BOZZA FINALE Nugae Numero 1 16 Luglio 2004 ......dacia di Borìs Pasternàk ricoperta di neve e la...

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16 Poesia Odissea notturna di Michele Nigro “Odissea notturna” (Poesie alternate pseudopalindrome) “La vita nasconde la morte NEL MARE DEI COLORI mentre l’eterna illusione NAVIGA SOLITARIA E illumina la notte. SENZA FRETTA Solo dormendo LA POVERTA’ DELL’UOMO ritorna padrona VERSO I LIDI ESTINTI e la coscienza DIMENTICANDO IL DOLORE chiede il conto” Alternata corsiva “La vita nasconde la morte mentre l’eterna illusione illumina la notte. Solo dormendo ritorna padrona e la coscienza chiede il conto” Pseudopalindroma corsiva “Chiede il conto la coscienza e padrona ritorna solo dormendo. La notte illumina l’eterna illusione mentre la morte nasconde la vita” ALTERNATA CUBITALE “NEL MARE DEI COLORI NAVIGA SOLITARIA E SENZA FRETTA LA POVERTA’ DELL’UOMO VERSO I LIDI ESTINTI DIMENTICANDO IL DOLORE” PSEUDOPALINDROMA CUBITALE “DIMENTICANDO IL DOLORE VERSO I LIDI ESTINTI DELL’UOMO LA POVERTA’ SENZA FRETTA E SOLITARIA NAVIGA NEL MARE DEI COLORI”

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Poesia

Odissea notturna di Michele Nigro

“Odissea notturna”

(Poesie alternate pseudopalindrome)

“La vita nasconde la morte

NEL MARE DEI COLORI

mentre l’eterna illusione

NAVIGA SOLITARIA E

illumina la notte.

SENZA FRETTA

Solo dormendo

LA POVERTA’ DELL’UOMO

ritorna padrona

VERSO I LIDI ESTINTI

e la coscienza

DIMENTICANDO IL DOLORE

chiede il conto”

Alternata corsiva

“La vita nasconde la morte

mentre l’eterna illusione

illumina la notte.

Solo dormendo

ritorna padrona

e la coscienza

chiede il conto”

Pseudopalindroma corsiva

“Chiede il conto

la coscienza

e padrona ritorna

solo dormendo.

La notte illumina

l’eterna illusione

mentre la morte

nasconde la vita”

ALTERNATA CUBITALE

“NEL MARE DEI COLORI

NAVIGA SOLITARIA

E SENZA FRETTA

LA POVERTA’ DELL’UOMO

VERSO I LIDI ESTINTI

DIMENTICANDO IL DOLORE”

PSEUDOPALINDROMA CUBITALE

“DIMENTICANDO IL DOLORE

VERSO I LIDI ESTINTI

DELL’UOMO

LA POVERTA’

SENZA FRETTA

E SOLITARIA

NAVIGA

NEL MARE DEI COLORI”

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vita spaziale, si lasciò sfuggire un ultimo, freddo: “…buona notte!”

L’uomo già non poteva più udirlo. Il corpo ibernato e im-mobile dietro quell’apparente morte gelida, conservava ancora tutte le sue funzioni microscopiche anche se rallen-tate e pigre. Un battito cardiaco ogni minuto e un atto respiratorio ogni trenta secondi… Un’ eternità inconcepi-bile; una vera sfida per la razionalità. Nel tempo enorme e silenzioso che separava un battito cardiaco dall’altro, si concentrava tutta la morte dell’universo. I fisiologi lo chia-mavano “grande silenzio”: ma rapportato all’esperienza dell’ibernazione quel silenzio diventava inevitabilmente infinito.

Il mistero di quella vita solitaria e sospesa al filo di un com-puter, sfidava ogni umana comprensione.

“Sognerò?” – aveva chiesto l’uomo sulla Terra agli scienziati che lo addestravano per il viaggio.

Presto lo avrebbe saputo.

