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Agostino Molteni Avvenimento cristiano e modernitá nel Diario di Kierkegaard

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Agostino Molteni

Avvenimento cristiano e modernitánel Diario di Kierkegaard

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De inquirenda veritateCollana di studi filosofico - letterari promossa dal Centro Culturale “Augusto Del Noce” di Pordenone, in occasione del decimo anniversario della morte di Augusto Del Noce (1910 - 1989).

Con il patrocinio della

Provincia di Pordenone

© Editrice Leonardo Via Cristoforo Colombo, 4 33037 Pasian di Prato UD www.editriceleonardo.it

© Centro Culturale “Augusto Del Noce” Via Poffabro, 1 – 33170 Pordenone www.centrodelnoce.it

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INDICE

PREMESSA ....................................................................................... 7

IL SUO COMPITO (ESISTENZIALE) ............................................... 9

I. L’ABOLIZIONE DEL CRISTIANESIMO ...................................... 35

I cristiani immaginari ..................................................................37Il “Professore” della scristianizzazione (e i suoi seguaci) ...............47Un’operazione criminale, cioè gnostica ........................................65Le chiacchiere per ricchi della teologia prebendata ......................93

II. IL CRONISTA CRISTIANO ..................................................... 117

Il bel fatto cristiano e il suo perdono .........................................119Cristiano, per Grazia (con timore e tremore) .............................135La fede e la ragione analfabeta ...................................................165La sua felicità cristiana ...............................................................185

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‘IL PUNTO DI VISTA CRISTIANO È:C’È SEMPRE BISOGNO DI UNO SOLO

(DIARIO 2989*)

La categoria del ‘Singolo’ così come Kiekegaard l’ha rappresentata nei suoi ‘Papirer’ egregiamente tradotti da Cornelio Fabro, è ciò che più mi appassiona dello scrittore danese, così come la conseguente critica al cristianesimo concepito come dottrina anziché come esistenza.

Per anni mi sono trovato a sorprendermi di questa scoperta e a ri-flettere su di essa con l’amico don Agostino Molteni, trovando sempre un confortante aiuto a comprendere meglio e più a fondo un pensiero che sentivo mio in ogni brandello di lettura dell’opera kierkegaardiana, a co-minciare proprio dal Diario. Sono davvero lusingato che questo libro sia legato in qualche modo a quei colloqui ‘edificanti’.

Tutto il pensiero di Kierkegaard è da considerarsi ‘edificante’, nel senso che erige un edificio dalle fondamenta dell’esistenza umana ren-dendo decisivo il rapporto con la realtà. E la prima realtà dell’uomo è di essere isolato davanti a Dio, abbandonato e tutto solo davanti a Dio.

Da qui il disprezzo di Kierkegaard per la ‘folla’ , per il ‘numero’, la sua contrarietà all’idea stessa di ‘cristianità’, ovvero l’attribuire l’aggettivo ‘cristiano’ a entità che non siano riferite al singolo uomo, unico soggetto beneficiario della Grazia della fede. Per lo scrittore danese ‘l’io aumenta con l’idea di Dio, e reciprocamente l’idea di Dio aumenta con l’idea dell’io. Non è altro che la coscienza di essere davanti a Dio che fa del nostro io concreto, individuale, un io infinito’ (La malattia mortale).

L’accento forte sul ‘Singolo’ – a mio avviso – non è un retaggio lu-terano dell’autore, ma è piuttosto un chiaro riferimento al prototipo del Singolo che è Abramo o l’Apostolo.

L’edificazione dello spirito comporta uno scavo dalle fondamenta dell’io, così che l’uomo, partendo da una maggiore consapevolezza di sé, è spinto ad una decisione, disperare o credere. L’’esistenzialismo’ di Kier-kegaard indica e favorisce questa opera di edificazione di sé, mentre ‘la cristianità è comodona: di qui quella tendenza all’unità’ (Diario 3028*).

Sergio Paroni

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A Sergio e Marcella, amici singolari.

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PREMESSA

Questo breve saggio nasce dalla trascrizione del nucleo tematico fondamentale delle lezioni su Kierkegaard che ho proposto agli amici del Centro Cultural Charles Péguy di Concepciòn, in Cile. Le ho considerate come una introduzione al significato del fatto cristiano attraverso l’acuta esposizione del danese.

In realtà, tutto è nato da molto più lontano, dall’amicizia con coloro a cui dedico di cuore questo libro che, nelle vacanze passate insieme in diverse estati, mi hanno appassionato all’opera kierkegaardiana, che già in parte conoscevo, e soprattutto al Diario.

Poiché in questo saggio è riproposta solo una sintesi delle lezioni svolte in Cile, ne rimangono escluse le parti inerenti alla vita del filosofo e alle altre sue opere, così come i riferimenti a studi critici.

Non sono trattate nemmeno le affinità tra Kierkegaard e Péguy di cui avevo parlato nelle lezioni. Le intuizioni di Kierkegaard, infatti, mi sono apparse in tutta la loro evidente e drammatica attualità alla luce dell’ope-ra di Péguy. Chi conosce qualcosa degli scritti del francese si accorgerà subito di come il giudizio sulla scristianizzazione sia identico a quello di Kierkegaard.

Cornelio Fabro, traduttore e grande conoscitore del Diario ha scritto che “è la sua creatura prediletta. [...] Se c’è una chiave dell’opera kierkega-ardiana o è il Diario o non ve n’è alcuna”. In questo senso, il nostro saggio può considerarsi una introduzione al pensiero di Kierkegaard.

In esso, tuttavia, sono stati affrontati solamente alcuni temi trattati nel Diario di Kierkegaard, a prescindere da relazioni e confronti con l’in-tera opera del filosofo.

Due, in particolare, sono i suggerimenti tematici che emergono con evidenza dalla lettura dell’attualissimo testo kierkegaardiano: la “cronaca” della scristianizzazione, che si è prodotta all’interno e per colpa della cristianità moderna, e la dimensione esistenziale e personale

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con cui Kierkegaard ha vissuto e descritto l’avvenimento cristiano.Il saggio non pretende di esaminare tutte le implicazioni delle af-

fermazioni contenute nel Diario; in questo senso, non si vuole fare una esposizione critica esauriente, “scientifica”, del pensiero kierkegaardiano. Può essere considerato, più semplicemente, una introduzione alla com-prensione necessariamente sintetica di due nuclei tematici che ci sembra-no decisivi, in quanto attualissimi, nell’opera del danese.

La necessità di sintesi, dipendente dalla stessa natura delle lezioni svolte, ha impedito non solo un riferimento completo ai numerosissimi testi sui vari temi trattati, ma anche un’analisi dettagliata e onnicompren-siva di tutte le sfaccettature presenti nel Diario.

Per questo motivo, il registro linguistico del saggio riproduce il tono colloquiale di quelle lezioni, non formale, non accademico; in fondo era-no conversazioni tra un “io” e il “tu” dei miei giovani amici e volevo evi-tare l’errore che lo stesso Kierkegaard denunciava: “Siamo sempre alla vecchia sofistica, quella di poter parlare, ma non conversare. Perché il conversare pone subito il tu e l’io e simili questioni che reclamano il sì o il no” (2423*). In quelle conversazioni non volevamo proprio assomigliare a quel lettore ideale di cui il nostro aveva “invidia”: “L’unico di cui potrei dire di essere invidioso è ‘lui’, quando verrà: lui ch’io chiamo il “mio let-tore”, colui che in pace e silenzio potrà, in modo puramente intellettuale, gustare il dramma della comicità infinita che offre la mia esistenza qui a Copenaghen” (2027*).

Nondimeno, soprattutto per quel che riguarda la prima parte – la diagnosi kierkegaardiana della scristianizzazione – ho incontrato nella let-tura del grande filosofo Augusto del Noce le stesse osservazioni fatte nelle lezioni: Kierkegaard ha colto con acutezza la pretesa dell’hegelismo di ricomprendere la novità cristiana all’interno di categorie gnostiche, che, con la mediazione hegeliana, sono rinate nella modernità in un modo nuovo rispetto all’antica.

Concordando con ciò che scrive Cornelio Fabro, che “è pur il Cat-tolicesimo che con sospiri, con gemiti, con proteste è invocato nella sua opera quasi ad ogni pagina”, si potrebbe definire il nostro saggio come il tentativo di una lettura “cattolica” del Diario di Kierkegaard: ho cercato di valorizzare i suggerimenti e le intuizioni esistenzialmente desiderose di un incontro con una “realtà” cristiana che fosse, per lui, realmente cattolica.

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Nella stesura del saggio ho utilizzato due diverse edizioni del Diario, poiché in un primo tempo – nel periodo in cui ho steso le prime note, che sarebbero poi convogliate nelle lezioni – arrivato in missione in Brasile e poi in Cile, ho potuto disporre dell’antologia del Diario curata da Fabro e solo in seguito, a distanza di alcuni anni, ho potuto studiare l’intera opera in dodici volumi curata dallo studioso friulano. Le due edizioni sono:1. Søren Kierkegaard, Diario (a cura di Cornelio Fabro), Morcelliana,

Brescia 1983, 12 volumi. 2. Søren Kierkegaard, Diario (a cura di Cornelio Fabro), Rizzoli BUR,

Milano 1979Sono utilizzati due simboli diversi per indicare il testo da cui i pen-

sieri del filosofo sono tratti:1.* edizione 1983; 2. ^ edizione 1979

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IL SUO COMPITO ESISTENZIALE

“Søren Aabye Kierkegaard, di anni 35, costituzione gracile, Magister ar-tium, cognato dell’agente Lund, abitante in via tale, numero tale...” (2065*).

