Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

24
1 L’Europa di cui abbiamo bisogno Il potere senza responsabilità DI BARBARA SPINELLI Quel che vorrei proporvi, per cominciare, è un gioco che a molti esperti pare astruso, o perché superfluo o perché poco serio e fuorviante. È il gioco della storia che si fa con i se: che ha dunque come oggetto non solo il mondo com’è stato fatto –– come ci sta davanti ma come avrebbe potuto essere, se invece di imboccare una strada ne avesse presa un’altra. Declinato al presente è più di un gioco: è un esercizio intellettuale che mette il pensiero in movimento, un metodo per guardare all’oggi come a una storia che possiamo scrivere in un modo o nell’altro, non dipendendo il suo svolgimento da forze impersonali ma dalla persona che ciascuno di noi è. Così per l’«Europa di cui abbiamo bisogno», che è il tema affidatomi. L’Europa può andare in una direzione oppure un’altra, affatto diversa. È tutta piena di questa congiunzione ipotetica il se e nuove e impreviste possono essere le risposte alle domande che ci facciamo: di quale Europa stiamo parlando? Come definire la sua necessità, il suo dover essere? Qual è il patrimonio che si vuol difendere? E soprattutto, da qualche anno: come trasformare la rabbia che sta suscitando prima in bisogno («qualcosa mi manca»-«per ottenere quel che voglio occorre passare di lì»), poi in progetto? Sia detto per inciso: l’Europa non sarebbe stata pensata in un certo momento – nel mezzo d’una guerra, mentre la Germania piegava il continente se qualcuno non avesse cominciato a immaginare un «se» ritenuto improponibile e

description

L’Europa di cui abbiamo bisogno. Saggio sulla politica comunitaria.

Transcript of Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

Page 1: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

1

L’Europa di cui abbiamo bisogno

Il potere senza responsabilità

DI BARBARA SPINELLI

Quel che vorrei proporvi, per cominciare, è un gioco che a molti esperti

pare astruso, o perché superfluo o perché poco serio e fuorviante. È il

gioco della storia che si fa con i se: che ha dunque come oggetto non solo

il mondo com’è stato fatto –– come ci sta davanti – ma come avrebbe

potuto essere, se invece di imboccare una strada ne avesse presa

un’altra. Declinato al presente è più di un gioco: è un esercizio

intellettuale che mette il pensiero in movimento, un metodo per

guardare all’oggi come a una storia che possiamo scrivere in un modo o

nell’altro, non dipendendo il suo svolgimento da forze impersonali ma

dalla persona che ciascuno di noi è.

Così per l’«Europa di cui abbiamo bisogno», che è il tema

affidatomi. L’Europa può andare in una direzione oppure un’altra,

affatto diversa. È tutta piena di questa congiunzione ipotetica – il se – e

nuove e impreviste possono essere le risposte alle domande che ci

facciamo: di quale Europa stiamo parlando? Come definire la sua

necessità, il suo dover essere? Qual è il patrimonio che si vuol difendere?

E soprattutto, da qualche anno: come trasformare la rabbia che sta

suscitando prima in bisogno («qualcosa mi manca»-«per ottenere quel

che voglio occorre passare di lì»), poi in progetto? Sia detto per inciso:

l’Europa non sarebbe stata pensata in un certo momento – nel mezzo

d’una guerra, mentre la Germania piegava il continente – se qualcuno

non avesse cominciato a immaginare un «se» ritenuto improponibile e

Page 2: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

2

fuorviante dai più. Il metodo, oggi, consiste nel chiedersi come sarebbe il

mondo che viviamo, se la crisi che ha lambito l’Europa, cinque anni fa,

fosse stata affrontata in modo differente.

In genere, gli storici guardano con un certo disprezzo a questi

esercizi mentali: la storia, dicono, non essendoci contemporanea non si

fa con i se. Non esiste la storia virtuale. Non ne sono così sicura, e

d‘altronde l’idea di una storia virtuale, cioè caotica, costellata di bivi

insospettati, inizia a farsi strada. Niall Ferguson ha scritto assieme ad

alcuni autori un libro che ha proprio questo titolo: «Storia Virtuale».

Studiare i se della storia è utile, per capire qualcosa di fondamentale. È

esistito sempre (esiste sempre), un attimo, un punto di svolta e

d’incertezza, in cui l’alternativa era possibile, in cui gli eventi avrebbero

potuto prendere un’altra piega: perché la storia è fatta di pieghe, e le

pieghe ci interessano quasi più della cronologia, che ci presenta un

tessuto già stirato a puntino dai posteri o dai vincitori. Per coloro che

vissero quei momenti di ieri la storia era il presente, e capire come lo

traversarono, quali altre vie erano aperte a ogni loro passo, è di grande

aiuto per noi che stiamo vivendo la storia che sarà scritta domani.

Nella Germania prehitleriana si poteva fare una politica

antirecessiva, al posto dell’austerità applicata dal governo Brüning, e

forse Hitler non avrebbe ottenuto nel ’33 consensi così spettacolari (il

43,9 per cento. Nel 1928 aveva racimolato appena il 2,6. Nel 1930,

quando Brüning divenne cancelliere, aveva raggiunto il 18,3). Oppure:

gli americani avrebbero potuto rifiutare accordi con la Mafia siciliana,

quando liberarono il nostro paese dal fascismo, e la storia italiana del

dopoguerra sarebbe stata diversa: forse non staremmo ancora a parlare

Page 3: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

3

di patti fra Stato e mafia. E via ipotizzando e usando i se, i forse, i

congiuntivi, i condizionali.

