori stimano un'equazione dell'occupazione (metodo panel GMM-SYS) che mostra un effetto

positivo della spesa in R&S, confermando quanto emerso dalla precedente letteratura empirica.

Usando dati CIS relativi al biennio 2002-2004, Evangelista e Vezzani (2010), sebbene studino gli

effetti dell'innovazione sull'output delle imprese invece che sui livelli occupazionali, hanno il merito

di aver tenuto conto anche delle innovazioni di tipo non tecnologico, il che ha permesso loro di

osservare il ruolo delle interazioni tra queste e le innovazioni strettamente tecnologiche. Gli autori

raggruppano le imprese in base a quattro tipi di strategie innovative: di prodotto, dei processi,

organizzative e complesse (essendo quest'ultima un mix delle prime tre), e trovano che la strategia

innovativa di tipo complesso (adottata soprattutto dalle grandi imprese) è quella maggiormente

efficace in termini di aumento della produzione, in particolar modo per il settore manifatturiero.

Malgrado il sample non sia rappresentativo di tutte le imprese e gli effetti sull'occupazione non

vengano presi direttamente in considerazione, tali risultati sembrano suggerire la prevalenza di un

meccanismo di compensazione piuttosto che di sostituzione.

Per la Germania, Lachenmaier e Rottman (2011) adottano un approccio GMM-SYS usando un

panel dinamico relativo al periodo 1982-2002. In un certo senso, i risultati ottenuti fanno di questo

lavoro un outlier della letteratura, mostrando un effetto positivo sull'occupazione che tende ad

essere maggiore nel caso di innovazione dei processi produttivi rispetto al caso di innovazione dei

prodotti, mentre l'effetto positivo complessivo dell'innovazione risulta robusto a diverse

specificazioni.

Per il caso italiano, Hall et al. (2008) usano dati del questionario Microcredito-Capitalia relativi

alle imprese italiane nel periodo 1995-2003. L'effetto sostituzione nel caso di innovazione dei

processi risulta debole e poco significativo, mentre il trend decrescente della produttività negli anni

successivi al 2000 sembra suggerire una certa difficoltà delle imprese italiane nel trarre beneficio

dalle innovazioni (tuttavia, gran parte del declino della produttività viene ricondotto dagli autori alle

imprese non innovatrici). Diversamente, nel caso di innovazione del prodotto l'evidenza è di un

effetto positivo sui livelli occupazionali, pari alla metà della creazione di posti di lavoro nel periodo

considerato.

In conclusione, la letteratura empirica più recente si distingue per una netta prevalenza di studi al

livello di impresa e al livello settoriale, mentre mancano studi condotti al livello di paese che

considerino l'impatto sull'economia nel suo complesso. Tutti gli studi confermano l'effetto positivo

delle innovazioni di prodotto sui livelli occupazionali, mentre per quanto riguarda l'innovazione dei

processi produttivi emergono evidenze ambigue e contraddittorie: a seconda dei casi, quando le

stime sono significative, esse spaziano dal positivo al negativo. La letteratura non sembra pertanto

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supportare la tesi in favore dell'ipotesi di prevalenza dell'effetto sostituzione.

3.2 Progresso tecnologico e composizione della forza lavoro: polarizzazione del mercato del

lavoro e routine-biased technical change

Se dalla letteratura empirica tesa a quantificare l'impatto delle innovazioni tecnologiche sui

livelli occupazionali emergono risultati frammentati e sovente contraddittori, le evidenze messe in

luce dal filone di ricerca volto a esaminare le conseguenze del progresso tecnico sulla composizione

dell'occupazione sono decisamente più omogenee e convergenti. In effetti, vi è ormai ampio

consenso tra gli economisti sull'esistenza, nei mercati del lavoro delle economie avanzate, di

dinamiche allocative riconducibili alla diffusione delle nuove tecnologie, consenso rafforzato dalla

sostanziale convergenza osservatasi, tra gli Stati Uniti e alcuni paesi europei, nel pattern seguito

dalla variazione della composizione dell'occupazione.

Il filone che ci accingiamo a prendere in esame ha avuto origine dalla più ampia attività di

ricerca in tema di differenziali salariali e disuguaglianze retributive (diffusasi in particolar modo

negli Stati Uniti a partire dagli anni novanta) e, in particolare, prende le mosse dal noto lavoro

seminale di Autor et al. (2003). Infatti, come illustreremo nel paragrafo successivo, i risultati

ottenuti dalla letteratura in tema di determinanti delle disuguaglianze salariali sembrano accordare

una maggiore forza esplicativa al ruolo delle innovazioni tecnologiche rispetto ad altre spiegazioni

alternative (quali l'espansione del commercio internazionale o il funzionamento delle istituzioni del

mercato del lavoro), ed è in base a tali evidenze che è stata formulata l'ipotesi di skill-biased

technical change (SBTC). Brevemente, l'ipotesi SBTC poggia sull'idea che gli investimenti in

innovazione tecnologica aumentino la produttività del lavoro qualificato, normalmente identificato

attraverso un altro livello di istruzione, rispetto al lavoro non qualificato, incrementandone il salario

relativo e provocando un aumento della disuguaglianza nella distribuzione salariale7.

