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AZIONE REVOCATORIA ATTI “NORMALI” ATTI A TITOLO ONEROSO, PAGAMENTI, GARANZIE: I. LA DISCIPLINA REVOCATORIA 1. DEFINIZIONE E AMBITO DI APPLI CAZIONE 1.1. Fonti normative. 1.2. Gli atti sottratti all’azione revocatoria. 1.3. Gli atti “esentati” dalla revocatoria e le “revocatorie speciali”. 1.4. Il “periodo sospetto”. 2. LA REVOCATORIA DEGLI ATTI A TITOLO ONEROSO “ANORMALI”. 2.1. Ambito di applicazione. 2.2. L’onere della prova. 2.3. Il contenuto della prova. Punto di attenzione. L’onere della prova della revocatoria di atti “normali“ contestuale alla revocatoria di atti “anormali“. 2.4. I singoli “atti anormali”. Gli atti cc.dd. “sproporzionati”. 2.4.1. La “sproporzione” rilevante degli atti di acquisto di immobili da adibire ad uso abitativo. Punto di attenzione. 2.4.2. Applicazione in concreto del criterio normativo. 2.4.3. L’onere della prova. 2.4.4. Il momento rilevante ai fini dell’accertamento della “sproporzione”. 2.4.5. I criteri di accertamento della “sproporzione” nel contratto di leasing. 3. I PAGAMENTI EFFETTUATI CON “MEZZI ANORMALI”. 3.1. Definizione. 3.2. Ambito di applicazione. 3.3. Casistica. 3.3.1. La estinzione di esposizioni (bancarie) pregresse con il ricorso ad ulteriori finanziamenti. 4. LE GARANZIE COSTITUITE O CONSE GUITE PER DEBITI PREESISTENTI SCADUTI O NON SCADUTI. 4.1. Definizione. 4.2. Ambito di applicazione. 4.2.1. Le garanzie non contestuali per debiti altrui. 4.3. La diversa entità del “periodo sospetto”. 5. LA DISCIPLINA REVOCATORIA DEGLI ATTI A TITOLO ONEROSO, DEI PAGAMENTI DI DEBITI LIQUIDI ED ESIGIBILI, E DEGLI ATTI COSTITUTIVI DI UN DIRITTO DI PRELAZIONE PER DEBITI CONTESTUALI. 5.1. Definizione. 5.1.2. La definizione di “stato di insolvenza”. 5.1.3. La prova della scientia decoctionis. Casistica 5.2. Gli “atti a titolo oneroso”. Casistica. Punto di attenzione. Gli atti “congrui”. 5.3. I pagamenti di debiti liquidi ed esigibili. 5.3.1. Definizione. 5.3.2. Ambito di applicazione. 5.3.3. Il destinatario dell’azione revocatoria dei pagamenti effettuati dal fallito. I finanziamento bancari in pool e gli accordi di silent transfer 5.3.4. I pagamenti dei terzi. Punto di attenzione. I pagamenti dei terzi che non hanno inciso sul patrimonio del debitore fallito. I finanziamenti bancari in pool e gli accordi di silent tranfer. Casistica. Punto di attenzione. Il pagamento del coobbligato solidale del fallito o del fideiussore. 5.3.5. La natura giuridica del pagamento del terzo. Punto di attenzione. Il parallelo tra le garanzie dei terzi ed i pagamenti dei terzi. Punto di attenzione. Il pagamento del debito altrui: promuovibilità dell’azione revocatoria nei confronti del creditore soddisfatto e del debitore liberato. Caso di specie. Le operazioni di addebito/accredito nel rapporto di “cash pooling5.3.6. Il pagamento dei debiti garantiti (sui beni del fallito). Punto di attenzione. Gli effetti della revocatoria del pagamento del credito privilegiato sulle garanzie che lo assistevano. 5.4. Gli atti costitutivi di un diritto di prelazione per 1

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AZIONE REVOCATORIA ATTI “NORMALI”

ATTI A TITOLO ONEROSO, PAGAMENTI, GARANZIE:

I. LA DISCIPLINA REVOCATORIA

1. DEFINIZIONE E AMBITO DI APPLI CAZIONE

1.1. Fonti normative. 1.2. Gli atti sottratti all’azione revocatoria. 1.3. Gli atti “esentati” dalla revocatoria e le

“revocatorie speciali”. 1.4. Il “periodo sospetto”.

2. LA REVOCATORIA DEGLI ATTI A TITOLO ONEROSO “ANORMALI”.

2.1. Ambito di applicazione. 2.2. L’onere della prova. 2.3. Il contenuto della prova.

Punto di attenzione. L’onere della prova della revocatoria di atti “normali“ contestuale alla revocatoria di atti “anormali“.

2.4. I singoli “atti anormali”. Gli att i cc.dd. “sproporzionati”.

2.4.1. La “sproporzione” rilevante degli atti di acquisto di immobili da adibire ad uso abitativo. Punto di attenzione.

2.4.2. Applicazione in concreto del criterio normativo. 2.4.3. L’onere della prova. 2.4.4. Il momento rilevante ai fini dell’accertamento

della “sproporzione”.2.4.5. I criteri di accertamento della “sproporzione” nel

contratto di leasing.

3. I PAGAMENTI EFFETTUATI CON “MEZZI ANORMALI”.

3.1. Definizione. 3.2. Ambito di applicazione. 3.3. Casistica. 3.3.1. La estinzione di esposizioni (bancarie) pregresse

con il ricorso ad ulteriori finanziamenti.

4. LE GARANZIE COSTITUITE O CONSE GUITE PER DEBITI PREESISTENTI SCADUTI O NON SCADUTI.

4.1. Definizione. 4.2. Ambito di applicazione.

4.2.1. Le garanzie non contestuali per debiti altrui. 4.3. La diversa entità del “periodo sospetto”.

5. LA DISCIPLINA REVOCATORIA DEGLI ATTI A TITOLO ONEROSO, DEI PAGAMENTI DI DEBITI LIQUIDI ED ESIGIBILI, E DEGLI ATTI COSTITUTIVI DI UN DIRITTO DI PRELAZIONE PER DEBITI CONTESTUALI.

5.1. Definizione. 5.1.2. La definizione di “stato di insolvenza”. 5.1.3. La prova della scientia decoctionis.

Casistica5.2. Gli “atti a titolo oneroso”.

Casistica.Punto di attenzione. Gli atti “congrui”.

5.3. I pagamenti di debiti liquidi ed esigibili. 5.3.1. Definizione. 5.3.2. Ambito di applicazione. 5.3.3. Il destinatario dell’azione revocatoria dei pagamenti

effettuati dal fallito. I finanziamento bancari in pool e gli accordi di silent transfer

5.3.4. I pagamenti dei terzi.Punto di attenzione. I pagamenti dei terzi che non hanno inciso sul patrimonio del debitore fallito. I finanziamenti bancari in pool e gli accordi di silent tranfer. Casistica.Punto di attenzione. Il pagamento del coobbligato solidale del fallito o del fideiussore.

5.3.5. La natura giuridica del pagamento del terzo. Punto di attenzione. Il parallelo tra le garanzie dei terzi ed i pagamenti dei terzi.Punto di attenzione. Il pagamento del debito altrui: promuovibilità dell’azione revocatoria nei confronti del creditore soddisfatto e del debitore liberato.Caso di specie. Le operazioni di addebito/accredito nel rapporto di “cash pooling”

5.3.6. Il pagamento dei debiti garantiti (sui beni del fallito).Punto di attenzione. Gli effetti della revocatoria del pagamento del credito privilegiato sulle garanzie che lo assistevano.

5.4. Gli atti costitutivi di un diritto di prelazione per

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debiti contestualmente creati. 5.4.1. Definizione e ambito di applicazione. 5.4.2. Il concetto di “contestualità”.

Punto di attenzione. Il momento rilevante al fine della “contestualità“ e il momento rilevante al fine del “consolidamento“ della garanzia.

5 . 4 . 3 . Le operazioni di “consolidamento” del debito (bancario). 5.4.4. Le operazioni di “anticipo IVA”. 5.4.5. La disciplina delle “garanzie finanziarie”.5.4.6. Le garanzie reali per debiti altrui in generale. 5.4.7. Le garanzie personali per debiti altrui. 5.4.8. Le garanzie per debiti altrui non contestuali al credito garantito. 5.4.9. Le garanzie cc.dd. “infragruppo.

1. DEFINIZIONE E AMBITO DI APPLICAZIONE

1.1. Fonti normative.

La disciplina revocatoria degli “atti a titolo oneroso” è dettata dall’art. 67 l. fall.: e si deve intendere che debbano ritenersi per tali tutti gli atti produttivi di effetti sul patrimonio del fallito (e non necessariamente costituiti da atti di disposizione posti in essere dallo stesso fallito), diversi dagli “atti a titolo gratuito” (disciplinati dall’art. 64 l.fall.) e dai pagamenti di crediti (rectius: debiti) che sarebbero scaduti il giorno del fallimento o successivamente (che sarebbero disciplinati dall’art. 65 l.fall.).

1.2. Gli atti sottratti all’azione revocatoria.

In linea di principio qualsiasi “atto” di disposizione che produca effetti sul patrimonio del fallito è assoggettabile ad azione revocatoria: con la possibile eccezione dei casi nei quali si ritenga di ricavare, dalla disciplina particolare di un determinato “atto”, la volontà del legislatore di garantirne la stabilità degli effetti. Attualmente la fattispecie più controversa è rappresentata dalla discussione sulla revocabilità o meno degli atti di scissione societaria, la validità dei quali non possa più essere pronunciata ai sensi degli artt. 2504-quater e 2506-ter cod. civ. - supra, sub) art. 64, n. 8 -.La giurisprudenza, dopo u n iniziale atteggiamento preclusivo, si va orientando nella direzione dell’ammissibilità dell’azione revocatoria – anche ordinaria – nei confronti degli “atti di disposizione patrimoniale posti in essere nell’ambito di operazioni societarie di scissione”: ma la questione rimane tuttora irrisolta. Per un verso, infatti, si ribadisce (Trib. Bologna, 1° aprile 2016, n. 861, in Fallimento, 2017, p. 48, con nota di P. POTOTSCHNIG, Scissione societaria e azione revocatoria: un

nervo scoperto per la tutela dei creditori?)

che l’azione revocatoria di un atto di scissione deve considerarsi inammissibile alla luce del disposto dell’art. 2504 quater cod. civ., che rende intangibili gli effetti dell’operazione una volta eseguite le formalità pubblicitarie prescritte e allorché sia decorso il termine per l’opposizione dei creditori senza che la stessa sia stata proposta: la tutela di questi ultimi sarebbe cioè assicurata dalle norme che sanciscono il diritto al risarcimento dei danni ex art. 2504 quater, comma 2, cod. civ., e la responsabilità solidale delle società interessate e x art. 2506 quater, comma 2, cod. civ.

Per un altro verso, peraltro, si è sostenuto (Trib. Venezia, 5 febbraio 2016, n. 293, in Fallimento, 2017,

p. 51, con nota di P. POTOTSCHNIG, Scissione societaria ecc., cit.)

che deve ritenersi ammissibile l’azione revocatoria della scissione societaria, non potendosi ricavare elementi impeditivi a questa conclusione né dalla disciplina degli effetti delle iscrizioni dell’atto di scissione, né dal regime di tutela dei creditori previsto dalle norme che, da un lato, consentono l’impugnativa dell’atto, a mezzo dell’opposizione ex art. 2503 cod. civ., e, dall’altro lato, stabiliscono una responsabilità solidale delle società partecipanti all’operazione, secondo quanto indicato dall’art. 2506 quater cod. civ. Gli strumenti societari si fondano, secondo questa visione delle cose, su presupposti, almeno parzialmente, diversi da quelli dell’azione revocatoria, la quale a sua volta produce un effetto,

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l’inefficacia relativa dell’atto, che non incide sulla validità dell’atto di scissione.In questa stessa direzione la giurisprudenza si è pronunciata a favore dell’esperibilità dell’ azione

revocatoria ordinaria in relazione agli “atti di disposizione patrimoniale” posti in essere nell’ambito di operazioni societarie di scissione, osservandosi che l’atto di scissione si configura come un atto dispositivo, avendo quale effetto normale quello del mutamento della titolarità soggettiva di una parte del patrimonio della società scissa, con la conseguenza di rendere proponibile la revocatoria su istanza dei suoi creditori (Trib. (, 18 novembre 2016, n. 21610, inedita. Nel caso di specie il Tribunale ha dichiarato l’inefficacia nei confronti dei creditori della società scissa dell’assegnazione operata nell’ambito della scissione parziale mediante costituzione di nuova società nella parte in cui siano stati trasferiti a quest’ultima tutti gli immobili già di pertinenza della scissa - ovvero beni per loro natura agevolmente individuabili ed assoggettabili all’esecuzione forzata -, residuando in capo a quest’ultima un patrimonio netto contabile il cui valore risulti di conseguenza del tutto irrisorio. Il Tribunale ha avvalorato la propria decisione osservando inoltre come alla società beneficiaria fosse stata trasferita solo una minoranza dei rapporti passivi, lasciando in capo alla scissa la stragrande maggioranza dei suddetti. Da tali elementi il Tribunale ha ricavato la convinzione che l’operazione di scissione in discussione, pur asseritamente volta alla razionalizzazione dell’attività d’impresa della società scissa, avrebbe privato quest’ultima della concreta possibilità di proseguire l’attività sociale, rimanendo così esposta alla revocatoria da parte dei suoi creditori).

L’art. 67 l. fall. disciplina (al terzo comma) altresì numerose ipotesi nelle quali l’azione revocatoria fallimentare è dichiarata improponibile (nonostante la sussistenza nel caso concreto dei relativi presupposti), senza che peraltro sia sempre ben chiaro se le “esenzioni” di volta in volta disposte riguardino la sola disciplina revocatoria prevista dallo stesso art. 67; oppure riguardino anche la disciplina revocatoria dettata per gli atti presi in considerazione dagli artt. 64, 65 e 66. Neppure è certo se la “esenzione”, nelle fattispecie ivi descritte, comporti o non comporti la inapplicabilità anche delle disposizioni concernenti l’azione revocatoria fallimentare contenute in altri testi di legge; nonché le disposizioni concernenti l’azione revocatoria ordinaria, disciplinata dall’art. 2901 c.c.