L’Europa com’è andata sviluppandosi dal 2008 in poi si presta

assai bene a quest’esercizio mentale. I modi in cui la crisi viene ormai da

anni gestita – dai governi in primis, e dalle autorità di Bruxelles che

tendono a esprimere le volontà non dell’intera area che rappresentano

ma dei paesi più forti – sono molto singolari: è come se non stessimo

facendo la storia, ma vivessimo conficcati dentro una storia

predeterminata, già stesi supini nel passato. È questo che rende così

insopportabile il mantra che sentiamo ripetere: «Non c’è alternativa». È

una locuzione adeguata agli eventi quando sono trascorsi, e scritti in un

certo modo. Quando si condensano in una narrazione teleologica,

finalistica, e tutti i «se» vengono scartati come futili o idealisti. È una

delle operazioni mentali più fraudolente che si possano immaginare,

quest’oggi sequestrato e traslocato nel mondo di ieri: usata per il tempo

presente, la formula è quantomeno incongrua. Nulla si può cambiare,

neanche lontanamente sono ipotizzabili alternative. E non a caso è così

in voga questa parola: Narrazione. La Narrazione è predefinita, l’autore

può magari tenerci con il fiato sospeso – per esempio quando scrive un

giallo – ma lui sa come andranno a finire le cose, chi è il colpevole e chi il

vincitore o l’innocente o l’eroe. Mentre noi no, queste cose non le

sappiamo: per nostra fortuna possiamo prenderci la libertà di

sbizzarrirci e questa virtualità è una nostra fortuna.

Così la Narrazione della nostra crisi: gli autori del giallo europeo

hanno iscritto nella scaletta le cure di austerità, la divisione fra centro

(Germania essenzialmente) e periferie sud, anche il disfarsi della

Page 4: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

4

democrazia e delle costituzioni nazionali, visto come ineluttabile danno

collaterale di una stabilità politica eretta a nuovo valore etico

incondizionato (questo significa a locuzione «valore assoluto»,

recentemente impiegata dal Presidente del Consiglio). La frode è questa

scaletta, che non solamente è inconfutabile ma ha la pretesa di

raggiungere una vetta (l’Europa politica padrona di sé) con mezzi

rigorosamente inadatti a scalarla. La frode è quest’hegeliana certezza che

il presunto razionale sia reale, e il presunto reale razionale. La storia non

la stiamo fabbricando con le nostre mani, perché già è messa nero su

bianco. Viviamo nel passato, non nell’oggi dove tutto è ancora possibile

e nulla è fatale. D’altronde Hegel stesso è tutt’altro che perentorio: la

civetta di Minerva non si compiace della propria saggezza e della

propria razionalità di primo mattino, quando ancora le cose devono

farsi. Comincia il suo volo solo al crepuscolo.

***

Questo vero e proprio assassinio del possibile è la principale

caratteristica dell’Europa quale oggi esiste, e si può capire l’indignazione

che suscita, e anche la rabbia e il rigetto. Chi si arrabbia, chi perde la

pazienza e «non ci crede più» – gli euroscettici è il nome che hanno

avuto per un certo tempo, oggi si parla di populisti – sono i soggetti

della storia in cui forse c’è da sperare. Se non esistessero – se non

esistesse una crisi che si acuisce – non staremmo qui stasera a

interrogarci sul bisogno o non bisogno d’Europa. La rabbia dei cittadini

è un’opportunità che ci viene data, come è un’opportunità lo spread. La

rabbia stessa è spread, non finanziario ma umano: è scarto fra i cittadini

e l’idea di Europa, fra popoli e istituzioni democratiche, sia nazionali che

Page 5: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

5

europee. È reazione a un patto sociale violato, a un patrimonio negato.

Quando penso a questo tipo di spread, mi torna in mente l’Uomo senza

Qualità descritto da Musil alla luce crepuscolare di un’altra grande idea

che stava degenerando: quella dell’impero austro-ungarico. Ulrich,

l’Uomo senza Qualità, definisce se stesso un Möglichkeitsmensch, un

uomo della possibilità – un possibilitario – che non smette d’innervosirsi

davanti al cosiddetto senso della realtà, della «cose come sono». Vorrei

citare il passaggio in questione, perché nell’ordine dei verbi toglie il

monopolio all’indicativo, restituendo dignità ai condizionali, ai

congiuntivi, al controfattuale:

(Ecco il passo:) Chi è dotato del senso della possibilità non dice ad esempio:

«Qui è accaduto, accadrà o deve accadere questo oppure quello», bensì: «Qui

potrebbe o dovrebbe accadere un certo evento». E se, di una cosa qualsiasi, gli

si spiega che è come è, allora penserà: «Certo, ma potrebbe benissimo essere

diversa». Quindi, il senso della possibilità è addirittura definibile come la

capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere, e di non ritenere ciò che è

più importante di ciò che non è (...). La vita di questi uomini della possibilità

è tessuta, si potrebbe dire, con un filato più sottile, un filato fatto di fumo,

immaginazione, fantasticherie e congiuntivi; quando un bambino manifesta una

simile tendenza, gliela si fa passare con metodi energici e, davanti a lui, quegli

individui vengono definiti visionari, sognatori, codardi e saccenti o criticoni.

Chi vuol lodare quei matti, li definisce anche idealisti.

****

Ecco, la storia virtuale, fatta di bivi e crocicchi, apre uno spazio a

questi criticoni idealisti. Sono un’occasione da cogliere, i possibilitari, se

Page 6: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

6

non si vuole che l’Europa si spenga. Sono trattati anch’essi come

bambini, o sognatori, o matti, visto che non accettano le cose così come

sono. Abbiamo visto che sono anche chiamati populisti. (Chi contesta

grandi opere probabilmente inutili come la TAV riceve nomi ancora

peggiori). Vorrei parlare della loro rabbia verso l’Europa, del loro filato

fatto di immaginazione, fantasticherie e congiuntivi. E dei motivi per cui è

sorta questa rabbia. Sempre tenendo in mente che i se sono importanti,

che le scalette possono essere ricompilate, che i sentieri che possiamo

imboccare sono innumerevoli – non uno soltanto – e si biforcano di

continuo come nel racconto di Borges. C’è da augurarsi che lo spread –

quello economico, ma soprattutto quello umano – resti ben inquietante.

