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Beatrice e Medusa dalle ‘petrose’ alla Commedia MARCO VEGLIA Università di Bologna [email protected] RIASSUNTO: In questo articolo Veglia si sofferma sulla presenza delle ‘petrose’ nell'Eden e sulla figura di Beatrice, che, nel XXXII del Purgatorio, apparea Dante coi tratti della Medusa e coi tratti della Pietra (donna gelida, impietosa). Da queste premesse, Veglia passa a un riesame delle ‘petrose’ per comprendere la figura di Beatrice. P AROLE CHIAVE: Dante, pietra, Beatrice, pietà, conversione. ABSTRACT: In this article Veglia studies the presence of Dante's rime ‘petrose’ in the Eden and their memory in the poetic portrait of Beatrice, wich, in Purg. XXXII, shows herself to Dante as a kind of Medusa and with the same aspects of the Donna Pietra (icy, unmerciful women). With these preliminary remarks Veglia looks through the ‘petrose’ in order to understand the figure of Beatrice. KEYWORDS: Dante, stone, Beatrice, piety, conversion. 123

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Beatrice e Medusa dalle ‘petrose’ alla Commedia

MARCO VEGLIA

Università di [email protected]

RIASSUNTO:

In questo articolo Veglia si sofferma sulla presenza delle ‘petrose’ nell'Edene sulla figura di Beatrice, che, nel XXXII del Purgatorio, apparea Dante coitratti della Medusa e coi tratti della Pietra (donna gelida, impietosa). Da questepremesse, Veglia passa a un riesame delle ‘petrose’ per comprendere la figuradi Beatrice.

PAROLE CHIAVE: Dante, pietra, Beatrice, pietà, conversione.

ABSTRACT:

In this article Veglia studies the presence of Dante's rime ‘petrose’ in the Edenand their memory in the poetic portrait of Beatrice, wich, in Purg. XXXII, showsherself to Dante as a kind of Medusa and with the same aspects of the DonnaPietra (icy, unmerciful women). With these preliminary remarks Veglia looksthrough the ‘petrose’ in order to understand the figure of Beatrice.

KEYWORDS: Dante, stone, Beatrice, piety, conversion.

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1. Oscure e impervie come solo la Commedia saprà essere in talunisuoi luoghi, le cosiddette ‘rime petrose’ rappresentano ancora oggi, purdopo tante ricerche a esse dedicate, un arduo cimento per il lettore diDante1. La diffrazione delle ipotesi di lettura riposa naturalmente sul va-riabile antefatto dell’interpretazione: muta, in effetti, il senso generale diquel manipolo di poesie a seconda del tempo nel quale si colloca quell’espe-rienza; muta a seconda dell’identità della Pietra, come pure si trasformain ragione del valore conferito al conclamato sperimentalismo stilistico ealla inclinazione dei dantisti ad assegnare, o a negare, un significato in latosenso allegorico alla Pietra stessa e alla rime che ne rappresentano l’aspe-rità2. A questa perdurante oscillazione pendolare si aggiunge, come suocompimento o radicalizzazione, la istituita e quasi ossessivamente ribaditapolarità fra la Pietra e Beatrice, a sua volta centrata sulla presupposta na-tura sensuale delle ‘petrose’ e sulla taciuta sensualità dell’amore di Danteper Beatrice (su questa via, si è mosso di recente Giuseppe Ledda)3. Onde,pure, la mutevole sovrapposizione della Pietra alla «pargoletta» (an-ch’essa non poco misteriosa), alla Donna Gentile (a quella della Vitanuova, oppure del Convivio?), alla Montanina, senza contare, per questavia, l’inclusività del fantasma femminile della Beatrice della Commedia,sulla quale autorevolmente ha richiamato in questo convegno l’attenzione,da par suo, Raffaele Pinto4. Comunque si voglia intendere il carattere «ra-dicalmente frammentario» delle petrose, richiamato da Freccero (1989)sulla scia di Contini, resta il fatto che quelle rime, come ben vide LuigiBlasucci in un saggio del 1957, sono forse «l’episodio più determinanteper la formazione di quell’abito espressivo che caratterizzerà il Dantemaggiore», se non altro perché in esse è dato ravvisare «la novità di unadimensione espressiva che sarà poi così tipica dello stile di Dante», daravvisare in «una violenta traduzione plastica delle entità, e conseguen-temente, in una loro forte attivazione» (Blasucci 1957: 403). Insomma, lostile della Commedia, capace non solo di evocare ma di rappresentare pla-sticamente, in dinamica tensione, le cose e le esperienze degli uomini,inizia, o, se non inizia, si manifesta in alto grado, nelle ‘petrose’. «Neiconfronti di questa novità», osservava opportunamente Blasucci, «lo

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stesso episodio erotico legato al nome della donna Pietra, con le sue ca-ratteristiche psicologiche di passionalità e sensualità, tende a passare in se-condo piano» (Blasucci 1957: 404). Si deve invece a Durling e Martinezla più compiuta messa a fuoco della linea che unisce il ciclo per la Pietra(considerato «the major turning point in Dante’s developement») alpoema, tanto che, a loro giudizio, «the poetics of the Commedia is fullyunderstandable only in the light of the petrose» (Durling-Martinez 1990:199).

2. Su un aspetto vorrei dapprincipio indugiare. Mi è capitato altrove(Veglia 2010) di osservare che, dalla centralità del libero arbitrio (Purg.XVI) e dalla definizione conseguente del nuovo amore in Purg. XVII-XVIII («liberum meum ligavit arbitrium», è detto, non per nulla, del fan-tasma dell’amore passionale nell’epistola prefatoria di Amor, da checonven)5 sino all’incontro con Beatrice (contestuale alla scomparsa di Vir-gilio), in Purg. XXX, Dante ripercorre tappe e ripensa problemi dell’ul-timo cruciale decennio fiorentino, ma, in particolare, s’imbatte inpersonaggi preziosi per la definizione dello «stil novo» e dell’immagineteologizzata di Beatrice, che chiudeva un tempo la Vita nuova e che ri-torna, tal quale, anzi potenziata su quell’antefatto, nell’Eden. Non af-fermo, benché ne sia profondamente persuaso, che quella sequenza ditemi e colloqui riproduca, in modo per noi sfuggente, una serialità che fuanche temporale, quindi storica, a monte del libello: certo è che i perso-naggi incontrati, da Bonagiunta a Guinizzelli a Forese, rimontano tutti aun periodo anteriore al 1296 (che è il terminus ad quem della morte diForese), il che, con il vincolo della data fittizia del viaggio, indica mani-festamente che Dante sta ripensando nel Purgatorio all’intreccio di que-stioni che, fra altro e con altro, sta alla radice del libello (nel tempo checorse dal 1290-91 al 1294) (Veglia 2010). Ed è altrettanto certo che il ri-torno a Beatrice nella Commedia, a quella Beatrice che, per i lettori delpoema, riaffiorava appunto – si badi – dalle lontananze della Vita nuovae da altre rime sparse (non cognito era infatti il Convivio), testimonia delpari la rielaborazione purgatoriale dell’itinerario che condusse alla con-

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sacrazione definitiva dell’immagine della donna nelle pagine del 1294.Se questo è vero – e, per il sottoscritto, è vero –, ne discende un ripensa-mento della serie dei canti coinvolti in siffatta rievocazione nel «secondoregno», i quali canti, trattati con mano leggera al reagente di queste osser-vazioni, posso forse rivelare un itinerario coerente col libello e insieme colpoema.