Nel buio silenzioso della capsula, quel corpo gelido provvi-sto di una flebile vita possedeva ancora le chiavi chimiche della memoria e le proiezioni elaborate dall’inconscio non furono rallentate dal freddo.

L’uomo sognò il corpo caldo della sua donna bella e profu-mata; sentì le voci divertite della gita al lago in cui lui le chiese di sposarlo… E poi altri sogni assurdi: sveglie giganti che suonavano motivetti rock e gente con la faccia a forma di libro che lo salutava mentre camminava in un parco pie-no di fiori di carta… Ghiaccioli alla menta, grandi come un albero, che lo rincorrevano sudando cubetti di ghiaccio e ragazze hawaiane completamente nude che conservavano enormi quantità di frutta esotica in un frigo… Sognò la dacia di Borìs Pasternàk ricoperta di neve e la sua vecchia nonna con un punch bollente tra le mani… Sognò i ghiac-ciai islandesi e gli iceberg nello stretto di Bering… Le foche del pack e i pinguini… Si ritrovò con la mente sognante nella tana di un orso in letargo e dopo pochi secondi il suo sogno si spostò nella tana di una famiglia di marmotte in pieno inverno… Sognò di essere un ghiro e calandosi nella cavità di un tronco d’albero, si riscoprì scoiattolo su un letto di ghiande e noci… Piumoni soffici e cuscini morbi-dissimi attraversavano la sua mente… Letti a baldacchino e carillon si alternavano a pigiami di lana e lenzuola di flanel-la… Che bello il letargo!

L’astronave era un minuscolo oggetto metallico proiettato a velocità sostenuta verso un preciso traguardo apparente-mente perso nel nulla.

L’uomo si sarebbe risvegliato, con quell’algido sorriso stampato sul viso, dopo nove mesi…

Come in una resurrezione programmata...

Nel frattempo i suoi freddi sogni lo avrebbero tenuto in buona compagnia.

(* “L’idea della fenomenologia. Cinque lezioni”)

citando...

“La tenebra non aveva alcun effetto sulla mia fantasia; per me un cimitero era solo il ricet-tacolo di corpi privi di vita, che dall’essere stati sede di bellezza e di forza, eran divenuti alimento del verme.Ed ecco che io fui condot-to a esaminare la causa e il progresso della decomposizione, e forzato a passare giorni e notti in sepolcreti e ossari. La mia attenzione era su ogni oggetto più intollerabile alla deli-catezza dei sentimenti umani. Io vidi come la bella forma umana veniva degradata e consu-mata … Vidi come il verme ereditava le meravi-glie dell’occhio e del cervello. “ (…)

da “Frankenstein” di Mary Shelley - cap.IV

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Erano state montate solo due capsule: una per il viaggiato-re e l’altra nel caso in cui il computer avesse riscontrato un guasto in quella utilizzata dall’uomo.

“Apri la capsula!”- disse mentre si infilava i guanti, l’ultima parte della sua “divisa da sonno”.

Entrò nello strano letto trasparente e si distese supino cer-cando di rilassare ogni centimetro del proprio corpo; aprì una piccola cerniera della tuta sul braccio destro e con le dita della mano sinistra individuò la porta endovenosa in cui inserire il deflussore. Attraverso quel tubicino sarebbe-ro entrati, nel suo circolo sanguigno, un liquido crioprotet-tivo emocompatibile e altri medicinali che il computer avrebbe iniettato lentamente durante il viaggio. Sostanze nutrienti e farmaci neurostabilizzanti avevano la funzione di assicurare un risveglio rapido e senza danni organici. La “scienza dell’ibernazione”, necessaria nei viaggi spaziali, aveva fatto passi incredibili partendo dall’imitazione del mondo animale e migliorando l’invenzione di madre natura con tecnologie sempre più avanzate e sostanze chimiche capaci di rendere operativo un “risvegliato” nel giro di poche ore.

Non c’era altra scelta: per non impazzire e per non mo-rire di fame… Poiché non c’era abbastanza spazio per imbarcare alimenti in quanti-tà sufficiente per l’andata e il ritorno!

