Bergamo Smart Land: la rete dell'intelligenza territoriale · intelligenza sociale più ancora che...

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Bergamo Smart Land: la rete dell'intelligenza territoriale 11/11/2017 Rapporto di ricerca realizzato da Consorzio A.A.ster Direttore scientifico Aldo Bonomi Rapporto di ricerca: Simone Bertolino, Sergio Remi, Francesco Sala

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Bergamo Smart Land: la rete dell'intelligenza territoriale

11/11/2017

Rapporto di ricerca realizzato da Consorzio A.A.ster Direttore scientifico Aldo Bonomi

Rapporto di ricerca: Simone Bertolino, Sergio Remi, Francesco Sala

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Sommario

Executive Summary……………………………………………………………………………………………………….4

Questioni di fondo ......................................................................................................... 4

La smart land dal punto di vista dell’innovazione diffusa ............................................. 6

Le richieste/proposte di policy ...................................................................................... 9

Introduzione……………………………………………………………………………………………………………….11

Cosa intendiamo per innovazione diffusa ....................................................................... 13

Economia leggera e innovazione diffusa ..................................................................... 14

Una mappa orientativa ................................................................................................ 16

Tra mercato e società .................................................................................................. 20

Il concetto di smart land .............................................................................................. 23

La creazione di nuove imprese: alcuni dati di sfondo ..................................................... 29

L’innovazione diffusa nel mondo della piccola e micro-impresa manifatturiera: il modello dell’artigianalità aumentata..................................................................................... 32

La riorganizzazione della fabbrica: processi, tecnologia, saperi .................................. 34

La produzione e la circolazione della conoscenza ....................................................... 35

L’industrializzazione dei piccoli ................................................................................... 37

L’industrializzazione della filiera .................................................................................. 39

La terziarizzazione della manifattura. ......................................................................... 42

Fabbisogni formativi e riforma dei saperi ................................................................... 43

Bergamo: le reti dell’innovazione tra smart city e smart land ............................................... 46

Transizione delle istituzioni intermedie: l’innovazione nelle policy ............................ 46

L’innovazione diffusa come connettore tra città e territorio ...................................... 51

La Val Seriana…………………………………………………………………………………………………………………….57

La bassa bergamasca: il ruolo delle infrastrutture e la transizione all'economia della terra.63

La comunità dell’Isola bergamasca ........................................................................................ 69

Il territorio e la sua situazione socio-economica attuale ....................................................... 69

La Valle Imagna………………………………………………………………………………………………………………….77

Il territorio e la sua situazione socio-economica attuale ....................................................... 77

L’area dei Laghi Bergamaschi ................................................................................................. 81

Il territorio e la sua situazione socio-economica attuale ....................................................... 81

Proposte dal territorio ........................................................................................................... 85

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La Val Brembana………………………………………………………………………………………………………………..87

Il territorio e la sua situazione socio-economica attuale ....................................................... 87

Elenco testimoni privilegiati intervistati ................................................................................ 92

Elenco partecipanti focus Group Valle Imagna ...................................................................... 92

Elenco partecipanti focus Group Valle Brembana ................................................................. 92

Elenco partecipanti focus Group Bergamo ............................................................................ 93

Elenco partecipanti focus Group Isola ................................................................................... 93

Elenco partecipanti focus Group Laghi Bergamaschi ............................................................. 93

Elenco partecipanti focus Group Val Seriana ......................................................................... 94

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Executive Summary

Il progetto Bergamo Smart Land, svoltosi nell’arco di tre mesi circa sul territorio delle aree

omogenee in cui è diviso il territorio della provincia di Bergamo, ha coinvolto 62 attori attraverso lo strumento di sei focus group d’area e 12 testimoni privilegiati intervistati personalmente.

Interrogativo di fondo che ha mosso la Provincia di Bergamo nell’avviare questo progetto e che ci ha guidato nella realizzazione della attività di animazione e ricerca sul campo, è comprendere il complesso rapporto tra il tema dell’innovazione sociale ed economica e quella che possiamo definire la questione territoriale.

L’idea di smart land è anzitutto una idea “militante” che cerca di capire come si possa territorializzare l’innovazione e viceversa come il territorio produca proprie forme di innovazione diffusa e decentrata. E come tutto ciò possa essere accompagnato e sostenuto dalle istituzioni e dalle politiche pubbliche.

Punto di partenza necessario una ridiscussione, scomposizione, delle idee di innovazione, sviluppo e crescita ricevute. La vera questione da affrontare è che nella società odierna della globalizzazione dispiegata, crescita e sviluppo possono benissimo presentarsi sganciate. Il rischio che abbiamo davanti è di società caratterizzate da una “crescita senza sviluppo”.

Questioni di fondo

Bergamo e il capitalismo intermedio Bergamo è uno dei territori cardine dell’ancoraggio italiano all’Europa. Per tenuta

dell’apparato produttivo; per grado di infrastrutturazione; per le caratteristiche di densità della società civile e della società di mezzo.

Storicamente alla confluenza di due modelli di sviluppo, quello metropolitano-fordista del Nord Ovest e il capitalismo molecolare dei distretti e poi della media impresa sviluppatosi a Nord Est, oggi Bergamo è un microcosmo economico e sociale che contiene in sé molti dei tratti di “medietà” che caratterizzano e definiscono l’attuale fase attraversata dal capitalismo italiano. Per cogliere la quale utilizziamo il concetto di capitalismo intermedio, inteso non soltanto come dimensionalmente medio, ma come modello di sviluppo socialmente e istituzionalmente denso.

Dunque intermedio perché: caratterizzato da una industrializzazione plurale; varietà dei fattori dello sviluppo; tessuto civico e sociale di matrice religiosa, associazionismo e volontariato ramificati con corpi intermedi a forte articolazione; una buona infrastrutturazione, qualità della vita e contenimento delle disuguaglianze; spazio di posizione intermedio tra metropoli milanese e Nord Est.

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Bergamo come sistema territoriale plurale Il territorio di Bergamo comprende almeno quattro formazioni socio-economiche e

paesaggistiche diverse: le valli montane a loro volta divise tra fondovalle urbanizzato e industrializzato/terziarizzato e alte valli con problemi strutturali di spopolamento e tenuta ambientale; Bergamo città, città media in cima alle classifiche delle smart city, città media terziarizzata che punta su servizi, cultura e turismo, ma che accusa anche forti processi di invecchiamento della popolazione; la fascia pedemontana ad alta industrializzazione, infrastrutturazione (aeroporto, Parchi Scientifici, ecc.) e urbanizzazione ma con grandi problemi di sostenibilità nella saturazione del consumo di suolo; la pianura della bassa bergamasca, sistema policentrico, gravitante più verso i territori limitrofi che verso il capoluogo e molto orientato all’agricoltura estensiva e industrializzata, ma con piccole realtà di promozione di una emergente economia della terra (filiere del gusto, beni ambientali, beni storici, cultura, ecc.).

Il territorio: Bergamo terra di mezzo Il carattere di terra di mezzo della Bergamasca è rappresentato anche dalla particolarità

dello spazio di posizione che il territorio ha all’interno del più generale sistema territoriale e urbano del Nord (la cosiddetta megalopoli o città-regione padana).

Rispetto al sistema territoriale e funzionale più vasto imperniato sul ruolo di città-regione dell’area metropolitana milanese, Bergamo si colloca davvero in posizione intermedia sull’asse ovest-est: da un lato, sul piano dei processi e delle funzioni tutte le ricerche considerano l’area del capoluogo Bergamo, dell’hinterland ad urbanizzazione ed infrastrutturazione diffusa e della bassa (pianura) come un segmento dell’area vasta metropolitana; mentre i sistemi delle valli gravitano sul capoluogo locale. Dall’altro lato, molte delle alleanze e delle reti istituzionali oggi guardano sempre più a Nord Est.

Bergamo deve capire come interpretare questa sua caratteristica di terra di mezzo per trovare una sua complementarietà con il “magnete” milanese non diventandone un satellite. L’indicazione emergente è di focalizzare l’attenzione su come stanno cambiando i nessi intimi tra sistemi economici locali e città-regione diffusa, cambiamento che si può cogliere mettendo al centro tre temi: competenze, capitale umano e tecnologico, qualità territoriale.

Alcune questioni importanti Dal lavoro di ricerca emergono, tra le altre, alcune questioni da affrontare: 1) dopo 10 anni di crisi-transizione il territorio sta esprimendo, per quanto in modo

ancora debole e confuso, fenomeni e processi di innovazione diffusa. Sono segnali che necessitano però di essere accompagnati e sostenuti perché caratterizzati da debolezza strutturale e nel rapporto con la sfera del mercato;

2) il territorio è ancora importante nell’alimentare le esperienze di innovazione diffusa in termini di saperi, risorse, legittimazione, facilitazione del processo di startup: tuttavia queste esperienze esprimono anche una forte esigenza di connessione con la città e con sistemi e saperi esterni alla dimensione locale. La sostenibilità delle esperienze di

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innovazione diffusa dipende molto da politiche che favoriscano questa connessione, ovvero la connessione tra smart city e smart land;

3) c’è un tema emergente, rilevantissimo sia sul fronte di un possibile nuovo sviluppo locale, sia sul fronte dell’innovazione tecnologica per le imprese globalizzate: il tema dei saperi e della loro “riforma”. Occorrerebbe: da un lato, in accordo con i bisogni del sistema produttivo, sviluppare figure professionali e saperi in grado di gestire il salto tecnologico della digitalizzazione sviluppando competenze trasversali e ibride; dall’altro lato, da molti interventi è emersa una richiesta di un ruolo forte del sistema della formazione nello sviluppare saperi territoriali che aiutino l’affermarsi di una nuova coscienza di luogo, orientata alla tutela dei saperi radicati nel territorio e allo stesso tempo aperta a relazioni esterne, tra le giovani generazioni;

4) la coscienza di luogo, oggi, non è più un dato che si eredita dal passato ma è una posta in gioco del processo di innovazione diffusa e quindi della policy: la gran parte degli attori considera la comunità locale una risorsa ma da riformare. Gli innovatori diffusi sono soggetti che pensano/ripensano il territorio nella relazione con l’esterno. L’idea cardine che si può estrarre dal racconto degli attori coinvolti è che una nuova stagione di sviluppo locale può nascere solo da una nuova coscienza di luogo, non più espressione della continuità di saperi e pratiche ma fondata dall’inizio sull’intreccio tra saperi/pratiche locali e saperi/pratiche esterni. Ovvero sulla relazione. Questo, nelle testimonianze raccolte, è ormai un dato fatto proprio da una élite agente;

5) ne sono emerse tre modalità e culture dello sviluppo locale: a) un modello del margine che ragiona sulla riattivazione delle risorse e dei saperi radicati precedenti al ciclo lungo dell’industrializzazione (es. Val Imagna); b) un modello (e una cultura) che parte dall’assemblaggio di saperi e risorse contestuali ma intende crescere incorporando saperi e risorse esterne e della città; che cioè parte dal territorio ma ricerca connessioni esterne e reti lunghe (es. Val Imagna, Val Seriana); c) un modello di rigenerazione dei luoghi che nasce dall’insediamento di big players dei flussi e dall’azione di fertilizzazione e crescita dei saperi trainata dagli effetti di agglomerazione/attrattività che la presenza del big player induce (Insediamento Aruba, zona Isola).

6) centrale sarebbe un patto tra nuova coscienza di luogo e coscienza dei flussi, ovvero ragionare di una politica di connessione tra esperienze di innovazione diffusa e autonomie funzionali (CCIAA) e porte dei flussi sul territorio (Aeroporto di Orio al Serio, KmRosso, Università, ecc.). Sul piano del loro rafforzamento e della sostenibilità economica è fondamentale provare ad accompagnare la transizione delle esperienze di innovazione diffusa dalla dimensione del piccolo mercato locale alla dimensione del grande mercato urbano

La smart land dal punto di vista dell’innovazione diffusa

Le esperienze di innovazione che abbiamo intercettato e che definiscono l’idea di

territorio intelligente, sono esperienze di piccola innovazione, microcosmi che funzionano come segnali deboli, ma che –tuttavia- non costituiscono resistenze del passato ma tracce

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di futuro. Sono esperienze esito di una riorganizzazione in corso nell’economia, nei rapporti sociali e nella sfera politica, o meglio delle politiche: la lunga metamorfosi che stiamo vivendo e che iniziata prima del 2008 non è certo finita, sta producendo nuove forme di organizzazione economica e sociale più coerenti con le trasformazioni strutturali che oggi caratterizzano le società sviluppate.

Alcuni trend strutturali sono a fondamento dell’emergere di una nuova “onda decentrata di pratiche innovative”: a) la tendenza del processo di produzione del valore ad espandersi, superare i confini tra produzione, circolazione e riproduzione sociale; b) la rivoluzione tecnologica digitale e l’affermarsi di modelli di innovazione basati su condivisione e collaborazione; c) la multifunzionalità come forma organizzativa delle nuove imprese; d) la crisi del welfare pubblico.

Sono esperienze che spesso provano a connettere città e territorio. 1) In questa ricerca il concetto di smart land viene declinato soprattutto come rete e

intelligenza sociale più ancora che come innovazione tecnologica. La smart land è la rete delle politiche, dei progetti condivisi, dei meccanismi di cooperazione tra pubblico, impresa e privato-sociale. In questa visione le “app” e le piattaforme digitali sono fattori e strumenti abilitanti non costituenti. Smart land è inoltre un concetto che prova a riflettere su come connettere una economia leggera di nuovo tipo, costituita da giovani agricoltori “ritornanti” sui luoghi ai margini dello sviluppo, artigiani digitali, professioni creative, pratiche e progetti di economia circolare e economie collaborative e solidali, nuove imprese sociali, ecc.; e una economia “pesante” composta da un’industria che facendosi intelligente tende a diventare sempre più ad alta intensità di capitale;

2) Una delle caratteristiche più evidenti delle esperienze mappate è il loro carattere anfibio, ibrido, trasversale, multifunzionale, perennemente in bilico tra mercato e associazioni, che unifica produzione di beni privati e produzione di beni pubblici e comunitari, ricerca della sostenibilità economica e utilità e impatto sociale: la tesi è che stia emergendo in modo diffuso sui territori una nuova popolazione organizzativa e una nuova soggettività. L’aspetto più evidente che emerge dall’indagine è la varietà delle forme e degli obiettivi delle esperienze che costituiscono il tessuto dell’economia leggera e dell’innovazione diffusa: ci sono organizzazioni orientate allo scambio e al mercato piuttosto che alla riproduzione del tessuto sociale, del welfare o della formazione, della circolazione delle merci o del denaro.

3) La forma mediana dell’innovazione diffusa nei territori è il progetto di comunità: ovvero una progettualità che individua un nuovo campo di azione imprenditoriale nell’affrontare questioni sociali o progetti di sviluppo locale. Può assumere varie forme, tra le quali alcuni esempi delle esperienze mappate possono essere:

a. una cooperativa di comunità che promuove una piattaforma di distribuzione di prodotti locali, promozione turistica e di welfare aziendale (Val Cavallina);

b. un’impresa agricola giovane che ristruttura un antico nucleo rurale mettendo assieme comune, altre imprese, Fondazioni, Politecnico, ecc. (Val Seriana);

c. sempre nelle valli una rete d’impresa in cui piccoli produttori agricoli, associazioni locali, agenzie di sviluppo locale promuovono un punto di distribuzione comune, laboratori di trasformazione del prodotto, una diversificazione della produzione che unisce formaggi,

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cereali, dolci, birra artigianale, tutto proveniente da una filiera chiusa locale, creando occupazione stabile (Azienda agricola e Associazione culturale in Val Seriana);

d. reti di cittadinanza che organizzano nella città mercati e eventi per promuovere le nuove economie del territorio (Biodistretto del’Agricoltura Sociale, Cittadinanza Sostenibile, Mercato e Cittadinanza, rete dei GAS);

e. spazi culturali che vengono riempiti dalla moltitudine di micro-imprenditori artigiani, del cibo, ecc. provenienti da tutto il territorio (Spazio Fase nelle ex cartiere Paolo Pigna nell’hinterland di Bergamo);

f. progetti di connessione tra reti del welfare territoriale dei comuni e welfare aziendale (comuni, terzo settore e aziende Val Seriana);

g. coalizioni di piccoli comuni, piccoli produttori e ristoratori che provano a promuovere filiere locali del gusto e nel medesimo tempo a proiettare i loro prodotti a valle nella città (Valle dei Cinque Campi, Val Imagna);

h. progetti di rigenerazione di spazi industriali dismessi da parte di comuni per ospitare servizi di welfare e culturali comuni al territorio e alle aziende insediate (comune di Valbrembilla);

i. rigenerazione di aree industriali dismesse con l’insediamento di un big player delle reti digitali che fa da attrattore per la creazione di un cluster dell’economia digitale (Aruba a Ponte San Pietro);

j. rigenerazione urbana e costruzione di un sistema di welfare generativo nella comunità delle torri di Zingonia nell’Hinterland sud (comune di Verdellino, terzo settore);

k. riattivazione delle reti di servizio tra comuni e progetti di partecipazione e governance digitale (comunità dell’Isola);

4) La questione è capire se gli innovatori diffusi possano essere effettivamente forza trainante di un nuovo ciclo di sviluppo locale, ovvero possano produrre sedimentazione di reti e nuove pratiche efficaci ed espansive;

5) Non c’è una via unica all’innovazione. Esistono e si esprimono sul territorio almeno due tipi di innovazione: una orientata all’efficienza, all’high-tech e ai capitali, e una innovazione orientata alla qualità sociale, alla produzione di reti e collaborazione;

6) Le esperienze di innovazione diffusa incontrate non sono soltanto organizzazioni che producono beni privati ma coalizioni che svolgono funzioni regolative: sono soggetti privati che realizzano funzioni pubbliche. Producono beni pubblici come cura del paesaggio, qualità dei prodotti, tutela di saperi e culture produttive radicate, reti e relazioni di scambio e cooperazione (dunque capitale sociale);

7) C’è un vitalismo progettuale nei territori che rappresenta una nuova modalità di affrontare le questioni sociali. Attraverso meccanismi di cooperazione e economie di collaborazione e partenariati pubblico-privato in cui spesso la componente più attiva è il giovane imprenditore agricolo, l’associazione di recupero di antiche colture, la cooperativa sociale, ecc.

8) Soprattutto nell’area delle valli montane, i comuni costituiscono l’attore fondamentale di uno sperimentalismo pubblico: l’ente locale e il sindaco adottano una logica d’azione da imprenditori di policy, promotori di innovazione

9) Nel definire le genealogie delle esperienze di innovazione a Bergamo contano molto le eredità culturali e imprenditoriali: il comunitarismo cattolico, il ruolo e la forza del

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terzo settore, la diffusione della cultura imprenditoriale. I bacini della piccola imprenditoria e della cooperazione sociale costituiscono i due bacini formativi più rilevanti per il costituirsi delle esperienze coinvolte nella ricerca.

Le problematiche Quali problemi vivono i soggetti dell’innovazione minuta? Quali debolezze li

caratterizzano? 1) La proliferazione di reti, progettualità, eventi, rischia di creare frammentazione,

debolezza negli impatti sociali dei progetti, limitatezza e localismo della visione, rischia di non permettere una sedimentazione dei reticoli progettuali. Emerge così una esigenza di coordinamento, di sintesi delle reti, di visione generale su quale possa essere una nuova direzione dello sviluppo.

2) Un secondo problema è la debolezza organizzativa e strutturale delle esperienze: dai giovani piccoli agricoltori biologici delle vallate passando per le reti progettuali dei comuni fino alle reti di cittadinanza attiva che cercano di fare da tessuto connettivo tra produttori del territorio e mercati nella città, gli innovatori diffusi vivono un problema di crescita organizzativa, di saperi, di produzione, di capacità di accesso al mercato.

3) Terzo problema il limitato rapporto tra mondo dell’innovazione diffusa e mondo dell’impresa “tradizionale”: ad esempio, andrebbe incentivato un rapporto progettuale tra innovatori e mondo delle associazioni di rappresentanza.

4) Quarto tema: gli innovatori aspirano a relazioni di apertura del territorio. In alcune realtà si è registrato un disagio forte rispetto ad orientamenti diffusi di chiusura e riproposizione del localismo: la comunità è importante per avviare l’esperienza, ma poi può rivelarsi un meccanismo soffocante;

5) Oggi a livello identitario tra le esperienze di innovazione prevalgono ancora le rispettive identità professionali e i ruoli sociali: ci si sente imprenditori, contadini, attivisti, makers, organizzatori di eventi, operatori sociali, ecc. Molto debole il riconoscimento di una identità comune in quanto “innovatori”. Questa è forse la principale differenza nella cultura degli attori rispetto alla situazione registrata prevalente nel contesto metropolitano milanese.

Le richieste/proposte di policy

Il tema emergente è una richiesta di accompagnamento che raramente piega verso la

richiesta di risorse o sostegni finanziari, ma chiede soprattutto modalità diverse di relazione tra istituzioni e produttori privati di beni pubblici.

1) La prima richiesta al mondo delle istituzioni pubbliche è di svolgere una funzione di

tessuto connettivo, di meta-organizzatore delle reti, di coordinamento dei soggetti e di sostegno nella battaglia culturale per legittimare nell’opinione pubblica e nel tessuto imprenditoriale le attività di innovazione sociale: viene proposto un meccanismo di tavoli

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per area dedicati al coordinamento delle esperienze di innovazione allo scopo di evidenziarne gli aspetti comuni e trasversali.

2) C’è una richiesta forte di innovare il ruolo giocato dalle pubbliche amministrazioni e di co-progettare le policy non più solo nel welfare, ma a 360°. I soggetti dell’innovazione offrono competenze per co-creare con la pubblica amministrazione.

3) Andrebbe sostenuta e accompagnata la multiscalarità delle reti aiutando la crescita della dimensione critica dei progetti di innovazione: come ampiezza delle partnership sul territorio, ma soprattutto come sviluppo di reti lunghe extra-territoriali. Occorrerebbe sostenere in modo mirato nei bandi e nelle politiche la formazione di reti lunghe extra-territoriali che servano a mettere in relazione i soggetti con le migliori esperienze/competenze e con le reti del valore (sociale e/o di mercato) esterne al territorio o globali spingendo a formare reti che escono dal limitato spazio territoriale.

4) Politiche che permettano di valutare e far emergere l’impatto sociale oltre che economico delle esperienze di innovazione diffusa: chi produce beni pubblici esercita per il territorio una funzione che non può essere letta soltanto con i tradizionali indicatori economici;

5) Sostenere l’allargamento e il rinnovamento delle reti di policy sperimentando un allargamento dei partenariati delle politiche di innovazione anche alla società civile. Cosa che in parte c’è già nelle policy della Provincia come del Comune di Bergamo. Tuttavia molte delle esperienze target della ricerca sostenevano di non avere rapporti né con la sfera istituzionale, né con le rappresentanze o con le autonomie funzionali;

6) Allargare l’area di sperimentazione di politiche non settoriali ma per obiettivi provando a puntare esplicitamente a connettere le esperienze di innovazione più trasversali, che unificano attività di produzione, circolazione e riproduzione sociale, con l’impresa consolidata (PMI).

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Introduzione

Questa ricerca restituisce gli esiti di un percorso di ascolto e animazione che il Consorzio AAster ha realizzato per Provincia di Bergamo coinvolgendo un campione di esperienze che possiamo definire di innovazione diffusa. Un percorso cioè, che aveva come scopo di comprendere, interrogandoli e raccontandoli, processi di innovazione sociale che nel corso dell’ultimo decennio sono emersi in forma diffusa e decentrata sul territorio. Al centro delle interviste e dei focus group realizzati nei diversi ambiti territoriali, è stato posto il rapporto complesso e in profondo cambiamento tra questione territoriale e innovazione. In altre parole, al centro è l’idea che il rapporto tra società ed economia dentro la crisi globale non vada interpretato unicamente come un processo in cui l’innovazione, la nuova economia emergente o il mercato stiano “consumando” i meccanismi di integrazione sociale che costituiscono la trama delle comunità territoriali. Le esperienze raccontate, vanno invece interpretate come tracce di futuro, ovvero come segnali che la nuova economia emergente sta costruendo la propria società, sta faticosamente riconfigurando i rapporti sociali e i meccanismi di integrazione sociale in un assemblaggio coerente con i processi di modernizzazione economica e tecnologica in corso. Anche il concetto di innovazione sociale oggi molto di moda, tratta sul piano delle policy del medesimo problema, ovvero di modalità nuove di rispondere a nuovi bisogni e problemi sociali in modo da rendere coerenti crescita e coesione sociale.

Anticipando un punto importante possiamo dire che la parola chiave del paradigma economico-sociale emergente e comune ai tre concetti di capitalismo intermedio, innovazione diffusa e smart land, i tre concetti alla base di questo lavoro, è impatto sociale positivo prima che digitale. La questione di fondo dell’epoca che viviamo non è tanto il vincolo tecnologico quanto la capacità del sistema sociale ed economico di ripensare i presupposti del valore accettando la sfida dell’economia a impatto sociale positivo in cui si ibridano valore sociale e rendimento economico.

Partiamo dal mettere a fuoco due questioni importanti. La prima riguarda la differenza che intercorre tra crescita e sviluppo, ovvero il fatto che la prima non esaurisce il secondo. Sviluppo è essenzialmente capacità di autopromozione civile ed economica della società1, mentre la crescita è intesa come andamento in progressione del reddito e dei consumi, potendosi dare anche la situazione di una “crescita senza sviluppo”. Inseguire la crescita senza accompagnare la società a metabolizzarne e tradurne gli impatti in processi di empowerment diffuso, significa incamminarsi in una direzione di marci lungo la quale è improbabile che ci sia

1 Sviluppo è qui inteso nei termini di A.Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia,

Milano, Mondadori, 2001.

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ancora spazio come forza trainante per il mondo della micro e piccola impresa, cioè per un tipo di impresa che nasce dai fianchi della società. Un’impresa che rimane, citando la famosa definizione di Giacomo Beccattini, “una storia di vita più che una molecola di capitale”.

La ormai lunga metamorfosi della “crisi” pone dunque alle nostre società la sfida di governare gli impatti del nuovo paradigma di crescita globale fondato sulla dialettica tra flussi globali e luoghi, laddove la dimensione dei flussi può anche indurre nei luoghi decrescita, depauperamento delle risorse locali, oppure crescita senza sviluppo. Tuttavia questo esito non è scontato, non è un destino ineluttabile. Per questo è importante riflettere su una visione di sostenibilità fondata sulla dimensione del territorio; a patto però di ripensare profondamente il significato di questo concetto. Oggi infatti il territorio è una dimensione delle relazioni economiche e sociali che non è più esclusivamente limitata allo spazio locale: è insieme lo spazio delle relazioni di prossimità localmente dispiegate, più lo spazio delle relazioni lunghe di simultaneità. Vi sono attori per i quali il territorio rimane incapsulato dentro lo spazio locale, e attori per i quali il territorio si è esteso fino a corrispondere al raggio d’azione delle proprie reti nel mondo. Per questo motivo l’innovazione va compresa non come una forza astratta ma come un processo diffuso e decentrato e dunque territorializzato. In questa luce l’innovazione diviene una forza utile per riconnettere le due nozioni di crescita e sviluppo attraverso una dimensione territoriale che funzioni come un assemblaggio multilivello di reti, istituzioni, imprese, comunità, funzioni.

Seconda questione, se la cifra di fondo delle società odierne sta nelle tendenze alla polarizzazione sociale, economica, territoriale, questo ripropone una grande sfida: ricostruire una dimensione intermedia che consenta di mediare tra flussi e luoghi. Questa dimensione intermedia non può che essere la dimensione della società e delle sue istituzioni come matrice a partire dalla quale ripensare un modello di sviluppo che abbia al centro l’obiettivo di umanizzare le due grandi forze della tecnica e del mercato. Tuttavia perché vi sia dimensione sociale intermedia efficace, occorre una società che non si limiti al recupero e valorizzazione di ciò che resta della comunità, dei saperi radicati e di lungo periodo. Perché vi sia dimensione intermedia forte, vitale, in grado di mediare tra flussi e luoghi, occorre l’emergere di nuovi rapporti sociali, saperi diffusi, modelli istituzionali, laddove per nuovi si intenda coerenti con il salto tecnologico, produttivo e culturale che viviamo. A Bergamo questo significa interrogarsi se un territorio profondamente strutturato dal modello del capitalismo molecolare e dell’urbanizzazione diffusa con aspetti negativi come l’elevatissimo consumo di suolo, abbia la capacità di adattarsi ad un quadro economico in cui sempre più le reti produttive e funzionali delle nuove economie globalizzate fuoriescono da confini amministrativo-territoriali della governance locale, riducendo la capacità di governo dei processi da parte del

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tessuto istituzionale e rischiando di trasformare il territorio da piattaforma di risorse a zavorra di cui liberarsi. Bastano livelli elevati di infrastrutturazione a rete dei corridoi di mobilità a produrre sviluppo sostenibile? Oppure il rischio è di riproporre un modello di crescita senza autopromozione che porta le comunità fuori dal perimetro della “ciambella”2, ovvero della sostenibilità nel consumo di risorse ambientali e nei livelli sopportabili di disuguaglianza e polarizzazione sociale? A partire dalle Strategie Europee di Lisbona (2000) e di Goteborg (2006) e poi attraverso i recenti accordi di Parigi alla COP 21 con la declinazione dei cosiddetti SDG (Obiettivi Universali di Sviluppo Sostenibile) l’idea di sostenibilità ha progressivamente assunto una declinazione sociale oltre che ambientale. L’idea di smart land riflette esattamente su questo problema di fondo, declinando il concetto di innovazione come un processo decentrato, costituito dall’emergere di esperienze in forma diffusa, su una scala anche piccola e a partire da spazi territoriali tradizionalmente considerati del margine se non marginali. Ovvero che l’emergere di una nuova dimensione intermedia possa realizzarsi anche a partire da micro-esperienze territoriali. Il concetto di Smart Land assume così il significato di a) modello normativo, un obiettivo a cui tendere, finalizzato a ricucire crescita e sviluppo attraverso la mediazione territoriale della dialettica flussi-luoghi e a costruire quella che possiamo definire una modernità sostenibile centrata sulla capacità dei soggetti di (ri)appropriarsi dell’innovazione e della tecnologia per praticare propri obiettivi di sviluppo3. Una modernità dunque, fondata non sul consumo ma sulla rigenerazione delle risorse e dei saperi dei sistemi locali; b) una visione di governance territoriale multilivello e strutturata a rete che connette istituzioni, autonomie funzionali, imprese e innovatori diffusi, su una base di co-progettazione dello sviluppo locale, mettendo in rete i sistemi locali non solo tra loro ma con il più ampio contesto europeo e globale.

Cosa intendiamo per innovazione diffusa

L’innovazione è da sempre presupposto, per quanto non sufficiente, della crescita; alla creazione di nuovi prodotti o di più efficienti metodi per produrre, ovvero all’emergere di nuove domande sociali, si è sempre affidata la missione di rilanciare l’accumulazione nelle crisi cicliche del capitalismo. Nella grande recessione apertasi nella seconda metà dello scorso decennio il tema dell’innovazione è stato sottoposto ad ulteriore torsione. Che denominino processi “reali” piuttosto che

2 K.Rawthort, L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo,

Edizioni Ambiente, Milano, 2017. 3 E.Rullani, Modernità sostenibile. Idee, filiere e servizi per uscire dalla crisi, Roma, Carocci, 2010.

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orizzonti possibili, espressioni come green, clean, smart economy, sharing economy e internet of things, industria 4.0, manifattura additiva, e molte altre, sono - prima che settori o agglomerati tecnico-cognitivi – l’espressione simbolica delle aspettative di rilancio della crescita. Equivalenti agognati, nell’era digitale e della conoscenza, della macchina a vapore, dell’elettricità, dell’elettronica e dell’informatica.