L’idea, tanto per cominciare, di un amore rinnovato e ‘ascendente’(Purg. XVII-XVIII), che presuppone la rivendicazione di un libero arbi-trio (Purg. XVI) negato invece dall’amore passionale e, diciamo, caval-cantiano; il superamento di amori ancillari e devianti come la «femminabalba», con le sue delectationes ingannevoli, inscritto nel pauperismofrancescano (così fervido in Santa Croce per colui che aveva frequentatole «scuole de li religiosi»), che traspare da Purg. XIX-XX; il recupero diun filone sapienziale, aperto alla fede cristiana, nella cultura classica epagana, così come suggerito dal rapporto fra Stazio e Virgilio in Purg.XXI-XXII (dove già Pasquini intravvedeva in controluce, con sicurezzadi sguardo, il rapporto fra Dante e Cavalcanti)6; le vicissitudini condivisecon Forese Donati e il colloquio con Bonagiunta Orbicciani da Lucca,che definiscono per contrasto la natura ontologico-stilistica dello «stilnovo» (Purg. XXIII-XXIV); il superamento filosofico della posizioneaverroistico-epicurea circa la separatezza dell’intelletto possibile dal-l’anima umana in Purg. XXV (dalla quale separatezza, se non emendatada un «organo assunto» dalla pianta-uomo, discendeva la mortalità del-l’anima individuale: altro punto, e principalissimo, della sovrapposizionedi Stazio a Dante e di Virgilio a Guido) (Veglia 1997); il ritorno a Guiniz-zelli come precursore della teologizzazione della donna e l’appello el’omaggio alla lezione, un’autentica «mistica verbale», di Arnaut Daniel(cruciale, come dimostrò Luciano Rossi, per le ‘petrose’), in Purg. XXVI(Rossi 1995); il distacco da Virgilio-Guido, successivo al suo protrattosilenzio (Purg. XXVII-XXX), nell’approdo a una Beatrice che, nella Vitanuova come pure nell’Eden, nulla aveva di comune col mondo di Caval-canti, che pur, come nessuno, aveva preparato quell’incontro, lo avevaatteso ed esortato, quale naturale e poi esterrefatto dedicatario della Vita

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nuova del più giovane amico: tutto questo prepara e giustifica, nella strut-tura e nei significati del Purgatorio, il viaggio di ritorno a Beatrice e il ri-pensamento del decennio 1290-1300 (con ciò che precede e con ciò chesegue la Vita nuova), non senza la mediazione (per un Dante che movevasempre, nei suoi slanci conoscitivi e nelle sue esperienze poetiche, da an-tefatti storici) di un amore capace di conciliare Dio e la Natura (come ac-cade nell’eterno femminino di Matelda, chiunque ella sia).

3. Da un simile ripensamento non sono escluse le rime ‘petrose’. La ri-comparsa della «antica fiamma» di Beatrice in un contesto di perpetuaprimavera accentua anzi il rilievo, nient’affatto secondario, delle imma-gini invernali scelte come correlato oggettivo della inusitata durezza del-l’amata. Ciò è tanto vero che, secondo Ignazio Balzelli, «gran parte dellaseconda metà del canto XXX e della prima metà del canto XXXI del Pur-gatorio si svolge su uno stile (parole e forme) da una parte intensamenterealistico e concreto, dall’altra letterariamente alto, difficile e aspro, in-somma lo stile proprio delle ‘petrose’» (Baldelli 1992: 173). Eppure, di-nanzi alla ripresa dantesca del linguaggio petroso nell’Eden, i lettorihanno per lo più ribadito la persuasione che tali echeggiamenti dovesserogiovare a Dante per ribadire l’opposizione inconciliabile tra Beatrice e ladonna-Medusa. Tuttavia, se quanto prima si è accennato ha un fondo diverità, se cioè il Dante della seconda metà del Purgatorio ripensa e riper-corre le tappe della propria esperienza poetica dalla Vita nuova all’esilio,la presenza della memoria delle petrose nel ritratto di Beatrice dovevasuggerire qualcosa di più di un semplice accertamento di reminiscenze.Non possiamo, è vero, possedere la certezza della loro collocazione cro-nologica (comunque sia, tra il 1296-98 e il 1304), ma potremmo ragio-nare, questo sì, sulla loro intrinsechezza all’immagine di Beatrice (non aquella, si noti bene, dolorosa e cavalcantiana di – poniamo – Lo dolorosoamor, ovvero della prima parte della Vita nuova o d’altre rime escluse dallibello, ma all’immagine di Beatrice, va ribadito, quale si presenta nellagloriosa epifania edenica della Commedia). La memoria della Pietra (nonsolo a ridosso, quindi, ma dentro Beatrice) lascia perciò trasparire la sua

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pertinenza col rapporto di Dante verso la natura della donna amata e ri-trovata nell’Eden7: meglio ancora, con quella parte della natura di Beatriceche, pur alimentandosi di inestinguibile passione, era pur sempre, e alcontempo, Grazia, Teologia, Verità (non godute ancora, non fruibili, maostili, severe, quasi inaccessibili alla imperfezione del Viandante). Se nonsi dubita della pertinenza di altre reminiscenze, adibite in contesti contiguiper trattare problemi specifici (si pensi, nello stesso Purg. XXX, 82-84,alla precisione del richiamo al Salmo 30, ai versetti 1-9: sino alla sogliadi pedes meos), non si vede perché dovremmo dubitare della pertinenzadella Pietra con la zona più misteriosa e dura, litica, di Beatrice (dura, ecome tale rimproverata nella «corte del cielo», sin dal principio delpoema). Per il Convivio, del resto, ben ricordato da Irene Maffia Scariati(2005), «coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi comepietre» (II, I, 3-4). Né va dimenticato che, dinanzi a Beatrice, in un luogosempre allegato alle discussioni sulle ‘petrose’, Dante si trova in condi-zione propriamente litica: «… perch’io veggio te ne lo ’ntelletto / fatto dipietra e, impetrato, tinto, / sì che t’abbaglia il lume del mio detto» (cosìBeatrice in Purg. XXXIII, 73-75). Una tale esattezza di riferimenti alle pe-trose, per sé e per Beatrice, ha la medesima chiarezza del Ps. XXX, 1-9ricordato nel XXX del Purgatorio: essa definisce un contesto che scorre,per dir così, e filtra nel poema, per spiegarne e lumeggiarne le implica-zioni.

La certezza della petrosità, nelle rime come poi nella Commedia, è inol-tre reversibile: se Dante è «impetrato», «fatto di pietra», ciò accade al co-spetto di una donna che ha le medesime caratteristiche (il gelo e ladurezza) della Pietra.

4. Quest’ultimo aspetto della conversione dell’amante nell’amata, non-ché della capacità di quest’ultima di rendere «marmo» l’amante, è di par-ticolare rilievo: se non si osserva la reciprocità della pietrificazione,infatti, si finisce col recidere dalla nostra attenzione, in forma indebita, unaspetto determinante dell’essenza di Beatrice, che invece include, come

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possibilità di manifestazione della propria luce («sì che t’abbaglia il lumedel mio detto»: s’è ora visto in Purg. XXXII, 75), i tratti della Pietra. Ciònon sta a significare che Dante sovrapponga le due donne, ma certo nonsignifica nemmeno che le ponga, come troppo spesso accade ed è acca-duto ai dantisti, in reciproco ed insanabile conflitto. Nel XXX del Purga-torio Beatrice è (appare come) «ammiraglio». Soprattutto, come la Pietra,ella è tal segno luminosa che Dante può reggerne il fulgore solo a stento,tanto è vero che la donna è (si presenta come) luce velata (Purg. XXX, 27-39), con quelle «fronde di Minerva» che non la lasciano (ciò che sarebbefatale per il poeta) «parer manifesta». Eppure, benché velata, la luce diBeatrice colpisce Dante («ne la vista mi percosse», v. 40), sino alla finedel Purgatorio: «con li occhi li occhi mi percosse» (XXX, 18, che a Bal-delli –1992: 174 ss.– ricordavano Così nel mio parlar, vv. 35-37: «E’m’ha percosso in terra e stammi sopra / con quella spada ond’elli anciseDido / Amore, a cui io grido»). Va da sé che non dobbiamo dimenticareche freddezza, durezza e passione convivono nelle ‘petrose’ come purenell’Eden, a tal segno che il «tono linguistico-stilistico» del ciclo per laPietra non si ravvisa soltanto nelle accuse di Beatrice, ma nella medesima«intensità», da parte di Dante, «dell’amore» per lei nutrito8. In Inf. II e inPurg. XXX, è bene ripeterlo, la salvezza del poeta sta nella conversionead una donna che, nello stesso tempo, si converte a lui. Nelle ‘petrose’,invece, la tragedia di Dante sta nella perdurante, insanabile durezza delladonna-Medusa verso di lui, che gli fa sorgere pensieri d’ira, di collera, divendetta verso la durezza della stessa Pietra (la medesima «ira», vedremotra poco, è uno dei tratti necessari per superare l’ostacolo, in apparenza in-sormontabile, della Gorgone in Inf. VIII-IX). La luce di Beatrice è per-tanto indissociabile dalla sua durezza e dal gelo, del pari, che dominaDante (Purg. XXX, 67-75):

Tutto che ’l vel che le scendea di testa,cerchiato de le fronde di Minerva,non la lasciasse parer manifesta,regalmente ne l’atto ancor protervacontinuò come colui che dice

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e ’l più caldo parlar dietro reserva:«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.Come degnasti d’accedere al monte?Non sapei tu che qui è l’uom felice?».

