Breve analisi storico-antropologica del fenomeno religioso

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La fronte di Giano * Breve analisi storico-antropologica del fenomeno religioso Greta F. Franco Abstract Che cos’è un fenomeno religioso? Come si determina e da cosa è deter- minato? È qualcosa di univoco, uguale per tutti, oppure è una variabile? È perenne, sciolto dai vincoli spaziali e temporali, o è contestualizzabile? È un sentimento, un’emozione, una tradizione, un fatto storico... un’essenza, una facoltà propria dell’essere umano? Come si può rispondere a queste doman- de – e molte altre – muovendoci tra le tante risposte che già sono state date nel corso della storia del pensiero umano senza perderci, trasportati inermi dalle correnti dello stesso, senza restare impigliati nei grovigli culturali? Cosa significa cultura e qual è la sua necessità? È anch’essa un fenomeno univer- sale – un’essenza o una facoltà propria dell’essere umano – oppure un fatto storico determinabile? In breve, possiamo parlare di cultura in senso assoluto, oppure dobbiamo ogni volta considerare ilsuo contesto? Forse è possibile fare entrambe le cose, come si cercherà di dimostrare ripercorrendo le vie aperte da studiosi precedenti e contemporanei a noi. Ma come possiamo riflettere su tanti interrogativi senza cadere nel paradosso dell’uovo e della gallina? Senza cadere nel vacuum del fenomeno originario, nella vana ‘caccia all’origine’? * Articolo pubblicato su codices.eu il 29 ottobre 2021.

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La fronte di Giano*

Breve analisi storico-antropologica delfenomeno religioso

Greta F. Franco

Abstract

Che cos’è un fenomeno religioso? Come si determina e da cosa è deter-minato? È qualcosa di univoco, uguale per tutti, oppure è una variabile? Èperenne, sciolto dai vincoli spaziali e temporali, o è contestualizzabile? È unsentimento, un’emozione, una tradizione, un fatto storico... un’essenza, unafacoltà propria dell’essere umano? Come si può rispondere a queste doman-de – e molte altre – muovendoci tra le tante risposte che già sono state datenel corso della storia del pensiero umano senza perderci, trasportati inermidalle correnti dello stesso, senza restare impigliati nei grovigli culturali? Cosasignifica cultura e qual è la sua necessità? È anch’essa un fenomeno univer-sale – un’essenza o una facoltà propria dell’essere umano – oppure un fattostorico determinabile? In breve, possiamo parlare di cultura in senso assoluto,oppure dobbiamo ogni volta considerare il suo contesto? Forse è possibile fareentrambe le cose, come si cercherà di dimostrare ripercorrendo le vie aperteda studiosi precedenti e contemporanei a noi. Ma come possiamo riflettere sutanti interrogativi senza cadere nel paradosso dell’uovo e della gallina? Senzacadere nel vacuum del fenomeno originario, nella vana ‘caccia all’origine’?

*Articolo pubblicato su codices.eu il 29 ottobre 2021.

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Attraverso un’indagine del rapporto tra fenomeno religioso e fenomeno cultu-rale ci si chiede se essi siano fattori sociali, oppure se è la società che si fondasu di essi. E trattando la questione come materia viva si cercherà di prestareattenzione al ruolo specifico della ricerca propria delle scienze umane, cercan-do di comprendere quale sia il significato di questa disciplina (che accoglieal suo interno molteplici indirizzi) e quale sia, dunque, la sua correlazionecon il fenomeno religioso. Perchè è importante studiarlo? Questo articolo èun tentativo di avanzamento attraverso la fitta foresta storico-antropologicafinora prosperata, con l’obiettivo di incontrarne gli ostacoli e sfruttarli vantag-giosamente per un’analisi dal doppio taglio: trovare una possibile risposta econservarne l’aporia.

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Introduzione

Per dare inizio alla nostra analisi ho creduto opportuno prendere in conside-razione l’articolo di Talal Asad, The Construction of Religion as an AnthropologicalCategory1 per una prima trattazione dell’argomento chiave di questa riflessione:il fenomeno religioso.

Due sono gli elementi centrali che possiamo già evincere dal titolo: (I) lareligione in quanto costruzione, (II) la religione in quanto categoria antropo-logica. Si deve dunque partire dalla definizione tout court di ‘religione’.

Deviando leggermente dall’articolo per un’analisi etimologica del termine,ne possiamo derivare tre maggiori versioni. Secondo quanto afferma Ciceronenel De natura deorum2 ‘religione’ deriverebbe da relegere, indicando, così, l’a-zione di conseguire una scelta, prediligere un’azione tra una scelta di azionipossibili. Lattanzio nel Divinae istitutiones3 si distanzia da questa interpreta-zione sostenendo che il termine deriverebbe piuttosto da religare, per cui sitratterebbe di un tenere insieme qualcosa. In ultimo abbiamo Agostino che,nel De civitate Dei,4 riprende la teoria ciceroniana e ne sottolinea la ricorsività.Il termine sarebbe, infatti, religere, ri-eleggere, dunque; conseguire ogni voltauna nuova scelta. Seppur varianti, queste tre proposte etimologiche non pos-sono prescindere dalla questione chiave: la scelta (anche se Lattanzio parladi legame, questo sottintende comunque un vaglio in quanto realizzazione diuna specifica volontà per la costruzione di uno specifico ordine).

La domanda ora sorge naturale: scelta – o costruzione di un legame – dicosa?

Secondo Clifford Geertz in The Interpretation of Cultures,5 la religione è unsistema di simboli atta a stabilire dei legami di potere duraturi in quanto pattern

1Asad, T., (1993 [1982]), The Construction of Religion as an Anthropological Category, in Ge-nealogies of Religion: Discipline and Reasons of Power in Christianity and Islam, The John HopkinsUniversity Press, Baltimore, pp. 27-54.

2Cicerone, De natura deorum, II, 28, 72.3Lattanzio, Divinae istitutiones, IV, 28, 2.4Agostino,De civitate Dei, X, 3, 2.5Geertz, C., (1973), The Interpretation of Cultures: Selected Essays, Basic Books, New York.

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culturali. Questi ultimi permettono il configurarsi particolare dell’esperienzadi ciascun essere umano a livello transistorico e transculturale.1

La definizione proposta da Geertz è un tentativo di astrazione del concettodi religione in quanto concetto ‘in sé’, dunque universale e, siccome tale, vali-do per qualsiasi tipo di culto, considerando a sua volta il ‘culto’ come qualcosadi generico, esistente di per sé. È qui che subentra Talal Asad, antropologodi Medina e professore alla City University di New York (CUNY), sostenen-do la presenza dell’istanza storica nello stesso tentativo di universalizzazionedel termine: la pretesa di transistoricità e transculturalità, e le conseguentidiversificazioni tra religione e politica, religione e diritto, religione e scienza,non sono altro che un prodotto della moderna secolarizzazione occidentale,dunque, altamente collocabile storicamente e culturalmente, anche a livelloreligioso dacché la secolarizzazione è a sua volta derivata dal cristianesimo.“Yet this separation of religion from power is a modern Western norm, theproduct of a unique post Reformation history.”2

È chiaro, per Asad, che una tale interpretazione universalistica della re-ligione non permette una reale comprensione del fenomeno entro le diverseculture e delle culture stesse, portando come esempio il caso della religioneislamica. La religione non è una configurazione, o stato mentale: la privatizza-zione della sfera religiosa è essa stessa una risultanza della religione cristianaoccidentale, ma non coincide a sua volta neppure con la religione cristianadal momento che, fino almeno al XV secolo, questa apparteneva alla sferapubblica, si potrebbe anzi dire che la componeva. La sfera religiosa come sferapubblica era quindi primariamente culturale, politica e storicamente collocata:identitaria.

Dunque cosa ha portato alla costruzione del concetto di religione in quantotransculturale?

L’antropologia. O meglio, l’antropologia in quanto settore culturale svi-luppatosi attraverso i movimenti di colonizzazione da parte degli europei apartire proprio dalla fine del XV secolo e che portano, infine, di pari passocon altrettanti sviluppi e moti culturali, alla secolarizzazione: il tentativo, sem-pre europeo, di svincolarsi dalla religione per un’emancipazione della politicacome cardine dell’ordine sociale. Ecco perchè ‘the Construction of Religion

1Cfr. Asad, T., (1993 [1982]), cit., p. 116.2Ibidem.

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as an Anthropological Category’. Morale della favola: non è possibile – perAsad è letteralmente impossibile – , ma soprattutto è un errore dalla troppofacile ricaduta, la costruzione di una definizione statica (e, appunto, univoca)di ‘religione’. Questa va considerata di volta in volta nelle sue particolariconfigurazioni e strutture storico-culturali.

