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AMOR, DA CHE CONVIEN PUR CH’IO MI DOGLIA 1 CARLOS LÓPEZ CORTEZO Universidad Complutense de Madrid Asociación Complutense de Dantología Non sarò io di certo a mettere in discussione l’ipotesi che Dante avesse potuto innamorarsi, anche appassionatamente, ai quarantadue anni. Più problematico per me l’ammettere non solo che quest’amore potesse cam- biare, anzi stravolgere così radicalmente il corso della sua evoluzione in- tellettuale e poetica, ma soprattutto il fatto che confessi apertamente al marchese Moroello una vicenda amorosa da lui stesso qualificata di non lodevole («Occidit ergo propositum illud laudabile quo a mulieribus sui- sque cantibus abstinebam») e ‘empia’ («ac meditationes assiduas quibus tam celestia quam terrestria intuebar, quasi suspectas, impie relegavit»). Se, come ha osservato Pasquini di recente, «Dante non è persona adusa a confessioni e, quando deve confessare un lato della sua vita, lo fa attra- verso le figure del suo poema» 2 , il contenuto dell’epistola, ma anche del congedo della canzone, mi risulta quantomeno sbalorditivo. Non si di- mentichino al riguardo le motivazioni che lo avevano mosso a scrivere il Convivio, tra le quali il «timore d’infamia», Movevi timore d’infamia, e movevi desiderio di dottrina dare la quale altri veramente dare non può. Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere signo- 131

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AMOR, DA CHE CONVIEN PUR CH’IO MI DOGLIA1

CARLOS LÓPEZ CORTEZO

Universidad Complutense de Madrid

Asociación Complutense de Dantología

Non sarò io di certo a mettere in discussione l’ipotesi che Dante avessepotuto innamorarsi, anche appassionatamente, ai quarantadue anni. Piùproblematico per me l’ammettere non solo che quest’amore potesse cam-biare, anzi stravolgere così radicalmente il corso della sua evoluzione in-tellettuale e poetica, ma soprattutto il fatto che confessi apertamente almarchese Moroello una vicenda amorosa da lui stesso qualificata di nonlodevole («Occidit ergo propositum illud laudabile quo a mulieribus sui-sque cantibus abstinebam») e ‘empia’ («ac meditationes assiduas quibustam celestia quam terrestria intuebar, quasi suspectas, impie relegavit»).Se, come ha osservato Pasquini di recente, «Dante non è persona adusa aconfessioni e, quando deve confessare un lato della sua vita, lo fa attra-verso le figure del suo poema»2, il contenuto dell’epistola, ma anche delcongedo della canzone, mi risulta quantomeno sbalorditivo. Non si di-mentichino al riguardo le motivazioni che lo avevano mosso a scrivere ilConvivio, tra le quali il «timore d’infamia»,

Movevi timore d’infamia, e movevi desiderio di dottrina dare la quale altriveramente dare non può. Temo la infamia di tanta passione avere seguita,quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere signo-

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reggiata; la quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, intera-mente, lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la moventecagione. Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcunovedere non si può s’io non la conto, perché nascosa sotto figura d’allego-ria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile ammae-stramento e a così parlare e a così intendere l’altrui scritture (I ii 15-16).

un’infamia che nella Montanina e nell’epistola piuttosto che temere, sem-bra sforzarsi di incrementare confessando lo stato in cui è stato ridotto daquesta fulminea e irrefrenabile passione per una donna «bella e rea». Evi-dentemente se Dante qui non teme l’infamia che, ipoteticamente, l’avevaappena mosso di recente ad interpretare allegoricamente le canzoni delConvivio, è perché sa che il marchese poteva capire che la passione checonfessa di sentire non è verso una donna vera.

Ho l’impressione, infatti, che nell’epistola tutti gli sforzi del poeta sianorivolti, più che a giustificarsi, a descrivere al marchese la ‘qualità’ del suonuovo amore: non si tratta di un amore qualunque, ma proprio di uno‘straordinario’, capace di tenerlo incatenato (vincula servi sui […] carce-ratum) e di trattarlo con una violenza tanto estrema (Amor terribilis etimperiosus me tenuit. Atque hic ferox tamquam dominus pulsus patrispost longum exilium sola in sua repatrians, quicquid eius contrarium fue-rat intra me vel occidit vel expulit vel ligavit) da legare anche il suo liberoarbitrio (liberum meum ligavit arbitrium), impedendo qualunque sua di-fesa (Regnat itaque Amor in me nulla refragante virtute). Lo stesso puòdirsi del congedo della canzone, dove Dante piuttosto che rinunciare atornare a Firenze, comunica ai suoi concittadini il tipo d’amore che si èimpossessato di lui fino al punto di tenerlo incatenato e di privarlo dellalibertà di rientrare in patria, anche nell’ eventualità di essere perdonato.Non siamo dunque di fronte ad un congedo politico, tipo quello di Tredonne, ma amoroso: se Dante parla dell’impossibilità di tornare a Firenzeè per mostrare la forza di quell’amore, e non altro. Ma vorrei mettere inrisalto che anche qui il poeta adopera la metafora dell’amore che incatena,una metafora che non mi risulta abbia usato mai prima, e sulla quale tor-nerò più avanti.

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Ho l’impressione, quindi, che tanto nell’epistola quanto nel congedo simanifesti un deciso interesse del poeta a risaltare il carattere straordinariodi quest’amore che lo incatena e che lo ha forzato ad abbandonare qua-lunque attività intellettuale e civile: non un’avventura amorosa passeg-gera, dunque, ma un sentimento decisivo, più forte della sua passione perla filosofia («meditationes assiduas quibus tam celestia quam terrestriaintuebar»), ma anche più potente del suo amore verso la patria, contra-riando così due appetiti naturali nell’uomo: il desiderio di sapere e l’amoreverso il luogo nativo (cfr. Cv I i 1-2; III iii 6-7).

Il fatto che Dante faccia al marchese queste confidenze così intime e suun amore certamente non lodevole; e, in più, che lo inviti a leggere la can-zone per fargli capire la forza non comune della sua passione (qualiterme regat, inferius extra sinum presentium requiratis), mi sembra che mo-stri che Moroello fosse considerato dal poeta un interlocutore valido, chese ne intendeva d’amore, ma anche di poesia, come da ad intendere Na-tascia Tonelli: era «a giorno degli [di Dante] importanti lavori in corsoche avevano visto la luce o il rinnovato impulso grazie alla sua ospitalità»(2007: 69). Tra questi lavori, probabilmente anche il Convivio e il De Vul-gari eloquentia (se ha ragione Fenzi nell’interpretare le meditationes ac-cennate nell’epistola come il Convivio), nei quali definisce la poesia comefictio retorica musicaque poita (V.E. II, iv), e il senso letterale come bellamenzogna, che nasconde una verità (Cv. II, i). Nell’epistola, infatti, Danteinvita il marchese a leggere la canzone e, implicitamente, ad interpretarla,se, com’è probabile, non ignorava –anche nel caso di non aver letto i duetrattati– le teorie poetiche di Dante. Nel caso contrario, perché inviarglila canzone? Per giustificare la sua assenza dalla corte sarebbe bastata lalettera. Evidentemente doveva esistere una certa ‘intimità’ letteraria traDante e il marchese, tanta da essere scelto dal poeta come confidente‘poetico’; e in questo caso, è possibile che Dante non gli avesse parlatodel Convivio e dell’interpretazione allegorica delle sue canzoni, dei quat-tro sensi delle scritture?