Le diagnosi sulla crisi convergono sia pure con molte varianti su due polarità. La tesi della “stagnazione secolare” o comunque come combinazione strutturale dei fattori di blocco della crescita. La tesi della crisi come fase di un ciclo schumpeteriano il cui superamento è annunciato da “sciami di imprenditori innovativi” che si “co-implicano” e immettono sul mercato prodotti in grado di stimolare bisogni inediti o dare risposte nuove alla domanda di beni e servizi, che rendono obsoleta una parte delle produzioni precedenti, stimolando dunque la circolazione monetaria e la spinta inflattiva. Una variante di minoranza di questa seconda tesi, consiste nella visione per cui la qualità specifica dell’ultima generazione tecnologica, combinata con l’affermarsi di culture ostili alla concentrazione del potere e delle risorse (l’”individuo istruito e connesso” di cui parla Paul Mason, i “pubblici produttivi” o lo sviluppo di produzioni P2P à la Benkler), produrranno nel lungo periodo una società non più basata sui principi del capitalismo – è questa anche la tesi recentemente sostenuta da Jeremy Rifkin attraverso il concetto di economia “a costo marginale zero”.

Che si dia nel prossimo futuro ulteriore imprigionamento nella stagnazione piuttosto che l’apertura di un nuovo ciclo espansivo, c’è tuttavia un sostanziale accordo tra le élite intellettuali, politiche ed economiche, per cui l’economia e la società del futuro saranno basate su assetti “smart”, più intelligenza e meno capannoni, istanze sostenibili, lavoro più qualificato e coinvolgente, uso intensivo della scienza applicata ai processi generativi di valore e alla vita quotidiana. Questo orizzonte trova espressione in indirizzi di policy e correlata produzione normativa, a molteplici livelli regolativi, basati sul primato degli investimenti in ricerca e sviluppo, sulla digitalizzazione della sfera produttiva e della circolazione dei beni e dei contenuti, sull’innalzamento complessivo delle conoscenze sociali.

Il tipo di innovazione al centro di questo rapporto, che convenzionalmente chiamiamo diffusa, non si pone in alternativa alla visione mainstream, ma si fonda e ha il suo tratto distintivo sul carattere diffuso e decentrato dell’innovazione, basato sul protagonismo dei territori, avendo nella trama partecipativa sociale ad un tempo il motore e l’output dei processi generativi di sviluppo e coesione sociale, in una circolarità in cui i due termini si pongano l’uno come condizione dell’altro.

Economia leggera e innovazione diffusa

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Nella crisi si è dunque alzata una nuova onda di pratiche innovative. Le attenzioni

degli osservatori sono catalizzate di norma da due fenomeni, le start up innovative e le economie collaborative e della condivisione (sedi di coworking, piattaforme di sharing economy, crowdfunding, fab lab, comunità open source, produzioni p2p). Questa riflessione coinvolge invece molte altre figure e organizzazioni: ad esempio, artigiani digitali e “vecchie” professioni creative, “ritornanti” sui territori ai margini dello sviluppo, pratiche di economia circolare, nuove imprese sociali, per finire agli ibridi che tengono insieme reciprocità e mercato, finanche i “pubblici produttivi” che danno vita a “forme di cooperazione che coinvolgono migliaia di attori” nella produzione comune e aperta di conoscenza.

All’insieme di queste pratiche si è dato il nome di economia leggera, una definizione che non si limita a indicare fatti socioeconomici del presente, ma ne suggerisce una genealogia e ne sollecita una lettura qualitativa. Una parte importante della vicenda economica del nostro paese a partire dal secondo Dopoguerra, si potrebbe infatti arguire, si è giocata sul confronto tra “vie dello sviluppo” che possono essere stilizzate con le metafore di economia pesante – per brevità, la produzione di massa3 - e leggera, organizzazione produttiva innervata da reti sociali, cresciuta sussumendo conoscenze e risorse situate nella biodiversità culturale e produttiva del paese. Questa dicotomia era l’involucro formale di contraddizioni che hanno continuato a riprodursi – con attori, campi, modi diversi – oltre il crepuscolo della mass production e dei distretti industriali. Tra queste contraddizioni, una di valore fondativo riguarda i modi di concepire l’impresa (restituita dall’antinomia di Giacomo Becattini tra imprese “molecole di capitale”, volte all’incremento di valore astratto, e imprese “progetti di vita”, radicate in conoscenze e lavori concreti e leve di un “capitalismo dal volto umano”) e il lavoro; laddove la separazione tra funzioni intellettuali e manuali frantumava il lavoro, riducendolo a prassi “contemplativa”, l’artigianalità intrinseca dell’economia leggera anticipava il recupero dei concetti di auto-direzione e di ricomposizione dei frantumi, che fornirono la base per la successiva rivalutazione dell’”uomo artigiano”4. Economia pesante e leggera, dunque, vanno anzitutto intesi come idealtipi, rispettivamente, di un’economia basata su automatismi autoreferenti e su pratiche di personalizzazione, specificità dei contesti e produzione di senso. Chiamiamo i protagonisti di queste pratiche innovatori diffusi, espressione con la quale si intende dare rilievo sia ad una dimensione “soggettiva”, sia alla caratteristica proliferante e decentrata dell’economia leggera. Ricercarne definizioni “sostanziali” sarebbe, oltre che complicato, riduttivo. Per questo privilegiamo i processi ai repertori di prodotti, la soggettività e le culture al profilo delle

4 R.Sennett, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2009.

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organizzazioni e ai “settori” merceologici. L’innovazione di cui si riferisce in queste pagine è pratica sociale, non schema di macroeconomia.

Una mappa orientativa

Per rendere operativo il concetto di innovazione diffusa occorre provare a

classificare i progetti e le esperienze di innovazione diffusa target della ricerca. Secondo la proposta qui formulata, le dimensioni analitiche che sembrano più utili al fine di elaborare una classificazione esplorativa delle forme di innovazione, sono: il posizionamento nelle sfere in cui possiamo scomporre le società

contemporanee, ossia: la sfera produttiva, la circolazione (che include le attività legate alla realizzazione del valore, quindi la logistica, la distribuzione e il consumo), la riproduzione (individuale e sociale), infine la sfera politica e amministrativa;

il tipo di relazioni che definiscono i rapporti tra le pratiche di innovazione diffusa: l’essere espressione di processi attinenti alla sfera dell’economia di mercato (lo scambio profit) oppure alla sfera delle relazioni di reciprocità/redistribuzione (no-profit) per utilizzare la nota tipologia di K.Polany.

I due criteri verranno utilizzati per un primo tentativo di razionalizzazione di un

campo empirico affollato di modelli, forme giuridiche, “settori”, differenti evidenziando nel contempo l’aspetto a nostro avviso qualificante di molti progetti d’innovazione: l’essere - programmaticamente o intrinsecamente – ibridi tra i diversi ambiti sociali e tra più forme d’integrazione. E’ proprio tale aspetto, che si presta a considerazioni di livello più generale, e a risultare alla lunga di maggiore interesse.

Innovazione diffusa e produzione Una parte dell’innovazione diffusa rientra nella tradizionale sfera della produzione

di beni e servizi, sia come nuovi prodotti proposti sul mercato, sia come beni intermedi incorporati in prodotti tradizionali.

In questo campo possiamo includere, con riferimento al tipo di beni prodotti:

le nuove iniziative (riconosciute o meno come start up innovative) nei campi delle tecnologie digitali, delle industrie culturali e creative, della green economy, dell’agricoltura di qualità o sostenibile (es. salute, alimentazione, qualità della vita; tecnologie e soluzioni innovative per il turismo; dispositivi incorporati nei beni di consumo o soluzioni per la smart building, ecc.);

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l’offerta di servizi avanzati (design, web, consulenza, marketing) che incrementano il tasso d’innovazione delle imprese dei settori tradizionali (artigianato, commercio, agricoltura, piccole industrie, servizi di prossimità, turismo, ecc.);

le produzioni “per il mercato” con positive ricadute sociali, ambientali, territoriali, sulla qualità della vita.

Con riferimento invece al tipo di processi vanno distinte esperienze che

valorizzano la collaborazione e/o la condivisione di risorse e conoscenze da parte degli attori in gioco.

prassi di “innovazione aperta” delle imprese, che sfruttano idee e processi esterni, attraverso schemi cooperativi, oltre il paradigma della “closed innovation”. Questa “apertura” trova declinazione operativa sia nella capacità di assorbire risorse e competenze dal territorio, sia come capacità di ricombinare conoscenze locali con, idee, prassi, tecnologie, di altri settori o territori (coworking, FabLab, ecc.);

forme evolute di sharing economy, basate su produzioni a “controllo distribuito”, sia nella variante in cui assetti profit e no profit convivono (è il caso delle produzioni open source, es. Linux o Arduino), sia dalle produzioni collaborative P2P non profit, come le reti del free software o le comunità aperte di “pubblici produttivi” (es. Wikipedia);

Innovazione diffusa e circolazione Da tempo in molti settori i vantaggi competitivi insistono assai più sul rapporto

con i mercati (nelle fasi a valle della produzione diretta) che sulle caratteristiche tecniche dei prodotti. Inoltre, gli effetti più dirompenti della nuova onda digitale, già manifestatisi e in prospettiva sempre meno eludibili, si manifestano soprattutto nella circolazione: canali di vendita (e-commerce, marketplace digitali, ecc.), piattaforme per la condivisione di risorse o beni, applicazione di dispositivi digitali a beni di consumo e sistemi di transazione, broker informativi, stanno modificando rapidamente struttura della distribuzione e le modalità stesse del consumo (dunque, della realizzazione del valore). Il fenomeno delle sharing economies ha da tempo assunto un duplice volto. Da un lato, le tecnologie consentono di tessere relazioni in parte sottratte alla logica del mercato o alle gerarchie manageriali, rendendo disponibili servizi, conoscenze, benefit in una logica P2P. Dall’altro se ne evidenzia il “lato oscuro”: gli effetti sociali della disintermediazione tra fornitori e compratori di servizi spiazzando intere categorie di fornitori tradizionali – albergatori, tassisti, ristoratori, servizi di collocamento, autonoleggi, ecc., e in

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prospettiva mobilitando nuove categorie di “lavoratori a gettone” con bassi compensi, elevata flessibilità, forme di controllo mortificanti (uberizzazione dell’economia e del lavoro). Senza pretesa di esaustività e recuperando in parte classificazioni proposte da altri autori5, possiamo individuare e includere alcune pratiche in cui peraltro non sempre l’elemento tecnologico costituisce l’elemento centrale.

modelli di distribuzione basati sulla prossimità e sul dialogo tra produttori e consumatori (particolarmente importanti, ad esempio, nel settore agricolo), logiche di filiera corta: da anni sui territori si sperimentano modelli distributivi in cui la disintermediazione si presenta con un volto “sociale” e “ambientale” apprezzato dai consumatori, sia per ragioni culturali (es. adesione a istanze ambientali), sia per esigenze qualitative e ancora per premiare le produzioni legate al territorio;

iniziative che incrementano la trasparenza e l’informazione a favore dei consumatori, perseguendo obiettivi di tracciabilità delle produzioni e valorizzandone gli elementi di sicurezza e coerenza con la domanda di consumatori e user;

forme di circolazione che favoriscono l’accesso o l’uso anziché la proprietà dei beni come il car sharing, forme di distribuzione p2p basate sulla condivisione – a fini commerciali – dei beni privati o delle competenze personali degli utilizzatori; è problematico distinguere qui la mera disintermediazione o “walmartizzazione” dei servizi di questa economia “on-demand” (di cui Uber costituisce forse l’esempio più noto) dagli effetti più desiderabili o “sociali”;

le forme di distribuzione “orizzontale” non mediata da scambi monetari, che costituiscono il rovescio no profit delle piattaforme commerciali di condivisione, o quelle che pure prevedendo scambio monetario, si configurano come “sistemi locali di scambio” a prevalente matrice solidale o mutualistica; sono, ad esempio, i gruppi di acquisto, , ma anche – a livello mondiale – le piattaforme per la condivisione gratuita di contenuti, conoscenze, prodotti culturali (musica, audio-video, libri, paper, software, ecc.);

può essere ricompreso tra le forme innovative della circolazione anche il fenomeno del crowdfunding, sia nella sua versione più conosciuta (piattaforme on-line per il finanziamento di progetti, senza ricompense in cambio, o nella variante equity – in cui si acquisisce un titolo di partecipazione nell’impresa beneficiaria dell’investimento).

5 I.Pais e G.Provasi, Sharing Economy: a step towards ‘re-embedding” the economy?, in “Stato e Mercato”,

2015, 105, 3, pp. 347-377.

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Innovazione diffusa e riproduzione E’ soprattutto in questo campo che rientrano i progetti di innovazione sociale, sia

che riguardino i servizi di welfare, sia che riflettano un più generale approccio volto ad ampliare l’offerta o diversificare le modalità di accesso a beni come la formazione, la cultura, la socialità, sia ancora che si propongano di rinnovare le forme della vita associata sul territorio.

Con riferimento alla sfera più strettamente legata al welfare, l’innovazione diffusa è parte di un più ampio processo di trasformazione del modello sociale italiano. Accanto alle forme integrative e complementari di welfare che stanno prefigurando un altro “modello sociale”, si moltiplicano sul territorio e nelle città progetti e iniziative locali di tipo mutualistico o “comunitario” che diversificano e ampliano l’offerta di servizi, ma anche prassi di welfare negoziale territoriale, imprese che sviluppano beni/servizi, autoproduzione in rete o associata di servizi comuni. Il repertorio di pratiche innovative nell’ambito della riproduzione è vastissimo e sarebbe lungo elencare le forme in cui si realizza. Tra le prassi più diffuse o di maggiore interesse, ai fini di questo contributo, sono da citare:

esperienze di social innovation di mercato; iniziative promosse da soggetti imprenditoriali, perlopiù di recente costituzione, volte a realizzare servizi e prodotti (in modo prevalente o almeno in parte) venduti sul mercato, che contribuiscono a migliorare la qualità sociale dei territori o risolvere specifici problemi (rientra in questo campo ad esempio lo sviluppo di soluzioni tecnologiche volte a risolvere problemi della vita quotidiana da parte di soggetti o comunità in condizione di svantaggio, ovvero a supportare esigenze creative o ricreative della popolazione);

nuova imprenditoria sociale; una parte di queste iniziative rientra nel campo più ristretto della nuova impresa sociale, laddove il termine indica una linea di trasformazione del Terzo Settore e delle cooperative sociali, dalla sostanziale dipendenza economica e organizzativa dagli enti pubblici nell’ambito di servizi gestiti in outsourcing, all’elaborazione progettuale indipendente; innovazioni di questo tipo sono presenti in svariati settori (dall’accoglienza all’abitare – si pensi al campo dell’abitare condiviso o della “architettura incrementale” - dalle gestione di spazi sociali all’erogazione di prestazioni assistenziali o sanitarie ai micro nidi famigliari ecc.) e costituiscono peraltro la direttrice strategica delle stesse organizzazioni di secondo livello del Terzo Settore;

le iniziative di comunità, fondate sulla produzione di beni che interessano o sono accessibili da tutti i membri di un dato territorio, comune, quartiere, che promuovono la partecipazione dei cittadini alla produzione, cura e manutenzione dei beni/servizi di cui sono potenziali o effettivi beneficiari;

le esperienze di neomutualismo, da quelle più strutturate (es. mutue territoriali, sms che erogano servizi di welfare), a quelle basate sul self-help,

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sull’auto-produzione di servizi, sulla condivisione di risorse e beni a livello locale (co-housing, banche del tempo, ecc.), fino alle esperienze di scambio locale o comunitario (ad es. le social street);

il tessuto diffuso delle Associazioni di promozione sociale e culturale, che dotano i territori dell’infrastruttura micro della socialità o della cittadinanza attiva, coinvolgendo un grande numero di cittadini come semplici fruitori ovvero soggetti attivi nella qualificazione della vita culturale delle città, le imprese culturali di nuova generazione, “centri della produzione culturale indipendente”, che contribuiscono significativamente alla generazione dell’”atmosfera creativa”;

un’altra famiglia di pratiche innovative rientranti nel campo della riproduzione è costituita dalle esperienze di riutilizzo di spazi abbandonati (es. orti urbani, stabilimenti industriali dismessi, altri contenitori edili, muri per i writers, aree in stato di abbandono) per la creazione di nuovi servizi o pratiche sociali generanti valore pubblico o collettivo, “regolamenti per i beni comuni urbani”, redatti sulla base dalle possibilità offerte dalla legislazione nazionale.

Questa ricognizione non ha la pretesa di essere esaustiva delle pratiche che

abbiamo definito di innovazione diffusa, ma consente di coglierne il carattere trasversale e per alcuni aspetti “sistemico”, ancorché destrutturato. L’innovazione non è un programma politico con una razionalità ordinatrice, ma l’asincronico e disordinato movimento dell’economia e della società verso nuovi assetti, che coinvolge tutti gli ambiti in cui è organizzata la società. Esiste un’innovazione dei prodotti e dei modi di produrre, una delle forme della circolazione (e dei consumi che consentono di realizzare il valore), altre che attengono la sfera della riproduzione. Questa ripartizione, utile per cogliere molteplicità e differenze è sfidata, dall’alto, da tendenze sistemiche in cui la distinzione tra gli ambiti diviene molto meno netta che in passato: è del tutto evidente, ad esempio, la crescente compenetrazione tra produzione e sfera riproduttiva (o del consumo riproduttivo), così come la digitalizzazione rende la sfera della circolazione sempre più integrata a quella produttiva. Anche nell’innovazione dal basso, o diffusa, i progetti forieri di sviluppi potenzialmente più importanti, pongono in discussione i confini tra produzione e riproduzione, tra produttore e consumatore.

Tra mercato e società

Com’è evidente dal repertorio sopra illustrato, l’innovazione diffusa vive ed è

alimentata da pratiche che non si esauriscono nella sfera del mercato. Anzi, una parte consistente delle innovazioni al centro di questo contributo non vi rientra

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affatto o vi rientra solo in parte. Come è stato posto in luce, la nozione di reciprocità è secondo i casi o troppo vaga o troppo ampia per rendere conto dei diversi tipi di legami e relazioni che non rientrano nella sfera mercantile né in quella redistributiva. Ciò che più interessa, dal nostro punto di vista, è che la nozione di reciprocità si declina in forme diverse o assume connotazioni che di volta in volta enfatizzano l’elemento mutualistico, cooperativo, la gratuità, l’azione di comunità, la condivisione, e via di seguito. Sarebbe di limitata utilità, nell’economia di questo contributo, cercare una perfetta corrispondenza tra i suesposti modelli teorici e situazioni concrete (progetti, imprese, organizzazioni potenzialmente beneficiare di interventi di policy), anche e soprattutto in virtù del carattere programmaticamente o intrinsecamente ibrido delle esperienze reali. A cavallo tra mercato e società, si possono così individuare:

esperienze connotate nel senso del mercato, in cui la dimensione sociale o

della reciprocità compare come output - beni/servizi venduti per realizzare un profitto ma che contengono un risvolto diretto o implicito di tipo sociale o ambientale – poiché, ad esempio, il prodotto risponde a bisogni socialmente rilevanti, o valorizza il legame territoriale o ancora consente di migliorare la qualità dei servizi collettivi ai cittadini o a loro specifiche categorie.

Esperienze che ricadono nel perimetro del mercato e si basano sulla ricerca del profitto, in cui la dimensione della reciprocità compare nella forma della collaborazione tra i produttori, ovvero nel mettere a valore la condivisione di beni in possesso degli user (è questa la forma più diffusa e conosciuta di sharing economy).

Esperienze che seguono una logica no profit, spesso interpretata e agita con modalità diverse rispetto alle tradizionali organizzazioni del Terzo Settore. L’impatto sociale (o ambientale, culturale, ecc.) non è in questi casi un’esternalità del business, ma ne costituisce il “core”. Non abbiamo, qui, imprese responsabili, ma progetti sociali (ambientali, culturali) implementati in forma imprenditoriale, la cui performance si misura attraverso l’impatto sociale e non attraverso il profitto, nel rispetto dei vincoli di sostenibilità economico-finanziaria e attraverso scambi monetari sul mercato.

Esperienze basate sulla logica dei common-pool arrangements, con risvolti più o meno commerciali, ma basati sulla condivisione e sull’apertura dell’accesso a terzi, secondo logiche di non escludibilità - sono tipicamente le pratiche dell’open source, del free software, della condivisione di conoscenza, ma anche dell’open innovation o manufacturing (es. Arduino);

Pratiche con limitata presenza o assenza di scambi monetari, basate anch’esse sulla logica dei common-pool arrangements, incentrate sullo sviluppo di beni e risorse “comunitarie”, ovvero sull’uso “comune” di spazi e strutture locali, secondo una logica di non escludibilità.

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Esperienze basate sulla reciprocità in senso stretto, rispondenti ad una logica mutualistica, con relazioni tra pari, tendenzialmente simmetriche. E’ questa la logica, ad esempio, che informa banche del tempo, crowdfunding non equity, piattaforme p2p no profit (es. Academia-Edu, Couchsurfin, ecc.), ma anche esperienze di co-housing autogestite, società di mutuo soccorso, ecc.

E’ possibile, infine, individuare un ulteriore tipo di esperienze, in cui le pratiche basate sulla reciprocità si combinano con la logica della redistribuzione. Ricadono, o potrebbero ricadere in questa fattispecie, le esperienze di produzione o manutenzione di beni pubblici (non rivali e non escludibili) da parte di soggetti privati (profit o non profit), con conferimento di autorità e legittimazione (o finanziamento) da parte dell’attore pubblico.

Un campo ibrido e articolato Come si è già detto la classificazione proposta oltre a rendere intellegibile la realtà

empirica, ha la funzione di porre in evidenza uno dei tratti distintivi della nuova onda di pratiche innovative: la forte ibridazione e compenetrazione tra forme d’integrazione e principi regolativi. Proprio il carattere “anfibio” e molteplice delle esperienze, infatti, costituisce al tempo un segno identificativo e un agente di trasformazione delle relazioni tra economia e società.

Volendo ricondurre a sintesi e rendere più operative le classificazioni suesposte, si può affermare che esiste un’innovazione più esplicitamente di mercato e una più “sociale”, con molteplici combinazioni tra logiche di scambio e reciprocità, profit e non profit, monetarie e non monetarie. Detto che non si tratta di prospettive antitetiche, esse rinviano a criteri di valutazione e legittimazione diversi e domandano strumenti regolativi specifici.

Il campo dell’innovazione più a ridosso del mercato beneficia di strumenti di policy relativamente consolidati, come il sostegno alle start up ad alto potenziale di crescita, le traiettorie volte a favorire l’accesso alle conoscenze tecnico-scientifiche (poli dell’innovazione, distretti tecnologici, sostegno alle forme di coordinamento che in letteratura sono normalmente ricompresi con la nozione di cluster), il finanziamento degli investimenti in asset materiali e immateriali, altre ancora. Strumenti che non sempre negli anni passati hanno mostrato di centrare il bersaglio o si sono rivelati in grado di incentivare il cambiamento organizzativo, ma che costituiscono tuttavia una solida base di partenza, eventualmente da integrare o emendare con nuove soluzioni.

La seconda prospettiva è normalmente ricompresa nella sfera dell’innovazione sociale, laddove il termine appare però eccessivamente vago, ricomprendendo, secondo i casi, l’economia sociale strictu sensu, forme cooperative e associative

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extra-mercantili, pratiche collaborative parzialmente sottratte alla logica del mercato - ma nell’innovazione sociale troviamo anche l’offerta di servizi riproduttivi e welfare privato (più che mercantile!) o lo sviluppo di prodotti –venduti sul mercato – in grado di fornire almeno parziale risposta a problemi che né l’azione dei poteri pubblici né la produzione di beni privati sul mercato appaiono in grado di soddisfare. Nonostante il recente riconoscimento della social innovation nelle agende di policy locale e regionale, in realtà, una regolazione in grado di accompagnare, premiare le esperienze virtuose, rimuovere ostacoli che vincolano una più diffusa espansione di queste pratiche, appare ancora – nella sostanza – da inventare. Comunque la questione di fondo è che al di là delle forme istituzionali dell’innovazione (il modo in cui è inquadrata nelle agende di policy), la questione è complicata, anche perché la differenza tra innovazione di mercato e pratiche sociali inclusive è esplicita quando ci si posizioni agli estremi (è evidente, ad esempio, la distanza che separa una start up che sviluppa sistemi digitali di pagamento, da un gruppo di acquisto solidale), ma si confonde e perde rilevanza “al centro”, dove i principi regolativi (scambio e reciprocità, mercato e gerarchia) si confondono e compenetrano. Ed è qui che succedono le cose più interessanti e foriere di sviluppi non misurabili attraverso i tradizionali indicatori di impatto (valore generato, numero di occupati, brevetti, ecc.).

Il concetto di smart land

Questa chiave interpretativa considera la costruzione di “territori intelligenti”

come un processo non lineare né pacificato. Al contrario, come ci ha insegnato il grande storico F.Braudel, i tempi dell’evoluzione del mondo sono sempre diversi e stratificati. La contemporaneità è coesistenza di tempi e modelli sociali differenti esito del complesso stratificarsi di epoche storiche, del sovrapporsi di rotture storiche e continuità di lunga durata nelle strutture “dure” del sociale. Tempi e modelli sociali che durano parallelamente gli uni agli altri e a volte entrano in conflitto tra loro. Diventare una smart land significa per un territorio compiere delle scelte riguardanti il proprio modello di sviluppo, la capacità di appropriarsi delle tecnologie e delle innovazioni culturali ed economiche facendole proprie non subendole come una rivoluzione passiva “dall’alto e da fuori”. In altre parole comporta la capacità di un territorio di coniugare l’innovazione con l’inclusione sociale e culturale.

Gli stessi concetti di smart land, di innovazione e innovazione sociale e diffusa, di sostenibilità, di crescita e di sviluppo, vanno considerati concetti ibridi, da ridiscutere, da scomporre e ricomporre a partire dalla convivenza nei luoghi di differenti tempi, modelli sociali, culture. Ad esempio è indubbio che innovazione

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sociale è concetto che comprende in sé sia la ricostruzione su nuove basi di un nuovo radicamento dell’economia e del mercato nel tessuto dei rapporti sociali e istituzionali delle società e contemporaneamente possiede un ampiezza semantica tale da ricomprendere in sé pratiche e fenomenologie che al contrario esprimono una mercificazione della vita sociale, dell’umano, delle reti comunitarie, ecc., di cui la componente della sharing economy più legata alle grandi piattaforme social e ai big players digitali è un esempio.

Le esperienze di innovazione coinvolte esprimono la convivenza di una pluralità di fenomeni e significati all’interno delle visioni di innovazione e sostenibilità a partire dalla loro natura programmaticamente ibrida, a cavallo e in equilibrio instabile tra sociale ed economico, tra l’essere reti di cittadinanza e di governance e nuove forme di impresa. Tutte le esperienze, siano esse singole organizzazioni oppure reti di soggetti, e soprattutto il loro carattere misto sospeso tra sociale ed economico sono state interpretate alla luce del rapporto tra innovazione e inclusione. La grande rilevanza assunta nel dibattito odierno dal tema di quale governo dei processi di innovazione sia oggi in grado di garantire il mantenimento della capacità delle nostre società di mantenersi inclusive dal punto di vista sociale, cioè sia in grado di coniugare innovazione e inclusione, ci da il polso del fatto che probabilmente l’accumulo di rottura economiche, sociali e tecnologiche verificatesi nella transizione lunga degli anni ‘2000, stia iniziando a produrre i suoi effetti di trasformazione sui territori e sulle società locali. Oggi ci troviamo dentro un passaggio di fase che l’economista E.Rullani ha definito ciclo dell'economia della conoscenza globale in rete, un modello fondato sull'intreccio tra beni e servizi, sulla terziarizzazione della manifattura, su un nuovo mix tra conoscenza codificata e saper fare, sulla svolta dell'applicazione sistematica delle innovazione tecnologiche dell'automazione integrale, delle tecnologie abilitanti e intelligenti, della robotizzazione in rete (manifattura additiva, "Internet delle cose", ecc.). Questo modello di innovazione tecnologica ed economica si riflette nell’emergere di un modello di inclusione sociale che possiamo chiamare della società circolare, un modello che a sua volta dal punto di vista dello sviluppo locale può avere due declinazioni diverse tra loro: da una parte, la società circolare è la società in cui attraverso la rete digitale e l’interconnettività i nuovi big players dell’economia globale mettono a valore il sociale e la vita quotidiana: la rivoluzione dei big data come motore dell’emergere di una nuova generazione di prodotti e servizi abilitati dale tecnologie digitali, essenzialmente a questo si riferisce. Dall’altra parte, la società circolare può declinarsi in un modello di sviluppo centrato sulla connettività sociale, sull’azione delle reti di cittadinanza, sulla generalizzazione di modelli di condivisione nella generazione del valore, sulle economie circolari del riuso e della rigenerazione, sulla connessione dolce tra città e territorio, sulla partecipazione come risorsa di uno sviluppo consapevole. Non vi è necessariamente

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contrapposizione tra questi due modelli di società circolare e di inclusione sociale: anzi, il concetto di smart land lavora a definire una nuova idea di sviluppo locale fondata sulla possibilità di connettere proprio questi due lati della società circolare. Esistono dunque due tipologie di innovazione:

una innovazione orientata all’efficienza e improntata al modello high-tech

(innovazione pesante per capitali e tecnologia anche se non necessariamente per densità e dimensione organizzativa);

una innovazione orientata alla qualità sociale improntata ad un modello comunitario o meglio alla costruzione di comunità collaborative (innovazione leggera composta di capitale sociale, creatività). E’ una biforcazione che in parte si sovrappone alla distinzione tra innovazione tecnologica e sociale, tra innovazione disruptive o incrementale. Molte delle differenze registrate tra le esperienze di innovazione diffusa e d’impresa sono riconducibili anzitutto a questa bipartizione di fondo.

Inoltre un fattore molto importante per cogliere le modalità, le forme e la

geografia con le quali il processo di innovazione diffusa si dispiega nei territori è l’eredità storica dei modelli di sviluppo territoriali. L’importanza delle diversità e delle divisioni geografiche, del fattore culturale come matrice storica dei saperi alla base del modello produttivo del made in Italy, con economie di PMI esito di processi localizzati di costruzione sociale di mercato, la forza di un settore no-profit e di impresa sociale molto esteso e storicamente radicato nelle principali subculture politico-sociali territorializzate, sono tutti fattori che rendono necessariamente diversificato e storicamente plurale, il campo dell’innovazione diffusa in Italia.

Riassumendo ne consegue che dalla relazione tra questi fattori emergono due percorsi di accumulazione e addensamento spaziale delle esperienze di innovazione diffusa e delle connesse pratiche di policy dell’innovazione che in parte ridislocano e in parte riproducono la tradizionale geografia delle “Tre Italie”. Abbiamo così individuato due traiettorie di innovazione:

1) una traiettoria dell’innovazione metropolitana accomunante in linea di massima le grandi piattaforme urbane del Nord Ovest e dell’asse tirrenico (nel nostro caso le realtà di Torino, Milano, Bologna e Roma) in cui l’innovazione diffusa porta al massimo grado la trasversalità delle forme organizzative e delle culture, l’addensamento delle esperienze di nuova impresa tecnologica, la presenza di piattaforme operanti nella sfera della circolazione attraverso l’applicazione delle tecnologie di rete.

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2) una traiettoria delle piattaforme territoriali addensantesi lungo la direttrice delle aree produttive del made in Italy dove il tratto unificante è rappresentato dai due processi della terziarizzazione del made in Italy manifatturiero e dallo sviluppo dell’attrattività turistico-culturale mettendo a frutto il patrimonio storico-ambientale.