1.3. Gli atti “esentati” dalla revocatoria e le “revocatorie speciali”

Le fattispecie disciplinate dall’art. 67, 3° co, l. fall., ai quali si è fatto cenno sopra, sono comunemente definite ipotesi di “esenzione” dall’applicazione della azione revocatoria fallimentare.

Per ragioni di comodità espositiva manterremo l’utilizzazione di tale espressione, non senza dimenticare che in taluni casi – tra i quali l’importante tema della revocatoria delle “rimesse” in conto corrente bancario – più che di “esenzione” dall’azione revocatoria fallimentare dovrebbe fosse parlarsi di azioni revocatorie fallimentari “speciali” – nel senso che gli atti presi in considerazione non sono propriamente sottratti all’azione revocatoria fallimentare, ma vi sono soggetti in base ai disposizioni diverse (quindi, speciali) rispetto a quelle dettate in via generale per gli (altri) atti appartenenti alla categoria chiamate in causa –.

1.4. Il “periodo sospetto”.

L’ambito di applicazione dell’azione revocatoria fallimentare è condizionato non soltanto in relazione agli atti che ne possono essere oggetto, ma anche in relazione all’epoca nella quale essi sono stati compiuti: essendo assoggettabili a revocatoria fallimentare soltanto gli atti compiuti in epoca prossima al fallimento.

Tali periodi variano (oggi) da sei mesi a due anni, secondo il genere di atti investiti dall’iniziativa revocatoria, e sono denominati “periodi sospetti”.

Questi “periodi sospetti” sono stati ridotti dalla riforma della legge fallimentare degli anni 2005-2006, giacché in origine erano di durate doppie rispetto a quelle attuali. Tale innovazione ha prodotto ovviamente una riduzione significativa del numero degli atti di disposizione potenzialmente revocabili, perché se dal loro compimento trascorrono - rispettivamente - dodici mesi o sei mesi prima che venga depositata la sentenza dichiarativa di fallimento, divengono insuscettibili di essere revocati (fenomeno che nel gergo comune è definito “consolidamento” dell’atto di disposizione compiuto dall’imprenditore fallibile – o sul suo patrimonio –).

Il “depotenziamento” dell’azione revocatoria fallimentare, prodotto dal dimezzamento dei “periodi sospetti” rilevanti al fine di rendere revocabili gli atti di disposizione (a titolo oneroso) del fallito, è risultato enfatizzato da un’altra innovazione della riforma della legge fallimentare, rappresentata

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dall’aumento della complessità e della articolazione della disciplina del procedimento per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore insolvente. È ovvio che a una maggiore complessità non potrà che corrispondere, in linea di principio, una maggior durata della c.d. “istruttoria pre-fallimentare”: ed è dalla combinazione dei due fattori della “dimidiazione” del “periodo sospetto” e del (prevedibile) allungamento della “istruttoria prefallimentare”, che va attribuita la responsabilità della rarefazione degli atti suscettibili di essere assoggettati a revocatoria, a fallimento dichiarato.Il secondo profilo (incidenza, sul fenomeno del “consolidamento“degli atti revocabili, della lunghezza della istruttoria prefallimentare) è destinato ad essere privato di rilevanza con la riforma attuativa del Codice della Crisi e della Insolvenza, che fissa la decorrenza a ritroso del “periodo sospetto“ al momento del “deposito della domanda cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale “(artt. 163 s.s. C.C.I.).

2. LA REVOCATORIA DEGLI ATTI A TITOLO ONEROSO “ANORMALI”.

2.1. Ambito di applicazione.

La prima categoria di atti a titolo oneroso presa in considerazione dal l’ar t . 67 l . fal l . è quella che riguarda gli atti che si è soliti definire “atti anormali”, perché le rispettive caratteristiche li collocano al di fuori della gestione ordinaria dell’impresa. Tali atti, raggruppati in quattro categorie, sono revocabili a due condizioni: (i) che “l’altra parte” non sia in condizione di dimostrare che ignorava lo stato di insolvenza del debitore; e (ii) che siano stati compiuti in una data relativamente prossima al fallimento (dodici mesi per le prime tre categorie, sei mesi per la quarta).

2.2. L’onere della prova.

Di fronte al principio generalmente riconosciuto, secondo il quale (per lo meno in materia di obbligazioni) la condizione di buona fede, quando è rilevante, si presume, e non deve essere provata da chi la adduce (dovendo se mai i controinteressati dimostrare la sua inesistenza, alias la mala fede del soggetto la cui condizioni psicologica rileva), la riferita disciplina dell’art. 67, 1° co., l.fall. (secondo la quale l’atto è revocabile se “l’altra parte” non dimostra la propria buona fede) viene intesa come produttiva della c.d. inversione dell’onere della prova. Essa viene giustificata con la considerazione del carattere sintomatico dell’insolvenza espresso dalle categorie di atti in discussione (atti comportanti condizioni svantaggiose per il fallito; pagamenti effettuati con mezzi non normali; garanzie costituite per debiti originariamente privi di garanzia).

In linea di principio, cioè, questi atti sono assunti come idonei a fornire di per sé la prova (della sussistenza, e) della conoscenza nella “altra parte” dello stato di insolvenza del debitore: a meno che, nel singolo caso di specie, la presunzione originata dal carattere oggettivamente pregiudizievole dell’atto “anormale” non sia superata da una spiegazione diversa delle ragioni del suo compimento, della cui prova è però onerata la parte che adduce tale circostanza.

Il fatto è che le categorie di atti presi qui in considerazione sono effettivamente espressive di una condizione di difficoltà del debitore difficilmente negabile.

A tale proposito, la giurisprudenza nega l’ammissibilità delle prove indirizzate a dimostrare l’insussistenza (oggettiva) dello stato di insolvenza del debitore, pretendendo piuttosto la prova della sua ignoranza da parte del terzo nei casi disciplinati dall’art. 67, co. 1°, l.fall. (cfr. in argomento LIMITONE, Commento all’art. 67, in La legge fallimentare. Commentario teoricopratico, a cura di Ferro, Padova, 2007, 447 ss.): ma senza ragione, perché dalla dimostrazione che il debitore non era insolvente ben può essere ricavata la prova che il terz o n o n poteva essere a conoscenza di una situazione… inesistente (BONFATTI – CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, 2^ ed., Padova, 2007, 154.).

2.3. Il contenuto della prova.

Secondo la giurisprudenza il soggetto convenuto in revocatoria ai sensi dell’art. 67, co. 1, l. fall., al fine di vincere la presunzione di “mala fede” originata dal carattere oggettivamente “anormale” degli atti i v i contemplati, non può limitarsi ad addurre l’insussistenza di circostanze idonee ad evidenziare lo stato di insolvenza del debitore (cioè la mancanza di quei “sintomi” dalla cui ricorrenza si suole ricavare, invece, la scientia decoctionis – protesti; procedure esecutive; eccetera -), ma deve dimostrare la positiva sussistenza di circostanze tali da fare ritenere ad una persona di ordinaria prudenza ed

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avvedutezza che l’imprenditore si trovava (quanto meno) in una situazione di normale esercizio dell’impresa (Cass. civ, 18 maggio 2005, n . 10432, in Fallimento, 2006, 49, con nota di DE MATTEIS, Obbligazione restitutoria e condanna alla consegna nella revocatoria fallimentare; LIMITONE, op.cit., 454, sub) n. 44; Trib. Bologna, 18 maggio 2010, n. 1513/10, inedita; Trib. Modena, 19 novembre 2012, n. 1759/12, inedita).

Punto di attenzione. L’onere della prova nella revocatoria di atti “normali” contestuale alla revocatoria di atti “anormali”.

In materia di revocatoria fallimentare degli “atti anormali” deve essere preso in considerazione l’effetto (che si potrebbe essere portati a qualificare “perverso”) che la disciplina per essi dettata dal primo comma dell’art. 67 l.fall. può avere sugli atti cc.dd. “normali”, che siano stati posti in essere contemporaneamente o successivamente ai primi.

Nell’ipotesi, più volte presa in considerazione dalla giurisprudenza, di garanzia costituita in occasione dell’aumento del finanziamento bancario concesso all’imprenditore, ed estesa, nell’occasione, anche al finanziamento originario (o “fido base”), precedentemente concesso senza l’acquisizione di garanzie, si è formato un orientamento secondo il quale una volta registrato l’insuccesso della banca nel tentativo di dimostrare la inscientia decoctionis funzionale a sottrarre alla revocatoria la garanzia costituita (anche) per il finanziamento (originario, e quindi) preesistente – come tale ricadente sotto la disciplina dell’art. 67, 1° co., l. fall., numero 3) o numero 4) -; di null’altro è onerato il curatore che intenda assoggettare a revocatoria anche la (porzione di) garanzia costituita in corrispettivo dell’aumento del finanziamento. Benché la contestualità caratterizzante l’operazione di prestazione di garanzia per il finanziamento (supplementare) contemporaneamente concesso, comporti l’applicazione alla fattispecie della disciplina del secondo comma dell’art. 67 - e con essa l’assegnazione al curatore fallimentare de l l ’onere della prova della “mala fede” della banca – (infra, n. 5.1.3.), tale onere viene considerato assolto dal curatore sulla base della semplice deduzione della sussistenza di fatti sintomatici della scientia decoctionis, riconducibili alle previsioni di cui al primo comma della norma, e della constatata incapacità della banca di rimuovere gli effetti produttivi di una presunzione legale (semplice) di “mala fede”.

Il ventilato carattere “perverso” dell’effetto denunciato può essere più compiutamente valutato se si considera che, a questa stregua, una volta intervenuto uno degli atti sintomatici della scientia decoctionis previsti dai quattro numeri del primo comma dell’art. 67 l.fall. (ed ipotizzato che non sia stata fornita la richiesta prova positiva della sussistenza di circostanze tali da ingenerare una condividibile valutazione di normale ed ordinaria condizione dell’impresa), tutti gli atti di disposizione successivi, per quanto connotati da elementi di “normalità” – quali la congruità del prezzo; la contestualità dell’erogazione del finanziamento garantito; eccetera -, sarebbero esposti ad una revocabilità sostanzialmente “automatica”, quale conseguenza della non eliminata attribuzione (presuntiva) alla “altra parte” della conoscenza dello stato di insolvenza del debitore.

2.4. I singoli “atti anormali”. Gli atti cc.dd. “sproporzionati”.

Sono comunemente definiti “atti anormali”, perché rappresentati da “atti sproporzionati”, quegli atti a titolo oneroso “in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso” (Trib. Bari, 1° aprile 2006, in Fallimento, 2006, 851 (s.m.). In argomento, v. FRANCONE, L’azione revocatoria fallimentare. Art. 67, 1° e 2° co., l.fall., in Vitalone e altri, Le azioni revocatorie, cit., 199 ss.).

Ne deriva un prevedibile appesantimento dell’istruttoria delle fattispecie interessate, che saranno inevitabilmente destinate a passare attraverso la disposizione di una consulenza tecnica d’ufficio (MELI, La revocatoria fallimentare: profili generali, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Ambrosini, Bologna, 2006, 122).

Sarebbe stato senz’altro preferibile, comunque, introdurre una presunzione legale di sproporzione, per gli atti o le obbligazioni posti a carico del fallito eccedenti di oltre un quarto le prestazioni dallo stesso ricevute (o allo stesso promesse): ma riservando le altre situazioni alla valutazione, caso per caso, della sussistenza di una sproporzione apprezzabile come “notevole”, anche in presenza di un divario di ammontare percentuale inferiore.

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Alla base di quanto previsto dal diritto positivo, invece, si produce (anche) una presunzione legale di “sproporzione non rilevante”, per tutti gli atti (o le obbligazioni) posti a carico del fallito, che pur eccedendo le corrispondenti controprestazioni (o le corrispondenti contro obbligazioni) in una misura non marginale, non assurgano tuttavia al livello dello squilibrio preso in considerazione dalla norma: il ché si rivela assolutamente irrazionale. E’ evidente, infatti, che se la ratio sottesa alla norma in commento è fondata sul carattere sintomatico della situazione di difficoltà finanziaria nella quale versa un debitore che si risolva a concludere transazioni economiche significativamente svantaggiose, non v’è sintomo più genuino della conclusione di acquisti o di vendite a prezzi diversi (e segnatamente più onerosi per l’imprenditore commerciale interessato) dai prezzi di mercato (per lo meno ogni qualvolta le contrattazioni del genere considerato avvengano su un “mercato”).

Esempi di inadeguatezza della norma:- cessione di titoli azionari quotati in Borsa, o di prodotti sui quali si formano dei listini espressivi dei prezzi costituenti il punto di incontro tra la domanda e l’offerta su una certa “piazza” in una certa giornata, laddove il divario tra quanto conseguito dall’imprenditore e quanto assicurato alla controparte non ecceda il 25%;- la svendita precipitosa (e pregiudizievole) di beni caratterizzati da valori “di mercato”, con approfittamento delle condizioni di difficoltà dell’imprenditore tali da non avere raggiunto la soglia (del 25% rispetto al valore della prestazione rivolta in suo favore) considerata “rilevante” dalla norma.

2.4.1. La “sproporzione” rilevante degli atti di acquisto di immobili da adibire ad uso abitativo.

La disposizione dettata dall’art. 67, co. 1, n.), l. fall. deve essere coordinata con la disciplina degli acquisti di beni immobili da adibire ad uso abitativo: disciplina che in forza dell’attuale art. 67, 3° co., lett. c) – per gli immobili già ultimati –; e dell’art. 10 d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122 – per gli immobili ancora da costruire –; prevede la sottrazione all’azione revocatoria fallimentare delle transazioni commerciali concluse a “giusto prezzo”.

Punto di attenzione.

Si pone infatti il problema di stabilire se l’acquisto immobiliare compiuto ad un prezzo giudicato “non giusto” debba essere assoggettato per ciò solo alla revocatoria disposta per gli atti caratterizzati da una sproporzione “notevole” (oggi accertata sulla base della sussistenza di un divario superiore del 25%); oppure se occorra la verifica di un tasso di “ingiustizia” tale da superare il divario (del 25%).

Deve prevalere la seconda soluzione, individuandosi una c.d. “zona grigia” tra “prezzo non-giusto” e “prezzo sproporzionato”, perché inferiore del 25% rispetto a quello “giusto”, nella quale ricadono l e transazioni immobiliari effettuate a prezzi bensì iniqui per il venditore fallito, ma insuscettibili di raggiungere il livello di divario economico oggi preso in considerazione dall’art. 67, 1° co., l.fall.. Tali transazioni immobiliari non possono aspirare ad essere ritenute esentate dall’azione revocatoria, ma sono revocabili solamente alle condizioni previste dall’art. 67, co. 2, l. fall. (cioè secondo la disciplina degli atti a titolo oneroso), e non sulla base del disposto del primo comma della norma (cioè secondo la disciplina degli atti a titolo gratuito) .