L’analisi condotta da Asad è chiaramente più complessa – nonostante la suascrittura relativamente scorrevole e chiara – egli viaggia attraverso spazi etempi (per l’appunto storico-culturali) diversi, permettendo un allargamentodella comprensione del testo, paradossalmente al lettore di qualsiasi climaculturale.

Questo però dimostra la malleabilità dell’argomento, papabile di esseretrattato ‘universalmente’ esclusivamente a livello teorico, con la necessità dicostanti rimandi alle differenze empiriche. Ho pensato di ripercorrere i puntisaldi dell’articolo di Talal Asad allo scopo di poterli sfruttare nel resto dellatrattazione, ragionando dunque sulla falsa riga dell’antropologo di Medina.

Abbiamo considerato fino qui quelli che possono a loro volta essere con-siderati i cardini dell’Antropologia della Religione: la ‘religione’ – la sua defi-nizione e la sua possibilità di comprensione in quanto fenomeno sociale – el’‘antropologia’. Ma abbiamo inevitabilmente incontrato la nozione di ‘storia’e, soprattutto e di conseguenza, quello che può essere considerato il sostratodi questi cardini: il concetto di ‘esperienza’.

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Parte PrimaVerso l’antropologia attraversol’ermeneutica: cinque testi scelti

I

“Hegel dice: «Questo movimento dialettico che la coscienza esercita in leistessa, – e nel suo sapere e nel suo oggetto – in quanto gliene sorge il suo nuovo verooggetto, è propriamente ciò che si dice esperienza».”1 Dunque per Georg WilhelmFriedrich Hegel l’esperienza è un movimento dialettico che la coscienza operain sé stessa a partire da sé stessa, rovesciandosi su ciò che le appare attornoe tornando in sé stessa con l’apparenza di quanto ha vissuto nel suo primorovesciamento. In altre parole, ciò che chiamiamo ‘esperienza’ è ciò che lacoscienza esperisce di sé senza mai davvero cogliere la vera essenza, o il verocontenuto, dell’oggetto esterno/estraneo ad essa: “Di fatto, [. . . ], l’esperienzaè sempre anzitutto esperienza della nullità.”2

L’intero, ciò che non è nullo, o ciò che ha contenuto, per Hegel è, infatti,ciò che va al di là dell’esperienza.

Segue che tutto ciò che non ha contenuto ed è nullo non si può sapere,mentre, viceversa, si può sapere solo ciò che ha contenuto. Per cui l’esperien-za non si può sapere, o meglio, l’esperienza non è sapere. Se ci si attieneall’esperienza, che è sempre particolare e mai universale, il sapere si annulla ediventa vacuo, rispecchia esclusivamente ciò che non è per davvero, ossia chenon è assolutamente. È importante, anzi è essenziale allora continuamente

1Gadamer, H. G., (1983), Teoria dell’esperienza ermeneutica, in Verità e metodo, trad. it. ecura di G. Vattimo, Bompiani, Milano. Ed. orig., Gadamer, H. G., (1960), Wahrheit undMethode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, J. C. B. Mohr, Tübingen, p. 410; Gadamercita dalla Fenomenologia dello Spirito di G. W. F. Hegel, si veda: Hegel, G.W.F., (1974 [1973]),Fenomenologia dello Spirito, trad. ita. E. de Negri, La Nuova Italia editrice, Firenze. Ed. orig.,Hegel, G. W. F., (1807), System der Wissenschaft.Ersten Theil, die Phänomenologie des Geistes, beyJoseph Anton Goebhardt, Bamber und Würzburg.

2Ibid. (corsivo aggiunto).

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superare l’esperienza, per cui mantenere costante questo superamento attraver-so il movimento dialettico che è medesimamente il processo di comprensionestesso. Torna, quindi, la necessità della malleabilità nel processo di analisi diun qualsiasi oggetto per la reale comprensione dello stesso come ci suggerivaAsad nel suo articolo, nonché l’impossibilità di una qualsiasi determinazione,o definizione statica di un argomento del sapere. “La dialettica dell’esperienzanon ha il suo compimento in un sapere, ma in quell’apertura all’esperienzache è prodotta dall’esperienza stessa.”1

Il ripensamento costante dell’esperienza si configura quindi come espe-rienza dell’essere umano della sua propria essenza (l’esperienza che l’essereumano compie su di sé), ossia: la storia. Si capisce allora come dalla storia,sempre in accordo – questa volta potenziato – con Asad, non si possa pre-scindere né a livello ontologico né a livello epistemologico. È questo il limiteumano. In quanto tale è sofferenza, è il sopperire dell’essere umano alla suanatura di essere storicamente determinato, confinato nel tempo e in grado (eanche di questo non ne può fare a meno – questa la condanna) di pensarsitale, dunque, di pensarsi potenzialmente illimitato poiché in grado di esperireil tempo e la sua costante fine (la morte) in maniera esponenziale. Esperienzaè, non a caso, ex-perior : tentativo costante di passare oltre (il pericolo), speranza.

Ogni esperienza ha la sua speranza. Ogni tradizione la sua forma diesperienza. Questa si configura nel linguaggio. Il linguaggio quindi, sottoforma di “dato storico trasmesso [. . . ] come una struttura significativa scioltada ogni legame con il particolare opinare di questo o quell’io o tu”,2 ‘trascende’,potremmo dire, il singolo rapporto esperienziale di ciascuno – quindi dell’ioin quanto io, del tu in quanto non io, e del rapporto tra i due come fosseroelementi fissi nella loro determinazione. Il rapporto io-tu è uno scambio, omovimento dialettico, ininterrotto delle due determinazioni protagoniste (l’ioe il tu); l’unico modo per svincolarsi dalla fissità, o limitatezza, data dalledeterminazioni è riconoscerne la sussistenza essenziale. L’unico modo perl’essere umano di conoscere sé stesso è il pensare l’altro in quanto ‘altro io’ (èquesta l’autenticità del tu, dalla pari dignità di ciò che si esperisce come io3),attraverso i mezzi che la tradizione gli mette a disposizione in un processodi continuo oscillamento tra retrosprezione e proiezione storica. Gadamer,

1Ivi, p. 411.2Ivi, p. 414.3“Nel rapporto con gli altri, come abbiamo visto, ciò che importa è esperire il tu davvero

come tu, cioè saper ascoltare il suo appello e lasciare che ci parli.”, ivi. p. 417.

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citando la tradizione ermeneutica, definisce questo il processo della coscienzastorica.

“Chi si ritrae da questa reciprocità di rapporto, per tornare pressodi sé, modifica il rapporto e distrugge l’impegno morale che essorappresenta. Allo stesso modo, chi si ritrae dal rapporto vivente con latradizione storica, distrugge il senso vero di questa tradizione. [. . . ] Stareall’interno della tradizione, ci è parso di poter concludere, nonlimita la libertà del conoscere, ma anzi ne fonda la possibilità.”1

Quello che Gadamer cerca sostanzialmente di dirci è che il tu è elementostorico al pari della tradizione. Attraverso il tu noi conosciamo costantemen-te (ri-conoscimento) noi stessi, in modo analogo si determina la tradizione– ossia la specificazione, delineazione, del carattere proprio di un individuoentro confini storicamente, culturalmente e geograficamente dati – e la suadeterminazione è perpetua (è dunque una ri-determinazione). Questo rinno-vato processo esperienziale di identificazione richiede perciò un’apertura che,ricorda il filosofo, “ha la struttura della domanda”2: “Per esser capaci di do-mandare bisogna voler sapere, il che significa però che bisogna sapere di nonsapere.”3 Allo stesso modo per considerare l’altro bisogna volerlo riconoscere,il che significa che bisogna sapere di non essere l’altro; la stessa cosa vale persé stessi. Questo, forse, il senso della famosa iscrizione all’entrata dell’oracolodi Delfi: γνῶθι σαυτόν, conosci te stesso.

II

Non si può parlare di ermeneutica senza prendere in considerazione l’altrogrande polo di questa ‘arte interpretativa’, il filosofo Paul Ricoeur e i suoi saggi.In specifico non si può parlare di tradizione e di linguaggio senza soffermarci

1Ibidem.2Ivi, p. 419.3Ibidem.