Questa distinzione naturalmente non va forzata: eccezioni e forme “urbane” sono presenti anche nelle piattaforme territoriali e viceversa, in virtù dei processi di urbanizzazione diffusa che hanno contraddistinto soprattutto le regioni del centro-nord del paese. Bergamo è infatti il territorio in cui il tema dell’innovazione diffusa si pone per definizione in modo trasversale e mediano a queste due traiettorie. A Bergamo l’innovazione diffusa incorpora dimensioni della traiettoria metropolitana contemporaneamente a dimensioni della traiettoria territoriale. A Bergamo l’innovazione diffusa deve fare i conti con la trasformazione del modello urbano della città infinita, di una city-region policentrica e organizzata per corridoi di crescita. L’esplosione del fenomeno distrettuale, l’ingresso di nuove culture con le migrazioni, la crescita culturale delle nuove generazioni e allo stesso tempo i processi di invecchiamento demografico, l’erosione dei capitali famigliari dopo dieci anni di “crisi”, la differenziazione dell’economia, l’emergere di nuove figure imprenditoriali e professionali nell’agricoltura “post-agricola”, nei servizi, nel turismo, nella terziarizzazione della manifattura, e allo stesso tempo il permanere di eredità antiche come la secolare tradizione “bianca” di governance dello sviluppo in cui la funzione pubblica la svolge, prima di tutto, ciò che è comunitario anziché ciò che è statale, costituiscono fenomeni che hanno originato modalità di innovazione sociale caratterizzate dalla compresenza di idee di sviluppo e modelli di gestione del territorio differenziati tra loro, con la compresenza e l’interpenetrazione di urbano e rurale nel medesimo spazio.

Allo stesso tempo il percorso territoriale ci mostra come non tutte le forme di innovazione diffusa e sociale possano essere impiantate allo stesso modo in un contesto metropolitano o territoriale. A Bergamo le interviste fanno emergere difficoltà forti nell’efficacia di formule come il coworking o i bandi per le startup nei piccoli centri della provincia. La popolazione giovanile verso cui sono dirette le iniziative rimane spesso sostanzialmente indifferente.

C’è una contraddizione, a volte latente altre volte in atto, nel percorso di strutturazione di quell’assemblaggio di esperienze innovative e politiche che definiamo smart land: tra quella che abbiamo definito innovazione diffusa spesso la comunità originaria, oltre a dare le risorse per lo startup viene poi percepita come un ambito refrattario all’idea di innovazione come processo di apertura all’esterno. Non dobbiamo celare questo aspetto. Si sta dunque strutturando un ecosistema dell’innovazione sociale a Bergamo come elemento della smart land? Si ma a patto che si affrontino due questioni. Primo, la trasformazione delle esperienze in modelli

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replicabili per aumentarne la scalabilità, sia incrementando la diffusione delle esperienze attraverso il coinvolgimento di un numero più elevato di attori (cittadinanza, imprese, istituzioni, ecc.). L’esigenza di politiche di facilitazione culturale, di costruzione e predisposizione del campo in grado di promuovere la conoscenza dell’ecosistema e di far percepire alla società locale (intesa come cittadinanza) e ai potenziali stakeholders il valore delle pratiche di innovazione sociale. Secondo la spinta verso una maggiore co-progettazione trasversale tra le esperienze di innovazione diffusa e il mondo dell’impresa favorendo logiche di co-progettazione trasversale.

Una delle caratteristiche più interessanti riguarda il costituirsi di un pluralismo di reticoli istituzionali intermedi sul territorio. Sono reticoli che fungono da strumenti di generazione di una intelligenza territoriale e che suggeriscono l’emergere di un diverso tipo di azione politica, l’azione politica connettiva, per lo più attivata attraverso modalità di co-progettazione tra soggetti pubblici e privati di vario tipo nelle diverse aree del territorio. Nell’area montana il comune e poi le Agenzie di sviluppo/promozione, ma soprattutto il primo, sembrano costituire l’attore pivot nella generazione dei reticoli. Sul territorio c'è un proliferare di reti, patti, accordi progettuali. Si moltiplicano network che hanno una caratteristica che li accomuna, il loro carattere ibrido, misto, più vicino al modello di una filiera aperta che attraversa i confini tra pubblico e privato, sociale ed economico. Il quesito è se questo proliferare di network condurrà ad una sedimentazione di nuova capacità di governo del territorio e del suo sviluppo. Dal percorso di ascolto è infatti emersa una domanda di coordinamento che tiene conto del carattere oggi forse troppo disperso dei network. L'aspetto interessante è dunque capire se queste reti siano principalmente meccanismi per agire competenze tecniche oppure costruire convenienze di mercato e politiche di breve periodo oppure designino una capacità regolativa emergente capace di durare.

Tutto ciò esige la definizione di una agenda territoriale che sappia riformulare il tema dello sviluppo locale come capacità del territorio di incorporare e tradurre le forme di innovazione connettendosi alla dimensione dei flussi. La resilienza non è un processo orizzontale ma un’avanguardia che attiva la comunità. L’agenda territoriale può funzionare se è selettiva, se sostiene l’innovazione diffusa, ne incentiva la crescita, prova a costruirne la connessione con il resto del tessuto comunitario.

Da questo punto di vista l'indicazione che ci pare emergere da questo breve percorso è in primo luogo che le politiche se vogliono provare a re-innescare processi di sviluppo che siano inclusivi devono essere selettive, debbono scegliere. Lo sviluppo parte non solo e non esclusivamente da ciò che la comunità sa già, ha sempre saputo ma per una certa fase storica ha dimenticato, oppure dalla sola aderenza ai valori locali, bensì dall'intreccio, dalla connessione, dalla

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contaminazione reciproca tra ciò che la comunità sa già e ciò che si pensa e si fa all'esterno, in altri luoghi ma che può essere scomposto e ricomposto per essere reso appropriabile nel territorio. E' un nuovo tipo di conoscenza ibrida che nasce e si forma nel corso del processo di interazione tra forze interne ed esterne, tra soggetti sociali ed economici, pubblici e privati, la conoscenza che serve per rimettere in moto la macchina dello sviluppo locale nei territori: dall'Isola all'alta Val Seriana. Per non subire processi di innovazione agiti dall’alto e dall’esterno, occorre che i territori sappiano esprimere capacità di selezionare saperi e culture esterne adottando ciò che ritengono utile a formulare soluzioni e innescare processi che siano in grado di affrontare le sfide di una economia turbolenta.

Nel report che segue si riporterà in primo luogo i principali esiti di ricerca su entrambi i campi dell’innovazione diffusa, quella attiva nel mondo dell’impresa tradizionale, e poi quella mappata con le esperienze di innovazione sociale. Iniziamo dalla dimensione d’impresa e dal rapporto tra tecnologie, impresa e saperi.

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Innovazione diffusa e impresa

La creazione di nuove imprese: alcuni dati di sfondo

Nell’inquadrare almeno per sommi capi il rapporto tra fenomeni di innovazione

diffusa e mondo dell’impresa “tradizionale”6 dapprima forniremo alcuni dati di sfondo riguardanti il tema della nascita di nuove imprese; in seconda battuta si tratterà dell’innovazione tecnologica e imprenditoriale nelle PMI riportando anche l’esperienza di alcuni case study raccolti in una precedente ricerca svolta dal Consorzio AAster sempre sul territorio di Bergamo7.

Il grafico sottostante mostra l’andamento nel lungo periodo sia dello stock di imprese attive che del flusso di nuove imprese che tra 1995 e 2016 si sono iscritte ai registri camerali. Pur quanto, ovviamente, non tutte le nuove imprese nate in un determinato periodo di tempo possano essere considerate anche imprese innovative, è evidente come la natalità di nuove organizzazioni imprenditoriali rappresenta un fenomeno importante per comprendere le direzioni dello sviluppo locale, non solo perché la creazione di nuove imprese è associata almeno in termini prospettici alla crescita dell’occupazione e del reddito, ma perché ragionevolmente almeno un frazione delle nuove imprese è portatrice di innovazioni contribuendo all’evoluzione del sistema economico locale.

Come si può notare (graf. 1) il processo di creazione di nuove imprese si mantiene elevato fino alla vigilia della crisi attestandosi per tutto il decennio 1995-2007 attorno all’8 % dello stock di imprese attive. Con il 2008 il trend si inverte è il numero di nuove iscrizioni inizia un declino mai arrestatosi, arrivando alla fine del 2016 ad attestare il numero di nuove iscrizioni a 5.395 (-1.860, il 25 % in meno rispetto al 2007). Tuttavia la caduta nella propensione del territorio a produrre nuove imprese non è distribuito uniformemente tra i settori: concentrando l’attenzione sul periodo della crisi (2009-2016), vediamo come a fronte di leggeri aumenti nella capacità di generare nuova impresa in agricoltura, nei servizi

6 In questa sede utilizziamo la qualifica di tradizionale unicamente per indicare la forma-impresa di tipo

capitalistico non in quanto non innovativa ma in quanto modello già affermato e consolidato. 7 Bergamo Smart Land. Fare rappresentanza nella transizione del capitalism intermedio, Consorzio A.A.ster

e Imprese&Territorio, marzo 2017.

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all’impresa (+38 %) e nelle attività di cura (sociale e sanitario), si assiste ad una caduta nel manifatturiero (-24,4 %), nelle costruzioni -42,2 %), nel piccolo commercio (-16,8 %). A questi tre settori è ascrivibile il 45 % del calo complessivo. Il grafico 1 mostra come la caduta del flusso di nuova imprenditorialità a partire dal 2008 sia molto più rapida del rallentamento a cui progressivamente va incontro anche il tessuto di impresa complessivo. D’altronde il dato sulla diminuzione costante delle nuove imprese in forma individuale, evidenzia come il ciclo dell’impresa molecolare e personale proliferante sia arrivato a conclusione.

Graf. 1: N.indice delle imprese attive e delle nuove iscrizioni (1995=100; 2016)

Fonte: elaborazioni AAster su dati Movimprese.

Il rallentamento nella capacità generativa del mondo imprenditoriale “tradizionale” è confermata anche dai dati riguardanti le “nuove” forma di imprenditorialità: specificamente le imprese giovanili, create da imprenditori under 35 anni, le imprese femminili e le imprese straniere. Anche in questo caso nuova impresa è qualifica diversa da impresa innovativa, e tuttavia il dato suggerisce la fine del vecchio ciclo diffusivo. Tra 2011 e 2016 lo stock delle imprese giovanili diminuisce del 19,8 % e l’insieme delle nuove imprese giovanili cala del 25,1 %. Meno decisa la caduta nella propensione a creare nuove imprese femminili e in parte in contro-tendenza il dato delle imprese straniere, il cui stock di sedi attive aumenta del 20 %, pur però accusando anch’esse una diminuzione del 10 % nella crescita delle nuove imprese con gestori stranieri.

Più vicini ad approssimare l’idea di impresa innovatrice, forse, ci porta il dato della creazione di startup innovative che vede Bergamo al terzo posto in Lombardia dietro Milano e Brescia. A Bergamo le startup innovative formalmente riconosciute

128,5

98,5

0,0

20,0

40,0

60,0

80,0

100,0

120,0

140,0

N.indice attive N.indice nuove iscrizioni

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sono crescite dal numero di 63 nel 2015 alle attuali 135. Come si può vedere a Bergamo in modo simile agli altri territori lombardi, tre settori esauriscono quasi l’85 % del fenomeno delle startup, con il 17,0 % operante nel settore del manifatturiero, il 30,4 % nel settore dei servizi digitali e il 37,0 % nel campo della R&S. Un profilo che fondamentalmente sembra collocare il fenomeno delle startup come una sorta di laboratorio diffuso per l’innovazione e la terziarizzazione dell’industria. In altre parole un segmento di un ecosistema dell’innovazione orientato a trasferire risorse di conoscenza verso l’impresa tradizionale.

Tab. 1: Settori di attività delle startup innovative in provincia di Bergamo (2017). Settore Numerosità % sul totale

-A Agricoltura, silvicoltura, pesca 8 5,9

-C Attività manifatturiere 23 17,0

-D Fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condiz. 2 1,5

-F Costruzioni 2 1,5

-G Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di auto 1 0,7

-H Trasporto e magazzinaggio 1 0,7

-I Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 1 0,7

-J Servizi di informazione e comunicazione 41 30,4

-M Attività professionali, scientifiche e tecniche 50 37,0

-N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto a imprese 4 3,0

-Q Sanità e assistenza sociale 1 0,7

-S Altre attività di servizi 1 0,7

Totale 135 100,0 Fonte: elaborazione AAster su dati archivio startup Registro delle Imprese (ottobre 2017).

In Provincia di Bergamo nel corso dell’ultimo decennio si è strutturato un forte sistema dell’innovazione per l’impresa. Sul territorio le principali strutture dedicate all’innovazione d’impresa oggi operanti sono l’incubatore insediato al Point di Dalmine gestito dall’azienda speciale camerale Bergamo Sviluppo, e il Parco Scientifico e Tecnologico del Km Rosso, promosso nel 2003 dall’azione congiunta delle due grandi imprese storiche del territorio, la Brembo e Italcementi. Rivolti al settore medico sono l’istituto Mario Negri e il Centro Ricerche Daccò sulle malattie rare e in campo agricolo il centro CREA-IT di Treviglio nonché il laboratorio Water & Life rivolto al distretto della “Quarta Gamma”. Oltre a 25 coworking mappati sull’intera provincia (sono 11 a Bergamo città) e due spazi di makers e Fablab, due piattaforme locali di crowdfunding (con 44 progetti finanziati sul territorio provinciale), in provincia sono mappate 48 stampanti 3D attive8 utilizzate da singoli, imprese, FabLab, Centri Servizi, ecc. Questo insieme di infrastrutture per l’innovazione d’impresa funziona almeno in parte come un sistema, sviluppando reti di relazione tra le infrastrutture stesse e alcune esperienze di innovazione diffusa. Si

8 Censimento della piattaforma 3DHubs (2016).

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possono citare, infatti, scambi e relazioni cooperative tra l’attività di Bergamo Sviluppo e Talent Garden, tra Bergamo Sviluppo e KmRosso attraverso l’esperienza del Consorzio Intellimech dedicato all’innovazione delle PMI nel settore meccatronico, con una partnership che ha portato all’insediamento di laboratori di prototipazione del Consorzio al Point di Dalmine, la partnership tra KmRosso e rete Pass@Work per l’insediamento del coworking solidale nell’area del Parco Scientifico.

Sul fronte Brevetti, Bergamo è la terza provincia lombarda dietro a Milano e Brescia. Sul piano che potremmo definire più strettamente dell’innovazione diffusa, la piattaforma Italia che Cambia censisce sul territorio bergamasco 16 progetti (su 262 a livello regionale). Sono numeri che non acquistano valore in sé stessi, quanto come segnali di un territorio caratterizzato da una dotazione cospicua di infrastrutture per l’innovazione istituzionalizzate e nel contempo di una vivacità di iniziative informali ma alla ricerca di una loro strutturazione. Ed è proprio nel mettere in luce l’esigenza di una maggiore strutturazione e di una capacità di coordinamento e sintesi che si sono appuntate le richieste di policy delle esperienze che hanno partecipato alla ricerca nel tavolo di Bergamo.

L’innovazione diffusa nel mondo della piccola e micro-impresa manifatturiera: il modello dell’artigianalità aumentata

La transizione del capitalismo molecolare rappresenta la sfida fondamentale che

l’Italia ha di fronte. Anche a Bergamo, sebbene l’evoluzione del cluster di vertice delle medie imprese internazionalizzate e/o esportatrici costituisca un perno fondamentale del sistema industriale, il tessuto produttivo nella sua generalità non avrebbe retto senza la capacità della piccola impresa di adattarsi e ricostruire le condizioni del proprio vantaggio competitivo. Sebbene le statistiche aggregate mettano in luce soprattutto le difficoltà e la durezza del processo di selezione che ha investito il mondo della piccola impresa, l’approfondimento qualitativo ci consente di mettere in luce quanto in realtà anche nel capitalismo dei piccoli si stia riproducendo quella dinamica di polarizzazione tra imprese innovatrici e imprese incastrate in modelli obsoleti.

Se valutata sul piano dei numeri, la capacità innovativa dell’impresa bergamasca è sostanzialmente in linea con quella degli altri territori manifatturieri e della regione; anzi, leggermente superiore. I dati della rilevazione Excelsior mostrano che nel 2014 il 16 % delle imprese bergamasche aveva introdotto nell’anno innovazioni di prodotto/servizio, con una propensione leggermente più elevata nell’industria (17,2 %) e una forte differenza nella propensione all’innovazione lungo il crinale

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dimensionale, con il 13,9 % delle micro-imprese ad aver introdotto innovazioni rispetto al 35,3 % della classe dimensionale oltre i 50 dipendenti.

Se dunque la dimensione o il settore produttivo rimangono fattori importanti, è anche vero che non costituiscono una condanna. Bisogna invece intendersi su ciò che intendiamo per innovazione: se l’innovazione disruptive è meno alla portata delle nostre PMI, l’Italia è un paese che da sempre pratica un modello di innovazione incrementale, leggera, combinatoria al cui centro è la capacità dell’imprenditore di ricombinare in modo flessibile i fattori produttivi per adattarsi al mutamento dell’ambiente competitivo esterno. Un secondo aspetto importante riguarda la diversa capacità delle imprese di produrre conoscenza e innovazione in proprio oppure di assorbire conoscenza innovativa dall’esterno attraverso sistemi di relazioni capitalizzando spillover tecnologici prodotti dal contesto piuttosto che da singoli interlocutori. La piccola e la micro impresa sono molto meno chiuse e restie alla cooperazione o all’incorporazione di conoscenza esterna di quanto spesso si racconti. Gli imprenditori manifatturieri, artigiani o terziari intervistati in precedenti analisi sul campo, rappresentano esempi di forte capacità di catturare esternamente conoscenza e skills utili ad innovare. Quelle analizzate sono tutte entità produttive estremamente flessibili, che si sono ridefinite in profondità all’impatto della crisi. Certo rappresentano una minoranza agente: ma per le caratteristiche che ora verranno presentate, questa minoranza agente rappresenta percorsi generalizzabili. Ma servono politiche e risorse collettive per farlo.

Qui accenniamo ad un particolare percorso di innovazione e di crescita che abbiamo rilevato tra le piccole e le micro imprese bergamasche e che abbiamo chiamato provvisoriamente il modello dell’artigianalità aumentata, utilizzando però il concetto di artigianalità non nel suo significato merceologico ma come sinonimo di modalità di produzione in piccola serie. Il fenomeno generale che emerge dal racconto degli imprenditori intervistati è un vero e proprio processo di industrializzazione della piccola e della micro impresa in atto, che tuttavia si realizza lasciandone intatta la natura di organizzazioni centrata sulla flessibilità artigiana. Ne esce un modello di organizzazione produttiva ibrida che abbiamo anche chiamato toyotismo dei piccoli per sottolinearne la contiguità con le caratteristiche della cultura manageriale postfordista che prende il nome dalla grande azienda giapponese, nonostante che quella cultura manageriale sia per lo più associata alla grande dimensione. Un modello che combina aspetti e cultura industriali con aspetti e cultura artigianale. Un modello da approfondire naturalmente per comprenderne estensione, caratteristiche e capacità di tenuta: e tuttavia, secondo noi, un modello la cui estensione al bacino delle PMI attraverso politiche industriali territoriali ad hoc, potrebbe consentire quel salto in avanti di competitività generalizzato che rappresenta la vera sfida della piccola impresa.

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L’ipotesi qui sostenuta è che il modello dell’artigianalità aumentata costituisca l’embrione di un nuovo modo di produzione capace di andare oltre il modello del made in Italy, cioè non limitato ai tradizionali settori produttivi delle cosiddette 4 A ma estensibile anche ad altri settori compreso il terziario. Una trasformazione potenzialmente sistemica che in alcuni laboratori produttivi c’è già, è già in atto.

La riorganizzazione della fabbrica: processi, tecnologia, saperi

Con il concetto di artigianalità aumentata in questa sede intendiamo

fondamentalmente un modello produttivo che integra apporti tipici dell’organizzazione industriale (conoscenza, ricerca, scienza, logiche di calcolabilità e misurazione, innovazione tecnologica, ecc.) sul corpo di culture, metodologie, saperi tradizionali dell’artigianalità mantenendoli centrali. Trainato dal riposizionamento di mercato su nicchie ad alto valore aggiunto e sulla crescita dell’export, esso comprende anzitutto un diverso modello di organizzazione del lavoro e di tecnologia produttiva, un diverso assetto anche dei confini della fabbrica. Ciò che i casi imprenditoriali analizzati nell’indagine del 2016 mostrano, è l’emergere di laboratori produttivi in cui il tema della fabbrica intelligente trova una sua realizzazione ma secondo modalità specifiche, emergenti e adatte al milieux della piccola impresa. Si tratta di un modello evolutivo che innesta sul corpo tradizionale della piccola impresa elementi che potremmo definire tipici dell’organizzazione industriale postfordista di stampo toyotista: organizzazione snella, ricerca dell’efficienza interna, innovazione tecnologica spinta con un forte ruolo del digitale, orientamento alla domanda con forte applicazione del modello del just in time, flusso produttivo governato dagli input del mercato. Allo stesso tempo un orientamento alla crescita occupazionale, all’acquisizione di conoscenza e capitale umano qualificato, una finalizzazione del processo produttivo alla iperspecializzazione del prodotto dovuta al posizionamento di nicchia, cura estrema della qualità e tempistica stretta e ridotta. Soprattutto l’avvio di un processo di organizzazione aziendale orientato alla formalizzazione, al controllo, alla misurabilità e calcolabilità attraverso lo strumento contrattuale sia all’interno che verso l’esterno: in definitiva un orientamento forte alla pianificazione. Allo stesso tempo, a questo processo di incorporazione di culture organizzative, formule produttive e tecnologiche finora considerate tipiche della grande industria e del perseguimento di economie di scala, si affianca il mantenimento di culture produttive, modalità di lavoro, centralità della funzione imprenditoriale, grande enfasi sulla flessibilità e sulle economie di varietà e di gamma, centralità dei saperi produttivi manuali tradizionali tipici del modo di produzione artigianale.

Uno degli aspetti emersi dalle interviste è che può essere interessante almeno citare è che di fatto molte aziende sono già fabbriche intelligenti in cui si utilizzano

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almeno parte delle tecnologie e dei processi produttivi riuniti sotto l’etichetta di “Industry 4.0”. Le imprese dell’automazione già prevedono nella loro offerta servizi strutturati lungo reti digitali e con applicazione di sensoristica, produzione e trasmissione di dati per affinare la componente di servizio secondo il modello dell’IOT; nell’artigianato device digitali vengono già utilizzati per regolare il processo produttivo. Si tratta di una Industry 4.0 quasi inconsapevole, in cui di fatto si sperimenta già da qualche tempo il processo di digitalizzazione della produzione e la sua terziarizzazione.

La produzione e la circolazione della conoscenza

Nel modello dell’artigianalità aumentata la produzione e l’assorbimento di

conoscenza è fondamentale. Anche su questo piano il primo aspetto da mettere in evidenza è che tutti i casi di impresa analizzati sono esempi di apertura, cooperazione e reti di scambio di conoscenza. Gli imprenditori intervistati cooperano e scambiano molto di più di quanto non appaia o di quanto corrisponda all’immagine tradizionale del piccolo imprenditorie individualista e chiuso in sé stesso. Sono ancora certamente un’eccezione. Eppure anche in questo caso va rimarcato che le esperienze descritte appaiono non eccezionali ma alla portata di qualsiasi imprenditore “medio”.

Da dove traggono i saperi le imprese? In parte cospicua li producono all’interno. In tutti i casi però la piccola impresa cattura e incorpora saperi dall’ambiente esterno: attraverso vari canali e reti. Va osservato che la piccola impresa non produce la conoscenza-sorgente al proprio interno. Ad esempio, nel caso studio di una PMI che opera nel campo dell’automazione, i software sono acquistati all’esterno così come i sistemi di visione per i robot; solo successivamente si avvia la fase di sviluppo per personalizzarli in base alle richieste della committenza. Per quanto riguarda gli ambiti in cui costruire reti di scambio ed acquisizione di saperi, le fiere rimangono ambiti ancora molto importanti dove venire in contatto con novità produttive e tecnologiche e attivare relazioni di scambio, trovare clienti. Poi sono importanti le relazioni con i committenti/clienti attraverso la costituzione di team compositi e densi reticoli di relazione. Reti di apprendimento sono operative anche rispetto alla committenza attraverso incontri tra tecnici, prove e visite sui fornitori, ecc. Le stesse associazioni vengono segnalate come bacini di informazioni e più che altro di formazione anche se più sugli aspetti dell’aggiornamento rispetto al mutamento della normativa. Gli aspetti tecnici e tecnologici vengono affrontati invece in proprio o attingendo a fornitori di servizi: nella formazione manageriale, nella formazione tecnica, sulla fornitura di softwaristica, ecc. Uno degli aspetti riscontrati riguarda l’importanza delle relazioni con le scuole e soprattutto le scuole tecniche e in parte

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l’Università: centrale è la capacità di collaborazione tra imprese e dirigenze scolastiche. Gli imprenditori che hanno bisogno di manodopera altamente qualificata si mettono autonomamente in connessione con il mondo della formazione per relazionarsi ad un bacino di lavoratori qualificati da cui poter attingere per le assunzioni. Per ora il rapporto rimane a livello di selezione del personale e non di creazione e implementazione dei saperi a livello territoriale di cui potrebbero beneficiare il sistema produttivo nel suo complesso. Tuttavia il rapporto di queste aziende con università e scuole è importante: molto del reclutamento delle figure più qualificate e giovani avviene attraverso queste reti che quindi consentono anche un ricambio dei saperi interni.

Le difficoltà di rapporto tra mondo della ricerca e PMI producono una doppia perdita: da una parte saperi che rimangono nel mondo accademico e che potrebbero trovare una loro applicazione nel diversificato e ramificato tessuto produttivo bergamasco; dall'altra conoscenze prodotte all'interno del sistema impresariale che permangono nelle singole aziende, spesso di piccole dimensioni, e che forse potrebbero essere ulteriormente sviluppati se ci fosse una maggiore condivisione. Lo stesso fenomeno di distanza e di disallineamento tra esigenze dell’impresa e ricerca, é segnalato da alcuni intervistati in riferimento al KmRosso, reputato lontano dalle esigenze del tessuto di PMI. Uno degli aspetti da non trascurare e segnalato da più voci che limita la capacità di assorbimento della conoscenza da parte della piccola impresa riguarda la mancanza di tempo: data la limitata divisione del lavoro interna alle imprese non c’è letteralmente tempo. Il problema fondamentale qui sta nel fatto che molto spesso le piccole e medie imprese, pur lavorando in ambiti in cui un'alta capacità innovativa è fondamentale, non trovano il tempo materiale per mettere a punto le loro idee. Il punto che qui si vuole sottolineare è che nel frammentato paesaggio del capitalismo molecolare bergamasco si trovano eccellenze e risorse che hanno difficoltà nel liberare il proprio potenziale o in incrementarlo proprio per le ridotte risorse delle imprese. Costruire migliori spazi di condivisione per questo sistema produttivo significherebbe aiutarlo a svilupparsi liberando un potenziale già presente, senza per questo snaturarlo delle sue specificità. Questa funzione di raccordo è terreno naturale delle associazioni di categoria che possono qui ritrovare un loro ruolo positivo. Che siano luoghi di circolazione dei saperi, incubatori di giovani imprese o esercitando una funzione di sintesi fra le imprese di settori specifici per poi portare queste necessità agli attori propri dei saperi quali sono il mondo accademico, il sistema scolastico e quelle delle scuole di formazione. Una operazione di censimento delle conoscenze presenti all'interno delle imprese dunque, e anche della domanda di conoscenza da parte delle imprese stesse, potrebbero risultare utili. Il tempo è una risorsa preziosa per le piccole imprese in cui spesso l’imprenditore svolge molte mansioni oltre a quella di manager. L’innovazione ha

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tempi lunghi e difficilmente investire su di essa porta a risultati tangibili nel breve periodo. Tuttavia la necessità di tenere vivace e creativo il tessuto produttivo di un territorio è una istanza condivisa da molti.

Infine un ultimo accenno a una questione importante. Come misurare l’innovazione? Sicuramente il numero di brevetti non è il solo indicatore. Non che non sia importante. Ma tutte le imprese intervistate fanno innovazione e si tutelano senza utilizzare lo strumento del brevetto. Perché? Per due motivi di fondo. Il primo semplicemente perché spesso è uno strumento fuori scala per le PMI, non utilizzabile in modo efficace. I costi per avviare il brevetto ma soprattutto per renderlo esigibile dimostrando nelle sedi legali l’eventuale danno subito da concorrenti sono del tutto fuori scala per piccole imprese con produzioni di piccola scala estremamente personalizzate e custom-made. Il brevetto tutela chi fa produzioni di scala. Al contrario è il carattere di nicchia del mercato, con l’estrema personalizzazione del prodotto e la capacità di innovazione tecnologica continuata le armi utilizzate dalle PMI per difendere le proprie innovazioni. La seconda ragione è ancora più interessante: molte aziende che per struttura e storia potrebbero apparire “tradizionali”, in realtà prosperano e innovano non sulla difesa di un potenziale monopolio della conoscenza quanto sulla possibilità che la conoscenza stessa circoli e sia condivisa. Proprio il carattere incrementale dell’innovazione praticato dalle PMI rende la possibilità di scambiare, condividere e far circolare conoscenza una risorsa più che un rischio. La conoscenza innovativa scorre attraverso una sorta di ragnatela di relazioni che legano aziende con altre aziende o istituzioni. L’innovazione tecnologica è una pratica continuata per difendere la nicchia di mercato. E’ molto ridotta la possibilità di valorizzare in serie le singole innovazioni e soluzioni nel medio periodo: dato l’elevato grado di personalizzazione, ogni commessa fa quasi storia a sé e deve produrre ogni volta conoscenza innovativa.

L’industrializzazione dei piccoli

Tutte le aziende intervistate pur con le peculiarità settoriali che si possono

immaginare si distinguono per un percorso di riorganizzazione di stampo industriale. Questo processo evolutivo, accelerato dalla necessità di rispondere alla sfida della crisi e al riposizionamento di mercato ha quattro caratteristiche fondamentali, tali per cui abbiamo utilizzato per descriverlo l’immagine di un “toyotismo dei piccoli” insieme al concetto di artigianalità aumentata.

La prima caratteristica riguarda la centralità dell’incorporazione di saperi formalizzati, scientifici, di knowledge esterno al nocciolo tradizionale dei saperi pratico-operativi. Possono essere saperi tecnologici, manageriali, attinenti alla sfera

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del digitale, possono essere di tipo linguistico e culturale: il fatto importante è che tutte le aziende intervistate hanno rafforzato la componente progettuale del proprio know-how creando reti esterne di acquisizione di sapere. Acquisendo nuova forza lavoro su questo fronte, ampliando le unità organizzative progettuali, realizzando importanti investimenti non soltanto nella formazione ma nell’acquisizione di componenti software. Non solo per quanto riguarda la softweristica legata alla produzione manifatturiera, quanto anche quella legata ai sistemi di gestione dei flussi produttivi e organizzativi interni. Soprattutto nel manifatturiero gli uffici di progettazione prevalgono sulle funzioni di produzione: è la connessione tra cervello di progettazione e specifiche di committenza che guida la produzione. Su questo piano l’assorbimento di tecnologia digitale è fondamentale: nelle aziende analizzate la penetrazione dei devices e delle applicazioni, dei software di progettazione come delle interfacce tra macchine e lavoro umano, è profonda. Cambia in primo luogo la fabbrica, internamente alle mura: in un certo senso ritorna centrale il tema dell’organizzazione del lavoro. L’organizzazione aziendale interna che ci è stata descritta assomiglia ad una rete intelligente che connette e permette di controllare il processo produttivo sincronizzando esterno (il mercato, i fornitori) e interno mediante applicativi e tecnologie. A prescindere dalla dimensione. Su questo è interessante confrontare il caso delle riorganizzazione aziendale di due imprese: una media impresa del tessile e una piccola impresa artigianale della moda. In entrambi i casi, nonostante le diversità di dimensione e complessità organizzativa, il riposizionamento di mercato traina l’acquisizione di nuove macchine e tecnologie che permettono nuove produzioni personalizzate rispondenti ad una domanda quasi sartoriale raggiungendo però produttività e taglio di costi e tempi di risposta degni di una organizzazione con economie di scala.