Il rimprovero che Dante subisce non può non ricordare quello di Inf.VIII, 82-96:

Io vidi più di mille in su le porteda ciel piovuti, che stizzosamentedicean: «Chi è costui che sanza morteva per lo regno de la morta gente?».E ’l savio mio maestro fece segnodi voler lor parlar segretamente.Allor chiusero un poco il gran disdegnoe disser: «Vien tu solo, e quei sen vadache sì ardito intrò per questo regno.Sol si ritorni per la folle strada:pruovi se sa; ché tu qui rimmarai,che li ha’ iscorta sì buia contrada».Pensa, lettor, se io mi sconfortainel suon de le parole maledette,ché non credetti ritornarci mai.

Gli occhi di Dante, nell’incontro a lungo atteso per «decenne sete»,non possono sostenere lo sguardo di Beatrice, che, verso il poeta, come«la madre al figlio par superba» (v. 79). Regale nella propria alterigia,Beatrice si fa silenziosa, mentre il canto degli angeli che intonano In te,Domine, speravi scioglie il gelo che serra l’animo di Dante (vv. 85-99):

Sì come neve tra le vive traviper lo dosso d’Italia si congela,soffiata e stretta da li venti schiavi,poi, liquefatta, in sé stessa trapela,pur che la terra che perde ombra spiri,sì che par foco fonder la candela;così fui sanza lagrime e sospiri

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anzi ’l cantar di quei che notan sempredietro a le note de li etterni giri;ma poi che ’ntesi ne le dolci temprelor compartire a me, par che se detto avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,lo gel che m’era intorno al cor ristretto,spirito e acqua fessi, e con angoscia

de la bocca e de li occhi uscì del petto.

Sin d’ora è bene ricordare che già in Inf. II, 94-108 Beatrice era statarimproverata da Maria, che aveva a sua volta incaricato Lucia, «nimica diciascun crudele», di scuotere il colpevole torpore della figlia di Folco Por-tinari: la gravità della condizione di Dante, la durezza di cuore di Beatricee la sua inerzia nell’intervenire a favore del suo «amico» avevano sucitatopietà nel cielo, e questa compassione aveva infranto un «duro giudicio»di Dio, ma non però ancora il cuore, la sordità e cecità di Beatrice alla di-sperazione del poeta (vv. 106-107). Nel Purgatorio, invece, dopo le scenee le parole del protratto rimprovero di Beatrice a Dante, arriviamo al nodocentrale del canto XXXII. Ora soltanto, infatti, ci viene data la possibilitàdi comprendere la natura dello sguardo di Dante, il suo pericolo rispettoalla propria condizione di poeta penitente e, insieme, rispetto alla naturadella donna. Il principio del canto inscena una situazione nella quale gliocchi di Dante non sono ancora adatti a contemplare senza veli l’imma-gine di Beatrice. Non va del resto scordato che la crescente potenza e re-sistenza dello sguardo del Viandante, apertis oculis, a fissare la Veritàverrà sancita unicamente alla fine del viaggio in Par. XXXIII, 97-99:

Così la mente mia, tutta sospesa,mirava fissa, immobile e attenta,

e sempre di mirar faciesi accesa.

La fascinazione del rispecchiamento nella Verità è tale che, nel defini-tivo superamento del mito di Narciso9, l’occhio non può né deve volgersidal proprio oggetto (Par. XXXIII 100-105):

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A quella luce cotal si diventa,che volgersi da lei per altro aspettoè impossibil che mai si consenta;però che ’l ben, ch’è del volere obietto,tutto s’accoglie in lei, e fuor di quellaè defettivo ciò che lì e perfetto.

Più Dante sale, quindi, più puro è il suo sguardo. Gli accade al fine ciòche avviene nell’Eden al Grifone, che si rispecchia nel verde smeraldodegli occhi di Beatrice (Par. XXXIII, 112-114):

ma per la vista che s’avvaloravain me guardando, una sola parvenza,mutandom’io, a me si travagliava.

Al fine, come dinanzi a Beatrice sulla vetta del Purgatorio, il poeta nonpuò che riconoscere la propria inadeguatezza al cospetto del «fulgore»divino (Par. XXXIII, 139-141):

ma non eran da ciò le proprie penne:se non che la mente mia fu percossada un fulgore in che sua voglia venne.

Dalle ‘petrose’ all’Eden all’ultimo canto del poema colui che guarda sitramuta in ciò che è guardato, ne assume per metamorfosi (non se ne scor-derà Petrarca) la natura particolare, ne è percosso.

5. Con queste brevi considerazioni è forse dato cogliere più esattamentel’esordio di Purg. XXXII, che consente di porre, ed anzi induce a collo-care in vicendevole rapporto, il «lume» di Beatrice con lo sguardo pietri-ficante di Medusa. Come ha osservato Freccero:

quale che sia la qualità del terrore che la Medusa ispira all’imma-ginario maschile si tratta comunque, in qualche modo, di un terrorefemminile. Secondo la leggenda, la Medusa era innocua per ledonne, giacché era proprio la sua bellezza femminile a costituire

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una minaccia mortale per chi la guardava. Dall’antico Physiologusai mitografi, a Boccaccio, la Medusa ispira una fascinazione sen-suale, una pulchritudo così eccessiva da trasformare gli uomini inpietra (Freccero 1989: 182).

Si cade nella fascinazione di Medusa quando la bellezza delle forme edelle cose terrene, della vita stessa, viene guardata fissamente, con osti-nazione, senza levare gli occhi a quella più alta Bellezza che, col ristabi-lire la gerarchia, l’ordo, tra le res temporales e Dio, impedisce del pariall’uomo di rimanere irretito nelle gioie della terra (Purg. XXXI, 43-60)10:

Tuttavia, perché mo vergogna portedel tuo errore, e perché altra volta,udendo le sirene, sie più forte,pon giù ’l seme del piangere e ascolta:sì udirai come in contraria partemover divieti mia carne sepolta.Mai non t’appresentò natura o artepiacer, quanto le belle membra in ch’iorinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte;e se ’l sommo piacer sì ti fallioper la mia morte, qual cosa mortaledovea poi trarre te nel suo disio?Ben ti dovevi, per lo primo stralede le cose fallaci, levar susodi retro a me che non era più tale.Non ti dovea gravar le penne in giuso,ad aspettar più colpo, o pargoletta

o altra novità con sì breve uso.

Lasciamo ora da parte il problema dell’identità della «pargoletta», dalmomento che non ci è dato sapere, ad litteram, se ella sia o non sia la me-desima delle ‘petrose’ e di altre rime note, sulle quali tra poco ci ferme-remo. Quel che sappiamo è invece che Dante, dopo la morte di Beatrice,si è smarrito, che ha goduto la bellezza di «cose fallaci» e che ha dimen-ticato di «levar suso» a Dio il suo sguardo e il suo cammino. Arte e natura

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non gli offrivano nulla di paragonabile a Beatrice, ma egli si è lasciatosviare da un «piacer», da una «oblectatio rerum temporalium», che lo hasedotto e traviato11.