Che diventi il nostro nodo al fazzoletto: quello che facciamo quando

temiamo di dimenticare un appuntamento, una cosa da fare o un

pensiero.

****

La rabbia dunque. È un movimento vasto ormai, un vento che s’insinua

in tutti gli interstizi del continente: a nord, a sud, a est, a ovest. Dicono

che è a causa sua che l’Unione sta sbriciolandosi davanti ai nostri occhi,

giorno dopo giorno. Diciamoci piuttosto che è a causa della sicumera

deterministica con cui viene raccontata («è come è, non ci sono

alternative»), che l’Europa sta perdendo la sua stessa ragion d’essere, e

trasformandosi in un congegno impersonale, un dispositivo

tecnico, grazie al quale ventotto Stati simulano un’Unione che non ha

più nulla di un’unità, e soprattutto più nulla di una comunità.

Un’Europa che vive solo come locuzione verbale, come parola che altri

hanno detto, parecchio tempo fa, e che i nuovi venuti – gli homines novi

Page 7: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

7

che sono al comando negli attuali governi – impugnano come fosse

qualcosa che appartiene loro di diritto, che sta' lì e non può cadere

perché la retorica dei vertici e l’intorpidimento dei giornali la tengono in

piedi, anche se non in vita. Un morto vivente che i governi manipolano a

seconda delle loro personali convenienze, di cui possono

ininterrottamente compiacersi come se fossero stati loro a ideare l’unità

europea, e a farla ogni giorno, e a narrarcela fin dalle prime ore del

mattino, quando nessuna civetta di Minerva è in vista.

Il fatto è che non la stanno né facendo né tantomeno

perfezionando, e per questo gli arrabbiati colpiscono con tanta foga il

progetto stesso di unificazione: non fosse altro che per fare un po’ di

chiarezza, per smuovere un po’ l’aria. Per dire a se stessi che le civiltà

possono perire, e specialmente quella europea. «Ormai lo sappiamo, noi

civilizzazioni, che siamo mortali», Paul Valéry l’aveva intuito dopo la

prima guerra mondiale, ma quella consapevolezza non sfiora le menti

dei governanti. Indigna quasi più la menzogna – questa propensione a

vivere dentro una storia già scritta e contrabbandata per il migliore di

mondi possibili – delle politiche via via discusse, decise o rinviate a

Bruxelles. Mi soffermerei un po’ rapidamente su queste menzogne, visto

che lì sono i cancelli che tengono imprigionati i se e i congiuntivi. Sono

innumerevoli, e ne elencherò solo alcune: le cinque che mi paiono più

evidenti.

Prima menzogna, o se volete primo guai, come nell’Apocalisse:

L’Europa raccontata come unione democratica di popoli. La promessa è

palesemente tradita. Un culmine è stato toccato subito dopo le elezioni

Page 8: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

8

politiche in Italia, nel febbraio 2013, quando in una conferenza stampa a

Francoforte Mario Draghi si è presentato davanti a una platea di

giornalisti, e ha spiegato perché non c’era motivo di turbarsi: «I mercati

capiscono che viviamo in democrazia. Siamo 17 paesi, e ognuno ha

almeno due tornate politiche elettorali, nazionali e regionali, il che fa 34

votazioni nel giro di 3-4 anni (già l’enumerazione ha qualcosa di

diabolico, sembra un elenco di dannazioni, di flagelli)». Poi ha

proseguito: «Penso che questa sia democrazia, a tutti noi molto cara.

Quel che i mercati sanno, e per questo sono meno impressionati di voi

giornalisti (per ragioni che non mi sono chiare gli inviati e corrispondenti

ridono, in sala stampa) è che le misure di aggiustamento finanziario sono

già attive in Italia. E continueranno a operare con il pilota automatico».

Come non arrabbiarsi e non sbalordirsi, quando qualcuno alla

lavagna ti disegna un mondo che ai massimi vertici ha i mercati – il

problema è non perturbare loro, con mosse a sorpresa o rivoluzioni – e

te lo descrive come unico mondo reale, nessun altro mondo è

congetturabile perché quello che vien proiettato sugli schermi procede

indipendentemente dalla volontà dei popoli; la sua necessaria odissea è

determinata dal pilota automatico, quasi fosse l’astrale nave dei folli

lanciata nello spazio da Stanley Kubrick. Il mondo è come è, a dispetto

delle cogitazioni e dei dubbi dell’Uomo senza Qualità. Come quelle

persone che ti assestano una bastonata e poi si scusano: «Sai, sono fatto

così».

È strano e imprevedibile il vento dell’indignazione, perché non ha

un’unica direzione. Soffia da destra, da sinistra e parecchio anche dal

centro, dai cosiddetti moderati: l’estremismo del centro ha una lunga storia

Page 9: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

9

in Europa, ieri fu la stoffa del fascismo. Quale che sia la parte da cui

soffia, però, chiede invariabilmente una cosa: l’alternativa. E non

stupisce che il nuovo partito antieuropeo dei tedeschi si chiami proprio

così: Alternativa per la Germania. È vento di disillusione e anche di

rancorosa repulsione, assale gli animi di chi aveva enormemente creduto

nell’Europa ma poi s’è ritratto, ritenendola un giovanile peccato di

irrealismo; e anche le menti più fredde di chi aveva sempre detto che

l’unificazione degli europei era un imbroglio, una temibile trappola, e in

fondo non s’indigna sino in fondo perché dall’inizio aveva diffidato, e

ogni volta che nell’Unione si costruisce qualcosa di nuovo inorridisce.