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PRESENTIS ORACULI SERIEM PLACUIT DESTINARE

Si è già scritto sui problemi che pone la traduzione di quest’espres-sione. Così Fenzi, «fa difficoltà, qui, la presentis oracoli seriem, che, d’ac-cordo con altri, solo con forte banalizzazione potremmo tradurre, come faFrugoni, con ‘il testo del presente scritto’ (meglio Allegretti: ‘La compa-gine della presente visione’)» (2003: 49); e anche N. Tonelli:

Si tratta dell’oggetto specifico del dono, dell’invio che Dante fa al mar-chese che manca a tutt’oggi di una lettura, di una traduzione che sia affattoconvincente. Così De Robertis rende la frase: «m’è piaciuto far giungereal cospetto della Magnificenza vostra il testo dell’unita proclamazione».

Fa evidentemente particolare difficoltà l’interpretazione di oraculum[…] che, di volta in volta, viene tradotto come ‘visione’ o ‘scritto’ (inno-vativo De Robertis che con ‘proclamazione’ –riferito alla canzone– pro-pone un collegamento al «carattere ‘orale’ di ‘effato’, della canzone […],giusta l’etimo del termino» […] Ma di series, cosa viene detto? In generemolto poco, la voce è trascurata, tendenzialmente tralasciata nella tradu-zione quasi fosse divenuta parola vuota, mero riempitivo, sinonimo di“testo” (e vedi ancora le note di Mazzoni), come nella versione che nedanno Frugoni («il testo del presente scritto»), e tanti altri fino a De Ro-bertis. Torri invece proponeva «la serie della misteriosa visione», e Alle-gretti, approvata da Fenzi, «la compagine della presente visione» (2006:54).

Io confesso invece che non vedo una ragione convincente che giustifi-chi queste traduzioni. Se oraculum è un hapax in Dante, vuol dire che ilpoeta scelse il termine a coscienza, e che probabilmente voleva dire ciòche dice: «oracolo», e non altro, riferendo la parola metaforicamente, all’«oggetto specifico del dono», in parole di Natascia Tonelli. Non capiscoperché scrive oraculum, se invece voleva –e poteva– dire visio o scriptum.Io, quindi, tradurrei letteralmente: «la serie del presente oracolo», datoche gli oracoli erano costituiti proprio da una serie di testi scritti in versiche si potevano anche cantare, almeno secondo una fonte che Dante sicu-ramente conosceva a memoria e ammirava, l’Eneide; la stessa fonte alla

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quale si ispira in Paradiso XXXIII 5-6 («Così al vento ne le foglie levi /si perdea la sentenzia di Sibilla»), con un forte ed indubbio rimando alpasso del libro III dell’opera magna di Virgilio, dove si descrive come laSibilla di Cuma faceva gli oracoli:

Huc ubi delatus Cumaeam accesseris urbemdivinosque lacus et Averna sonantia silvis,insanam vatem aspicies, quae rupe sub imafata canit foliisque notas et nomina mandat.Quaecumque in follis descripsit carmina virgo,digerit in numerum atque antro reclusa relinquit;illa manent immota locis neque ab ordine cedunt;verum eadem, verso tenuis cum cardine ventusimpulit et teneras turbavit ianua frondes,numquam deinde cavo volitantia prendere saxonec revocare situs aut iungere carmina curat:inconsulti abeunt sedemque odere Sibyllae ( 442-452)

Si noti come la Sibilla scriveva l’oracolo in versi3, in diverse foglie chepoi ordinava (appunto, la dantesca serie), e che per riferirsi a queste foglienelle quali erano scritti i versi, Virgilio adoperi la parola carmina, cioè,‘canti’, il che spiega che Enea poi le chieda di cantarle:

Foliis tantum ne carmina manda,ne turbata volent rapidis ludibria ventis:ipsa canas oro (VI, 74-76)

In altre parole, se oraculum equivaleva a una serie di carmina, si giu-stificherebbe la scelta terminologica di Dante, potendosi presumere cheil suo ‘oracolo’ fosse un proprio e vero ‘canzoniere’, vale a dire, un in-sieme ordinato (serie) di fogli scritti in versi (carmina), il che spieghe-rebbe che il poeta, per riferirsi al suo dono al Marchese, lo chiami«presentis oraculi seriem», appunto ‘la serie del presente oracolo’, con-fermandosi così l’ipotesi di Natascia Tonelli: si tratterebbe del ‘libro dellecanzoni’. In più e conseguentemente dovrebbero considerarsi anche, ri-guardo a questo ‘canzoniere’ dantesco, due caratteristiche essenziali deglioracoli: l’accurato ordinamento delle foglie, indicante un qualche filo lo-

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gico tra loro, sì che se il vento le scompigliava non era più possibile capirel’oracolo; e, non meno importante, la necessaria interpretazione4, d’al-tronde inerente a tutti gli oracoli, che in genere erano scritti o pronunciaticon un velo d’ombra, quando non enigmaticamente (cfr. Cicerone, op.cit. 110-147). A questo proposito, si noti che Virgilio adopera, per riferirsiall’oscurità dell’oracolo della Sibilla, una formula simile a quella usata daDante nel Convivio riguardo al significato allegorico, cioè, una verità na-scosta:

Talibus ex adyto dictis Lumaca Sibillahorrendas canit ambages antroque remugitobscuris vera involvens: ea frena furenticoncutit et stimulos sub pectore vertit Apollo (VI, 98-101)

Dato che gli oracoli dovevano necessariamente essere interpretati, misembra ragionevole supporre che Dante, per riferirsi al suo ‘libro dellecanzoni’, scegliesse il termine in questione anche per avvertire il mar-chese che con le sue canzoni si doveva fare lo stesso, perché anche inquelle la vera sentenza era ascosa sotto figura d’allegoria, come affermanel passo del Convivio prima citato.

Se queste considerazioni non bastassero per chiarire questo tormentatopasso dell’epistola a Moroello e per confermare l’ipotesi di Natascia To-nelli, citerò un’altra fonte, anch’essa conosciuta da Dante, nella quale ilpoeta poté trovare non solo dottrina sugli oracoli, ma anche il testo diqualcuno, e soprattutto l’idea e il termine seriem adoperato poi nell’epi-stola. Mi sto riferendo ad un’opera citata diverse volte nel Convivio, la Ci-vitas Dei, dove Agostino dedica alcuni passi importanti al tema deglioracoli e alla loro interpretazione in chiave cristiana, tra i quali quellodella Sibilla di Cuma dell’Egloga IV di Virgilio (Civitas Dei, X, 27); maspecialmente interessante per il nostro caso il capitolo XXIII del libroXVIII, intitolato De Sibilla Erythraea, quae inter alias Sibyllas cognosci-tur de Cristo evidentia multa cecinesse, ove Agostino dice di avere riunito,in una serie ordinata, i vaticini della Sibilla di Cuma che figuravano sparsiin un’opera di Lattanzio. Il passo merita di essere riprodotto:

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Inserit etiam Lactantius operi suo quaedam de Cristo vaticinia Sibyllae,quamvis non exprimat cuius. Sed quae singillatim posuit, ego arbitratussum coniuncta esse ponendo, tanquam unum sit prolixum, quae ille pluracommemoravit et brevia. «In manus iniquas, inquit, infidelium postea ve-niet: dabunt autem Deo alapas manibus incestis, et impurato ore exspuentvenenatos sputus: dabit vero ad verbera simpliciter sanctum dorsum. Etcolaphos accipiens tacebit, ne quis agnoscat, quod verbum, vel unde venitut inferis loquatur, et corona spinea coronetur. Ad cibum autem fel, et adsitim acetum dederunt; inhospitalitatis hanc monstrabunt mensam. Ipsaenim insipiens tuum Deum non intellexisti, ludentem mortalium menti-bus; sed spinis coronasti, et horridum fel miscuisti. Templi vero velumscindetur: et medio die nox erit tenebrosa nimis in tribus horis. Et mortemorietur tribus diebus somno suscepto: et tunc ab inferis regressus adlucem veniet primis, resurrectionis principio revocatis ostento». Ista Lac-tantius carptim per intervalla disputationis suae, sicut ea poscere videban-tur, quae probare intenderat, adhibuit testimonia Sibyllina, quae nos nihilinterponentes, sed in unam seriem conexa ponentes, solis capitibus, sitamen scriptores deinceps ea servare non neglegant, distinguenda curavi-mus. Nonnulli sane Erytraeam Sibyllam, non Romuli, sed belli Troianitempore fuisse scripserunt.5

È probabile che Dante nell’epistola stia pensando a questo passo e chela scelta dei termini latini da lui fatta sia un vero e proprio rimando al-l’operazione descritta da Agostino, basandosi anche sul fatto che tanto luiquanto Virgilio si servono della parola carmina per riferirsi agli oracoli6,una parola che, come si sa, significava tanto ‘oracolo’ quanto ‘canto’. Infin dei conti, quello che fa Agostino è riunire in una serie ordinata un certonumero di carmina che si trovavano dispersi, distinguendoli dai capo-versi, un’operazione simile a quella che Dante avrebbe fatto per compilareil suo libro delle canzoni.