Era cioè nato nella modernità, nei tempi moderni, nei tempi cioè “dopo Gesù, senza Gesù” (come scriveva l’altro grande, Péguy). Un’ope-razione criminale era stata compiuta: la scristianizzazione causata dai cri-stiani della cristianità moderna. Non si era mai visto un crimine più gran-de di questo, nella storia.

Era nato in Danimarca, fra “quei quattro gatti che siamo a Copena-ghen” (4249*). Aveva una genialità ben diversa da quella degli intellettua-li della felicità cristiana. Voleva dire e scrivere solo le cose che accadevano, che lui vedeva e riconosceva, senza inventarsi né immaginarsi nulla. A volte, è vero, bisogna riconoscerlo, si metteva a fare il teologo e il filosofo, ma gli riusciva meno bene e le sue parole potevano diventare ambigue; no, non era questa la sua genialità.

Scriveva nel suo Diario le cose che vedeva ogni giorno e che lo fa-cevano cristianamente piangere: “Come si dice di solito: «Nulla dies sine linea», così io posso dire di questo viaggio: «Nulla dies sine lacryma.» (704*). E, nello stesso tempo, il suo Diario era un giudizio su quello che vedeva: “Se dopo la mia morte si volesse pubblicare il mio Diario, si po-trebbe mettere questo titolo: “Libro del giudice” (2208*).

Niente è cambiato dai suoi tempi, anzi. Lo aveva previsto: “So che verrà un tempo in cui quanto scrivo sarà valutato per la sua alta saggezza. So che a quel tempo la figura del mondo non sarà per nulla cambiata...” (25 settembre 1855^).

Quello che ha scritto nel suo Diario è, soprattutto oggi, attuale. La diagnosi che lui ha fatto di come la cristianità ha abolito, deformato, sna-turato i bei fatti e le belle cose cristiane, il bel fatto e avvenimento cristia-no, è giusta e necessaria. Quello che vedeva e annotava negli appunti del suo Diario quasi quotidiano, quelle stesse cose bisogna oggi riproporre e

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ridire, con le stesse parole, poiché non sono che la cronaca di quell’ope-razione criminale che lui vedeva accadere nella cristianità e che faceva di-ventare i cristiani degli “spostati”: “Così con gli uomini per la religione; se non divengono pazzi, finiscono per essere degli spostati” (2460^), come poi dirà, con la stessa definitiva sentenza e giudizio, il gran Péguy.

Ma ha anche descritto, in un modo giusto, il bel fatto cristiano che il Signore gli concedeva di vivere per Grazia.

Per questo, per queste due cose che scriveva nel suo Diario, vale la pena ascoltarlo e leggerlo, soprattutto oggi.

Lui era un “semplice privato”, (2119^) come riconobbe davanti al re Cristiano VIII. Si definiva sempre come uno senza “autorità”: “Senz’au-torità’ è stata la mia categoria” (2976*). Non voleva essere scambiato con uno che è importante e decisivo per l’esistenza cristiana: “Non voglio es-sere scambiato per un Apostolo. [...] Questo è il senso della mia continua espressione “senza autorità” (1852*).

Quello che viveva e scriveva non voleva che fosse preso come il giudizio definitivo di chi sa tutto: “Senza autorità, per indicare che non obbligo né giudico gli altri” (2151*). Non si considerava cristianamente un “illuminato” come tanti filosofi e scrittori che bazzicavano in Euro-pa da qualche tempo: “Lungi da me il pretendere di essere un cristiano eminente” (1883*). Né, tantomeno, voleva mettersi in cattedra, su uno scranno ad insegnare, come facevano quei “professori” illuminati: “Non sono io il maestro: lungi da me questo pensiero; sono io invece che vengo educato. Se fossi io il “maestro”, potrei essere tentato di fare l’importante e diventare un uomo serio, forse anche un “professore” (1857*).

Quello che scriveva e pensava era il suo modo di vivere l’ esistenza, di essere presente a se stesso e nel mondo: “Come scrittore sono un genio di una natura speciale... senza autorità e perciò continuamente intento ad annientare se stesso per non diventare autorità per nessuno. [...] Il mio pensiero è assolutamente atto di presenza” (1852*).

Non si credeva, insomma, un eletto da Dio, dotato di un’autorità che veniva da Lui: “Dio mi ha aiutato a cominciare con una circostanza. Io non ho cominciato con quella certezza infinita che riposa nell’elezione da parte di Dio e conferisce autorità; invece fin da principio io ero l’infelice, il sofferente, e così ho cominciato. [...] Questa situazione rende impossibile l’autorità” (2761*).

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Certo, riconosceva che Dio gli aveva fatto vedere, riconoscere e in-tuire cose che a nessuno di coloro che vivevano ai suoi tempi aveva dato: “Non è per mio merito ch’io ho un’impressione così profonda del Cristia-nesimo” (2824*).

Proprio per questo, riconosceva che era esistenzialmente spropor-zionato rispetto a ciò che Dio gli aveva dato capire e riconoscere: “La mia vita non è così alta da esprimere adeguatamente ciò che mi è stato con-cesso di esporre” (2852*).

Tutto questo significava che non aveva nessuna “autorità clerico-mondana” (2347*). Non aveva un’autorità ecclesiastica, né clericale, non aveva incarichi o poteri ecclesiali nel seno della cristianità. Non era, in-somma, un clericale, uno di quelli che si servono del Cristianesimo per i loro affari politico-clericali: “Io sono al servizio di Dio, ma senza autorità. Il mio compito è di «far posto», così che Dio possa muoversi” (4381*). Non voleva, come i clericali, che l’attenzione e gli onori fossero per lui: “La mia attività è «rendere gli uomini attenti a ciò che è il Cristianesimo [...] Ma io non ho autorità” (2037^).

Si riconosceva una nullità davanti a Dio: “Io stesso ho dovuto im-parare in umiltà, annientamento, compunzione, con una profondità che difficilmente qualcuno riuscirà mai ad imparare da me e per mio mezzo, che un uomo è un nulla davanti a Dio” (1293^). “Io non ho niente, io sono nulla: non ho che la rara purezza della mia causa, il mio disinteresse, il mio sacrificio” (2711*).

Ed era ben lontano, quindi, dal pensare che ci fosse bisogno di una genialità speciale, nei tempi tristi che gli toccava vivere: “Ciò di cui ha bisogno il nostro tempo non è un genio – di geni ne abbiamo avuti abba-stanza – ma un martire: di uno che per insegnare agli uomini ad obbedire, lui stesso si è fatto obbediente fino alla morte [Fil. 2,8]” (1581*).

La sua era una genialità normale, quella di un uomo che vive di cose quotidiane e non ci costruisce sopra scale di idee, la genialità di un cri-stiano che, soprattutto, ama quell’Oggetto unico che è Gesù: “Gli uomini, i praticoni dicono di me che non sono buono a nulla, che non combino nulla nella pratica. [...] Però di amare, come sono capace! Questa è la mia unica genialità. Un oggetto quindi, solo un oggetto. Ecco ciò che io ho sempre cercato. Sì, e l’ho anche trovato! [...] Ora l’ammetto, certamente,

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Tu, o Dio, mi hai aiutato sia a cercare come a trovare” (4124*).Per questo riconosceva d’essere solo un povero peccatore: “Però io

non sono un santo; sono un penitente” (1793^). Aveva imparato fin da bambino, che nessuno può vantarsi d’alcuna coerenza davanti a Cristo: “Da bambino m’insegnarono che si sputò su Cristo. Ora, io non sono che un pover’uomo e un peccatore e chissà che così non riesca a cavarmela un po’ meglio!” (1559^). Si considerava solo un povero peccatore che non si dà troppa importanza giacché la sua miseria cristiana non glielo per-mette: “Che io non dimentichi l’unica cosa necessaria, cioè di piangere i miei peccati. Questo pensiero può subito dar aria e dissipare ogni pretesa d’importanza” (1867^).

Era un uomo ferito, insomma, uno che aveva una ferita che non lo faceva stare tranquillo davanti a Dio, una ferita che non aveva limiti né misure, che non si poteva consolare alla bella e buona; insomma, una fe-rita umana come quella di ogni uomo religioso, che riconosce essere una nullità davanti a Dio: “Mettersi in rapporto con Dio, essere davvero reli-giosi senza portare una ferita, confesso che mi è inesplicabile” (2234^).

Davanti a Dio e alle cose: si tratta sempre della stessa ferita. Questa ferita non lo faceva stare tranquillo, non solo davanti a Dio, ma anche davanti alle cose di tutti i giorni: “Io mi sono arrischiato nella vita, ferito da un’incrinatura originale” (1181^).

Non voleva definirsi cristiano, come gli altri della cristianità ufficia-le: “Il Cristianesimo è presentato da uno che dice di se stesso di non essere cristiano” (3642*).