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su quest’ultimo aspetto. Il linguaggio, ovvero l’azione sensata.1

Ma qual è la differenza tra linguaggio parlato e linguaggio scritto (il testo)?Ricoeur per rispondere prende in considerazione il ‘discorso’, proprio perchéè in questo modo che il linguaggio si esplica nelle sue due forme, per cui: “ildiscorso è l’evento del linguaggio”.2 Da questo riusciamo già a comprendereche il discorso è un qualcosa di storicamente determinato, un accaduto, unavvenimento collocabile temporalmente e nella sua specificità, al contrario dellinguaggio che è invece un’astrazione. Di conseguenza il linguaggio non appar-tiene a nessuno in particolare, mentre il discorso è appropriabile a un soggettoche lo parla (che sia scritto o orale). È chiaro allora che il discorso è riferitoad una precisa circostanza del e nel mondo, un avvenimento, appunto, per cui:“è nel discorso che la funzione simbolica del linguaggio viene attualizzata.”3

È nel discorso che il linguaggio prende senso ed è attraverso uno scambio chequesto si attualizza, che in altri termini è quel rapporto ‘io-tu’ di cui sopra.

È altrettanto chiaro che in quanto evento il discorso è sfuggevole, e tuttaquesta instabilità inizia a stancarci, non è rassicurante dichiarare, come feceuna volta Eraclito, che tutto scorre. Bisogna capire come e soprattutto checosa è davvero questo ‘tutto’ che comunque ‘è’, abbastanza da scorrere. Tantoè vero che “l’iscrizione”, e cioè qualcosa di fisso, “è la destinazione del discor-so”4 e avviene per mezzo di un’azione volontaria. Questa volontà richiestanell’atto di iscrizione, o meglio, nell’atto di mettere per iscritto il discorsoverbale, si dissocia dall’iscrizione una volta che questa è stabilita e proprio ladissociazione permetterebbe a sua volta l’associazione, o la riconduzione delsignificato al soggetto portatore, cioè il riferimento.

Non si sfugge realmente dalla fissità, il riferimento è il rimando a quanto diconcreto sta nel mondo ed esclude, come fa lo stesso Ricoeur, in accordo con

1Questo è uno dei punti cardini del pensiero di Paul Ricoeur, definita dal filosofo anche“opera aperta”: l’azione sensata è un’azione, un’opera umana volta alla comunicazione, per cuiportatrice di senso estendibile al di là della sua fissazione temporale; “[. . . ] così un’opera nonriflette soltanto il suo tempo, ma apre un mondo di cui essa stessa è portatrice.”. Cfr. Bugaite,E., (2002), Linguaggio e azione nelle opere di Paul Ricoeur dal 1961 al 1975, Editrice PontificaGregoriana, Roma, p. 197.

2Ricoeur, P., (1999), Il modello del testo: l’azione sensata considerata come un testo, in Il conflittodelle interpretazioni, trad. it. e cura di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Jaca Book, Milano.Ed. orig., Ricoeur, P., (1969), Le conflit des interprétations, essais d’herméneutique, Seuil, Paris, p.118 (corsivo aggiunto).

3 Ibidem.4Ivi, p. 179

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Gadamer e con Asad, la possibilità di una pura assolutezza. Non è possibile,per esempio, parlare di religione in senso assoluto senza fare riferimento alsuo evento secolare, tenere in conto il suo riferimento. Solo così, accettandoil limite come si diceva prima, si aprono davvero i confini dell’esperienza cir-coscritta entro la referenza; solo così si trascendono le determinazioni singolecogliendone l’insieme. Come intendeva dunque Hegel, solo così l’assoluto ètale: l’insieme dei particolari e degli universali. E, per tornare a Paul Ricoeur,

“per noi il mondo è l’insieme delle referenze aperte dai testi. [...]Comprendere un testo è, al tempo stesso, chiarire la nostra situazio-ne o, se si vuole, interpolare tra i predicati della nostra situazionetutti i significati che fanno del nostro Umwelt un Welt.”1

In questo modo, che finora abbiamo cercato di descrivere raccogliendonepresupposti logici e sviluppi, è possibile trattare la materia umana scientifi-camente attraverso dati altrettanto materiali quali i testi in quanto fissazionedi un’azione storicamente determinata per astrarne le conclusioni generali:“una sorta di oggettivazione equivalente alla fissazione del discorso tramite lascrittura”2 Così, per la felicità hegeliana, si salverebbero allo stesso tempo ilfenomeno e il miracolo (per cui qui potremmo tranquillamente definirla una‘felicità storica’ – siccome da Platone e Simplicio ad al-Ghazali, a Feuerbache Marx, a Mary Douglas..., si è sempre cercato di salvare e uno e l’altro). Èvero, probabilmente “il circolo resta una struttura insuperabile [. . . ], ma questarettifica [ossia l’intero processo conoscitivo che finora si è cercato di delinea-re] gli impedisce di diventare un circolo vizioso. Infine, la correlazione traspiegazione e comprensione, e viceversa, costituisce il «circolo ermeneutico»”.3

III

Partendo dal costrutto del concetto di religione, dopo aver consideratol’impossibilità di una sua definizione valida assolutamente e aver trattato la

1Ivi, p. 182.2Ivi, p. 184.3Ivi, p. 203 (integrazione aggiunta).

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storicità e la culturalità come leitmotiv teorici necessari alla comprensione inquanto azione orientata (o sensata), non possiamo a questo punto fare a menodi considerare la nozione di ‘differenza’. Questo attraverso l’indagine dellostorico e antropologo francese Michel de Certeau, contemporaneo di Gadamere Ricoeur.

La proposta dello storico, rivelata già nel titolo Une pratique sociale de ladifférence: croire,1 è certamente interessante: il credo come una (si presupponetra tante possibili) pratica sociale della differenza. Ma entriamo nel dettaglio– che abbiamo visto essere importante – e proviamo ad osservare le mossecondotte dal pensatore andando innanzitutto a definire il termine ‘credo’ perpassare, quindi, a quello di ‘differenza’.

Il credo, dice de Certeau, è ciò che pone un rapporto con l’altro2 dove l’altroè inteso come qualcuno o qualcosa che sia una persona, un oggetto, comeanche la realtà (magari di un fatto oppure di un’immagine), o un detto. Sipensi ad esempio, fermandoci in occidente, al filosofo Thomas Hobbes, il qua-le afferma che il credo è il riconoscimento di una dottrina; oppure al giuristaCarl Schmitt, che, sulle linee di Hobbes, evidenzia l’importanza del fatto (inquanto factum storicamente accaduto, un evento) nel fenomeno sociale dellacredenza. Insomma, alla stregua del termine ‘religione’, anche il ‘credo’ pareavere un suo elemento originario che è niente di meno che il rapporto: il ri-conoscimento di un’alterità, un commercio continuo; addirittura, per restare noifedeli al canovaccio hobbesiano, de Certeau lo definisce un contratto.3

Si da il caso che un contratto non può esistere senza almeno due partiche lo stipulano, dunque, una differenza. Non solo, ma il contratto determi-na anche almeno due differenti momenti (temporali), un prima e un dopo ilcontratto, un cambiamento di situazione, determina allora l’incontro presente(l’evento/avvenimento) di un passato e la proiezione di questo in un futuro. Lostesso futuro è reso apparentemente certo, o più sicuro, dalla stipulazione delcontratto che, seppur non assicura un avvenire certo, assicura almeno l’avve-

1de Certeau, M., (1981), Une pratique sociale de la différence: croire, in Faire croire. Modalités dela diffusion et de la réception des messages religieux du XIIe au XVe siècle. Actes de table ronde de Rome(22-23 juin 1979), École Française de Rome, Roma. pp. 363-383. url:http://www.persee.fr/doc/efr_0000-0000_1981_act_51_1_1386.

2Ivi, p. 363.3“Le croire tient donc entre la reconnaissance d’une altérité et l’établissement d’un contrat.”,

ibidem.

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nire in un certo modo. Il contratto è, quindi, una speranza.

La speranza è fondamentalmente quella della restituzione del tempo, co-me direbbe Søren A. Kierkegaard, ossia, per dirla anche con Friedrich W.Nietzsche, la soglia dell’attimo a cavallo tra gli estremi temporali, per attuareuna sempre nuova restituzione del passato in un futuro sottoforma di volontà(di potenza). Questa volontà di potenza è proprio l’apertura di cui si parlavasopra, la potenza, magari, è la proiezione dell’esistenza dell’essere umano abinfinitum, oltre la stessa morte. Magari, anche il credo in un aldilà.