Un tale «errore» discende perciò dallo ‘sguardo’ che Dante ha recatoalle bellezze terrene. Stava in suo potere, nel potere della sua libertà, de-cidere se seguire Beatrice dopo la sua morte o fermarsi alle «presenti cose/ col falso lor piacer» (Purg. XXXI, 34-35). Dante non ha perciò soltantoceduto al «breve uso» delle bellezze e, più ampiamente, dei temporalia,ma non ha saputo vedere e cogliere il vero significato (ciò ch’è più grave,post mortem) di Beatrice, che, come a suo tempo la Pietra, lo rimproverae ignora, lo disdegna e “colpisce”.

Al principio del canto XXXII tutto invece si fa più chiaro: Beatrice è,Beatrice può essere, a seconda della natura dello sguardo di Dante, Me-dusa (vv. 1-12).

Tant’eran li occhi miei fissi e attentia disbramarsi la decenne sete,che li altri sensi m’eran tutti spenti;ed essi quinci e quindi avean paretedi non caler – così lo santo risoa sé traéli con l’antica rete! –;quando per forza mi fu vòlto il visover la sinistra mia da quelle dee,perch’io udi’ da loro un «Troppo fiso!»;e la disposizion ch’a veder èene li occhi pur testé dal sol percossisanza la vista alquanto esser mi fée.

Gli occhi «fissi e attenti» di Dante (come «fissa, immobile e attenta»sarà la «mente» del Viandante in Par. XXXIII, 97), poi “percossi” comepiù volte s’è veduto, sono qui distolti «per forza» da Beatrice, da Beatriceche è la Sapienza divina, dalle «dee», che sono le medesime tre virtù teo-logali che, sul finire del canto precedente, avevano esortato Beatrice, fis-sata dal Grifone, a tenere gli occhi fissi su Dante (Purg. XXXI, 133-138):

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«Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi»,era la sua canzone, «al tuo fedeleche, per vederti, ha mossi passi tanti!Per grazia fa noi grazia che disvelea lui la bocca tua, sì che discernala seconda bellezza che tu cele».

Beatrice, «ne l’aere aperto», si scioglie quindi del velo che la copriva(Purg. XXXI 145). Sicché, il rischio di accecamento di Dante espresso alprincipio di Purg. XXXII è conseguenza del manifestarsi pieno, non piùschermato, della bellezza della donna-Sapienza. Il punto è assai delicato:le virtù teologali non vogliono che Dante guardi «fiso» la Sapienza di Dio(la Grazia, la Teologia), che ha guidato Dante sino a quel punto. Gli occhidel poeta, colpiti da tanta luce, potrebbero smarrirsi. La situazione, comeil lettore ricorda, è congenere a quella di Inf. IX, 43-57:

E quei, che ben conobbe le meschinede la regina de l’etterno pianto,«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.Quest’è Megera dal sinistro canto;quella che piange dal destro è Aletto;Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;battiensi a palme e gridavan sì alto,ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,dicevan tutte riguardando in giuso;«mal non vengiammo in Teseo l’assalto».«Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,nulla sarebbe di tornar mai suso».

È questo il punto forse più oscuro di tutto il poema, dove Dante stessoevoca, e anzi addita, «la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versistrani» (Inf. IX, 62-63). Il fascino enigmatico di questi versi ha dato ap-piglio a numerose, non sempre avvedute, talora mistificanti, letture. Per

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nostra parte, non ci proponiamo altro se non rimanere aderenti alla lettera.Le tre Erinni stanno a Medusa come le tre dee, le virtù teologali, stannoa Beatrice. Nell’Eden, svanito ormai Virgilio e in attesa che Beatrice sifaccia guida di Dante, sono quindi le stesse virtù a impedire a Dante diguardar «fiso» la Donna.

Si può forse comprendere meglio il carattere di un passo celebre diCosì nel mio parlar vogli’esser aspro, vv. 74-78:

Ancor negli occhi, ond’escon le favilleche m’infiamman lo cor ch’io porto inciso,guarderei presso e fisoper vendicar lo fuggir che mi face,e poi le renderei, con amor, pace.

La donna, in questa canzone, è una «bella pietra» (v. 2) e Dante spera,mirandola «presso e fiso», di convertirla a sé, di instillarle Amore in cuoree di muoverle pietà della propria condizione. Non solo il «caldo borro»che ha tratti infernali e, più ampiamente, la robustezza e icasticità e pla-sticità dello stile di questa ‘petrosa’ ricordano la Commedia, ma l’impetodi Dante, la sua collera, paiono, in Così nel mio parlar, non dissimili dalclima di rissa di Inf. VIII-IX (nella «città dolente», si sa, non si può «en-trare omai sanz’ira»: Inf. IX, 33). Perfino il v. 73 della canzone, «io mivendicherei di più di mille», si allaccia al medesimo sintagma riaffiorante,per ben due volte, nel dittico di canti che introduce al cerchio degli eretici,in Inf. VIII, 82-83: «Io vidi più di mille in su le porte / da ciel piovuti…»,e in Inf. IX, 79-80: «vid’io più di mille anime distrutte / fuggir così dinanziad un ch’al passo / passava Stige con le piante asciutte». (Demoni o«anime distrutte» che siano, questi enti plurimi e malvagi accompagnanola manifestazione della “petrosità”, insomma il processo di pietrificazione,e vengono fugati dal superamento del male procurato da Medusa). Le «fe-roci Erine» (v. 45) emettono, dal canto loro, grida così alte da spaventareil poeta («battiensi a palme e gridavan sì alto, / ch’i’ mi strinsi al poeta consospetto»: vv. 50-51), in modo, o con esito non difforme da quello regi-strato dalla canzone (Così nel mio parlar, vv. 44-47):

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Allor mi surgon nella mente strida,e ’l sangue ch’è per le vene dispersocorrendo fugge verso

il cuor, che ’l chiama, ond’io rimango bianco.

Il pallore del v. 47 è il medesimo, anche nel procedimento fisiologico,di Inf. IX, 1, dove ci imbattiamo nel «color che viltà di fuor mi pinse».Quale che sia l’identità della Pietra, la canzone inscena un Dante alleprese con una donna-Medusa i cui tratti perigliosi saranno evocati nel-l’Eden nella figura di Beatrice guardata fissamente, eccessivamente, dal-l’amante. S’intende che ci troviamo ora ben oltre la topica amorosa dellosguardo suscitatore d’amore. Con Beatrice-Sapienza, con Beatrice-Grazia,che può redarguire, rimproverare, condannare l’amante indegno, con laTeologia che, guardata colpevolmente da vicino può rendere «marmo»l’amante-poeta, ci muoviamo in un terreno che coincide con le ragioniprofonde del poema e con la sua allegoria principale (Fenzi 2002b).

6. Eppure, Beatrice fu anche, quando in passato aveva mostrato fred-dezza e crudeltà verso Dante (si rammenti la glaciale noncuranza del«gabbo»), insomma quando questi la concepì o servì o amò in modo er-rato, o quando ella si mostrò estranea o indifferente al suo amore, unaMedusa, una Pietra, capace di rendere Dante un «uom di marmo». Sindalla Vita nuova, anzi dal percorso poetico-speculativo che condurrà allaCommedia a cominciare da Donne ch’avete intelletto d’amore, Dante eraconsapevole del bivio dinanzi al quale lo poneva lo sguardo portato allarealtà salvifica di Beatrice (così in Donne ch’avete, vv. 31-36):

Dico, qual vuol gentil donna parerevada con lei, che quando va per via,gitta nei cor villani amore un gelo,per che onne lor pensiero agghiaccia e pere;e qual soffrisse di starla a vederediverria nobil cosa, o si morria.

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Questo è ciò che accade dinanzi alla Sapienza, alla creatura che ne in-carna la verità e ne testimonia la presenza. Guardata da vicino, ella «ag-ghiaccia» e non consente che la morte o la vita, l’annientamento dei «corvillani» o il «trasumanarsi» in «nobil cosa».