La correttezza di tale soluzione risulta confermata dalla considerazione della disciplina del “Fondo di solidarietà per gli acquirenti di beni immobili da costruire” (d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122), la quale pone, tra le condizioni di indennizzabilità dei “sinistri” conseguenti all’insolvenza del costruttore di immobili venduti “sulla carta”, quella che la perdita del bene provocata dall’assoggettamento dell’atto di acquisto al positivo esperimento dell’azione revocatoria sia derivata dalla promozione dell’azione, da parte del curatore fallimentare, “ai sensi dell’articolo 67, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267” (art. 13, 4° co., d.lgs. n. 122/2005). Ciò dimostra che possono ricorrere acquisti di beni immobili destinati ad uso abitativo insuscettibili di fruire della “esenzione” disposta in linea di principio dalla disciplina di settore (art. 10, 1° co., d.lgs. cit.) – anche per il mancato assolvimento della condizione della corresponsione di un “giusto prezzo -, ed assoggettate (tuttavia) all’azione revocatoria fallimentare disposta per gli atti a titolo oneroso cc.dd. “normali”, e non necessariamente all’azione revocatoria disposta per gli atti caratterizzati da prestazioni sproporzionate (oltre il divario del 25%).

2.4.2. Applicazione in concreto del criterio normativo.

Nella sua apparente semplicità il criterio fissato dal nuovo numero 1) del primo comma dell’art. 67 l.fall. nasconde pur sempre talune difficoltà applicative.

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Innanzitutto la formula utilizzata dal legislatore, che fa riferimento a prestazioni che “sorpassano di oltre un quarto” ciò che è stato dato o promesso al fallito, individua in realtà come soglia rilevante delle transazioni commerciali “sproporzionate” la corresponsione o l’incasso di un prezzo superiore o inferiore (solamente) del venti per cento (cioè di un quinto) rispetto al valore della controprestazione ricevuta.

Perché un atto risulti affetto da una “sproporzione” rilevante ai fini del nuovo art. 67, 1° co., n. 1), l.fall. occorre che il valore della prestazione posta a carico del fallito sia superiore di un quarto alla prestazione rivolta a suo favore. Ipotizzata 800 l’entità del secondo importo, il divario richiesto dalla norma sarà raggiunto nel momento in cui il primo risulti ammontare a [800+(25% di 800 = 200) =]1000: il chè equivale a dire che la soglia della revocabilità è raggiunta quando la prestazione rivolta a favore del fallito è inferiore di un quinto (200) rispetto al valore della prestazione posta a suo carico (1000).

Per ciò che concerne la individuazione dei criteri, in base ai quali accertare la sussistenza (e la entità) della “sproporzione” tra le prestazioni, la norma in commento evoca la mancanza di un equilibrio accettabile tra la prestazione posta a carico del fallito e quella prevista a suo favore. Poco importa, quindi, se la prima sia o non sia in linea con i corrispondenti valori (medi) di mercato, perché potrebbe non esserlo, e tuttavia non risultare “sproporzionata” (né, quindi, sintomatica di una situazione di difficoltà economica o finanziaria dell’imprenditore), ogniqualvolta anche la controprestazione fosse caratterizzata da un equivalente disallineamento rispetto ai valori correnti (si pensi ad uno scambio di partecipazioni azionarie valutate per entrambi i contraenti in base a criteri diversi dalle rispettive quotazioni di Borsa, e tuttavia espressivi di valori economici omogenei).

1.4.3.L’onere della prova.

Spetta al curatore fallimentare che intende assoggettare l’atto di disposizione del fallito all’azione revocatoria prevista dall’art. 67, 1° co., n. 1) l.fall., l’onere di dimostrare che l’atto è affetto da una sproporzione “notevole” (oggi: superiore alla soglia percentuale fissata dalla norma) in danno del fallito (TERRANOVA, op.cit., 275; CAIAFA, Nuovo diritto ecc., cit., 266). Spetta all’acquirente dell’immobile ad uso abitativo che intende avvalersi della “esenzione” prevista dall’art. 67, 3° co., lett. c) l.fall, l’onere (tra gli altri) di provare di avere corrisposto un prezzo “giusto” (TERRANOVA, ibidem).

2.4.4. Il momento rilevante ai fini dell’accertamento della “sproporzione”.

L’orientamento che aveva raccolto maggiori consensi a proposito della determinazione del momento al quale fare riferimento per l’accertamento della sussistenza od insussistenza della sproporzione “notevole”, rilevante ai fini dell’art. 67, 1° co., n. 1) l.fall., è rappresentato dalla data (e dalla situazione) della stipulazione delle reciproche obbligazioni (FABIANI, Appunti sulla riforma ecc., cit., 1423; APICE, La revocatoria: gli atti “anormali”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, a cura di Panzani, Torino, 1999, II, 100). Tale scelta è confermata dalla precisazione normativa secondo la quale è per l’appunto al momento della stipulazione del contratto preliminare d’acquisto (dell’immobile da costruire), e non al momento della stipulazione del contratto definitivo di trasferimento immobiliare, che va accertata la pattuizione di un prezzo “giusto” (cfr. art. 10, 1° co., d.lgs n. 122/2005).

In senso contrario si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione, secondo la quale l’art. 67, co. 1, n. 1, l. fall. prevede la revoca degli atti a titolo oneroso in cui le prestazioni eseguite dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso. In caso di atto di compravendita preceduto da un preliminare, la sproporzione delle obbligazioni assunte deve essere valutata con riferimento al momento della conclusione del contratto definitivo, ossia al momento in cui si determina l’effettivo passaggio di proprietà del bene (Cass., 21 marzo 2017, n. 7216).

L’interpretazione più risalente è in linea di principio maggiormente condividibile, perché attribuisce rilievo, ai fini di considerarne il valore sintomatico dell’eventuale conoscenza dello stato di insolvenza di uno dei contraenti da parte dell’altro, all’apprezzamento del valore economico delle obbligazioni poste a carico delle parti nel momento in cui esse sono state assunte. In tale prospettiva, non dovrebbe avere rilievo la circostanza che in sede di esecuzione del contratto il valore della

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prestazione rivolta a favore dell’imprenditore fallito fosse divenuto, per ragioni impreviste, anche significativamente inferiore a quanto dovesse a lui essere corrisposto.

Nello stesso modo, di fronte ad una transazione economica originariamente caratterizzata da un oggettivo (e “rilevante”) squilibrio, a danno del fallito, del valore delle prestazioni dedotte in contratto, non dovrebbe avere rilievo (ai fini di sottrarre il negozio de quo all’azione revocatoria prevista dalla norma in commento), la circostanza che il pregiudizio conseguente alla pattuizione di prestazioni sproporzionate non si sia poi concretamente prodotto in danno del fallito, in ipotesi per mancato adempimento delle obbligazioni assunte dallo stesso.

1.4.4. I criteri di accertamento della “sproporzione” nel contratto di leasing.

Le grandezze economiche che misurano le prestazioni poste a confronto per accertare l’eventuale carattere sproporzionato dell’una rispetto all’altra devono essere comparabili anche da un punto di vista cronologico. Questa esigenza non sarebbe soddisfatta, ad esempio, se il confronto tra le prestazioni poste alla base di un contratto di locazione finanziaria (leasing) avvenisse, quanto ad una di essa facendo riferimento al costo storico del bene (acquistato dal concedente e) concesso in leasing all’utilizzatore; e quanto all’altra, facendo riferimento al costo complessivo del finanziamento da rimborsare da parte dell’utilizzatore stesso.

Il criterio di comparazione prospettato sarebbe erroneo, laddove porrebbe in correlazione due grandezze economiche tra loro non comparabili, anche cronologicamente, quali il costo storico del bene, determinato i n sede di locazione o di acquisto dal dante causa, e il costo del finanziamento complessivo, che si sviluppa lungo l’arco di tempo di ammortamento (anche fiscale) di numerosi anni, costo che si determina storicamente a valori correnti all’atto dell’accensione del prestito, ma ha una manifestazione futura, dovendo tenere conto del decorso del tempo (Trib. Milano, 7 giugno 2012 – in Fallimento 2013 (4), 461, con nota di FRASCAROLI SANTI, I problemi della revocatoria del contratto di leasing. Nella fattispecie il bene (immobile) concesso in leasing presentava un costo storico di euro 1.350.000,00 laddove il costo finanziario complessivo del finanziamento sarebbe ammontato all’importo nominale di euro 2.345.200,00).

Se deve essere presa a riferimento una grandezza finanziaria (quale il costo complessivo del finanziamento che viene riversato sull’utilizzatore), la comparazione va effettuata tra il costo del capitale che viene immobilizzato all’atto dell’acquisto (capitale investito) e il costo finanziario che viene riversato sull’utilizzatore (che tiene conto del capitale finanziato, del rischio dell’operazione, del tempo del rimborso e della remunerazione del capitale medesimo), la cui risultante è data dal tasso di interesse praticato per quella specifica operazione. Laddove il costo finanziario (tasso di interesse) apparisse analogo a quelli praticati per quella specifica operazione (e non si configurasse per il tasso praticato in concreto la sproporzione giuridicamente rilevante di cui all’art. 67, comma 1, n. 1, l.fall.), la domanda di revocatoria non meriterebbe accoglimento.

3. I PAGAMENTI EFFETTUATI CON “MEZZI ANORMALI”.

3.1. Definizione.

Il secondo gruppo di atti per i quali l’art. 67, 1° co., l.fall. prevede l’assoggettabilità a revocatoria fallimentare, se compiuti nell’anno anteriore alla sentenza dichiarativa, a meno che l’altra parte non dimostri che ignorava lo stato di insolvenza del debitore, è rappresentata dagli “atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento”: atti altrimenti conosciuti come “pagamenti (effettuati) con mezzi anormali”.

La ratio della disposizione è individuabile nella considerazione che l’estinzione dell’obbligazione, conseguita dal debitore facendo ricorso a strumenti di pagamento “anormali”, costituisce un sintomo di (esistenza e) conoscenza della sua incapacità di “soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”, id est della sua condizione di “insolvenza” (nella sua espressione di “illiquidità”: cfr. art. 5 l.fall.), idonea di per sé ad esonerare il curatore fallimentare dall’onere di fornire la prova della scientia decoctionis dell’altra parte, ed a giustificare l’accoglimento della relativa domanda revocatoria, salvo che il convenuto non fornisca la prova (contraria) della ignoranza dello stato di insolvenza apparentemente ricavabile dal ricorso a strumenti anormali di pagamento.

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3.2. Ambito di applicazione.

La norma deve ritenersi applicabile anche agli atti estintivi (con mezzi anormali) di debiti pecuniari non scaduti e non esigibili (allorché non ricadenti sotto l’ambito di applicazione dell’art. 65 l.fall., perché caratterizzati da una scadenza che non sarebbe comunque andata oltre la data della sentenza dichiarativa di fallimento).

La norma è ritenuta applicabile anche alle situazioni nelle quali lo strumento di pagamento, oggettivamente anormale (o non consueto) fosse stato convenuto tra le parti sin dall’origine. La circostanza che lo strumento “anomalo” di pagamento fosse stato previsto come originale mezzo di estinzione dell’obbligazione dovrebbe eliminare il carattere sintomatico della conoscenza, al momento del pagamento, dello stato di insolvenza del debitore, in quanto l’obbligazione sarebbe stata comunque estinta proprio con le modalità criticate alla sua scadenza, quale che fossero le condizioni economiche e finanziarie dell’imprenditore. Ciò peraltro non toglie che alla previsione originaria di uno strumento di pagamento anomalo non possa e non debba attribuirsi carattere sintomatico della (sussistenza e della) conoscenza dello stato di insolvenza del fallito sin dalla data della stipulazione del contratto.

3.3. Casistica.

Sono da considerare “anormali”, inoltre, i mezzi di pagamento rappresentati da:- la datio in solutum (secondo Trib. (, 7 marzo 2017, n. 4579, inedita, qualora in debito pecuniario,

scaduto ed esigibile, venga estinto dall’obbligato mediante una prestazione diversa - nella fattispecie, cessione di beni – va riconosciuta la ricorrenza di una “datio in solutum”, con il conseguente assoggettamento ad azione revocatoria fallimentare, a norma dell’art. 67, primo comma, l. fall., indipendentemente dallo strumento negoziale adottato dalle parti per attuare il suddetto trasferimento e , quindi, anche quando il trasferimento medesimo sia effetto di un valido contratto di compravendita, che evidenzi l’indicato intento dei contraenti per la mancata corresponsione del prezzo di vendita);

- le delegazioni passive (secondo Trib. Milano, 2 febbraio 2015 – in Fallimento, 2015, p. 977, con nota di L. ANDRETTO, Il “massimo scoperto” nella revocatoria fallimentare di pagamenti diversi dalle rimesse bancarie -, “è revocabile ai sensi dell’art. 67, comma 1, n. 2, l. fall., in quanto mezzo anormale di pagamento, la delegazione passiva che il debitore abbia posto in essere allo scopo di estinguere proprie obbligazioni”);

- i pagamenti effettuati da terzi con “provvista” riferibile al fallito (secondo Cass. civ., 23 dicembre 2015, n. 25928, il pagamento, effettuato da un terzo, di un debito comunque gravante sul fallito, è revocabile, ex art. 67, comma 1, n. 2, l. fall., dovendo ritenersene una modalità anomala, ove si accerti che la relativa provvista abbia leso, direttamente od indirettamente, la “par condicio creditorum”, come quando il terzo, debitore del fallito, lo abbia eseguito con denaro a questi dovuto – così statuendo la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, che aveva, invece, negato l’anomalia del pagamento che la committente un appalto aveva indirizzato alla subappaltatrice con denaro che sarebbe stato destinato all’appaltatrice poi fallita -. Sempre in argomento Cass. civ., 14 gennaio 2016, n. 506, ha affermato che ai fini della esperibilità dell’azione revocatoria ex art. 67, comma 1, n. 2, l. fall., il pagamento eseguito dal terzo deve considerarsi anormale quando l’effetto solutorio del debito del fallito si sia realizzato attraverso un diverso negozio utilizzato dalle parti, in via mediata e indiretta, per eludere la “par condicio” (nel caso di specie la Cassazione, nell’escludere la revocabilità del pagamento effettuato dal committente i n forza di clausola del capitolato generale di appalto che lo impegnava a corrispondere ai subappaltatori l’importo dei lavori da loro eseguiti, per l’ipotesi, poi verificatasi, di inadempimento dell’appaltatore fallito, ha rilevato che tale clausola aveva assolto una funzione di garanzia, e che il pagamento aveva estinto sia il debito del fallito che quello, di pari ammontare, assunto dal solvens verso i creditori di quest’ultimo).