Conseguentemente, secondo aspetto, in questo modello produttivo ibrido di artigianalità e industrializzazione, i saperi e la formazione del capitale umano diventano fondamentali. Per le aziende intervistate saperi e lavoro richiesti sono sempre più un mix tra lavoro manuale altamente specializzato in grado di gestire produzioni tendenzialmente a pezzo unico (ma su questo incide molto l’intensità della scala produttiva e della dimensione) e dotato di saperi digitali. Questo pone un tema centrale di ridefinizione della cultura produttiva della forza lavoro. Gli intervistati descrivono una figura di lavoratore dotato di abilità artigianali e di manualità su cui innestare la capacità di gestire interfacce digitali uomo-macchina. Anche i gestionali interni esigono una forza lavoro acculturata in questo senso. Conseguentemente produzione, progettazione e commerciale in alcune delle aziende intervistate sono uffici che oltre ad aver aumentato rilevanza e organico (insieme alle funzioni di planning) hanno rinnovato le competenze e la generazione anagrafica.

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Dunque di quali saperi e formazione c’è bisogno? C’è bisogno di una forza lavoro che sappia organizzare e gestire il flusso produttivo e allo stesso tempo intervenire sulla singola macchina e/o sul singolo passaggio o prodotto. Con in più l’accorciamento se non l’annullamento delle distanze tra progettazione e produzione che non appaiono più così separate. Il mix emergente è un intreccio di saperi applicativi e capitale: un saper aumentato più che radicalmente diverso. Da quello che sembra emergere in questi atelier produttivi si applica un processo produttivo che costituisce una applicazione di fatto di processi che oggi vengono etichettati con il logo dell’industria 4.0 ma che a macchia di leopardo sotto la pressione della competizione vengono già in parte applicati. Lo sono però senza sistematicità.

A partire da questa composizione della conoscenza interna emerge una terza caratteristica molto importante: anche nei piccoli atelier produttivi si innesca un processo di formalizzazione, calcolabilità e in ultima analisi astrazione dei processi. L’organizzazione del lavoro diventa più chiara e definita, una serie di processi, ruoli e funzioni interne vengono più chiaramente definite imponendo anche una definizione più chiara dei saperi. Come già più volte accennato si rafforzano funzioni e logiche di planning per “tirare” e organizzare il flusso produttivo e per coordinare i flussi interni con quelli esterni allo scopo di rendere più produttiva l’azienda. Tutto deve tendenzialmente diventare calcolabile, misurabile e tendenzialmente modificabile da una intelligenza di controllo. E’ un punto su cui posare l’attenzione poiché ha importanti conseguenza non solo sul piano della produttività e della competitività delle PMI, quanto del loro rapporto con il territorio. Da un certo punto di vista, infatti, questo processo di vera e propria industrializzazione della piccola impresa è parte di un passaggio verso una ulteriore astrazione dei processi di produzione del valore: va capito quanto in prospettiva i saperi freddi, il processo di astrazione, non si “mangi” la dimensione dei saperi caldi, dell’intimità dei nessi che costituisce l’essenza del modello storico della piccola impresa. Quello che per ora possiamo dire, magari in attesa di futuri approfondimenti, è che questo processo a spezzoni e per emergenze localizzate sta facendo capolino. La citazione precedente ci introduce alla quarta caratteristica importante del modello, la trasformazione della filiera produttiva.

L’industrializzazione della filiera

Le filiere produttive costituiscono il meccanismo principe con cui un sistema

produttivo centrato sulla piccola dimensione costruisce la sua competitività e il suo modello di divisione del lavoro. La transizione in uscita dal modello dei distretti produttivi omogenei e orizzontali già negli anni ’90, lascia progressivamente il posto

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all’emergere di filiere in cui una larga parte delle imprese, principalmente manifatturiere ma non solo, affronta il mercato in posizione di anello intermedio nella catena del valore. A partire dalla fine degli anni ’90 poi si afferma progressivamente il modello delle cosiddette catene del valore globali, filiere progressivamente sempre più lunghe e complesse alle quali imprese di paesi diversi aggiungono via via spezzoni del valore. Le singole fasi produttive sono frammentate e realizzate in luoghi diversi. L’impatto della digitalizzazione accentua ancora di più la possibilità di allungare e frammentare le filiere globali: nella logica dell’industria 4.0 la possibilità di spedire progetti e specifiche di produzione complete via bit permette in linea teorica di disperdere le filiere ovunque esista una società sufficientemente dotata di cultura e infrastrutture produttive. Su questo piano l’impatto del 4.0 sui rapporti tra fabbrica e filiera di fornitura potrebbe essere di rottura nella misura in cui al concetto di prossimità fisica si sostituisce quello di prossimità funzionale e diventi possibile spedire le specifiche di un prodotto necessarie per stamparlo in 3D in prossimità del cliente9. Al contrario i vantaggi localizzativi della prossimità rimangono quando la catena di fornitura sia profondamente integrata nel territorio e quando sono importanti i risparmi sui costi di logistica. Condizioni che naturalmente dipendono dai settori ma che rimangono anche per produzioni di fascia alta come mostrato nel caso dell’impresa tessile intervistata:

Il tema centrale tuttavia è ancora un altro. Le nuove condizioni di competitività imposte dal generale spostamento verso le fasce alte del valore e verso un modello delle nicchie di mercato impone la ridefinizione del tradizionale modello di organizzazione della filiera di prossimità funzionante attraverso relazioni di fiducia informali. Questo modello da solo non è più sufficiente e, anzi, tende a venire percepito dalle aziende che fungono da pivot nelle reti di fornitura come uno svantaggio competitivo legato all’identità produttiva del territorio. Il meccanismo fiduciario legato alle culture produttive e al tipo di imprenditorialità fondata sulle relazioni informali viene ritenuto incompatibile per l’inserimento in catene del valore sempre più lunghe e formalizzate. Questo non soltanto da parte di aziende medie capofiliera quanto anche da imprese artigiane che però operano in settori di alta gamma su mercati di nicchia internazionali. Tutto ciò ha alcune ulteriori implicazioni.

In primo luogo il territorio come spazio delle filiere del valore è ormai uscito dalla dimensione del locale. Per molte imprese anche piccole la filiera va dal comune alla dimensione europea che per molti ormai è una dimensione domestica. Tutte le imprese manifatturiere e artigiane intervistate dislocano le proprie reti di fornitura tra la bergamasca e i paesi europei. In secondo luogo, è forte la pressione a

9 A:Magone e T.Mazali (a cura di), Industria 4.0. Uomini e macchine nella fabbrica digitale, Guerini e

associati, Milano, 2016.

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gerarchizzare le relazioni di filiera, a differenziare la rete, ma soprattutto a stringere i rapporti, formalizzarli, renderli misurabili, calcolabili, tradurre in contratto ciò che prima era proprio di una cultura materiale informale. E’ il medesimo processo visto all’opera tra le mura della fabbrica che scende per i rami delle filiere e tende a trasformarle in una sorta di unica unità produttiva, un reparto distaccato dell’impresa committente. E un processo strutturale che deriva dagli imperativi del posizionamento nelle fasce alte del valore e che fa il paio con la richiesta crescente di processi di certificazione per l’accesso a questo tipo di filiere. Si tratta di una struttura competitiva che, se da un lato consente di scalare la catena del valore e recuperare margini, dall’altro lato impone costi passivi di consulenza per accedere a quei saperi certificatori e formali che la piccola impresa non può internalizzare dentro le sue mura. Su questo dalle interviste emerge una forte richiesta di intervento al mondo associativo per potenziare quelle funzioni di servizio collettivo che potrebbe sollevare le imprese da questi costi e che le singole associazioni attualmente non sono reputate in grado di assolvere completamente. Un campo di intervento per il sistema della rappresentanza unitario.

Questa pressione per l’industrializzazione e l’organizzazione della filiera presenta però un’altra dimensione interessante per le PMI: la richiesta forte di partnership, di co-progettazione, di pro-attività nella progettazione e nei processi di innovazione. Qualcosa che, almeno potenzialmente, potrebbe indurre un processo di crescita nel fornitore e che lo stesso potrebbe poi tradurre in una capacità di accedere autonomamente al mercato. L’aspetto più interessante dei casi imprenditoriali che stiamo raccontando è la capacità di apprendere dalle relazioni di committenza. Le imprese di filiera riescono a beneficiare di economie di specializzazione e di apprendimento, accumulano competenze e relazioni che permettono loro attraverso un processo di selezione che li fa emergere come fornitori di primo livello di unità operative di grandi multinazionali e consente loro di inserirsi in altre reti di fornitura internazionali e dall’altro di passare dalla semplice fornitura alla collaborazione nella progettazione dei prodotti e al co-design. La transizione al modello della co-progettazione o, per utilizzare le parole degli imprenditori della partnership, potrebbe definire un campo d’azione importante per il sistema associativo. Rimane da segnalare una questione importante: anche per imprese “modello” come quelle qui raccontate nonostante la capacità di stare su posizioni alte nelle filiere del valore, i margini si sono ridotti. Da questo punto di vista l’ulteriore allungamento e sventagliamento delle filiere globali ha portato per le imprese intermedie una erosione dei margini di ricavo, fattore da tenere in conto e che deriva dalla collocazione del paese dentro la divisione internazionale del lavoro in posizione di fornitura, per quanto di qualità.

Dunque tirando le somme di questo breve excursus, possiamo dire che sta emergendo un inedito modello di crescita per integrazione verticale lungo linee

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esterne? Un mix di gerarchia e rete, di organizzazione e mercato? Un modo con cui il capitalismo di territorio prova ad adattarsi agli imperativi della globalizzazione e al fatto fondamentale che le reti corte e dense da sole non sono più sufficienti a garantire la qualità e i processi necessari per garantire l’abbattimento dei costi di coordinamento come nella fase dell’orizzontalità dei distretti? Se è così, come il mondo della piccola impresa può rispondere in modo sistemico a questa sfida che porta in sé sia elementi di opportunità –la co-progettazione- sia elementi di rischio –la gerarchizzazione dei rapporti di fornitura? Una soluzione univoca non è alla portata immediata. Ci sembra però che proprio di fronte a questa sfida il tema della ricostruzione di una “nuova intimità” dei nessi dentro assetti più verticali, a rete lunga e contrattualistici, costituisca il terreno di riflessione. E’ un processo ambivalente dove l’onere è trovare un equilibrio tra spinte all’astrazione e formalizzazione, dunque verso “nessi freddi”, e spinte alla valorizzazione degli aspetti e dei saperi, delle identità produttive e quindi dei “nessi caldi”.

La terziarizzazione della manifattura.

Lo spostamento in alto nella catena del valore implica la ridefinizione del prodotto

attraverso l’introduzione nel processo produttivo di una forte componente di servizio e di tipo simbolico. L’esito è un vasto processo di terziarizzazione dell’industria manifatturiera con la crescita dentro la fabbrica o nella filiera di fornitura di figure professionali, di processi e di competenze tipicamente terziarie e/o culturali. Una delle componenti di innovazione accelerata dalla crisi è dunque la cosiddetta “servitizzazione” del prodotto, ovvero l’introduzione di componenti di servizio nel prodotto che diventano voci sempre più rilevanti nel determinare il valore e la competitività dell’azienda e dei suoi prodotti. L’aspetto interessante è che questo processo di complessificazione del business e delle fonti di generazione del valore riguarda non soltanto la manifattura o le costruzioni, ovvero settori in cui al prodotto materiale viene aggiunta la componente immateriale, quanto anche il settore terziario dove sempre più ad un prodotto core (ad esempio un software) si aggiungono come componente costitutiva servizi abilitanti per il cliente che divengono una componente fondamentale del valore aggiunto e della competitività dell’azienda. Ve ne è presenza tra le imprese del manifatturiero attive in settori come l’automazione dove attraverso la connessione in rete delle macchine, queste sono vendute corredate da un servizio di monitoraggio delle performance in remoto, via web. Le competenze necessarie sono comunque interne al processo produttivo: il sapere terziario in questo caso è uno sviluppo del sapere

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manifatturiero e la figura professionale che presiede al servizio deve aver partecipato al processo produttivo del prodotto.

La terziarizzazione si sviluppa anche come regnatela del valore esterna alle mura dell’azienda. Processi di innovazione tecnologica o di internazionalizzazione richiedono l’acquisto di servizi legali, consulenziali, tecnologici, ecc. Anche a Bergamo nel corso dell’ultimo quindicennio si è assistito alla crescita esponenziale di un terziario di servizio all’impresa. Tuttavia le imprese intervistate per lo più utilizzano o servizi associativi oppure tendono a non utilizzare il mercato del terziario qualificato locale. Le reti di fornitura hanno per lo più un’estensione che si allunga a coprire l’intero nord e spesso originano dalle stesse reti di fornitura della committenza.

Fabbisogni formativi e riforma dei saperi

La trasformazione nei processi di formazione del capitale umano e dei saperi in

rapporto sia alle ondate di innovazione tecnologica che ai cambiamenti sociali e ambientali del territorio, rappresenta un aspetto centrale del processo di innovazione diffusa.

Sul piano del capitale culturale e dei saperi incorporati nel tessuto produttivo del territorio, alcuni dati mostrano che un processo di upgrading delle dotazioni è avviato, ma che allo stesso tempo il gap da colmare dovuto principalmente alla tendenza dei giovani ad un impiego precoce, è ancora ampio. Gli ultimi dati relativi alle previsioni delle imprese per il trimestre settembre/novembre 2017 indicano che la quota di laureati richiesti dal sistema imprenditoriale (16,3 % delle assunzioni previste) è due punti superiore alla media nazionale. Il 24,9 % delle previsioni riguarda poi profili professionali “high-skill” ad elevata specializzazione, un dato che a Bergamo è quasi tre punti percentuali superiore alla media nazionale. Prevalente è soprattutto la richiesta di profili tecnici, centrali per un sistema manifatturiero saldamente centrato su produzioni intermedie.

BOX 1: Un confronto con i titoli di studio dei dipendenti delle imprese di Bergamo (Istat, 2015). Quali sono le dotazioni effettive di titoli di studio dei dipendenti di tutte le imprese attive nel 2015? Bergamo sta recuperando in buona misura il gap storico di un minore investimento in istruzione che è stato per decenni correlato ad un più agevole e prematuro ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Se tuttavia si guarda alla composizione per titolo di studio dei dipendenti delle imprese all’anno 2015, il divario da colmare è ancora ampio:

Bergamo ha una quota di dipendenti laureati (10,9%) che è di oltre sei punti inferiore alla media lombarda (17,1%) e tuttora inferiore al dato nazionale (14,8%).

Il peso relativo di dipendenti con istruzione che non va oltre l’obbligo scolastico è del 44% (contro il 35,1 lombardo e il 36,5 nazionale). Nelle tipologie di lavoro operaio questa quota a Bergamo è pari al 66,1%.

Occorre perciò prestare attenzione al complesso lavoro di riqualificazione e ricollocazione professionale degli organici attuali e alla mobilità job to job ancora “congelata” dai molti anni di crisi e che ora potrebbe rimettersi in moto.

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Estratto da Sistema Excelsior: previsioni settembre-novembre 2017.

Un esempio importante riguarda certamente il processo di innovazione avviato dalla Provincia nel campo della formazione pubblica dei saperi progettando la trasformazione dell’Azienda di Formazione Pubblica ABF in una fondazione di territorio. Nel concreto sono stati aperti al mondo della piccola impresa profit e del no-profit i meccanismi di selezione del gruppo dirigente, provando ad agganciare il sistema della formazione e dell’impresa direttamente con una contaminazione reciproca di bacini e saperi sociali e tecnici. Parallelamente sul territorio sono sorte alcune agenzie di formazione ai nuovi saperi produttivi come Fablab o coworking.

Un passaggio importante riguarda anche i processi di trasformazione degli istituti scolastici professionali e tecnici. Sotto questo aspetto, sul territorio sono attivi una pluralità di relazioni, accordi, convenzioni, ecc. tra scuole e aziende che stanno portando innovazioni molecolari nella qualità e nelle metodologie di formazione cercando di sintonizzarle sui bisogni del sistema produttivo. L’esempio del comprensivo Betty Ambiveri di Presezzo, nell’Isola, è interessante. Attraverso progetti con le aziende, la scuola sta adattando figure professionali e contenuti alle nuove tecnologie della digitalizzazione mutando anche le metodologie didattiche e aprendo i percorsi formativi a figure provenienti dal mondo produttivo.

“Sono riuscita ad entrare in relazione con varie aziende del nostro territorio. Con 6 di loro ho fatto

una convenzione per portare l’innovazione all’interno dell’istituto. Abbiamo due progetti in corso “L’azienda scuola, scuola in azienda” e “Industria 4.0”. Oltre docenti interni che fanno formazione teorica su tematiche curricolari, ci sono poi esperti provenienti dalle aziende che affrontano temi a livello più pratico. Gli studenti vanno in azienda per osservare, studiare processi ben precisi, cercano di cogliere criticità e in base a quello che hanno appreso a livello teorico fanno anche proposte migliorative. Questi progetti stanno prendendo piede con soddisfazione sia degli studenti, sia delle aziende. Come scuola ci teniamo anche a dire che l’innovazione tecnologica non deve dimenticare che dietro a tutti i processi tecnologici ci sono delle persone che devono portare a loro unicità, percezione, intuizione, creatività. E’ fondamentale sviluppare nei ragazzi uno spirito critico. Per fare questo utilizziamo le metodologie didattiche. L’innovazione tecnologica si cala nella scuola cambiando le metodologie didattiche. Ci siamo aperti al territorio non solo con le aziende. Siamo portando avanti progetti extracurricolari, serali, aperti al territorio. Anche progetti di tipo artistico culturale, la scuola non deve dare solo dei tecnici al territorio. Gli studenti lavorano anche su progetti trasversali a partire dai temi della salute e della cura. Stiamo lavorando sulla pubblicazione relativa alla memoria del territorio. Secondo me sul nostro territorio abbiamo tante reti, i nostri progetti devono lavorare attorno ai temi della coesione sociale, dell’inclusione, della valorizzazione delle risorse territoriali. La scuola in questo svolge un ruolo strategico, gli enti come la Provincia devono portare a sintesi le reti e le iniziative per fare da cabina di regia. Tante reti da sole non producono quanto potrebbero produrre se coordinate. Bisogna inglobarle in qualcosa di più ampio” (Focus Group Isola).

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C’è però una questione di fondo che va affrontata, e l’indicazione di ci viene sempre dall’area dell’Isola. L’attrattività del territorio oltre che da una positiva cultura generale del lavoro, dipenderà dalla capacità delle istituzioni formative di formare nuove figure professionali e saperi ibridi (tecnologico-sociali) sempre più richiesti dalle aziende, soprattutto se grandi e ad alta intensità di capitale. Il caso di Aruba, big player del digitale è sintomatico: oggi il principale limite alla ulteriore crescita dell’azienda deriva proprio dalla scarsità di risorse umane adatte:

“In quest’area pensavamo anche di avere più facilità di intercettare risorse umane, fino ad oggi è

stato abbastanza facile, siamo arrivati, dobbiamo assumere, abbiamo intercettato tutti i pendolari bergamaschi e bresciani che prima gravitavano su Milano e che ora possono fermarsi a Dalmine. Sullo step successivo troviamo difficoltà, nel 2016 il gruppo ha inserito 127 persone, stiamo crescendo in maniera importante, Avremo fatto mille colloqui ma la qualità delle persone che arrivano lascia desiderare. Pensavamo che arrivare in un area fortemente industrializzata, dove ci sono più partite IVA che in tutta la Toscana, ci avrebbe facilitato. Oggi abbiamo il problema delle risorse umane” (Focus Group Isola).

Per alcuni aspetti possiamo dire che i problemi sul fronte della formazione e dei

saperi derivino anche, per paradosso, dal successo e dalla capacità di tenuta del sistema imprenditoriale. Bergamo rimane uno dei territori con livelli di dispersione scolastica più elevati perché rimane forte la cultura del lavoro giovanile precoce, specializzando molto presto le competenze di cui è portatrice la forza-lavoro e soprattutto riducendo complessivamente il capitale culturale del territorio. I dati delle indagini Excelsior sui fabbisogni delle imprese attribuiscono con pari intensità le motivazioni delle difficoltà di reperimento di forza-lavoro adeguata sia ad una “scarsità di candidati” che ad una loro “inadeguatezza”. Un ulteriore elemento è poi dovuto alle problematiche di mancato coordinamento tra tutti i soggetti delle politiche attive del lavoro e del mondo formativo e dell’impresa. Spesso le competenze ricercate dalle imprese sono contenute in archivi di cui le imprese stesse non sono a conoscenza. Come è emerso in uno dei tavoli di concertazione dell’area dei laghi, quello dedicato alla formazione: un tavolo che ha anche un altro elemento di interesse essendosi trasformato in un momento di ridefinizione dello spirito comunitario dell’area (si veda paragrafo dedicato).

Se si guarda al profilo delle competenze e delle figure professionali di più difficile reperimento da parte delle imprese, la più recente indagine svolta dal mondo camerale, individua nelle aree tecniche e di progettazione (45,4 % delle entrate previste nel trimestre settembre/novembre 2017) e nell’area direzione e servizi generali affine alle funzioni di planning del processo produttivo oggi sempre più centrali, gli ambiti più critici, quelli in cui la scarsità di capitale umano con le caratteristiche richieste si fa più sentire.

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Innovazione diffusa e territorio

Bergamo: le reti dell’innovazione tra smart city e smart land

Bergamo, nonostante le dimensioni ridotte rispetto ai poli metropolitani come

Milano, Torino o Roma, rappresenta con Trento la capofila di un blocco di città medie che nel corso degli ultimi anni sono cresciute sul piano dell’innovazione economica e sociale. Nella più recente classifica disponibile sulle smart cities italiane, Bergamo nel 2017 si classifica sesta con un’avanzata di sei posizioni rispetto all’anno precedente, collocandosi subito dietro le città che ormai sono da tempo capofila consolidate dell’innovazione. Punti di forza della città soprattutto la crescita economica, la forza del sistema di ricerca e innovazione per il quale la città sale fino alla terza posizione e la mobilità sostenibile in cui è 5° su 106 capoluoghi, mentre performance meno brillanti le si registrano sulla crescita digitale (11° posizione) e soprattutto sul fronte degli usi del suolo e del territorio (in cui è solo 94°)10. Bergamo ha un punto di forza anche su sperimentazioni di sharing mobility che vedono coinvolti nel capoluogo 1200 utenti iscritti (2014) con un rapporto tra utenti e abitanti secondo in Italia solo al dato di Venezia. Centrale è anche la presenza dell’Università, che rappresenta un polo della conoscenza importante con quasi 16.000 studenti iscritti nel 2016, crescente forza attrattiva sul territorio con il 40 % degli studenti provenienti da fuori provincia e il 5,7 % stranieri e un gruppo di ricerca interdisciplinare, l’Osservatorio CORES su consumi, reti e pratiche di economie sostenibili, costituito nel 2012 e parte di molte delle esperienze di rete che è possibile ascrivere al campo dell’innovazione diffusa.

Transizione delle istituzioni intermedie: l’innovazione nelle policy

Va detto che sia il comune del capoluogo che l’ente provinciale si sono distinti per aver affrontato questi anni di transizione introducendo una serie di innovazioni di policy. Anzitutto nel riformulare il processo di definizione delle politiche stesse, perché negli anni della crisi si è innescato un processo di riorganizzazione delle reti

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Rapporto ICity Rate 2017.

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intermedie istituzionali insieme al costituirsi di nuove reti emergenti. Camera di Commercio ha rifondato le sue strutture dedicate alla formazione e trasmissione dei saperi e all’innovazione, trasformando Bergamo Sviluppo da struttura di formazione classica organizzata sulla separazione verticale dei saperi, in una rete consulenziale di acquisizione e trasmissione di saperi trasversali sul tema dell’innovazione d’impresa, saperi per lo più pescati all’esterno del sistema locale, incorporando e utilizzando le reti del sistema delle rappresentanze per sintonizzarsi con il mondo delle imprese e riorganizzando l’incubatore come servizio di connessione tra startup innovative e imprese (soprattutto manifatturiere) consolidate.

Altra istituzione intermedia messa in forte difficoltà dai processi di riorganizzazione amministrativa della macchina pubblica e dal clima culturale e politico favorevole alla cosiddetta “disintermediazione”, è la Provincia di Bergamo; che tuttavia sembra aver scelto come risposta adattiva al nuovo quadro istituzionale, di ricostruire la propria legittimità provando ad avviare nuove forme di policy making. Spinta da un verticale indebolimento sul piano delle risorse sia finanziarie che politiche, la Provincia ha scelto di “inventare” un proprio stile di policy che da un lato scommettesse sulla capacità inventiva delle energie sociali e politiche diffuse sul territorio facendo leva in primo luogo sui sindaci, e dall’altro lato provasse a ridefinire (e ricostruire) una legittimità politica di nuovo tipo, fondata su una logica di servizio e di progettazione, dell’istituzione provinciale rispetto al territorio. Nello specifico Provincia di Bergamo ha avviato un modello di governance sostenibile (provando a fare di più con meno si potrebbe dire) fondato sulla definizione di 11 aree omogenee in cui aggregare i comuni attraverso l’erogazione agli stessi di risorse per progetti di sviluppo locale fondati su criteri di aggregazione territoriale e costruzione di partenariati pubblico-privato, servizi di consulenza per la progettazione e partecipazione, forme alternative di finanziamento “non pubblico” per i progetti attraverso l’ingaggio di una piattaforma di crowdfunding, erogando servizi di consulenza legale, creando una nuova unità di staff dedicata, l’Ufficio Europa. Il tentativo è dunque di reagire ad una crisi nell’ambiente istituzionale ridefinendo un sistema coerente di interventi e modalità distintive di policy, fondate sull’esigenza di superare la frammentazione istituzionale a livello locale, innescare processi di ascolto e confronto territoriale, ridurre le barriere per l’accesso a risorse e bandi, riconoscimento degli attori privati e sociali come attori di policy in grado di produrre beni pubblici e a impatto ambientale e sociale positivo. In altre parole, l’avvio di una inedita transizione della provincia da istituzione di rappresentanza politica tradizionale ad Agenzia di promozione dello sviluppo locale dedicata all’assistenza tecnica e allo sviluppo di una visione comune del modello di sviluppo, provando nel contempo ad avviare un riallineamento tra territorio e istituzione. Una transizione che se, ad oggi, non è ancora riuscita a sviluppare una istituzionalizzazione effettiva delle aree omogenee come effettive

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dimensioni sovra comunali, allo stesso tempo sembra essere riuscita nella sua funzione di mobilitare le energie e le esperienze di innovazione diffusa nei territori.

Parallelamente alla transizione di CCIAA e Provincia, l’ultimo mandato ha visto anche il comune del capoluogo impegnato nell’innesco di una serie di innovazioni di policy orientate al tema della smart city. Le esperienze di innovazione nel policy making qui riportate sono tre: l’innovazione digitale (dentro e fuori l’apparato comunale), il potenziamento delle reti sociali nei quartieri, l’Istituzione del Tavolo dell’Agricoltura urbana di Bergamo.

La visione di Bergamo smart city viene interpretata dall’amministrazione comunale della città in primo luogo dal punto di vista della trasformazione tecnologica della città. Una trasformazione che prevede sul piano dei processi l’individuazione di un tavolo di co-progettazione tra l’ente locale e gli stakeholders urbani, l’associazione Bergamo Smart City, e sul piano dei contenuti sia la trasformazione della macchina burocratica che l’estensione della rete digitale anche nelle periferie, la moltiplicazione delle opportunità di accesso pubblico e di utilizzo aperto delle rete e la creazione di un archivio pubblico di big data in forma open. La digitalizzazione e snellimento della macchina amministrativo-burocratica comunale diventa così il primo compito del nuovo Assessorato all’innovazione e semplificazione. L’azione si è così concentrata sul superamento di ridondanze, sovrapposizioni, sconnessioni e non linearità tra uffici incentivate, paradossalmente, dal fatto che le precedenti scelte di digitalizzazione della macchina comunale avevano agito seguendo la compartimentazione delle competenze. Il punto di partenza è stato invece l’attività di mediazione culturale tra innovazione tecnologica e burocrazia allo scopo di produrre maggiore efficienza e efficacia istituendo la cosiddetta “anagrafe unica”, un profilo digitale del cittadino che rappresenti il punto di accesso unico alla pubblica amministrazione e ai servizi, la sperimentazione di modalità di smart working per 60 impiegati del back office, una convenzione per un software gestionale unico tra Bergamo e alcuni comuni della cintura. Innovazioni che prevedono oltre ad uno snellimento dell’apparato comunale una ridefinizione delle sue funzioni con digitalizzazione progressiva delle mansioni più standard e l’evoluzione del front-office nell’ottica di una sorta di consulenza specialistica al cittadino. L’altra faccia della medaglia delle policy “smart” riguarda invece la digitalizzazione della città: su questo fronte le innovazioni di policy più interessanti hanno riguardato da un lato la governance concertata della distribuzione degli investimenti nelle reti a fibra ottica da parte dei grandi operatori della comunicazione (Tim, Fastweb, Enel) per rendere più distribuiti gli investimenti anche nelle aree della città a minore densità di domanda di servizi. Dall’altro lato, una politica di accesso alla rete come bene pubblico finalizzata a costituire ed alimentare un archivio di open data utilizzabili per la programmazione pubblica e da parte delle forze sociali: è il caso ad esempio, dell’utilizzo congiunto di big data

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relativi al monitoraggio degli spostamenti nella città da parte dell’amministrazione comunale e del distretto urbano del commercio.

Sebbene l’infrastrutturazione digitale della città costituisca un prerequisito importante del suo essere smart city, è sul piano delle forme di integrazione sociale che l’intelligenza collettiva di una città si esprime. Una esperienza importante da questo punto di vista riguarda la policy delle Reti Sociali di Quartiere. In città sono attualmente operanti 21 reti funzionanti come policy di accompagnamento per favorire la collaborazione civica, la crescita di reti comunitarie di quartiere miste, costituite da gruppi informali, associazioni riconosciute, singole persone, servizi sociali, scuole, ecc. Bergamo rimane una città caratterizzata da un forte tessuto di privato sociale e di volontariato. Le reti sociali operano come meccanismi di lettura dei bisogni dei cittadini, nascono dalla policy di co-progettazione tra comune e cooperative sociali. Ciascuna rete sociale di quartiere è seguita da un operatore sociale con il compito di articolare la domanda e connettere i policy makers e gli attori sociali. Le reti si configurano come assemblaggi ibridi costituiti dall’associazionismo tradizionale di quartiere (parrocchie, oratori, associazioni ricreative, ecc.), servizi come i centri anziani, molto importanti nello scenario di una città che vive un forte indebolimento dei legami sociali e un invecchiamento progressivo della popolazione con quartieri a bassissimo tasso di sostituzione generazionale. Lo scopo è…

“consentire l’accesso a tutte le formazioni sociali presenti nei quartieri per fare quello sforzo che sta

nella cornice della coesione sociale in cui l’innovazione sta a livello di marciapiede nel generare nuovi legami sociali tra le persone” (Operatore Reti Sociali).

L’aspetto più interessante delle Reti Sociali è che funzionano come produttrici di

connessioni tra “vecchio” associazionismo di quartiere, sistema dei servizi e gruppi informali, producendo forme di collaborazione progettuale e micro-economie di quartiere e trasformando gli spazi dei servizi tradizionali in “contenitori ibridi”. Il sistema funziona così a due livelli con un momento centrale mensile di ricomposizione comunitaria e il costituirsi diffuso di “reti di reti” di mutuo-aiuto. Questi ultimi, per lo più formati da genitori che sviluppano reti di mutuo-aiuto a livello di quartiere, si configurano come produttori informali di servizi (ad esempio nella cura dei minori) per poi successivamente manifestare esigenze di un salto di scala nelle attività di muto-aiuto per dare una maggiore sostenibilità alle attività provando ad istituzionalizzarle, connettendosi alla rete sociale più ampia in cui è presente anche la scuola, la biblioteca, il dirigente del centro musicale; oppure provando ad accedere a bandi o altre misure.