Ma questo discorso (circolare) ci riporta anche alla teoria del dono chel’antropologo Marcel Mauss struttura a partire dalla sua analisi del Potlachprecedentemente descritto da Franz Boas e del Kula, descritto da Bronislaw K.Malinowski.1 Egli qualifica il ‘dono’ come fatto sociale totale, per cui legato allavera natura del fenomeno sociale, cioè il commercio. Qui ci si può distanziareda Mauss, allontanandoci dal concetto di economia come fattore totalizzan-te; oppure ci si può avvicinare come hanno per esempio fatto i fondatori delMovimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali (MAUSS), non accogliendol’aspetto economicistico come predominante nella teoria dell’antropologo, macogliendone piuttosto l’originalità: il dono inteso come reciprocità. Tornandoa noi, la reciprocità è permessa dalla comunicazione che, a questo punto, puòessere considerata come un tipo di commercio.

Il commercio comunicativo permette la ‘gestione’ dell’altro e del tempocon un processo analogo a quello della coscienza storica del tu di Gadamer,avendo un occhio di riguardo sulla differenza che è implicata nel commercio,anzi, che ne è il presupposto. Al centro dello scambio sta però la parola.Ed è sempre la parola ad essere il centro del credo,2 creando un rapportotriadico tra un attore, una realtà (o evento se ci atteniamo ai termini finorautilizzati) e un qualcosa di detto (il discorso o il testo). A sua volta questorapporto consente il rimando all’altro (inteso anche come una dimensione

1Potlach e Kula sono entrambe delle cerimonie rituali portate avanti rispettivamente datribù nordamericane del Pacifico e da tribù delle isole Trobiand, in Papua Nuova Guinea.Mentre il Potlach, analizzato dall’antropologo Boas nel 1897, consiste essenzialmente in unbanchetto nel quale i partecipanti provvedono ad affermare il loro rango, o status sociale,distruggendo beni di valore, il Kula, considerato da Malinowski nel 1922, è un processo discambio simbolico di un bene senza valore al fine di assicurare il mantenimento di un rapportodi fiducia. Entrambe le cerimonie verranno considerate da Mauss forme di economia basatesul dono.

2“[. . . ] comme l’acte de dire, l’acte de croire articule sur la chose disparue et attendue lapossibilité sociale d’un «commerce».”, ivi, p. 365.

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altra/alternativa) e alla dimensione temporale del futuro (sempre comunquecome un’alterità rispetto all’attuale): secondo de Certeau, sulla linea di ÉmileDurkheim,1 questo è il medesimo principio del sacrificio in quanto desiderio(o speranza) di stabilire (meglio, ri-stabilire) un rapporto con l’altro. Peraltroil rito del sacrificio rimanda sempre ad un ricordo o una commemorazione(quel factum storico di cui sopra) nel tentativo di stabilire sempre di nuovo ilrapporto e di non dimenticarne – perdere dunque – il legame. Si potrebbeazzardare ad assumere un’equivalenza con la logica della tradizione.

Possiamo inoltre trovare un altro topos, a sostegno anche del percorso danoi seguito, che è quello dell’‘assenza’, finora soltanto considerata di passaggio.L’abbiamo incontrata con Hegel e Gadamer per una definizione ermeneuticadell’esperienza sotto forma di ‘nulla’ e ‘momento dialettico negativo’; l’abbia-mo incontrata nel ‘discorso’ di Paul Ricoeur a fare le veci del ‘posto vacante’nascosto dietro al linguaggio e alla sua apparente struttura stabile; l’abbiamovista all’inizio nel testo di Asad nei panni dell’‘impossibilità’. L’impossibilità infin dei conti di presupporre una presenza immutabile del passato nel presentee di riproporlo tale e quale in un futuro – che da questa presupposizione risul-terebbe certo (teleologicamente già dato) – per una stabilità sociale; quandoinvece, la struttura sociale stessa è data dall’alterità, ossia da una ripropo-sizione sempre di nuovo diversa (per tornare nuovamente a Nietzsche o aKierkegaard e congiungere il filo) la quale è garantita dalla fede nell’esistenzadi questa medesima alterità: il credo di e in un altro.

IV

Siamo partiti dall’analisi del concetto di ‘religione’ per una sua possibilecomprensione e siamo approdati al concetto di ‘credo’. Ora con AlasdairMacIntyre ci chiediamo: quanto è compatibile la comprensione della religione

1Durkheim, É., (1968), Les formes élémentaires de la vie religieuse, Presses Universitaires deFrance, Paris.

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con il credo?1

Ma prima ancora di addentrarci nella risposta chiediamoci: perché è ne-cessario porsi questa domanda?

Abbiamo solo di sfuggita accennato all’importanza del modo di porsiscientificamente davanti alla materia umana trattata come oggetto di ricerca.Questo è per esempio ciò che fa l’antropologo o un sociologo2 nel porsi difronte ad una cultura che gli è distante o non gli appartiene e, nonostanteciò, nel cercare di comprenderla. Dunque si può riformulare la domanda: èpossibile comprendere la religione (in quanto espressione/fenomeno sociale)nonostante non se ne possegga il credo (cioè non si partecipi ad esso)?

Ritornano i motivetti della specificità contestuale e della determinazionestorica, della variabilità, dell’impossibilità di una universalizzazione e, dun-que, della necessità innanzitutto di chiarire o entrare nella logica utilizzata neiprocessi mentali/strutture sociali dell’altro in quanto alterità.

Ma è davvero possibile, una volta che le norme intelligibili siano comprese,o perlomeno colte, apporgli dei giudizi di valore (che siano di tipo morale –bene o male – o di tipo logico – coerente, incoerente)?

Nello specifico MacIntyre si chiede come sia possibile – per fare un esem-pio storico – che alcune incoerenze della religione cristiana potessero esseretollerate nonostante fossero note agli stessi teologi del medioevo, ma diventas-sero motivo di divario e di distanza dalla religione stessa a partire dall’epocamoderna. In effetti, continua il filosofo, gli stessi criteri intelligibili - in questocaso si intende tutto ciò che può essere compreso a livello cognitivo - sonostorici e perciò sfruttati in tale senso. Questo permette di fornire una provadi quanto egli afferma all’inizio del saggio: che per essere in accordo su unsenso bisogna accordarsi. Meno tautologicamente parlando diremmo che èproprio la stipulazione di un accordo (contratto) ad assicurare un senso, ecioè, il riconoscimento di una più larga ‘metanarrazione’ entro una partico-lare tradizione. È ciò che, come abbiamo precedentemente potuto convenire,nasconde la comunicazione dietro all’uso del linguaggio: “human communica-

1MacIntyre, A., (1964), Is Understanding religion compatible with believing?, in Faith and thePhilosophers, edited by J. Hick, Wipf and Stock Publishers, Eugene, Oregon, pp. 115-133.

2“For anthropologists and sociologists (I intend to use these terms interchangeably) claimto understand concepts which they do not share.”, ivi, p. 38.

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tion through language always aims at universal understanding”.1 D’altrondelo stesso uso del linguaggio è un accordo che permette la comunicazione inquanto continuo commercio di senso. Non si tratta di una reale comprensionequindi, non è possibile un vero e proprio incontro, una compatibilità, piuttosto,diremmo con Habermas, trattasi di un’etica del discorso: “this universal telosof language makes translation, even though difficult, possible and underlies thehuman capacity for practical, that is, moral, learning in the direction of a universalcommunication.”2

MacIntyre in ogni caso non converge sul riconoscimento di un telos co-mune, non è per lui possibile neppure una vera e propria traduzione, invececiò che si coglie è ancora una volta la differenza: ossia la comprensione del-l’incompatibilità, dello scarto linguistico e tradizionale e dell’intraducibilitàdegli stessi mezzi comunicativi e norme intelligibili che sono alla base dellestrutture sociali, religiose e le rispettive credenze. Questa, l’unica forma dicomprensione ammissibile

V

Non siamo allora fuori dall’idea di relatività. Concludiamo infine il no-stro percorso con una citazione di Mary Douglas: “in un caos di impressionimutevoli ciascuno di noi costruisce un mondo stabile in cui gli oggetti hannodelle forme riconoscibili [. . . ]”.1 Le forme riconoscibili sono appunto i sistemisimbolici propri di ciascuno spazio relativo, circoscrivibile storicamente e cultu-ralmente. Ma allora, come fa l’antropologo e, più in generale, lo studioso dellescienze umane ad uscire da questo circolo (seppur non vizioso) relativistico?

1Gunnemann, J. P., (1994), Habermas and MacIntyre on Moral Learning in The Annual ofthe Society of Christian Ethics, vol. 14, pp. 83–108. url: https://www.jstor.org/stable/23559620, p. 94.

2Ibid., (corsivi aggiunti).1Douglas, M., (2021), Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, trad.

ita. e cura di A. Vatta, Il Mulino, Bologna. Ed. orig., Douglas, M., (1966) Purity and Danger,An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, Penguin Books, Harmondsworth. P. 76.