C’è di tutto, nel cosiddetto euroscetticismo: la speranza in un’altra

Europa, unita sul serio e di conseguenza congegnata in altro modo, ma

anche l’illusione di riscovare nelle ceneri il tizzone defunto, e però

sbrilluccicante, dei vecchi Stati sovrani perduti o di chissà quale

monolitica identità dei singoli popoli: identità e popolo – dèmos – che

crudelmente mancherebbero all’Europa.

E ancora: c’è lo scetticismo filosofico autentico, quello antico, che

fa tesoro dell’attitudine a ragionare appoggiandosi sulla più scrupolosa

osservazione della realtà, e non apre alcun credito all’apparenza ma va

snidando i segreti del divenire storico (il vero scettico non è

pregiudizialmente avversario dell’unità europea: è avversario sottile di

uno Stato nazione che si finge sovrano e non lo è più). E in

contemporanea c’è lo scetticismo contraffatto, impigrito, blasé, di chi

sull’orlo del vulcano non danza ma – l’espressione è di Jürgen

Habermas, applicata alla Germania di Angela Merkel – si limita a

sonnecchiare, e neanche ha sentore del vulcano presso cui se ne sta

Page 10: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

10

appisolato, e solo ogni tanto si sveglia di soprassalto e urla il suo urlo.

C’è lo sdegno di una generazione cui era stata assicurata un’Unione

solidale, aperta alle diversità e al molteplice, e d’improvviso arriva un

governante e dice che «purtroppo esiste una generazione perduta». Che

al massimo «si possono limitare i danni» e sperare di «non crearne altre,

di generazioni perdute» (cito da un’intervista di Mario Monti a Sette-

magazine del 27 luglio 2012); e c’è la terribile, malmostosa nostalgia del

recinto che si chiude, della nazione etnica che in nome dell’identità

respinge il forestiero e se può non esita a ucciderlo nelle acque del

Mediterraneo. La crisi che traversiamo, la capiremo solo il giorno in cui

riusciremo a distinguere tra loro rabbie così differenti, e però

guarderemo in faccia, a occhi aperti, la domanda di alternativa che ha

fatto scoppiare sia le une che le altre.

Ormai sappiamo – perché tanti lo dicono, anche quelli che prima

non lo dicevano – che la crisi dell’ultimo quinquennio in Europa è

dovuta a un difetto di costruzione della moneta unica, quando fu

introdotta alla fine degli anni Novanta. La moneta doveva nascere in

parallelo con l’unione politica ed economica, ma poi non si volle quel

parallelismo. Per alcuni doveva essere lo strumento di una nuova Res

Publica postnazionale, e ha finito con l’incarnare Europa dei banchieri,

dei tecnici: un’Europa per forza di cose mutila, incapace di configurare

con efficacia una sovranità superiore a quella già gravemente

compromessa degli Stati nazione, pronta a intervenire lì dove gli Stati da

soli non riescono più a condurre politiche serie e a mantenere le

promesse che fanno. Infatti nessun potere monetario sovranazionale

come quello esercitato dalla Bce può costituirsi, e tantomeno traversare

Page 11: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

11

burrasche, se non ha di fronte a sé, come interlocutore cui deve

rispondere, un potere politico egualmente sovranazionale, che

armonizzi le proprie scelte economiche con quelle della Banca centrale, e

induca anche la Banca centrale a armonizzarsi con le scelte del potere

esecutivo. Né può costituirsi, in democrazia, se non è sorretto – quindi

controllato, giudicato – da un Parlamento che rappresenti non la

preponderanza di questo o quel paese, ma l’insieme dei popoli dotati

della moneta unica.

L’Europa viene descritta come unione democratica di popoli. Non

lo è ancora, e l’urgenza del momento è pensarla e reinventarla come tale.

Non può esserlo, fino a quando gli Stati si comportano come sovrani

assoluti (per questo restano avvinghiati al diritto di veto e all’unanimità

nelle principali decisioni, cosa che perfino la Chiesa ha abbandonato,

visto che dal 1.179 bastano due terzi dei grandi elettori perché lo Spirito

Santo «parli» e elegga i nuovi Papi). E vorrei aggiungere una cosa: non

può essere un’unione democratica, fintantoché le nostre Costituzioni

continuano a essere male interpretate, considerate nella sola dimensione

nazionale. Nelle costituzioni democratiche non è scritto che lo Stato-

nazione è sovrano. Pienamente sovrani sono i cittadini, il che vuol dire

che ciascuno di essi, avendo non una ma più identità, deve contare ai

vari livelli in cui il potere si esercita: comunale, nazionale, europeo, forse

domani mondiale. La democrazia nazionale è non meno gravemente

compromessa degli Stati-nazione, e per gli stessi motivi: il costo della

non-Europa è alto anche qui, oltre che nell’economia, e ha come

conseguenza la divisione tra Parlamenti che con le loro decisioni pesano,

e Parlamenti che non pesano. Per questo va ripensata e riorganizzata

Page 12: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

12

come democrazia postnazionale, cosmopolìta. È la ragione per cui le

elezioni europee del 22-25 maggio prossimo sono importanti come

quelle nazionali e al tempo stesso diverse da loro, checché dicano e

facciano i governi e soprattutto i partiti che faranno, c’è da scommetterci,

campagne esclusivamente nazionali.

Sono importanti proprio perché il Parlamento europeo non ha

ottenuto, nel Trattato di Lisbona, i poteri che dovrebbero spettargli.

Perché questi poteri dovrà conquistarseli lui, nessuno glieli regalerà.