Si può affermare così che le reti sociali esprimano un’innovazione “di processo” attraverso cui i diversi attori si relazionano in maniera nuova. Soprattutto le reti

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informali “riscoprono” spazi sociali (come ad esempio i parchi pubblici vicini agli asili) e spazi di relazionalità all’interno del quartiere, individuano poi spazi sociali che diventano “spazi terzi”, ovvero luoghi utilizzati per socializzare in modo informale o attraverso canali non convenzionali, in cui…

“…cominciano a partecipare con un’attenzione che non è rivolta esclusivamente nei confronti dei

propri figli ma con attenzioni inclusive rivolte anche ad altre famiglie o bambini di altre famiglie, individuando altri spazi in collaborazione con servizi comunali come le ex biblioteche di quartiere producendo relazioni che si traducono in spazi di incontro settimanale per famiglie e bambini all’uscita da scuola. Quindi queste famiglie producono servizi informali, non pagati con professionisti pagati che li accompagnano” (Operatore Reti Sociali).

Il funzionamento delle reti, naturalmente, dipende dalla vitalità del tessuto sociale

di quartiere su cui la rete si innesta. Il caso più emblematico è quello rappresentato dei quartieri di Monterosso e Valtesse, dove dal 2011, da un gruppo informale, si è sviluppata la più forte esperienza di volontariato nella distribuzione pasti ad anziani soli o nuclei famigliari in difficoltà, trasformatosi poi in un vero e proprio servizio sostenuto finanziariamente dal comune.

Centrato sui temi della sostenibilità e di una food policy della città è invece il Tavolo dell’Agricoltura Urbana, promosso dal comune e comprendente le rappresentanze del mondo agricolo, le reti civiche e di economia solidale attive nel campo dell’agricoltura a Km0 e biologica, imprese produttrici, il Parco dei Colli, l’Orto Botanico, l’Università, il Biodistretto dell’Agricoltura Sociale, ecc. Un partenariato finalizzato a sostenere progetti di agricoltura urbana come forma di tutela dell’ambiente e del verde pubblico che svolge anche la funzione di spazio di ricomposizione delle reti, di costruzione di un agire comunitario e di riconoscimento reciproco delle diverse realtà attraverso relazioni di conoscenza, scambio reciproco, sinergia tra gli attori.

“Il Tavolo Agricoltura è una consulta non istituzionalizzata che discute sulle tematiche legate

all’agricoltura ed al verde urbano. E’ la prima volta, un raro caso, in cui attorno allo stesso tavolo ci sono il sindaco, l’assessore all’ambiente, le organizzazioni sindacali delle categorie tipo Confagricoltura, Coldiretti, sono presenti 3 o 4 di queste associazioni, Cittadinanza Sostenibile, Mercato&Cittadinanza, il gruppo di ricerca CORES, il Parco dei Colli, l’Orto Botanico e sono entrati anche un paio di produttori, il BioDistretto Sociale. Questo tavolo è innovativo perché è la prima volta che si forma questa unione di varie competenze che di solito sono diversificate rispetto ai loro ruoli. L’idea di ricondurre tutte queste realtà diverse ad un unico tavolo parlando tra pubblico, privato, associazioni e cittadini lo rende un qualcosa di particolare che quindi, forse, è il contesto adatto per portare avanti queste tematiche perché altrimenti tu, associazione, metti in atto delle iniziative che però iniziano e finiscono lì nel tuo giro di persone non riuscendo poi a farlo diventare un progetto comunale perché rimane sempre un progetto di un’associazione. Questo tavolo, invece, è proprio uno spunto che può essere approfondito e sviluppato per quel che riguarda l’essere un’istituzione ufficiale dove portare avanti queste iniziative” (InfoSostenibile).

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L’innovazione diffusa come connettore tra città e territorio

Molte delle reti e delle singole esperienze intercettate durante il percorso di

ricerca si collocano a cavallo tra città e territorio e svolgono una funzione di connessione e scambio tra le due dimensioni spaziali. Si tratta, come vedremo tra poco, di esperienze che si collocano prevalentemente sul quadrante della circolazione (di saperi, denaro, prodotti) e della riproduzione sociale e che si collocano programmaticamente in una zona ibrida tra mercato e società.

Importanti, per quanto ancora agli inizi, sono le esperienze che operano a ridosso della sfera della circolazione per connettere in forme nuove gli attori con il mercato, i circuiti della finanza, oppure della logistica. A Bergamo sono attive due imprese che si occupano di crowdfunding e di servizi relativi alla digitalizzazione della circolazione finanziaria. Conlabora è una società di servizi all’impresa creata nel 2014 da due giovani professionisti per occuparsi di finanza pubblica per le imprese, con specializzazione sulla progettazione europea, che progressivamente sposta il proprio focus di mercato verso i temi del finanziamento dell’innovazione sociale e l’accompagnamento di startup d’impresa, sempre sul lato dell’accesso alle risorse finanziarie. Con Provincia di Bergamo è stata realizzata, è in fase di lancio, la piattaforma online “SiamoBergamo” progettata per dare visibilità ad iniziative di valore pubblico promosse dagli enti locali in campo ambientale e sociale, mobilitare il consenso degli stakeholders territoriali, della cittadinanza o del mondo dell’impresa, innovando le metodologie di finanziamento dei progetti “civici”. Un esempio di come una nuova generazione di imprese professionali coopera all’innovazione di processo nel policy-making. Kendoo è invece più propriamente una piattaforma di crowdfunding nata come spin-off del gruppo editoriale che pubblica l’Eco di Bergamo e fin dall’origine rivolta al finanziamento di progetti di associazioni, di utilità sociale e di sostenibilità ambientale sul territorio della provincia, riuscendo a chiudere ad oggi oltre 50 progetti. Operanti nella sfera della riproduzione sociale e a cavallo tra produzione e trasmissione dei saperi e tra mercato e no-profit sono le tre esperienze di Talent Garden Bergamo, FabLab Bergamo e la rete dei coworking solidali (rete “Pass@Work”) promossa da ACLI, CGIL, Imprese&Territorio, Provincia di Bergamo, Patronato San Vincenzo, pastorale sociale del lavoro, gestita dagli operatori della operativa sociale AEPER. Oggi gli spazi dedicati a sviluppare economie di collaborazione si sono diffusi e differenziati quanto a formule imprenditoriali e finalità. Talent Garden ne rappresenta la variante più imprenditoriale e orientata allo sviluppo di startup tecnologiche. Si

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tratta di una rete di franchising che promuove un modello di coworking replicabile e riproducibile nelle diverse realtà territoriali e che si propone come intermediario qualificato tra il mondo delle produzioni digitali e potenziali investitori. Il modello proposto da TAG è dunque diverso rispetto alla tradizionale visione del coworking come spazio orizzontale destinato alla collaborazione tra free-lance. Nel suo caso gli utilizzatori del coworking più che singoli professionisti paiono essere piccole società interessate alla qualità dei servizio ai benefit offerti, alle opportunità di relazioni e di matching più che alla collaborazione orizzontale che coloro che condividono lo spazio. Un modello più verticale che orizzontale, dunque. Tant’è che TAG ha creato una società di investimento che “entra nel capitale di idee che si vogliono accelerare per mettere in sinergia due aziende e creare da qui uno spin-off terzo” promuovendone il sostegno anche nei confronti dell’imprenditoria consolidata. Una formula a cui si accompagna una cultura della sostenibilità o meglio dell’utilità e dell’innovazione sociale orientata al modello che potremmo definire dell’impresa low profit, ovvero una struttura d’impresa profit che re-investe parte del proprio utile in attività che abbiano anche impatto sociale. Più orientate al tema della coesione sociale e con una logica comunitaria e di cura sono invece le esperienze di coworking promosse dalla rete Pass@Work. Nata quattro anni fa con un protocollo d’intesa a cui si sono poi aggregati anche alcuni comuni, ha creato otto spazi di coworking tra Bergamo città, il suo hinterland e le valli tra cui anche il FabLab Bergamo e uno spazio di coworking all’interno del KmRosso con ad oggi circa 50 presenze tra i diversi spazi. La rete funziona organizzando un patto di mutua condivisione tra il coworker e ciascuno spazio: a fronte della gratuità dell’accesso ai servizi, l’utente è spinto a mutualizzare i propri saperi e competenze all’interno della rete non solo per produrre trasversalità dei saperi, quanto soprattutto per progetti di utilità sociale in un’ottica di restituzione alla comunità di insediamento del coworking e di accompagnamento rispetto ad altri utenti (giovani NEET) che frequentano lo spazio. A fronte dell’emergere di un bisogno di inclusione di alcune fasce giovanili, istituzioni, società di mezzo, e terzo settore hanno co-progettato una risposta che nella cooperazione e nell’imprenditorialità insieme individua la risorsa centrale per le policy di inclusione. Non senza problemi, visto che il punto di maggiore difficoltà rimane l’effettiva capacità di connessione degli spazi rispetto al tessuto d’impresa che, nonostante la presenza della rete delle rappresentanze, rimane ancora poco coinvolto. Più orientato ad una mission di agenzia formativa no-profit in forma associativa il FabLab di Bergamo, piccola struttura dedicata alla formazione, informazione e diffusione della cultura “maker” dell’autoproduzione e delle tecnologie produttive digitali, soprattutto la stampa 3D, con una per ora limitata attività di laboratorio di prototipazione. Il FabLab ad oggi si configura dunque come una struttura attinente più alla sfera della riproduzione culturale della società che a quella della produzione e con una natura di organizzazione sociale

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(collabora su progetti di coesione e di lotta alla dispersione scolastica degli adolescenti con la rete Pass@Work) promossa originariamente da professionisti e ingegneri della città e poi sostenuta nella sua attuale sede e configurazione dal mondo cattolico attraverso il Patronato San Vincenzo. In parte diversa la natura di ArtiLab, spazio di sperimentazione costituito dall’Associazione dei Giovani Imprenditori Artigiani di Confartigianato Bergamo (dunque promosso da una “tradizionalissima” organizzazione di rappresentanza) che ha assunto una duplice identità di spazio di sperimentazione di nuove tecnologie e di una nuova cultura imprenditoriale (più collaborativa, connettiva, orientata al mix di competenze e saperi) e spazio che prova a ragionare sui bisogni della comunità di prossimità (il quartiere in cui è insediato) in ottica di impresa sociale di comunità. Una identità che suggerisce un tema molto importante sollevato da alcuni attori, ovvero il problema di leggere e al limite codificare il valore in termini di impatto sociale delle esperienze di innovazione. In altre parole a quanto ammonta in termini finanziari la produzione di beni pubblici come la tutela ambientale, una minore disgregazione sociale, la diffusione di nuovi saperi più in linea con l’evoluzione tecnologica? E in termini dell’introduzione di nuove forme di produzione del valore? Il quesito posto da un interlocutore provenente dal mondo del terzo settore e pone una sfida importantissima sul piano della regolazione dello sviluppo: debbono le politiche pubbliche riconoscere (e poi misurare e valutare) l’impatto sociale e la natura di bene pubblico delle iniziative economiche o dei progetti sociali, ambientali e culturali realizzati in forma imprenditoriale? E in che termini? E’ evidente che un rapporto positivo tra policy-making e esperienze di innovazione diffusa passa anche dal riconoscimento del valore sociale delle nuove imprese o dei nuovi progetti sociali.

Un dibattito centrale che non sfugge alle esperienze di innovazione diffusa che fanno perno sulla rigenerazione di spazi dismessi. E’ il caso di Spazio Fase, esperienza di Alzano Lombardo nell’hinterland di Bergamo, nata dalla riconversione di una grande fabbrica abbandonata, l’ex Cartiera Paolo Pigna, in uno spazio culturale, di eventi, coworking e un piccolo incubatore d’impresa. Promosso da un imprenditore industriale, si configura come un’impresa creativa di nuovo tipo. Lo spazio viene aperto due anni fa e affidato ad una coppia di giovani professionisti della comunicazione gestori di una agenzia a Bergamo.

L’interesse di questa esperienza sta in questa sua duplice natura da un lato di potenziale nodo scambiatore rispetto a relazioni, culture e esperienze lontane; dall’altro lato, nella funzione di contenitore della smart city che viene periodicamente “riempito” con attori e produzioni dello smart land, ovvero nella sua natura di connettore di città e territorio.

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“Sarebbe molto bello se altre società o anche la Regione o la Provincia potessero far parte dei nostri eventi come finanziatori. Forse il fatto che veniamo da un privato ha ostacolato fino ad ora questo processo. Ogni evento non è per guadagnare qualcosa ma per creare un contenuto culturale per il pubblico: anche perché noi non facciamo mai pagare l'ingresso agli eventi, cerchiamo sempre di far aumentare il pubblico, che sono le persone di Alzano, di Bergamo e provincia. In ogni evento prendendo spunto dal tema c'è sempre una parte di produzione di cultura interessante per il territorio, anche dal punto di vista dell'informazione. Anche Factory Market non deve essere soltanto il mercato, noi spingiamo molto sul fatto dell'invogliare i giovani a riprendere in mano l'artigianato” (Spazio Fase).

L’indirizzo è di promuovere attraverso eventi una cultura delle economie

sostenibili della terra e della qualità coinvolgendo giovani creativi, designers, makers, del territorio. Il territorio diventa così il bacino delle realtà che animano gli eventi e del pubblico che li frequenta oltre a fornire i contenuti. I tre principali eventi infatti, sono “Factory Market”, l’evento di punta, un grande mercato di giovani artigiani, illustratori, creativi a 360 ° che nel corso dell’ultima edizione ha visto 10.000 visitatori e 100 partecipanti di cui “90 % del territorio”; “Drogheria 2018” dedicato a produttori e prodotti food biologici, naturali e a Km0 dal territorio di pianura e dalle valli; “Raggio”, evento dedicato al mondo della mobilità sostenibile leggera delle biciclette artigianali, ciclofficine, ecc. Spazio Fase ha avviato anche relazioni di scambio con centri culturali di città europee, in parte svolgendo una funzione di connessione con culture e esperienze esterne a rete lunga, una funzione esplicitamente rivendicata dagli animatori come bene pubblico prodotto dall’iniziativa per il territorio:

“Tessere relazioni esterne è un grande valore sempre per il territorio perché così si crea network e

l'utilità sociale di cui si parlava secondo me è anche questa. Partendo dal territorio aprire la propria realtà anche ad un pubblico che non è del territorio è un arricchimento per il territorio stesso. In questo senso quando si parla di territorio per noi è vitale. Le relazioni che si creano all'interno dei nostri eventi sono sicuramente un altro aspetto molto importante perché vengono a contatto diverse realtà giovani e va da sé che così ampliano i loro orizzonti e il loro lavoro, e quindi anche la relazione è importante” (Spazio Fase).

Qual è la sostenibilità economica di una struttura come Spazio Fase? Si tratta di un

aspetto importante da valutare sul piano delle possibili policy, considerata anche la natura privata dell’iniziativa. Uno dei problemi che lo spazio attualmente sta attraversando riguarda proprio il tema della sua sostenibilità. Attualmente la struttura raggiunge un suo equilibrio con un meccanismo di entrate fondato da un lato sulla gratuità della partecipazione agli eventi e al contrario su un prezzo applicato alla partecipazione dei protagonisti dei vari mercati. Questa condizione, unitamente ad una sostanziale estraneità tra lo spazio e le istituzioni pubbliche, le rappresentanze e il mondo dell’impresa strutturata, ovvero rispetto al mondo delle istituzioni locali in generale, è il principale punto di debolezza strutturale che rende

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difficile gli investimenti e difficile un ampliamento del personale in modo da consentire una più forte attività di comunicazione. L’organizzazione è allo stato attuale troppo ridotta per poter reggere sia i compiti di gestione organizzativa e logistica che di relazione e comunicazione. Inoltre la necessità di applicazione di un prezzo per gli stand complica la partecipazione dei protagonisti più giovani che tuttavia potrebbero incrementare la densità di novità presente agli eventi. Da qui l’affacciarsi dell’interesse ad una partnership con le istituzioni locali, con il mondo delle rappresentanze e dell’impresa, e l’emergere di una proposta di contributo per sostenere gli utilizzatori della struttura: una policy molto simile al sostegno tramite voucher dei coworkers a Milano.

Infine un ruolo di coalizioni emergenti portatrici di una visione di economia civica e solidale, è giocata dalle reti di cittadinanza attiva che a Bergamo sostengono progetti sociali in campi contigui a quella che potremmo definire l’economia della terra. Costituiscono pratiche territoriali che tendono ad organizzarsi come comunità epistemiche orientate soprattutto ad una attività di sense-making, di costruzione culturale, ma che incorporano attori istituzionali, di rappresentanza e molte imprese e cooperative sociali e agiscono secondo logiche imprenditoriali. Agiscono come reti che connettono città e territorio, lavorano sull’intreccio tra cittadinanza attiva e coscienza di luogo, mobilitano la partecipazione di imprese e associazioni territoriali ad eventi/mercati della città, mixano la prevalenza di logiche etico-identitarie con attività di consulenza e servizi alle piccole e micro-imprese, la partecipazione a bandi e l’organizzazione di mercati. Potremmo dire che cura, solidarietà, etica, comune, responsabilità, terra, conflitto, condivisione, sostenibilità, mercato, cittadinanza, ne rappresentano le parole chiave. Funzionano come agenzie di sviluppo locale informali secondo un modulo organizzativo delle “reti di reti” multilivello. Un esempio è il Biodistretto dell’Agricoltura Sociale, costituito nel dicembre 2016 a valle di un percorso di coinvolgimento di piccoli agricoltori e imprese sociali, ed è formato da 9 cooperative sociali, altrettante imprese agricole, la rete dei GAS di Bergamo, Consorzio Sol.Co, Confcooperative, nove comuni tra cui il capoluogo. E’ una rete volontaria che agisce soprattutto nel campo della formazione culturale sull’agricoltura biologica, e cerca di accompagnare cooperative e imprese agricole a praticare la transizione alle coltivazioni biologiche in forma collaborativa, lavorando sulle piattaforme distributive e gli sbocchi di mercato, sulla consulenza tecnica, e soprattutto su un’opera di coscientizzazione della popolazione. Mercato & Cittadinanza si configura anch’essa come una rete che lavora alla costruzione di uno sviluppo locale fondato sui prodotti della terra ma concentrandosi sull’organizzazione di mercati a Km0. Si tratta di una associazione di volontari che dal 2010 svolge la funzione di “braccio operativo” della rete di Cittadinanza Sostenibile, coalizione di attori associativi, d’impresa e istituzionali raccolti attorno alla rivista online

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“InfoSostenibile” con Slow Food, Rete GAS Bergamo, Banche del Tempo, Legambiente, banca Etica, Università di Bergamo, il CORES dell’Università di Bergamo e connettendosi con la rete RES, Rete dell’Economia Solidale della Lombardia, funzionale a raccogliere proposte dei gruppi territoriali per avviare una attività di lobby regionale sulla legge riguardante l’economia solidale. InfoSostenibile rappresenta una esperienza che si è data l’obiettivo di far crescere la sostenibilità anche come un nuovo modo di fare impresa in cui il valore scaturisce da un equilibrio tra senso e mercato. Nel 2011 la rete vince un bando di Fondazione Cariplo sul progetto “Mercato e Reti per un futuro Sostenibile” che avvia un mercato agricolo pilota ad Albino Bergamasco. L’attività si sviluppa attraverso l’organizzazione di mercati locali a Bergamo, Alzano Lombardo, in Valle Brembana. Viene inoltre elaborato insieme alle imprese agricole un disciplinare di qualità accessibile a gruppi del territorio che intendono organizzare mercati locali diffondendo così l’attività per spin-off. Va osservato che sul piano delle policy le reti di cittadinanza attiva non avanzano richieste di aiuti finanziari quanto di legittimazione istituzionale e di facilitazione nell’innesto delle attività nei contesti locali. Semmai il problema dei piccoli agricoltori biologici riguarda la ridotta attenzione delle politiche agricole regionali.

C’è tuttavia un punto di debolezza di questa componente di esperienze innovative (o potenzialmente tali) che ne limita il potenziale impatto sociale positivo, così come limita l’impatto del mondo della piccola impresa biologica o a Km0: la ridotta propensione culturale a scegliere di crescere a acquisire logiche d’azione imprenditoriali che ne aumentino la presenza sul mercato e quindi l’impatto in termini di sviluppo locale. Sono spesso esperienze che nascono e si sviluppano per testimoniare scelte culturali personali, ma con scarsa propensione espansiva. Tendono a pensare l’organizzazione della produzione come un mezzo per affermare una dimensione etica più che economica. E’ questo probabilmente il limite su cui dovrebbero intervenire le politiche per tentare di rafforzare la dimensione imprenditoriale delle esperienze senza diminuirne l’impatto sociale.

““Perché fare il piccolo agricoltore? Quelli che aprono queste attività lo fanno soprattutto perché

spinti da una motivazione a migliorare l’ambiente, il mondo, l’economia. La motivazione di base è il credere in queste cose: sono persone che la sostenibilità la perseguono nella loro vita quotidiana e questo, da un lato, è un punto di forza perché sei sicuro dell’autenticità del loro prodotto, del loro lavoro; dall’altro lato, però, non lo fanno in chiave commerciale e questo è uno dei limiti più grossi di tutto questo mondo perché non l’hanno proprio in mente che devono fare concorrenza al supermercato, né che devono far sì che la sostenibilità ambientale sia un contrassegno di qualità da spendere, così che tu non compri quella camicia perché è fatta chissà come in India ma compri questa perché è fatta da persone che conosci eccetera. Questo gli manca, sono persone molto motivate ma manca proprio il lato economico. Questo è un problema perché, invece, la sostenibilità deve essere anche economica perché non si può andare avanti per buona volontà” (Focus Group Bergamo).

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Che richieste emergono dunque nei confronti delle istituzioni dall’ascolto delle esperienze di innovazione diffusa? Alla sfera delle policy si chiede di sviluppare oltre ad una azione di disseminazione culturale una fondamentale azione di brokeraggio e facilitazione allo sviluppo di reti di scambio e co-progettazione tra gli attori. L’incontro svoltosi a Bergamo ha posto sostanzialmente tre questioni:

- Politiche di riconoscimento e di costruzione/allargamento del campo dell’innovazione sociale, utili ad incrementare la legittimità delle esperienze, lo sgretolamento di una barriera culturale che oggi limita l’espansione di queste attività;

- Politiche di sintesi e coordinamento, di costruzione comunitaria e di autoriconoscimento dei soggetti e delle esperienze come appartenenti ad un campo comune, l’innovazione diffusa, per facilitare la costruzione di reti;

- Politiche di sostegno alla domanda di utilizzazione dei servizi e delle attività di impatto sociale realizzate;

La Val Seriana

Dal punto di vista degli assetti socio-territoriali anche la Val Seriana presenta un duplice profilo comune a tutte le vallate alpine aperte sul sistema urbanizzato e industrializzato della pedemontana. Ad un fondovalle i cui assetti socio-economici sono stati profondamente trasformati da mezzo secolo di crescita urbana e industriale, si accosta una territorialità montana delle parti alte e discoste della valle che ha sofferto processi di declino e spopolamento molto forti. Dal punto di vista della popolazione il confronto di lungo periodo tra la situazione del 1951 e quella odierna, mostra l'indebolimento delle comunità della Val di Scalve e dell'alta Val Seriana, soprattutto dei comuni del tratto da Gromo alla testata. Un declino non omogeneo per altro, visto l'andamento positivo di tutta l'area che va dalla Presolana fino a Clusone.

La media e bassa valle a partire dalla fase tra anni '50 e '60 hanno sperimentato una crescente e massiccia concentrazione di impianti industriali di medie e piccole dimensioni che, assieme al nuovo tessuto residenziale e agli spazi commerciali, hanno portato in un tempo relativamente breve alla totale saturazione degli spazi di fondovalle, producendo anche il costante ridimensionamento dell'attività agricola a favore di quella industriale e edile. Oggi l'asseto urbanistico si presenta come una conurbazione senza soluzione di continuità, un susseguirsi di costruzioni residenziali e capannoni per attività produttive e commerciali.

In Val Seriana le esperienze che abbiamo incontrato mettono in evidenza il fatto che la riscoperta e la riattivazione di culture e saperi contestuali sopiti di lunga

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durata, per produrre sviluppo locale, devono configurarsi come pratiche aperte all'apporto determinante di forze e culture esterne. Non c'è innovazione in un approccio che consideri lo sviluppo della montagna come semplice espressione di una comunità che riproduce i propri saperi attingendo unicamente dalle proprie pratiche consolidate. Le esperienze attengono a tre tipologie d'attori in trasformazione: il terzo settore e le reti del welfare territoriale; le Agenzie di Sviluppo e Promozione Territoriale, nuove forme di imprenditoria agricola.

Sul fronte del Terzo Settore e del welfare locale, l'innovazione è rappresentata da un progetto di connessione tra sistema del welfare locale e pratiche di welfare aziendale e dall'evoluzione della cooperazione sociale in direzione del modello dell'impresa di comunità.

Nel primo caso sono le istituzioni locali che spinte dalla ricerca di nuove fonti di sostegno per il welfare locale e dalla spinta delle innovazioni legislative nazionali, stanno provando a costruire una rete che connetta le pratiche di welfare aziendale che le imprese industriali dell'area stanno sperimentando con il sistema dei servizi che comuni e terzo settore locale sono in grado di offrire. E' stata così avviata una collaborazione con alcune aziende medio-grandi della valle per sviluppare una piattaforma di welfare aziendale che funzioni erogando servizi ai dipendenti delle aziende attraverso il tessuto erogatore del territorio venendo incorporata nel sistema di programmazione del Piano di Zona territoriale. L'aspetto più interessante della razionalità che muove gli attori, sia funzionari pubblici che dirigenti aziendali risiede nella volontà di scambiare e contaminare reciprocamente i saperi e le logiche d'azione dell'impresa privata e della macchina amministrativa pubblica. Se sul fronte dell'impresa c'è la volontà di riversare nel nuovo sistema del welfare aziendale una propensione antica alla costruzione di una comunità aziendale, sul lato pubblico c'è l'interesse ad acquisire una più approfondita conoscenza dei bisogni della popolazione lavoratrice attingendo al bacino della conoscenza aziendale. L'esito è un inedito processo di co-progettazione tra imprese profit e istituzioni imprese no-profit di un importante aspetto della welfare community locale.

L'evoluzione della cooperazione sociale è invece rappresentato dal caso di una cooperativa che ha avviato un processo di transizione dalla classica attività di contracting-out degli appalti di welfare alla costruzione di una rete progettuale con i comuni e l'Agenzia di Promozione di Valle Promoserio nel campo dei servizi culturali e turistici. Soprattutto con il progetto del marchio "Ospitalità senza Barriere" promosso dal Consorzio il Solco, la cooperativa si sta sperimentando nel campo dello sviluppo locale attraverso la costruzione di una rete di ricettività diffusa che promuova il territorio nel campo delle nicchie di fruizione turistica legata alle disabilità motorie. Attraverso una attività di formazione ai comuni, agli operatori turistici, alle cooperative sociali, un progetto di ricerca con una borsa di studio, il

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tentativo è di produrre una diffusa crescita culturale del territorio nel campo dell'ospitalità. Anche il progetto di “Art Land” promosso dal piccolo comune di Cerete e sostenuto dalla Provincia si è mosso in direzione delle produzione di un marchio territoriale come strumento di marketing a rete lunga. Un progetto centrato sulla costruzione di percorsi artistico sensoriali nei boschi del territorio, ha prodotto l'attivazione di una rete progettuale che comprende cooperative sociali ed altri comuni importando la policy dal vicino Trentino per l'acquisizione di un marchio che distingue e renda attrattivo il territorio dal punto di vista della nicchia turistica globale dell'accoglienza per il target delle famiglie numerose.

Uno dei campi più interessanti di innovazione riguarda l'emergere, per quanto ancora di minoranza, di una élite di imprenditori e attivisti di una agricoltura di montagna che evolve nella promozione di imprese di comunità multifunzionali orientate a produrre beni pubblici oltre che prodotti della terra. L’agricoltura è considerata non solo in un’ottica settoriale produttrice di beni privati, ma anche come componente – e, per così dire, “collante” – di uno sviluppo territoriale più comprensivo e complessivo. Le esperienze intercettate si caratterizzano soprattutto per la propensione all'innovazione progettuale e la capacità combinatoria che gli attori mostrano nel tessere reti che coinvolgono una molteplicità di attori, locali e extralocali, e nel mobilitare le risorse materiali e immateriali necessarie. Per la pluralità delle pratiche di cui sono attivatrici, esse si configurano come vere e proprie imprese di comunità, a prescindere dagli assetti giuridici formalmente privatistici. Va detto che l'Alta Val Seriana in questi ultimi anni si è caratterizzata nel panorama bergamasco come un microambiente piuttosto vivace sul piano delle proposte e della formazione di una nuova leva di imprese agricole e di associazionismo culturale orientato alla riscoperta del tema dello sviluppo locale che presentano caratteristiche innovative e peculiari.

Il primo caso è quello di una giovane azienda del comune di Oltressenda Alta, Contrada Bricconi, che rappresenta bene il percorso e le difficoltà del processo di affermazione di una nuova generazione di contadini capaci di trasformare il tradizionale modello della piccola impresa agricola. Nata da una scelta di vita dei suoi due giovani fondatori, l'azienda vede la luce nel 2010, dopo una serie di contatti informali tra il suo animatore fondatore, di provenienza esterna alla comunità locale, e il comune di Oltressenda Alta. L'avvio dell'impresa avviene a seguito della vincita di un bando del comune per la gestione di una contrada rurale storica del comune, Contrada Bricconi per l'appunto, del 1500 ma ormai abbandonata che viene data in concessione dapprima per sei anni e successivamente estesa tramite convenzione fino al 2056. Oggi l'azienda alleva 30 bovini a produce formaggi locali, gestisce un agriturismo nella contrada restaurata, ha raggiunto un accordo con il Parco delle Orobie per l'installazione di un centro parco nei locali della contrada. Due anni dopo tramite un accordo con il Politecnico

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di Milano mediato da un'associazione di architetti -ArchOrobie- la contrada viene inserita nel censimento dei luoghi pubblici rurali e quindi assieme alle strutture di altri sei comuni sostenuta da un finanziamento della Fondazione Cariplo e quindi da risorse del PSR per la parte dedicata alla produzione.

Dunque l'azienda assume la forma di un'impresa rete di natura pattizia e si configura come un progetto governato attraverso una rete di accordi -una coalizione- in cui oltre all'imprenditore partecipano le istituzioni locali, comune e Parco delle Orobie, attori metropolitani extralocali come Politecnico di Milano e Fondazione Cariplo, le policy regionali. Il pool di risorse ambientali e esterne viene mobilitato attraverso meccanismi di cooperazione e condivisione del progetto con altri soggetti locali ed esterni, oltre che con risorse proprie. Questo dà origine ad una organizzazione che oltre a produrre beni privati che vende sul mercato, svolge funzioni culturali, di recupero e valorizzazione di beni comunitari aprendo la contrada ad un uso pubblico. Il tessuto comunitario diventa, con qualche difficoltà iniziale, la matrice che sostiene il progetto. Sempre il comune promuove successivamente l'apertura di un punto commerciale comune per le imprese agricole del territorio, una sorta di bottega del territorio, la "Bottega dei Sapori", nel tentativo di creare un mercato locale per la filiera agroalimentare. L'iniziativa, di per sé "innovativa" se si pensa alla logica di aprire spazi funzionali comuni per superare la frammentazione delle singole imprese, accusa delle difficoltà relative al suo carattere prettamente locale: in assenza di politiche di accoglienza, di incoming di flussi, il rischio è che lo sbocco commerciale locale non funga da moltiplicatore di una crescita strutturale del mercato dei piccoli produttori. Emergono inoltre alcune critiche alla logica decisionale dell'iniziativa che fanno emergere una visione particolare del rapporto tra impresa innovativa e politica: il problema non è avere una politica che fa tutto dall'alto, che copre tutte le aree problematiche dalle risorse all'organizzazione, riducendo l'apporto delle imprese alla fornitura del prodotto. Ciò che si richiede veramente è una funzione abilitatrice della politica che aiuti l'emergere di una autonomia dei soggetti.