Autor et al. (2003) hanno “aggiornato” l'ipotesi di SBTC, cercando di individuare la relazione

esistente tra l'introduzione di nuove tecnologie e, piuttosto che il grado di istruzione, il tipo di

mansioni svolte dai lavoratori. A tal fine, gli autori si avvalgono di una classificazione del tipo di

mansioni (tasks) associate alle diverse professioni, classificazione adottata in base a due diversi

criteri dicotomici: i) manuale-cognitivo; ii) routinario-non routinario. L'intuizione sottostante ha a

che fare con l'idea che mentre le nuove tecnologie possono sostituire con relativa facilità i lavoratori

impegnati in mansioni di tipo routinario (tanto manuali quanto cognitive), esse non sono in grado di

sostituire il lavoro ad alta intensità di mansioni non routinarie (problem-solving, comunicazioni e

interazioni complesse, etc.), dove il ruolo della tecnologia si assume essere prevalentemente di tipo

complementare. L'ipotesi che il progresso tecnologico provochi uno spostamento della domanda di

lavoro in favore del lavoro non routinario è a volte indicata come task-biased tecnhical change o

routine-biased technical change (RBTC). Rispetto l'ipotesi SBTC, questa nuova impostazione

teorica si è dimostrata maggiormente coerente con il pattern seguito dalla crescita dell'occupazione

7 L'ipotesi SBTC è coerente con il trend osservato nel mercato del lavoro degli Stati Uniti dalla fine degli anni settantaagli inizi degli anni novanta. In particolare, in quest'arco temporale la crescita dei salari del lavoro qualificato si èaccompagnata a un forte aumento dell'offerta, indicando pertanto che la domanda è stata in grado di crescere più cheproporzionalmente.

10

negli Stati Uniti a partire dagli anni novanta. Infatti, se dagli anni settanta fino alla fine degli anni

ottanta la crescita dell'occupazione ha interessato prevalentemente i posti di lavoro ad alta

retribuzione, dagli anni novanta in poi questo trend ha subito un sostanziale rallentamento, cui ha

fatto fronte, da un lato, una contrazione delle quote occupazionali del lavoro mediamente retribuito,

dall'altro, un'espansione delle quote occupazionali del lavoro a bassa retribuzione (Figura 1). Tale

cambiamento, in effetti, ben si adatta alle intuizioni di base del framework teorico proposto da

Autor et al. (2003), potendosi osservare una prevalenza di posti di lavoro ad alta intensità di

mansioni non routinarie in corrispondenza di entrambe le code della distribuzione dell'occupazione

(ordinata in base al salario medio del tipo di occupazione). In particolare, i posti di lavoro meno

retribuiti sono perlopiù associati al settore dei servizi, dove le mansioni espletate dalla forza lavoro

sono prevalentemente di carattere manuale non routinario (sicurezza privata, ristorazione, servizi

alla persona, manutenzione e pulizia, etc.), mentre quelli maggiormente retribuiti sono, in genere,

posti di lavoro ad alta intensità di mansioni cognitive non routinarie (managment, business

planning, marketing, problem solving, etc.). Attorno a queste evidenze si è sviluppato un filone di

numerose analisi (solo per citarne alcune, Autor et al. 2006, Autor et al. 2008, Acemoglu e Autor

2011) tese a studiare il fenomeno della polarizzazione del lavoro e a proporre modelli alternativi

che, diversamente da quelli tradizionalmente impiegati per analizzare le disuguaglianze nel mercato

del lavoro, fossero in grado di tenere conto anche della relazione esistente tra le nuove tecnologie e

le mansioni espletate dai lavoratori.

Figura 1. Variazioni ponderate dei livelli occupazionali per percentile di

abilità negli Stati Uniti (1979-1989, 1989-1999, 1999-2007)

Fonte: Acemoglu e Autor (2011).

Con riferimento al particolare ruolo giocato dal settore dei servizi, Autor e Dorn (2013) hanno

11

documentato che negli Stati Uniti la quota di ore lavorate da lavoratori poco qualificati nel settore

dei servizi è cresciuta del 50 per cento nel periodo 1980-2005, un cambiamento in grado di spiegare

una parte rilevante della polarizzazione occupazionale osservata. Inoltre, sebbene spiegazioni

alternative a quella tecnologica trovino riscontro empirico (ad esempio demografiche o relative alla

contrazione del settore manifatturiero), nessuna di queste sembra in grado di dar conto

dell'andamento complessivo osservato. Su questo aspetto, nuove evidenze sono state fornite da

Autor et al. (2013), che, utilizzando dati locali relativi ai mercati del lavoro di diverse contee

statunitensi, analizzano le conseguenze in termini occupazionali sia delle innovazioni tecnologiche

sia dell'esposizione alla concorrenza internazionale, in particolar modo alle importazioni

provenienti dalla Cina. I risultati rivelano una sostanziale differenza nell'effetto che i due fenomeni

esercitano sull'occupazione a seconda del tipo di settore, occupazione, educazione, età, genere, etc.

In particolare, se la concorrenza internazionale risulta avere un effetto negativo sui livelli

occupazionali del settore manifatturiero (con eventuali spillover occupazionali dello stesso segno in

altri settori dell'economia locale di riferimento), l'avanzamento tecnologico, piuttosto che esercitare

un impatto sui livelli, innesca un cambiamento nella composizione dell'occupazione totale. Nel

dettaglio, tanto nel manifatturiero quanto negli altri settori, il progresso tecnico provoca una

riduzione dei livelli occupazionali del lavoro ad alta intensità di mansioni routinarie (sia in attività

legate ai processi produttivi che in attività di tipo impiegatizio), effetto che tuttavia viene

interamente compensato dalla crescita di posti di lavoro ad alta intensità di mansioni manuali o

cognitive. Inoltre, l'allocazione dei lavoratori verso nuove occupazioni sembra aver luogo in misura

minore nel caso dell'occupazione femminile, suggerendo l'esistenza di un impatto negativo della

tecnologia sui livelli occupazionali femminili degli Stati Uniti.

Come accennato, anche i paesi del vecchio continente hanno mostrato un andamento delle

variazioni dell'occupazione complessivamente coerente con l'ipotesi RBTC. La figura 2, relativa a

16 paesi europei e con una suddivisione dell'occupazione in ciascun paese in tre terzili definiti

rispetto al salario medio delle singole professioni, mostra chiaramente come tra il 1993 e il 2006 si

sia manifestata una riduzione della quota occupazionale dei lavori mediamente retribuiti in ognuno

dei paesi considerati, in particolar modo in Austria, Francia, Regno Unito e Belgio (diversamente, in

Portogallo questo fenomeno sembra essersi verificato solo marginalmente). Con riferimento alla

crescita delle occupazioni meno retribuite, è evidente invece la posizione di outlier ricoperta

dall'Italia. Come è facile osservare, il confronto tra gli Stati Uniti e la media (non ponderata) dei 16

paesi europei esaminati sembra suggerire che la polarizzazione del lavoro sia un fenomeno

condiviso in egual misura dalle due sponde dell'Atlantico (Cfr. Acemoglu e Autor, 2011). Ciò

nonostante, la letteratura europea in tema di polarizzazione del mercato del lavoro si presenta

relativamente più scarsa di quella prodotta oltreoceano.