A questo punto, e riguardo alle canzoni di Dante, va considerato ancheil contenuto di questi oracoli, certamente non d’amore, ma piuttosto diquesiti politici e religiosi, ma anche filosofici, come quelli raccolti ed in-terpretati da Porfirio nella sua Filosofia desunta dagli oracoli, un filosofola cui opera Dante conosceva almeno da Agostino, che lo considera doc-

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tissimus philosophorum, quamvis Christianorum acerrimus inimicus (Ci-vitas Dei, XIX, 22), criticandone l’interpretazione anticristiana che fa diun oracolo di Apolo: «Viderit quid de Cristo vates mendax Apollinis di-xerit, atque iste crediderit, aut fortasse vatem, quod non dixit, dixisse isteipse confinxerit».

Questa nuova lettura del passo dell’epistola, costringerebbe pure a cor-reggere la traduzione del suo congedo (Regnat itaque Amor in me nullarefragante virtute; qualiterque me regat inferius extra sinum presentiumrequiratis), tradotto da De Robertis: «Regna perciò Amore in me, senzache nessuna virtù lo contrasti. Come mi governi, cercatelo qui sotto fuordei termini della presente»; o similmente da Pasquini: «Così regna Amorein me, non resistendogli alcuna virtù; come mi governi, cercate più sotto,fuori del seno della presente lettera». Il plurale presentium, infatti, osta-cola che sia un riferimento all’epistola; non si dimentichi al riguardo cheaveva già adoperato il termine per riferirsi all’oracolo (presentis oraculiseriem), vale a dire, alla ‘serie’ di carmina, e non alle «presenti parole»,come traduce P. Allegretti (2001: 3). Io tradurrei, quindi: «cercatelo quisotto fuor del seno delle presenti canzoni». Il perché Dante escluda questacanzone dal ‘seno’ delle altre potrebbe forse trovare una giustificazionenel fatto che le quattordici precedenti erano quelle previste per il Convivio,e perciò formavano un insieme adibito a quello scopo, frutto delle suemeditationes asiduas quibus tam celestia quam terrestria intuebar, inter-rotte appunto dal nuovo amore. Chiusura, dunque, di una tappa poeticadottrinale ed inizio di un’altra segnata dall’amore verso una donna de-scritta nell’epistola come meis auspitiis undique moribus et forma confor-mis, e, paradossalmente nella canzone come bella e ria.

C’è da domandarsi, infine, perché Dante abbia scelto, per ipotetica-mente riferirsi all’insieme della sua ‘serie’ di canzoni, il termine oracu-lum, certamente non facilmente interpretabile da Moroello nel senso chequi ho considerato, a meno che non figurasse anche come titolo del can-zoniere che il marchese, non si dimentichi, aveva sotto gli occhi. Il motivoche lo avrebbe indotto ad optare per un sostantivo che non aveva mai

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prima adoperato nei suoi scritti potrebbe essere il principio dei nominasunt consequentia rerum, già applicato nel Convivio:

La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioèquattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate, le quali sanza lopresente pane avevano d’alcuna oscuritade ombra, sì che a molti lorobellezza più che loro bontade era in grado. Ma questo pane, cioè la pre-sente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza faràparvente.

E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia…(I, i, 14-16).

e che poi applicherà anche nella Commedia:

Libri titulus est: «Incipit Commedia Dantis Alagherii, fiorentini natione,non moribus». Ad cuius notitiam sciendum est quod commedia dicitur a“comos” villa et “oda” quod est cactus, unde commedia quasi “villanuscantus”. Et est commedia genus quoddam poetice narrationis ab omnibusaliis differens. Differt ergo a tragedia in materia per hoc, quod tragedia inprincipio est admirabilis et quieta, in fine seu exitu est fetida et horribilis[…] Commedia vero inchoat asperitatem alicuius rei, sed eius materia pro-spere terminatur, ut patet per Terentium in suis comediis […] Similiter dif-ferunt in modo loquendi: elate et sublime tragedia; commedie vero remisseet humiliter, sicut vult Oratius in sua Poetria […] Et per hoc patet quodCommedia dicitur presene opus. Nam si ad materiam respiciamus, a prin-cipio horribilis et fetida est, quia Infernus, in fine prospera, desiderabilis etgrata, quia Paradisus; ad modum loquendi, remissus est modus et humilis,quia locutio vulgaris in qua et muliercule comunicant (Epistola X)

Sono i fatti (“res”) a determinare non solo i nomi, ma anche i titoli.Nel caso del Convivio, perché si trattava proprio di un metaforico ‘con-vivio’; in quello della Commedia, perché la sua ‘materia’ e la lingua ado-perata nella sua composizione erano quelle proprie del genere comico.Credo, quindi, che anche nel caso di oraculum avesse potuto seguire lostesso criterio, e che fosse proprio questo il nome che Dante diede alla‘serie’, e non solo un termine scelto per riferirsi ad essa in mancanza di‘canzoniere’, allora inesistente; un titolo perciò motivato dal fatto che un

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oracolo era una serie di carmina ordinati in maniera tale che avessero unsenso complessivo, non potendo quest’ordine subire delle variazioni senzache cambiasse anche il significato dell’oracolo (caso di Agostino) o nonsi capisse più nulla (caso dell’Eneide).

Se i ragionamenti precedenti, che si muovono sempre in un terreno ipo-tetico, non sono sbagliati, si tratterebbe del primo e vero canzoniere nellastoria della letteratura, intendendo questo non come una raccolta di rimevarie, ma come un insieme di canzoni ordinate dall’autore secondo uncriterio prefissato, probabilmente logico o tematico, e non cronologico.L’ipotetico Oracolo, dunque, dovrebbe essere considerato come un’operaad se, perché questa sarebbe stata la volontà del poeta, manifestata senzaambiguità nell’epistola a Moroello: le sue quattordici canzoni non do-vrebbero essere studiate, quindi, soltanto come unità indipendenti le unedalle altre, ma anche come un insieme organico, come si dedurrebbe dalfatto che Dante lo avesse chiamato Oracolo, un titolo scelto a coscienzache implicherebbe non solo che i carmina fossero stati ordinati in modotale da avere un valore unitario, ma anche che sarebbe stato perso quelsenso complessivo se fossero stati disordinati. Il fatto che questo ‘canzo-niere’ fosse costituito da sole canzoni, e che fosse stato ordinato dal pro-prio autore con una volontà organica, farebbe di quest’opera inedita diDante un caso unico nel medioevo.