" Ne ho una grande considerazione, esiste ancora, non ha funzionato per me. Secondo me quella

cosa lì che ha mosso fondi pubblici seppur piccoli, è un gran bel lavoro ma ha un grande errore di fondo: non può la politica, sebbene armata di buone intenzioni, calare dall’alto le cose. Non funzionerà mai. Tu non puoi predisporre un locale per delle persone che non sono pronte all’idea che il cliente è importante, che va incontrato, che una cosa non può morire lì, che non ci può essere a Nasolino il passaggio sufficiente a giustificare quel posto lì ma devi muoverti diversamente. Questo accade perché l’iniziativa non è venuta dal basso. Quando tu fai le cose invece in un modo in cui dici “ragazzi queste sono le chiavi, non preoccupatevi per i soldi” tu non creerai mai uno sviluppo" (Focus Valle Seriana).

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La seconda esperienza nasce dall'incontro tra l'evoluzione di un'azienda agricola e l'attività di un'associazione di riscoperta della cerealicoltura, che da origine allo sviluppo di una rete distributiva e di un processo di differenziazione produttiva e funzionale molto interessante. La piccola azienda agricola "Pra di Bus" di Ardesio, nei primi anni '2000 inizia un percorso di differenziazione produttiva per emanciparsi dai bassi prezzi di acquisizione della propria produzione casearia da parte dei circuiti commerciali. L'imprenditore dapprima crea un proprio canale distributiva attraverso la vendita ambulante nelle quattro piazze del territorio, successivamente apre un proprio spaccio aziendale e nel 2012 su suggerimento di quello che sarà poi il fondatore-animatore dell'associazione culturale "Grani Asta del Serio" nata in occasione di Expo, verrà avviato il progetto di una bottega del territorio in cui vengono distribuiti i prodotti caseari e cerealicoli, attraverso l'acquisizione di una figura professionale di pasticcere viene avviato un piccolo laboratorio di trasformazione, inventato il "gelato appena munto" unendo nello stesso stabile gli spazi di mungitura e il laboratorio di produzione del gelato e oggi è stata avviato un "agribirrificio" in cui viene impiegata la produzione cerealicola con due punti distributivi e un altro di prossima apertura. La spinta alla differenziazione della piccola impresa agricola ha dunque prodotto la costituzione di un sistema di filiera chiuso che va dalla produzione della materia prima (cereali e latte) alla trasformazione in prodotti locali (formaggi, dolci, farine, salumi, birra, ecc.) fino alla commercializzazione producendo sei posti di lavoro full-time oltre all'originaria impresa agricola. Un progetto che, sviluppandosi, ha assunto uno spiccato profilo di multifunzionalità svolgendo, in connessione con l'Associazione, il ruolo di agenzia di formazione culturale, di messa a valore di saperi locali e radicati, erogando servizi di consulenza agli agricoltori, formulando progetti di investimento per acquistare macchinari per la coltivazione, costruendo reti di acquisizione e trasmissione dei saperi verso gli agricoltori aderenti e verso le istituzioni culturali come l'Università della Montagna di Edolo. Anche in questo secondo caso la caratteristica dirimente e la creatività situata praticata dall'impresa-rete sta soprattutto nella capacità combinatoria di reti e risorse e soprattutto la capacità di incorporare e trasmettere saperi generando apprendimento. Sono sistemi organizzativi che connettono reti, saperi e attori locali con reti, saperi e attori esterni. L'Associazione "Grani Asta del Serio" oltre ad associare imprese agricole è in rete con il GAL Val Seriana, gli istituti formativi, l'Università della Montagna. Non c'è soltanto la crescita economica od occupazionale tra gli esiti dell'evoluzione organizzativa, ma la costruzione di un circuito espansivo di conoscenza che può avere il carattere di un bene pubblico a libero accesso per il territorio piuttosto che un bene di club per gli attori che stanno all'interno del network. Un aspetto che caratterizza questi nuovi imprenditori agricoli è infatti l'elevata propensione a sviluppare attività formative e collaborare con gli istituti scolastici a scopi divulgativi e educativi. Sono esperienze che

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nonostante la loro natura privata sembrano funzionare come ordinamenti produttivi di "beni pubblici locali".

Quali sono invece gli aspetti problematici, gli ostacoli o le debolezze che caratterizzano il percorso di queste nuove tipologie di imprese di territorio? Il primo punto di sofferenza citato dagli attori è una certa chiusura culturale che ancora per lo più caratterizza la comunità locale. Le reti dense e corte funzionano nel momento iniziale dello startup, anche perché queste esperienze appaiono comunque culturalmente omogenee all'ambiente locale, ma possono diventare un ostacolo alla crescita successiva. Questa nuova generazione, nuova non necessariamente in senso anagrafico, di attivisti/imprenditori differentemente dai protagonisti del precedente ciclo, ricerca attivamente l'apertura culturale e il rapporto con saperi ed esperienze di extralocali. Lamenta la mancanza di una rivoluzione culturale sul piano della cultura dell'ospitalità e della tutela dell'ambiente, oggi il punto debole più rilevante per il territorio. Inoltre accusa un problema di crescita e di rafforzamento della capacità produttiva. Un problema che nel caso specifico gli attori hanno deciso di affrontare attraverso strategie di crescita lenta e incrementale, oppure accedendo a servizi di piattaforme distributive online. Rimane su questo fronte la debolezza della propensione cooperativa del resto del tessuto imprenditoriale locale che produce l'impossibilità di creare una nuova generazione di servizi collettivi che potrebbero consentire di condividere i costi dell'acquisizione di nuove competenze, nuove funzioni di produzione, liberando l'imprenditore della necessità quotidiana di produrre direttamente lasciandolo al contrario libero di programmare processi di crescita e innovazione.

"In questa incapacità di rete c’è poi una polverizzazione. Io per avere la mia azienda ho dovuto fare

un lavoro enorme: io mi libererei volentieri del problema di fare il formaggio tutti i santi giorni. Perché è bello e poetico ma bello sarebbe essere in quattro o cinque e pagare il casaro più figo del mondo e uscire dal cliché secondo cui il formaggio è solo la formaggella, che non ne posso più, e imparare davvero a fare le cose: e invece purtroppo questo in passato è stato fallito. Bisognerebbe trovare nuovi sistemi e soluzioni di collaborazione che magari non sono più il fatto di dover fare il caseificio comune" (Focus Valle Seriana).

Sempre sul fronte delle policy i due principali problemi sono costituiti da un lato dal divario dei tempi decisionali della macchina pubblica, a volte come nel caso dei piccoli comuni non preparata ad affrontare le innovazioni progettuali e procedurali introdotte dalle logiche di progetto degli innovatori, e dall'altro lato le ridotte possibilità di sostegno pubblico, soprattutto nelle policy regionali, per l'agricoltura innovativa e multifunzionale di montagna.

Infine un tema importante riguarda l'evoluzione del ruolo delle Agenzie di Promozione e Sviluppo locale. In Val Seriana è attiva dal 2010 Promoserio, agenzia mista pubblico-privato costituita da comuni e imprese locali. Oggi Promoserio

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presenta una compagine articolata in cui oltre all'aggregazione di tutti i comuni della Val Seriana e della Val di Scalve sono presenti operatori privati dei settori turistico ricettivo, della ristorazione allargandosi però ad aziende industriali e del cibo del territorio. La mission principale è la promozione e il marketing turistico svolta all'esterno attraverso una partecipazione mirata a fiere, attività di comunicazione sui media e nell'ambiente dei social network, lasciando per la promozione delle reti lunghe di incoming territoriale alle agenzie di livello territoriale superiore come Visit Bergamo e Explora a livello regionale. Allo stato attuale i due aspetti più interessanti da evidenziare in una logica di innovazione diffusa sono rappresentati dall'allargamento della compagine di Promoserio al mondo dell'impresa in una logica trasversale e non settoriale e dall'azione di sviluppo di un sistema di accoglienza unitario che spazia dallo sviluppo di una cultura dell'ospitalità al rinnovamento della ricettività fino alla costruzione di una rete territoriale di informazione, valorizzazione dei percorsi e di opportunità di mobilità a corto raggio del visitatore, ad oggi praticamente inesistente. L'organizzazione interna si struttura per settori corrispondenti a vocazioni territoriali con a capo responsabili tecnici e in una rete di punti di informazione sul territorio. Dopo una prima fase, lunga, di strutturazione organizzativa e di affermazione della legittimità dell'Agenzia, oggi la fase che si apre viene interpretata attraverso l'avvio in primo luogo di azioni di capacity building per il territorio. Il punto focale del nuovo corso d'azione è la costruzione di un senso di appartenenza unitario del territorio attraverso l'individuazione di strategie di sviluppo contenute in un Piano strategico da definirsi attraverso la partecipazione degli attori territori a laboratori aperti che decideranno le direzioni di marcia, le vocazioni da sostenere. In questo modo la funzione centrale di Promoserio diventa quella di promuovere una governance centrata su reti di scambio, promozione di saperi, progetti, capitale sociale e fiducia tra gli attori.

La bassa bergamasca: il ruolo delle infrastrutture e la transizione all'economia della terra

Fino a tutti gli anni '50 l'organizzazione territoriale e socio-economica della

pianura bergamasca mantiene quei caratteri di ruralità fissati sostanzialmente alla fine del XIX secolo, che la meccanizzazione dell'agricoltura non era riuscita a modificare radicalmente. Sul piano dell'armatura urbana e paesistica il territorio si articolava attorno ad alcune polarità più strutturate, Treviglio e Caravaggio nella Gera d'Adda, Romano di Lombardia e Martinengo per la pianura orientale, in una serie di piccoli centri abitati articolati in borghi e costituiti da edifici rurali e

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botteghe, e soprattutto nella dimensione diffusa dell'impianto insediativo incentrato sulla cascine, dove viveva una buona parte della popolazione. Un sistema caratterizzato dai tratti ben definiti della ruralità e dalla larga prevalenza dell'agricoltura estensiva come fondamentale asse dell'economia.

I tre decenni compresi tra i primi anni '60 e primi anni '90 mutano questa struttura innescando un ciclo di espansione edilizia, residenziale e produttiva, che porta all'espansione dei vecchi nuclei i quali si circondano di corone residenziali formate da grandi quartieri. Attraverso i meccanismi della lottizzazione le città crescono seguendo l'ascesa della popolazione tipica di tutta la fascia pedemontana e dell'alta pianura. Tuttavia parte cospicua di questa crescita avviene in modo sfrangiato, distribuendo i nuovi insediamenti lungo tutte le arterie stradali senza portare al costituirsi di un vero tessuto urbano alternativo a quello storico. In questo processo di urbanizzazione diffusa e sfrangiata secondo il modello estensivo della cosiddetta città infinita, un ruolo non secondario l'ebbero le aree produttive prima insediate a ridosso dei nuclei abitati e poi sempre più isolate nella campagna a costituire un puzzle in cui la proliferazione dei capannoni determina un forte mutamento del paesaggio della pianura sovrapponendo al paesaggio rurale insediamenti privi di qualsiasi legame con l’originario contesto.

Gli anni '90 e poi '2000 infine portano all'insediarsi ai margini dei principali centri abitati e lungo i principali assi infrastrutturali (soprattutto lungo la Treviglio-Caravaggio e la strada Francesca) di grandi insediamenti commerciali e ludici che rappresentano il portato su larga scala del processo di terziarizzazione dell'economia che proprio in quella fase decolla anche qui.

Oggi, la questione infrastrutturale, con il nuovo asse stradale di Brebemi rappresenta un tema imprescindibile per un area che guarda al suo sviluppo soprattutto sul piano dell’attrattività di flussi dall’esterno, siano essi flussi di capitale legati all’atterraggio di big players globali, oppure flussi turistici originati dalla crescita di una economia dei beni ambientali e culturali. L’attrattività è strettamente connessa all’accessibilità di un territorio e alla presenza di connessioni diffuse tra gli assi infrastrutturali e il territorio. In questo report focalizzeremo l’attenzione su tre campi del nuovo possibile sviluppo locale: a) l’insediamento di big players dei flussi; b) la transizione del settore agricolo verso un modello di economia della terra; c) il turismo dei percorsi e del leisure perturbano. Tutti e tre percorsi che si sviluppano a partire dalla natura di segmento di una regione urbana diffusa, quella milanese, che sempre più tende a svilupparsi per logiche di corridoi infrastrutturali. Ci pare evidente che uno sviluppo fondato sulla compresenza di insediamenti industriali e logistici multinazionali collegati ai corridoi infrastrutturali ed economie fondate sull’attratività di valori paesaggistici, ambientali, culturali collocati nelle pieghe dell’urbanizzazione diffusa, è uno sviluppo che necessità in primo luogo di una forte capacità di governance d’area vasta per connettere in

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modo sostenibile i differenti drivers di sviluppo ed evitare che la compresenza si trasformi in contraddizione.

Sul piano degli equilibri territoriali va detto che tradizionalmente e poi ancora nell'ultima fase il territorio della pianura si è sempre caratterizzato per uno spazio di relazione funzionalmente più proiettato verso i territori confinanti rispetto al capoluogo Bergamo. Molto forti sono soprattutto le relazioni funzionali e di mobilità con il magnete Milano e l’intero Nord: le grandi reti ferroviarie e oggi anche l'asse della Brebemi gravitano lungo un asse est-ovest che porta questo territorio e i suoi centri ad orientarsi verso il capoluogo regionale e la sua area metropolitana diffusa. Oggi per Treviglio, Caravaggio, Romano di Lombardia le relazioni più frequenti sono con Milano mentre verso Bergamo ad oggi sia sul piano infrastrutturale, della mobilità che delle relazioni economiche i rapporti si sono rarefatti. Di fatto oggi Treviglio si sente la porta est dell'area metropolitana di Milano, la nuova fiera viene pensata dalle élite locali come articolazione della fiera di Rho-Milano. Da questo punto di vista, per mutare questo asse di rapporti l'intervento sull'asse Treviglio-Bergamo rappresenta una questione centrale.

Dal punto di vista demografico i principali centri hanno conosciuto una espansione limitata ma costante pur risentendo di flussi di uscita di nuclei famigliari giovani verso i centri limitrofi per il minor costo degli immobili. A Treviglio, ad esempio, l'espansione residenziale più recente si sviluppa non per l'attrattività del tessuto produttivo di cui non si registrano (fino ad oggi) nuove espansioni, ma perché la città attrae popolazione dal territorio limitrofo per la presenza di alcune centralità di servizi urbani (scuole, asili, ospedali, ecc.) e dall'area milanese per lo spostamento di famiglie dell'area metropolitana che scelgono di vivere in provincia per una migliore qualità della vita e minori costi immobiliari, continuando però a lavorare a Milano e collocandosi a ridosso dei nodi del trasporto ferroviario.

Sul piano della resilienza complessiva del tessuto economico e sociale le testimonianze raccolte descrivono un territorio della bassa che, fatta eccezione per l'edilizia settore che non ha ancora saputo risollevarsi, ha saputo tenere i capisaldi del proprio insediamento produttivo centrato su alcuni insediamenti di grandi aziende multinazionali, sull'importanza delle infrastrutture di mobilità e su alcuni insediamenti logistici come il centro di smistamento Amazon tra Treviglio e Casirate nonché su un tessuto di PMI molto radicato territorialmente nonostante la virata verso l'export. La bassa bergamasca, in una mezzaluna di territorio che da Ponte San Pietro scende a Treviglio e piega a est fino a Romano di Lombardia, rappresenta una piattaforma di atterraggio per multinazionali attratte dalla infrastrutturazione connettiva dell’area e dalla sua centralità rispetto al grande mercato metropolitano milanese e al sistema Nord Est. Il centro Amazon a Casirate, il nuovo polo logistico Italtrans di Calcio sono esempi di un asse di crescita trainata dalla trasformazione del territorio in piattaforma logistica, con insediamenti produttivi ad alto tasso di

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automatizzazione e fabbisogno professionale polarizzato tra nuclei di figure tecniche in grado di far funzionare i nuovi stabilimenti-magazzini e una base di lavoro terziario caratterizzato da elevati livelli di taylorismo digitale. Dunque una direzione di crescita importante e complessa, dai forti impatti ambientali (la logistica è una attività terziaria industrializzata ad elevato consumo di suolo) e sul piano dei rapporti sociali: di cui gli attori territoriali mettono in luce due aspetti su cui confrontarsi. Il primo riguarda le politiche attraverso cui favorire una connessione positiva tra big players e PMI, ovvero capire come favorire processi di fertilizzazione e trasferimento di competenze/saperi oppure anche effetti di ampliamento del mercato potenzialmente indotti dalla presenza di grandi insediamenti. Il secondo aspetto riguarda invece come favorire nel territorio un effetto di innalzamento diffuso delle competenze e delle professionalità richieste da insediamenti ad alta tecnologia e non, al contrario, un effetto di competitività sul piano del lavoro terziario “povero” o dequalificato. In altre parole si tratta di capire come far sì che la coscienza di luogo del territorio riesca ad appropriarsi positivamente degli impatti prodotti dai big players.

La seconda direzione di sviluppo e possibile innovazione è rappresentata dalla

potenziale transizione del comparto agricolo, del food e del turismo che appaiono in lenta trasformazione anche in questo territorio.

Va detto che oggi anche nella bassa bergamasca non v'é una agricoltura ma almeno due agricolture, i cui rapporti reciproci costituiscono il tema principale per una nuova politica di sviluppo locale. Da un lato, abbiamo una agricoltura estensiva, industrializzata, in grado di produrre grandi quantità di cibo in modo efficiente ma spesso con impatti ambientali e sociali negativi, una agricoltura esposta ai venti della globalizzazione, alla volatilità crescente dei prezzi e alla caduta dei prezzi, con difficoltà nel rapporto rispetto alla distribuzione a valle della filiera. Rappresenta tuttavia la base centrale di tutta la filiera agroalimentare e di fatto il cuore pulsante dell'agricoltura e della zootecnia; dall'altra parte, in risposta alle sfide ambientali e al mutamento dei consumi, sta emergendo un tipo di agricoltura fondata su produzioni tipiche, di qualità, ambientalmente sostenibili, impersonata da nuovi imprenditori oppure da percorsi di riconversione produttiva di aziende tradizionali. L'agricoltura che potremmo definire convenzionale basata su logiche di tipo industriale ha subito nella fase 2008-2010 lo sgonfiamento della bolla finanziaria legata ai provvedimenti di incentivazione degli investimenti degli anni '2000. La

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caduta dei prezzi, l'indebitamento per investimenti espansivi effettuati in quel decennio, ha portato alcune aziende di grande dimensione ad entrare in difficoltà.

" Negli anni ‘2000 quando c’era il boom per l’agricoltura, moltissime aziende si erano espanse e

addirittura raddoppiate, strutture nuove, nuove stalle, nuovi investimenti per poi arrivare negli anni 2008-2010 a riportare a tutti i remi in barca toccando minimi storici. Negli anni ‘2000 vedevamo che i prodotti venivano ritirati, tutto girava, i macelli lavoravano, trasformavano il latte, i prezzi delle materie prime c’erano e tenevano, e quindi il volano che funzionava aveva spinto molti imprenditori agricoli a tentare investimenti. Inoltre c’era la legge Tremonti che aveva permesso di costruire e ricostruire capannoni, rifare tetti, impianti fotovoltaici, c’erano migliaia di opportunità che poi si sono ridimensionate. La questione fondamentale negli anni tra 2008 e 2010 sono stati soprattutto gli impegni economici presi a fronte della caduta dei prezzi con grossi debiti non riuscendo a coprirli. Chi ne ha risentito di più sono state le aziende più grandi come alcune della zona: è stata una sorta di bolla di sapone che è scoppiata, mentre le aziende medie che hanno fatto passi lunghi con le proprie gambe sono andate avanti" (Intervista bassa bergamasca).

In realtà una descrizione dell'agricoltura prevalente in bassa bergamasca che si

limitasse a leggere questa realtà con le lenti del tradizionalismo sarebbe sbagliata. In primo luogo perché alcune produzioni tipiche e di qualità sono espressione per l'appunto dell'area; ma soprattutto perché sono in atto, anche se forse scarsamente rilevate dalle statistiche, modificazioni nella catena del valore del comparto importanti. La sfida è far emergere e rafforzare quella che potremmo chiamare una economia della terra fondata su un modello di impresa multifunzionale generatrice di beni pubblici oltre che privati in grado di diversificare per rispondere ai processi di segmentazione del mercato. Valorizza il radicamento territoriale con l’innovazione. si proietta verso i mercati esteri, attrae consumatori e visitatori attraverso un rapporto diretto con la clientela. si compenetra con l’offerta di turismo enogastronomico e talora anche con quella culturale. È un’agricoltura più complessa, fortemente terziarizzata, che richiede competenze e attitudini altrettanto complesse, mettendo in discussione la concezione di “agricoltore” come ha preso forma nel dopoguerra. Una sorta di comparto agro-terziario. Ad oggi questo è un modello che viene per lo più associato a due caratteristiche: ridotte dimensioni dell'impresa e radicamento in un contesto collinare o di montagna. La sfida è al contrario renderlo un modello di transizione possibile per le realtà più strutturate della pianura.

Una rete che intermedia alcune di queste innovazioni è il Distretto Agricolo della Bassa Bergamasca, società cooperativa di cui sono soci sia alcuni comuni che le imprese agricole e che sta provando ad esplorare alcune di queste piste di transizione. Attraverso la costruzione di reti di ricerca con il Politecnico di Milano, nel settembre 2015 il distretto ha proposto al Ministero dell'Agricltura un progetto di creazione di un QR code per garantire la tracciabilità completa dei prodotti e di tutta la filiera e la geolocalizzazione dell'impresa, cercando così di creare fiducia nel

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consumatore. Un secondo campo d'azione è rappresentato dall'innesto delle tecnologie digitali nel ciclo agricolo secondo il modello della cosiddetta agricoltura di precisione. Su questo fronte è attivo il CRA-ING di Treviglio, Laboratorio per la ricerca e Sperimentazione con l'iniziativa del Farm Innovation Lab, organizzato nell'ambito dei lavori del G7 dell'agricoltura. Da citare sul piano dell'innovazione tecnologica anche il laboratorio di analisi e ricerca privato Water & Life di Entratico, struttura con una trentina di giovani ricercatori, che lavora a stretto contatto con il distretto agroindustriale della IV gamma concentrato a San Paolo D'Argon nella parte più a est dell'area, il più importante in Italia, in cui si concentrano alcune delle maggiori aziende di produzione delle verdure orticole di IV gamma con nomi come Bonduelle, Agronomia.

Accanto ai processi di innovazione tecnologico-produttiva attivi sul fronte dell'agricoltura e della zootecnia più industriali, la realtà della bassa sta lentamente vivendo l'emergere di alcune esperienze di un'altra agricoltura, che suggerisce come possibile via di transizione alla ricerca di una sostenibilità ambientale e sociale il tema dell'economia della terra. Si tratta per ora di un tema di nicchia, senza dubbio. Tuttavia è interessante capire come una serie di soggetti e reti si stiano strutturando per affrontarlo. Nata nell'agosto 2012 la cooperativa di produzioni biologiche Castel Cerreto, si dedica alla coltivazione di produzioni orto-frutticole a partire dalla rigenerazione di un vecchio frutteto ormai in disuso di proprietà degli Istituti Educativi di Bergamo. La cooperativa si struttura su un modello apertamente alternativo a quello "dell'agricoltura industriale" proponendo una agricoltura biologica, stagionale e di prossimità con un metodo commerciale fondato sulla partecipazione dei consumatori, chiamati non solo a diventare soci insieme agli agricoltori, ma ad acquistare attraverso la pratica dell'autoraccolta self-service, l'apertura di percorsi ciclo-turistici e formativi nel frutteto, accordi con l'Istituto di Agraria Cantoni di Treviglio per stage formativi, ecc. Sempre a Treviglio nasce nel 2016 il nodo locale dell'Alveare, una piattaforma digitale europea di economia solidale e collaborativa nata in Francia nel 2011 e parte del movimento europeo delle Food Assembly, dedicata a promuovere la distribuzione dei prodotti agricoli e alimentari locali a Km0. Oggi in provincia di Bergamo sono operativi 11 punti-alveare. Importante è anche l'esperienza della società agricola "Il Montizzolo". Nata nel 2008 su spinta dei due membri più giovani della famiglia, oggi alleva 3000 suini con un sistema di filiera parzialmente chiuso: 70 ettari di terreno vengono coltivati a cereali per alimentare i capi dell'allevamento, l'azienda controlla in parte il processo di macellazione e trasformazione in insaccati che vengono poi venduti nello spazio commerciale e nel ristorante dedicato presente nella cascina sede aziendale. Il prodotto è tutto interno, tracciabile tramite un meccanismo di prelievo del DNA dell'animale, l'azienda è affiliata a Slow Food e a "Campagna Amica" di Coldiretti. L'azienda ha un rapporto stretto di collaborazione con l'Istituto Agrario di

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Treviglio vorrebbe avviare una sperimentazione di vendita su piattaforma digitale e adottare i protocolli per diventare fattoria didattica.

Infine importante è il processo di trasformazione dell'agenzia di promozione territoriale "Pianura da Scoprire", formalmente Associazione di promozione turistica, di fatto vera e propria Agenzia di Sviluppo locale dedicata alla costruzione di un asse di sviluppo centrato sul turismo dei percorsi. L'organizzazione che ha forma di associazione di promozione sociale senza scopo di lucro nasce nel 2009 e si struttura come partenariato pubblico-privato che oggi aggrega parchi regionali, quasi 50 comuni a cavallo delle province di Bergamo, Brescia, Cremona, Lodi e Milano con baricentro geografico il territorio di Treviglio, operatori turistici privati. La mission punta a promuovere i temi della mobilità dolce, sostenibilità ambientale, valorizzazione delle risorse latenti del territorio. L'area d'azione è dunque la media pianura lombarda e si è sviluppata inizialmente a partire dal sostegno di Fondazione Cariplo e Regione Lombardia. Scopo è promuovere e valorizzare i valori nascosti e poco promossi del territorio sul piano dei beni culturali e ambientali. Accanto a singole azioni di riqualificazione culturale e ambientale di singoli luoghi, monumenti, spazi pubblici e tratti di percorsi ciclabili, i progetti cardine sono la realizzazione di un Parco Ciclo-Turistico della media pianura lombarda dotato di 14 itinerari a giro del territorio fra loro comunicanti e interconnessi, con prospettive di connessione con gli eurovelo che vengono dal nord e dall’occidente, quindi un discorso molto importante dal punto di vista della rete cicloturistica regionale. Facendo leva sull'ampiezza del partenariato e giocando il ruolo di costruttrice di relazioni e reti di sistema trasversali e di struttura in grado di sviluppare un know-how di gestione progettuale, l'Associazione intende quindi creare un marchio d'area che dia distintività al progetto di attrazione turistica.

La comunità dell’Isola bergamasca

Il territorio e la sua situazione socio-economica attuale

L’Isola Bergamasca è un territorio che presenta delle peculiarità particolari sia dal

punto di vista morfologico che della coesione sociale, tratti caratteristici da considerare nel momento in cui ci si approccia ad un’analisi socio-economica a tutto tondo. Il territorio dell’Isola è infatti una cerniera fra le provincie di Bergamo, Lecco e Brianza, ma è anche una particolarità per via della composizione demografica. Non è infatti assimilabile ad una valle né dal punto di visto morfologico né

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istituzionale, pur essendo ben delimitato sotto il profilo geografico. Ha una stretta vicinanza coi centri urbani di Lecco e Bergamo ma presenta una coesione identitaria più simile alla vallate vicine, quali la Val Imagna. Il tessuto produttivo è disseminato di piccole e medie imprese, forte soprattutto il comparto tessuti e dell’intimo, settore che nel contesto generale della provincia di Bergamo ha registrato una profonda crisi che ha fatto sorgere molti interrogativi sulla tenuta dei livelli occupazionali e anche sul destino ultimo dei fabbricati dove sorgevano le industrie. Le risposte date dal tessuto produttivo del territorio sono state propositive e decise a trovare delle soluzioni innovative ai problemi imposti dalla ristrutturazione economica che ha iniziato a far sentire i suoi effetti più pesanti con l’inizio della crisi economica di dieci anni fa. Qui troviamo una similitudine con i territori della pianura e dell’hinterland bergamasco; visto infatti il tessuto produttivo disseminato di imprese industriali di piccolo e medio calibro, la crisi ha imposto in questi territori problematiche non difformi da quelle vissute in pianura. Prima del 2008 la domanda interna era sufficiente per permettere a queste aziende di vivere e l’economia non premeva in maniera eccessiva imponendo ristrutturazioni come poi ha fatto. La necessità di aprirsi a mercati più, più concorrenziali ma anche meno regolamentati ha portato il tessuto imprenditoriale del territorio a confrontarsi con dinamiche nuove e a reinventare il proprio modello d’impresa. Come sintetizza un attore locale:

“Siamo un territorio di PMI, questo è positivo, ma anche un limite. La crisi ci ha reso consapevoli che

dovevamo aprire i cancelli delle nostre imprese e guardarci attorno. Oggi sono stati fatti importanti passi avanti anche se non sono ancora sufficienti. Abbiamo ancora un grosso limite nella capacità di fare sistema.”

Questa apertura ha portato anche ad una nuova domanda di formazione riportata

dalle impresa alla comunità locale, principalmente riferita a professionalità e competenze di alto profilo o comunque più alto di quei livelli che erano sufficienti fino a pochi anni prima. In questo senso gli attori coinvolti nella nostra analisi rilevano uno iato fra la preparazione scolastica offerta e le reali esigenze del mercato del lavoro. Questa domanda ha fatto interrogare gli istituti e gli attori preposti alla formazione della zona, come vedremo, e anche in questo caso sembra che il territorio abbia saputo rispondere in maniera proattiva ai grandi mutamenti macroscopici che lo hanno attraversato. Dal punto di vista dell’amministrazione si è rilevato come le pubbliche amministrazioni locali riscontrino i problemi comuni a tanti (se non tutti) i territori, problemi caratteristici di una fase di crisi e stagnazione: calo delle risorse disponibili, calo degli investimenti per operazioni e azioni locali per lo sviluppo territoriale, oltre ad un aumento dei vincoli di bilancio e burocratici che di certo non favorisce operazioni di maggior respiro a beneficio della comunità.