L’elemento vincente di que-sta forma alternativa di viag-gio era naturalmente il freddo. Per rallentare le funzioni vitali senza danneggiare l’attività cerebrale bisognava adot-tare le basse temperature. Scegliere l’ipotermia adattativa per assecondare la mancanza di cibo e quindi di energia… Solo che, in questo caso, l’inverno sarebbe arrivato dal “soffio gelido” di un computer!

L’uomo mise la mascherina dell’ossigeno sul viso e diede gli ultimi ordini alla sua “balia elettronica” con voce caver-nosa: “…chiudere capsula!...” – odiava quel momento. Non perché soffrisse di claustrofobia, ma la sensazione di doversi affidare totalmente e incondizionatamente al com-puter di bordo, lo agitava. Era più forte di lui! Sapeva be-nissimo che il computer provvedeva già alle numerose fun-zioni della nave anche quando era sveglio, mentre leggeva un libro o espletava le sue funzioni fisiologiche… Anche dopo tanti anni di evoluzione tecnologica, l’uomo non riu-sciva a seppellire definitivamente l’istinto primordiale della vulnerabilità notturna. Si trattava di un meccanismo atavi-co che nessun computer avrebbe inceppato e risalente alle notti primitive dell’ homo sapiens durante le quali, pur ripo-sando accanto al fuoco appena scoperto, conservava la co-

stante preoccupazione di essere attaccato da qualche belva feroce e affamata. Quella attenzione primitiva era diventata parte del patrimonio genetico e durante la chiusura del portello l’uomo la sentì ritornare più agguerrita e rinvigori-ta che mai. Alla fine l’addestramento ebbe il sopravvento e facendo un lungo e meditato respiro, l’uomo ripeté a se stesso che tutto andava bene e che tutto avrebbe funzionato alla perfezione. La fede nei confronti della macchina rie-merse dai meandri di una paura radicata e naturale.

“Spegnere luci…! Attivare deflussione…!” – disse l’uomo con un respiro meno frequente e più sereno.

La fase più fastidiosa di adattamento alla capsula era stata superata e nel giro di pochi secondi il viaggiatore sentì il liquido che espandendosi lentamente lungo i numerosi vasi sanguigni, gli avrebbe assicurato la vita… I medicinali iniet-tati cominciavano ad avere i primi effetti e una “calma far-macologica” invase la mente dell’uomo. Si sentiva leggero e perfettamente rilassato.

Si avvicinava il momento in cui il computer avrebbe iniettato la sequenza finale dei “farmaci letargici” e gra-zie ai quali il viaggiatore si sarebbe affidato tra le brac-cia decisamente insolite di un artificiale Morfeo. Con un sorriso drogato abbozza-to sulle labbra, rivolse al computer un ultimo, fonda-mentale, drammatico ordi-ne. Una sola parola, scandi-ta a forza tra i tentacoli del

sonno, e la macchina avrebbe avviato il processo di iberna-zione.

“…Crionica!” – disse l’uomo quasi dormendo. In pochi decimi di secondo la capsula fu invasa dal gelo e lo sportello trasparente da cui si poteva vedere benissimo l’intero corpo dell’ospite fino a qualche attimo prima, si appannò a causa del leggero strato di ghiaccio che si era formato sul lato interno del vetro. Era tutto finito. Ogni dubbio sospeso e ogni indecisione rimandata all’infinito. La fame, la sete, la vescica piena, lo starnuto, lo sbadiglio, il tic nervoso, il continuo salire e scendere delle palpebre, le esigenze intel-lettuali, i gusti alimentari, gli intercalari nei dialoghi, le paure e le presunzioni, le speranze e le gioie, la tristezza e la rabbia, i sonni agitati e le polluzioni, il prurito nel palmo della mano e la ginnastica della mattina, le dita nel naso e le timide erezioni pensando alla moglie… Tutte queste cose erano ormai congelate. Non c’era più spazio per gli sprechi energetici: solo il minimo indispensabile. L’intimo lavorio degli enzimi cellulari e le due principali funzioni fisiologi-che, erano le uniche attività ancora concesse in quella culla gelata. Il computer, che era stato dotato di un “programma ironico” per fare compagnia all’uomo durante le pause della

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nelle due “corsive”.