A questo punto c’è da chiedersi quale sia stato il criterio seguito daDante nell’ordinamento della ‘serie’ delle canzoni. In altre parole, se ri-spettò quello previsto per il Convivio, o fece invece delle variazioni. Ildubbio mi viene dal passo del Civitas Dei, che, come detto, consideroprobabile fonte di seriem. Agostino, infatti, ordina la sua ‘serie’ ricavandoi vaticini della sibilla da un’opera di Lattanzio, nella quale si trovavanodistribuiti dall’autore ‘in accordo a quel che richiedeva la tesi che inten-deva dimostrare’ («quae provare intenderat»). L’iniziativa di Agostino eraconsistita appunto in riunire in unam seriem conexa, solis capitibus, ciòche in Lattanzio si trovava separato, ottenendo così un nuovo significatodai vaticini, vale a dire, dai carmina. L’analogia con l’operato di Dante misembra evidente; lui, infatti, quel che ipoteticamente avrebbe fatto nel-

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l’Oracolo è riunire in una serie ordinata le canzoni che, come Lattanzio,aveva interpretato –o pensato d’interpretare– separatamente nel Convivio‘in accordo a quel che richiedeva la tesi che intendeva dimostrare’. Inquesto caso, nella serie dell’Oracolo il poeta potrebbe aver cambiato l’or-dine delle canzoni previsto per il Convivio, e in conseguenza anche il si-gnificato che aveva attribuito loro –o pensava di farlo– nel trattato.Confermerebbe quest’ipotesi il fatto che nell’ordinamento delle canzoniproposto da De Robertis figuri al primo posto Così nel mio parlar vo-gli’esser aspro, mentre nel Convivio è Voi che ‘ntendendo il terzo cielmovete ad essere la prima interpretata da Dante, vale a dire, la secondanell’edizione di De Robertis. È evidente che se nell’epistola si escludedalla serie la Montanina, cioè la quindicesima, la prima canzone dellequattordici del Convivio dovrebbe essere stata Così nel mio parlar, e nonaltra; il che vuol dire che –se ha ragione De Robertis– sarebbe questa adoccupare il primo posto nell’Oracolo.

MEDITATIONES ADSIDUAS QUIBUS TAM CELESTIA QUAM TERRES-TRIA INTUEBAR

Mi sembra importante segnalare che in un’epistola diretta ad un protet-tore e amico come il marchese, non è ragionevole supporre in Danteun’intenzione di essere oscuro, ma tutt’altro, una volontà di chiarezza e,quindi, di farsi intendere dal suo destinatario. In questo caso lo stesso ra-gionamento fatto a proposito di oraculi varrebbe anche per il suo violentoamore verso una donna che gli è apparsa ‘scendendo dall’alto come unafolgore’, un modo di descrivere la sua ‘apparizione’ certamente non co-mune, che a mio avviso ha lo scopo di fare avvertire a Moroello il suo ca-rattere non ‘naturale’, ma sopranaturale: si noti a questo proposito chenella canzone non figura questa scesa fulminante che Dante, in più, ignorain che modo si sia verificata («nescio quomodo»); si tratta quindi di unchiarimento a posteriori, il cui proposito sarebbe che il destinatario nonfraintendesse la vicenda amorosa descritta nel corpo della canzone. Non

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dubito che il marchese lo abbia capito subito: dal cielo, cioè da dove pro-vengono le folgori, non scendono di solito le donne in carne ed ossa; inol-tre, il potere ‘illuminante’ della folgore con la quale viene comparata, mipare sia un chiaro invito al lettore ad interpretarla allegoricamente: il poetainfatti non solo paragona la sua discesa con una folgore, ma mette in ri-salto anche il suo bagliore ‘diurno’ («diurnis coruscationibus»), capacecioè di ‘rischiarare le tenebre’ della notte (vid. De Robertis 2005: 211),una proprietà altamente allegorica, se si considera che l’opposizione ‘lucevs oscurità’ rimanda, non solo in Dante, ad un ambito semantico ‘gno-seologico’ e/o ‘spirituale’. Tra i passi biblici citati da P. Allegretti (2001:59) a questo proposito figura uno di Matteo, particolarmente importante:«Angelus enim Domini descendit de caelo […] erat autem aspectus eiussicut fulgur» (28, 2-3); la pertinenza di questo brano evangelico riguardoa quello dell’epistola mi sembra indiscutibile, per il fatto che Dante loaveva riportato recentemente nel Convivio (IV xxii 15: «Matteo disse:‘L’Angelo di Dio discese di cielo, e venendo volse la pietra e sedea sopraessa. E ‘l suo aspetto era come folgore»), ed è molto probabile quindi chelo avessi in mente nel momento di scrivere l’epistola.

Sul successivo ‘tuono’, si tenga presente quel che dice G. Stabile nellacorrispondente voce dell’E.D., ricchissima in suggerimenti:

Dante, nel tuono, avverte fondamentalmente un atto deliberato della Prov-videnza divina che converte i fenomeni naturali in segni rivelatori dellapropria volontà […] Su questa base è possibile considerare il tuono: comeeffetto della luce divina, se posto in diretta sequenza con una folgore diorigine celeste; come espressione minacciosa o gaudiosa della ‘vox Do-mini’ (cfr. Ps. 28, 3), se connesso alla sua qualità sonora.

Anche le osservazioni di E. Fenzi, molto simili a quelle di Stabile:

Per quanto riguarda il carattere luminoso dell’apparizione, esso appareaffidato soprattutto alla folgore (ceu fulgur descendens), sì che mi sembrainevitabile ricordarne gli archetipi biblici, secondo i quali sono appunto ifulmini, i tuoni, le nubi, le tempeste montane a segnalare la presenza diDio, a cominciare dalla vetta del Sinai in Esodo 19, 16: «et ecce coeperunt

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adiri tonitrua ac micare fulgura et nubes densissima operire montem», enei Salmi, per esempio 29, 3 e 7, ove risuona come tuono «vox Dominiintercidentis flammam ignis», o 18, 8 ss., ove l’irata presenza di Dio simanifesta nel tremar della terra arsa dai fulmini, o 76, 18-19, ove ancora:«vocem dederunt nubes […] / vox tonitrui tui in rota; / illuxerunt corusca-tiones tuae orbi terrae, / commuta est et contremuit terra» (2003: 53).

Ho creduto pertinente avanzare in parte le mie conclusioni sul signi-ficato della donna, perché è l’amore verso di lei a far abbandonare Dantele sue meditationes, qualificate di adsiduas, un altro hapax nella non abi-tuale serie dell’epistola. La critica si è soffermata di più su meditationesche su adsiduas, un aggettivo invece molto interessante se si considerache il suo corrispondente volgare, assidue, non doveva essere molto abi-tuale ai tempi di Dante. I dizionari rimandano a questo riguardo, comeprima attestazione, a Bartolomeo da San Concordio (1267-1347)7: «Trecose sono quelle che la mente di scorrevole fanno diventare stabile, cioèvegghiare, ripensare e orare; lo continuare delle quali e l’assiduo atten-dervi danno all’anima stabile fermezza» (cit. in S. Battaglia 1961: vox“assiduo”). Credo che questa scarsa ricorrenza possa giustificare l’hapaxdantesco, sul cui uso nell’epistola tornerò più avanti.

Su quale sia la referenza di queste meditationes si è discusso molto. E.Fenzi, alla stregua di Gorni, è del parere che segnalino il Convivio:

non c’è dubbio che abbia di nuovo ragione Gorni: 144, nota 33, quandoscrive che meditationes non può designare la Comedìa, suggerendo inveceche possa trattarsi del Convivio, interrotto al suo quarto libro in quel girod’anni. È senz’altro così, per più ragioni, a cominciare dal fatto che nonsi è sin qui osservato che l’espressione di Dante altro non è che una tra-sparente variante della definizione canonica della filosofia, per esempioin un testo che gli era particolarmente presente quale il ciceroniano De of-ficiis, nel quale leggeva che la sofia, è cioè ‘illam autem sapientiam, quamprincipem dixit, rerum est divinarum et humanarum scientia’ (I 153)(2003: 57).