Non si tratta solo di creare un’Europa che tenga conto delle domande e

delle rabbie dei cittadini: questa sarebbe democrazia octroyée, ottenuta

per gentile concessione del sovrano. I cittadini, arrabbiati e non, devono

darsi una nuova costituzione che permetta loro di legiferare in Europa,

di censurare i governi che sbagliano ricette, di scegliere il Presidente

della Commissione e i ministri-commissari che si occuperanno di

finanze o di energia, di emigrazione, di asilo o di diritti civili. Devono

anche poter dire la loro sulle troike, che controllano i conti dei paesi

deficitari. Altrimenti avere una moneta unica con un’unica Banca

centrale è come avere una Corte che vigili sulla carta costitutiva della

nazione, ma la nazione non c’è né lo Stato con cui la Corte entra in

dialettica.

***

La seconda menzogna (o secondo guai) è legata a quella che ho

chiamato narrazione fraudolenta della storia e dice in sostanza questo:

se le cose funzionano male, è perché troppi poteri sono concentrati a

Bruxelles, dove regnano maestà anonime e lontane dai bisogni dei

cittadini. Tali poteri vanno quindi rimpatriati: lo dice anche la

Page 13: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

13

Germania, congedandosi dall’europeismo che ha coltivato per decenni

dopo la guerra, e lo dicono raffinati esperti geopolitici secondo cui

l’ordine globale è fatto dagli Stati nazione, e questo è il mondo come è.

Non lo è in realtà; gli Stati nazione non sono affatto in grado di imporre

l’ordine con le proprie mani. Lo si è visto nella crisi siriana del settembre

scorso: gli Stati Uniti non impongono alcunché di edificante, se non

costruiscono una politica che abbia qualche coerenza assieme alla

Russia, la Cina o, nell’area critica del Medio Oriente, all’Iran. L’ordine

globale è allora sulle divine e crudeli ginocchia dei mercati o del pilota

automatico o della Storia? Nemmeno: l’idea delle divine ginocchia

permette alla politica e agli Stati di non assumersi le loro personali

responsabilità. E su chi scaricarle con maggior profitto, se non sulla

forza delle cose? Al banco degli imputati non andrà nessuno, e l’Europa

potrà continuare a vivacchiare frantumata in tanti staterelli, rinviando

l’ora in cui – unendosi – potrà contribuire da protagonista non

subalterna a un ordine mondiale conflittuale sì, ma non impazzito.

Abbiamo già constatato come non ci sia praticamente nessuno, ai

vertici dei 28 Stati o delle istituzioni europee, che non faccia la sua giusta

diagnosi sui vizi congeniti dell’euro. Ma la maggior parte di costoro usa

giri di frasi e si ferma a metà strada, pur di non dire che se manca

l’unione politica la colpa è stata ed è interamente loro: dei vertici politici

che denunciano la malattia come se essa non avesse nulla a che vedere

con quello che essi fanno o non fanno. Come se vizi e malattie

nascessero per colpa di fantomatiche burocrazie con sede a Bruxelles, di

un immaginario Superstato europeo che se non ci fosse, chissà come

voleremmo alti e liberi e arbitri del nostro destino.

Page 14: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

14

Eppure non erano mancate, fin dagli esordi, le voci profetiche:

«Questa moneta è senza Stato!», denunciò allarmato uno dei suoi

principali artefici, Tommaso Padoa-Schioppa, già nel 1998-99: «Per la

Bce la vera insidia non sarà la poca indipendenza, ma la troppa

solitudine, l’operare quasi nel vuoto». I governanti odierni fanno finta di

applaudire, ma quella denuncia viene edulcorata, dimenticata, fasciata

di nebbia. Nessuno pone la questione della necessaria statualità europea:

quella che in parte esiste già – per come sono costruite e per come

legiferano le sue istituzioni, per la competenza esclusiva che l’Unione

possiede in alcuni campi decisivi (moneta, concorrenza, commercio

estero) – ma che è da istituire ex novo e democratizzare, senza

aggiungervi qua e là una pezza, se si vuol evitare che le eruzioni del

vulcano ci sommergano.

Il dito va insomma puntato sui veri responsabili dei mali presenti,

e questo costa fatica grande e per questo fa così comodo prendersela con

i populisti troppo arrabbiati o impazienti, o anche con gli eurocrati

troppo poco «legati al territorio», come usa dire. Non sono i tecnici i

colpevoli della costruzione sbagliata dell’euro né i banchieri centrali,

così spesso sotto accusa. Non è colpevole nemmeno la troika, che con

tanta ottusità politica controlla i bilanci degli Stati deficitari – decidendo

al posto dei Parlamenti la natura dei tagli alla spesa pubblica, il

funzionamento del mercato del lavoro, la riduzione del Welfare State,

l’estensione dello spazio pubblico e addirittura (a Atene) la

sopravvivenza o meno della televisione pubblica o di grandi università –

ma che agisce per conto di altri.

Page 15: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

15

I veri colpevoli di ottusità sono i governi degli Stati membri, che

con tutte le loro energie mostrano di volere quest’Unione emiplegica,

questo venir meno della sua legittimazione democratica, questa crisi

europea infine, politica e solo in subordine finanziaria, che dal 2008

impoverisce e umilia i popoli appesantiti dal debito con terapie

dogmatiche non tanto rigorose, quanto nefaste, inique, e per di più

fallimentari. Terapie che gli Stati stessi hanno deciso, o attivamente o

subendole passivamente, mettendo l’unione politica alla fine del

percorso e rendendo il percorso infinitamente più costoso,

economicamente e umanamente. La troika è un loro manovale (ed

eventuale capro espiatorio).

All’erosione dell’Europa si è risposto e si risponde con più

erosione; alla divisione fra i suoi popoli con più divisione e meno

comunità. Ai difetti originari dell’Euro – la sopravvivenza dei

nazionalismi; la preservazione delle fasulle sovranità dei singoli Stati,

che il Trattato di Lisbona garantisce e rafforza; l’applicazione del liberum

veto (non dimentichiamo che nel ‘700 la Polonia morì – spartita fra le tre

Aquile Nere che erano Prussia, Russia e Austria – a causa di un

Parlamento bloccato in permanenza dal liberum veto): a tutti questi difetti

si è replicato intensificando ancor più gli stessi difetti e storture.