Non così, invece, i pagamenti effettuati con assegni postdatati (secondo Cass. civ., 11 gennaio 2017, n. 504, l’assegno postdatato, inteso nella sua obbiettiva idoneità strumentale a costituire mezzo di pagamento equivalente al denaro, non perde le sue caratteristiche di titolo di credito, per cui gli atti estintivi dei debiti effettuati con assegni postdatati non costituiscono mezzi anormali di pagamento e non sono, pertanto, assoggettabili all’azione revocatoria fallimentare di cui all’art. 67, comma 1, n. 2, l. fall. Nello stesso senso Cass. civ., 17 febbraio 2016, n. 3136).

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3.3.1. La estinzione di esposizioni (bancarie) pregresse con il ricorso ad ulteriori finanziamenti.

Nell’ipotesi della estinzione di esposizioni (bancarie) pregresse attuate con il ricorso, da parte dell’imprenditore, a diversi ed ulteriori finanziamenti – per lo più caratterizzati da profili variamente meno rischiosi per l’Istituto di credito -, è evidente che i pagamenti effettuati per estinguere o ridurre le esposizioni pregresse sono di per sé soggetti a revocatoria. In quanto effettuati con denaro, e rivolti a soddisfare crediti già scaduti, risulterebbero revocabili a condizione che il curatore dimostri la conoscenza dello stato di insolvenza dell’imprenditore da parte della banca; nonché – e soprattutto – a condizione che il fallimento sia stato dichiarato entro 6 mesi (art. 67, 2° co., l.fall.).

La giurisprudenza peraltro qualifica come “complessa” la operazione costituita dalla accensione di un finanziamento (in ipotesi, a medio/lungo termine) per la estinzione di un debito pregresso (in ipotesi, scaduto ed esigibile nell’immediato), e le attribuisce un carattere “anomalo” rispetto alla gestione ordinaria dell’impresa.

Ciò consente a tale giurisprudenza di assoggettare il pagamento (in denaro) della esposizione originaria (bancaria) alla revocatoria prevista per gli atti estintivi di obbligazioni posti in essere con mezzi anormali: in tal modo producendo

(i) l’inversione dell’onere della prova a carico della banca; e

(ii) il raddoppio dell’entità del “periodo sospetto”.

L’orientamento di cui si discorre si è espresso in quattro principali direzioni: (i) quella dell’attribuzione di un carattere “anormale” alle operazioni di “ristrutturazione” delle passività

bancarie attraverso l’erogazione di finanziamenti fondiari; (ii) quella della attribuzione di un carattere “anormale” alle operazioni di riduzione di esposizioni bancarie

pregresse attraverso il ricorso all’utilizzo di linee di credito comportanti per la banca finanziatrice l’assunzione di un rischio meno pronunciato rispetto a quello originario;

(iii) quella della attribuzione di un carattere “anormale” ad operazioni di finanziamento effettuate a favore di terzi ma poi produttive dell’effetto finale di estinzione (o riduzione) delle esposizioni della banca nei confronti del fallito; e

(iv) quella della attribuzione tout court della natura di mezzo di pagamento (subito qualificato anormale) a figure contrattuali che, pur senza coincidere con i negozi tipicamente funzionali alla costituzione di garanzie a favore del creditore (quali il pegno e l’ipoteca), tuttavia sono utilizzate (sovente) dalle parti per conseguire identici effetti – è il caso dei negozi di cessione di credito e di mandato irrevocabile all’incasso, oltre che del meno frequente caso delle delegazioni di pagamento-.

I. Per quel che concerne la prima ipotesi, si tratta di stabilire se il finanziamento fondiario erogato all’imprenditore allo scopo di rimborsare finanziamenti concessigli precedentemente dalla (stessa) banca, goda della “esenzione” dalla revocatoria da sempre riservata all’operazione della specie (cfr. art. 67, 3° co., l.fall. previgente, e 67, 4° co., attuale) – come ne godrebbe il finanziamento fondiario impiegato dall’imprenditore per effettuare una operazione speculativa dalle conseguenze rovinose -; oppure assuma la veste di mezzo anormale di pagamento e consenta la revocatoria dell’ipoteca alla stregua della disciplina di cui all’art. 67, 1° co., n. 2) l.fall. In argomento v. infra, sub) art. 67, II, nn. 7.10. ss).II. Per ciò che concerne il secondo tema, si tratta di stabilire se il pagamento di un debito pregresso (poniamo, per saldo “scoperto” di conto corrente bancario), effettuato dall’imprenditore con ricorso ad un corrispondente finanziamento concessogli dallo stesso creditore (poniamo, attraverso l’anticipazione di fatture o di crediti commerciali in genere), presenti i profili di un atto assoggettabile a revocatoria fallimentare alla stregua della disciplina dei pagamenti con mezzi anormali, oppure ne debba essere mandato esente per la mancanza di incidenza sul patrimonio del fallito. La Corte di Cassazione ha affermato in argomento il principio secondo il quale è “paradossale il risultato cui è pervenuto il giudice di merito: quello di configurare un pagamento del debito eseguito con denari dello stesso creditore”, aggiungendo che l’estinzione di esposizioni bancarie pregresse conseguite con l’utilizzo di linee di credito messe a disposizione dalla stessa banca, quantunque assistite da garanzie originariamente inesistenti, “non dà vita a pagamenti revocabili… appunto perché, in tal caso, manca l’effetto tipico del pagamento, ossia l’estinzione o la riduzione del debito, che invece resta intatto, anche se corredato da garanzie inizialmente non previste … (ipotesi, quest’ultima, che

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può eventualmente comportare la revocabilità di dette garanzie ai sensi dell’art. 67, 1° comma, nn. 3 e 4)”: Cass., 30 settembre 2005, n. 19217, in Foro it., 2005, I, 3297.III. Per quel che concerne il terzo tema, un orientamento giurisprudenziale emerso relativamente di recente qualifica come “motivo illecito” quello posto alla base di operazioni complesse, comportanti la effettuazione di finanziamenti a soggetti terzi, produttivi della liberazione di risorse finanziarie destinate al soddisfacimento di crediti pregressi della banca verso il fallito, con la conseguenza di ritenere assoggettabili alla disciplina dell’art. 67, co. 1, l.fall. le garanzie costituite a presidio delle somme erogate (secondo Cass. civ., 15 ottobre 2012, n. 17650, in tema di revocatoria fallimentare, qualora venga stipulato un mutuo con concessione di ipoteca al solo fine di garantire, attraverso l’erogazione di somme, poi refluite in forza di precedenti accordi e prefinanziamenti, per il tramite di un terzo, nelle casse della banca mutuante, una precedente esposizione dello stesso soggetto o di terzi, è configurabile fra i negozi posti in essere – prefinanziamento, mutuo ipotecario e pagamenti infragruppo – un collegamento funzionale, ed è individuabile il motivo illecito perseguito, rappresentato dalla costituzione di un’ipoteca per debiti chirografari preesistenti: tale garanzia sarebbe, pertanto, revocabile, ai sensi dell’art. 67, co. 1, l.fall., in quanto concessa per un nuovo credito, la cui erogazione è finalizzata all’estinzione di credito precedente chirografario. Nello stesso senso Cass. civ., 9 ottobre 2012, n. 17200).IV. Per quel che riguarda il quarto tema, si tratta di stabilire se le operazioni creditizie (bancarie) assistite da strumenti contrattuali quali la cessione del credito, oppure il mandato (irrevocabile) all’incasso, originino sempre ipotesi di assoggettabilità all’azione revocatoria fallimentare concepita per gli atti estintivi di obbligazioni posti in essere con mezzi anormali; oppure non li originino mai, costituendo eventualmente il presupposto per la promozione delle azioni revocatorie rivolte contro gli atti costitutivi di garanzie; ovvero, infine, possano essere assoggettate talora ad un regime, talora all’altro, in relazione ai singoli casi di specie.

In effetti, è possibile che la cessione del credito ed il mandato irrevocabile all’incasso perseguano uno scopo solutorio: in questi casi essi dovranno essere assoggettati all’azione revocatoria fallimentare prevista dall’art. 67, 1° co., n. 2) l.fall. Condizione di ciò è che il conferimento dell’una o dell’altro abbiano prodotta l’estinzione dell’obbligazione pregressa (alla stregua di una datio in solutum).

E’ anche possibile, peraltro, che il credito pregresso non venga affatto estinto, ma che per favorirne l’adempimento venga rafforzata l’aspettativa di riscossione da parte del creditore con l’assegnazione di uno strumento (la cessione di un credito o il mandato a riscuoterlo), che può consentire il conseguimento del soddisfacimento del credito per altra via. In questo caso, non sussistono ragioni per non assoggettare la detta cessione od il detto mandato alla disciplina dell’azione revocatoria fallimentare dei corrispondenti strumenti di rafforzamento del credito che sono gli atti costitutivi di garanzia (quindi, alla disciplina prevista dall’art. 67, 1° co., n. 3) o n. 4) l.fall.: infra).

Può infine accadere che la stipulazione della cessione del credito oppure il conferimento del mandato (irrevocabile) all’incasso costituiscano il corrispettivo della concessione del finanziamento (come avviene precisamente, rispettivamente, per le operazioni di “anticipazione su fatture”, oppure di “anticipazione salvo buon fine” di crediti commerciali): nel qual caso non vi sono ragioni per non a p p l i c a r e l’art. 67, 2° co., l.fall., e cioè la disciplina revocatoria degli atti costitutivi di garanzie contestuali (v. in argomento Cass. civ., 2 novembre 2017, n. 26067, e infra).

4. LE GARANZIE COSTITUITE O CONSEGUITE PER DEBITI PREESISTENTI SCADUTI O NON SCADUTI.

IV.1. Definizione.

La terza e la quarta categoria di atti che l’art. 67, 1° co., l.fall. assoggetta a revocatoria fallimentare “salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato di insolvenza del debitore”, ove compiuti – rispettivamente – entro l’anno o entro i sei mesi precedenti il fallimento, sono rappresentate dai pegni, dalle anticresi, e dalle ipoteche (volontarie o giudiziali) costituiti o acquisiti a garanzia di debiti preesistenti, non ancora scaduti, oppure già scaduti: cioè da atti costituitivi di garanzie non contestuali rispetto al credito garantito.

Le disposizioni in commento vanno considerate congiuntamente a quella parte dell’art. 67, 2° co., l.fall. che assoggetta quegli stessi atti (o buona parte di essi) alla disciplina revocatoria degli atti a titolo oneroso cc.dd. “normali”, quando siano stati posti in essere contestualmente al credito garantito.

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IV.2. Ambito di applicazione.

IV.2.1. Le garanzie non contestuali per debiti altrui

Un dubbio interpretativo di rilievo riguarda l’ambito di applicazione delle disposizioni in esame, sotto il profilo delle caratteristiche del credito garantito: se, cioè, le disposizioni in esame trovino applicazione solamente c o n r i g u a r d o agli atti costitutivi di pegno, ipoteca o anticresi posti in essere per debiti propri del fallito, oppure anche per debiti altrui.

La risposta deve privilegiare la prima soluzione.Per il contesto in cui sono collocate, infatti, le disposizioni dell’art. 67, 1° co., n. 3) e n. 4) l.fall.

hanno senso compiuto in quanto anch’esse siano l’espressione di quella presunzione di scientia decoctionis che accomuna le fattispecie considerate dalla norma, in ragione del carattere anomalo dell’atto posto in essere: carattere “anomalo”, che mentre è effettivamente rintracciabile nella costituzione di una garanzia successiva per un debito proprio, funzionale a rafforzare una esposizione originariamente non garantita – che giustifica la presunzione di un peggioramento della situazione economico-finanziaria del debitore –; è totalmente estraneo, invece, alla fattispecie della costituzione di una garanzia per un debito altrui, che costituisce espressione, se mai, al contrario, di una condizione di tendenziale normalità del soggetto, che dimostra di avere la capacità di impegnare il proprio patrimonio nell’interesse di terzi.

4.3 La diversa entità del “periodo sospetto”

Ferma restando la presunzione di “mala fede” in capo “all’altra parte” – cioè al creditore garantito – , per avere conseguito una garanzia a favore di un credito originariamente non garantito (ovvero una garanzia supplementare rispetto a quelle originariamente costituite); il regime di revocabilità cambia, secondo che il credito così garantito non fosse ancora scaduto, oppure fosse già divenuto esigibile. Nel primo caso, infatti, la revocatoria è ammessa per tutti gli atti costitutivi di garanzia compiuti entro l’anno anteriore al fallimento; nel secondo caso, invece, il “periodo sospetto” è ridotto a sei mesi.

La ragione di ciò può essere individuata nella circostanza che nel secondo caso, trattandosi di debito già scaduto, la costituzione di una garanzia supplementare consente comunque al debitore di evitare l’immediato avvio dell’azione esecutiva da parte del creditore; mentre nel primo caso, la pretesa di una garanzia supplementare a fronte di un credito non ancora scaduto, enfatizza il peggioramento delle condizioni del debitore – agli occhi del creditore – , postulando una valutazione prognostica, da parte del creditore stesso, circa la prevedibile incapacità del debitore di adempiere, al momento della scadenza dell’obbligazione.

5. LA DISCIPLINA REVOCATORIA DEGLI ATTI A TITOLO ONEROSO, DEI PAGAMENTI DI DEBITI LIQUIDI ED ESIGIBILI, E DEGLI ATTI COSTITUTIVI DI UN DIRITTO DI PRELAZIONE PER DEBITI CONTESTUALI.

5.1. Definizione.

L’art. 67, 2° co. , l.fall. prevede l’assoggettabilità a revocatoria fallimentare degli atti a titolo oneroso, dei pagamenti di debiti scaduti, e degli atti costitutivi di diritti di prelazione per debiti contestuali – atti, tutti definibili e definiti come “atti normali”, in contrapposizione a quelli previsti nel primo comma della stessa norma –, a condizione che essi siano stati posti in essere nei sei mesi anteriori al fallimento, e “se il curatore prova che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore”.