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A tutti questi problemi imposti dalla crisi economica di 10 anni fa hanno seguito delle risposte che da varie parti del tessuto comunitario che mettono in luce una certa vitalità di quest’ultimo in termini di iniziativa individuale, un po’ più carente invece sull’aspetto aggregativo e di messa in comune delle problematiche. L’ambito amministrativo, quello che forse più di altri ha subito pesanti riduzioni della sua capacità operativa economica, esistono però segnali incoraggianti circa la capacità di inventarsi soluzioni innovative per continuare a garantire i servizi che sono propri della sua funzione. Nel 2006 le amministrazioni comunali hanno messo in comune i propri sforzi per allargare il proprio raggio d’azione ed intensificare la qualità dei servizi attraverso lo strumento dell’Azienda Consortile dell’isola Bergamasca, oggi denominata semplicemente Azienda Isola. Questa gestione in forma associata dei servizi erogati dagli enti locali ha permesso di capitalizzare le risorse a vantaggio delle fasce più fragili delle comunità che sono il principale soggetto destinatario delle azioni del consorzio, non tralasciando tuttavia altri importanti temi in favore dell’intera comunità come il welfare aziendale, la formazione e il networking fra attori locali. L’azienda si occupa nello specifico di orientamento socio-occupazionale, di formazione per l’ingresso del mondo del lavoro ed è inoltre la destinataria di variegati servizi afferenti alla tutela dei minori quali affidi, assistenza domiciliare e possiede inoltre un fondo emergenziale per il collocamento in strutture protette di minori e madri con figli. Le azioni di questo progetto di coordinamento consortile sono inoltre rivolte a tematiche basilari di quel welfare un tempo maggiormente garantito dalle entità centrali e ora demandato al protagonismo degli attori locali quali i servizi agli anziani, ai disabili e tutte quelle azioni che in generale aiutano a coniugare esigenze lavorative con quelle famigliari. Rileva inoltre una particolarità quasi assoluta nel panorama della cooperazione amministrativa che è una libera associazione fra i comuni dell’Isola costituitasi in associazione mezzo secolo fa chiamata Comunità Isola Bergamasca (CIB). Pur non essendo riconosciuta come ente pubblico, ne ha tutte le caratteristiche e soprattutto persegue gli obbiettivi propri di un ente pubblico di promozione territoriale guardando al modello delle Comunità Montane. L’associazione si occupa infatti di promozione territoriale e di cooperazione amministrativa con un particolare riferimento alla formula delle unioni comunali. Svolge inoltre una funzione di rappresentanza rispetto a enti di medio/alto livello presentando il territorio dell’Isola come una comunità compatta con un portavoce unico, con tutti i vantaggi che da questo deriva. Una storia di aggregazione volontaria su base territoriale ed identitaria che ha anticipato di molto i tempi e che, visto il contesto attuale, ha fatto trovare preparato il livello amministrativo della comunità territoriale alle sfida delle odierne dinamiche socioeconomiche. La causa di questo spirito aggregativo è probabilmente da ricercare dunque più indietro nel tempo e si mescola con la storia di povertà che il territorio ha vissuto durante lunghi secoli,

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oltre ad essere un territorio con un non banale problema di approvvigionamento idrico. Citiamo questo fatto storico e geografico per dare ulteriore contezza delle particolarità, sotto il profilo aggregativo, di questo territorio. Per risolvere questo grave problema nel dopoguerra fu fondata il Consorzio di gestione delle acque per volontà comune degli enti pubblici locali. Oggi questo consorzio si occupa della gestione delle acque locali per imprese, privati cittadini e pubblico, oltre a gestire i reflui e i servizi di depurazione dell’acqua. Grazie a queste componente pubblica ha saputo interpretare il suo ruolo come servizio al cittadino mantenendo un’elevata qualità dei servizi allargando anche però il suo raggio d’azione a veri e propri interventi di mercato come il servizio di depurazione per le aziende che ha contribuito in maniera notevole ad abbattere i costi fissi e aumentare così la competitività delle aziende del territorio. È notabile altresì un’altra iniziativa di welfare che vede Hidrogest come capofila di un progetto insieme alla Comunità Isola. Progetto che ricevuto da parte della provincia la possibilità di essere finanziato attraverso una raccolta fondi gestita da un’azienda esterna. Si tratta del conferimento di una carta (Commercio Solidale Isola Card) che viene caricata di alcuni punti per ogni spesa che l’utente fa in piccoli esercizi commerciali locali, escludendo dunque la grande distribuzione. Questi punti sono poi “spendibili” nelle 25 case dell’acqua sparse per il territorio dell’Isola per ricevere gratuitamente acqua potabile per i consumi quotidiani. Un’altra esperienza importante che va nella direzione di una nuova interpretazione del ruolo amministrativo e delle sinergie che esso può creare è la piattaforma Q-Cumber. L’offerta di Q-Cumber è strutturata a due livelli: una piattaforma e vari prodotti software per la sostenibilità, verticali, orientati a specifici interlocutori e specializzati nella gestione di particolari esigenze. Questo strumento raccoglie dati legati alle emissioni di vario tipo, sia quelle industriali fino ad arrivare alla singola segnalazione del cittadino su un sacco dell’immondizia abbandonato. A livello delle segnalazioni dei singoli si basa su una aggregazione di crow data che permette un’interazione diretta fra singolo cittadino e soggetti istituzionali e privati per la sostenibilità del territorio, intervenendo anche su problemi di piccola entità. A livello macro si occupa di aggregare tuta una serie di dati che sono nelle disponibilità dei vari livelli amministrativi per permettere a professionisti, enti gestori e imprese a prendere a valutare il livello di sostenibilità ambientale del territorio e fornisce un utile strumento analitico al decisore, permettendogli di interfacciarsi con più facilità a dati altrimenti dispersi e di no facile lettura. Per quanto riguarda il livello di cooperazione amministrativo dunque, il territorio dell’Isola ha una storia importante nel praticare forme di cooperazione e nello sperimentare azioni comuni per l’erogazione dei servizi. Un’interpretazione del ruolo amministrativo peculiare che potrebbe portare a dei risultati spendibili anche nell’attuale congiuntura se sapientemente innovati alle esigenze attuali.

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Pur se non compresi formalmente dell’area omogenea dell’Isola, le esperienze di rigenerazione urbana realizzate a Zingonia e il caso del Consorzio Intellimech, rappresentano esperienze esemplari sul fronte dei meccanismi di cooperazione sociale, sia nella comunità dei residenti che nella comunità operosa delle imprese. Zingonia è un caso esemplare di tentativo di innescare meccanismi di innovazione sociale attraverso policy di coesione. Il caso di Zingonia è emblematico di una esplosione demografica problematica degli anni recenti. L’esperimento nato negli anni ’60 di integrazione fra spazio industriale e spazio abitativo, con dei richiami evidenti al vicino e ben più antico esperimento di Crespi d’Adda, fallì per via di diverse velocità nell’installazione di insediamenti abitativi e industriali con una prevalenza di questi ultimi sui primi. Questo problema, unito alla mancanza di un piano regolatore che all’epoca non esisteva, ha portato ad un veloce degrado della zona, abbassando il prezzo del metro quadro e risultando appetibile per fasce marginate di popolazione, specie migrante, che hanno costituito dei veri e propri ghetti. In anni recenti, a partire dal 2000, si sono avvicendati progetti di rigenerazione urbana per dare soluzioni ai problemi di esclusione del territorio con iniziative volte a dar maggior peso le fasce emarginate della popolazione e, al contempo, isolare i gruppi di micro-criminalità che si erano insediati nella zona. Il caso è interessante in quanto emblematico degli spostamenti demografici e delle marginalità che le ristrutturazioni economiche portano con esse se non adeguatamente gestite. Alcune progettualità sul territorio hanno cercato di dare vita a percorsi di rigenerazione urbana che mescolassero l’intervento del settore pubblico, del privato e del sociale in una sinergia necessaria che avrebbe dovuto riqualificare integralmente l’area, anche perché scindere questi interventi ne depotenzia enormemente i risultati fin quasi ad annullarli. Gli interventi fatti finora hanno prodotto risultati interessanti intermini di direzione delle azioni e di conoscenza della realtà locale. Tuttavia il mancato intervento di azioni strutturali, rivolte alla modificazione effettiva dello spazio urbano non permette agli interventi singoli sul tessuto sociale di strutturarsi in modo che camminino con le proprie gambe, e senza questa ristrutturazioni materiali difficilmente riusciranno a sostenersi con le proprie forze. Nelle parole di un soggetto impegnato in prima persona nella progettazione di questi sforzi:

“Dal 2009 ad oggi. Continuamente rinnovato lavoro di tessitura sociale, è stato aperto uno sportello

nella zona della criminalità, il compito dello sportello era far vedere agli abitanti ‘buoni’ che potevano parlare con qualcuno per raccontargli le loro cose e poi, in base a quello, organizzare delle iniziative. (…). Ha funzionato bene, la gente ci andava, partecipava, si è creata una grande attività di animazione che ha prodotto iniziative, gli orti sociali, la festa degli orti sociali.. Il problema, però, è che il lavoro sul software non riesce a diventare stabile, dev’essere continuamente rinnovato se non facciamo anche il lavoro sull’hardware, cioè se non metto mano allo spazio fisico e alla riqualificazione degli edifici.”

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Più problematica risulta invece essere la cooperazione nel tessuto produttivo

locale, anche se si registrano singole iniziative molto positive. Sul fronte della cooperazione interaziendale è rilevante il caso del Consorzio Intellimech un consorzio con sede al Kilometro Rosso che si occupa di innovazione tecnologica per le medie imprese. Il focus della sua azione si concentra sulla Ricerca e Sviluppo nel settore della meccatronica per le piccole e medie imprese. Un’azione consortile non legate quindi ad un singolo cliente, ma con un orizzonte più ampio. Da qui l’idea di 16 aziende in partenza (oggi ne raccoglie 25) che hanno creato un ufficio di R&S a servizio degli associati. Si tratta di attività di ricerca su un orizzonte di medio periodo, non quindi schiacciato sull’orizzonte della ricerca di base ma nemmeno di ricerca orientata alle preoccupazioni del singolo cliente. Costituisce pertanto un patrimonio comune alle aziende del settore che per la sua collocazione fisica e l’interesse della sua attività fa anche da ponte verso le realtà più grandi del territorio bergamasco quali Brembo, ABB e Tenaris. A questa esperienza molto positiva di aggregazione imprenditoriale si aggiunge la presenza di molti associati ad Imprese & Territorio che però, essendo una realtà associativa a livello di tutta la provincia, non rientra in questa specifica analisi nonostante la positività significativa delle sue azioni anche nel territorio dell’Isola.

Dal punto di vista delle singole azioni imprenditoriali che hanno (e avranno) comunque un forte impatto sulla comunità territoriale si trovano casi di estrema rilevanza per i temi dell’innovazione e che meritano di essere sottolineati, specie nelle loro ricadute, sia effettive che potenziali, sul tessuto economico e sociale dell’Isola. A Boltiere ha sede la società informatica Semantic di cui la sua divisione Ecorete si occupa del ricondizionamento di hardware informatico per le imprese. Questo tipo di attività non solo permette un diretto beneficio in termini ambientali visto il riciclo di componenti peraltro difficili da smaltire, ma abbatte anche considerevolmente i costi fissi delle aziende che ne fruiscono aumentandone le capacità competitive con un doppio vantaggio per la comunità e per il territorio. L’azienda si occupa anche di vendita di hardware nuovo gestendo direttamente il canale di distribuzione e creando una propria filiera corta che abbatte ulteriormente i costi per gli attori economici. Dalla voce diretta dell’impresa veniamo a sapere di come il territorio con le sue specificità sia una risorsa imprescindibile per l’azienda stessa che si pone in scambio simbiotico con esso. Da una parte, come abbiamo visto, l’azienda produce vantaggi in termini di sostenibilità economica ed ambientale per il tessuto produttivo del territorio, dall’altra l’azienda beneficia della collocazione nel territorio dell’Isola vista la sua vicinanza con le grandi direttrici logistiche della pianura e anche per l’esistenza di un polo d’eccellenza della conoscenza rappresentato dall’università. La collaborazione con l’università ha permesso infatti di portare vanti iniziative di formazione mirate all’inserimento

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lavorativo. Sotto questo profilo viene però portata alla nostra attenzione la problematica di una certa distanza fra la formazione e le esigenze del mondo del lavoro come già riportato da più parti.

Un’altra industria che ha fatto la storia del territorio dell’Isola è la Imec di Carvico, un’impresa che si definisce, a ragione, come artigianato industriale. Fu fondata negli anni ’30 come merceria che produceva capi in nylon. È stata una cinghia di trasmissione produttiva per il territorio che, all’epoca della fondazione dell’azienda, avevo un tessuto produttivo con caratteristiche principalmente rurali. è una delle poche realtà del comparto tessuti che ha resistito all’impatto della crisi e alla competizione dei big player internazionali sapendo rinnovarle proprie strategie. È un’impresa molto legata alla comunità del territorio dell’Isola, fatto testimoniato dalla provenienza di quasi tutti i suoi addetti. Anche nel caso di questa impresa viene lamentato la difficoltà a reperire personale qualificato che essere all’altezza delle nuove azioni imprese dall’aziende, confermando ancora una volta la necessità di formazione maggiore e, soprattutto, più legata alle necessità pratiche dell’azienda.

Vi è poi il recente fiore all’occhiello del territorio dell’Isola che si è installato recentemente a Ponte S.Pietro, Aruba. Il caso di Aruba è di enorme interesse, e non solo per i significativi vantaggi in termini occupazionali che porterà sul territorio, ma anche perché la scelta del luogo in cui si è installata questa azienda rappresentativa della rivoluzione digitale è stata segnata da variabili territoriali importanti. In primis il luogo d’installazione. Aruba a portato la sua web farm negli enormi locali della ex Legler, azienda svizzera tessile, riqualificando un’enorme area industriale che aveva lasciato un vuoto grande all’interno della comunità. La posizione strategica sulle direttrici della Pianura Padana, la disponibilità di ampi spazi, la vicinanza con la diga che ha permesso sia rifornimento elettrico a basso costo, sia acqua per il raffreddamento dei server sono state tutte variabili territoriali che hanno giocato a favore dell’Isola. Al di là del dato occupazionale (comunque non indifferente) le possibilità che questo nuovo insediamento porterà a Bergamo e a tutto il sistema Lombardia sono grandi. L’attrattività di questo polo sarà in grado di richiamare i big player internazionali del digitale come Amazon, Google, Sony e Vodafone, che hanno già relazioni con Aruba. Questa rete di relazioni fornisce un potenziale importante per il territorio che, se in grado di recepirlo, potrebbe portare alla costruzione di un polo tecnologico di eccellenza a livello europeo. L’arrivo dell’azienda aretina ha già portato vantaggi significativi sul territorio la riqualificazione di un’area industriale dismessa ha permesso un arrivo così impegnativo senza ulteriore consumo di suolo, ha dato un impulso all’utilizzo di energie rinnovabili e, nel complesso, è riuscita a proiettare nel futuro un pezzo del passato industriale della zona. Ancora una volta la principale debolezza del

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territorio, anche per questo soggetto, è la formazione del personale contattato, giudicata come insufficiente rispetto alle necessità dell’azienda.

Da ultimo va ricordato il settore turismo che ha dei propri puti di forza nel territorio dell’Isola. In questo comparto si è costituito Promo Isola, quale soggetto di coordinamento degli sforzi per la promozione territoriale e l’incentivo della cultura sportiva. Sebbene il turismo non rappresenti un’attività maggioritaria nel contesto del territorio non si può dimenticare che a livello di siti d’interesse l’Isola possiede delle vere e proprie perle che rappresentano una risorsa importante per il sistema del ricettivo. Impossibile non menzionare fra queste il complesso industriale e residenziale di Crespi d’Adda, patrimonio Unesco e esperimento più unico che raro nel contesto italiano. Anche nei paesi dove l’industrializzazione si sviluppò prima, come l’Inghilterra, esperimenti di questo tipo, portati avanti da industriali visionari, si contano sulle dita di una mano (come New Lanark fondato da dall’utopismo socialista e filantropico di Robert Owen) rappresentando quindi unicità del patrimonio culturale del territorio da valorizzare appieno vista la loro unicità. Sempre sul territorio dell’Isola si trova il paese di Sotto il Monte che ha dato i natali a papa Giovanni XXIII e a cui Promo Isola sta dedicando una serie di itinerari rivolti al turismo religioso. Ci sono poi le bellezze naturalistiche delle rive dell’Adda e dintorni disseminati di ville e castelli.

Le potenzialità di questo particolare porzione del territorio bergamasco sono tante e differenziate. Il corpo amministrativo è ben rodato in esperienze di collaborazione che possono vantare decenni di storia, cosa che ha rinforzato ulteriormente l’identità e la coscienza di luogo da parte della comunità che vive il territorio. Questa storia va però attualizzata alle esigenze dell’oggi per permettere a questo grande patrimonio di esperienze di risultare efficace nelle decisioni odierne e non già una vestigia del passato. In questo senso le iniziative di Q-Cumber, Hidrogest e dell’azienda consortile sembrano importanti segnali di un buon lavoro che si sta facendo verso questa direzione, probabilmente da intensificare ulteriormente affinché nascano altre iniziative di questo taglio. Anche l’iniziativa privata sembra essere vivace e con molti punti di forza in termini di competitività e possibilità di azione. I principali problemi che questo territorio deve affrontare risiedono nella capacità di fare rete da parte del settore privato e lavorare sulla formazione in termini di coerenza con il tessuto produttivo locale. Se l’iniziativa privata rimane isolata le ricadute sul territorio saranno inferiori di molto rispetto alle potenzialità, parimenti se la formazione sarà slegata dai bisogni produttivi difficilmente riuscirà a risultare coerente lo sviluppo del territorio e si risolverà in un’emigrazione di locali verso altri luoghi dove poter spendere le proprie competenze o, più probabilmente, in una minore attrattività in termini complessivi del territorio per gli attori economici che potrebbero pensare di investire sul luogo.

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VALLE IMAGNA

Il territorio e la sua situazione socio-economica attuale

A livello economico valgono per la Val Imagna le considerazioni fatte più in

generale nell’ambito bergamasco, ovverosia una crisi del settore edilizio che ha portato molte aziende a chiudere o comunque ne ha ridotto significativamente le attività. Più nel particolare della Valle ha lasciato il segno la crisi del settore legno (crisi di lungo periodo a cui ultimi dieci anni hanno imposto una contrazione ulteriore), settore distintivo del territorio, a cui hanno saputo resistere solo poche aziende che si sono ristrutturate rinnovando i materiali utilizzati, il design e i propri canali commerciali, ad ogni modo il settore versa in condizioni di grave crisi e i rinnovamenti avvenuti non sembrano in grado di riportarlo ai livelli pre-crisi. Anche il turismo di massa fatto di seconde case e di soggiorni lunghi ha esaurito la sua epoca, pur rimanendo questo settore come risorse importante e principale della valle, si cerca oggi di declinarlo in forme più leggere e consapevoli della realtà ambientale e culturale dei luoghi. Si potrebbe anzi dire in generale che la particolarità della Valle Imagna sta nell’avere vissuto queste mutamenti macroscopici con un atteggiamento reattivo e una vitalità del tessuto sociale e produttivo non comuni nell’ambito del bergamasco. Il caso della Valle Imagna sembra essere infatti un ottimo caso di analisi per investigare le dimensioni dell’innovazione sostenibile e dei problemi che si incontrano nei vari processi aggregativi a livello interistituzionale e interimprenditoriale, ma andiamo con ordine.

Dal punto di vista delle aggregazioni della società privata troviamo l’associazione imprenditori di Sant’Omobono terme (ISOT) composta da circa 120 attori economici della valle provenienti da diversi settori del tessuto produttivo (edile, artigianale e commerciale). Lo spirito di questa iniziativa sta nell’organizzare riunendo in associazione le realtà economiche più vitali e più radicate nel territorio valdimagnino per valorizzarne l’eccellenza al di là dei confini della valle, per coinvolgere direttamente gli attori nei processi decisionali del proprio territorio e creare un interfaccia con le istituzioni, sempre al fine di creare un utile sinergia nella promozione delle iniziative economiche e culturali sul territorio della valle. L’associazione ha come principio statutario promuovere la vitalità del tessuto socio-

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economico del territorio, andando dunque oltre la “semplice” aggregazione imprenditoriale per meri fini economici. Altra interessante realtà nata sempre dall’aggregazione del tessuto imprenditoriale privato è quella di Ecoturismo, un soggetto che aggrega una decina di soggetti attivi nella gastronomia e nel turismo che hanno messo in comune i propri sforzi per garantire un miglioramento del sistema ricettivo della valle con un taglio forte verso la sostenibilità. questa aggregazione a messo in rete i soggetti attivi del tessuto economico che vivono il territorio e vivono di territorio, ed è proprio il territorio ad essere al centro della loro azione che tenta di promuovere dei modelli per esperirlo il più compatibili possibile con la sua salvaguardia e la sua valorizzazione attraverso una raggio d’azione che va dalla predilezione delle produzioni locali, all’appoggio alla rete G.A.S. e all’economia sostenibile per arrivare al turismo del benessere psicofisico e culturale. Esiste poi un’aggregazione di piccole aziende agricole, Agrimagna, che nasce con l’intento di associare in un unico soggetto la voce delle piccole imprese agricole che oltre a condividere la dimensione d’azienda e la provenienza territoriale si riconoscono anche nei valori della sostenibilità, dell’informazione e della consapevolezza dell’utenza che acquista i prodotti, dell’utilizzo di materie prime locali e dei metodi artigianali di lavorazione.

Passando al lato pubblico e amministrativo del territorio troviamo parimenti una vitalità associativa non comune che si espressa in molte forme di aggregazione secondo vari scopi. L’Azienda Consortile Valle Imagna nata dalla volontà di venti comuni della Valle Imagna di dotarsi di uno strumento che permettesse di interfacciare le necessità della comunità locale in termini di welfare con i sistemi produttivi del territorio stesso. L’intento è quello di risolvere in forma associata i problemi di politiche sociali del territorio, con una particolare attenzione alle fragilità esistenti nella comunità della valle. È un aggregazione istituzionale che coopera per il welfare di comunità, lavorando per far interagire i bisogni della popolazione con i servizi e le possibilità offerte dal tessuto produttivo locale in una logica di sinergia e cooperazione. Il proprio raggio d’azione è piuttosto variegato comprendendo uno sportello per i migranti per l’accompagnamento e l’inclusione sul territorio, vista anche la presenza significativa di popolazione straniera in valle. L’azienda cura anche l’abbandono scolastico, gli affidi, ha un servizio per minori in difficoltà e cura uno sportello di aiuto per il gioco d’azzardo patologico. Ha poi un progetto di conciliazione vita-lavoro come vero e proprio servizio di welfare integrato che eroga voucher spendibili in servizi ala persona per disabili bambini e anziani. È una forma di aggregazione integrale molto apprezzata nel territorio della Valle Imagna e a cui molti degli attori coinvolti fanno riferimento come caso riuscito di connessione fra pubblico, privato attraverso le specificità e i bisogni del territorio. È da segnalare come nel segno del progetto “Lavori in Valle” portato avanti dall’Azienda Consortile sia nata l’esperienza di Agrimagna, segno concreto dello

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stimolo e della riflessione che questa realtà ha saputo generare. Sempre all’interno del livello amministrativo è sorto recentemente il progetto “Valle dei 5 campi” che comprende i comuni di Corna Imagna, Locatello, Fuipiano, Rota Imagna e Brumano, nato con l’intento di promuovere il territorio dell’alta valle nell’ottica di creare comunità e di essere e di essere di supporto per le economie locali non chiudendole in se stesse ma aprendole per garantirne anche la sostenibilità economica e far conoscere il territorio. Il progetto si articola in tre filoni d’intervento, tutti rivolti alo sviluppo sostenibile del territorio. Il primo è quello della promozione turistica tramite il recupero e la valorizzazione degli appartamenti sfitti presenti all'interno delle aree dei cinque comuni. A tal proposito è stata studiata una nuova modalità di accoglienza, molto simile all’albergo diffuso e chiamata "affitto diffuso", che permetterà ai turisti di alloggiare in diversi immobili anche solo per pochi giorni. Il secondo filone riguarda il supporto all’agricoltura con un’attenzione specifica sulle aziende aperte da giovani imprenditori. Infine è in atto il recupero e la manutenzione di un itinerario escursionistico di quasi 30 Km che attraversa il territorio dei 5 comuni e che permette di conoscere le bellezze naturali e paesaggistiche di quella porzione di valle. Di interesse risulta poi la forma di finanziamento di questo progetto che nasce dall’iniziativa della Provincia di creare un bando per aggregazioni di comuni che si fossero messi in cooperazione su vari ambiti di promozione del territorio. Dopo una selezione dei progetti arrivati, la Provincia ha affidato la finanzi azione di questi progetti ad un’agenzia che ne ha curato la raccolta fondi.

Infine, ma non ultimo, si rileva una buona vitalità anche nel tessuto associativo del volontariato che, oltre ad essere presente in maniera rilevante e sussidiaria in quasi tutti i progetti precedentemente elencati ha anche creato momenti aggregativi indipendenti sempre nell’ottica della valorizzazione sostenibile del territorio e coerente con le sue specificità. Attraverso la nostra ricerca siamo entrati in contatto con l’Associazione Amici della Val Brunone che è una piccola porzione del territorio della Valle Imagna ma con caratteristiche di estremo interesse per il turismo consapevole e d’interesse particolare. Questa associazione nasce con l’intento di studiare e far conoscere questo sito di elevato interesse geologico. Si occupa di visite guidate per varie utenze, da quelle più specialistiche a quelle di gruppi variegati come scuole, gruppi parrocchiali o della terza età. La presenza sul territorio garantisce anche una funzione di controllo e manutenzione di una porzione di valle che, se valorizzata, va ad incrementare ulteriormente il patrimonio naturalistico e l’attrattività complessivo della Valle Imagna.

Visto il proliferare di aggregazioni a tutti i livelli della comunità di territorio, la Valle Imagna rappresenta un caso particolare del bergamasco, ma presenta altresì problematiche peculiari dovute alle necessità di coordinamento di tutte queste forme associative. A differenza di altri territori si è imposta alla nostra analisi una

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situazione associativa ed una vitalità della comunità assolutamente non comuni. A tutti i livelli sociali la mobilitazione dei tessuti produttivi e comunitari risulta elevata, e non solo. Questa mobilitazione sembra aver ben introiettato non solo la mera necessità aggregativa per poter dare risposte comuni a problematiche comuni, ma anche un’attenzione specifica a far sì che queste problematiche vengano risolte attraverso delle azioni che salvaguardino il territorio e la comunità che lo abita, che ne valorizzino le specificità e che abbiano un’attenzione particolare alla sostenibilità in tutti i settori coinvolti. Questa situazione è sicuramente di buon auspicio per successive azioni di sviluppo che troveranno a riceverle una comunità attenta e vigile. Tuttavia tale situazione non è scevra da problematiche proprie dovute propria al gran proliferare di iniziative associative. Non a caso una richiesta forte è arrivata dagli attori coinvolti nella nostra analisi, rivolta principalmente a mettere a sistema tutte queste azioni. La dispersione di energie è infatti un rischio concreto che il territorio della Valle Imagna corre dato il numero elevato di aggregazioni che si trovano attive nella comunità. Gli attori locali lamentano una mancanza di coordinazione e la debolezza delle cabine di regia preposte istituzionalmente a questo ruolo. Una critica sintetizzata così nelle parole di uno degli amministratori della Valle:

“Queste comunità si sostengono con energie proprie, che però avrebbero bisogno di una regia vera.

Se facciamo affidamento solo sulle energie dei piccoli che si autorganizzano forse non è il meglio del lavoro che si attende e che ci meriteremmo. Noi no ci sentiamo amministrati...”

La richiesta è piuttosto chiara e parla di una necessità di un intervento

amministrativo di livello alto che più che stimolare il tessuto sociale (come abbiamo visto già piuttosto attivo), si faccia carico di un’azione organica di coordinazione e sistematizzazione degli sforzi intrapresi. Questo sia per evitare un’eccessiva dispersione delle risorse mobilitate e sia per fornire coerenza a questi sforzi e dotarli di una univocità di direzione. Non si vuole qui intendere una organizzazione con una irreggimentazione forzata delle energie in campo, la pluralità di queste ultime, le disomogeneità intrinseche e la diversità delle forme associative rispecchiano il carattere poliedrico della comunità che ha saputo coinvolgere diversi strati nei processi partecipativi. Se il processo di inclusione e attivazione vuole restare genuino e farsi promotore di un coinvolgimento ampio della comunità deve saper gestire l’eterogeneità delle azioni, non annullarla. Tuttavia quando questi sforzi fanno fatica a coordinarsi è proprio dal livello amministrativo che si pensa debbano arrivare le risposte e questo perché ne ha le risorse e le capacità, oltre che il compito. In questo senso sono state criticate dagli attori locali ascoltati alcune azioni che avevano l’indubbio fine di promuovere la vitalità delle comunità e dei territori, ma che non calandosi a sufficienza nel contesto particolare di questa

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vallata hanno finito per generare effetti distorsivi sulla coerenza delle azioni in essere. Scendendo nel particolare si lamenta come alcuni bandi fatti in ambito regionale con l’intento di promuovere le iniziative economiche e le aggregazioni dei comuni abbiano poi di fatto, a causa delle caratteristiche dei bandi, favorito la frammentazione. Fra gli esempi riportati annoveriamo la premialità del maggior numero possibile di comuni che, paradossalmente, andava in direzione contraria rispetto alle fusioni di comuni che sono state fatte recentemente in valle proprio nell’ottica della razionalizzazione. Ulteriore effetto controproducente è la questione del sito come vincolo di progetto di pressoché qualunque bando. Al di là delle intenzioni del decisore questo vincolo, in un contesto già così attivo, ha portato alla creazione di quasi una dozzina si siti internet di promozione della Valle Imagna, cosa che non facilita la presentazione di un’immagine univoca del territorio e che disperde le energie, con anche un effetto ironico dato che molti di questi siti si presentano come di coordinamento degli attori locali presenti sul territorio.

Al di là di queste criticità e di queste richieste di maggior coordinamento la Valle Imagna si presenta come un territorio vitale con delle buone risorse per costruire processi di sviluppo sostenibile e partecipato che abbiano a cuore il benessere complessivo e integrale delle comunità umana che la abita. È pur sempre meglio trovarsi a dover risolvere problemi di coordinamento e razionalizzazione che dover stimolare un territorio che ha maggiori difficoltà nell’aggregazione dei locali. La consapevolezza di questa necessità già esiste in Valle Imagna come pure la consapevolezza che il passato con la sua presenza della piccola industria difficilmente tornerà così come la stagione del turismo di massa. E di più, abbiamo registrato da parte di molti attori, non solo questa consapevolezza di non legarsi al ricordo di un passato che non ha molte possibilità di ripresentarsi, ma anche la valutazione positiva di questo fatto, cioè che grazie a queste difficoltà e possibile ridisegnare il modello di sviluppo locale in maniera più coerente con il territorio. È un passaggio culturale non di poco conto e che va apprezzato, anche perché denota una buone dose di coraggio oltre che di consapevolezza. Questa consapevolezza e questo coraggio vanno però attentamente alimentati e coordinati in azioni unitarie che sappiano esprimere al meglio le potenzialità e le risorse del territorio valdimagnino, un territorio che parte avvantaggiato rispetto ad altri della stessa provincia in fatto di consapevolezza e coscienza di luogo.

LAGHI BERGAMASCHI

Il territorio e la sua situazione socio-economica attuale

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La storia economica di questa comunità montana non è dissimile a quella più

generale della provincia bergamasca, in particolar dei suoi territori montani. È un territorio che viveva di agricoltura e che poi ha visto installarsi una forte industria dell’edilizia dal dopoguerra in poi. Un ruolo importante lo ha svolto il turismo, in particolar modo per la parte più vicina al Sebino, ma anche la Val Cavallina aveva dei poli di attrazione significativi quali quello di Gaverina Terme con lo stabilimento termale, chiuso vent’anni fa, che alimentava un intero paese grazie al suo indotto. Le macro-ristrutturazioni economiche degli ultimi 15 anni hanno impattato anche su questo territorio cambiando radicalmente i suoi assetti economici, in particolar modo cambiandone i flussi sui quali si reggeva l’economia. Il cambiamento macroscopico di contesto che forse più di altri ha fatto sentire la sua influenza nel territorio sebino è stato la radicale modifica del modello turistico. Lo spostamento da un turismo famigliare proveniente dai centri urbani della valle fatto principalmente di lunghi soggiorni (anche due mesi) ad un turismo mordi e fuggi ha segnato una grave crisi del ricettivo facendo chiudere molte strutture alberghiere, ma ha anche fatto venir meno un indotto diffuso fatto di stanze in affitto che oggi trova solo in parte una sostituzione nel modello Bed & Breakfast.