Pasquini, invece, difende che siano la Commedia:

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Insomma, questa donna affascinante non sarà forse la deduttiva montanaradi cui discorre il Boccaccia nella sua biografia, ma tanto meno la Comme-dia personificata, come vorrebbero Giovanni Pascoli e seguaci. Il poemanon potrà mai ritenersi responsabile di mandare in esilio meditationes ad-siduas quibus tam celestia quam terrestria intuebat e di mettere in cateneil libero arbitrio di chi è rimasto abbacinato di fronte alla rivelazione delcapolavoro che soppiantava il Convivio. Quest’ultimo meno che mai saràdefinibile attraverso quella superba perifrasi, di cui Dante stesso avrebbefornito la miglior traduzione possibile là dove –nel XXV del Paradiso–parla della Commedia come del «poema sacro / al quale ha posto mano ecielo e terra» (2007: 58).

Gli argomenti di Pasquini sono rigorosi, ma credo pertinente aggiun-gere ai puntuali e convincenti ragionamenti di Gorni (1995: 144 nota 33)8,che c’è una differenza essenziale tra ciò che Dante scrive nell’epistola eciò che dice nei versi di Paradiso XXV. Nel primo caso, infatti, ‘cielo’ e‘terra’ sono gli oggetti passivi delle meditationes di Dante; mentre nelcanto XXV del Paradiso, sono invece gli elementi attivi che hanno col-laborato (‘porre mano’) alla composizione del poema.

A questo punto vorrei apportare al dibattito quel che considero l’au-tentico e preciso intertesto dell’epistola, il De spiritu et anima (Migne PL40, 779-832)9, un’opera anonima, ma attribuita nel medioevo a S. Ago-stino, nel cui capitolo 50, intitolato Meditatio quid. Scientia. Compunctio.Devotio. Oratio. Affectus. Scientia sui aliis praeponenda, si tratta appuntodella meditatio. Non dubito che Dante, quando scrisse l’epistola, dovettetener presente questo passo, perché in esso figurano letteralmente glistessi termini adoperati da lui nella tormentata lettera a Moroello, inclusii due hapax già segnalati, meditationes e adsiduas10, e anche il loro og-getto, vale a dire, celestia e terrestria. L’importanza di questo trattato misembra evidente; non solo per ciò che riguarda l’epistola, ma anche comefonte d’ispirazione della Commedia e del suo profondo significato. Il Despiritu et anima, infatti, ci rivela con chiarezza i motivi che portaronoDante ad interrompere il Convivio, evidenziando che la sua crisi non fuun retromarcia verso le ormai superate concezioni cavalcantiane, ma un

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passo in avanti nella sua evoluzione intellettuale e spirituale. Anche selungo, credo che meriti la pena riprodurre il passo:

Meditatio siquidem parit scientiam, scientia compuctionem, compunctiodevotionem, devotio perficit orationem. Meditatio est frequens cogitatio,curiosa et sagax oscura investigare, et occulta ad notitiam trahere. Scientiaest quando homo ad cognitionem sui assidua meditatione illuminatur.Compunctio est quando ex consideratione malorum quorum cor internodolore tangitur. Devotio est pius et humilis affectus in Deum: humilis exconscientia infirmitatis propriae, pius ex consideratione divinae clemen-tiae. Oratio est mentis devotio, id est, conversio in Deum per pium et hu-milem affectum. Affectus est spontanea quaedam ac dulcis ipsius animi adDeum inclinatio. Nil enim ita Deum inclinat ad pietatem et misericordiam,quemadmodum purus mentis affectus.

Scientiam caelestium et terrestrium rerum laudare atque amare solenthomines; sed multo meliores sunt, qui huic scientiae praeponunt nosceresemetipsos. Laudabilior siquidem animus est, cui nota est misera sua,quam quia non respecta, vias seiderum et naturas rerum scrutatur. Quivero iam in Deum evigilavit Spiritus sancti calore excitatus, atque in eiusamorem coram se viluit, ad eumque entrare volens nec valens, eoque sibilucente attendit in se, et invenit se, suamque aegritudinem illius munditiaecontemperari non posse cognoscit; dulce habet flere, eumque precari, utsui misereatur, totamque eius miseriam exuat. Hunc itaque egentem et do-lentem scientia non inflat, quia caritas aedificat. Paeposuit enim scientiamscientiae, id est scire se ipsum et infirmitatem suam, magis quam scirevires herbarum, et naturas animalium: et hanc apponendo scientiam, ap-posuit et dolorem, dolorem scilicet peregrinationis suae ex desiderio pa-triae suae, et visionis Dei, quem cernere finis: cui est gloria in saeculasaeculorum. Amen. Dolet qui tenetur exsilio, quia differtur a regno. Doletdum recordatur quae et quanta mala fecit, et quam intolerabiles poenas proillis passurus sit.

Come ho detto, ritengo che questo passo sia il sicuro intertesto del-l’epistola. Si tratta di una riproduzione, parziale ma quasi letterale, delproemium al libro IV del De Trinitate di S. Agostino, eccezion fatta delleconsiderazioni sulla meditatio. Quest’anonimo scritto ci mostra anche la

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vera portata del ‘violento amore’ («Amor terribilis et imperiosus me te-nuit») che distoglie Dante dalle sue ‘assidue meditazioni’ e dal loro og-getto, non divino, ma palesemente ‘scientifico’, vale a dire, filosofico. Ilnuovo e ferox Amore invece praeposuit …scientiam scientiae, perché, inparole questa volta di Agostino,

Scientiam terrestrium caelestiumque rerum magni estimare solet genushumanum: in quo profeto meliores sunt qui huic scientiae praeponuntnosse semetipsos; laudabiliorque est animus cui nota est vel infirmitassua, quam qui ea non respecta, vias siderum scrutatur etiam cogniturus,aut quia iam cognitas tenet, ignorans ipse qua ingrediatur ad salutem acfirmitatem suam. Qui vero iam evigilavit in Deum, Spiritus sancti caloreexcitatus, atque in eius amore coram se viluit, ad eumque entrare volensnec valens, eoque sibi lucente attendit in se, invenitque se, suamque ae-gritudinem illius munditiae contemperari non posse cognovit; flere dulcehabet, eumque deprecari, ut etiam atque etiam misereatur, donec exuattotam miseriam, et precari, cum fiducia, iam accepto gratuito pignore sa-lutis, per eius unicum Salvatorem hominis et illuminatorem: hunc itaagentem et dolentem scientia non inflat, quia caritas aedificat; praeposuitenim scientiam sciente, praeposuit scire infirmitatem suam, magis quamscire mundi moenia, fondamenta terrarum, et fastigia caelorum: et hancapponendo scientiam, apposuit dolorem; dolorem peregrinationis suaeex desiderio patriae suae, et conditoris eius beati Dei sui (De TrinitateIV, proemium: Scientia Dei a Deo petenda).

In altre parole, alla conoscenza delle realtà ‘esteriori’ all’uomo, si pro-pone come migliore quella ‘interiore’ della propria anima: una scienzache non inflat, cioè, che non insuperbisce, ma che umilia, in quanto chefa l’uomo consapevole della sua miseria di fronte a Dio; una scienza chequanto più accresce, più addolora, incrementando il desiderio della finedell’esilio dalla patria celestiale. È mediante questo difficile e dolorosoprocesso d’auto-conoscenza che l’uomo può arrivare a scorgere, in sestesso, un’ombra della scienza divina:

In hac igitur difficultate et angustiis libet exclamare ad Deum vivum: ‘Mi-rificata est scientia tua ex me; invaluit, et non potero ad illam’ (Ps. 138,6). Ex me quippe intellego quam sit mirabilis et incomprehensibilis scien-

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tia tua, qua me fecistis; quando nec me ipsum comprehendere valeo quemferisti: et tamen in meditatione mea exardescit ignis (cfr. Ps. 38, 4), utquaeram facies tuam sempre (cfr. Ps. 104, 4) (De Trinitate, XV, 8, 13).