5.1.2. La definizione di “stato di insolvenza”.

Per ciò che concerne il presupposto rappresentato dall’assolvimento, da parte del curatore fallimentare, dell’onere della prova della scientia decoctionis del convenuto in revocatoria, occorre in via preliminare stabilire cosa si intenda per “stato di insolvenza”. Il termine di riferimento più appropriato pare essere costituito dall’art. 5 l.fall., secondo il quale “lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Non appartiene invece al presupposto soggettivo di assoggettabilità di un atto di disposizione all’azione revocatoria fallimentare prevista dall’art. 67, 2°

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co., l.fall. la conoscenza della qualità di imprenditore commerciale (o in generale di soggetto sottoponibile a fallimento) del debitore insolvente.

5.1.3. La prova della scientia decoctionis.

Quanto poi alle modalità con le quali pervenire alla dimostrazione della scientia decoctionis in capo al soggetto convenuto in revocatoria, trattandosi di una condizione psicologica si dovrà ricorrere per lo più a prove indirette, essendo improbabile che il convenuto in revocatoria “confessi” in giudizio di essere stato consapevole della condizione di insolvenza del debitore; o che se ne riesca a fornire una prova documentale.

È pacifica, pertanto, l’ammissibilità del ricorso, da parte del curatore, alla prova per presunzioni (art. 2727 ss. c.c.).

Per ciò che concerne l’oggetto della prova che il curatore deve fornire, esso è rappresentato dalla dimostrazione (sia pure attraverso presunzioni) che il terzo aggredito in revocatoria conosceva positivamente, in fatto, la condizione di insolvenza del fallito: non essendo sufficiente la eventuale conoscibilità in astratto di tale condizione (in argomento v. Cass. civ., 17 ottobre 2017, n. 25635; Cass. civ., 14 gennaio 2016, n. 526).

L’affermazione del principio, in termini generali, è chiara. La sua applicazione nelle aule dei Tribunali, peraltro, è molto spesso discutibile.

Casistica.In materia di rilevanza delle notizie di stampa concernenti l’impresa poi fallita, per esempio, si è

valorizzata – al fine di considerare raggiunta la prova della scientia decoctionis – la congettura secondo la quale “l’inesistenza di un dovere di lettura della stampa …. non esclude che, in concreto, secondo l’id quod plerumque accidit, una notevole parte della popolazione (ivi inclusa quella che dirige o collabora all’attività d’impresa) sia solita consultare la stampa ed informarsi di quanto essa pubblica, anche per propria utilità, oltre che per curiosità” (Cass. civ., 8 febbraio 2017, n. 3299).

5.2. Gli “atti a titolo oneroso”

La categoria degli “atti a titolo oneroso” si presenta già di per sé particolarmente ampia: ma la portata della norma in commento assume dimensioni anche maggiori, se si considerano gli effetti degli approfondimenti condotti in sede giurisprudenziale e dottrinale.Anzitutto la categoria degli “atti a titolo oneroso” è concepita come una categoria di carattere residuale, capace di comprendere tutti gli atti non contemplati nelle disposizioni precedenti, anche se a rigore non precisamente inquadrabili nella nozione di “atti a titolo oneroso.

Casistica.Sono considerati “a titolo oneroso”, ai fini dell’assoggettabilità all’azione revocatoria fallimentare:

- la rinuncia o il mancato esercizio del diritto di opzione, ove all’opzione possa essere attribuito un valore di mercato;- la risoluzione consensuale di un contratto (tuttavia Trib. Milano, 30.8.2010 – in Fallimento, 2010 (12), 1465 (s.m.) -, è costretto a precisare che la dichiarazione della controparte in bonis del fallito, anteriore alla dichiarazione di fallimento, di avvalersi della clausola risolutiva espressa inserita in un contratto inter partes, a differenza della risoluzione consensuale, non è un atto riferibile al fallito, e conseguentemente, non è in alcun modo ascrivibile alla categoria degli atti a titolo oneroso revocabili ai sensi dell’art. 67 l.fall.);

- i “regali d’uso”, o gli “atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di

pubblica utilità”, che sfuggono alla inefficacia prevista dall’art. 64 l.fall., se sono proporzionati al patrimonio del donante. Essi vengono fatti rientrare tra quelli revocabili ai sensi dell’art. 67, 2° co. (ove ne sussistano i presupposti), quantunque non si capisca come un “regalo” od una “liberalità” compiuta da un “donante”, si possano trasformare (solo perché proporzionati al patrimonio del debitore) in un “atto a titolo oneroso”; - ogni atto avente l’attitudine ad incidere sul patrimonio del fallito, anche se compiuto da terzi, e contro la volontà del debitore. Sono così considerati revocabili alla stregua di “atti a titolo oneroso” degli atti che il debitore non ha compiuto, bensì ha subito: come la comunicazione di risoluzione del

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contratto rivolta dalla parte adempiente al contraente poi assoggettato a fallimento; o la domanda giudiziale di risoluzione (o come le stesse ipoteche giudiziali, espressamente enunciate dalla norma).

Quel che più rileva, comunque, è sottolineare come l’assoggettabilità a revocatoria fallimentare degli “atti a titolo oneroso” riguardi in primo luogo tutti gli atti posti in essere per la gestione ordinaria dell’impresa, la cui “normalità”, o la cui stessa indispensabilità per l’esercizio dell’attività economica dell’imprenditore, non valgono a sottrarli alla revocatoria fallimentare (ove beninteso sopravvenga il fallimento entro sei mesi, ed il curatore provi che il contraente del fallito ne conosceva lo stato di insolvenza).

Punto di attenzione. Gli atti “congrui”. Alla stregua di quanto considerato sino ad ora, l’interrogativo, che spesso si pongono i pratici, se possa considerarsi al riparo dall’azione revocatoria la compravendita conclusa “a prezzo congruo”, si rivela mal posto, perché la congruità o la stessa convenienza del prezzo pagato all’imprenditore da un suo cliente, o del prezzo praticato dall’imprenditore a un suo fornitore, sono privi di rilievo.Certamente una compravendita “rovinosa” per il fallito, potrà comportare la più severa applicabilità della azione revocatoria prevista dall’art. 67, 1° co., n. 1), l.fall.: ma non per ciò una compravendita vantaggiosa od addirittura “salvifica” per l’imprenditore poi fallito sarà di per sé sottratta alla revocatoria, potendovi pacificamente essere assoggettata, invece (se intervenuta nel “periodo sospetto”), qualora il curatore fallimentare dimostri che comunque la controparte del fallito era a conoscenza della condizione di insolvenza dello stesso.

Punto di attenzione. Il momento rilevante per l’accertamento della “scientia decoctionis”. In linea di principio il momento rilevante per l’accertamento del presupposto soggettivo di proponibilità dell’azione (la conoscenza da parte del convenuto in revocatoria dello stato di insolvenza del debitore poi fallito) è collocabile all’atto della conclusione del contratto produttivo di effetti sul patrimonio del debitore, piuttosto che all’atto della sua esecuzione. Si pongono anche in questo caso i problemi, già affrontati con riguardo al profilo dell’eventuale carattere “sproporzionato “ delle prestazioni, collegati all’eventuale conclusione di un contratto preliminare (supra, n. 2.4.4.).

5.3. I pagamenti di debiti liquidi ed esigibili.

5.3.1. Definizione.

L’art. 67, 2° co., l.fall. assoggetta a revocatoria, sussistendo i presupposti ivi previsti, “i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili”: i pagamenti, cioè, che per il debitore costituivano atti dovuti, e che l’azione revocatoria ordinaria farebbe salvi (art. 2901, 3° co., c.c.).

Il pagamento viene qui considerato come atto di disposizione a sé stante: non postula la preliminare revocatoria del contratto in esecuzione del quale sia stato eventualmente eseguito (onde non rileva l’eventuale irrevocabilità del contratto stesso, ad es. perché concluso al di fuori del “periodo sospetto”); né postula una indagine sugli scopi e sugli effetti prodotti sul patrimonio dell’imprenditore (onde non rileva, in linea di principio, né che il pagamento fosse indispensabile per la continuazione dell’attività aziendale; né che il pagamento abbia consentito di ottenere una controprestazione, in ipotesi acquisita alla massa fallimentare per essere realizzata e distribuita tra i creditori).

La ragione per la quale vengono assoggettati a revocatoria fallimentare atti che rappresentano l’adempimento di una obbligazione giuridicamente vincolante, quale il pagamento di un debito scaduto, risiede nella considerazione che nella concezione originaria del fallimento e delle funzioni dell’apertura del concorso sul patrimonio del debitore, di fronte all’insolvenza dell’imprenditore commerciale i suoi creditori avrebbero dovuto astenersi dal perseguire il soddisfacimento delle proprie pretese attraverso iniziative individuali, scegliendo piuttosto la via di provocare l’apertura della procedua fallimentare, i n q u a n t o s e d e deputata a favorire il soddisfacimento di tutte le passività del debitore nel rispetto della par condicio creditorum. Di qui l’irrilevanza del carattere pregiudizievole o meno del singolo atto revocando [il c.d. “danno”] (in argomento Trib. (, 28 gennaio 2009, in Fallimento, 2009, 881 (s.m.) giudica ammissibile la revocatoria fallimentare del pagamento ricevuto dal professionista del fallito, senza che abbia rilievo la natura privilegiata del credito soddisfatto, “dal momento che la mancanza del danno viene in evidenza solo in seguito al riparto finale”).

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5.3.2. Ambito di applicazione.

Sono pacificamente assoggettabili a revocatoria fallimentare ex art. 67, 2° co., l.fall. anche i pagamenti cosiddetti coattivi: quelli cioè che il creditore non ottiene spontaneamente dal debitore, ma consegue alla conclusione di una procedura di esecuzione forzata individuale, allorché un giudice (il giudice dell’esecuzione) ordina il pagamento delle percentuali determinate dal progetto di distribuzione di quanto ricavato dall’espropriazione giudiziale condotta in danno del debitore (progetto di riparto predisposto sotto il controllo del giudice stesso): Cass. civ., 29 gennaio 1999, n. 785; GROSSI, La riforma ecc., cit. 550.

L’azione revocatoria non è qui diretta nei confronti del provvedimento di assegnazione del giudice dell’esecuzione, bensì dei successivi e distinti atti di pagamento coattivi. P e r t a n t o , ai fini della inclusione dell’atto solutorio nel “periodo sospetto”, è necessario fare riferimento alla data nella quale il soddisfacimento sia stato concretamente conseguito, e non alla data del provvedimento giudiziale di assegnazione.

In questo contesto, nel passato, si erano registrati motivi di grave disagio in relazione ad una serie di fattispecie, nelle quali, per ragioni non sempre coincidenti, l’applicazione del principio della revocabilità di tutti i pagamenti di crediti pur già scaduti e divenuti esigibili (ed in generale di tutti gli atti a titolo oneroso pur se rivolti a soddisfare una “nobile causa”), era sembrata condurre ad esiti eccessivamente severi. Gli esempi più rilevanti erano quelli costituiti dalla revocatoria delle “rimesse” bancarie (che portava ad evidenziare la revocabilità di somme siderali, e per ciò solo spia di un approccio al problema sicuramente irrazionale); dalla revocatoria degli atti ordinari di commercio – che finivano per trasferire l’effetto dell’insolvenza del fallito anche sulla sua controparte in bonis, aggredita in revocatoria per importi tali, da minarne la sua stessa stabilità -); dalla revocatoria degli acquisti della “prima casa” da imprese edili finite in fallimento (che produceva effetti sociali difficilmente sostenibili).

Di ciò, come si vedrà, ha tenuto conto la riforma della legge fallimentare avviata a partire dall’anno 2005, che pur senza mettere in discussione il principio generale della revocabilità degli atti a titolo oneroso anche in mancanza di danno, e con esso della revocabilità dei pagamenti di crediti anche già scaduti (quindi soddisfatti per un obbligo di legge), ha delineato alcune aree di “esenzione” in favore di soggetti portatori di interessi giudicati prevalenti a quelli di carattere generale sottesi alla disciplina “di diritto comune” dell’azione revocatoria fallimentare.

5.3.3. Il destinatario dell’azione revocatoria dei pagamenti effettuati dal fallito. I finanziamenti bancari in pool e gli accordi di silent transfer.

L’azione revocatoria del pagamento va rivolta nei confronti dello accipiens, e non – in ipotesi – nei confronti del mandatario all’incasso (con rappresentanza). Nella ipotesi di c.d. finanziamento in pool (erogato ad una impresa da un certo numero di banche, agenti attraverso il conferimento di altrettanti mandati con rappresentanza alla c.d. “banca capofila”), la revocatoria fallimentare dei pagamenti effettuati dal mutuatario non deve essere rivolta (solo, e per l’intero), nei confronti della “banca capofila”, ma deve essere proposta nei confronti di ciascuna banca del “pool”, per la quota di finanziamento rimborsata ad ognuna di esse.

In tale fattispecie, i pagamenti dell’imprenditore finanziato da un complesso di Istituti di credito sono indirizzati a favore di una sola banca, che svolge la funzione di “capofila”. Tuttavia detti rimborsi sono destinati ad incidere pro quota sulle porzioni di finanziamento erogate da ciascun Istituto, e la eventuale revocatoria di tali pagamenti può e deve essere indirizzata (non già unicamente ed integralmente nei confronti dell’accipiens – cioè la banca “capofila” –, quanto piuttosto) nei confronti di ciascun Istituto beneficiario del rimborso finale.