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Come fare, in altri termini, a trattare lo scarto sussistente e componente lamateria umana? Mary Douglas ci risponderebbe, sulla linea dell’antropologoArnold Van Gennep, come anche di Nietzsche (sempre per salvaguardare illegame teorico) con la metafora della soglia: il margine ambiguo e transitorio,la differenza che permette la viva contaminazione delle idee e, di conseguenza,il continuo scambio, la crescita e la mutevolezza di qualsiasi struttura socia-le particolare e, dunque, della società in generale. Sempre con Douglas: ilriconoscimento della potenza del disordine per la costruzione di un sistema or-dinato, o rito, che assicura un sottofondo di stabilità; il sollievo del ricordo,l’apertura della tradizione all’alterità, secondo una logica sistemica e circolaredi distruzione e costruzione.

Parte secondaIntroduzione all’analisi antropologica

e all’analisi storica

I

L’itinerario teorico finora seguito voleva essere un primo tentativo di ricercadel fenomeno religioso dal punto di vista filosofico, sociologico e antropologicorestando nella congruenza di un telos di ricerca, ma mantenendo le peculia-rità di ciascun approccio teorico. La relatività della logica sistemica, infatti,– diverse strutture culturali, cognitive e teoriche – rende possibile un’analisieterogenea quale quella che ci si è proposti di portare avanti in questa sede.

La disponibilità all’ascolto della differenza e alla differenza stessa è ilprincipale requisito scientifico dello studioso in ogni campo. L’immersionenell’ambiente ‘altro’, estraneo alla comfort zone dello studioso, rende possibilelo svolgimento dell’indagine, in particolare nel campo delle scienze umane,

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in quanto solo così egli può cogliere il vissuto di ciò che sta studiando. Lamateria umana, infatti, non può essere astratta a tal punto da rendersi sterile epriva della sua volubilità intrinseca. La materia umana è materia viva che deveessere trattata in quanto tale; questo è, ancora più nello specifico, il compitodell’antropologo come della sua scienza, l’antropologia.

Hans G. Gadamer, abbiamo visto, identifica la struttura del vissuto – inquanto processo esperienziale – con la struttura della domanda. Quello cheè necessario per qualsiasi tipo di indagine scientifica, e in particolare per laricerca antropologica che va a toccare l’ἄνθρωπος nel suo più intimo dispiega-mento, è l’apertura alla domanda. O meglio, l’apertura a ciò che emerge dalladomanda poiché, nel momento in cui questa viene posta, non si ha ancoraalcun tipo di certezza. Per cui l’apertura significa letteralmente essere dispostialla possibilità, all’evenienza del caso, inteso anche e soprattutto come pos-sibilità reale della distruzione dei sistemi sociali e cognitivi con cui fino almomento critico – quello della domanda – ci sostenevamo in un principio distabilità che potrebbe, infine, risultare fittizio. La disponibilità, dunque, adaccettare la realtà dell’apparenza. Così, si crea e si assicura l’interazione, ossiala mediazione che l’antropologo deve essere in grado di mettere in atto ogniqual volta si immerge nel contesto di studio. Infatti, la disciplina etnograficasi sviluppa proprio in questo senso.

L’etnografia nasce inizialmente in un contesto storico particolare, quandol’opposizione tra il ‘noi’ e l’‘altro’ era sostenuta dalla visione etnocentrica edove l’‘altro’ è trattato principalmente come straniero. L’ulteriore pregiudizioa fondamento della prima fase etnografica è l’opposizione tra ‘primitivo’ ed‘evoluto’. Sul filone della teoria evoluzionista proposta da Charles R. Darwinnel 1859,1 si pretendeva di studiare i popoli ‘selvaggi’ per una maggior com-prensione di questo processo di sviluppo della razza umana e della civiltà.Sin dagli albori del XVIII secolo e con l’affermarsi della corrente illuministal’etnografia è quindi motivo di confronto con l’altro per un ritorno diretto sullasituazione occidentale, reputata ormai corrotta, così tanto distante dai suoiprimordi e quindi dalle sue origini ‘naturali’, da dover prendere esempio dacolui che ormai è figurato come il ‘buon selvaggio’. La situazione cambia daiprimi del 1900 con un incremento critico nei primi anni ’60, si pensi allo sforzodi Franz Boas ripreso da Margaret Mead, oppure alla prospettiva interpretati-va adottata da Edward E. Evans-Pritcard e (soprattutto) dalla già incontrata

1Darwin, C., (1859), On the Origins of Species by Means of Natural Selection, or the Preservationof Favoured Races in the Sruggle for Life, John Murray, London.

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Mary Douglas. Inoltre, se prima l’immagine del ‘primitivo’ era incentrata sullepopolazioni native d’America e sulle colonie d’Africa, ora avviene uno sposta-mento di campo e gli interessi di studi si allargano progressivamente versonuovi orizzonti come l’Asia e l’Oceania. Un esempio è lo studio svolto da RuthBenedict su commissione del governo americano in The Chrisantemus and theSword,1 tentativo di delineare modelli di cultura giapponese. Ancora, a partiredagli anni ’80 del XX secolo, la manovra è quella di smontare la pretesa dioggettività che fino ad allora aveva comunque caratterizzato lo studio etnogra-fico. Si pensi all’opera di Clifford Geertz già citata sopra, The Interpretationsof Cultures2 pubblicata proprio nel 1978, o l’Anti Anti-Relativism3 del 1984 nelquale sottolinea l’importanza fondamentale di considerare ciascuna culturanella propria circostanza storica per considerare l’altro non come estraneo,dunque come alternativa a noi, ma come alternativa ‘per noi’, che siamo unadelle tante possibilità di configurazione di un noi generico.

In base a quanto finora constatato, la posizione sembra convergere sulrettilineo di un’interpretazione che non perda di vista la situazione concretaparticolare, o, come la descrivevamo sopra, la determinazione storico culturale.Lo stesso resoconto di Geertz converge con quello di Gadamer sull’autenticitàdel tu. Il tu in quanto persona reale, dalla pari dignità performativa di qualsia-si essere umano e dalla analoga capacità organizzativa e sociale di qualsiasialtra struttura. Tale deve essere anche l’interpretazione del rito, prediligendoun approccio emico - che considera il punto di vista del nativo - piuttosto cheetico - il punto di vista dell’osservatore.

Ma allora la domanda resta aperta: come studiare il fenomeno religiososenza poterne dare una definizione che valga universalmente?

E soprattutto, come fare a mantenere libero da giudizi soggettivi e di va-lore l’approccio emico quando anche ci si dovesse trovare in casi di estremaalterità, di estrema distanza dalla nostra etica?

Prendiamo come esempio il fenomeno del sincretismo, ossia il processodi assimilazione, o di fusione, di una dottrina con un’altra predominante. Iltermine ‘sincretismo’ ha, in realtà, una lunga storia. Inizialmente utilizzato da

1Benedict, R., (1946), The Chrisantemus and the Sword: Patterns of Japanese Culture, HoughtonMifflin Company, Boston, Massachusetts.

2Geertz, C., (1973), cit.3Geertz, C. (1984), Distinguished Lecture: Anti Anti-Relativism, in «American Anthropologist»,

New Series, 86, no. 2, pp. 263-278.

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Plutarco per nominare il fenomeno di coalizione dei Cretesi – generalmentein guerra civile – di fronte a un nemico comune, viene col tempo a significareil principio di ibridazione o mescolamento di due o più culture, fino a restrin-gersi al campo di indagine delle religioni per indicare l’assorbimento di unaentro un’altra. Ma il fenomeno non ci è nuovo, in quanto possiamo osservareil processo di assimilazione in atto già nella formazione dei primi pantheon, daquello babilonese a quello greco fino al suo ‘primo splendore’ con l’espansionedell’impero romano.

Ora, se il processo del sincretismo implica un’assimilazione e una con-versione, pressoché totale, come è possibile che alcuni popoli mantengonostabilmente le loro pratiche rituali? Dal punto di vista di un criterio etico ilsincretismo sarebbe un fenomeno relativamente facile da riconoscere; senzaentrare nel dettaglio basti pensare a qualsiasi episodio di colonizzazione e,magari, alle missioni di conversione religiosa come quella dei gesuiti. Il cri-terio emico, invece, permetterebbe di fare tabula rasa (almeno in via teorica)del criterio etico, dunque di un punto di vista già adottato dall’osservatore,per osservare qualcosa di più profondo – come tale di sottile comprensione –caratterizzante il caso studiato. Non si può, allora, parlare facilmente di veroe proprio sincretismo perché il credo profondo resta quello della loro storiaetnica attraverso la quale è possibile instaurare sempre di nuovo il legamee risanare la voragine della distanza temporale e culturale che porterebbe,altrimenti, alla scomparsa della tradizione. C’è tutto un sostrato più ingentenella memoria di un popolo che non il conquistatore, né l’antropologo sonoin grado di spodestare né di comprendere nel senso puro del termine. Ecco,nemmeno in questo caso è possibile un coinvolgimento totale, una compene-trazione alla tradizione oggetto di studio, conferito da un accesso esclusivoalla sfera del sacro in quanto ‘metanarrazione’. Dobbiamo trovarci d’accordocon MacIntyre.