Credo che in questa ‘scienza’, immagine imperfetta di quella di Dio11,in quanto che conoscere se stesso è la sua sostanza (S. Teol. I, q. 14, a. 1,2, 3, 4), si possa scorgere l’identità della «mulier ceu fulgur descendens»,l’amore verso la quale distoglie Dante dalle «assidue meditazioni nellequali contemplava le cose del cielo e della terra», intese nel senso attri-buito a loro nei passi del De Trinitate e del De spiritu et anima. Non osta-cola a questo significato della donna, ma tutt’altro, il fatto che nellacanzone sia qualificata di rea (13), bella e ria (20), fera (32), o comesbandeggiata della corte d’Amore (71), mentre nell’epistola dice di leiche era meis auspitiis undique moribus et forma conformis. Oltre al fattoche aveva già fatto qualcosa di simile riguardo alla donna gentile, cioè laFilosofia (vid. Cv. III x 1-3; xv 19), bisogna considerare che l’auto cono-scenza è descritta nel De spiritu et anima –e anche nel De Trinitate–,come un processo straziante («et hanc apponendo scientiam, apposuit etdolorem, dolorem scilicet peregrinationis suae ex desiderio patriae suae,et visionis Dei, quem cernere finis […] Dolet qui tenetur esilio, quia dif-fertur a regno. Dolet dum recordatur quae et quanta mala fecit, et quamintolerabiles poenas pro illis passurus sit») (cap. 50), e la condizione dichi lo patisce come quella di un ‘carcerato in catene’: «Vos [i beati] igiturqui meruistis consortes fieri supernorum civium, et perfrui aeternae cla-ritatis gloria, orate pro me ad Dominum, ut educat me de isto carcere, inquo tenero captivus et ligatus» (cap. 59), una situazione simile a quella diDante nell’epistola: «Ne lateant dominum vincula servi sui quam affectusgratuitas dominantis, et ne alia relata pro aliis que falsarum opinionum se-minaria frequentius esse solent negligentem predicent carceratum…».

Questo processo d’autocognizione sarebbe rappresentato nella Com-media dall’altro viaggio proposto da Virgilio a Dante come alternativa alsuo fallito tentativo di salire al colle12 (If. I, 91: «A te convien tenere altrovïaggio»). Si tenga presente a questo proposito che nel suo doloroso per-

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corso infernale il personaggio Dante riconosce nel male altrui anche i pro-pri peccati.

La donna, quindi, sarebbe una personificazione di questa scienza auto-cognitiva, considerata da Dante, alla stregua d’Agostino, un’alternativaalla filosofia. Si tenga presente a questo riguardo che il poeta non perso-nifica mai le sue opere, mentre sì lo fa nel caso di una scienza: dall’amoreverso la donna gentile del Convivio, cioè, verso la Filosofia, poteva sol-tanto separarlo l’amore verso un’altra scienza, quella che sta alla base edè il ‘motore’ della Commedia: la ricerca, in sé stesso, della perduta imma-gine di Dio.

AMOR, DA CHE CONVIEN PUR CH’IO MI DOGLIA

Il passo citato del De spiritu et anima costringerebbe, quindi, a ricon-siderare la mulier non come una donna reale, ma come un’allegoria dellaScientia Dei, nel senso che le viene assegnato nel trattato. Un caso simile,perciò, a quello della donna gentile del Convivio. Quest’identità delladonna spiegherebbe anche la potenza amorosa che suscita in Dante, unamore fuori del comune, violento e feroce (Amor terribilis et imperiosusme tenuit. Atque hic ferox...). Ma il suo tratto più rilevante è forse quellodell’incatenamento, messo in risalto dal poeta non solo nell’epistola («Nelateant dominum vincula sui quam affectus gratuitatis et ne alia relata proaliis que falsarum predicent carceratum…»), ma anche nel congedo dellacanzone («là ond’io vegno una catena il serra / tal, che se piega vostra cru-deltate, / non ha di ritornar qui libertate»). Questo particolare dell’amoreche ‘incatena ad un luogo’ mi sembra molto importante, perché non mi ri-sulta che figuri in Cavalcanti; e in più la parola catena (ma anche incate-nare e incatenamento), è un hapax nell’opera dantesca, con eccezion fattadel Fiore (CCV 4: «con una catena molto forte / quella gentil ebbero ‘nca-tenata»), e della Commedia, ma sempre in contesti che niente hanno ache vedere con l’amore13. Il fatto che il poeta concluda la canzone sinte-

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tizzando la sua esperienza amorosa come un ‘incatenamento’ che lo tienelegato ad un ‘luogo’ preciso, privandolo della sua libertà, mi sembra chesia, quindi, uno dei tratti più rilevanti di quell’amore, oltre a quello dellasua efferatezza; un tratto che, a mio avviso, e come è già stato segnalatoda P. Allegretti (Alighieri, 2001: 97), gli serve a precisare il ‘grado’ del suoamore, secondo la tipologia e la terminologia amorosa stabilita da Ric-cardo di San Vittore nel suo trattato I quattro gradi della violenta carità(1990; Migne, 196, 1207-1224), un’opera certamente conosciuta daDante. Il Vittorino, infatti, dopo avere distinto tra amore comune e la suaespressione perfetta, l’amore supremo o violento14, stabilisce quattro gradiin quest’ultimo:

1º grado: caritas vulnerans2º grado: caritas ligans3º grado: caritas languens4º grado: caritas deficiens.

Ma vediamo in che consistono questi gradi, quali sono i suoi tratti piùrilevanti e come coincidono sorprendentemente con quelli danteschi:

RICCARDO: 1º grado: caritas vulnerans:Ma fermiamoci al primo grado, il grado dell’amore che ferisce. Non tisembra di essere colpito al cuore quando il dardo infocato dell’amore pe-netra e ti scava l’anima fino al midollo e ti trapassa i sentimenti da partea parte e tu perdi il controllo delle forze e non riesci a dissimularti il mon-tare selvaggio del desiderio? […] A questo grado tuttavia l’amore concedeattimi di silenzio, si ritrae dinanzi all’urgenza del vivere […] Ma di nuovo,dopo un momento la passione torna a divampare violenta e si avventasull’animo già provato con raddoppiata intensità e furia irresistibile. E piùimpetuosa che mai, dopo l’ora breve del silenzio, si abbatte su di te, pianpiano ti fiacca, ti toglie le forze. Infine ti aggioga a sé docile e sottomessoe ti riempie tutto del tormento del suo giogo, ti stringe, ti lega in nodi ine-stricabili, senza scampo, e non può più uscirti dai pensieri e tu ne sei pri-gioniero. E già passi dal primo al secondo grado (cap. VI).

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DANTE:

«Com’io risurgo, e miro la ferita / che mi disfece quand’io fui per-cosso» (52-53); «Qual io divegno sì ferito, Amore, / sailo tu, non io / cherimani a veder me sanza vita» (46-48); «e mostri me d’ogni vertutespento» (3); «I’ non posso fuggir ch’ella non vegna nell’imagine mia / senon come ‘l pensier che la vi mena» (16-18).

RICCARDO: 2º grado: caritas ligans

L’animo incatenato non sa dimenticare l’oggetto del suo amore. Non sapensare ad altro: tormento assiduo della mente, presenza fissa nella me-moria […] Questo grado non concede, come invece quello precedente, ilsollievo di una pausa ma, come una febbre ribelle, brucia l’animo conun’arsura continua e lo accende del desiderio del suo giogo e giorno enotte non gli lascia respiro. Se sei giunto al secondo grado della violentacarità, accade a te quel che accade a chi sta a letto o in catene, che non puòallungarsi dal luogo della sua prigionia. Qualunque cosa fai, dovunqueti volgi, non puoi strapparti dall’anima il morso dell’intima pena […] Al-l’aggressione del secondo grado invece non puoi opporti con la lotta nésottrarti con la fuga […] Ma quali traguardi può avere ancora l’amorequando è cresciuto a questo secondo grado d’intensità? Se non può esserevinto, se non può essere rimosso, non hai armi contro di lui. Se è assolu-tamente insuperabile, se è forma dell’anima stessa, non c’è chi pieghi lasua forza. Se non conosce rivali, è signore assoluto e, se è inscindibile date, è eterno. Quale violenza più irriducibile se è in alto su tutti, eterno? Maaltro è essere sulla vetta, altro è essere solo sulla vetta. Come altro è es-sere sempre presente e altro non condividere con alcuno l’esclusiva pre-senza (cap. VIII e IX).