12

Figura 2. Variazione delle quote occupazionali per tipo di occupazione in 16

paesi europei (1993-2006, occupazioni raggruppate per terzile salariale)

Fonte: Acemoglu e Autor (2011).

In particolare, le prime evidenze di polarizzazione del mercato del lavoro sono emerse per il caso

tedesco e britannico.

Per la Germania, Spitz-Oener (2006) ha adottato una classificazione piuttosto articolata delle

mansioni espletate dalla forza lavoro: i) analitiche non routinarie, ii) interattive non routinarie, iii)

cognitive routinarie, iv) manuali routinarie, v) manuali non routinarie. Con dati relativi a un periodo

compreso tra il 1979 e il 1999, l'autrice fornisce evidenze dettagliate a sostegno dell'ipotesi RBTC.

In particolare, nel ventennio considerato i posti di lavoro associati ad attività routinarie cognitive e

manuali sono diminuiti a fronte di un significativo aumento dell'occupazione in attività non

routinarie di tipo analitico e interattivo, un effetto che, in base ai risultati dell'analisi, è stato

intensificato dalla diffusione delle tecnologie informatiche sul posto di lavoro. Dustmann et al.

(2009), accorpando in 100 gruppi di eguale dimensione 340 diversi tipi di professioni (ordinate in

base al rispettivo salario mediano) e avvalendosi della classificazione delle professioni del German

Qualification and Career Survey, mostrano come, a fronte di una crescita delle occupazioni

maggiormente retribuite e di una relativa invarianza delle occupazioni meno retribuite, le

occupazioni mediamente retribuite sono diminuite tanto negli anni ottanta quanto negli anni novanta

(tuttavia, gli autori considerano anche che l'incremento relativo delle occupazioni a bassa qualifica

registrato negli anni novanta potrebbe essere ricondotto all'annessione della parte orientale del

paese, relativamente abbondante di forza lavoro poco qualificata)8.

8 Più di recente, Dauth (2014) ha analizzato i dati relativi ai lavoratori della Germania occidentale per il periodo 1978-2010 e ha mostrato che la polarizzazione del lavoro è un fenomeno prevalentemente associato alle aree urbane, dovela concentrazione di lavori di tipo non routinario e cognitivo rendono più robuste le evidenze in favore dell'ipotesi di

13

Per il Regno Unito, Goss e Manning (2007) hanno testato l'ipotesi RBTC analizzando dati del

New Earnings Survey per il periodo 1975-1999. Gli autori, adottando la classificazione delle

mansioni proposta da Autor et al. (2003), forniscono evidenze di una concentrazione del lavoro

routinario nella parte centrale della distribuzione dei salari e di una polarizzazione del mercato del

lavoro anche nel caso della Gran Bretagna. Mettendo a confronto diversi approcci analitici e diverse

spiegazioni alternative, gli autori argomentano che la polarizzazione osservabile nei dati è

maggiormente coerente con l'ipotesi RBTC.

Per quanto riguarda i paesi europei, Goos et al. (2009) usano i dati dell'European Labor Forces

Survey (ELFS) per il periodo 1993-2006 prendendo in esame 16 paesi europei, e mostrano un chiaro

pattern polarizzante nelle variazioni dei livelli occupazionali: in media, mentre le occupazioni

mediamente retribuite sono diminuite dell'8 per cento, nel periodo di riferimento le occupazioni ad

alta e bassa retribuzione sono cresciute rispettivamente del 2 e del 6 per cento. Gli autori testano

diverse ipotesi sulle determinanti della polarizzazione (livello di educazione della forza lavoro,

pratiche di offshoring da parte dell'imprese, etc.) attraverso una regressione OLS: i coefficienti delle

variabili associate ai fattori alternativi risultano non significativi a fronte di chiare evidenze in

favore dell'ipotesi RBTC. Più di recente, Goos et al. (2014), usando i dati ELFS aggiornati al 2010,

mostrano che la polarizzazione in Europa ha avuto luogo sia nella dimensione intra-industriale

quanto in quella inter-industriale. Inoltre, viene mostrato come anche l'offshoring, interagendo con

l'ipotesi RBTC (delocalizzazione delle attività produttive di tipo routine-intensive), sia in grado di

esercitare un'influenza significativa sulla polarizzazione dell'occupazione.

Al fine di illustrare i principali cambiamenti avvenuti nella struttura dell'occupazione in Europa

durante la recente crisi economica, riportiamo alcune statistiche descrittive provenienti da un

rapporto del progetto European Jobs Monitor (Eurofound, 2014).

Come afferma il rapporto, nei 28 paesi dell'Unione Europea si è registrato un calo di circa 5

milioni di posti di lavoro tra il secondo trimestre del 2008 e il secondo trimestre del 2010, e quasi

un milione nel contesto della crisi dei debiti sovrani tra il 2010 e il 2011. Tra il secondo trimestre

del 2011 e il secondo trimestre del 2013 si è registrato dunque un ulteriore calo, che ha interessato

altri 1,3 milioni di posti di lavoro. Come chiaramente illustrato dalla Figura 3, la contrazione dei

livelli occupazionali ha interessato soprattutto i posti di lavoro al centro della distribuzione

dell'occupazione, ordinata prevalentemente in base al salario medio e, in questo caso, suddivisa in

quintili.