La fattispecie del pagamento effettuato dall’imprenditore fallito a fronte di un “finanziamento in pool” è affrontata da T. Bologna, 4.2.2011, n. 286/2011, inedita. La sentenza in esame osserva che la banca capofila opera come mandataria delle altre banche. Non intrattiene cioè un rapporto con la fallita, quale esclusiva contraente (regolando poi rapporti distinti fra sé e le altre banche). Opera come mandataria delle altre banche, per cui sono dunque le singole banche che assumono un rapporto contrattuale con la fallita. “Infine e in via decisiva, deve dirsi come i contratti in questione, tutti e nessuno escluso, vedano la banca capofila, per espressa previsione contrattuale, quale mandataria con rappresentanza. Naturalmente, esiste anche un secondo contratto, il rapporto di mandato; tale secondo contratto, fra le banche associate e la banca capofila, rileva ai fini della regolamentazione del rapporto di mandato; non può

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tuttavia escludere un diretto rapporto fra la fallita e le banche associate in pool. Pertanto il pagamento effettuato dalla fallita alla banca Capofila, a “rientro” del finanziamento deve considerarsi come effettuato alle banche in pool.” A ciò la sentenza bolognese aggiunge poi ulteriori, interessanti precisazioni, osservando che “mentre per i creditori, la regola non è la solidarietà, per i debitori la regola è invece la solidarietà, purché vi sia una fonte comune alle varie obbligazioni, anche extracontrattuali. La regola della solidarietà debitoria può, tuttavia, essere applicata esclusivamente in ipotesi nelle quali si ha una fonte comune o un fatto genetico, extracontrattuale (2055 c.c.), processuale (la solidarietà dei soccombenti in punto a spese di lite), ovvero negoziale.Non può invece darsi solidarietà, in questa fattispecie concreta”.

Fanno ovviamente eccezione le ipotesi nelle quali la esistenza di un accordo interno tra i diversi Istituti di credito non sia stata portata a conoscenza dell’impresa finanziata, la quale abbia inteso di ottenere l’erogazione del prestito dalla sola banca mutuante. La prassi, infatti, conosce la variante dei “finanziamenti in pool” rappresentata dagli accordi di “silent transfer”, nei quali una o più banche assumono una quota del rischio derivante dal contratto di finanziamento concluso da un Istituto di credito con una impresa prenditrice.

Pare ovvio che in questi casi la revocatoria dei pagamenti effettuati dal fallito per rimborsare il prestito possa essere rivolta unicamente ed integralmente nei confronti della banca finanziatrice: salvo lasciare alla disciplina del regolamento dei rapporti interni la soluzione del quesito della addebitabilità degli effetti pregiudizievoli dell’azione revocatoria subita dalla banca finanziatrice anche alle altre banche – pro quota – firmatarie dell’accordo di “silent transfer”.

5.3.4.I pagamenti dei terzi.

Mentre per ciò che concerne la revocatoria delle garanzie, la garanzia costituita da un terzo non è ritenuta revocabile, nel fallimento del debitore principale (potrà esserlo, eventualmente, ove fallisca il terzo garante, nell’ambito del fallimento di questi): per ciò che concerne invece la revocatoria dei pagamenti, è revocabile anche il pagamento del terzo, in linea di principio, con la sola eccezione del pagamento effettuato da un “terzo” che sia anch’esso debitore del creditore soddisfatto, quindi autore del pagamento di un debito anche proprio (ipotesi del pagamento da parte del coobbligato solidale e da parte del fideiussore del fallito).

Punto di attenzione. La effettività della qualità di “terzo” dell’autore del pagamento.I. Il pagamento “del terzo” non è sempre, in realtà, un pagamento effettuato a scapito di un patrimonio estraneo al concorso fallimentare. Relativamente ai rapporti bancari, per esempio, nel caso, assai frequente, del pagamento ricevuto dalla banca da un soggetto “terzo”, diverso dal cliente poi fallito, il pagamento produce in realtà effetti diretti sul patrimonio di quest’ultimo, tutte le volte nelle quali il solvens fosse suo debitore (ad es., i clienti, debitori dei prezzi degli acquisti effettuati o dei servizi ottenuti). In tali fattispecie, infatti, il solvens, pagando alla banca (rectius: pagando all’imprenditore presso la banca da questi indicata), estingue u n a propria obbligazione verso l’imprenditore, che il curatore fallimentare non avrà più titolo ad esigere. Nei limiti in cui il pagamento di questo genere di “terzi” abbia estinto o ridotto un credito della banca verso l’imprenditore poi fallito – come nelle ipotesi nelle quali abbia estinto o ridotto l’esposizione presentata dal conto corrente del fallito sul quale è stato accreditato il pagamento del “terzo” -, tale versamento è revocabile alla stregua di quello che fosse stato effettuato direttamente dal correntista con il denaro che gli fosse pervenuto dal solvens (in argomento v. Trib. Latina, 5 aprile 2016, in www.ilcaso.it).II. Un altro esempio del fenomeno segnalato può essere rappresentato dal pagamento del terzo pignorato: a proposito del quale si deve ritenere che il pagamento del terzo pignorato, debitore del debitore, nell’esecuzione forzata, sia revocabile nel successivo fallimento del debitore, quando abbia inciso sul patrimonio del fallito, perché eseguito con denaro a questi dovuto, essendo il “solvens” obbligato verso il debitore assoggettato ad esecuzione forzata e successivamente dichiarato fallito, e valendo il suo pagamento ad estinguere entrambi i debiti, suo e del debitore ancora “in bonis” (Cass. civ., 20 dicembre 2012, n. 23652).

Punto di attenzione. I pagamenti dei terzi che non hanno inciso sul patrimonio del debitore fallito.La giurisprudenza assoggetta a revocatoria fallimentare anche i pagamenti ricevuti dall’accipiens

(di norma, la banca) da “terzi”, benché si tratti di esborsi che non hanno in alcun modo inciso (negativamente) sul patrimonio dell’imprenditore fallito.

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Casistica.- Il caso del terzo, che avesse indirizzato al fallito un pagamento non dovuto; - il caso del terzo, familiare del debitore, che abbia voluto alleggerirne l’indebitamento per migliorarne

la situazione economica;- il caso, all’interno dei “gruppi” societari, dell’intervento della “capogruppo” in favore di una società

controllata.In questi casi, talora la giurisprudenza perviene alla conclusione della revocabilità del pagamento senza

alcuna condizione; talaltra subordina la revocabilità del pagamento del “terzo”, ricevuto dall’accipiens, alla circostanza che il terzo abbia già recuperato quanto pagato nell’interesse del fallito, a scapito del patrimonio di questi (v. in argomento Cass. civ., 22 gennaio 2009, n. 1609, in Fallimento, 2009, 809; Cass. civ., 31 marzo 2016, in Fallimento, 2017, p. 599).

La conclusione, però, è sempre errata.Se il terzo non si è rivalso sul patrimonio del fallito, il pagamento fatto al creditore ha prodotto soltanto

un alleggerimento dell’indebitamento del fallito e non si comprende la ragione del suo assoggettamento a revocatoria (che dovrà essere preso in considerazione, invece, nell’ambito del fallimento del solvens, ove lo stesso intervenga).

Anche se il terzo si fosse rivalso sul patrimonio del debitore, prima del suo assoggettamento a fallimento, l’azione revocatoria dovrebbe essere rivolta non verso il creditore soddisfatto (dal terzo), bensì nei confronti del terzo stesso, la cui rivalsa avrebbe rappresentato l’atto costitutivo dell’impoverimento del patrimonio del debitore (oltre tutto, questo approccio rende più probabile l’assoggettabilità a revocatoria del rimborso del fallito in favore del terzo, autore del pagamento al creditore, trattandosi di atto necessariamente più prossimo alla data della sentenza dichiarativa di fallimento rispetto al pregresso momento dell’intervenuto pagamento al creditore, quindi con maggiori probabilità di rientrare nel “periodo sospetto”).

Punto di attenzione. Il pagamento del coobbligato solidale del fallito o del fideiussore.Nel passato si è considerato assoggettabile a revocatoria fallimentare anche il pagamento effettuato

bensì dal coobbligato solidale del fallito o dal fideiussore, ma con versamento accreditato nel conto corrente intrattenuto dal debitore principale con la banca, in base alla considerazione secondo la quale l’affluenza su tale rapporto avrebbe fatto rientrare le somme versate nella disponibilità del correntista, al quale avrebbe dovuto essere imputata, pertanto, la riduzione della esposizione bancaria, alla stregua di un pagamento direttamente effettuato dal debitore (Cass. civ., 8 aprile 2004, n. 6943; Cass. civ., 10 settembre 2002, n. 13159; Cass. civ., 16 novembre 1998, n. 11520. In senso negativo, più recentemente, Cass. civ., n. 1609/2009).

L a Corte di Cassazione, con una pronuncia resa a Sezioni Unite (Cass. Civ., SS.UU., 12 agosto 2005, n. 16876, in Fallimento, 2005, 1233, con nota di G. TARZIA, Pagamento del fideiussore con accredito sul conto corrente bancario del fallito, e revocatoria fallimentare: intervengono l e Sezioni Unite; nello stesso senso, Cass., 7 dicembre 2012, n. 22247), ha affermato che in tema di azione revocatoria fallimentare le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili ai sensi dell’art. 67, secondo comma, l.fall., quando risulti:(i) che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito;(ii) che il terzo, utilizzatore di somme proprie, non abbia proposto azione di rivalsa verso

l’imprenditore prima della dichiarazione di fallimento; e(iii) che il terzo abbia così adempiuto un’obbligazione relativa ad un debito proprio,

sicché il creditore convenuto in revocatoria è onerato della sola prova della provenienza del pagamento dal terzo, configurandosi la relativa allegazione come un’eccezione in senso proprio, mentre incombe sul curatore, una volta accertata l’avvenuta effettuazione del detto pagamento, la dimostrazione, anche mediante presunzioni semplici, che la corrispondente somma sia stata fornita dal fallito.

Più recentemente, Cass. civ., 15 febbraio 2016, n. 2903, in Fallimento, 2017, p. 232; Cass. civ. 2 novembre 2017, n. 26062 – in una fattispecie di pagamento effettuato dal prestatore di una garanzia autonoma -; e Cass. civ., 9 ottobre 2017, n. 23597, hanno chiarito che la rimessa effettuata da un terzo sul conto corrente bancario del debitore, poi fallito, costituisce ex se un atto neutro, con valenza meramente contabile; e che in tale ipotesi occorre verificare il negozio nel quale la rimessa trova causa, allo scopo di stabilire se il pagamento sia o meno dovuto; se sia annullabile o revocabile; e distinguendo, all’interno delle rimesse, se queste siano riferibili al correntista, al terzo debitore del

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fallito, ovvero al terzo che sia anche debitore della banca. In tale contesto la Cassazione ha

confermato l’indirizzo interpretativo già

propenso ad affermare che il principio di autonomia contrattuale consente al fideiussore di un correntista di estinguere l’obbligazione derivante dallo “scoperto” di conto corrente, da lui garantita, anche in modo indiretto, mediante accredito della somma sul conto del fallito, anziché in modo diretto, mediante versamento nelle mani della banca creditrice. Nello stesso senso Cass. civ., 9 gennaio 2019, n. 277, ha affermato che “ in tema di azione revocatoria fallimentare, le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito e che il terzo, utilizzatore di somme proprie, non abbia proposto azione di rivalsa verso l’imprenditore prima della dichiarazione di fallimento, né che abbia così adempiuto un’obbligazione relativa ad un debito proprio”.

5.3.5. La natura giuridica del pagamento del terzo.

Una volta risolto il problema, di quali sarebbero le fattispecie nelle quali il pagamento ricevuto dal creditore del fallito sarebbe assoggettabile a revocatoria fallimentare nonostante la sua provenienza da un terzo, la giurisprudenza si trova poi di fronte all’ulteriore quesito di stabilire a quali condizioni la domanda revocatoria sarebbe accoglibile. Si pone l’alternativa, infatti, di considerare gli effetti prodotti dal pagamento ex latere creditoris, con conseguente assegnazione del pagamento alla categoria degli atti a titolo oneroso, avendo comportato per l’accipiens la corrispondente riduzione, per pari ammontare, del credito vantato nei confronti dell’imprenditore (con conseguente applicabilità della disciplina dell’art. 67, 2° co., l.fall.); oppure di considerare gli effetti del pagamento ex latere solventis, con conseguente assegnazione del pagamento alla categoria degli atti a titolo gratuito, tutte le volte che il solvens – come accadrà di norma – non ne abbia tratto un corrispondente vantaggio diretto per il proprio patrimonio, risultando se mai favorito il patrimonio del debitore principale: con la conseguente applicazione dell’art. 64 l.fall.

In realtà, si deve ritenere che non ci debba essere spazio mai per l’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare in danno dell’accipiens – né in danno di chicchessia -, perché il pagamento del terzo non solo non ha prodotto alcun pregiudizio sul patrimonio del debitore fallito – che, al contrario, ha beneficiato dell’estinzione dell’obbligazione verso il creditore, co n corrispondente riduzione del passivo concorrente -: ma in più non ha prodotto alcun altro effetto che il curatore fallimentare sia legittimato (oltre che interessato) a contrastare, avendo comportato, tutt’al più, la surrogazione del solvens nelle ragioni di credito dell’accipiens, né più né meno che se il creditore avesse ceduto il credito vantato verso il fallendo ad un terzo, e ne avesse ricevuto il pagamento in corrispettivo – negozio questo insindacabile da parte del curatore fallimentare, fermi restando i limiti alla compensabilità del credito acquistato dal cessionario con propri eventuali debiti verso il fallito, secondo quel che prevede l’art. 56, 2° co., l. fall. -.

Punto di attenzione. Il parallelo tra le garanzie dei terzi ed i pagamenti dei terzi.

Per ciò che concerne l’ipotesi della garanzia del terzo, non si è mai messa in discussione la esclusione della possibilità di assoggettarla a revocatoria, in occasione del fallimento del debitore principale.

Il “pagamento del terzo” e la “garanzia del terzo” sono irrevocabili tout court nell’ambito del fallimento del debitore (principale), per la circostanza di essere pacificamente soggetti a revocatoria in occasione del fallimento del terzo (come pagamento del debito altrui e come garanzia costituita per crediti altrui); ed essere addirittura soggetti, nei suoi confronti, all’azione revocatoria ordinaria, da parte dei suoi creditoriSe si considera il caso delle situazioni di “insolvenza di gruppo”, in cui risultino assoggettabili al fallimento tanto il debitore (principale), quanto il terzo solvens (o il terso datore di garanzia), è evidente l’inaccettabilità di una tesi che condurrebbe a ritenere assoggettabile il creditore ad una doppia revocatoria (del pagamento o della garanzia ricevuta), tanto ad opera del fallimento del debitore – che invocherebbe l’asserita revocabilità del pagamento o della garanzia del terzo -; quanto ad opera del fallimento del terzo – che invocherebbe l’ovvia assoggettabilità a revocatoria fallimentare dei pagamenti effettuati dal fallito, anche se (o tanto più quando) rivolti all’estinzione di debiti altrui, o delle garanzie costituite a scapito del proprio patrimonio, tanto più se nell’interesse altrui -.