Ma non voleva neanche lamentarsi dei suoi tempi, in cui le cose an-davano cristianamente male; non sarebbe stato cristiano: “Se l’affliggersi e il lamentarsi fosse il vero atteggiamento cristiano, come sarebbe inutile allora chiamare nostro Signore e Maestro il nostro Modello! Egli non si è appartato per piangere su tutti i peccati del mondo! Ed Egli tuttavia por-tava tutti i peccati del mondo [Is. 53,4], ciò che noi tuttavia non abbiamo l’obbligo di fare” (744*). Era solo un cronista senza nessuna autorità; quindi non aveva rancore contro nessuno per le cose che non andavano cristianamente bene: “Io sono senza autorità, io non rimprovero nessu-no, neppure uno, né laico né pastore” (4486*). Non voleva prendersela con nessuno né lamentarsi: “Io non rimprovero nulla a nessuno. Non c’è

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uomo a cui io rimproveri qualcosa: sono gli uomini che non mi hanno capito. [...] Io non ho mai guardato dall’alto in basso nessuno, nemmeno il garzone o la domestica più umile. [...] Solo per aver una volta dimenti-cato di dare il «Buon giorno» a una domestica, ne ho sofferto come di un delitto e ho temuto che Dio mi volesse abbandonare” (1762*).

Era senza rancore, non ce l’aveva con nessuno: “Non è mia inten-zione né la mia vocazione di voler offendere o toccare personalmente o attaccare un solo uomo” (1875*). Era proprio contrario alla sua natura, a se stesso, a quello che riconosceva di essere – cioè un povero peccatore – lo sfizio di andare in giro a predicare apocalissi imminenti e spaventose: “Era quanto mai estraneo alla mia natura il pensiero di voler spaventare gli altri” (2408*).

Lamentarsi ed essere risentiti, in fondo, era una offesa a quello che valeva ogni uomo: “Devo fare di tutto per rendere gli uomini attenti, aven-do davanti a me il pensiero che ogni uomo è un oggetto enorme e che neppure uno va sprecato, tanto meno mille” (2009*).

Ed era anche una concessione al vizio moderno, quello di parlare sempre male di tutti: “Ma io non devo comportarmi come chi, per giu-dicare, aggredisce tutti gli altri” (2575*). Lamentarsi, giudicare, attaccare (e nascondere la mano che tira il sasso) era un “affare” che già facevano troppo bene i giornalisti, su cui lui avrebbe volentieri ordinato di fare fuoco (2131*): “Attaccare per nome qualche singolo determinato, io non posso; perché nello stesso momento mi tocca in qualche modo fare una concessione al “pubblico”, che dovrebbe fungere da istanza. E allora per non fare questa concessione, preferisco non toccare nessuno” (2523*).

Non reputava di essere “chissà chi” quando si scandalizzava di quel-lo che vedeva nella cristianità: “Se non fossi personalmente un penitente talvolta mi sarei scandalizzato del Cristianesimo; ma io non oso lagnarmi. [...] La coscienza del peccato mi chiude la bocca” (1920*).

Per questo, anzitutto, le parole che scriveva e diceva non volevano cambiare e riformare gli uomini, ma erano dirette a se stesso: “A differen-za degli altri oratori che parlano ad altri, io parlo a me stesso” (2372*).

In fondo, non aveva neanche tempo di lamentarsi, non aveva che da ringraziare: “Lamentarmi? Oh no; io non potrò mai ringraziare abba-stanza Dio per il bene indescrivibile che mi ha fatto, assai più di quanto potessi aspettarmi” (2865*).

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Non si lamentava dei tempi che “gli toccava” vivere, anzi non avreb-be voluto vivere in un’altra epoca, perché quella che viveva gli serviva, anche troppo, per riconoscere ciò che non era più Cristianesimo e ciò che invece lo era ancora: “Non potrei mai desiderare un altro tempo per vivere. Una simile conoscenza dell’uomo, ovvero la conoscenza del gene-re ch’io mi procuro, non si può pagare con oro: ed era proprio di questo ch’io avevo bisogno per illustrare il Cristianesimo” (1601*). In fondo per lui era scontato che si debba permanere dentro una realtà per conoscerla senza schifarsi né turarsi il naso: “Non si può in fondo ottenere una vera impressione della realtà cristiana tenendosi fuori dalla situazione della realtà” (2528*). Ora invece, intorno a lui, nella cristianità c’era solo “una calma triviale dell’illusione dove tutto è lasciato alla decisione puramente interiore” (2528*).

Meno che meno voleva essere un apologeta, che vede nemici dap-pertutto, che si fa venire la fissazione di un nemico immaginario per so-pravvivere mediocremente e, senza accorgersi, diventare uguale a lui: “I cattolici e i protestanti a furia di disputare finivano per farsi il cattolico protestante e il protestante cattolico” (201*).

Tutti nemici, cioè tutti uguali, tutti cristianamente omologati in una mediocrità dialettica astratta, senza carne né sangue: “Credo sia Basilio o uno dei Gregori che dice: «Il martirio è ormai impossibile, perché anche i nemici si dicono cristiani». Esattissimo! È quel che succede ora qui da noi” (4262*).

Ai suoi tempi fare l’apologeta era diventato un affare da eruditi, una moda scientifica, non certo una questione di vita e di morte: “Tutto si al-lontana dall’esistenziale. Nei tempi antichi si scrivevano apologie, ch’era-no nella situazione della realtà contro i pagani. Ora si ha una scienza che si chiama apologetica, una scienza sullo scrivere apologie!” (3506*).

Non voleva fare l’apologeta cristiano, uno di quegli “esperti di sal-vataggio” (3679^) di cui era piena la cristianità moderna, uno di quelli che vogliono salvare persino Gesù (e molto meglio di Lui), un apologeta erudito che vuole salvare con tre o quattro ragionamenti il bel fatto cri-stiano.

Non voleva essere un apologeta che si affanna a cercare un fonda-mento intellettuale al bel fatto cristiano con le sue sottigliezze intellettuali,

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sterili e impotenti: “Non sono le ragioni che fondano la fede nel Figlio di Dio, ma la fede nel Figlio di Dio è la testimonianza” (2370*).

Proprio perché si voleva dimostrare il fondamento del bel fatto cri-stiano, già era evidente che non si credeva più alle ragioni e, ai segni e agli indizi che Gesù stesso aveva dato e continuava a dare. Lui si era già reso conto che stava nascendo una nuova scienza clericalmente erudita, la scienza della teologia fondamentale, quella che voleva dimostrare i fon-damenti del bel fatto cristiano.

Ma a che poteva servire tutto ciò? Nella condizione in cui si viveva nella cristianità, difese scientificamente analizzate e dimostrate non sareb-bero servite a niente, avrebbero solo aumentato la confusione e i dubbi: “Ogni difesa scientifica non fa che aumentare il dubbio” (1409*).

Anzi, riconosceva che quanto più ci si impegnava a difendere il Cri-stianesimo, quello che tutti si immaginavano di professare, tanto più lo si distruggeva: “Se si vuole che il Cristianesimo perisca, il metodo migliore (com’è anche accaduto) è di farlo sotto il nome di proteggerlo, di difen-derlo, di perfezionarlo” (3626*). Quanto più si pretendeva difendere il Cristianesimo ufficiale, stabilito, tanto più lo si tradiva, più lo si sostituiva con una cosa immaginaria: “È abbastanza facile mostrare quanto tutta quella tattica di difendere il Cristianesimo è in fondo, anche se incoscien-temente, una falsità e un tradimento: anzi lo è generalmente tutta quella solita forma di parlare del Cristianesimo, e la realtà è che i pastori e le scienze, ecc. non credono affatto al Cristianesimo” (1723*).

Era così evidente che l’unica cosa che dimostrava scientificamente la “professione” dell’apologeta, era che non c’era più Cristianesimo: “Il fatto che tutto l’apparato della predicazione e l’annuncio del Cristianesi-mo siano fondati su ragioni, è la prova indiretta che la fede se n’è andata” (3130*).

Non voleva proprio essere un apologeta clericale del Cristianesimo, uno che parla del bel fatto cristiano senza averne lui stesso bisogno, esi-stenzialmente, quotidianamente: “Il compito non è, come pensa la stu-pidità umana, di giustificare il Cristianesimo davanti agli uomini, ma di giustificare se stessi davanti al Cristianesimo” (1001*).

Per lui l’apologeta che vuole difendere le idee cristiane da nemici che immagina onnipresenti, alla fine diventa un violento che vuole imporre a tutti le sue idee cristiane: “La causa di una confusione così enorme è che

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ognuno vuol allestire subito una teoria e obbligare gli altri. Appena ha avuto un’impressione del Cristianesimo, eccolo subito arrangiare una te-oria e come fa lui, così devono fare tutti gli altri [...] No! Quel che si deve sottolineare è che c’è un libro che si chiama Nuovo Testamento. Io mi sento obbligato così e così e non sto a teorizzare, non obbligo gli altri. Dico sol-tanto: io mi sento obbligato così e così e lo traduco in pratica” (3566*).

In fondo, l’apologeta era solo uno spostato, uno squilibrato che pen-sava che Cristo avesse bisogno di lui, delle sue ragioni e dei suoi sillogismi teologici.