Come si osserva, a fronte di un aumento dei posti di lavoro nell'ultimo quintile (osservabile in

entrambi i periodi di riferimento), tra il secondo trimestre del 2008 e il secondo trimestre del 2010 i

posti di lavoro nel primo quintile hanno subito perdite di entità minore rispetto al secondo, al terzo e

al quarto quintile, per poi tornare a crescere solo di misura tra il secondo trimestre del 2011 e il

secondo trimestre del 2013. Come argomenta il rapporto, il pattern polarizzante si deve in larga

misura alla forte contrazione subita dal settore delle costruzioni e dal settore manifatturiero,

duramente colpiti dalla crisi economica e la cui relativa quota occupazionale si colloca soprattutto

tra le occupazioni mediamente retribuite. Diversamente, tra il secondo trimestre del 2011 e il

secondo trimestre del 2013, la crescita dell'occupazione nel primo e nell'ultimo quintile è stata

routinizzazione.

14

guidata soprattutto dal settore dei servizi (Cfr. Eurofund, 2014).

Figura 3. Variazione percentuale dell'occupazione per quintile salariale, UE

27, 2008 Q2-2010 Q2, 2011 Q2-2013 Q2

Note: la Croazia è stata omessa per ragioni di comparabilità.Fonte: Eurofund (2014).

Al fine di render conto dell'eterogeneità esistente tra i diversi paesi europei, nella figura 4

riportiamo le variazioni strutturali dell'occupazione per i paesi dell'UE-15 in un periodo che va dal

1995 al 2013 (per il resto dei paesi dell'Unione Europea rimandiamo a Eurofund, 2014). Come può

osservarsi, nei dodici anni che vanno dal 1995 al 2007 (periodo di generale espansione

dell'occupazione in Europa), la polarizzazione del lavoro è particolarmente apprezzabile in Olanda,

Francia e Germania, mentre un pattern sostanzialmente analogo emerge, anche se in modo meno

pronunciato, in Belgio, Regno Unito, Irlanda, Grecia, Finlandia e Danimarca (tuttavia, a parte

Belgio e Grecia, questo secondo gruppo di paesi mostra allo stesso tempo un trend di avanzamento -

o upgrading - della forza lavoro, coerentemente con l'ipotesi SBTC). Dall'andamento di questo

gruppo di paesi si discostano sensibilmente Spagna, Portogallo, Italia e Lussemburgo, nei quali si

osserva, rispettivamente, o una maggiore crescita dell'occupazione a media retribuzione (Portogallo

e Spagna), o un pattern di avanzamento dell'occupazione (più omogeneo in Lussemburgo che in

Italia, dove il quintile più retribuito cresce sensibilmente di meno rispetto al quarto quintile). Un

andamento piuttosto sui generis emerge invece nel caso della Svezia. Diversamente, nel

quinquennio successivo allo scoppio della crisi economica (2008-2013), nel contesto di un generale

declino dei quintili centrali nella maggior parte dei paesi presi in esame (coerentemente con quanto

illustrato dalla figura 3) le maggiori perdite occupazionali del lavoro mediamente retribuito si

osservano in Spagna, Portogallo e Grecia (più pronunciate rispetto agli al resto della distribuzione e

maggiormente persistenti), mentre in paesi come la Svezia, la Finlandia e il Lussemburgo, sono

diminuite soprattutto le occupazioni a retribuzione medio-bassa. Rispetto agli altri paesi, l'Italia

ricopre ancora il ruolo di outlier : nel biennio 2008-2010 le perdite nel quintile centrale sono

sensibilmente più contenute rispetto quelle registrate nei quintili più retribuiti, mentre si

manifestano in modo più pronunciato solo nel biennio 2011-2013, a fronte, tuttavia, di un

15

persistente declino dei posti di lavoro nel quarto e nel quinto quintile.

Figura 4. Pattern delle variazioni strutturali dell'occupazione, UE 15, 1995-2013

Note: Variazioni medie annuali assolute dell'occupazione per quintile salariale (la divisione in tre sotto-

periodi si deve alla presenza di rotture strutturali nelle serie storiche).Fonte: Eurofund (2014).

Con l'obiettivo di testare le diverse ipotesi avanzate dalla letteratura, e in particolare l'ipotesi

RBTC, gli autori del rapporto Eurofund (2014) si avvalgono di un indice di routinizzazione del

lavoro che, diversamente da quelli tradizionalmente usati nelle indagini empiriche sull'argomento

(perlopiù basati sul Dictionary of Occupational Titles e il successivo Occupational Information

Network, entrambi statunitensi), operazionalizza il contenuto routinario delle occupazioni con dati

europei provenienti dall'European Working Condition Survey (EWCS). Con una serie di regressioni

multivariate, gli autori confrontano la predittività di diversi indici relativi alle mansioni svolte dai

lavoratori (di cognitività, di interazione sociale, di sindacalizzazione) rispetto alle variazioni dei

quintili salariali osservate in 23 paesi dell'Unione Europea nel periodo 1995-2007. I risultati

mostrano una buona capacità predittiva dell'indice di cognitività (soprattutto per i paesi dal trend

16

polarizzante), mentre l'indice di routinizzazione adottato, analogamente agli altri indici considerati,

predice solo parzialmente le variazioni avvenute nei diversi paesi. Tuttavia, il rapporto conclude

che, aldilà delle problematiche sovrapposizioni concettuali tra i diversi indici adottati (che nel caso

in questione rendono difficile separare gli effetti dell'ipotesi SBTC da quelli dell'ipotesi RBTC), la

strategia di approssimare le abilità della forza lavoro in base alla relativa retribuzione media

potrebbe essere fuorviante nel caso dei paesi europei, dove oltre alle abilità dei lavoratori, la

struttura dei salari è influenzata in vario modo da diversi fattori istituzionali, sociali e culturali,

specifici per ogni paese.