A chiarire ulteriormente questi fatti interviene il dittico di rime cono-sciute come quelle della «pargoletta». A tal proposito, comunque si vogliaintendere il vocabolo «pargoletta» di Purg. XXXI, 59, è certo che esso al-luda a una deviazione da Beatrice. Il contesto del rimprovero lascia pen-sare a qualcosa di bello, di dilettevole, ma di effimero, come «altra novitàcon sì breve uso» (Purg. XXXI, 60): nulla perciò che abbia a che vederecon la «pargoletta» di Rime 22 e 24, la quale ha, propriamente, le carat-teristiche di Beatrice-Medusa. Ecco il testo di Rime 22:

«I’ mi son pargoletta bella e nova,e son venuta per mostrare altruide le bellezze del loco ond’io fui.Io fui del cielo e tornerovi ancoraper dar de la luce mia altrui diletto;e chi mi vede e non se ne innamorad’Amor non averà mai intelletto,ché non gli fu in piacere alcun disdettoquando Natura mi chiese a Coluiche volle, donne, accompagnarmi a voi.Ciascuna stella negli occhi mi piovedel lume suo e de la sua vertute;le mie bellezze sono al mondo noveperò che di lassù mi son venute,le qual’ non possono esser conosciutese non da conoscenza d’omo in cuiAmor si metta per piacer di lui».Queste parole si leggon nel visod’un’angioletta che ci è apparita;e io che per veder lei mirai fisone sono a rischio di perder la vita,però ch’io ricevetti tal ferita

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da un ch’io vidi dentro agli occhi suoi,ch’io vo piangendo e non m’acchetai poi.

Di fronte alla «pargoletta» Dante sperimenta il rischio, che già cono-sciamo, di mirarla «fiso». Nella prima parte, essa si presenta come crea-tura celeste, che proviene dal cielo: «I’ mi son pargoletta bella e nova, / eson venuta per mostrare altrui / de le bellezze del loco ond’io fui» (vv. 1-3), che parrebbe riaffiorare in Inf. II, 70-72: «I’ son Beatrice che ti faccioandare; / vegno del loco ove tornar disio; / amor mi mosse, che mi fa par-lare». Nel desiderio di Beatrice di ritornare al cielo («ove tornar disio»)echeggia inoltre il verso «Io fui del cielo e tornerovi ancora» (v. 4), almodo stesso che l’autopresentazione («I’ son Beatrice») si rispecchia, aritroso, in «Io fui del cielo» e, in apertura di Rime, 22, in «I’ mi son par-goletta». Quest’ultima, poi, è consapevole di poter suscitare «d’Amor…intelletto», si rivolge alle donne amiche sue, in una coralità che è distintivadi Donne ch’avete intelletto d’amore e della seconda parte della Vitanuova. La «pargoletta» (che si tratti di un caso di Beatrix loquax mi parel’ipotesi più economica) possiede quindi, come Beatrice e la Pietra, il po-tere di annientare l’amante: diretta conseguenza – si osservi – della sua di-scendenza celeste. Più manifesto ancora è il carattere litico della«pargoletta» in Rime 24, dove Beatrice, la «angioletta» e la Pietra-Medusasi sovrappongono con chiarezza: al centro di tutto, il rischio dello sguardodel poeta portato alla creatura celeste e il destino stesso di Dante, decretatosin dalla morte di Cristo (quando Caifas, qui ripreso ai vv. 10-11, decise:«expedit vobis ut unus moriatur homo propopulo, et non tota gens pereat»,secondo Io. XI 50)12, e così espresso ai vv. 1-8:

Chi guarderà giammai senza pauranegli occhi d’esta bella pargoletta,che m’hanno concio sì, che non s’aspettaper me se non la morte, che ·mm’è dura.Vedete quant’è forte mia ventura,che fu tra l’altre la mia vita elettaper dar essempro altrui ch’uom non si mettai· rischio di mirar la sua figura.

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Qui, mi pare, si tocca un punto delicato. Non solo la donna-«pargo-letta» (Beatrice) è pietra (in quanto Medusa), ma lo scopo della vita diDante è posto nel «dar essempro altrui» di non farsi, appunto, pietrificare:Dante, in altre parole, testimonia quanto si debba aver «paura» di guardare«fiso», se indegni, la «pargoletta». Egli si rappresenta vittima di quellosguardo, ne porta il vessillo di morte («finita»), ed è persuaso che Cristoabbia desiderato la sua morte, affinché questa potesse rivestire un signi-ficato esemplare. Dante ha quindi attratto a sé la morte, come fa una pietrapreziosa («margherita») con la virtù degli astri (vv. 9-14):

Destinata mi fu questa finitada ch’un uom convenia esser disfattoperch’altri fosse di pericol tratto;e però, lasso!, fu’io così rattoin trarre ame il contrario de la vitacome vertù di stella margherita.

La ricomposizione di un polittico di figure femminili in una medesimaarea semantica, intrinseca alla figura di Beatrice, non può che indurre aun profondo ripensamento della Pietra13.

7. Nelle rime ad essa dedicate troviamo rappresentata non tanto unadonna che è, che può essere e che talora diviene, una «pietra», ma una«pietra» che «parla e sente come fosse donna» (Al poco giorno, v. 6). Lagiovane (una «nova donna», al v. 7, come la «pargoletta»), è dura e gelida.Per Domenico De Robertis, è evidente la «sua non riassorbibilità nellastoria proposta da Dante», come pure il fatto che essa rappresenta uno«scoglio» alla «scadenza dell’incontro con Beatrice nel Paradiso terrestre»(De Robertis 2005: 105). Ne siamo certi? In verità, abbiamo visto che untale scoglio, nell’Eden, è la asperitas della manifestazione di Beatrice, èla sua agghiacciante petrosità (che appartiene in particolare alla donnamorta che, dopo morta, è dimenticata o male amata da Dante) tramata distile petroso e tale da presentarsi al cospetto di un Dante a sua volta litico,perché indegno di «mirar fiso» negli «occhi santi» della donna. La petro-

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sità (a prescindere dall’identità della Pietra) è quindi una possibilità dellamanifestazione post mortem di Beatrice, che, come s’è veduto, viene rap-presentata, nell’Eden, coi tratti della Medusa (in linea con la crudeltà dellafanciulla ancor viva, ma indifferente al poeta).

Con queste premesse, una volta accertato il filone della reciprocità disguardi che unisce la Pietra a Dante e Beatrice-Medusa a Dante, si può so-stare sulle altre ‘petrose’ per coglierne, in aderenza strenua al senso let-terale, alcuni aspetti essenziali per il discorso che stiamo svolgendo.Cominciamo da Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra, che rappre-senta, sin dal principio, una situazione estrema: la «nova donna», che hatratti non umani («parla e sente come fosse donna»), indifferente al con-testo di una eterna primavera («si sta gelata come neve all’ombra», v. 8),è radicata in se stessa e irremovibile («non la move se non come pietra /il dolce tempo che riscalda i colli», vv. 9-10), come l’amore di Dante, cheè radicato in lei («si è barbato nella dura pietra», v. 5) e che non perdesperanza, nonostante la glaciale natura della donna («e ’l mio desio perònon cangia il verde», v. 4). Quando si manifesta incoronata d’erba, ella èdi tale bellezza che fuga il pensiero d’ogni altro amore («Quand’ella hain testa una ghirlanda d’erba / trae della mente nostra ogni altra donna»,vv. 13-14; in Purg. XXX, 67-68, il «vel che le scendea di testa» sarà «cer-chiato de le fronde di Minerva»; in Purg. XXXI, in modo del tutto coe-rente, sarà la stessa Beatrice a invocare l’aut-aut fra se stessa e ogni altra«cosa mortale»: XXXI, 52-54). La Pietra, si badi bene, non è effigiatanelle rime in termini riduttivi, ma inaccessibili rispetto al poeta che laesprime. Nella sua natura luminosa e pietrificante ella ha il solo, dramma-tico limite di non avere pietà. Nulla del mondo vegetale, inoltre, può sa-nare il «colpo», non la «ferita» (questa è in Rime 22, 22) che ne viene: «Lasua bellezza ha più virtù che pietra, / e ’l colpo suo non può sanar pererba» (vv. 19-20; da raccordare, come fa pure Benozzo in questo volume,ad Amor, tu vedi ben, vv. 15-18 e Così nel mio parlar, vv. 51-52). La Pietraè, in aggiunta, ed è questo un tratto teologico14 che la accomuna alla «par-goletta», fonte di luce non naturale, o, comunque sia, altra rispetto almondo naturale («e dal suo lume non mi può far ombra / poggio né muro