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In questa prospettiva, la circostanza che il solvens abbia o non abbia conseguito il rimborso di quanto pagato da parte del debitore fallito è irrilevante, perché anche in caso positivo l’azione revocatoria fallimentare dovrebbe essere rivolta nei confronti del solvens, per la restituzione di quanto eventualmente ricevuto dal debitore fallito a seguito dell’eventuale esercizio del regresso.

Punto di attenzione. Il pagamento del debito altrui: promuovibilità dell’azione revocatoria nei confronti del creditore soddisfatto e del debitore liberato.

Nelle situazioni nelle quali, diversamente dall’ipotesi considerata nei paragrafi che precedono, ad essere dichiarato fallito è (anche, o solo) il soggetto che è stato autore del pagamento di un debito non proprio, non si è di fronte al “pagamento del terzo”, bensì ad una “normale” ipotesi di “pagamento del fallito”: rispetto alla quale bisogna valutare quali effetti produca la circostanza che il fallito ha pagato, nell’occasione, un debito altrui.Nella corrispondente situazione della garanzia prestata per un debito altrui, con fallimento del garante, la soluzione è relativamente semplice: la garanzia non può che essere revocata in danno del creditore beneficiario, perché sarebbe questi il soggetto legittimato ad avvalersene, insinuandola al passivo.

Nell’ipotesi del pagamento del debito altrui la situazione è più complessa, se non altro perché può riflettere due diverse sotto-fattispecie: quella nella quale il fallito fosse obbligato anch’esso all’adempimento del debito altrui (fideiussore; coobbligato solidale); e quella nella quale il fallito non fosse obbligato all’adempimento del debito altrui, che ha, invece, comunque soddisfatto.

Nel primo caso l’azione revocatoria fallimentare è esperibile in danno del creditore, non rilevando la circostanza che l’obbligazione adempiuta vincolasse anche altri. L’azione revocatoria sarà inquadrabile nella disciplina dell’art. 67, 1° co., n. 2) l.fall., oppure nella disciplina dell’art. 67, 2° co., l.fall., secondo il carattere normale o anormale del mezzo di pagamento utilizzato.

Nell’ipotesi invece che il pagamento del debito altrui sia stato effettuato dal fallito senza esservi tenuto, si pone in via preliminare il problema se l’azione revocatoria fallimentare debba essere rivolta nei confronti dell’accipiens; oppure debba essere rivolta nei confronti del debitore liberato (alla stregua, come si è ricordato, della revocatoria di un atto di donazione indiretta); o ancora, infine, possa essere promossa nei confronti di entrambi i soggetti (salvo non consentire al curatore di pervenire ad una doppia restituzione della somma pagata).

Stante l’onnicomprensività della portata dell’azione revocatoria fallimentare, che abbraccia in qualche modo tutti gli atti del fallito, ricompresi tra i due estremi degli atti a titolo gratuito e degli atti a titolo oneroso, l’azione è esperibile tanto nei confronti del debitore liberato, quanto nei confronti del creditore soddisfatto. A) Nei confronti del debitore liberato, il pagamento del terzo fallito potrà essere assoggettato all’azione revocatoria fallimentare prevista dall’art. 64 l.fall. – alla stregua, come accennato, di una donazione indiretta -; B) Mentre nei confronti del creditore soddisfatto, l’azione revocatoria fallimentare potrà essere promossa soltanto ai sensi dell’art. 67 l.fall. (primo o secondo comma, in relazione allo strumento di pagamento utilizzato), cioè alla stregua di un atto a titolo oneroso, stante la corrispondente estinzione del credito che l’accipiens vantava verso il debitore liberato (secondo Trib. Milano, 12 aprile 2005, in Fallimento, 2005, 1437 (s. m.), “il pagamento del debito altrui è un atto a titolo oneroso, revocabile nei confronti dell’accipiens ai sensi dell’art, 67 legge fallimentare”. Secondo Trib. Mantova, 8 luglio 2005, in Fallimento, 2006, 823, con nota di VACCHIANO, Il pagamento, da parte del fallito, del debito altrui: atto a titolo oneroso o atto a titolo gratuito?, l’adempimento del debito altrui costituisce atto a titolo gratuito solamente nel rapporto tra il creditore accipiens ed il debitore [?], mentre in quello tra il fallito ed il creditore esso costituisce sempre un atto estintivo di una obbligazione derivante da una causa onerosa).

Caso di specie. Le operazioni di addebito / accredito nel rapporto di “cash pooling”.Rappresenta una ipotesi particolare di pagamento del debito altrui l’addebito ricevuto dalla

controllante i n conseguenza della estinzione del saldo debitore formatosi sul conto corrente bancario della controllata (“conto rubricato”), per giroconto al conto corrente bancario (“conto pool”) della controllante stessa, in esecuzione di un contratto di “cash pooling”.Il caso rientra nel più ampio fenomeno della disciplina della revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario (art. 67, co. 3, l.fall.), onde se ne rinvia l’esame alla competente sede - infra, sub) art. 67, II, n. 6.3.6. -.

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5.3.5. Il pagamento dei debiti garantiti (su beni del fallito).

L’art. 67, 2° co., l.fall. assoggetta a revocatoria fallimentare, sussistendone il presupposto

cronologico ed il presupposto soggettivo rappresentato dalla scientia decoctionis del debitore da parte del creditore, i “pagamenti di debiti liquidi ed esigibili”, senza distinguere secondo che le obbligazioni soddisfatte avessero carattere chirografario oppure carattere privilegiato; e senza distinguere se il pagamento abbia provocato un pregiudizio patrimoniale al fallito, oppure no (perché rivolto a regolare, ad esempio, l’acquisto di un bene rinvenuto nel patrimonio del fallito dopo l’apertura del concorso; conseguentemente inventariato in funzione della liquidazione fallimentare; e in ipotesi produttivo di un ricavato superiore al costo sopportato per l’acquisto).

In questo contesto, non è da ostacolo alla revocabilità del pagamento, effettuato dal fallito nel “periodo sospetto”, la circostanza che esso abbia essere soddisfatto un credito che era destinato comunque ad essere pagato, in quanto assistito da una garanzia (capiente) su uno o più beni del fallito.

Deve pertanto essere considerato assoggettabile a revocatoria fallimentare il pagamento conseguito attraverso la vendita di un bene gravato da pegno già “consolidato” in favore del creditore soddisfatto (che, dunque, avrebbe trovato sicuro soddisfacimento anche in sede di esecuzione fallimentare; e che non ha prodotto effetti pregiudizievoli sul patrimonio del costituente il pegno, né sotto un profilo oggettivo, né sotto il profilo soggettivo del rispetto della “par condicio”).

La circostanza c h e il ricavato dalla vendita del bene costituito in pegno sia stato destinato a soddisfare un credito assistito da garanzia reale non più assoggettabile a revocatoria non ha rilievo, per le ragioni che la fuoriuscita del bene dal patrimonio del fallito è giudicata come atto pregiudizievole per definizione; e che non può essere esclusa a priori la sopravvenienza di creditori assistiti da cause di prelazione poziori (Cass. civ., 19 dicembre 2012, n. 23430. Trib. Napoli, 24 ottobre 2012, in Fallimento, 2013 - in una fattispecie di pagamento di un debito verso un professionista (avvocato) -, ha affermato che l’azione revocatoria ex art. 67, comma 2, l.fall., dell’atto oneroso non è subordinata alla ricorrenza di un danno in concreto per la massa, “identificandosi quest’ultimo nel puro e semplice fatto della lesione della par condicio creditorum, ricollegabile alla presunzione assoluta all’uscita del bene dalla massa come conseguenza dell’atto di disposizione”).

Punto di attenzione. Gli effetti della revocatoria del pagamento del credito privilegiato sulle garanzie che lo assistevano.

Il pagamento del debito estingue le garanzie che lo assistevano. La revocatoria fallimentare del pagamento non ne produce la “reviviscenza”, né in via generale, né – tanto meno – con riguardo ad una ipotesi di collocazione della pretesa, conseguente alla restituzione al fallimento delle somme revocate, con il grado che sarebbe stato assegnabile al credito soddisfatto.

Subita la revocatoria fallimentare, il titolare del credito privilegiato originariamente soddisfatto non può che perseguire una insinuazione al passivo della somma restituita al fallito ai sensi dell’attuale art. 70 l. fall. -infra, sub) art. 70., n. 6 -, e nessuno spazio è individuabile per una “reviviscenza” della originaria garanzia.

5.4. Gli atti costitutivi di un diritto di prelazione per debiti contestualmente creati.5.4.1. Definizione e ambito di applicazione.

L’art. 67, 2° co., l.fall. assoggetta a revocatoria fallimentare, alle condizioni già precisate, “gli atti… costitutivi di un diritto di prelazione per debiti contestualmente creati”.La disposizione in esame fa riferimento ad atti produttivi di una prelazione: quindi alle garanzie quali l’ipoteca, il pegno, od il privilegio (convenzionale).

Si deve peraltro ritenere che la disciplina in commento si applichi anche alla cessione di credito, quando tale contratto è utilizzato per soddisfare una funzione di garanzia (quindi nella versione c.d. pro solvendo, nella quale il soggetto finanziato è obbligato ad adempiere il credito garantito, nei limiti nei quali il finanziatore-cessionario non risulti integralmente soddisfatto dalla riscossione del credito cedutogli).

Ricorre tipicamente questo fenomeno nelle operazioni bancarie di anticipazione di crediti commerciali (anticipo fatture; anticipo ricevute bancarie; anticipi all’esportazione; ecc.), nelle quali

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peraltro la cessione dei crediti anticipati svolge una funzione di garanzia (“reale) nei limiti della percentuale concretamente anticipata dalla banca, laddove l’importo del credito ceduto che supera l’entità della anticipazione erogata può produrre, se riscosso dalla banca, un pagamento dell’eventuale esposizione residua (diversa da quella originata dall’anticipazione), soggetto come tale alla normale disciplina della revocatoria dei pagamenti (secondo Cass. civ., 12 luglio 2013, n. 17268 – in Fallimento, 2014 (4), 475 (s.m.) -, in ipotesi di anticipazioni bancarie disposte in favore di società poi fallita ed assistite da contestuali cessioni di crediti da parte di quest’ultima, sono suscettibili di revocatoria, ex art. 67, secondo comma, l.fall., ove eseguiti nel periodo sospetto e ricorrendo la “scientia decoctionis” dello “accipiens”, gli accrediti sui conti correnti della cedente di somme costituite dai pagamenti effettuati alla banca dai debitori ceduti, nella misura i cui eccedano le anticipazioni, a fronte delle quali le cessioni erano state stipulate, essendo indubitabile che tali eccedenze siano state utilizzate dalla banca per ridurre l’esposizione debitoria della società finanziata nei suoi confronti).

5.4.2.Il concetto di “contestualità”.

Il carattere “contestuale” della garanzia viene valutato dalla giurisprudenza in termini logici, piuttosto che cronologici: nel senso che viene considerata “contestuale” – e conseguentemente assoggettata al regime previsto dall’art. 67, 2° co., l.fall., piuttosto che al più severo regime dettato dall’art. 67, 1° co., nn. 3 (e 4) – la garanzia che ha costituito il corrispettivo per la concessione del credito, ed in mancanza della cui concessione – dunque – il credito non sarebbe stato concesso. Ove gli atti posti in essere dalle parti dimostrino che nell’ipotesi nella quale la garanzia non fosse stata costituita, il credito non sarebbe stato concesso, la circostanza che quest’ultimo sia stato erogato quando la garanzia non era ancora stata formalmente posta in essere, o “perfezionata”, non viene considerata rilevante al fine di escluderne la contestualità (Cass. civ., 18 marzo 2005, n. 5984; Cass.civ., 21 marzo 2003, n. 4126, in Foro it., 2003, I, 1402. In dottrina, per tutti, DI IULIO, La modifica del primo e del secondo comma dell’art. 67, l.fall, in L’azione revocatoria nella nuova legge fallimentare, a cura di Gio. Tarzia, Di Iulio e Farina, Milano, 2006, 140).

Così si è giudicata contestuale l’ipoteca iscritta (e dunque sorta) alquanti giorni successivi all’erogazione del mutuo garantito.

Analogamente si è giudicato contestuale al credito il pegno costituito con i beni (titoli o strumenti finanziari) acquistati attraverso l’utilizzazione dello stesso credito concesso, per poi essere costituiti in garanzia di esso: dove a rigore la concessione del credito ha preceduto non solo la costituzione del pegno, ma lo stesso acquisto da parte del datore di pegno dei beni che avrebbero poi costituito l’oggetto della garanzia (in argomento cfr. Di IULIO, op.cit., 140 ss.).

Punto di attenzione. Il momento rilevante al fine della “contestualità” ed il momento rilevante al fine del “consolidamento” della garanzia.

In materia di costituzione delle garanzie è necessario prevenire la possibile confusione che investe l’accertamemto dell’appartenenza al “periodo sospetto” rilevante, ai fini dell’esercitabilità dell’azione revocatoria fallimentare, quando l’azione è rivolta a contestare un atto per così dire “a formazione progressiva”.

In materia di ipoteca, l’accertamento della data costitutiva della garanzia, al fine di verificarne l’inerenza o meno al “periodo sospetto”, è sempre riferita alla data della iscrizione, e non già alla data (di norma precedente) della concessione (o comunque, della creazione del titolo attributivo del diritto di iscrivere l’ipoteca).

Per ciò che concerne il pegno, il corrispondente accertamento deve essere effettuato con riguardo al giorno della consegna del bene al creditore pignoratizio, e non già nel giorno della stipulazione del contratto di pegno.

5.4.3. Le operazioni di “consolidamento” del debito (bancario).

L’operazione conosciuta come “consolidamento” di debiti (a breve termine) è frequente nei rapporti intercorrenti tra le imprese e le aziende bancarie. Nelle situazioni nelle quali l’indebitamento bancario a breve termine ha assunto dimensioni eccessive, che comportano elevati costi per interessi passivi (magari capitalizzati trimestralmente), e grave fragilità patrimoniale (perché la facoltà delle

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banche di recedere unilateralmente da tale genere di finanziamenti può provocare il default dell’impresa debitrice), il primo intervento suggerito dai consulenti finanziari dell’imprenditore è quello di trasformare i debiti bancari a breve termine in debiti a medio-lungo termine, estinguibili sulla base di un programma di “ammortamento” graduale, in modo tale da conseguire effetti favorevoli sulla gestione economica, e soprattutto tranquillità e “solidità” della struttura finanziaria (perché l’accordo di “rientro” graduale preclude il diritto della banca di pretendere l’integrale pagamento del finanziamento in unica soluzione).