3.3 Progresso tecnologico ed evoluzione della distribuzione dei salari

Sino ad ora si è analizzato l’impatto della tecnologia sui livelli e sulla composizione

dell’occupazione. In questo paragrafo l’attenzione viene invece posta sull’impatto della tecnologia

sui salari. Vi sono diverse analisi teoriche (Autor et al., 2007, Autor e Acemoglu, 2011) che

estendono la precedente analisi teorica dello skilled-biased technical change (ad esempio

Acemoglu, 2001). L’ipotesi centrale di tale analisi risiede nel fatto che le mansioni routinarie

possono essere svolte sia da lavoratori che da macchine (nel caso estremo si assume che i due input

siano perfetti sostituti). Dato che i costi della tecnologia diminuiscono nel tempo, grazie

all’innovazione tecnologica, si assume che le imprese aumenteranno l’utilizzo di macchine per

svolgere un numero crescente di mansioni routinarie. A causa di questo processo i lavoratori

routinari vedranno diminuire i loro salari (data la sostituibilità con le macchine e la riduzione del

costo di utilizzo di capitale). I lavoratori routinari che ne avranno la possibilità cambieranno

mansione nel mercato del lavoro, anche scegliendo mansioni manuali non routinarie. Inoltre, in tali

modelli si assume, a causa dell’utilizzo di una funzione di produzione neoclassica Cobb-Douglas,

che l’aumento di mansioni routinarie sia complementare con gli altri due tipi di mansioni presenti

nell’economia, quelle cognitive e quelle manuali, con un relativo aumento della loro produttività. In

questo contesto teorico, si avrà un aumento dei salari dei lavoratori con mansioni cognitive (a causa

dell’assunta complementarietà rispetto all’aumento delle mansioni routinarie), una diminuzione dei

salari dei lavoratori con mansioni routinarie, e un impatto ambiguo sui lavoratori con mansioni

manuali. L’ambiguità è dovuta essenzialmente a due effetti di segno opposto. Da una parte, si ha un

effetto positivo sulla produttività dei lavoratori manuali a causa dell’incremento delle mansioni

routinarie. Dall’altra, vi potrà essere un aumento dell’offerta di lavoro per mansioni manuali non

routinarie a causa della mobilità dei lavoratori routinari che preferiranno muoversi verso mansioni

manuali. Se l’effetto relativo all’aumento di offerta di lavoro eccederà l’effetto positivo sulla

produttività, vi sarà una diminuzione dei salari, altrimenti un aumento dei salari. Nel caso pertanto

in cui i salari dei lavoratori con mansioni manuali aumentano, il modello genera una polarizzazione

dei salari.

Attraverso questa impostazione teorica, i lavori citati forniscono una spiegazione all’evoluzione

della dinamica della disuguaglianza negli Stati Uniti, con andamenti differenziati fra gli anni ottanta

e novanta. Negli anni ottanta avrebbe prevalso l’effetto di offerta di lavoro da mansioni routinarie

manuali, con una conseguente diminuzione dei salari dei lavoratori manuali poco qualificati. Ciò

17

avrebbe determinato un andamento di tipo skill-biased, con un crescita monotona dei salari per

livelli di skill. Negli anni novanta avrebbe invece prevalso l’effetto produttività generato

dall’aumento di mansioni routinarie, con un aumento dei salari dei lavoratori manuali, e quindi con

tendenze di polarizzazione.

Si prenderanno ora in considerazioni le verifiche empiriche di tale impostazione teorica e più in

generale di polarizzazione dei salari. Per gli Stati Uniti Firpo et al. (2011) mostrano come

effettivamente dagli anni Ottanta al primo decennio degli anni Duemila si sia verificato un processo

di polarizzazione dei salari: le remunerazioni dei lavoratori qualificati sono fortemente aumentate

mentre i salari dei lavoratori routinari hanno visto i loro salari ridursi nel tempo. La polarizzazione

viene a determinarsi per il fatto che i salari dei lavoratori meno qualificati sono aumentati di più di

quelli routinari. Firpo et al. (2011) concludono che le due forze che hanno contribuito alla

polarizzazione dei salari negli Stati Uniti siano da individuare nella tecnologia e nella perdita di

potere del sindacato, che avrebbero colpito in maggior misura i lavoratori situati al centro della

distribuzione dei salari. Inoltre, sempre per gli Stati Uniti, Cortes (2015) analizza i flussi di mobilità

nel mercato del lavoro, attraverso l’utilizzo di dati longitudinali. Cortes (2015) mostra come

lavoratori routinari con alti livelli di abilità abbiano maggiori probabilità di muoversi verso

mansioni cognitive, mentre lavoratori routinari con bassi livelli di abilità tendono a muoversi verso

lavori manuali.

Per quanto riguarda i Paesi europei, vi è un numero limitato di lavori che analizzano l’andamento

nel tempo della struttura salariale. L’articolo forse più significativo è quello di Dustmann et al.

(2009) riguardo la Germania, ed evidenzia una dinamica di polarizzazione dei redditi da lavoro che

dipenderebbe secondo gli autori da dinamiche tecnologiche, anche task-biased. Una dinamica

analoga è derivata per il Portogallo da Centeno e Novo (2009). Per il Regno Unito, Machin (2011)

individua una dinamica crescente della disuguaglianza e, per alcuni periodi storici anche se non

negli anni recenti, una dinamica di polarizzazione. Vi sono tuttavia diversi lavori che non trovano

evidenza di processi di polarizzazione per alcuni Paesi europei. Charnoz et al. (2011) analizzano il

caso francese, paese per il quale si può osservare una diminuzione delle disuguaglianze negli ultimi

decenni, determinati anche da una diminuzione dei rendimenti dell’istruzione. Non si osservano

inoltre dinamiche di polarizzazione dei salari. Per la Spagna, Izquierdo e Lacuesta (2006)

individuano una riduzione delle disuguaglianze, determinati da una diminuzione dei rendimenti

dell’istruzione. Anche per il caso italiano, Naticchioni et al. (2008) individuano andamenti stabili

delle disuguaglianze del mercato del lavoro, mentre Naticchioni e Ricci (2009) trovano evidenza di

una diminuzione delle disuguaglianze nel settore privato, ed un aumento nel settore pubblico.