Chi andrebbe trascinato in giudizio, se ci fosse una corte che

separa i colpevoli autentici da quelli pretestuosi, sono gli Stati nazione,

che non vogliono ammettere la natura completamente illusoria del loro

potere. Sono i Consigli dei ministri, che in un’Unione degna di questo

nome dovrebbero pesare di meno, non di più. Secondo lo scrittore

austriaco Robert Menasse dovrebbero essere addirittura aboliti, viste le

Page 16: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

16

catastrofi che hanno provocato. A ciò si aggiunga l’inutile serie di vertici

di capi di Stato e di governo, che si riuniscono sempre più frequenti e

pomposi, sempre più inani, spacciando per oro l’Europa che essi stessi,

summit dopo summit, corrodono e riducono a vile metallo.

Sono loro a decidere chi sta nella troika, e come debba operare, e i

memorandum che essa presenta ai governi. Sono loro che le chiedono di

farsi portavoce ed esecutrice di quanto deciso nei Consigli ministeriali o

negli incontri fra gli Stati più importanti. È vero, la troika è composta di

organi sovranazionali o internazionali (oltre alla Commissione e alla

Banca centrale europea il Fondo Monetario, che in un’Europa dotata di

statualità compiuta non occuperebbe questo spazio esorbitante e forse

non sarebbe semplicemente presente). I triunviri sono responsabili verso

i Consigli dei ministri e i capi di Stato o di governo, cui è riservata

l’ultima e decisiva parola. I Parlamenti, nazionali o europei che siano,

non hanno in ogni caso voce in capitolo (fa eccezione il Parlamento della

potenza egemone – la Germania – così come la sua Corte costituzionale e

la sua Banca centrale. Ma è eccezione che conferma la regola, e

meriterebbe un ampio discorso a parte).

****

La terza menzogna la conosciamo bene, ed è conseguenza logica

dei primi due guai. È la cantilena che udiamo ogni giorno – «L’Europa lo

vuole», «L’Europa ce lo chiede» – e rimbambisce a tal punto che suscita

stizze sempre più estese. L’autorità divina che ossessivamente viene

invocata è pura invenzione, dietro la quale stanno rintanati Stati e

Staterelli che vogliono passare indenni attraverso la bufera, che

vogliono esercitare un potere senza responsabilità, e ben volentieri

Page 17: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

17

affidano quest’ultima agli organi dell’Unione, o peggio al pilota

automatico che agirebbe motu proprio, come una macchina celibe che non

ha bisogno di mischiarsi con le volontà umane per operare e incidere

sulle vite dei cittadini. Il modello Merkiavelli descritto da Ulrich Beck è

nato così: l’Europa sovranazionale che ancora esiste viene prima

denigrata (le si affibbiano nomi spregiativi come eurocrazia, Superstato,

etc.) poi depotenziata, infine aggirata da un moltiplicarsi di comitati

speciali designati dai Consigli dei ministri: è la cosiddetta comitologia,

escogitata per svuotare quella che Robert Menasse chiama

l’»amministrazione giuseppina» dell’Unione, non dissimile dalla buona

amministrazione multinazionale e tollerante che vide la luce nell’impero

austro-ungarico ai tempi di Giuseppe II d’Asburgo. Risultato di

quest’escamotage: ai comandi non c’è affatto l’eurocrazia, né una

volontà che possieda il titolo e la facoltà di sintetizzare le volontà di

ventotto nazioni e popoli. C’è lo Stato-nazione più poderoso

economicamente. Quando si dice «lo vuole l’Europa», è la Germania che

vuole: che senza ammetterlo pensa, parla, dispone al posto di ciascun

abitante europeo, separando i santi dai peccatori (la parola tedesca

Schuld significa ambedue le cose: debito e colpa. Economia, ortodossia

morale, legge di mercato (o meglio non-legge) sono mescolate

perversamente le une con le altre).

Anche il modello Merkiavelli è tuttavia finzione e vanità, se lo

guardiamo da vicino. L’idea di restituire il potere perduto agli Stati

sovrani si ammanta di pragmatismo, si pretende realista, pospone

continuamente la soluzione federale giudicandola troppo utopica. Non

lo sospetta, o finge di non sospettarlo, ma l’unica utopia è proprio questa

Page 18: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

18

restituzione di prerogative e di poteri agli Stati sovrani: è il secondo

trasloco che viene operato, dopo il trasloco del nostro vissuto dal tempo

presente a quello passato. Non si torna così facilmente al XVII secolo e

alla Pace di Westphalia – quando i capi delle nazioni europee opposero a

una guerra lunga trent’anni, e alla vecchia autorità sovranazionale della

Chiesa, il marchingegno degli Stati-nazione assolutamente sovrani in

casa propria. Col passare dei secoli quel marchingegno ha distrutto

l’Europa. Era fondato sull’equilibrio altamente instabile tra potenze

rivali (la cosiddetta balance of power: l’obiettivo era di evitare il

predominio di una singola potenza controbilanciandola con una o più

potenze alleate egualmente volitive e forti). L’equilibrio fra le potenze si

è infranto nella prima parte del XX secolo, nella guerra di trent’anni

iniziata nel 1914 e finita nel 1945 con l’esaurirsi della centralità storica

del vecchio continente.

***

Nell’agosto-settembre del 2013 abbiamo avuto l’ennesima

conferma di questo esaurirsi: in Medio Oriente come davanti alla

degenerazione delle primavere arabe, in Egitto come in Siria, contano le

potenze dotate di mezzi e stature sufficienti – Stati Uniti, Russia, Cina –

non l’ammasso confuso e spezzettato che si chiama Europa. La

menzogna di Westphalia (il quarto guai) è mortifera.