Anche compiendo il cammino a ritroso, come quando si cerca di ricordare un sogno, il significato non cambia e, anzi, a tratti sembra amplificarsi grazie a nuovi intrecci e nuove angolazioni semantiche. La poesia, così facendo, non diventa “gioco” ma “visione”.

La poesia deve essere vista, ancora prima di essere letta.

La “direzione” e il “verso” si annullano nella dimensione “altra” tipica della poesia. Lo spazio è talmente occupato dal “senso” della parola, da imporsi addirittura ai parametri geometrici e al rigore scientifico che vorrebbero rendere la poesia scevra da ogni forma di “manipolazione” strutturale. “Pseudopalindrome” in quanto sarebbe stato eccessivo scri-vere al contrario le singole parole approdando nel “non senso”, ma la semplice “inversione di marcia” nella lettura delle parole che compongono i versi è bastata a spiegare l’esigenza di liberare ulteriormente la poesia da quei vinco-li che i più ottimisti e conservatori considerano già “licenza”…Per convenzione la poesia originaria è stata divi-sa in due caratteri diversi alternati ma, alla fine della visio-ne, quando il sogno-incubo è finalmente ricomposto, il carattere diventa unitario anche se ricalca nuovamente le orme di quel suo bizzarro indietreggiare. Qui, per un atti-mo, il dolore prende il sopravvento sulla coscienza ma “la notte illumina”, ovvero “porta consiglio”, mentre l’illusio-ne del mondo sembrerebbe prevalere adoperando un mare di colori e di promesse. La morte causata dall’opulenza nasconde la vita anche se, originariamente, sembrerebbe che sia proprio la vita ad utilizzare i colori per nascondere la morte.

Pseudopalindrome alternate unite

“Il conto chiede il dolore

dimenticando la coscienza

e verso i lidi estinti

padrona ritorna

dell’uomo la povertà

dormendo solo

senza fretta.

La notte illumina,

e solitaria naviga

l’ illusione eterna

mentre nel mare dei colori

la morte nasconde la vita”

La poesia è una danza articolata di parole tornite e asservite agli intimi scopi dell’artigiano scrivente. Come in una quadriglia di versi, la poesia può conte-nere nel suo tessuto, apparentemente indivisibile, molte più poesie che intrecciandosi o dividendosi (o addirittura “riavvolgendosi” come in una moviola) realizzano, magicamente, sempre lo stesso significato spirituale e psicologico.

Quante volte siamo svegliati di notte dalla Coscienza che durante il mattino razionale e laborioso non osa sottoporci domande scomode… “L’eterna illusione” fatta di suoni, colori e divertimenti “illumina la not-te”, ma non può competere con il lavorìo notturno della mente. La “navigazione solitaria” è il prezzo del-l’illusione. Pur avendo tutto e praticando le folle, siamo sempre più soli. “La povertà dell’uomo” non deve essere interpretata come difetto materiale, ma quale parte integrante e necessaria dell’essere uma-no… Una povertà che ci permette di approdare sui “lidi estinti” della zona più vera e genuina del nostro “Io”. Il dolore va dimenticato, in un primo momento, non perché vogliamo vivere nell’illusione della felici-tà, ma per sfruttare a pieno quella serenità che è l’uni-ca chiave per recuperare la nostra natura atrofizzata.

“Il conto chiede il dolore” se mai qualche illuso si fos-se adagiato su una iniziale ricerca serena, dimentican-do che fare i conti con se stessi porta inevitabilmente dolore. Il “dominio onirico” della Coscienza che “padrona ritorna solo dormendo” è coadiuvato dalla ricerca della povertà che “senza fretta” ci indica nel sonno la vera strada da seguire.

Nelle due “cubitali” anche chi cerca la Verità rischia la solitudine, così come si rischia “l’eterna illusione”