Inoltre, Naticchioni et al. (2010) mostrano come anche in Italia i rendimenti salariali dell’istruzione

siano diminuiti negli ultimi decenni. È interessante sottolineare come in tre importanti paesi europei

come la Francia, l’Italia e la Spagna l’evidenza empirica mostra una riduzione della disuguaglianza

salariale e andamenti decrescenti dei premi dell’istruzione: studiare negli anni ottanta e novanta

rendeva relativamente di più che studiare negli anni recenti.

Mentre i lavori fin qui presentati analizzano singoli Paesi europei, il lavoro di Naticchioni et al.

(2014) considera l’Europa nel suo complesso. Tale articolo analizza sia l’andamento nel tempo della

distribuzione dei salari, sia l’effetto di variabili tecnologiche sulle variazioni della struttura dei

18

salari. L’analisi è svolta utilizzando sia dati aggregati sia dati individuali.

Per quanto riguarda i dati aggregati (EU-KLEMS e WIOD per il periodo 1995-2007) i risultati

mostrano come la distribuzione dei salari non abbia subito processi di polarizzazione,

principalmente in quanto i salari associati ai tre livelli di istruzione si sono evoluti in modo

sostanzialmente analogo, mantenendo inalterati i rapporti fra salari dei lavorati altamente e

mediamente qualificati e fra lavoratori mediamente e scarsamente qualificati. Per quanto riguarda

invece l’impatto delle ICT sul monte salari per i tre livelli di istruzione, il lavoro deriva, attraverso

analisi di regressione, i seguenti risultati:

- un effetto positivo sul monte salari dei lavoratori qualificati, confermando la maggiore

complementarietà di tali lavoratori con la tecnologia;

- un impatto negativo sul monte salario dei lavoratori mediamente qualificati, coerentemente

con l’idea che tale categoria è maggiormente sostituibile dal cambiamento tecnologico;

- un impatto non significativo sul monte salari dei lavoratori scarsamente qualificati.

È interessante analizzare cosa succede quando si scompone l'impatto sul monte salari e l'impatto

sui salari e sulle ore lavorate: il cambiamento tecnologico ha un impatto polarizzante sulle ore

lavorate, ma non sui salari. Tale evidenza suggerisce che in Europa il cambiamento tecnologico ha

determinato un impatto sostanzialmente diverso da quello osservato negli Stati Uniti: in Europa le

ICT hanno un impatto solo sui livelli occupazionali, mentre negli Stati Uniti l’impatto è sia sui

livelli occupazionali che sui salari.

Il limite principale di un’analisi su dati settoriali consiste nel fatto che si riesce a catturare

soltanto l’impatto intersettoriale (between industries), o al limite intrasettoriale in un’ottica

intertemporale. Non si riesce pertanto a catturare l’impatto del cambiamento tecnologico su

lavoratori diversi appartenenti allo stesso settore, che può essere ricondotto all’approccio task-

biased, cioè l’analisi di come all’interno dello stesso settore possano nel tempo aumentare lavori

altamente qualificati e/o lavori manuali a scapito di lavori routinari che possono essere sostituiti

dalla tecnologia. Per questo motivo Naticchioni et al. (2014) utilizzano anche microdati individuali

(ECHP e EU-SILC per il periodo 1996-2007), che permettono di associare alla professione dei

lavoratori variabili legate all’intensità in mansioni altamente qualificate (abstract), mediamente

qualificate (routine), e manuali. Per quanto riguarda l’impatto delle misure tecnologiche,

Naticchioni et al. (2014) mostrano come usando dati individuali le misure tecnologiche producono

un impatto polarizzante sui salari, cioè il progresso tecnologico fa aumentare maggiormente i salari

dei lavoratori cognitivi e manuali, e penalizza invece i lavoratori mediamente qualificati. È

interessante notare come l’aumento dei salari nella coda bassa della distribuzione sia dovuto

all’intensità delle professioni di tipo service, che appunto si riferisce ai lavori nel settore dei servizi,

prevalentemente poco qualificati, alle persone e alle imprese. Per quanto riguarda invece la coda

alta della distribuzione dei salari, l’impatto positivo del progresso tecnologico è dovuto alle

professioni ad alta intensità di task di tipo abstract, ovvero cognitivo. Ciò è coerente con l’ipotesi di

maggiore complementarietà fra tecnologia e lavoratori qualificati.

19

3.4 Brevi considerazioni su vincitori e vinti della digital economy: leverage tecnologico e

winner-takes-all markets

L’analisi di chi sono i vincitori ed i vinti del cambiamento tecnologico è un argomento cruciale,

sia in termini interpretativi che di policy. Una prima conclusione al riguardo è stata già evidenziata

nel paragrafo 3.2 sulla dinamica della composizione della forza lavoro. Coloro che hanno

sviluppato competenze legate a mansioni routinarie possono essere inclusi tra i vinti, e nella loro

carriera avranno maggiori probabilità di doversi riallocare. Al contrario, lavoratori con competenze

cognitive e con mansioni non qualificate-non routinarie possono essere inclusi fra i vincitori.

Altra questione che consente di ragionare sul tema di vincitori e vinti del progresso tecnologico

riguarda le dinamiche di crescita di aziende leader ad alta performance e alte quote di mercato.

Brinjolfsson e McAfee (2014) prendono come esempio di analisi il settore della fotografia e,

considerando le conseguenze del (relativamente recente) passaggio dall'analogico al digitale,

forniscono al lettore un esempio che potremmo definire paradigmatico: se durante il secolo scorso il

numero di occupati presso la Kodak di George Eastman, tra i più grandi colossi multinazionali

all'apice del settore (che, aldilà delle macchine fotografiche, si occupava della produzione dei

materiali necessari realizzazione fisica delle vecchie foto analogiche), ha raggiunto picchi di

occupazione di poco inferiori alle 150.000 unità (cui andrebbero sommati i migliaia di lavoratori

dell'indotto e della distribuzione), le società proprietarie delle applicazioni e delle piattaforme

digitali che hanno tratto maggior beneficio dall'odierna economia della fotografia digitale (come

Facebook e Instagram, quest'ultima creata da una quindicina di persone e comprata da Facebook a

pochi mesi dalla sua fondazione per oltre un miliardo di dollari) non solo vantano compensi che

superano di gran lunga quelli ottenuti in passato dal defunto Eastman, ma esprimono una domanda

di lavoro quasi centesimale se rapportata a quella della vecchia Kodak (che in effetti, nel caso di

Facebook, è dell'ordine di poche migliaia di lavoratori).