Anche queste potenze d’altronde contano fino a un certo punto,

come si è visto nella crisi siriana. In realtà sono Stati che ancora vivono

nell’illusione sovranista. Che neppure hanno tentato la via europea del

dopoguerra, né hanno il presentimento che le civilizzazioni periscono se

Page 19: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

19

si presumono onnipotenti. Resta il fatto che pur restando prigionieri del

dogma westphaliano dello Stato interamente sovrano, la loro ambizione

e la loro efficacia sono facilitate non poco dalla dimensione geografica e

demografica.

Le minuscole nazioni europee – tutte, Germania compresa – non

sono al loro confronto che pulviscolo insignificante, e impotente.

Potrebbero accampare la democrazia postnazionale e cosmopolìta che

seppero immaginare nel dopoguerra, ma è un’invenzione che

disconoscono o tengono in spregio. Il modello Merkiavelli è finzione e

vanità perché chi domina a tutti gli effetti l’Unione non è a ben vedere la

Germania, o la Francia. (Né tantomeno la Gran Bretagna: è menzogna

anche l’idea che l’Inghilterra sia il problema dell’unificazione. Il

problema sono la Germania e la Francia). Nelle grandi scelte strategiche

l’Europa è a rimorchio della potenza egemone dell’Occidente (gli Stati

Uniti), anche se potenza in declino e non più affidabile, costretta come

tutti noi a sottostare ai mercati o al pilota automatico, che di volta in volta

viene attivato nella funzione di unico anello di congiunzione tra mercati

e politica.

Non è una prospettiva tranquillizzante, quando gli Stati

dell’Unione fanno propria o subiscono della dottrina economica tedesca

(che ciascuno faccia con massima diligenza i propri «compiti a casa»:

solo dopo verranno – se verranno – la cooperazione, la solidarietà, gli

eurobond, l’aumento del bilancio comune, la statualità federale

compiuta) e dopo essersi accontentati o aver subito, contemplano stupiti

lo sconquasso che hanno provocato e si mettono a inveire contro gli

indignati, a gridare al flagello populista che incombe.

Page 20: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

20

****

I quattro guai che abbiamo elencato (falsa unione democratica dei

popoli; falsa promessa di rimpatriare i poteri sovranazionali europei;

irresponsabile potere degli Stati-nazione; menzogna di Westphalia)

sfociano nella quinta menzogna, tra le più insidiose: quella che

concerne la rabbia dei popoli europei, in prima linea di quelli immiseriti

dalla crisi in Grecia, Italia o Spagna ma anche di quelli impauriti all’idea

di pagare per gli altri come in Germania, Austria o Olanda. È una

menzogna che abbiamo già menzionato: consiste nell’inveire contro il

nemico designato che sarebbero i populismi antieuropei delusi o

disgustati dall’Unione. Vorrei qui ricordare, a titolo di esempio, quanto

disse Mario Monti nel settembre del 2012, in una riunione del workshop

Ambrosetti a Cernobbio, rendendo esplicito il turbamento che più

l’affliggeva: non l’impotenza dei singoli Stati o delle autorità di

Bruxelles, ma l’assalto di partiti e movimenti popolari contro le terapie

recessive imposte ai paesi debitori – dunque peccatori – dalle autorità di

Bruxelles e dalla Germania che su di esse fa leva. Citiamo testualmente

le parole che il Premier rivolse in quell’occasione al presidente del

Consiglio europeo Van Rompuy, perché mi sembrano emblematiche:

«C’è il rischio che mentre la costruzione europea si perfeziona, le

difficoltà dell’Eurozona facciano emergere grandi, crescenti e pericolosi

fenomeni di rigetto nelle opinioni pubbliche dei vari Paesi, con tendenze

all’antagonismo e a populismi che mirano alla disgregazione». E ha

proseguito: «La contrapposizione tra Paesi del Nord e del Sud

dell’Europa fa riemergere vecchi stereotipi e vecchie tensioni. È

paradossale e triste che mentre si sperava di completare l’integrazione

Page 21: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

21

europea si verifichi un pericoloso fenomeno opposto che mira alla

disintegrazione dell’Europa. E questo avviene in quasi tutti i Paesi».

La passione degli indignati è senza dubbio triste ma non

propriamente paradossale, se si considera che le cure di risanamento

hanno inflitto povertà e sofferenze in tanti paesi d’Europa, senza

neanche riuscire dopo fatiche sì immani a ridurre i debiti pubblici ma

perfino dilatandoli. Nell’estate 2013 si è cominciato a parlare di fine

della recessione – di luce in fondo al tunnel – ma la luce annunciata non

prelude a una redenzione e neppure a una comune suddivisione di

rischi presenti e futuri. Lo stato di bisogno resta, nonostante quel lucore

che s’intravvede nel tunnel. In Grecia e Italia il tenore di vita è franato,

con punte massime a Atene: le risalite son talmente più ardue delle

discese. La disoccupazione giovanile raggiunge e supera nel Sud Europa

il 50 percento, e la ripresa proclamata non sembra intaccarla. E aumenta

il numero di chi vive sotto il livello di sussistenza, dimenticato dalla

cassa integrazione e dall’assistenza pensionistica o medica. Nella stessa

Germania – i dati lo confermano – il benessere che ha fatto vincere

Angela Merkel è costruito sull’amplificazione abnorme del lavoro

precario (7 milioni di precari lavorano per salari oscillanti fra 5 e 8 euro

l’ora: meno del salario minimo in Spagna) e su diseguaglianze che sono

cresciute sempre più. Quanto alla trojka: è vero, in Italia fisicamente non

c’è. Ma è come se ci fosse.