Voleva solo fare il cronista di quello che vedeva e “polemizzare con-tro tutta la commedia moderna” (2661*): “La cristianità è una cospira-zione contro il Cristianesimo del Nuovo Testamento. È importante vedere questo” (4333*). Voleva solo osservare quello che succedeva intorno a lui, soprattutto nella cristianità, e farne la cronaca. Non voleva fare il teologo, uno che pensa a partire da idee cristiane. Voleva fare il cronista, che inizia esistenzialmente da ciò che vede: “Dunque osserviamo ora un po’ più da vicino la vita che si conduce qui in Danimarca, nello «Stato cristiano», dove tutti siamo cristiani. Mi si permetta a titolo di delucidazione la mia vita, ciò che è capitato a me in questo Stato cristiano” (4455*).

Quello che mancava era una diagnosi esatta, cioè riconoscere – da cronista – quello che accadeva nella cristianità: “In generale ciò che è sem-pre mancato alla cristianità è un diagnostico della malattia e un dialettico” (4390*). E coloro che meno volevano vedere la verità su come stavano le cose e farne una diagnosi esatta, erano proprio i funzionari clericali: “Guai a quei pastori che sono o dei bestioni ignoranti della situazione, oppure tanto vigliacchi da non volerlo dire, per paura di perdere le en-trate” (2036*).

Il suo compito, nei tempi che gli toccava vivere, era fare il croni-sta, cioè fare un bilancio di come andavano le cose nella cristianità: “Noi dobbiamo fare un bilancio con tutta verità. Questo è il compito mio, così io lo comprendo” (4430*). “Il mio compito è di servire la causa del Cri-stianesimo, arrivare a un’esposizione di cos’è il Cristianesimo; ma che la Provvidenza (perché la situazione non s’invertisse così che fosse il Cristia-nesimo ad avere bisogno di me invece di essere io ad avere bisogno del Cristianesimo) nello stesso tempo mi ha aiutato a farmi capire che ero io ad avere bisogno del Cristianesimo. [...] Con tutto l’ossequio religioso e

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con rispetto assoluto verso il Cristianesimo, io mi ero consacrato a chiari-re cos’è il Cristianesimo – spinto da un bisogno personale -, e nello stesso tempo capivo ch’era ciò di cui il tempo aveva bisogno. [...] Il Cristiane-simo non doveva essere accomodato al mio gusto, ma assolutamente e senza riguardi si doveva vedere cos’è in sé il Cristianesimo” (2133^).

Capiva che si poteva chiarire cos’è il Cristianesimo in sé e per sé solo facendo una revisione esistenziale, da se stesso, nella sua stessa carne. Questa è stata la sua genialità, cosa infinitamente diversa da quello che facevano gli apologeti delle idee cristiane: “Vorrei fare la revisione pezzo per pezzo di tutto il Cristianesimo per riuscire a mettergli le molle esisten-ziali. È alla causa del Cristianesimo che mi sono consacrato e alla quale appartengo fin da principio. E una simile figura sarà sempre importante per la cristianità; uno che ferma la corsa per vedere dove ci troviamo, per sapere se il tutto non è sfumato in un’illusione; uno che esponga il Cristia-nesimo completamente senza riguardi, però non attaccando Tizio e Caio, ma portando ciascuno a provare se stesso” (1867*).

Voleva solo vedere a che punto stava il Cristianesimo, se ne era ri-masto qualcosa, o se c’erano solo illusioni cristiane. Voleva, come buon cronista, esporre i fatti come stanno, senza inventarsi nulla, raccontando solo quello che vedeva: “La mia risoluzione più sincera fu di appartenere con tutta la mia vita e col lavoro di ogni giorno alla causa del Cristianesi-mo, non far altro che riuscire a esporlo...” (2025^).

Esporre i fatti come stavano, con quel povero strumento che sapeva usare: la scrittura.

A dire il vero, aveva pensato di fare altre cose, non di scrivere: “Il mio compito era di essere scrittore. [...] Volevo chiedere una parrocchia di campagna per piangere i miei peccati. Non potei frenare la mia attività letteraria: io la seguii, ed essa per logica d’idee sfociò nella religiosità. Allora compresi il mio dovere di far penitenza servendo alla verità con lo scrivere, in modo che mi diventasse una cosa molesta. È così ch’io ora servo il Cristianesimo” (1868*).

Scrivere per lui non era un piacere, una cosa che si fa come un pas-satempo nei momenti liberi o come un lavoro che porta un guadagno. Era il modo tramite cui Dio lo educava, era il modo in cui era educato: “L’intera mia attività di scrittore la capisco come mia educazione” (2761*). Era proprio qualcosa di esistenziale: “Come Sheherazade si salvò la vita

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col raccontare fiabe, anch’io mi salvo la vita, ovvero mi mantengo in vita, a forza di scrivere” (1986*; 2340*).

E, poichè viveva in tempi che pensavano di essere “illuminati”, aveva dovuto passare attraverso la modernità borghesemente intellettuale a lui contemporanea: “Proprio perché bisognava strappare il Cristianesimo ad una raffinatezza e cultura enorme, alla confusione della scientificità, ecc., io stesso dovevo essere fornito di tutta questa cultura, delicato in un certo senso come un poeta e tutto spirito come un pensatore. [...] Quella che è toccata a me è stata una fatica di Ercole” (2077*).

Quello che voleva, infine, attraverso la scrittura e lo scrivere, era ben diverso da quello che volevano gli “illuminati”. Voleva solo essere un cronista, un topografo della situazione cristiana, della geografia terrestre e temporale del Cristianesimo: “Ciò che spero di ottenere con i miei scritti è di lasciare un panorama della realtà cristiana e della sua situazione così esatto nel mondo che un giovane nobilmente entusiasta possa trovarvi una carta così precisa sulle situazioni, quasi una topografia delle istituzio-ni più famose” (2012*).

Quello che scriveva, quello di cui faceva la cronaca, cioè quello che Dio gli aveva cristianamente fatto capire e riconoscere, era una cosa real-mente commovente: “La mia attività letteraria, questa enorme produzione la cui interiorità dovrebbe commuovere le pietre” (1907*).

Si paragonava a un suo cognato che era andato in Brasile a fare l’ar-cheologo degli “strati antidiluviani”: “Così vivo anch’io come fuori del mondo, perduto a scandagliare i concetti cristiani” (3055*).

Aveva un compito, lo riconosceva, che non era toccato a nessuno prima di lui: “Nessuno, assolutamente nessuno, nella cristianità, ha avuto un compito più difficile del mio” (3913*).

Questo compito non se l’era inventato, era qualcosa che Dio gli ave-va dato facendolo vivere e soffrire in alcune situazioni: “La Provvidenza mi ha aiutato soprattutto col darmi una situazione acconcia per avere un’impressione esatta del Cristianesimo, cioè: 1. Tutte le mie sofferenze interiori originarie; 2. il mio rapporto a ‘Lei’; 3. ciò che ho sofferto per la persecuzione della plebaglia e per l’ingratitudine umana. In verità sen-za di questo, mi sarebbe mancato francamente il lato del Cristianesimo” (2773*).

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Aveva indicato chiaramente il suo compito: “La «categoria» per indi-care la mia attività è «rendere gli uomini attenti a ciò che è il Cristianesi-mo». Per questo vi si dice sempre: «Io non lo sono» ” (2655*).

Voleva partire, per questo compito, proprio da quello che vedeva in-torno a sé: “Io intendo cominciare qui, in Danimarca, a quotare il prezzo dell’essere cristiani in modo che tutta quell’accozzaglia di concetti (chiesa di Stato, funzionari, prebende...) salti in aria” (2408*).

Voleva far saltare in aria il teatro e le parodie che stava organizzando la cristianità moderna, cioè le alleanze e i sotterfugi clericali: “È sempre stata la mia tattica: mettere discordia nelle cricche” (1863*) Per questo si considerava come una spia, uno che faceva la cronaca di quello che le cricche clericali tramavano e organizzavano di nascosto. “Io faccio la spia del Cristianesimo essenzialmente abolito” (1853*). Faceva la spia di quello che realmente succedeva e che nessuno diceva; era cioè una “spia della verità” (2043).

Non è che si aspettasse onori e fama: “La cristianità ha bisogno in ogni momento di uno che dica assolutamente «senza riguardi» cos’è il Cristianesimo. Egli sarà allora da considerare come la prova: da come la cristianità lo giudica, si può vedere cioè quanto nella cristianità vi sia di vero Cristianesimo in un dato momento. [...] Il suo destino è di portare il giudizio. Non ciò ch’egli dice è il giudizio, ma ciò che si dice di lui” (1844*).

Non è che non lo capissero, anzi, per tutto quello che doveva soffrire si vedeva bene che lo capivano, eccome: “Non riesco a farmi capire da nessuno. Certamente si può capire quel ch’io dico; ma quando si tratta di metterlo in pratica, ecco nascere l’incomprensione” (2733*).

A questo compito aveva sacrificato tutta la sua esistenza: “Ciò che io ho voluto e ciò che inoltre voglio esporre è il Cristianesimo: a questo scopo ho ed è consacrata ogni ora della mia giornata” (1847*); “Sono un servitore rispetto al Cristianesimo. [...] Fin da principio intendevo sin-ceramente servire il Cristianesimo” (1849*); “È alla causa disperata e re-spinta del Cristianesimo ch’io ho l’onore di servire” (1850*).

Ormai, ai suoi tempi, tutti vivevano nella beata tranquillità di con-siderarsi pacificamente cristiani, di non poter non dirsi cristiani. Il suo compito era certamente nuovo, era una novità che non si era mai vista prima: “Il mio compito è distogliere gli uomini dall’immaginazione che

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essi sono cristiani – però io servo il Cristianesimo. Il Cristianesimo ora esiste da 1800 anni – mi si mostri se tutta questa mia concezione sia stata prima mai presentata nella cristianità” (4233*).