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mai né fronda verde», vv. 23-24). Se ciò accade, se nessun elemento na-turale può velare la luce della Pietra, ciò accade perché la Pietra, che dif-fonde luce propria, è ormai in Dante (pietrificato), ed egli, movendosi,trae con sé la luce della donna. La quale, a Dante, come Beatrice nel-l’Eden «sotto verde manto» (Purg. XXX, 32), appare del color dell’erba:

Io l’ho veduta già vestita a verdesì fatta, ch’ella avrebbe messo in pietral’amor ch’io porto pur alla sua ombra;ond’io l’ho chiesta in un bel prato d’erainnamorata com’anche fu donna,e chiuso intorno d’altissimi colli.

Una tale scena è sovrapponibile a quella dell’Eden, come pure, alladonna del Paradiso terrestre e al suo glaciale splendore, protervo e su-perbo, non contraddice affatto la figura muliebre di Amor, tu vedi ben,che, avvezza a dominare le altre donne, non si cura di Amore «in alcuntempo» (vv. 1-3), tanto che «non par ch’ell’abbia cuor di donna / ma diqual fiera l’ha d’amor più freddo» (vv. 7-8). Tanto è dura, la Pietra, chepare una statua, una «bella pietra» scolpita da un Pigmalione («per mandi quei che ne’ ’ntagliasse in pietra»: un Deus artifex?). Dante, dal cantosuo, è vittima del processo di pietrificazione della Medusa (vv. 13-18):

Ed io, che son costante più che pietrain ubbidirti per beltà di donna,porto nascoso il colpo della pietracon la qual tu mi desti come a pietrache t’avesse noiato lungo tempo,tal che m’andò al cuore, ov’io son pietra.

Al cospetto della Pietra, come dinanzi a Medusa in Inferno e a Beatricein Purgatorio, dove il poeta ricorda «lo gel che m’era intorno al cor di-stretto» (Purg. XXX, 97), Dante si fa pallido e si sente ghiacciare il san-gue (vv. 31-36):

così dinanzi dal sembiante freddo

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mi ghiaccia sopra il sangue d’ogni tempo,e quel pensiero che m’accorcia il tempomi si converte tutto in corpo freddoche m’esce poi per mezzo della lucelà onde entrò la dispietata luce.

8. La Pietra è quindi luce, anzi sorgente di luce che suscita gelo, che im-pietra, e che può essere ed è, a un tempo, «dispietata» e «dolce». Crudeltàe bellezza sono pertanto manifestazioni, epifanie, della luce. La sola im-perfezione della Pietra è la sua mancanza d’Amore, di pietas (che, dallaVita nuova a Inf. II a Purg. XXX, è pure – va detto – un tratto distintivo,superato con l’aiuto della «corte del cielo», di Beatrice). Come già s’èvisto, la Pietra infonde luce in Dante ed egli non può schermirsene, anzila riverbera ovunque si conduca (vv. 37-42):

In lei s’accoglie d’ogni beltà luce:così di tutta crudeltate il freddoli corre al cuore ove non va tua luce;per che negli occhi sì bella mi lucequando la miro, ch’io la veggo in pietrao in ogn’altro ov’io volga la luce.

Dante, pur pietrificato, non pare afflitto ma spronato a intendere, a ca-pire la Pietra. L’auspicio è quello di Così nel mio parlar, non tanto, o nonsolo, dei vv. 66-71:

S’io avesse le belle trecce prese,che son fatte per me scudiscio e sferza,pigliandole anzi terzacon esse passerei vespero e squille;e non sarei pietoso né cortese,anzi farei com’orso quando scherza;

quanto del desiderio finale, dove (repetita iuvant) il poeta spera di guar-darla negli occhi per destare in lei quell’amore che solo manca alla per-fezione luminosa, ma algida, della Pietra (vv. 76-78):

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guarderei presso e fisoper vendicar lo fuggir che mi face,e poi le renderei, con amor, pace.

Ecco la parallela speranza di Amor, tu vedi ben, vv. 45-47:

così foss’ella più pietosa donnaver’me, che chiamo di notte e di luce,solo per lei servire, e luogo e tempo.

Dante desiderava insomma che Amore entrasse nella Pietra per con-vertirla a lui. Confesso di non capire come una tale donna, identificatacon la freddezza della luce, possa da molti lettori esser stata giudicatal’oggetto di un amore degradante e conflittuale con quello nutrito per unaBeatrice, come aveva compreso bene Borges, fredda e crudele e spietata:

Così fu per Dante. Rifiutato per sempre da Beatrice, sognò Bea-trice, ma la sognò severissima, ma la sognò inaccessibile, ma lasognò su di un carro tirato da un leone che era un uccello e che erasoltanto uccello o soltanto leone quando gli occhi di Beatrice loriflettevano […]. Beatrice esistette infinitamente per Dante. Dante,molto poco, forse niente, per Beatrice; tutti noi siamo propensi,per pietà, per venerazione, a dimenticare questo penoso contrasto,indimenticabile per Dante. Leggo e rileggo le traversie del suo il-lusorio incontro e penso a due amanti che l’Alighieri sognò nellabufera del secondo cerchio e che sono emblemi oscuri, anche seegli non lo comprese o non lo volle, di quella felicità che non ot-tenne. Penso a Francesca e a Paolo, uniti per sempre nel loro In-ferno («Questi, che mai da me non fia diviso»). Con un amorespaventoso, con angoscia, con ammirazione, con invidia, deve averforgiato questo verso (Borges 2001: 94-96).

Ciò è tanto vero che, prima di sostare sui versi che seguono (una pre-ghiera del Dante di pietra, destinata a trasformare il cuore della Pietra)15,vorrei riportare l’annotazione di Domenico De Robertis, che, pur consa-pevole di quanto segue, è persuaso della aversio che la Pietra rappresen-terebbe rispetto a Beatrice:

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Qui Amore è potenza suprema, esistenza ab eterno, “prima deltempo” e della formazione del mondo, e dietro queste parole partrasparire, in termini assoluti (“tempo”, “moto”, “luce”), quantodi sé dice la Sapienza, Prov. VIII 23-29: «Ab eterno ordinata sum,et ex antiquis antequam terra fieret… Quando praeparabat celos,aderam; quando certa lege vallabat abyssos; quando aethera fir-mabat sursum… Quando circumdabat mari terminum…» ecc. Equesta concezione, che è della canzone cit., di Amore come prin-cipio di tutto e tutto pervadente, ritrasparirà nel congedo della can-zone seguente [Io son venuto al punto de la rota]. (De Robertis2005: 117)16

Insomma Dante, «volgendosi alla donna-pietra», non si era certo «di-menticato di tutto il resto» (Ibidem). L’Amore ora invocato è, con ognievidenza, quello che «move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII 145), edè, appunto, l’amore per la Pietra, non vedo in qual modo ostile o alterna-tivo al culto per Beatrice professato nella Commedia, specie se ricordiamoche un tale sentimento è il medesimo «amor divino» che, al principio delpoema, «mosse di prima quelle cose belle» (Inf. I, 39-40). Leggiamo al-lora Amor, tu vedi ben, vv. 48-54:

Né per altro disio viver gran tempo.Però, Vertù che·ssè prima che tempo,prima che moto o che sensibil luce,increscati di me, c’ho sì mal tempo,entrale in cuore omai, che ben n’è tempo,sì che per te se n’esca fuori il freddoche non mi lascia aver, com’altri, tempo:

una simile preghiera non contrasta con la Commedia, al modo stesso chela donna che la suscita (sia o non sia, anagraficamente, Beatrice), di Bea-trice nondimeno possiede i caratteri, le fattezze, il gelo (sarà Beatrice, inquanto somma d’ogni desiderio, ad aver assorbito via via in sé i linea-menti di tutte le donne precedenti, se non altro di quelle che non contra-starono con la sua natura o che condussero Dante a meglio comprenderla).