Paradossale è piuttosto la reazione alla sfida degli arrabbiati,

convenientemente ammucchiati da chi severamente li mostra a dito

quasi fossero una falange compatta di antieuropei: la cosa giudicata più

urgente e utile – in quel settembre 2012 quando Monti fece la sua

Page 22: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

22

proposta, accolta entusiasticamente da Van Rompuy – fu un ennesimo

vertice europeo straordinario, da consacrare solennemente alla «lotta al

populismo».

In altre parole: il nemico cui vanno addossate le colpe più svariate

della malattia europea è il malato stesso o il morente. Su di esso si china –

in posizione di lotta – il medico che l’ha ridotto in queste condizioni

comatose. Il vertice anti-populismo fortunatamente non ha mai visto la

luce. Ma l’idea che lo ha sorretto resta, e s’aggira come utile spettro nelle

cancellerie e nei partiti dominanti: verrà ripescata, ogni volta che si farà

vivo l’incubo populista sotto forma di spirito antagonista, cioè di idee e

proposte che chiedono non solo cambi di governo ma autentiche

alternative alle malmesse democrazie nazionali, e ai dogmi professati

con immutato sussiego dai prìncipi che pretendono di rappresentarci, e

di proteggerci al tempo stesso dai mercati e dalla cosiddetta eurocrazia

di Bruxelles.

Cosa viene esattamente minacciato dallo spirito antagonista, presto

e disinvoltamente ribattezzato spirito disgregatore? Viene minacciata e

annientata, ripetono i sedicenti ingegneri dell’Unione, la «costruzione

europea che si sta perfezionando», la «speranza di completare

l’integrazione». Così il cerchio si chiude: tutto va verso il migliore dei

mondi possibili, la strada che si sta percorrendo è per definizione buona

e giusta (come potrebbe non esserlo, visto che è «senza alternative»), ma

purtroppo c’è chi paradossalmente e tristemente mostra di non credere

nell’edificante Divina Commedia, nella buona novella dell’Europa

veniente e ascendente. Da una parte s’accalcano i reprobi che «rigettano»

l’Europa, dal momento che rigettano i propri governanti e il dogma del

Page 23: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

23

«non-c’è-alternativa»: sono tutti coloro che invece di sperare negli

ingegneri dell’Unione hanno la faccia tosta di «far casino», disordinando

il bell’ordine esistente, le sue terrene gerarchie, le sue ferali

farmacologie. Sono relegati nell’Inferno, nel girone insolentemente

battezzato Periferia-Sud. Dall’altra parte veleggiano gli eletti, nell’alto dei

cieli: in continua ascesa, sicuri e benedetti da Dio, predestinati alla

ricompensa. Gli autori delle scalette.

Il terrore del casino è l’unica cosa veramente triste, anche se niente

affatto stupefacente o paradossale perché i padroni nazionali

dell’Unione europea difendono i loro posti e le loro regalie: è logico che

agiscano in questo modo. Si sono dimenticati, nel redigere la loro Divina

Commedia, la maestosa invenzione che fu nel XII secolo il Purgatorio, il

Refrigerium delle nostre memorie. Non c’è scala né via di mezzo –

nell’immaginario dei potenti d’Europa – tra il male e il bene. Il

Purgatorio è estromesso, perché potrebbe inopportunamente prefigurare

l’improvvido, incessantemente temuto sentiero che si biforca. Il sentiero

che andiamo cercando. Che vorremmo imboccare. Con le nostre gambe

e la nostra testa, senza le stampelle di piloti automatici.

***

Eppure c’è qualcuno, Papa Francesco ad esempio, che ha lo

sguardo un po’ più lungo dei prìncipi terreni. Non dovrebbe essere così,

perché il Papa «rugumar può» – ha il compito di interpretare le Sacre

Scritture, di fare il pastore – ma a differenza del prìncipe o

dell’imperatore «non ha l’unghie fesse», non distingue sempre tra quel

che è bene e che è male per la variegata, laica città politica. Ma come ai

Page 24: Barbara Spinelli. L’Europa di cui abbiamo bisogno

24

tempi di Dante, ci sono epoche in cui la benefica dualità impero-Chiesa

svanisce e non resta in campo che una voce soltanto. Si direbbe che

viviamo una di queste epoche. Ai potenti del mondo (comprese le alte

gerarchie della propria Chiesa), il Pontefice ha detto che l’età del sopire,

troncare e procrastinare ha fatto il suo tempo, che è l’ora di osare e

sperimentare, senza installarsi nelle comodità e chiudersi in se stessi. È

accaduto durante il viaggio in Brasile del luglio 2013: ha chiesto ai

giovani e fedeli di «far casino» – lìo è la parola spagnola, vuol dire anche

disordine, confusione, spread umano – e di uscire per strada e non aver

paura dell’aperto.

Gli architetti d’Europa subito s’avventerebbero contro uno che

parlasse così, uno che addirittura ringrazia chi fa casino ("Grazie per il

lìo che farete», ha detto il Papa). Lo bollerebbero come il peggiore dei

populisti, degli antagonisti. Riterrebbero i suoi discorsi paradossali e

tristi, e subito convocherebbero un vertice straordinario per rispondere,

severo, alla provocazione. Solo una civiltà dimentica della propria

mortalità ha questa spudorata sicurezza di sé, e chiama il disastro che ha

generato con l’epiteto, davvero singolare, di stabilità.

Tempo fa, dopo essersi chiamata per qualche anno Mercato

comune e prima di chiamarsi Unione, l’Europa aveva scelto di darsi il

nome di Comunità. Comunità è un concetto più solidale e amichevole di

Unione. Forse è il caso di restituirle questo bel nome che ha

abbandonato, se è vero che ogni liberazione avviene così:

impadronendosi del significato profondo delle parole, e volgendole

contro le menzogne che s’ostinano a raccontarci.