Dirsi cristiano, ai suoi tempi, era come bestemmiare, non ci si poteva proprio chiamare tranquillamente e pacificamente cristiani. Lui stesso non voleva essere chiamato cristiano, perché altrimenti non avrebbe potuto far vedere che già nessuno, ai suoi tempi, era cristiano. Non avrebbe potuto impostare bene il problema, sarebbe stato un errore di prospettiva consi-derarsi tranquillamente e ovviamente cristiano: “Tanta è la distanza dalla cristianità... che io debbo sempre osservare che non mi chiamo un cristia-no, che il mio compito è di impostare il problema come prima condizione, perché ci possa ancora essere questione di Cristianesimo” (4355*).

E, proprio per questo, non si poteva nemmeno fare l’apologeta, so-prattutto perché non si doveva difendere il Cristianesimo, così come lo viveva la cristianità. Al contrario, si trattava di far vedere che quello che si viveva già non era Cristianesimo: “Non si deve ribattere che il Cristia-nesimo non è un mito, non si deve mettersi a difenderlo, ecc.: no, si deve attaccare. Si deve provare che la Cristianità è una favola; vedrete allora che manderemo all’aria anche il castello di carta del mito” (2192^).

Da buon cristiano, non voleva inventare niente di nuovo, non vo-leva stupire con novità. Voleva solo essere obbediente a quello che è il Cristianesimo in sé: “Il mio compito è il servizio alla verità, la sua forma è essenzialmente l’obbedienza. Non si tratta di presentare qualcosa di nuo-vo, ma di rimettere le molle a posto perché le cose vecchie tornino tutte nuove” (1293^).

Per questo era ben lontano dal credersi un riformatore, uno che ha la preoccupazione clericale di riformare e cambiare quello che non va: “Il nostro tempo non è un tempo che abbia bisogno di un riformatore, ma è un tempo tronfio, traviato, dove tutti e ciascuno vogliono darsi al mestiere di riformatore; e che perciò hanno bisogno proprio del contrario di un riformatore, di un poliziotto che possa divorare tutti questi riformatori” (2498^). È troppo intellettuale, e perciò è troppo facile fare il riformatore, sognare sistemi perfetti, chiese e società perfette: “È facilissimo cadere nell’aberrazione di mettersi a riformare e risvegliare il mondo intero inve-ce di riformare se stessi” (2388*).

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In fondo, con i tempi che correvano, un riformatore, paradossalmente, doveva difendere il governo da una “bestia” ancor peggiore: “E se anche arri-vassi a essere un riformatore resterei sempre al servizio dell’ordine stabilito; perché la “Folla” è ed io la considero come il male e prenderei posizione contro di essa appoggiando il governo con tutte le mie forze” (2119*).

Era proprio un errore di prospettiva voler fare il riformatore della Chiesa. Ed è il segno che si è proprio degli intellettuali. Anche perché, chi aveva tentato, non si può proprio dire che avesse combinato qualcosa di buono. In fondo, chi vuole riformare è solo uno che è preoccupato, che si affanna per le cose che non vanno cristianamente bene. Non era stata un bell’esempio quella “riforma” di Lutero che era cominciata male fin dall’inizio: “Lutero è una testa confusa. Quella frase di Lutero: «Ascoltami tu, Papa, ecc. È per me quasi stomachevolmente mondana... mi ricorda il gergo dei giornalisti. E questa maledetta politica, questo voler abbattere il Papa è e resta la confusione di Lutero. [...] La dottrina luterana della fede s’è risolta proprio in una foglia di fico che copre le omissioni più anticri-stiane” (2146*). E poi, per dirla tutta, quelli che vogliono fare i riforma-tori religiosi sono, in fondo, solo gente che vuole cambiare le faccende politiche: “ [Lutero] Giubilante di giubilo politico, conquistò la contem-poraneità alla sua causa e allestì un partito per abbattere il Papa: bravo! Tante grazie, ciò non è che una pura farsa politica” (2886*). È sempre così: a quelli che vogliono fare i riformatori interessa solo il potere (che li logora e preoccupa perché non ce l’hanno). “Non fu il Papa ad attaccare Lutero, ma fu Lutero che attaccò il Papa” (2689*).

Invece, se proprio c’era una riforma da fare, era quella di dire le cose come stavano, di raccontare di come la cristianità fosse malconcia perché il vero riformatore (se ce ne fosse proprio bisogno...) può essere solo il cronista, chi dice le cose come cristianamente stanno: “Ciò che si deve ri-formare è il concetto di “Cristianità stabilita [...] si deve portare un attacco laterale contro il clero, ma non personalmente contro qualcuno in parti-colare, accusandolo” (2446*). La vera riforma era dire le cose come sta-vano: “Certamente bisogna decidersi per una riforma e sarà una riforma tremenda, al cui confronto quella di Lutero sembrerà quasi soltanto uno scherzo: una riforma spaventosa che avrà per grido di battaglia: «Forse che si trova la fede sulla terra?» [Lc. 18,8]. Si vedrà allora che i cristiani a milioni “apostateranno” dal Cristianesimo. Una riforma tremenda, perché

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il Cristianesimo non esiste affatto. Sarà una cosa terribile quando un’uma-nità viziata da un Cristianesimo infantile, sedotta dalla presunzione di essere tutti cristiani; quando adesso si tratta di ricevere di nuovo il colpo mortale ch’è nel diventare cristiani, nell’essere cristiani!” (4430*).

Non pretendeva di essere un riformatore, non pensava che le sue idee e i suoi programmi (che non aveva) potessero cambiare qualcuno; era troppo cristiano per non riconoscere che il cuore dell’uomo non può essere mosso né dalle idee cristiane né dai libri che si scrivono: “Muovere qualcuno: no, non lo faccio. C’è chi legge i miei scritti, chi se li studia, chi li impara a memoria, chi se ne serve quando deve predicare e insegnare [...] mio Dio, ma allora io faccio più male che bene! Solo Tu, o Dio, puoi muovere un uomo. [...] Al tuo cospetto io sono un nulla” (1486^).

Poiché non voleva essere nemmeno un riformatore, non pensava che dovessero essere gli altri a cambiare, a riformarsi, a migliorarsi. Rico-nosceva che era un compito che doveva fare anzitutto lui, singolarmente, senza autorità ecclesiastica, e clericale.

Riconosceva che il problema stava tutto nella singola esistenza in-dividuale e personale, nella vita del “Singolo” con il suo paradosso esi-stenziale e vitale, davanti a Dio e a Cristo. Questo lo aveva scoperto e ri-conosciuto perché viveva singolarmente la sua debolezza esistenziale che Gesù aveva salvato e salvava per miracolo. Già non erano più i tempi dei missionari che cercano di convertire i pagani; adesso erano i cristiani che non erano più cristiani e per questo, a uno che viveva così, esistenzial-mente e nella sua carne il bel fatto cristiano, lo avrebbero ammazzato. Per questo scriveva che la questione del “Singolo”, “nella cristianità si dovrà usare per rendere i cristiani, cristiani. Non è la categoria del missionario rispetto ai pagani, cui egli predica il Cristianesimo, ma la categoria del missionario nella Cristianità stessa, per interiorizzare l’essere e diventare cristiani. [...] Perché se il tempo aspetta un eroe, aspetterà invano. Verrà piuttosto uno che in divina debolezza insegnerà agli uomini l’obbedienza [...] – Per questo, essi con ribellione empia ammazzeranno lui, l’obbe-diente a Dio” (1327^).

Per questo, anzitutto doveva fare la cronaca di ciò che non era più cristiano: “Oh, la mia vita con l’aiuto di Dio contribuirà un pochino a farla finita con la spaventosa empietà d’immaginarsi gli uomini cristiani a milioni e che la predicazione del Cristianesimo contribuirà alla grandezza

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del mondo: in verità Pilato era molto più rispettabile di una siffatta mon-danità cristiana. Pilato almeno, non cavò nessun vantaggio spacciandosi per amico di Cristo” (1761*).

Il suo compito, paradossalmente, era diverso rispetto a ciò che si fa-ceva ai suoi tempi per diffondere il Cristianesimo; era quello di far vedere e fare la cronaca di ciò che non era Cristianesimo: “Poiché tutti gli uomini straordinari esistiti finora hanno agito per diffondere il Cristianesimo, il mio compito tende invece ad arrestare una diffusione menzognera, e an-che a far sì che il Cristianesimo si scuota di dosso una massa di gente che sono cristiani soltanto di nome” (3915*).

Per questo si considerava come un povero e semplice soldato che fa la guardia a qualcosa di prezioso, che deve stare attento che nessuno la rubi, che nessuno la infami, che nessuno, soprattutto, la falsifichi: “Io ho trovato il mio posto. Come povera guardia, con ogni mezzo, con l’astuzia e la forza (quella dello spirito s’intende!), devo confutare tutte quelle il-lusioni blasfeme e attaccare tutte quelle sfrontate immaginazioni, fondate in una villania verso Dio di cui né il paganesimo né il giudaismo avevano l’eguale, poiché sono un’enorme falsità, una falsificazione della dottrina dell’Incarnazione” (1293^).