Il grande successo di applicazioni come Instagram e Facebook risulta pertanto esemplare

dell'effetto leverage associato alla diffusione delle nuove tecnologie: in casi come questi, infatti, le

tecnologie digitali rendono possibile la creazione e la concentrazione di ingenti quantità di

ricchezza con un fabbisogno di forza lavoro largamente più contenuto rispetto a quello

normalmente sostenuto dai giganti economici dell'economia tradizionale. Va inoltre considerato che

questa forma di leverage tecnologico, sostenuta dalla riduzione delle asimmetrie informative

associata all'espansione del world wide web (nonché dai già menzionati costi di riproduzione

marginale vicini allo zero e dalla non rivalità nel consumo che caratterizzano i beni digitali) 9, ha

sovente luogo in quelli che, in particolar modo in seguito alla pubblicazione dell'opera divulgativa

di Robert Frank e Philip Cook (1996), vengono comunemente indicati “winner-takes-all markets”:

in essi il miglior performer (ovvero l'impresa che produce il prodotto percepito dalla un'ampia

maggioranza di consumatori come first best) è in grado di ottenere un volume dei compensi

spropositatamente superiore a quello della concorrenza, la quale al contrario rimane confinata a

9 Va comunque tenuto in considerazione anche il cosiddetto “effetto network” associato alla diffusione dei benidigitali come quelli menzionati, il quale fa sì che la stessa diffusione del prodotto presso una platea crescente diconsumatori ponga le basi per una sua ulteriore propagazione.

20

quote di mercato sostanzialmente marginali. In effetti, se tali mercati sono stati tradizionalmente

associati a quelli dominati dalle cosiddette superstar (grandi celebrità dello sport, della musica, del

cinema, ecc.), in mercati come quelli dei social network e delle applicazioni per smartphone (che

vantano una platea di consumatori che si avvicina e in alcuni casi supera il miliardo di utenti) la

situazione nella quale il vincitore riesce ad “arraffare tutto il bottino” ormai sembra essere divenuta

lo stato naturale delle cose (ovviamente, anche nel caso delle tradizionali superstar le nuove le

tecnologie digitali stanno aumentando il divario tra first e second best). Per fare qualche ulteriore

esempio, si pensi anche ai già citati What's App e Skype, oppure anche a Google Maps e Waze

(acquistata da Google, anche in questo caso per oltre un miliardo di dollari).

Dunque, in linea di principio, se nella nuova economia digitale una piccola squadra di lavoratori

high-skilled, come nel caso di sviluppatori informatici con il talento necessario o con una certa dose

di fortuna, potrebbe trasformarsi in una vera e propria multinazionale in grado di spiazzare la

concorrenza al livello globale, la grande massa di lavoratori low-skilled e medium-skilled, anche nel

caso di lavoratori di grande talento, sarebbe per definizione esclusa dalle opportunità associate a un

simile effetto leverage. Inoltre, essa beneficerebbe solo marginalmente di eventuali spillover

occupazionali positivi derivanti dalla crescita di imprese come quelle citate, una circostanza che

potrebbe continuare ad aumentare le disuguaglianze (occupazionali e di reddito) generalmente

riconducibili alla relazione tra tecnologia e mercato del lavoro.

4. Considerazioni di policy

Le conseguenze del progresso tecnico sul mercato del lavoro messe in luce dalla letteratura

empirica brevemente esaminata in questo contributo suggeriscono che i beneficiari della tecnologia

sono prevalentemente i lavoratori altamente salariati e qualificati, e la parte danneggiata sembra

essere costituita soprattutto dal cosiddetto lavoratore medio, spesso in età adulta e con competenze

routinarie e/o obsolete, il quale ha maggiori probabilità di andare in contro a riduzioni del reddito e

periodi di disoccupazione e che, nel caso di spiazzamento tecnologico, dovrà tornare ad allocarsi su

un mercato del lavoro la cui domanda va spostandosi verso competenze e/o abilità superiori od

inferiori a quelle da egli possedute.

Va notato che al momento, malgrado i potenziali risvolti negativi in termini di coesione sociale

associati a un'intensificazione di queste tendenze, non vi è traccia di questo tema nelle politiche del

lavoro nazionali ed europee, il quale resta ancora confinato all'attività di ricerca e al dibattito

accademico. Dunque, con l'obiettivo di offrire qualche spunto di riflessione, nelle righe che seguono

si prenderanno in considerazione alcune possibili politiche che, nei prossimi anni, potrebbero

entrare a far parte dell'agenda dei policy maker.

Nel caso in cui si vogliano compensare i lavoratori colpiti negativamente dal progresso

tecnologico, è interessante notare come, generalmente, le politiche attive attualmente esistenti

(formazione, re-training) siano rivolte maggiormente a una platea di lavoratori scarsamente

qualificati piuttosto che a lavoratori con qualifiche medie impiegati in attività routinarie. Si pone

pertanto il tema di valutare un nuovo design per le politiche di training al fine di includere come

target anche disoccupati precedentemente occupati in mansioni routinarie, che potrebbero avere

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maggiori difficoltà a riallocarsi a causa del cambiamento tecnologico. Tuttavia, estendere il target di

tali politiche potrebbe rivelarsi una scelta poco efficiente. In effetti, come osservato da Heckman e

Mosso (2014), interventi di tipo correttivo in uno stadio avanzato della carriera lavorativa sembrano

avere scarsa efficacia, mentre risultati maggiormente apprezzabili possono ottenersi in un'ottica di

lungo periodo attraverso policy orientate alle prime fasi dell'istruzione, in particolar modo adottando

una prospettiva che privilegi lo sviluppo di abilità e capacità multiple10. In linea di principio,

sarebbe dunque più efficiente allocare maggiori risorse all'istruzione primaria e ridurre le perdite di

benessere dei lavoratori colpiti dagli esiti negativi della tecnologia attraverso misure a sostegno del

reddito11.