Se, però, il sacro è una dimensione non accessibile a tutti – poiché nonper tutti uguale –, come si potrebbe mai parlare di ‘colpa originaria’? Comesi concilia la differenza di questa dimensione altra con una cosmogonia chemuove dall’India all’Europa, dall’America all’Africa? Come sono possibili itopoi ricorrenti che dalla dimensione mitica passano alla dimensione storico-religiosa? Qual è – questo il punto chiave – l’elemento ricorrente e unitarioche permette il riconoscimento di un sostrato fenomenico tale da chiamarlo‘fenomeno religioso’?

La contaminazione. Qualsiasi cosmogonia procede per opposti logici che

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si contaminano a vicenda e dai quali scaturisce vita.

Liddove c’è contaminazione c’è ordine e dove c’è ordine c’è riconoscimentodella differenza. Per farlo, l’essere umano non può ignorare ciò che lo limita,non può chiudersi in sé stesso come fosse il centro a cui tutto è dovuto. Sequesto accade, il privilegio del legame con l’altro, con ciò che dona il principiodell’illimitatezza e dunque della libertà seppur entro gli spazi secolari, vienemeno. Il cielo e la terra si separano eternamente e l’uomo è condannato allasolitudine mondana la cui sola via di fuga è risanare, attraverso lo sforzoe il sacrificio costanti, lo squarcio causato dalla colpa. Uno sforzo che siestende dalle origini della civiltà – per quanto ne sappiamo – in Mesopotamia,all’avvento del monoteismo a Roma, alla società tendenzialmente laica di oggi.

II

Ci troviamo nuovamente di fronte a una prima opposizione: politeismo / mo-noteismo. Dobbiamo considerare, però, come il primo termine venga di solitoutilizzato con grande nonchalance come se stesse ad indicare la molteplicità dienti celesti per logica necessaria.

Il politeismo in quanto concetto nasce, certo, per indicare la molteplicitàdivina, ma soprattutto per una contrapposizione con il nuovo sistema religiosoproclamante un solo dio, ossia a partire dal monoteismo. O meglio, dalla ne-cessità sorta a Filone d’Alessandria (m. 45 d.C.) di definire quello che fino adallora non era stato necessario definire – siccome era la norma – nell’impegnodi giustificare la religione ebraica alla quale apparteneva. Dunque il politei-smo non è che un termine nato, come la stessa etnografia, da un principioetnocentrico e va per questo trattato con la cautela di chi ne è cosciente. Lostesso ragionamento lo dobbiamo far valere per l’opposizione laico/religioso.

Si tratta di un problema prettamente storico e tipicamente storico-religioso,ossia un problema che sta dietro all’intera disciplina della Storia delle Reli-gioni di cui il politeismo fa da apologia in quanto espressione originaria del

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fenomeno religioso (e laico).

Ma andiamo per ordine. Cos’è la ‘storia’?

La prima testimonianza dell’uso di questo termine la abbiamo da Erodoto(m. 425 a. C.) che descrive la sua raccolta di storie, o imprese umane, chevanno mantenute vive nella memoria, come ἱστορίης ἀπόδεξις: dimostrazione,o esposizione, della ricerca. Da cui ἱστορία. Originariamente potremmo direche la storia è un’esposizione ordinata di imprese umane e che tendenzial-mente il modo di ordinarle è cronologico. Bisognerebbe considerare però unimportante elemento che permette a questo sistema ordinato di imprese uma-ne di non essere un mero elenco: l’umanità, appunto. Qui calza a pennellola differenza che Nietzsche sottolinea tra Historie e Geschichte nella secondaconsiderazione inattuale: Sull’utilità e il danno della storia per la vita.1 Mentrela prima si configura come una mera sequenza cronologica, un’enumerazionedi fatti come fosse una lista della spesa, la seconda (Geschichte) permette diconservare l’elemento vivo dei fatti in quanto azioni. Azioni che non se nestanno lì in bella mostra come pezzi da museo, passati e inutili, bensì gesti,avvenimenti, interi processi umani operanti attivamente nel presente. Eccoperché la storia è inattuale: non perchè è passata, finita e ferma, ma perchènel suo essersi attuata continua a dispiegarsi oltre i confini dei suoi istantipermettendo viaggi temporali al di là del presente in cui è considerata. Conle parole di Marc Bloch:

“Certo, difficilmente immaginiamo una qualsiasi scienza che sap-pia astrarre dal tempo. Tuttavia, per molte di quelle scienze che,per convenzione, lo sminuzzano in frammenti artificiosamenteomogenei, il tempo non è nulla più di una misura. Al contrario, iltempo della storia, realtà concreta e viva restituita all’irreversibilitàdel suo corso, è il plasma stesso in cui stanno i fenomeni, e comeil luogo della loro intelligibilità.”2

E prosegue:

1Nietzsche, F., (1974), Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. it. e cura di S.Giametta, Adelphi, Milano. Ed. orig., Nietzsche, F., (1873 [1874]), Unzeitgemäße Betrachtungen.Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachtheil der Historie für das Leben, E.W. Fritzsch, Leipzig.

2Bloch, M., (2009), Apologia della storia o Mestiere di storico, trad. it. e cura di G. Gouthier,contributi di É. Bloch, prefazione a cura di J. Le Goff, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, p.81. Ed. orig. Bloch, M., (1949), Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, édité par L. Febvre,Armand Colin, Paris.

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“Ora, questo tempo vero è, per sua natura, continuità. Ma è ancheperpetuo mutamento. Dall’antitesi tra questi due attributi derivanoi grandi problemi della ricerca storica.”1

Ecco perchè considerare la storia, la sua etimologia e il suo senso. Perchèl’antitesi è un problema storico e abbiamo visto come proprio per antitesil’uomo procede nel suo abitare il mondo e come, quindi, lo studio della materiaumana, in quanto sua espressione fenomenica, non può che assecondare questaantinomia. Come considerare allora un fenomeno quale quello religioso, dicui abbiamo constatato l’impossibilità di una definizione universale, entro itermini della ricerca storica di cui abbiamo appena accennato le difficoltà? Siaggiunga inoltre il problema di accessibilità alle fonti che, più sono distantida noi – temporalmente ed eticamente (nel senso di ethos) –, più sono difficilida recuperare, riordinare e comprendere.

Parte terzaINDIVIDUAZIONE

I

È il momento opportuno di procedere con l’itinerario per ricapitolarequanto finora esplorato e introdurci in ulteriori antri del dubbio (ricordandocisempre che al di fuori della caverna vi è comunque il sole).

È difficile non percepire l’analogia tra lo studio storico e lo studio antropo-logico, così come è difficile non vederla nello specifico rapporto che entrambele scienze hanno con la religione. Ricerche come quelle di Clifford Geertz piùvolte citato, ma anche come quelle di un Victor W. Turner con i suoi studi

1Ibidem.

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sul rito e l’avvio ad un’antropologia della performance, forse sono state tra lepiù influenti ricerche antropologiche in campo storico. Prima di loro, FranzBoas sosteneva l’identità tra l’antropologia e la scienza storica nella sua operadel 1896 intitolata invero The Limitations of the Comparative Method of Anthro-pology1 in quanto entrambe hanno come oggetto di indagine la cultura. Perquesto motivo entrambe le discipline si destreggiano tra le differenze relativea ciascuna configurazione particolare di questa più generica morfologia uma-na. Di certo una posizione lontana dalla teoria evoluzionista e le evoluzionidella stessa, molte delle quali affermano il carattere unico dell’antropologiain quanto ricerca tesa all’individuazione di leggi umane, per cui generiche. Sipensi in questo caso alla differenza che sottolinea Émile Durkheim tra storiae sociologia e l’influenza che ha avuto su Claude Lévi-Strauss il cui tentativoera per l’appunto disseminare le strutture profonde all’origine dei fenomeniumani, sostenendo una netta differenza tra fine antropologico e fine storico.