DANTE:

«là ond’io vegno una catena il serra / tal, che se piega vostra crudeltate,/ non ha di ritornar qui libertate» (82-84); «Lasso!, non donne qui, nongenti accorte / veggio a cui mi lamenti del mio male» (67-69).

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RICCARDO: 3º grado: caritas languens

L’amore pertanto sale al terzo grado di intensità quando esclude ogni altrosentimento, quando ha un unico oggetto o un unico motivo di amore. Così,in questo terzo grado della violenta carità, nientr’altro appaga l’animo,nientr’altro ha senso per lui […] Le azioni e gli eventi appaiono inutili, in-tollerabili anzi, se non corrono a quella realizzazione di amore […]Quando ne sei lontano, tutto è desolazione, squallido vuoto. Senti il corpofiacco, il cuore malato. Il senno ti abbandona, la ragione si smarrisce eniente viene a confortarti […] Nel terzo grado la mente, estenuata e lan-guida per l’eccesso di amore, come è incapace di concepire altri pensiericosì avverte l’apatia dell’agire. Nel secondo grado l’amore impedisce l’at-tività di pensiero, nel terzo fiacca l’aggire. A questo grado l’eccesso diamore agisce come una specie di languore. Svuota di energie mani e piedi.E la mente non è più padrona di sé (cap. VIII e IX).

DANTE: «Quale argomento di ragione raffrena / ove tanta tempestain me si gira?» (26-27); «La nemica figura che rimane / vittorïosa e fera/ e signoreggia la vertù che vole» (31-33).

RICCARDO: 4º grado: caritas deficiens

Quando nulla ormai riesce a spegnere l’arsura dell’anima in fiamme, al-lora sei al quarto grado dell’amore violento […] Ma non si può esprimerenella sua pienezza la violenza dell’amore a quest’ultimo grado né esau-rirne a parole l’eccelsa sovranità. Non c’è coltello che penetri più a fondonel cuore dell’uomo, né aguzzino che sappia più raffinate torture o per-secutore che conosca più implacabile persecuzione. Non c’è supplizio piùpenoso che avere sete e non riuscire a dominare la voglia di bere né asmorzarla pur bevendo fino ad ubriacarsi […] Malattia incurabile e di-sperante, quando cerchi senza posa un rimedio e in nessun luogo riesci atrovarlo e, anzi, quel che prendi come rimedio di salvezza, si rivela incre-mento di male […] Niente gli addolcisce l’anima e, come se già fossemorto, non avverte il brusìo della vita […] Quello è il grado d’amore incui l’amore volge in follia (Cap. XIV-XVI) .

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DANTE:

«L’anima folle, ch’al suo mal s’ingegna» (19); «Tu vo’ ch’i’ muoia, eio ne son contento» (7); «E se mi dai parlar quanto tormento, / fa’, signormio, che ‘nnanzi al mio morire / questa rea per me no·l possa udire» (11-13); «Ben conosco che va la neve al sole; ma più non posso: fo comecolui / che nel podere altrui / va co’suo’piedi al loco ov’egli è morto. /Quando son presso, parmi udir parole / dicer: ‘Vie via vedrai morir co-stui’» (37-40); «e ‘ntanto sono scorto / dagli occhi che m’uccidono a grantorto» (44-45); «Qual io divegno sì ferito, Amore, / sailo tu, non io / cherimani a veder me sanza vita» (46-48); «qui vivo e morto come vuoi mipalpi / mercè del fiero lume / che folgorando fa via alla morte» (64-66).

A questo punto credo che sia da rifiutare un ritorno alle concezioniamorose cavalcantiane. I tratti dell’amore violento descritto da Riccardosi corrispondono, infatti, con quelli della canzone; mentre – come detto –in Guido non mi risulta che figuri l’incatenamento. Ma va aggiunto subitoche nel trattato del Vittorino questi tratti sono trasferiti alla carità, cioè,all’amore di Dio:

Nei quattro gradi d’amore diversamente le cose stanno se l’oggettod’amore è Dio o se invece è la creatura umana. C’è differenza se il desi-derio brucia lo spirito o se invece investe la carne. L’amore che brucia lospirito è tanto più sublime quanto più è intenso. L’amore che arde i sensiquanto più è intenso tanto più è abietto. Quanto l’oggetto d’amore è Dio,intensità e sublimità coincidono. Quando l’oggetto d’amore è l’uomo,l’intensità d’amore coincide con l’abiezione. Negli amori umani il primogrado può essere buono, il secondo senza dubbio è cattivo, il terzo è peg-giore, il quarto è pessimo (cap. XVIII).

I quattro gradi dell’amore, infine, identificati con la contemplazione,sono interpretati in chiave mistica15:

1º grado: Dio visita l’anima, facendola ritornare in sé; l’anima entra insé attraverso della meditazione.

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2º grado: l’anima si innalza al di sopra di se stessa e sale a Dio; escefuori di sé, ascendendo mediante la contemplazione.

3º grado: l’anima, innalzatasi a Dio, trapassatasi in Lui, varca le sogliedel giubilo.

4º grado: l’anima lascia l’intimità di Dio e scende al di sotto di sestessa; lascia Dio spinta dalla compassione e dall’amore al prossimo.16

Si noti come il primo grado coincida con il processo interiore d’auto co-noscenza del De spiritu et anima, alla cui base sta proprio la carità: «Huncitaque egentem et dolentem scientia non inflat, quia caritas aedificat»(cap. 50). In altre parole, questa ‘scienza’, dolorosa per il principiante,suscita in lui la carità, allo stesso modo che la donna, rea e fera, provocal’amore in Dante.

Nel modello riccardiano, quindi, il poeta trovava una precisa base perdescrivere la sua radicale e straziante esperienza spirituale comeun’umana, violenta e lancinante passione amorosa. La donna scesa dal-l’alto, a mio avviso, non sarebbe, dunque, né una donna reale, né la Com-media, né Beatrice; ma va situata e considerata di certo nell’ambito delpoema e degli intensi moti interiori che indussero il poeta ad abbandonareil Convivio ed intraprendere la faticosa composizione del «poema sacro /al quale ha posto mano e cielo e terra», facendolo soffrire, fisicamente edintellettualmente, fino alla estenuazione («sí che m’ha fatto per molti annimacro»):

O sacrosante Vergini, se fami,freddi o vigilie mai per voi soffersi,cagion mi sprona ch’io mercé vi chiami.

Or convien che Elicona per me versi,e Uranìe m’aiuti col suo coroforti cose a pensar mettere in versi (Pg. XXIX 37-42)

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NOTE

1 Per una analisi puntuale del testo della canzone, vid. il mio contributo al XIIIConvegno di Letteratura italiana, (Gargnano del Garda, 25-27 settembre 2008),intitolato Amor, da che convien pur ch’io mi doglia: alcune precisazioni (in corsodi stampa).

2 E. Capelli (2007): L’ultima lezione del professor Pasquini, inhttp://espresso.repubblica.it/dettaglio-local//1602650&print=true .

3 Cfr. Livio Volgare, 6-221: «Quivi è uno tempio grandissimo e uno oracolod’Apollo: e dicesi quivi sacerdotesse con composti versi dare risponsi» (GrandeDizionario della Lingua Italia, vox “oracolo”). Sugli oracoli in versi, vid. Cice-rone, De divinatione, 2, 110-147; vid. anche Isidoro (Etym. VIII, 8): «SeptimaCumana, nomine Amalthea, quae novem libros adtulit Tarquinio Prisco, in quibuserant decreta Romana conscripta. Ipsa est et Cumaea, de qua Vergilius (Ecl. 4,4): Ultima Cumaei venit carminis aetas».