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Va inoltre osservato che il poeta di Amor, tu vedi ben, il quale, per de-stare Amore nella Pietra scrive siffatti versi, si presenta nella condizionedi colui che crede al giudizio finale di Dio, e che è persuaso che solamentein quel giorno si comprenderà la realtà vera della Pietra (che non è puntoin conflitto con Dio, ma, di Dio, non possiede l’Amore, non possiede lapietà). Dante immagina infine che il sopraggiungere della primavera,quando si dispiega la potenza d’Amore, lo condurrà a morte (Amor, tuvedi ben, vv. 55-60):

che se mi giunge lo tuo forte tempoin tale stato, questa gentil pietrami vedrà coricare in poca pietraper non levarmi se non dopo ’l tempo,quando vedrò se mai fu bella donnanel mondo come questa acerba donna.

Vero è che il Dante petroso di questa canzone (non servo d’altre pas-sioni, né lontano da Dio) si presenta come il solo testimone dell’Amoreuniversale (per Durling e Martinez, «the cooperation of the whole of crea-tion in the destiny of a single individual» è il tratto identificativo dellepetrose e della Commedia) (Durling-Martinez 1990: 199) ed è capace, luipietra, di forgiare, per la Pietra, una canzone di inaudita novità ed eccel-lenza formale («novum aliquid atque intentatum») (Durling-Martinez1990: 261 ss.), capace di lasciar trasparire, lavorata anch’essa come pietrapreziosa, una luce nuova (vv. 61-66):

Canzone, io porto nella mente donnatal che con tutto ch’ella mi sia pietrami dà baldanza, ond’ogn’uom mi par freddo;sì ch’io ardisco far per questo freddola novità che per tua forma luce,

che non fu mai pensata in alcun tempo.

Tali aspetti, potenziati in uno stile di alta maturità, ritornano in Io sonvenuto al punto de la rota, che, negli studi dedicati alle ‘petrose’, è addi-tata come quella dove tante e significative sono le giunture che conducono

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al poema17: a tal segno che non sono mancate proposte di datazione di-verse da quella tradizionalmente collocata al 1296. Per la Maffia Scariati,in particolare, si potrebbe giungere al 1304.

9. Prima di concludere vorrei accogliere un’osservazione di Freccero,che notava la ripresa, in Inf. IX, 49-54 (un passo che abbiamo più soprariportato) di Io son venuto, vv. 53-60, per il riaffiorare nella Commedia(con sequenza alto-smalto-assalto) della canzone petrosa (dove le mede-sime parole compaiono nella sequenza, invece, alto-assalto-smalto)(Freccero 1989: 187). Così suggerita, l’analogia fra i due testi è evidentema, a me pare, ancora epidermica. Ciò che conta nella canzone, dove ri-petuti sono i luoghi accolti poi nel poema, è, di nuovo, l’isolamento co-smico di Dante, che è ormai il solo testimone e custode di un Amoreassente dalla natura come pure dalla Pietra («amore è solo in me non al-trove», v. 70). E in particolare conta, nella canzone, la volontà di Dante,al v. 62 (ripreso in Inf. II, 4-5), di proseguire il proprio cammino, anzi lapropria «guerra», nella consapevolezza che quello sia il destino che lo at-tende (Io son venuto, vv. 53-65). Come accadrà nell’Inferno, Dante nonrecederà dal proprio viaggio: «non son però tornato un passo a dietro, / névo’ tornar, che se ’l martiro è dolce, / la morte dee passare ogn’altrodolce». Nella Commedia sarà Virgilio a testimoniare la sicurezza del cam-mino (Inf. VIII, 103-108):

E quel segnor che lì m’avea menato,mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passonon ci può torre alcun: da tal n’è dato.Ma qui m’attendi, e lo spirito lassoConforta e ciba di speranza buona,ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».

Alle affinità osservate dalla critica fra le ‘petrose’ e la Commedia oc-corre tuttavia aggiungere, da questa a quelle, la più clamorosa differenza:nel poema, la donna è colei che muove, a sua volta mossa dal cielo, ilpoeta Virgilio, affinché questi conduca Dante a sé, ovvero alla Sapienzaritrovata sulla cima del Purgatorio. Ma una tale diversità fra la conclusiva

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pietà di Beatrice e l’immutata freddezza della Pietra presuppone, a suavolta, il punto di maggior e più netta sovrapposizione tra le due figure: lacrudeltà e freddezza e indifferenza di Beatrice, testimoniata in vario mododalla Vita nuova alla Commedia. Siamo così avvezzi, per riprendere an-cora Borges, alla Beatrice del poema e alla sua icona teologizzata nellaVita nuova; abbiamo tanta e tale ammirazione per la sua immagine e tantavenerazione per il poeta che l’ha effigiata in quel modo, che dimenti-chiamo di Beatrice la sostanziale, originaria, disinvolta, non di rado com-piaciuta, ostile noncuranza nei confronti del poeta.

La salvezza di Dante comincia allora, ben prima che con la propriaconversione, con quella di Beatrice: il poema rende infatti pietosa, addi-rittura innamorata e loquace («amor mi mosse, che mi fa parlare»: Inf. II,72, dove non casualmente si prefigura Purg. XXIV, 52-54) colei che de-finisce se stessa (è, questo, un punctum realiter saliens) attraverso l’as-senza di pietà: «I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale, / che la vostra miserianon mi tange, / né fiamma d’esto incendio non m’assale» (Inf. II, 91-93).Ma non fu questa forse, nella sua profonda natura, la Pietra? Che altro fula Pietra se non luce raggelante e impietosa? Beatrice, nella sincerità as-soluta dell’oltremondo, racconta allora (perché Virgilio desiderava cono-scere le sue ragioni «cotanto a dentro»), la propria conversione (Inf. II,94-114):

Donna è gentil nel ciel che si compiangedi questo impedimento ov’io ti mando,sì che duro giudicio là su frange.Questa chiese Lucia in suo dimandoe disse: – Or ha bisogno il tuo fedeledi te, e io a te lo raccomando –.Lucia, nimica di ciascun crudele,si mosse, e venne al loco dov’i’ era,

che mi sedea con l’antica Rachele.

Per salvare Dante, nell’indifferenza di Beatrice, deve scomodarsi laVergine. Questa, a sua volta, deve interpellare Lucia, la quale, avversa a

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ogni «crudele», rimprovera Beatrice (in effetti, in questo contesto, la fun-zione di Lucia si esercita puntualmente versus Beatrice):

Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,ché non soccorri quei che t’amò tanto,ch’uscì per te de la volgare schiera?Non odi tu la pieta del suo pianto,non vedi tu la morte che ’l combattesu la fiumana ove ’l mar non ha vanto? –.

La natura divina di Beatrice, come si vede, non è affatto in discussione:ella siede con Rachele, è prossima a Maria e Lucia ed è, soprattutto, «lodadi Dio vera». Ma Beatrice non soccorre Dante, non ha pietà di lui, neignora la fedeltà e devozione, non ne scorge il pericolo così estremo daaver piegato il «duro giudicio» del cielo. Il problema di Beatrice è di fattoquello enunciato da San Paolo in I Cor. 13, 2-7: la donna-Sapienza non èpatiens, non è benigna. La carità, invece, «non inflatur, non est ambitiosa,non quaerit quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum, non gaudetsuper iniquitate, congaudet autem veritati». Prima dell’intervento celesteche la sprona, invece, Beatrice non si cura che di sé. Quando però si av-vede della verità delle parole di Lucia, Beatrice, ormai pentita, si muovesollecita in aiuto dell’uomo smarrito:

Al mondo non fur mai persone rattea far lor pro e a fuggir lor danno,com’io, dopo cotai parole fatte,venni qua giù del mio beato scanno,fidandomi del tuo parlare onesto,

ch’onora te e quei ch’udito l’hanno.