Come ogni buon cronista cristiano era quasi schiacciato dall’orrore di quello che vedeva nella cristianità: “In verità, quest’affare della cristia-nità mi ha sopraffatto col suo orrore” (4272*). Doveva scrivere quello che vedeva, che la cristianità era uno schifo: “Pensiamo alla bevanda più ripugnante, allo spettacolo più disgustoso: ebbene, questo non è che una debole immagine dello schifo che è la cristianità” (4312*).

Che le cose andassero cristianamente male lo aveva capito da quel “buco” (2198^) che era la sua Danimarca e la sua Copenaghen: “Quest’an-golo di cornacchie, questo covo della prostituzione borghese, è la mia pa-tria, la mia cara Copenaghen!” (2027*). Un buco di città – la “piccola città di Copenaghen” (1201*), con una vita quasi morta: “La vita in queste piccole città è così miserabile, ridicola e scipita [...] ” (690*). Era nato e viveva in una terra in cui le cose andavano male: “La Danimarca va incon-tro alla sua dissoluzione” (1414*). Viveva in mezzo a “un piccolo popolo degenerato, diviso in se stesso, roso da abominevole invidia, uomo contro uomo, ribelle contro chiunque detenga il comando, meschino con chiun-que sia qualcosa, insolente e sfrenato, una melma sollevata a tirannia di

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popolo” (1635*). Viveva in una “terra piccola, minuscola” (1839*) in un “ambiente spregevole” (2080*) dove la “plebaglia ha vinto” (2496*). Era un posto così piccolo che “i quattro gatti che siamo ci conosciamo tutti” (2053*). Era un posto e un paese troppo piccolo per lui: “In un altro paese avrei fatto fortuna. [...] Oso credermi un po’ troppo grande per la Danimarca” (2214*); “È spaventoso avere le mie forze e poi trovarsi in un paesucolo come la Danimarca” (2143*).

Era un paese piccolo e, nonostante questo, non lo capivano, anzi lo facevano soffrire (cristianamente): “La mia sofferenza così grande per cui manca un palco sufficiente in Danimarca” (2837*); “La mia sofferenza di scrittore è che la mia terra non ha una misura per me” (2865*).

Ma, anche lui lo ammetteva, tutta questa circostanza e situazione geografica e topografica erano state la sua fortuna (cristiana): “Se fossi vissuto in una grande nazione, non sarei mai stato in grado di chiarire in questo modo il Cristianesimo e la sofferenza cristiana” (2025*). In un posto così piccolo era facile rappresentare tutti con un minimo di fede cristiana; “Il «paesino» è stata la mia sventura, ma questo mi frutterà. La Danimarca è sempre così piccola che basta appena per uno. [...] Uno che rappresenta tutto il suo piccolo paese” (2033*).

Certo, non era così stupido da essere ambizioso tra quei quattro gatti: “Gran Dio, essere ambizioso in Danimarca! Quale onore può mai darmi il piccolo paese dopo che già con la mia prima opera mi sono, in fondo, preso un posto d’onore?” (2037*). Non ci voleva tanto ad ammet-terlo, umilmente: “Qui in Danimarca fin dal primo momento io ho visto facilmente ch’ero superiore a tutti” (2025*). E umilmente non gli costava guardare un po’ più lontano e dire che “verrà un tempo in cui un danese sarà fiero di me come scrittore” (1862*).

D’altronde, nascere e crescere nel Nord Europa implicava tutta una serie di problemi: la geografia non è mai estranea all’esistenza di un uomo: “Che il Nord sia la parte meno favorita del mondo, si vede tra l’altro anzitutto dal clima sfavorevole (che) rende impossibile quel genere di spensieratezza del vivere quale si trova nei paesi più caldi, dove perciò si raggiunge anche più facilmente un’idealità che non divide l’uomo, così che per via della filosofia egli divenga un professore di filosofia e un me-stierante” (4147*).

Aveva ragione, le cose, quelle che accadono e di cui si può fare la

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cronaca, si possono vedere e capire solo dentro una situazione esistenziale geografica e topografica: “Quest’unità della metafisica e della casualità si trova nella coscienza dell’Io, che è il punto di partenza della personalità. Io prendo coscienza di me stesso nel mio valore eterno o, per così dire, nella mia necessità divina, e nella mia finitezza casuale (che cioè io sono quell’essere determinato, nato in questo paese, in tal tempo, sotto l’influs-so molteplice di tutti questi fattori di variabilità). E quest’ultimo lato non deve essere trascurato, perché la vera vita dell’individuo è nella sua apo-teosi, la quale non comporta che l’io vuoto e senza contenuto abbandoni, per così dire, di nascosto questa sua finitezza per rendersi evanescente e perdersi migrando verso i cieli, ma che la Divinità abiti in questa finitezza e non ricusi di adattarvisi [Sl 67,17]” (508^).

Insomma, si può capire quello che succede solo nel tempo e nella situazione in cui si vive: “Si deve nel campo religioso parlare essenzial-mente ex tempore” (3517*).

Soprattutto, riconosceva di vivere nella cristianità moderna che era il peggior posto, temporale e geografico, in cui un cristiano poteva stare: “Oh, il luogo più pericoloso per vivere, per un cristiano, è [...] la Cristia-nità” (3126*).

Pensava spesso alle parole terribili che aveva detto Gesù quando ave-va come intuito quello che sarebbe accaduto dopo di Lui. Si parlava tutti, ne parlavano, di stati cristiani, di Chiesa cristiana, di partiti Cristiani, di società Cristiana. A lui, invece, venivano sempre in mente le parole di Cri-sto che lo tormentavano; se le ricordava sempre quando vedeva quello che succedeva al Cristianesimo nella cristianità: “ «Quando il Figlio dell’Uo-mo ritornerà, troverà ancora fede sulla terra?» [Lc. 18,8]” (3013*).

Quello che scriveva nel suo Diario non nasceva da un pregiudizio, ma da quello che vedeva, osservava e riconosceva: non c’era più Cristia-nesimo nella cristianità. E la situazione era ancor più peggiorata rispetto ad alcuni secoli prima, in cui era già messa male: “O Lutero [...] eppure in un certo senso la tua era una situazione felice, poiché quella volta c’erano però 95 tesi; ora invece c’è una sola tesi: il Cristianesimo non esiste affat-to! Il Cristianesimo non esiste per nulla; ma noi – poiché io parlo solo di noi danesi per quanto possa sapere – avendo essi la dottrina oggettiva – se ne stanno più o meno tranquilli nell’enorme illusione che noi siamo cri-stiani” (4486*). Ora si stava cristianamente peggio: “Il Cristianesimo non

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esiste, ma ciò che esiste è anzi il contrario del Cristianesimo” (4397*).Esistenzialmente, dolorosamente faceva la cronaca del funerale del

Cristianesimo, mentre gli altri – nella cristianità – erano tutti contenti: “Immaginate un funerale organizzato come un balletto [...] è così che la cristianità si rapporta al Cristianesimo, specialmente in Danimarca” (3995*).

A lui non interessava questa danza macabra. Così, non poteva aspet-tarsi che il tradimento dei suoi connazionali, quelli della “cittaduzza di Copenaghen” (1437*): “Mi hanno trattato in un modo infame, abomine-vole. Un crimine nazionale si è commesso contro di me, il tradimento di tutta una generazione” (1627*).

Il suo compito, quello che Dio gli aveva dato, lo aveva fatto soffrire (e anche gioire). Alla fin fine poteva ben dirlo: era riuscito a svolgere il suo compito enorme e così nuovo; Dio non lo aveva lasciato solo: “Ci sono riuscito, ho aperto un varco nella foresta; attraversando tutte le illusioni, ho aperto uno spiraglio sul Cristianesimo come da molto tempo non si era riusciti ad avere” (2872*).

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I.

L’ABOLIZIONE DEL CRISTIANESIMO

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I CRISTIANI IMMAGINARI

Something is rotten in the modern christianity, avrebbe detto Shakespe-are: c’è qualcosa di marcio nella cristianità moderna.

Ma, per lui, non c’era solo qualcosa che non andava bene. Tutto nella cristianità andava male, stava marcendo.

Che tutto fosse cristianamente ovvio e tranquillamente scristianizza-to lo aveva capito esistenzialmente, geograficamente dal quel buco dove viveva e in mezzo a quella gente che vedeva tutti i giorni: “Ecco la sven-tura della Danimarca, ovvero questo è il castigo della Danimarca, di un popolo senza vero timor di Dio, di un popolo che si perde in pettegolezzi di coscienza nazionale, di un popolo che idolatra l’essere nulla” (1635*).

La sua Danimarca era, cristianamente, un disastro: “Sì, applicare il predicato di «cristiana» alla situazione della Danimarca, anche se si do-vesse riconoscere che la situazione è quanto mai mediocre, è veramente un’esagerazione. Il predicato di «cristiana» è ridicolo se lo si applica alla Danimarca. [...] La situazione religiosa della Danimarca è caduta così in basso che non è al di sotto di ciò che finora si è visto come Cristianesimo, ma è al di sotto del Giudaismo; anzi in fondo non trova analogie che nelle forme più basse di paganesimo” (3961*).

Non c’era proprio più nulla di cristiano nella sua Danimarca “una terra piccola e ristretta, dove tutti si conoscono, dove il timore degli uo-mini è il Dio supremo” (1688*).