È anche questo un motivetto ricorrente, dunque, come le stesse antinomie:si pensa e si procede per opposizioni logiche. Neppure la soluzione all’asso-luto di Hegel ha convinto poiché dopo di lui si sono formate la destra e lasinistra hegeliana e dando avvio ad altrettante partizioni. In ogni scienza, inogni campo di ricerca si vengono a creare opposizioni di tendenza, le qualitendono a loro volta verso l’universale o il particolare come metodo di ricercao di lettura del reale (se pure se ne ammette l’esistenza). L’abbiamo osservatoanche noi in questo percorso ancora in itinere, partendo dal problema piùprofondo della descrizione di una personalità e cogliendone l’aspetto quasisacro che è il suo manifestarsi di volta in volta assecondandone la circostanza,l’evenienza o la vicissitudine. Siamo giunti al problema della definizione insé, o dell’esistenza o meno della possibilità di definire qualcosa come ‘in sé’ –quale miglior ‘qualcosa’ se non la religione, fenomeno così sfuggente per suastessa definizione?! Quindi ci siamo volti all’esperienza, aspetto portante diogni ricerca ontologica ed epistemologica. La dissertazione è stata portataavanti attraverso una riflessione dai costanti rimandi a quanto letto, a quantoscritto secondo un reiterato dialogo tra la persona che scrive e le affluenzeesterne. A livello teorico si è cercato di approcciarsi al metodo d’analisi ditipo comparativo, assumendo infatti il fenomeno sociale in quanto spettro mor-fologico di cui si può parlare soltanto considerandone le varie prospettive ecostituzioni. Allo stesso modo lo svilupparsi di questa trattazione è permessoda un continuo ripensamento delle parti che la compongono entro sempre

1Boas, F., (1896), The Limitations of the Comparative Method of Anthropology, in «Science», 4,no. 103, pp. 901-908.

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nuovi termini per evitare un accumulo stantio di parole su argomenti dati. Ladomanda è il mezzo che ha permesso questo dispiegamento, intesa, in breve,come predisposizione all’ascolto.

Il metodo comparativo deve essere pronto alla domanda senza presupporreuna risposta, evolvendosi in consonanza al suo emendare. Mai quanto oggiè necessario un tale lavoro su di sé e sulla propria idea – che questa siaespressa in forma teorica, sotto forma di trattato, di esposizione orale o distudio in generale, o che sia l’azione pratica del vissuto quotidiano –, oggiche il cosmopolitismo, altro termine di antica memoria, è stato superato dallaglobalizzazione. Oggi dove l’incontro e lo scambio culturale non sono più unascelta o un oggetto di curiosità, ma sono ‘carne e sangue’, ‘mente e cuore’1

dal momento in cui si viene al mondo.

II

Questo fondamentale approccio di reciprocità culturale – commercio co-municativo tra culture – genera un cambiamento delle strutture di senso concui l’individuo si costruisce, e configura il mondo attorno a sé; cambiano imodi di relazionarsi e gli spazi dove questo accade tanto da arrivare al puntodi chiedersi se vi sia o meno differenza tra questi spazi. È certo che in unmondo pervaso dalla sua stessa entità si originano a loro volta delle sovra-strutture identitarie. Per essere più chiari ciò che qui si sta intendendo è che:in un mondo dove l’identità è consapevolmente – e da ciò non se ne esce –determinata dalla relazione con le altre, dove il confine stesso che la determina,

1Giusto per fare omaggio al padre della ‘nuova filosofia’ il cui scopo è scoperchiare la veritàsensibile dell’essenza umana; si veda per esempio il §52 dei Fondamenti della filosofia dell’avveniredi Ludwig Feuerbach: “La nuova filosofia è la risoluzione completa, assoluta, coerente, dellateologia nell’antropologia, perchè è la risoluzione della teologia non soltanto nella ragione,come aveva fatto la vecchia filosofia, ma anche nel cuore, in breve nell’essere reale e totaledell’uomo. [. . . ] Solo la verità diventata carne e sangue è verità.” in Feuerbach, L., (2016),Fondamenti della filosofia dell’avvenire, trad. it. e cura di E. Schinco, Editrice Clinamen, Firenze,p. 136. Ed. orig., Feuerbach, L., (1843), Grundsätze der Philosophie der Zukunft: und andereSchriften, Julius Fröbel, Zürich - Winterthur.

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come dicevamo all’inizio, viene in questo modo sfondato e l’identità sconfi-na entro tratti comuni, ecco, in un mondo globalizzato insomma, l’individuonecessita di nuovi spazi che gli permettano di riconoscersi in questa nuovaidentità allargata ovunque e comunque egli si trovi. C’è un neologismo (dicirca 30 anni ormai1) per indicare quanto si è cercato di esprimere: il nonluogo.Proprio Marc Augé, coniatore del termine, ci insegna attraverso i suoi saggil’importanza e la funzionalità del metodo comparativo; egli non smette maidi lanciare lo sguardo altrove e soffermarsi nell’osservazione etnologica perrivolgersi alla situazione occidentale, ma pervasiva, dell’epoca contemporanea.Proprio lo studio condotto negli anni ’60 del 1900 in Costa d’Avorio, Togo,Benin e Nigeria, compendiato nel saggio del 1988, Le dieu object,2 permetteall’antropologo lo sviluppo ulteriore della sua teoria sulla contemporaneità (ca-tegorizzata in surmodernità).3 Infatti, dai culti vodû, la cui tradizione sembraessere perfettamente intatta, emerge la verità dell’adorazione per l’adorazione.L’oggetto è adorato per ciò che è, in quanto oggetto. Non c’è un principiodi trascendenza sotterraneo al quale non possiamo accedere poiché nascosto;il principio stesso, denuncia Augé, ce lo nascondiamo da soli dal momentoin cui andiamo ad interpretare il culto secondo i nostri canoni (‘nostri’ comemero segnaposto ad un qualsiasi canone culturale). È necessario un inverti-mento di rotta se si vuole comprendere l’inaccessibile. Talvolta, ciò che apparel’aspetto più semplice può risultare attendibile già di per sé, come nel casodell’adorazione del legno o della pietra e della domanda ingenua ‘com’è pos-sibile pensare come sia possibile adorarli?’ che Marc Augé si pone. “La realtàstorica è evidente, ma variano le interpretazioni [. . . ]”4 scrive Nicola Gasbarronella postfazione al saggio di Augé sopracitato.

Si è cercato di dimostrare, attraverso questa breve divagazione, come “lamodernità è finita per implosione culturale”5 come l’implosione ha raggiuntoil suo nucleo infuocato a tal punto che ora fugge a gambe levate in cerca dinuove acque. L’oceano, diceva Schmitt, permette l’espansione, il potenziamen-to, la ricerca dell’illimitato. Il problema è, certo, quando la ricerca si riduce– o si espande – a tal punto, da ricercare a sua volta illimitatamente tanto danon trovare più neanche sé stessa. È il caso della surmodernità: l’espansione

1Anche se in Italia entra ufficialmente a far parte del lessico nel 2003, nove anni dopo lapubblicazione del testo contenente il termine in francese.

2Augé, M., (1988), Le dieu object, Editions Flammarion, Paris.3Cfr. Gasbarro, N. (2016), Postfazione. Il dio oggetto: una riflessione storico-religiosa, in Augé,

M., (2016), Il dio oggetto, trad. it. e cura di N. Gasbarro, Mimesis Edizioni, Milano - Udine.4Ivi, p. 236.5Ibidem.

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illimitata per un livellamento, dove non ci sono più caratteristiche, nè diversitàa sostegno della componente umana. Questo il concetto tout court di nonluogo,dal quale noi sopra ci siamo parzialmente distanziati considerandone l’altroaspetto, o il necessario risvolto dell’identità globalizzata: il bisogno di appar-tenenza al processo di espansione come nuova costruzione di spazi non perquesto meno antropologici.

Possiamo a questo punto tornare ad una delle domande poste inizialmente,quando ci chiedevamo che tipo di legame si instaurasse nel momento dellascelta di quei pattern non intesi in senso transistorico e transculturale – regoledi vita determinate storicamente e culturalmente – identificabili come religione.Ma un aspetto, forse, abbiamo mancato di considerare: se si possa o menoparlare di scelta in senso stretto. In che misura, fino a che grado di estensione(per dirla all’inglese che forse rende in maniera più specifica – to what extent) sipuò parlare di scelta quando si parla di pattern culturali? Facendo emergere illegame con quanto detto poco sopra si può riformulare la domanda: fino a chepunto si tratta di scelta dell’identità – in questo caso globalizzata – da partedel singolo e dove, invece, questa ‘scelta’ è determinata da una necessità qua-si di sopravvivenza per permettere al singolo di esprimersi in quanto individuo?