La sollecitudine mostrata è commisurata all’inerzia precedente. Ed è,come tutti ricordiamo dalla chiosa di Virgilio, una sollecitudine contagiosa(Inf. II, 115-117). Di norma, il pianto della donna («li occhi lucenti lacri-mando volse»), riconfermato in chiusura del XXX del Purgatorio («Perquesto visitai l’uscio d’i morti, / e a colui che l’ha qua su condotto, / li

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prieghi miei, piangendo, furon porti», vv. 139-141), dove si presenteràfinalmente «vestita di color di fiamma viva» (v. 33), quindi caritatevole,sembra essere stato inteso come una sorta di raffinatezza femminile, lad-dove esso appare come il segno inequivocabile del pentimento di Beatrice,il suo «seme del piangere» (Purg. XXXI, 46): «perché sia colpa e duold’una misura». Non solo in Dante, ma anche nella donna le lacrime sonola traccia di una conversione, che in Inf. II, è ancora parziale: la sua per-durante durezza lascerà stupiti persino gli angeli dell’Eden (s’è visto:«Donna, perché sì lo stempre?»), perfino le tre virtù teologali che la esor-teranno a volgere «li occhi santi» al suo «fedele», che, per vederla, «hamossi passi tanti». A questo proposito, il nesso che stringe il «fedele» diPurg. XXXI, 134 al «fedele» di Inf. II, 98 testimonia la presenza dellamutatio animi di Beatrice al principio della Commedia nella sua ripresae compimento nell’Eden, a riprova che la palingenesi della donna è pre-messa e condizione vitale dell’itinerario dantesco di renovatio. Ciò è tantovero che, in Inf. II, 98, Dante era «fedele» di Lucia, mentre solo in Purg.XXXI, 134 viene presentato come «fedele» di Beatrice.

A differenza allora di quanto al solito si crede, la Pietra ha i tratti diBeatrice e Beatrice ha, ha avuto, i tratti della Pietra. La trasformazionedella donna, la sua conversione dalla Vita nuova alla Commedia, fu il prin-cipio della salvezza di Dante.

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NOTE

1 Durling-Martinez 1990. A questo volume si rimanda anche per la bibliografiaimplicita. Fin d’ora, tuttavia, ricordiamo i diversi e fondamentali contributi diFenzi (1966; 2002a; 2002b).

2 Battistini (1997) metteva già sull’avviso di non cadere in rinnovate tentazioniallegorizzanti. Pure, certi richiami all’evidenza del simbolismo dantesco, primae di qua da ogni sua traduzione, che si trovano in Luigi Valli, stimatissimo daAuerbach, non sarebbero indegni di riflessione (certo con mille, e più di mille,cautele). Il rischio tuttavia di svuotare di senso le ‘petrose’, riducendole a unesercizio formale, seppur di segno opposto rispetto all’allegorizzazione, è delpari testualmente inaccettabile.

3 Ledda 2008: 19-23. L’antitesi, che vi troviamo accolta dalla vulgata interpre-tativa sulle ‘petrose’, fra la donna che le ispira e Beatrice, ignora i caratteri pa-lesemente ‘divini’ della Pietra e quelli manifestamente ‘petrosi’, diciamo puregratuitamente crudeli, di Beatrice (dalla Vita nuova alla Commedia).

4 Si vedano, in questo volume, le pagine di Pinto. Per le varie identificazionidella Pietra si ricorra ancora alle preziose pagine dedicate da Vincenzo Perniconea ciascuna delle ‘petrose’ nell’Enciclopedia Dantesca.

5 De Robertis 2005: 198-212. Per il testo della lettera, si veda De Robertis2005: 210-211. L’importanza di questa lettera per la genesi del poema di Dantealeggia in più luoghi di Pasquini 2001 e Pasquini 2006.

6 Si legga in proposito ciò che Pasquini afferma nel suo commento in Alighieri1989.

7 Bologna 1998. Si vedano pure il classico Singleton 1978. Utile pure Pazza-glia 1988.

8 Vid. Baldelli 1992: 174, dove rammenta che Dante si riferisce, in Purg. XXX-XXXI, a «ciò che di quell’amore poteva avvenire e non avvenne, risalendo anchealla sua origine passionale».

9 Osservava Battistini (1997: 98) che «lo sguardo di Medusa non è che la va-riante di quello di Narciso». S’intende che Dio solo, o l’uomo purificato, puòconcedersi in bonam partem un’inclinazione narcisistica, che, nel caso del Crea-tore, coincide con la sua volontà artistica, il suo Kunstwollen: «Lo sommo Ben,

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che solo esso a sé piace, / fe’ l’uomo buono e a bene, e questo loco / diede perarr’ a lui d’etterna pace» (Purg. XXVIII, 91-93). Analoga e scoperta perfezioneedenica del narcisismo si ha, poco prima, in Purg. XXVII, 100-108: «Sappiaqualunque il mio nome dimanda / ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno / lebelle mani a farmi una ghirlanda. / Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;/ ma mia suora Rachel mai non si smaga / dal suo miraglio, e siede tutto giorno./ Ell’è de’ suoi belli occhi veder vaga / com’io de l’addornarmi le mani; / lei lovedere, e me l’ovrare appaga».

10 Boccaccio, nel commento allegorico a Inf. IX, 52-60, toccava questo puntocon somma chiarezza: «Delle quali cose possiamo al nostro proposito racoglieresotto il nome di questa Medusa essere, come di sopra è stato detto, chiamata laostinazione, in quanto essa faceva chi la riguardava divenir sasso, cioè gelido einflessibile. Ma son molti li quali per avventura non s’accorgono quando questoGorgone riguardano. E però è da sapere che sono alcuni li quali sempre tengongli occhi della mente fissi nella loro bella moglie, ne’ loro figliuoli, ne’ lor be’ pa-lagi, ne’ lor be’ giardini, e questi paion loro da dover preporre ad ogni letizia diparadiso; altri tengono l’animo fisso a’ lor cavalli, a’ lor fondachi, alle loro bot-teghe, a’ lor tesori; altri agli stati e agli onori publichi e a simili cose: e non s’ac-corgono che questo cotal riguardare è riguardare il Gorgone, cioè gli ornamentiterreni, da’ quali e’ traggono quella dureza che gli convertisce in pietra, la qualeè di complessione fredda e secca: per la qual possiamo intendere questi cotaliessere freddi del divino amore e della carità del prossimo e in tanto secchi, inquanto i terreni secchi né ricevono alcun seme né fanno alcun frutto» (Padoan1965).

11 Boccaccio stesso si porrà analoghi problemi per cercare analoghe risposte:si veda in merito Veglia 1998 e 2000.

12 Si veda, per questa memoria evangelica, De Robertis 2005: 245.13 Sull’orgoglio fabrile di Dante per le ‘petrose’, e sulle implicazioni che se in-

feriscono dal De vulgari eloquentia, si deve leggere con profitto la prima appen-dice di Durling-Martinez (1990: 261-267), dal titolo Nascentis militiate dies. Inproposito è importante pure ciò che osserva Rossi (1995: 71 ss.).

14 Si consideri Comens 1986.15 Per questo desiderio è prezioso il richiamo di Battistini (1997: 98) a Ez.

XXXVI, 26: «dabo vobis cor novum, et spiritum novum ponam in medio vestri;et auferam cor lapideum de carne vestra, et dabo vobis cor carneum».

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16 De Robertis si richiama a Fenzi 2002: 61-81.17 Barolini 2006: 87-90. Utile, anzi dovizioso in questo senso, il lavoro della

Maffia Scariati (2005: 155 ss., 175-176, specie per le ipotesi di datazione).

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