Che tutto fosse scristianizzato lo aveva capito dall’educazione che aveva ricevuto fin da bambino e in cui vedeva crescere tutti. Guardando la gente che camminava per le strade, si era reso conto che, in fondo, tutti facevano dei grandi sforzi per immaginarsi cristiani, per inventarsi cristiani: “Ahimè, ma quando si è nati nella cristianità, e specialmente nel protestantesimo e specialmente in Danimarca [...] quando, fin da bambi-ni, si è stregati con l’immaginazione che si è cristiani. [...] Quando si vive

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in un cosiddetto «Stato cristiano», in una società che in tutti i modi cerca di consolidarsi nell’immaginazione d’essere cristiana, fino a ricorrere alle pene civili per costringere a essere cristiani: allora senza dubbio è immen-samente difficile diventare cristiani!” (3962*).

La tragedia che vedeva compiersi nella cristianità moderna era l’abi-tudine cristiana che con la sua rigidezza mortale voleva paralizzare e soffo-care la dinamica del bel fatto e avvenimento dinamico cristiano: “Ahimè, purtroppo il Cristianesimo è diventato un’abitudine e una cosa insignifi-cante” (3469*). Ci si esaltava di gioia (formale) a Natale e ci si intristiva (formalmente) il venerdì Santo; normalmente ci si esaltava cristianamente quando si andava in chiesa a sentire le prediche dei pastori prebendati; in realtà ci si era abituati a tutto quello che di nuovo c’era nel bel fatto cristiano: “Esaltandosi una volta alla settimana, a una certa ora, proprio come al teatro. È la disgrazia che si è fatto il callo a tutto” (2534*).

Questa era la tragedia che vedeva con i suoi occhi: che tutti si repu-tavano cristiani: “Così con tutta la cristianità e col Cristianesimo stabilito: è avere il Cristianesimo nell’immaginazione (in realtà essi non l’hanno)” (3602*). Era il suo compito dirlo e farne la cronaca: “Nella cosiddetta cristianità gli uomini sono così radicati nell’immaginazione di essere cri-stiani [...] si deve riuscire a renderli attenti” (1847*).

Vivevano tutti nell’illusione di credersi e immaginarsi cristiani; e questa pietosa immaginazione si era sedimentata, era diventata una cro-sta d’abitudine per nulla cristiana: “Si tollera ogni genere di illusioni per mantenere l’apparenza che tutti sono cristiani, paesi e stati interi [...] allo-ra si forma un sedimento di Cristianesimo (questo è una coscienza gene-rica): ma, poveri noi se questo dev’essere Cristianesimo” (3480^). Erano tutti felici di guardarsi intorno e vedere la società cristiana, gli stati cristia-ni, insomma un mondo cristiano: “Che satira in queste espressioni: «Un mondo – cristiano». Noi siamo tutti cristiani, noi viviamo nel mondo cri-stiano, dove tutti sono cristiani, dove si difende il Cristianesimo davanti ai cristiani che non sono veri cristiani” (2399*). Erano tutti orgogliosi, non potevano non dirsi cristiani: “Noi siamo tutti nella cristianità, la nazione è cristiana, noi siamo tutti cristiani! Così si dice” (2403*).

C’era certamente qualcosa di vero in tutto questo proclamarsi cri-stiani dopo Gesù: “C’è del vero nel dire che noi tutti siamo cristiani: vo-

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glio dire che la dottrina del Cristianesimo non può essere per noi estranea come ai pagani. Ma il male è che la dottrina è divenuta una trivialità per la maggior parte dei cristiani, che i più l’accettino come una trivialità. Per questo compito serve l’interiorizzazione della dottrina” (1637*).

Si era giunti al colmo: adesso, invece dell’interiorizzazione esisten-ziale, c’era solo la statalizzazione del Cristianesimo. Lo Stato stesso s’inca-ricava di fare, di produrre, di sfornare dei cristiani cristianamente corretti: “Allora dallo Stato fu stabilito, come una specie di principio eterno, che ogni bambino nasce, per così dire, già cristiano. Come lo Stato prese su di sé il compito (si placet!) di occuparsi della beatitudine eterna dei cristiani, così s’incaricò (perché all’opera non mancasse niente!) anche di foggiare i cristiani” (4294*). Anche il governo statale ci si era messo per convincere i cristiani che erano cristiani: “Sembra che sia interesse dei governi e dei pastori far passare il paese per cristiano” (1687*).

Non poteva proprio piacergli vivere in uno Stato cristiano, organiz-zato perfettamente per scristianizzare: “Ogni aspirazione che intende di avallare uno «Stato cristiano», un «popolo cristiano», è eo ipso acristiana, anticristiana; perché ogni simile aspirazione non è possibile che ridu-cendo l’esigenza dell’essere cristiano. Essa è perciò diretta precisamente contro il Cristianesimo e fatta apposta per avallare il paravento del «tutti siamo cristiani» con il quale non diventa che troppo facile essere cristiani” (4441*).

Ma tant’è: tutti nella cristianità moderna si erano autoconvinti che andava tutto bene, che tutto funzionava bene, che l’ortodossia e le parole cristiane si ripetevano come sempre, che la liturgia cristiana funzionava perfettamente.

Era tutta un’illusione e nessuno voleva riconoscere che era solo un’il-lusione: “I martiri vogliono essere uccisi perché non sono cristiani stabi-liti. [Ndr] [...] il paganesimo non desiderava impossessarsi del Cristia-nesimo; ma l’illusione non vuole affatto sbarazzarsi dell’immaginazione ch’essa possiede il Cristianesimo” (2815*).

In fondo era solo un’estetica dell’immaginario, un gioco adolescen-ziale, un giocare ad immaginarsi cristiani; era una creazione virtuale, ar-tificiale e clericale, una decorazione barocca che copriva quello che cri-stianamente non c’era già più: “Si gioca al Cristianesimo. [...] No, tutto è intatto: i Sacramenti, le costumanze cristiane, la terminologia cristiana

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[...]: ma il tutto si riduce a decorazione esteriore, a modi dire” (3859*). Era tutto ridotto a teatro (a una commedia decadente): “La «cristianità» è un concetto ancora più pericoloso di quello di «pubblico». Esso è una decorazione teatrale” (2403*). Era tutto ridotto a un gioco: giocavano al Cristianesimo: “Come i bambini nel salotto tranquillo «giocano alla guer-ra», così tutta la Cristianità (oppure i pastori che sono gli attori) «giocano al Cristianesimo»” ( 1982*).

Ormai il Cristianesimo era evaporato e “a causa della volatilizzazio-ne della tradizione cristiana si vive senza essere cristiani” (1661*). Erano tutti cristiani senza Cristo, dopo Gesù senza Gesù; e per questo non erano degni neanche di essere uomini: pensavano di essere di Dio, dalla sua parte, del suo partito e non erano più neanche capaci di vivere un po’ di quell’esistenza umana, terrena, che avevano addosso da quando nasceva-no: “ [...] questi quasi cristiani: essi non hanno in fondo nulla a che fare né con Cristo né con Dio, mentre perfino negli stessi apostoli si sentiva l’impazienza della natura umana” (1918*).

Credevano di essere tutti cristiani e non avevano mai fatto un in-contro con il bel fatto cristiano; per questo vivevano così tutti tranquilli senza che Gesù riuscisse a scalfire neanche un minimo di questa illusione: “Bisogna supporre che la maggior parte degli uomini non ha avuto alcuna impressione di ciò che è il Cristianesimo, e quindi non hanno neanche avvertito la possibilità dello scandalo” (1883*).

Erano tutti pagani, insomma, travestiti da cristiani. Nel suo Diario aveva scritto un bell’esempio per farsi capire: “Mille donne travestite da uomini diventano forse mille uomini? Così è tutta la cristianità: un trave-stimento, ma il Cristianesimo non esiste affatto” (3993*).

Faceva solo la cronaca di quello che vedeva: tutti si immaginavano

cristiani e si facevano grandi sforzi, anche da parte dello Stato, per far vivere ognuno in questa comoda immaginazione, a partire dal pastore clericale e prebendato che insegnava a tutti a stare tranquilli nell’illusione di essere cristiani: “Mynster non è mai stato al largo, là dove l’acqua ha la profondità di 70.000 cubiti, non si è mai cimentato in alto mare; egli si è sempre attenuto all’«ordine stabilito» (20 gennaio 1847, 1301*). Era lui, quest’antico amico di suo padre che formava e deformava tutti: “Sul suo stampo si formano tutti” (2222*). Voleva perfino “che i bambini siano

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portati con la forza a farsi battezzare” (2465*). Il ragionamento era sem-plice e tranquillizzava: “Tutti gli uomini sono cristiani perché essi sono stati battezzati da bambini” (2584*).

D’altronde, tutti seguivano questo pastore prebendato, proprio per-ché li tranquillizzava con le sue prediche in cui parlava del “’luogo tran-quillo dove tutto è teatrale” (2278*). In fondo era uno a cui interessava solo essere prebendato dallo Stato cristiano e per questo era proprio po-liticamente corretto: “È il potere che gli sta a cuore [...] mantenersi al governo” (2350*). Era proprio un clericale, “un lacchè della Chiesa di Stato” (2443*).

Adesso, tutti erano felici di essere convinti dai discorsi teologici del loro pastore prebendato (e dai suoi complici clericali): tutto andava cri-stianamente bene, la situazione era cristianamente la migliore, non si po-teva stare meglio.