Per quanto riguarda invece le dinamiche tecnologiche che determinano una crescente

concentrazione dei redditi, potrebbero essere valutate politiche volte all'aumento della tassazione

dei top income, in un'ottica redistributiva finalizzata alla compensazione dell'impoverimento della

classe media. Ad esempio, Diamond e Saez (2011) e Piketty (2014) sostengono che la tassazione

ottimale (ovvero al lordo degli incentivi) dei top income potrebbe anche superare il 70 per cento.

Più in generale, potrebbe essere opportuno ripensare le politiche del lavoro in modo da

aumentare il grado di complementarietà tra lavoratori e tecnologia, tenendo presente, da un lato, il

potenziale spiazzamento tecnologico nei confronti degli individui ad esso maggiormente esposti e,

dall'altro, le conseguenze del cambiamento tecnologico sulla struttura della composizione e della

remunerazione della forza lavoro considerata nel suo complesso. Inoltre, sarebbe necessario

studiare in maggior dettaglio i diversi trend che, da paese a paese, presenta la complessa relazione

tra avanzamento tecnologico e mercato del lavoro, soprattutto al fine di valutare in quale misura le

diverse istituzioni del mercato del lavoro nazionali svolgano un ruolo nel limitare o accentuare

quelle che sono le conseguenze della tecnologia sugli andamenti occupazionali e salariali

osservabili.

Infine, si ritiene opportuno precisare che quanto emerge dalla letteratura esaminata in questa sede

non ambisce spiegare le disuguaglianze del mercato del lavoro nel loro complesso, quanto a far luce

su una delle principali forze che contribuiscono a generare le disuguaglianze esistenti12. Ad

esempio, come recentemente osservato per il caso statunitense da Krugman (2015), argomentare

che le disuguaglianze osservabili siano semplicemente il risultato del mismatch, causato dal

cambiamento tecnologico, tra le competenze offerte dalla forza lavoro e quelle domandate dalla

struttura produttiva, rischia di oscurare altre importanti determinanti, quali le rendite di posizione ed

il potere di contrattazione di una ristretta élite situata all'apice del sistema societario e finanziario

10 Si potrebbe appunto argomentare che l'attuale sistema di istruzione primaria, tradizionalmente orientato allaformazione del burocrate della pubblica amministrazione e quindi prevalentemente incentrato sull'alfabetizzazione esullo sviluppo di capacità di calcolo, vada riformulato in modo da aumentare la complementarietà tra lavoratori emacchine, ad esempio ponendo maggiore enfasi su abilità che permettano di gestire il sempre più cospicuo volumedi informazioni disponibili piuttosto che su abilità di mera memorizzazione.

11 Non mancano posizioni discordanti da quelle di James Heckman. Si sostiene infatti che per gli individui adulti lapartecipazione al mondo del lavoro non possa soltanto essere valutata rispetto a dinamiche di efficienza, ma chedebbano essere presi in considerazione altri elementi (come il sentirsi parte di una comunità attraverso lapartecipazione al mercato del lavoro) trascurando i quali potrebbero configurarsi problemi di coesione sociale.

12 Si pensi alla nota tesi di Piketty (2014) sull'aumento della disuguaglianza, incentrata sulle dinamiche diaccumulazione del capitale e sul crescente potere contrattuale dei lavoratori ad alto reddito, piuttosto che sulcambiamento tecnologico.

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dell'economia (come noto, in grado di appropriarsi di quote sempre più rilevanti del reddito

nazionale). Secondo Krugman (2015), di conseguenza, l'idea di ridurre le disuguaglianze esistenti

attraverso politiche orientate al miglioramento del sistema di istruzione potrebbe essere usata dalla

classe benestante al fine di ridurre la domanda di adeguate politiche redistributive. Tuttavia, come

chiaramente argomentato da Autor (2014), focalizzarsi sul “top one per cent”, nonostante sia

innegabilmente importante, al contrario rischia di oscurare quello che per il restante novantanove

per cento della forza lavoro è presumibilmente altrettanto rilevante, come appunto le conseguenze

occupazionali e remunerative del progresso tecnologico. E in ogni caso, come suggeriscono le

tendenze cui si è fatto cenno a proposito del leverage tecnologico, la diffusione delle nuove

tecnologie, piuttosto che esercitare un impatto significativo solamente sul restante “novantanove per

cento”, sembra porre le premesse per un ulteriore aumento della distanza tra esso e il cosiddetto “un

per cento”.

5. Conclusioni

La rassegna della letteratura empirica presentata in questo lavoro è stata realizzata con l'obiettivo

di delineare un quadro complessivo dell'articolata attività di ricerca in tema di cambiamento

tecnologico e mercato del lavoro, ove possibile cercando di dar conto dell'eterogeneità di alcuni

trend per quanto riguarda i principali paesi europei. Uno sguardo d'insieme alle evidenze osservate

conferma che, sebbene non vi sia traccia di effetti negativi della tecnologia sui livelli occupazionali

tout court, esiste una notevole divergenza negli effetti esercitati dalla tecnologia su diverse

categorie di lavoratori, soprattutto tra il lavoro altamente qualificato e il lavoro mediamente

qualificato, in particolar modo se impiegato in mansioni di tipo routinario. Dal momento che le

questioni oggetto di questa letteratura ancora non sono pienamente entrate nell'agenda dei policy

maker, si ritiene necessaria una maggiore sensibilizzazione delle istituzioni politiche rispetto le

tematiche trattate, a maggior ragione se le tendenze osservate, di pari passo con la rapida evoluzione

delle nuove tecnologie, dovessero intensificarsi negli anni a venire.

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