Il maggior rischio connaturato al differimento della scadenza del debito, legato alla maggiore incertezza sulla solvibilità del debitore nel medio-lungo periodo, viene compensato con la concessione di garanzie, prima non sussistenti: e la consueta tecnica di “consolidamento” dell’indebitamento bancario a breve termine è per l’appunto rappresentata dall’erogazione all’impresa di mutui garantiti da ipoteca, e rimborsabili sulla base di un piano di ammortamento rateale di medio/lungo termine, con utilizzo delle somme così erogate per l’estinzione delle precedenti esposizioni bancarie a breve termine.

Una applicazione automatica dell’azione revocatoria fallimentare comporterebbe tuttavia la conseguenza che, una volta dimostrata dal curatore la conoscenza dello stato di insolvenza da parte della banca (anche in conseguenza della situazione di tensione finanziaria, a causa della quale si è resa necessaria l’operazione di “consolidamento”), si proceda all’assoggettamento a revocatoria fallimentare sia dell’ipoteca (rendendo così il finanziamento erogato privo di garanzie); sia del pagamento conseguito dalla banca per i crediti a breve termine precedentemente concessi: così producendosi il raddoppio dell’esposizione (per di più in chirografo) della banca verso l’imprenditore affidato.

Tale pericolo è scongiurabile solo allorquando ricorrano fattispecie di “esenzione” dall’azione revocatoria fallimentare - infra, sub) art. 67, II, n. 7.10.4. -.

5.4.4 Le operazioni di “anticipo IVA”.

Situazione emblematica delle possibili “storture” derivanti dall’applicazione “oggettiva” della disciplina della azione revocatoria fallimentare è quella relativa ai crediti vantati dall’imprenditore verso lo Stato per l’IVA versata in eccedenza.

Lo Stato ritarda a lquan to nell’adempiere l’obbligazione di rimborsare all’imprenditore l’IVA versata in eccedenza, il ché può comportare una “crisi” di liquidità per l’imprenditore. Le banche sono però restie ad anticipare all’imprenditore gli importi dei crediti da questi vantati verso lo Stato, perché la cessione del credito IVA in favore della banca anticipatrice sarebbe revocabile, nel fallimento successivo, in presenza dei presupposti di cui all’art. 67, 2° co., l.fall., quantunque l’atto posto in essere con la banca si sia risolto nel rendere disponibili all’impresa somme “indebitamente” trattenute dallo Stato.

5.4.5. La disciplina delle “garanzie finanziarie”.

La disciplina introdotta dal d.lgs. n. 170/2004, che ha dato attuazione nel nostro Paese alla Direttiva 2002/47/CE in materia di contratti di garanzia finanziaria, equipara definitivamente la cessione del credito al pegno (e cfr. in particolare, per ciò che concerne l’applicabilità degli artt. 66 e 67 l.fall., l’art. 9, comma 2°, lett. a) d.lgs. n. 170/2004), in tutte le fattispecie nelle quali risultino applicabili le disposizioni speciali dettate in materia di “garanzia finanziaria”.

L’ambito d’applicazione di queste ultime è particolarmente ampio, ove si tenga conto che:

a) per “garanzia finanziaria” si deve intendere, per l’appunto, anche il contratto di cessione del credito – oltre che di trasferimento della proprietà di attività finanziarie con funzione di garanzia -, volto a garantire l’adempimento di “obbligazioni finanziarie”, allorché stipulato tra determinati soggetti;

b) per “obbligazioni finanziarie” si devono intendere tutte le obbligazioni (anche condizionali o future) al pagamento di una somma di denaro (o anche alla consegna di strumenti finanziari), “anche qualora il debitore sia persona diversa dal datore della garanzia” (cioè anche in caso di costituzione di garanzia per debiti altrui: art. 1, lett. o), d.lgs. cit.);

c) per “contraenti” rilevanti devono intendersi, da una parte, in pratica, tutti gli enti creditizi e finanziari; e, dall’altra parte, tutte le imprese ed in generale le “persone diverse dalle persone

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fisiche” – art. 1, n. 5, lett. d) d.lgs. cit. -: cioè, in pratica, tutti i soggetti suscettibili di essere sottoposti al fallimento.

La disciplina revocatoria delle “garanzie finanziarie” è peraltro spesso intesa come una delle fattispecie di “esenzione” da tale azione: conseguentemente essa sarà esaminata nella sede dedicata a tale argomento - infra, sub) art. 67, II, n. 8.5. -.

5.4.6. Le garanzie reali per debiti altrui in generale.

Prima della riforma della legge fallimentare attuata dal d. l. n. 35/2005, né l’art. 67, 1° co., l.fall., né l’art. 67, 2° co., disciplinavano espressamente il regime revocatorio delle garanzie prestate per debiti altrui.

La riforma ha modificato l’art. 67, 2° co., l.fall., prevedendone espressamente l’applicabilità anche agli atti costitutivi di un diritto di prelazione “per debiti, anche di terzi, contestualmente creati…”: così affermando esplicitamente che le garanzie produttive di un diritto di prelazione (quali il pegno o l’ipoteca), se costituite contestualmente al credito garantito, sono suscettibili di revocatoria (soltanto) come “atti a titolo oneroso”, e non già (mai) come “atti a titolo gratuito” , anche se costituite “per debiti... di terzi”.

L’innovazione normativa ha perseguito l’obiettivo, ed ha conseguito il risultato, di avvalorare l’orientamento giurisprudenziale favorevole all’applicazione dell’art. 2901, 2° co., c.c. anche all’azione revocatoria fallimentare proposta contro le garanzie contestuali prestate per debiti altrui (Cass. civ., 8 luglio 20905, n. 1437; AMBROSINI, La revocatoria fallimentare delle garanzie, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Ambrosini, Bologna, 2006, 137, che dissente dalla soluzione del legislatore, ma ammette che “è… una scelta opinabile, di cui peraltro non resta che prendere atto”; MACARIO, Azione revocatoria e prestazione di garanzia, cit., 609; SANTANGELI, Osservazioni a prima lettura sui nuovi articoli 67 e 70 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, cit.; IANNIELLO, Il uovo diritto fallimentare. Guida alla riforma delle procedure concorsuali, Milano, 2006, nt. 28; ARATO, Fallimento: le nuove norme introdotte con la l. 80/2005, in Dir. fall., 2006, I, 180; SANDULLI, La nuova disciplina dell’azione revocatoria, in Fall., 2006, 613; PERUGINI, La nuova revocatoria fallimentare, cit., 21; FEDERICO e VIVALDI, La riforma del concordato preventivo e della revocatoria fallimentare, Maggioli Ed., 2005, 36//judicium.it//news/ius _02_09_05/santangelidir.comm. fall.html ).

5.4.7. Le garanzie personali per debiti altrui.

Come detto, il nuovo art. 67, 2° co., l.fall. afferma che sono soggette alla disciplina dell’azione revocatoria fallimentare ivi prevista (e non, quindi, a quella prevista per gli atti a titolo gratuito dall’art. 64 l.fall.), le garanzie costituite anche per debiti altrui, se contestuali al credito garantito, e quando rappresentate da “atti costitutivi di un diritto di prelazione”.

La norma oggi si allinea al principio dettato, in termini generali, per ciò che concerne l’azione revocatoria ordinaria, dall’art. 2901 c.c.: e ci si domanda, se la c.d. presunzione di onerosità prevista per tutte le garanzie contestuali dall’art. 2901 c.c. ai fini dell’azione revocatoria ordinaria, e per tutti gli atti costitutivi di prelazione contestuali al credito ai fini dell’azione revocatoria fallimentare, possa e debba essere estesa, in via interpretativa, anche alle garanzie contestuali diverse da quelle costitutive di diritti di prelazione (tipicamente: le fideiussioni), (anche) ai fini dell’azione revocatoria fallimentare.

La risposta deve essere affermativa, non sussistendo ragione che giustifichi una distinzione, ai fini che qui interessano, tra garanzie (contestuali) per debiti altrui produttive di un diritto di prelazione, e garanzie (contestuali) per debiti altrui prive di tale effetto. La scelta effettuata dal legislatore depone chiaramente per l’attribuzione di un rilievo decisivo, nel caso di specie, alla considerazione degli effetti della garanzia sul creditore, piuttosto che sul (patrimonio del) garantito (PANZANI, Il DL 35/2005, la legge 14 maggio 2005, n 80 e la riforma della legge fallimentare, in www.fallimento.ipsoa.it, p. 21): e sarebbe totalmente privo di razionalità abdicare da una valutazione legale della composizione degli interessi in gioco, per lasciare spazio alla inevitabile opinabilità di una valutazione (discrezionale) giudiziale.

Va da sé, che identica conclusione dovrà essere indicata anche per i negozi ugualmente produttivi dell’effetto di rafforzamento del diritto del creditore all’adempimento dell’obbligazione assunta dal

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creditore, stipulati contestualmente al credito al quale accedono (cessione del credito; mandato irrevocabile all’incasso).

5.4.8. Le garanzie per debiti altrui non contestuali al credito garantito.

Per le garanzie costituite per debiti altrui, ma successivamente alla concessione del credito garantito, non vale alcuna delle “presunzioni” poste dalla legge in materia di revocatoria, ordinaria o fallimentare, degli atti costitutivi di garanzia.

Non valgono le presunzioni di “onerosità” disposte dall’art. 67, 2° co., l.fall., e dall’art. 2901, 2° co., c.c., perché relative alle sole garanzie contestuali.

Non valgono le presunzioni di anomalia poste dall’art. 67, 1° co., n. 3) e 4) l.fall., perché relative – come detto – alle sole garanzie (non contestuali) per debiti propri.La circostanza che il garante abbia costituito un diritto di prelazione su un proprio bene, o abbia assunto l’obbligazione di adempiere un debito, nell’interesse di un altro debitore, potrà costituire in linea di massima il sintomo di una condizione ordinaria della sua impresa (capace di impegnarsi anche per altri): ma la valutazione del singolo caso di specie rimarrà rimessa alla discrezione del giudice. Nell’alternativa tra l’applicazione dell’art. 64 l.fall. oppure dell’art. 67, 1° co., n. 3) o n. 4) l.fall., potrà rivestire carattere decisivo l’accertamento della esistenza di una controprestazione a carico del creditore favorito (come la concessione di una dilazione; la riduzione del tasso di interessi; eccetera), che potrà indurre a privilegiare la valutazione del fenomeno ex latere creditoris, come portato dell’innovazione normativa inserita nell’art. 67, 2° co., l. fall., anche nelle situazioni nelle quali l’effetto favorevole della prestazione posta a carico del creditore si produca sul patrimonio del debitore principale, anziché sul patrimonio del terzo garante (in tale prospettiva dovrà tenersi conto della recente puntualizzazione secondo la quale “l’ onerosità della garanzia [ipotecaria] non può essere provata per testi, in quanto costituisce una componente sinallagmatica del medesimo negozio, per il quale è prevista la forma scritta ad substantiam, e deve trovare riscontro in un atto avente la sua stessa forma, anche ai sensi dell’art. 2704 codice civile” (Trib. Padova, 5 luglio 2005, in Fallimento, 2006, 728 – s.m. -).

5.4.9. Le garanzie cc.dd. “infragruppo”.

La fattispecie della prestazione di garanzie “infragruppo” è quella per la quale più frequentemente si è posto il dubbio sui criteri utilizzabili per l’eventuale attribuzione del carattere gratuito all’atto di disposizione – attesa la possibile mancanza di un interesse diretto della società garante rispetto alla concessione del credito (bancario) alla società favorita -, con conseguente assoggettabilità all’azione revocatoria fallimentare ex art. 64 l.fall., quale atto a titolo gratuito.

Per ciò che concerne le garanzie “infragruppo” prestate contestualmente al credito garantito, la nuova formulazione dell’art. 67, co, 2, l.fall. non consente l’applicazione dell’ art. 64.

Neppure si ritiene astrattamente prospettabile l’applicabilità dell’art. 67, co. 1, n. 1) l. fall, concernente gli atti cc.dd. “sproporzionati”.

Qualsiasi garanzia, per quanto “esuberante” - per valore o numero dei beni che ne sono oggetto, o per l’entità del patrimonio del garante –, può essere fatta valere dal creditore rigorosamente nei limiti dell’importo dell’obbligazione garantita, dovendosi riconoscere l’eventuale eccedenza del ricavato dalla sua escussione al garante: di tal ché, il creditore può realizzare la garanzia al massimo per un ammontare equivalente a quello del credito garantito, e mai per un importo superiore – quell’importo, che se fosse consentito al creditore di incamerare potrebbe costituire il presupposto dell’attribuzione alla garanzia del carattere di “atto sproporzionato” –.

Le garanzie “infragruppo” contestuali rimarranno pertanto esclusivamente assoggettabili all’azione revocatoria fallimentare di cui all’art. 67, co. 2, l. fall.

Per le garanzie “infragruppo” non contestuali non sono rinvenibili presunzioni legali in un senso o nell’altro, donde la necessità dell’esame della fattispecie caso per caso, al fine di accertare i presupposti della sussistenza di un atto a titolo gratuito (così assoggettabile all’azione revocatoria di quell’articolo 64 l. fall.); ovvero di un atto titolo oneroso (così assoggettabile all’azione revocatoria di quell’articolo 67, co. 2, l. fall.).

Ferma restando la condizione pregiudiziale del fallimento della società garante, che ha posto in essere l’atto (costitutivo della garanzia ) teoricamente assoggettabile a revocatoria (e ribadendo pertanto

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l’irrilevanza dello stesso nell’ipotesi di fallimento della società garantita), il dubbio sul carattere oneroso ovvero gratuito dell’atto deve essere risolto, in virtù di quanto sopra osservato, alla luce dell’assetto di interessi concernente il creditore garantito (e non la società garante, fallita).

Conseguentemente dovrà essere assoggettata alla revocatoria fallimentare degli atti a titolo oneroso (art. 67, co. 2, l. fall.) la garanzia “infragruppo” prestata per un debito pregresso di una diversa società del “gruppo” (quindi, non contestuale rispetto al credito garantito ), allorché il creditore garantito abbia “ bilanciato “ l’ottenimento della garanzia con la concessione di una proroga all’adempimento, od altro vantaggio al debitore favorito.

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