4 Sull’importanza che per Dante ha l’interpretazione ha scritto un magnificosaggio Z. Baránski (2002-2003: 9-64).

5 «In una sua opera Lattanzio allega vaticini della Sibilla sul Cristo, sebbenenon indichi il nome. Io ho pensato di riunire le frasi che egli ha citato separata-mene in modo che rientrino in un unico contesto i vari e brevi pensieri che egliha riportato. Dice la Sibilla: ‘Cadrà poi nelle mani empie degli infedeli, darannoschiaffi a Dio con mani contaminate e geteranno sputi velenosi dalla turpe boccaed egli senza resistenza offrirà il dorso ai colpi. Nel ricevere schiaffi tacerà af-finché non si sappia che è il Verbo e da dove viene per morire ed essere coronatodi spine. Per cibo gli diedero il fiele e per bevanda l’aceto, gli offriranno questavivanda dell’inospitalità. Tu, stolto, non hai compresso il tuo Dio che si mostraalla coscienza degli uomini, ma lo hai perfino coronato di spine e gli hai mesco-lato nella bevanda il fiele disgustoso. Sarà spaccato il velo del tempio e a mez-zogiorno per tre ore scenderà una notte tenebrosa. Morirà e sarà nel sonno dellamorte per tre giorni e allora, ritornato dal regno dei morti, verrà per primo allaluce dopo aver mostrato ai risorti le primizie della risurrezione’. Lattanzio hausato queste attestazioni della Sibilla separatamente in punti diversi della disser-tazione, in accordo a quel che richiedeva la tesi che intendeva dimostrare. Io,senza nulla frapporre ma riunendoli in una serie ordinata, ho procurato di distin-

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guerli soltanto dai capoversi, con la speranza che in seguito gli amanuensi nontrascurino di mantenerli». [Mi servo della traduzione di D. Gentili (Agostino2000), ma cambiando quella che corrisponde a sed in unam seriem conexa po-nentes, solis capitibus, perché in XVIII, 23, 1, Agostino, nel trattare di un altrooracolo, adopera la stessa espressione per riferirsi ai capoversi: in capitibus ver-suum].

6 «Haec autem Sibilla sive Erythraea, sive, ut quidam magis credunt, Cumaea,ita nihil habet in toto carmine suo, cuius esigua ista particula est, quod ad deorumfalsorum sive factotum cultum pertineat» (De Civitas Dei, XVIII, 23, 2); «Quae-cumque in foliis descripsit carmina virgo, / digerit in numerum atque antro re-clusa relinquit» (Eneide, III, 445-446).

7 Vid. M. Cortelazzo-P. Zolli 1992; S. Battaglia 1991.8 «Suggestivo il riscontro, operato da molti, con l’esordio di Paradiso XXV,

‘Se mai continga che ‘l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra’. Al-lora, dunque, si allude qui al poema, e cioè almeno alla composizione della primacantica, da cui il poeta sarebbe stato stornato dalla sua nuova passione? Noncredo, perché meditationes (hapax in Dante) non può designare lo scrivere inversi, nonostante l’uso speciale di ‘meditor’ in Egl. I 2 ‘silvestrem tenui musammeditari avena’ (o Egl. VI 8 e passi analoghi). L’unica occorrenza, pur contro-versa, di ‘meditare’ è in Conv. IV xii 9. Se non è un generico meditare, voglio direnon correlato alla stesura di un’opera precisa (il che però parrebbe strano), po-trebbe trattarsi proprio del Convivio, interrotto al suo quarto libro in quel girod’anni, prima del 1308 (collocazione generica che prudenza impone, in una que-stione così spinosa). Alla luce dei riscontri boeziani prodotti più oltre, parrebbeanzi questa l’ipotesi più probabile».

9 Mi servo dell’edizione bilingue spagnola (San Agustín 2002).10 Evidentemente nel manoscritto letto da Dante c’era scritto adsidua, che è il

termine adoperato nell’epistola, e non assidua. Il fatto si spiega se si considerache si conservano più di sessanta manoscritti in diverse biblioteche, «entre ellosel del siglo XIII, donde tanto San Alberto Magno como Santo Tomás de Aquinolo atribuyen a un cisterciense anónimo, que el abad Coustant identifica con Al-gero» (S. Agustín 2002: 89). Le probabili varianti si giustificherebbero dalle di-verse etimologie attribuite alla parola: «Voce dotta, lat. assidûus ‘costante,zelante’ (da assidèo ‘siedo accanto, assisto’). Cfr. Festo, 102: ‘Adsiduus diciturqui in ea re quam frequenter agit quasi consedisse videatur’. Poiché con assiduus

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s’indicò a Roma anche il cittadino abbiente (in contrapposizione al proletario),si pensò a un altro etimo, come nello stesso Festo, 102: ‘Alii assiduum locuple-tem, quasi multorum assium, dictum putant’. Cfr. Isidoro, 10-17: «Assiduus di-cebatur apud antiquos qui assibus ad aerarium expensum conferendis erat, et innegotiis quoque publicis frequens; unde et per s non per d scribendus est’» (S.Battaglia 1961: vox “assiduo”).

11 Per Tommaso d’Aquino «la dottrina sacra è come un’immagine della scienzadivina» (quaedam impressio divinae scientiae) (S. Theol. I, q. 1, a. 3, ad. 2).

12 Il colle al quale Dante tenta di salire, ovviamente per ‘contemplare’ la terraed il cielo, rappresenterebbe la scientia terrestrium caelestiumque rerum, la qualesecondo il De spiritu et anima, ma anche secondo Agostino, inflat, cioè, rende su-perbi; lo stesso peccato raffigurato dal leone del proemio, il rex superbus del DeTrinitate di Agostino (vid. López Cortezo 2003: 115-166). In questo caso, l’in-terruzione della salita significherebbe pure quell’analoga del Convivio.

13 If. XIII 126 («come veltri ch’uscisser di catena»); XXXI 88 («…ma el teneasuccinto, / dinanzi, l’altro, e, dietro, il braccio destro / d’una catena che ‘l teneaavvinto»); Pg. XXXI 25 («quai fossi attraversati o quai catene / trovasti, per chedel passare innanzi / dovessiti così spogliar la spene?»).

14 «Ma una cosa è parlare d’amore, una cosa è parlare della sua espressioneperfetta. Una cosa è parlare d’amore, una cosa della violenza d’amore» (cap. III).

15 «Nell’amore profano c’è quindi una progressiva discesa all’inferno delladisperazione e dell’impotenza; nell’amore divino, nella sublime caritas è tutto unascendere di bene in bene, di cielo in cielo, fino alla fusione completa e gratifi-cante dell’anima con Dio ed al potenziamento della sua capacità di espandersi edi beneficare. Così la caritas si identifica con la contemplatio, con l’ascesa mi-stica a Dio» (Introduzione a R. di San Vittore 1990: 25).

16 «Nel primo grado d’amore pertanto Dio visita l’anima e l’anima ritorna a sé.Nel secondo grado l’anima si innalza al di sopra di se stessa e sale a Dio. Nelterzo grado l’anima, innalzatasi a Dio, trapassa tutta in Lui. Nel quarto gradol’anima lascia l’intimità di Dio e scende al di sotto di se stessa. Nel primo gradol’anima entra in sé, nel secondo esce fuori di sé. Nel primo grado essa tende a sé,nel terzo tende a Dio. Nel primo grado l’anima entra in sé per amore di se stessa,nel quarto lascia Dio per amore del prossimo. Nel primo grado entra in sé attra-verso la meditazione, nel secondo ascende mediante la contemplazione, nel terzovarca le soglie del giubilo, nel quarto esce spinta dalla compassione.» (XXIX).

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