Il singolo ha bisogno di individuazione, che è sì la determinazione configu-ratasi in strutture storico-culturali come ormai abbiamo ripetuto anche troppo,ma è anche sentimento di appartenenza. Non a caso – questo è un meroparere estemporaneo – forse, si usava l’espressione ‘partecipare di/parteciparedell’intelligenza di Dio’ quando si faceva teologia nel medioevo. L’uomo hasempre cercato un’appartenenza, che non è altro che un legame, un legamealtro, il quale dà speranza di un senso e, certo, un ordine. Cosa è, infatti,la religione se non un sistema ordinato, o un tentativo di sistemazione deglielementi del cosmo e dello scorrere del tempo? La percezione, il sentimentodi appartenenza (ethos) non è altro allora che una co-azione all’ordine, co-struzione e ri-cotruzione di spazi, la quale, in quanto azione, è in continuatrasformazione e in continuo assestamento. Questo paradosso degli opposti– ordine/disordine, assetto/caos – abbiamo visto, è propriamente la materiaumana, quell’elemento caduco emblematico dell’uomo (forse dovremo dire‘emblematico nell’uomo’ siccome in lui massimamente si dimostra). La profon-da coscienza di questo filo a piombo, di cui l’uomo è portatore, non permetteuna concreta possibilità di svincolamento dai legami comportamentali garantidi una sopravvivenza. In altri termini, l’espansione – perciò ora intesa comeazione in continua trasformazione e assestamento – è sempre illimitata. Ladifferenza in un tale grado di espansione si perde, si scioglie in un amalgama

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indifferenziato di mutamenti. Non cambia la sostanza, che è lo scorrere apore-tico, bensì solo e sempre la sua forma: metamorfosi. Ecco perché è possibilela sopravvivenza; perché è possibile il tramandarsi della tradizione nonostantenuovi tempi e nuove configurazioni del patrimonio umano. Ecco perché sonopossibili il fenomeno religioso e il credo: questi mantengono viva la differenzaper non svanire nella nullità.

Conclusioni

L’aspetto rilevante di questo elaborato, che ormai è il caso di trattare por-tandolo alla luce, è che il fenomeno religioso sussiste, ma non possiamo perquesto assumere che la sua sussistenza sia data o determinata dalla medesimacausa originaria. Il possesso di coscienza storica, definendola con Gadamer, èvalido in qualunque caso, ma non è detto che la storia sia la stessa. Lo strettorapporto e i continui rimandi delle scienze umane tra di loro, e le discipline sto-riche e antropologiche in particolare, sono innegabili, ma questo non implica ilnecessario sviluppo degli aspetti umani secondo il medesimo corso storico, néil dispiegamento del corso storico secondo necessarie leggi universali. Sarebbeerronea dunque, tornando ad Asad, un’interpretazione universalistica dellareligione. La realizzazione effettuale del fenomeno universalmente condivisodal genere umano, del linguaggio in quanto fibra che lo compone, è l’eventoin sè – la sua attuazione particolare, o seguendo Ricoeur, il suo discorso. Èattraverso il discorso, infatti, che l’uomo porta avanti la sua tradizione; è ildiscorso, in quanto testamento – orale o scritto – che sostiene la memoria.

Si pensi al rito eucaristico tanto conosciuto, la messa, oppure al totemismoe ai relativi tabù necessari a non dimenticare il rapporto di reciprocità tral’uomo e altre specie, o ancora, ai culti vodû. Questi sono solo alcuni deimodi di e per preservarsi in the Struggle for Life.1

Bisogna essere più precisi e specificare che si sta implicando una differenzatra ‘causa’ e ‘pattern’. Non si esclude infatti con la proposizione sopra espres-

1Darwin, C., (1859), cit.

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sa – e cioè che non si possa assumere un’unica origine comune al fenomenoreligioso – l’esistenza di pattern culturali, ossia schemi e modelli osservabilinel comportamento umano in genere. Si sta invece proponendo, secondoquanto è potuto venir fuori da questa breve ricerca di storico-antropologica,la possibilità ipotetica dello sviluppo parallelo di più corsi storico-culturali, iquali hanno sì pattern analoghi (tanto da permetterci, come si diceva sopra, diconstatare l’esistenza di un fenomeno), ma sorti ed evoltisi secondo trame diffe-renti. In poche parole: ad ogni causa il suo pattern, ad ogni pattern la sua storia.

La fallacia metodologica dell’assolutismo unilaterale,1 avente la sua massimagloria durante il XIX secolo, porta a considerazioni quali quelle dell’etnocentri-smo brevemente mostrato nel paragrafo I della Parte seconda di questa brevetrattazione e considerato nell’Introduzione con Asad. Lo studio antropologicosu campo in quel periodo pareva risultare irrilevante, tanto che l’antropologosvolgeva più un lavoro da storico – quello storico da cui però prendiamo ledistanze – andando a ripescare fonti dalle avventure di viaggiatori e missionaridei secoli precedenti, allo scopo di ricostruire le tappe originarie dell’evoluzio-ne civilizzante. Basti rileggere qualche passo di Edward B. Tylor o di JamesG. Frazer. Daltronde assumere l’esistenza di leggi universali valide in assolu-to, ossia astoricamente e aculturalmente, partendo però da una visione bencontestualizzata per espanderla a livello amorfo, non è né più né meno cheun paradosso che, dunque, non risolve l’aporia (quale invece voleva esserel’intento).

Esiste certamente una coscienza collettiva che permette l’evolversi della so-cietà, come denota Durkheim, ma questa – e qui prendiamo un’altra rottarispetto alla sua – non è ‘gerarchizzabile’. Non possiamo ricostruirne unagenealogia piramidale come avessimo a che fare con blocchetti di Lego, sem-mai da questa possiamo imparare a viaggiare sconfinando i limiti della nostraetica. Perché non prendere per buona la teoria junghiana degli archetipi? Es-sa riesce a mantenere intatta la coscienza collettiva senza dimenticare quellaindividuale poiché le due comunicano e si alimentano a vicenda. Non solo,

1Per rimanere fedeli alla differenza tra ‘causa’ e ‘pattern’, azzardo a questo punto una distin-zione dell’‘universalismo’ dall’‘assolutismo’ e quest’ultimo da un certo tipo di assolutismo chetende ad estendere la fisionomia di una visione unilaterale ad ogni aspetto preso in considera-zione. Secondo quanto si sostiene il ‘pattern’ è un principio universale, la ‘causa’ un principiorelativo, l’idea della coincidenza tra i due è ‘assolutismo’; l’idea della coincidenza tra i duesecondo un determinato aspetto lo chiamiamo ‘assolutismo unilaterale’. (Per non fare torto adHegel ci terrei a distinguere il suo concetto di ‘Assoluto’ dal tipo di assoluto identificatorio quiinteso al quale lui peraltro si opponeva).

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ma è attraverso questa costante comunicazione che è permesso il dialogo traun individuo e un altro, tra l’individuo e le strutture socio-culturali varie. Giàlo psicologo Wilhelm Wundt, vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, so-steneva l’importanza dell’archetipo in quanto collante sociale, in particolarela religione. L’antropologo William Robertson Smith, circa contemporaneo,approda alle stesse conclusioni, trattando il fenomeno religioso come principioregolativo ed elemento di coesione avente, dunque, funzione sociale. Carl G.Jung rinforza questo spunto ideologico apponendo valenza adattiva alla cre-denza per cui, come sostenevamo noi sopra, l’esperienza religiosa può avereper l’uomo utilità di conservazione.

La conservazione e l’adattamento, poi, dipendono dal contesto secolare,inteso allora come collocazione spaziale e temporale dell’uomo nel mondo.L’uomo a questo punto si deve orientare a seconda della circostanza, rispettoa sè e a ciò che (e a chi) gli sta intorno. Ma la condivisione di un sostrato(forse meglio sovrastrato. . . una sovrastruttura o una ‘metanarrazione’, comela si definiva inizialmente) comune gli permette maggior facilità di movimento.Il fatto che l’uomo nasca inondato da informazioni e simboli che assimiladurante la crescita (senza entrare nel discorso dell’innatismo che aprirebbenon solo parentesi ma voragini) ha certamente un aspetto bifronte: il dannoè la chiusura di tipo conservatista in ciò che viene assimilato senza porlo indubbio; il merito, invece, quello di velocizzarsi nell’impresa dell’orientamento.Ma anche quest’ultimo punto, come Giano, nasconde il suo lato ambiguoal quale bisogna prestare attenzione: la troppa fiducia nella velocizzazionerischia anch’essa di incastrarsi nel dare per scontato, finendo per illudersi diuna crescita proficua quando ciò che fa è soltanto sguazzare in una pozza privadi profondità.

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