È però bene rilevare la disomogeneità esistente fra i vari territori della comunità montana. Sebbene siano riuniti sotto l’ambito territoriale della Comunità dei Laghi Bergamaschi, il territorio della Val Cavallina e quello del Sebino presentano più differenze che omogeneità. Innanzitutto la morfologia territoriale che influisce in maniera determinante sul settore agricolo; il Sebino ha sufficiente spazio pianeggiante per meccanizzare la produzione agricola, operazione invece molto più complessa o quasi impossibile sui declivi scoscesi della Val Cavallina. Inoltre rileva come il territorio circostante il Lago d’Iseo mantenga una sua attrattività turistica di gran lunga superiore a quello della Val Cavallina. In particolare il Sebino è stato in grado di attrarre alcuni specifici flussi turistici non di massa ma con grande capacità di spesa come quello motociclistico. Grazie alla bellezza dei luoghi11, e alla posizione non distante dalle grandi direttrici viabilistiche della pianura, il Lago d’Iseo rimane una metà ambita da motociclisti di età matura che alimentano un ricettivo di fascia medio-alta intorno al lago. Ulteriore specificità del territorio sebino è la presenza di industrie del settore gomma-plastica che, per la propria natura del settore in cui operano, sono proiettate già da anni su uno scenario internazionale. Pertanto le industrie esistenti hanno già passato un processo di ristrutturazione per affrontare gli scenari internazionali e la loro alta concorrenzialità. Inoltre c’è stata una ripresa del settore siderurgico di Lovere con produzioni di alta qualità per quel che riguarda

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Vale la pena ricordare brevemente che il sito del Lago d’Iseo è stato scelto dall’artista bulgaro Christo per l’installazione The floating piers che ha attirato sul lago oltre un milione di persone nel giro di pochi giorni.

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gli assali e le ruote dei treni. Il Lago d’Iseo sembra avere maggiori risorse spendibili nello scenario economico attuale.

L’amministrazione pubblica ha cercato d’intercettare questi mutamenti nel mondo produttivo locale attraverso la costituzione di “tavoli del lavoro” che afferenti alla zona del lago che hanno come obbiettivo programmatico la messa in rete degli stakeholders del mondo del lavoro con rappresentanze di imprenditori, banche, esercenti, scuole oltre ovviamente alla pubblica amministrazione. Quest’azione ha favorito una necessaria attività di messa in rete di attori produttivi differenti e decisamente più eterogenei di quanto non fossero già soltanto vent’anni fa e ha permesso una maggiore coordinazione fra formazione e mondo del lavoro.

Diversa è invece la situazione della Val Cavallina che sembra scontare in maniera più accentuata di altri territori il suo essere “terra di mezzo” fra l’alta valle e la cintura peri-urbana della città di Bergamo. Le attività economiche prevalenti della Val Cavallina erano (oltre la già citata stazione termale di Gaverina) le camicerie, la coltivazione dei funghi champignon e l’allevamento avicolo, tutti settori entrati in difficoltà al volgere del millennio, insieme all’edilizia per seconda case che si era sviluppata negli anni ’60 e ’70. Ulteriore specificità ed elemento negativo in termini d’identità territoriale e vocazione produttiva è la collocazione geografica in prossimità del centro urbano descritta in termini piuttosto chiari dal direttore di una cooperativa della valle:

“esistono dei confini invisibili che si formano in aree come la nostra, che pur essendo peri-urbana, o

ad alta densità demografica, si forma un confine che si chiama "fine del servizio", quindi il pullman arriva a fondo valle, la farmacia pure, la banca anche. Qui tu sei vicinissimo al fondo valle e alla città ma non ne hai beneficio, devi avere la macchina, devio stare bene. Qui noi siamo un area interna, ma di quelle pesanti, siamo vicini, ma comunque se sei in quattro persone a casa devi avere quattro macchine.”

Il settore produttivo della Val Cavallina è segnato maggiormente da piccole

aziende lattiero-casearie o di allevamento, oltre al terzo settore che è caratterizzato dall’offerta di servizi alla persona e di welfare famigliare. Recentemente è nato un progetto di messa in rete di queste piccole realtà del tessuto produttivo della Val Cavallina e del Basso Sebino volto alla conciliazione famiglia-lavoro, al potenziamento delle reti sociali e formativi dei due territori e alla valorizzazione dei produttori locali, con particolare riferimento alle produzioni bio e alle logiche di filiera corta. Questo progetto, nato nell’ambito della rete territoriale di conciliazione Val Cavallina e Basso Sebino, si esprime concretamente sul territorio attraverso un piattaforma online denominata “Welfarepiù”. Questa piattaforma raccoglie le aziende dei vari settori che partecipano all’iniziativa con l’intento di supplire alle esigenze di welfare erogate dal pubblico considerate dalla totalità degli attori coinvolti come non più sufficienti. È quindi un esperimento estremamente

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significativo di collaborazione del tessuto produttivo in connessione con il tessuto sociale del territorio. La piattaforma web è attivata attraverso l'erogazione di voucher destinati ai lavoratori delle imprese aderenti per rispondere a bisogni di conciliazione famiglia-lavoro ma si propone di espandere ulteriormente il proprio raggio d’azione sia in termini di servizi offerti, sia in termini di utenza. il principale servizio della piattaforma è l'erogazione e la conseguente acquisizione di servizi certificati come sostenibili dal punto di vista ambientale, territoriale e sociale. L’attenzione posta ai bisogni del territorio inteso come ambiente umano e naturale fa di questa progetto la sperimentazione più coerente con il concetto di sviluppo sostenibile riscontrata per il territorio dei Laghi Bergamaschi. Attualmente il progetto coinvolge sia imprese del settore produttivo (prevalentemente eno-gastronomiche e turistiche) sia varie cooperative del terzo settore che offrono servizi alla persona. A livello di rappresentanza coinvolge i maggiori sindacati confederali e le associazioni di categoria più vicine alla realtà economica locale. Non è semplice dare una valutazione effettiva sul suo operato stante la recente formazione di questa rete, è però possibile riscontrare come i principi dello sviluppo sostenibile siano tutti enunciati e negli intenti di questo patto territoriale e anche l’identità dei soggetti coinvolti rispecchia la pluralità di voci che sono essenziali al mantenimento di coerenza dello sviluppo nei vari ambiti e bisogni della comunità che abita il territorio. Nonostante l’approccio del progetto “Welfarepiù” sia inscritto nella sussidiarietà ai servizi pubblici, un maggior coinvolgimento di questi ultimi in termini sia di coordinamento che di riconoscimento del lavoro svolto potrebbe risultare positivo per un ulteriore intensificazione delle azioni della piattaforma.

Infine, sempre per lo specifico del territorio della Val Cavallina, è di rilevanza il portale di promozione territoriale invalcavallina.it che riunisce tutti i comuni della valle, il Consorzio Servizi ValCavallina e una lunga serie di associazioni, musei, proloco e imprese del settore turistico e gastronomico. L’intento dichiarato è quello di offrire un portale univoco per il territorio con lo scopo di valorizzarne il patrimonio naturalistico e culturale. Sebbene la valutazione di molti attori intervistati (compresi quelli che lavorano direttamente al portale) circa il ruolo del turismo sul territorio della valle ci abbiano riferito come questo settore possa al più svolgere una funzione suppletiva all’economia del territorio e, per le caratteristiche di cui si è detto prima, non sarà mai settore trainante nell’economia complessiva del territorio è comunque un’azione rilevante che cerca di fornire un immagine coesa del territorio e di promuoverla verso l’esterno. Non è una questione marginale, specie se si pensa che la promozione territoriale in termini di immagine e di eccellenze del territorio è uno dei punti deboli dell’economia bergamasca che potrebbe rafforzare la sua immagine complessiva anche grazie ad operazioni simili dei singoli territori. Non a caso interrogando gli stakeholders locali sulle opportunità prossime di sviluppo, in particolar modo riferite all’intercettazione di flussi da parte

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del territorio, siano in buona parte basate sul possedere una migliore e più consistente immagine del territorio, consapevoli del fatto che i prodotti locali, che vanno dalla produzione di formaggi ai servizi di accompagnamento per escursionisti, dal ricettivo turistico all’attrazione di eventi, sono tutte azioni basate su un’immagine che il territorio da di sé. In questo senso il portale invalcavallina si occupa anche dello studio e dello sviluppo del marchio turistico del territorio della valle. La riuscita di questo sforzo dipenderà probabilmente da quanto gli attori locali sappiano comprendere questa sfida e si attivino di conseguenza, cercando di mettere in sinergia le azioni dei vari soggetti locali, in una cooperazione che sappia interpretare le specificità territoriali quali risorse per la promozione di uno sviluppo sostenibile della società e dell’ambiente.

PROSPOSTE DAL TERRITORIO

Interrogando gli attori locali attraverso la realizzazione d’interviste e focus group

sono emerse alcune ispirazioni e richieste che meritano di essere riportate, sia per capire come i locali vedano le prospettive future del proprio territorio e sia per capire quale sia il livello di consapevolezza circa lo stato dell’economia locale in relazione con quella globale.

Come detto in precedenza da più parti viene avvertita la necessità di promuovere un’immagine del territorio dei laghi che sappia esprimere le potenzialità locali anche nei flussi globali. Andando nella pratica è stato mostrato un certo interesse per promuovere un marchio distintivo che permetta di portare le eccellenze eno-gastronomiche locali nel vicino aeroporto di Orio al Serio sotto forma di pacchi che riuniscano i vari prodotti dando così un’immagine coesa del territorio e permettendo di praticare prezzi che solo un luogo come l’aeroporto permette. Si tratta di una proposta estesa a tutto il territorio della provincia di Bergamo. Gli attori sono infatti ben consapevoli del livello della sfida insita in un’operazione di questo genere e di come sia possibile risolverla solo in un ambito allargato a tutto il bergamasco. Da parte delle imprese locali c’è una domanda di formazione specifica rispetto ai futuri assunti. Questo domanda è indice di una maggiore consapevolezza rispetto alla complessità delle condizioni di mercato attuali che richiedono, non solo, conoscenze direttamente apprendibili in azienda circa la produzione specifica, ma anche nozioni e strumenti di carattere generale sul funzionamento dell’impresa nel contesto di un’economia complessa. Sempre dalle imprese proviene una richiesta di maggior coordinamento degli sforzi del tessuto produttivo per presentarsi ai mercati esterno come soggetto produttivo in concorrenza con altri esterni più che al proprio interno. La domanda è principalmente rivolta alla Pubblica

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Amministrazione, ma esiste la consapevolezza che una maggior capacità di coordinamento sia possibile solo attraverso un cambiamento culturale dei soggetti stessi attivi nel tessuto produttivo. Un simile cambiamento, per sua stessa natura, richiede tempi medio-lunghi e sarà più probabilmente attuato dalle generazioni che si sono appena affacciate e si affacceranno al mondo del lavoro. Facilitazioni e incentivi per questi soggetti potrebbe quindi comportare (insieme al loro ingresso nel mercato) anche minori tempi per quel cambiamento culturale tanto desiderato ma così difficile da attuare nella pratica.

Più in generale viene da parte dell’amministrazione locale l’idea di coordinare a livello complessivo tutte le Comunità Montane nazionali per ottenere una maggior rappresentanza del territorio montano sia a livello di politiche nazionali sia europee, dato che la maggior parte dei fondi per lo sviluppo arriva proprio da Bruxelles. L’idea è complessa e di non facile risoluzione, viste anche le disomogeneità esistenti fra le varie Comunità Montane, sembra tuttavia un percorso che potrebbe portare dei risultati nei termini di un maggior riconoscimento delle specificità territoriali che informano i territori di montagna e ne segnano (negativamente) le capacità di concorrenza nel mercato globale.

CASO D’INTERESSE - COOPERATIVA SOCIALE “L’INNESTO”

BOX 2: Il caso della cooperativa di comunità “L’Innesto” La Cooperativa L’innesto è probabilmente il caso più significativo di impresa no-profit presente nel

territorio del Val Cavallina. Nasce a fine degli anni’90 avendo come principio statutario proprio la promozione economica e la partecipazione sociale attraverso iniziative economiche e culturali radicate, o meglio “innestate”, sull’identità territoriale di luogo e sulla comunità che lo abita. La cooperativa ha ristrutturato un edificio in un borgo di Gaverina per farne la sede di attività di promozione territoriale. Coinvolge 150 soci di cui 50 sono addetti della cooperativa e impiega 30 dipendenti. L’attività è variegata e corrisponde alla vocazione della cooperativa di valorizzare un ampia gamma di attività produttive purché siano in coerenza con l’identità di luogo e coesa con la realtà sociale. In questo senso la cooperativa è impegnata nella gestione dei centri comunali di raccolta di rifiuti, nelle pulizie di edifici pubblici e privati, nella manutenzione del verde oltre che alla promozione turistica che avviene sia attraverso il ristorante attivo nella sede della cooperativa sia con attività didattiche rivolte alle scuole e anche al singolo turista.

In generale il progetto della Cooperativa Sociale L’innesto è di elevato interesse dato che si pone come il soggetto più strutturato e consapevole del territorio della Val Cavallina. L’obbiettivo manifesto è la crescita territoriale coerente con i bisogni della comunità e con le specificità che esprime, in questo senso si fa interprete e realizzatore di quello sviluppo sostenibile che è stato spiegato a livello teorico nella prima parte di questa relazione. Uno sviluppo che affonda le sue radici nelle specificità del territorio per un benessere che sappia porre in equilibrio sostenibilità economica, ambientale e sociale, senza che uno di questi ambiti prevalga su un altro andando così ad svantaggiare un pezzo della comunità, sia esso la sua identità, la sua economia o il suo territorio. È inoltre da ricordare che il progetto Welfarepiù è coordinato e promosso dalla cooperativa L’Innesto.

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VAL BREMBANA

Il territorio e la sua situazione socio-economica attuale

La Valle Brembana è un territorio più industrializzato rispetto alle altre vallate del

bergamasco. Il tessuto produttivo è caratterizzato dalla dimensione della piccole e media impresa, anche se esistono casi significativi di grandi imprese come la S. Pellegrino, cresciuta molto in questi anni recenti, la SMI che impiega 500 dipendenti, la CMS che si occupa di produzione di centri di lavorazione multiassi a controllo numerico, macchine termoformatrici e sistemi di taglio a getto d’acqua, la Minelli di Zogno sulla lavorazione del legno, la Scaglia e la Gervasoni, tutte realtà significative del tessuto produttivo del territorio che hanno resistito alla recente crisi. Queste aziende formano lo zoccolo duro della produzione della valle e hanno resistito alla ristrutturazione economica degli ultimi anni grazie alla loro strutturazione interna e alle commesse estere che hanno saputo aggiudicarsi. Altre aziende di egual calibro sono invece andate via dal territorio della valle per via delle limitazioni fisiche che la morfologia della valle imponeva sulla loro espansione, oltre alle limitazioni infrastrutturali. Settori che hanno invece patito con maggior vigore gli effetti negativi della crisi economica sono stati la manifattura, l’edilizia e il tessile, confermando però una tendenza generale della provincia bergamasca sotto questo punto di vista. Il settore della meccatronica ha invece avuto una ripresa significativa ed una crescita legata alle produzioni di qualità che provengono dal territorio valligiano. Sotto questo aspetto si sottolinea come la formazione specialistica per preparare i futuri addetti del settore abbia giocato un ruolo essenziale nella tenuta del comparto. In questo senso è risultata benefica l’interazione fra livello amministrativo e centri di formazione, in particolare l’Istituto Turoldo di Zogno, un’interazione che ha saputo mediare i bisogni del tessuto produttivo con quelli del mondo della formazione, pagando sul medio periodo con dei risultati positivi.

Al di là delle crisi settoriale l’impianto generale del tessuto produttivo del territorio sembra aver resistito più che altrove alle alterne vicende degli ultimi dieci anni, cosa che sicuramente ha fatto sentire i suoi effetti in termini di indotto, di stabilità e di sicurezza per tutta la comunità. Come si è detto le azioni più positive sono le risultanze di cooperazione fra attori locali diversi come il già citato caso fra l’amministrazione della Comunità Montana e l’Istituto Turoldo. Sforzi simili sono stati intrapresi nel campo dell’agricoltura e delle tecniche agroalimentari in

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collaborazione con il Centro per la Formazione di S. Giovanni Bianco. C’è stato poi un tentativo di coordinamento fra sindaci della valle con l’intento di promuovere scelte imprenditoriali e di responsabilità sociale incentivando l’utilizzo delle energie rinnovabili e promuovendo una cultura di sostenibilità ambientale. Sempre sotto il profilo amministrativo ed istituzionale si è dato corpo a varie collaborazioni con le vallate vicine, Val Seriana e Valle Imagna, attraverso progetti BIM che sono arrivati a coinvolgere in alcuni casi anche la Valtellina. Uno dei progetti realizzati grazie a questa collaborazione amministrativa prevedeva uno studio di approfondimento del territorio attraverso mappe tematiche, un altro ha visto la partecipazione al bando della Regione Lombardia per le aree interne sui servizi alla persona che però non è riuscito ad ottenere i finanziamenti. Dal punto di vista del livello amministrativo le collaborazioni più interessanti e fruttifere si sono date quando questo si è interfacciato con soggetti di natura diversa rispetto alla propria per mettere in collegamento necessità e bisogni interni alla comunità che abita il territorio. Infatti, oltre ai già citati casi sulla formazione, ci sono state iniziative interessanti e innovative nell’ambito del sociale, ambito che come già si è ricordato ha subito gravi tagli delle risorse rispetto ai finanziamenti pubblici su cui poteva contare fino a pochi anni fa. Sotto questo profilo l’amministrazione del territorio attraverso l’ambito per il sociale si è interfacciato con le problematiche delle varie tipologie di fragilità per risolverne le necessità in stretta collaborazione con le cooperative che tradizionalmente lavorano sul tema. In termini d’innovazione per il campo sociale la novità passa attraverso dei progetti che le cooperative stanno mettendo in campo che riguardano la costruzione di laboratori per l’inserimento lavorativo di persone disabili o in difficoltà. Ciò che qui rileva non è tanto la costruzione degli ambiti che permettano l’inserimento lavorativo, necessità fattuale ma certo non fatto nuovo, quanto piuttosto l’approccio con cui l’amministrazione si mette in sinergia con i soggetti attivi sul campo. L’approccio dell’amministrazione pubblica è stato facilitato anche anche dalla nuova legge regionale sul riordino dei servizi socio-sanitari e che quindi vede maggiormente interconnessi i diversi settori, il privato con il pubblico, gli ambiti e gli altri soggetti che erogano prestazioni. In questo senso la risorsa messa in campo dal tessuto sociale e amministrativo è stata la selezione di professionalità maggiormente formate che permettano di studiare dei servizi tenendo in conto che non si trovano ad operare su un territorio urbano, ma su un territorio che ha bisogno di ragionamenti specifici e di azioni ritagliate sul suo essere montagna. A testimonianza dei frutti di questa mentalità di cooperazione fra ambiti diversi della comunità c’è il progetto TanLab di Val Brembilla che ha come obiettivo principale il miglioramento dello stile di vita del luogo e l’attivazione di una serie di servizi alla popolazione e alle imprese locali al fine di rendere attrattivo il territorio, non solo per gli esterni, quanto più per chi già vive e vuole continuare a vivere il territorio. Il progetto fonda le sue basi proprio sul ricco e variegato tessuto

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associazionistico ed imprenditoriale del territorio. Attraverso donazioni provenienti dal mondo dell’impresa e del volontariato questo progetto riesce a mettere a disposizione del cittadino macchinari complessi per la realizzazione di percorsi formativi in campi avanzati come la stampa 3D, mette a disposizione spazi per la realizzazione di mercati bio a Km0 per incentivare la cultura della sostenibilità agroalimentare sul territorio, oltre a curare varie eventi sui temi delle energie rinnovabili e la promozione di eventi fieristici. Si tratta dunque di un’attività a tutto tondo che cerca di coinvolgere gli starti sociali più giovani dando opportunità di formazione e di avvicinamento del mondo del lavoro per far sì che ci siano maggiori incentivi a rimanere a vivere in valle, lasciando sul territorio le risorse, ma comprende anche servizi che generano ricadute positive in termini culturali e di coesione sociale. Questo progetto nasce anche dalla consapevolezza da parte degli attori industriali della Valle che hanno avuto un ottimo sviluppo negli anni del loro affacciarsi nel mondo del lavoro 30-40 anni fa, hanno portato ricchezza, benessere, occupazione ma che poi non è più seguita un’altrettanto forte vocazione imprenditoriale. Il loro desiderio era quello di rigenerare un po’ il tessuto sociale, anche di Val Brembilla ma più in generale della Val Brembana, per far vedere come si possa fare ancora impresa.

Anche da parte del mondo imprenditoriale dei piccoli, specie nel comparto agroalimentare, si trovano delle interessanti collaborazioni che hanno permesso una valorizzazione dei prodotti locali. Il Consorzio Formai de Mut, attivo in particolare nel territorio della’alta valle, svolge attività di tutela della produzione, della denominazione e del commercio del Formai de Mut. Si è inoltre dato il compito di favorire il miglioramento qualitativo del prodotto, di diffonderne l’immagine e di promuoverne il consumo. Fornisce anche, tramite corsi e seminari, supporto tecnico che verte al mantenimento e al miglioramento della qualità del prodotto. L’intervento della cooperazione in questo senso ha permesso di concentrare le energie dei piccoli allevatori non solo sulla produzione, ma anche sulla valorizzazione del prodotto e sulla sua commercializzazione instaurando sinergie positive con i flussi turistici che attraversano il territorio ma anche aprendo scocchi di mercato al di là dei confini della valle. Il consorzio è anche promotore di collaborazioni strette con la rete dei gruppi d’acquisto solidale lcoale. Un discorso simile nella sostanza è possibile farlo anche con il consorzio per la tutela dello Strachitunt, altra produzione locale d’eccellenza, che raccoglie 11 produttori locali all’interno del disciplinare di riferimento che ha permesso l’ottenimento del marchio D.O.P.

Il turismo è un altro settore importante per la Val Brembana che però sembra aver passato vicende alterne negli ultimi anni fra buone idee e mancate realizzazioni di potenzialità che al momento rimangono inespresse. In generale, come per altri territori, i flussi turistici hanno ripreso ad interessare le valli bergamasche complici

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molti fattori di livello macro quali il riscaldamento globale, la minore disponibilità di denaro per mete più lontane ed anche l’effetto psicologico che il terrorismo internazionale ha fatto sentire sulla scelta di molte località turistiche ora considerate a rischio. Tuttavia il comparto sembra soffrire di difficoltà strutturali dovute ad una rete infrastrutturale non eccelsa, problema che come si comprenderà non danneggia solamente il settore turistico ma l’attrattività complessiva del territorio. La riapertura delle terme di S.Pellegrino, grazie ad un investimento del gruppo Percassi, ha permesso di risollevare le sorti di un comune che ha un’economia basata molto sull’indotto che generano le 120mila persone che frequentano il luogo ogni anno. Sempre a S.Pellegrino c’è poi il patrimonio di architettura liberty costruito agli inizi del ‘900 quando le terme diventarono un polo d’attrazione per l’alta borghesia italiana, ed è da annoverare fra le risorse territoriali architettoniche più importanti. Dal punto di vista della collaborazione e della cooperazione e per occuparsi della promozione territoriale in senso ampio ed integrato è nata una rete di operatori della Valle, VisitValBrembana, per far sì che gli sforzi e gli investimenti in questo campo siano ben gestiti e riescano a contribuire a formare verso l’esterno un’immagine solida e attrattiva del territorio. Questa iniziativa di coordinamento non sembra però avere spiccati accenti sui temi della sostenibilità ambientale e sociale se paragonata ad analoghi tentativi in territori affini, in questo senso il tessuto produttivo dei piccoli allevatori dimostra una maggiore consapevolezza. Più interessante, in termini d’innovazione sostenibile anche se più piccola nei numeri, risulta essere l’esperienza dell’albergo diffuso nato sulla scorta di esperienze simili in Trentino e Friuli gestito dalla cooperativa Donne di Montagna. Come propri obbiettivi, oltre l’offerta ricettiva e gastronomica, trovano spazio anche i discorsi di recupero e rigenerazione degli insediamenti rurali, dei nuclei storici e la valorizzazione delle tradizioni attraverso azioni di diffusione culturale quali convegni e manifestazioni. La cooperativa ha creato anche dei laboratori didattici sui temi afferenti alle tradizioni del territorio (lavorazione della lana, produzione dei formaggi, sentierismo) che sono rivolti alle scuole e ai gruppi che richiedono un’immersione nel territorio più profonda. Le richieste avanzate da questo soggetto verso i livelli amministrativi vertono in una formazione d’impresa, cioè di una formazione che aiuti non tanto in termini economici, quanto piuttosto che sappia formare le professionalità imprenditoriali per far sì che l’esperienza di valorizzazione del territorio che stanno compiendo sappia raggiungere con le sue gambe la sostenibilità economica.

Sul lato del sociale la cooperativa In Cammino costituisce un vero e proprio fiore all’occhiello del territorio e un punto di riferimento per le esperienze d’innovazione gestionale dei bisogni della comunità e per la sostenibilità sociale della stessa. La cooperativa racchiude al suo interno tre diverse cooperative (una di tipo A, una di tipo B ed una mista) che si occupano di vari temi legati alle fragilità e all’inclusione.

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L’approccio prescelto risiede nella cura globale della persona come base di un'alta qualità della vita attraverso lo sviluppo di percorsi partecipativi che aumentino il senso di appartenenza, la mutualità e che al contempo incentivino le opportunità di lavoro e di sviluppo. La cooperativa ha scelto in maniera consapevole la strada della sostenibilità economica attraverso l'autonomia delle sue attività al di là delle logiche degli appalti. Sul territorio offre a più di 100 persone la possibilità di lavorare e partecipare alle decisioni che la orientano come impresa, strutturandosi in forma capillare sui territori coinvolti nelle sue attività La consapevolezza dell’importanza del lavoro in rete soprattutto per darsi quella strutturazione necessaria ad interagire costantemente con il mercato e con i soggetti, anche profit, da cui riceve le commesse. Questa struttura in rete ha permesso loro di includere al proprio interno delle competenze che altrimenti non sarebbe stato possibile coinvolgere, specie nelle aree della contabilità, della distribuzione e della commercializzazione, tutti aspetti necessari quando ci si interfaccia con attori economici non appartenenti al terzo settore. Tutte queste azioni hanno permesso l’accesso al mercato del lavoro a soggetti con difficoltà psico-fisiche, risultando dunque di estremo interesse per l’inclusione sociale e la coesione del tessuto comunitario, arrivando a proporre anche servizi inesistenti nel territorio bergamasco come sui temi della deambulazione e della verticalizzazione di soggetti affetti da traumi. La forza delle azioni di questa cooperativa affonda le sue basi nel territorio non solo per il legame con il tessuto economico che rende sostenibili le inclusioni lavorative, ma anche dal valore terapeutico che l’ambiente della valle riesce a dare. Un esempio notevole dunque di integrazione e sviluppo coerente con i vari livelli della comunità territoriale che riesce a creare integrazione ed economia. La proposta avanzata da questo soggetto verso gli ambiti amministrativi provinciali è in termini di aiuto per gli accreditamenti delle proprie strutture e dei propri servizi, cosa che aiuterebbe di molti i percorsi della cooperativa.

Sintetizzando infine le richieste e i bisogni che abbiamo raccolto nella nostra analisi sul territorio possiamo dire che la preoccupazione principale, condivisa anche dagli altri territori montani, è quella di un riconoscimento dai livelli amministrativi centrali delle particolarità di quei territori. Un riconoscimento delle specificità dei bisogni e delle condizioni in cui si trovano ad operare gli attori socio-economici del territorio. Più che una richiesta di maggiori fondi, cosa che tutti gli attori coinvolti vedono come assai improbabile, si tratta di una richiesta di riconoscimento della natura particolare dei luoghi, della natura di area interna attraverso incentivi che sappiano mettere i locali in condizioni competitive e di parità rispetto ad altri territori che non soffrono di penalizzazioni strutturali dovute alla stessa morfologia del luogo. Incentivi di varia natura che vengono però identificati da parte di una gran maggioranza degli attori come nel riconoscimento di una fiscalità di vantaggio.

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Elenco testimoni privilegiati intervistati

1) Giacomo Angeloni, Ass. Innovazione Comune di Bergamo; 2) Alessandro Bigoni, Presidente CM Laghi; 3) Pierino Persico, Presidente Persico Group; 4) Alberto Mazzoleni, Presidente Comunità Montana Val Brembana; 5) Giacomo Invernizzi, Sindaco Corna Imagna; 6) Filippo Simonetti, architetto; 7) Marco Donadoni, AD Hidrogest; 8) Yuri Imeri, Sindaco Treviglio; 9) Diego Moratti, Direttore “InfoSostenibile”; 10) Lodovico Patelli, Presidente Cooperativa “L’Innesto”; 11) Giulio Mauri, Biodistretto dell’Agricoltura Sociale Bergamo; 12) Gabriele Borella, titolare Azienda Agricola “Il Montizzolo”; 13) Bruno Brambilla, direttore associazione “Pianura da Scoprire”; 14) Sebastian Nicoli, Sindaco Romano di Lombardia;

Elenco partecipanti focus Group Valle Imagna

1) Zaccheo Moscheni, Azienda Consortile Valle Imagna; 2) Miriam Pulcini, Agrimagna; 3) Pierangela Vassalli, Associazione “Amici della Val Brunone”; 4) Valentina Zuccala, Sindaca di Fuipiano; 5) Simona Carminati, Sindaca di Locatello; 6) Stefania Cabassi, “Nahr”; 7) Sara Gandolfi, “Locanda della Roncaglia”;

Elenco partecipanti focus Group Valle Brembana

1) Francesca Monaci, Consorzio “Formai de Mut”; 2) Alessio Demetra Cerea, GAL Val Brembana; 3) Pietro Manenti, Coop sociale “In Cammino”; 4) Francesco Maroni, Latteria di Branzi; 5) Pietro Busi, Fondazione “Don Palla”; 6) Giovanni Fattori, VisitValBremabana; 7) Tarcisio Bottani, Centro Culturale Val Brembana;

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Elenco partecipanti focus Group Bergamo

1) Marco Pasta, “Conlabora”; 2) Nicoletta Brescianini, Direttrcie Creativa “Spazio Fase”; 3) Micaela Barni, “Rete Passwork”; 4) Mattai Agazzi, FabLab Bergamo; 5) Alberto Trussardi, TalentGarden Bergamo; 6) Daniele Rota, Direttore generale ABF; 7) Roberto Marelli, Direttore Sviluppo Parco Kilometro Rosso; 8) Cristiano Arrigoni, Bergamo Sviluppo; 9) Claudio Bonfanti, Biodistretto Bergamo; 10) Cinzia Terruzzi, Associazione “Mercato e Cittadinanza”; 11) Andrea Preda, Reti Sociali Comune di Bergamo; 12) Marco Donadoni, Kendoo.it; 13) Marco Gozzoli, Makemedia;

Elenco partecipanti focus Group Isola

1) Stefano Ierace, Responsabile operativo “Intellimec”; 2) Rosarita Rota, Dirigente Scolastico; 3) Marco Ubiali, Responsabile Cooperativa Sociale; 4) Ezio Reggiani, Commercialista; 5) Fabio Micheli, AD Imec; 6) Elio Tedone, Ambientalista; 7) Andrea Menalli, Semantic; 8) Don Luigi Paris, Parroco di Ponte S.Pietro; 9) Sonia Tiraboschi, Consigliera Provinciale; 10) Simone Bracagni, Direttore Aruba 11) Raffaello Teani, Coordinatore Comunità dell’Isola Bergamasca;

Elenco partecipanti focus Group Laghi Bergamaschi

1) Alessandro Bigoni, Presidente Comunità Montana; 2) Andrea Vanini, invalcavallina.it; 3) Michele Andrioletti, Azienda Agricola; 4) Dino FIlisetti, Azienda Agricola; 5) Giovanni Danesi, Azienda Agricola; 6) Giancarlo Meni, “Prodotti dell’Alveare”; 7) Lodovico Patelli, Cooperativa “L’Innesto”; 8) Antonella Boioni, Presidentessa Coop “Crisalide”;

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Elenco partecipanti focus Group Val Seriana

1) Marco Forchini, Presidente Promoserio; 2) Cinzia Locatelli, Sindaca di Cerete; 3) Antonio Costantini, Comune di Albino; 4) Marco Paganessi, Persico Group; 5) Simonetta Cevenini, Val Seriana Slow; 6) Giacomo Perletti, Agricoltore; 7) Andrea Messa, Associazione “Grani”; 8) Cinzia Baronchelli, Consorzio “Il Solco del Serio”;

La ricerca è stata realizzata con il supporto del Servizio Sviluppo territoriale e Zone omogenee della Provincia di Bergamo.