Per uscire da quella tranquillità cristianamente borghese ci sarebbe voluto una cosa scomoda: “Ecco quello che ci vuole: devi uscire in alto mare, là dove c’è la profondità di 70.000 braccia: questa è la situazione” (2536^).

Lui non poteva essere d’accordo con questa tranquilla ed erudita dit-tatura clericale che voleva evitare ai cristiani la scomodità di non starsene esistenzialmente tranquilli: “Se non si leva di dosso agli uomini qualche migliaio d’anni e non si tagliano i ponti per insegnare loro ad applicarsi ai problemi della vita e dell’esistenza, si confonderà ogni cosa. Si confonde il problema dell’esistenza, col suo riflesso nella coscienza stessa degli eruditi di tutte le generazioni. In ogni problema esistenziale, l’essenziale è sempre ciò che esso significa «per me». Dopo di che io resto libero, se ne avrò la possibilità, di trattarlo da scienziato” (919^).

Ma, ahimè, adesso erano tutti degli sterili eruditi cristiani, dei ca-strati che avevano perfino perso la sana inquietudine umana dei grandi pagani: “Quando osservo la vita di molti cristiani, ho l’impressione che il Cristianesimo invece di infondere in essi forza [...] anzi tali individui, a confronto dei pagani, sembrano dal Cristianesimo come svirilizzati e mi fanno l’effetto del castrato rispetto allo stallone” (68*).

Erano tutti dei castrati perché in fondo vivevano solo di dottrine e di idee eterne, cristiane, che poi usavano – come in un gran gioco e commedia –, per scomunicarsi a vicenda. Era tutta una lotta formalmente cristiana per

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scomunicarsi: “L’odierno Cristianesimo si riduce a una sequela di professioni di Fede, di proteste di ortodossia e di accuse di eterodossia ecc.” (1904*).

Facevano anche un altro ragionamento: Dio si era fatto uomo, era quell’uomo straordinario che si chiamava Cristo; bisognava pur dargli un po’ d’onore e glorificarlo. E il modo migliore era quello di essere in tanti in proporzione a quell’uomo straordinario che doveva ben essere onorato non da quattro gatti ma da un bel numero di cristiani (e quanti più ce n’erano, più si onorava): “La Chiesa, che esiste da 1800 anni, formata come si dice da milioni e milioni [...] questo sembra commensurabile per Cristo” (2672*.)

E così, tutti si erano lasciati convincere di essere ovviamente cristia-ni; erano diventati tanti, numericamente tanti e nello stesso tempo una cosa sola, una “Folla” con un potere violento su tutto e su tutti: “La «Fol-la» è Dio, la «Folla» è la verità, la «Folla» è il potere e l’onore. Ora non si pensa che a giocare con questa «Folla». Come si gioca con il denaro, così la «Folla» è tutto; e si tratta solamente e unicamente d’impossessarsi di essa e di averla dalla propria parte. Davanti a questa forza tutto si piega. [...] D’ora in poi ogni testimonio della verità deve volgersi contro la «Fol-la». [...] Tutto ciò che fa la folla, la crudeltà più orrenda, è bene, è volontà di Dio” (1348^).

Tutti erano uguali, tutti ovviamente cristiani e quindi satanicamen-te uguali: “Tutti uguali davanti al Numero. E il Numero è appunto quel male che è indicato nell’Apocalisse [13,18; 15,2] in un modo così pre-gnante” (1404^). Insomma, c’era un nuovo nemico, moderno, satanica-mente anticristiano: “La folla è il pericolo N. 1” (1147^). Se tutti sono cristiani (in buona logica) vuol dire che nessuno è cristiano: “Vox populi, vox Dei! Cioè Dio non esiste; e poi [...] siamo tutti cristiani!” (2076*). Erano tutti cristiani, e così nessuno era cristiano: “Il panteismo è un’illu-sione acustica che scambia la vox populi con la vox Dei” (1910*).

Naturalmente, questa dittatura dell’ovvietà in cui ci s’immaginava tutti cristiani, non poteva non condannare chi era cristianamente diverso: “In un governo di popolo chi governa è l’«uguale». A lui sì che interessa se la mia barba è come la sua, se vado a passeggiare nel bosco quando ci va lui, se sono in tutto come lui e come gli altri. Se le cose non vanno così ecco il delitto: un delitto politico, un delitto di stato” (1404^).

Era proprio un paradosso psichiatrico, (tutt’altra cosa rispetto al pa-

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radosso cristiano): i cristiani (quelli tranquilli e ortodossi) erano tolleranti verso tutti, rispettosi, ecumenici, non volevano per nulla affermare e pro-clamare che il bel fatto cristiano era unico, irripetibile e così infinitamente diverso dalle religioni; rispettavano tutti gli uomini religiosi, i loro riti e le loro morali, e poi si perseguitava chi non si accontentava del Cristia-nesimo ufficiale, tranquillamente statale e nazionale: “E ora, dato che la cristianità è diventata straordinariamente tollerante con i Giudei, con i Musulmani, con i Lama, ecc. e dato che ci vuole sempre un po’ di perse-cuzione religiosa come un piccante nella vita, allora probabilmente anche la cristianità sarà pronta – come in fondo è sempre stata – a perseguitare il vero cristiano” (267^).

Ma, ahimè, così andavano (e vanno) le cose nella cristianità moder-na: si perseguita sempre e solo il cronista cristiano, quello che dice quel-lo che vede coi suoi occhi, camminando per le strade: “Il mondo vuole l’uguaglianza, amare il prossimo – e poi io sono perseguitato perché ho vissuto e vivo per le strade” (2566*).

Sapeva che gli sarebbe toccato qualcosa di simile proprio perché aveva ragione; non una ragione intellettuale, ma una ragione che possie-de solo il cronista cristiano: “La mia colpa verso i miei contemporanei è troppo qualificata perché mi si possa perdonare prima della morte: io ho ragione” (2957*).

Lui, che diceva che il “numero” dei cristiani non voleva dire niente e, anzi, li faceva diventare meno uomini, come dei castrati, era considerato un bastian contrario, un demonio che pretendeva di essere un cristiano, alla faccia di quella tolleranza di cui tutti si riempivano la bocca: “Oggi la maggiore parte di queste migliaia e migliaia di uomini son cristiani solo per il semplice fatto di essere uomini. All’estremo opposto starebbe quel demonio il quale, per via del Cristianesimo, riuscisse a diventare un uomo. Egli dovrebbe poter fare la revisione fino in fondo delle illusioni della cristianità attuale” (2817*).

E, inoltre, poiché non si voleva certo dividere e preoccupare i cri-stiani cristianamente corretti, la tolleranza era obbligatoria: “Questa tol-leranza è pronta a lasciare sussistere l’enorme falsum che tutto il mondo chiama cristiano. [...] Com’è diventato impotente il Cristianesimo senza il suo pungolo! È l’intelligenza che ha vinto e con la sua tirannia ha gettato il ridicolo sull’entusiasmo” (2614*).

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IL “PROFESSORE” DELLA SCRISTIANIZZAZIONE(E I SUOI SEGUACI)

Ai suoi tempi, già erano decenni e decenni che la dea ragione – “la dea-ragione era una donna pubblica” (2129*) – dominava tutto, com-prendeva tutto.

Tutti pensavano che fosse in atto un gran progresso. Non lui, però: “Rispetto alla realtà, il comprendere è un regresso, è un passo indietro, non un progresso” (2802*). C’era un regresso della stessa ragione che gíà non si comparava con l’Assoluto proprio perché voleva comprendere, inglobare e imprigionare tutto: “L’umanità nel corso delle generazioni è diventata sempre più insulsa. Questo dipende dal fatto che è cresciuta soltanto in direzione della razionalità, della razionalità finita. Ma questo progresso è in un senso più profondo talmente ambiguo che è un regres-so, un vero regresso dall’Assoluto” (4354*).

Ma, così facendo, la ragione, finiva solo prigioniera delle sue povere misure effimere e limitate: “Ci si affanna tanto dietro al conoscere, si tende tutto l’arco del proprio pensiero, lo si acquista, ed eccoci bell’e imprigio-nati” (2594*).

Si parlava tanto del progresso della ragione e della filosofia. Ma, in fondo, paradossalmente, erano una ragione e una filosofia statica, senza il movimento dell’esistenza: “La filosofia moderna vuole cominciare con l’essere o con il divenire... ma non ci si muove dal posto con il Seyn (esse-re). Ci vuole la kinesis” (2725*).

E questa ragione statica, senza un brandello di carne esistenziale ave-va contagiato anche quelli che nella cristianità moderna pensavano di esse-re gli illuminati. Così anche il Cristianesimo era concepito come una cosa statica, tranquilla, accomodata a tutti quelli che volevano vivere nell’illu-sione di essere cristiani: “L’errore della Dogmatica di Schleiermacher è in fondo che la religiosità per lui è sempre uno «stato»: essa «è»; egli espone tutto in «essere», la categoria spinoziana. Il «come essa divenga» nel senso del farsi e nel senso del conservarsi, non gli interessa” (2785*).

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Il bel fatto cristiano, al contrario, non era qualcosa di statico, era un avve-nimento che succedeva sempre di nuovo (a Dio piacendo): “Schleiermacher ha fallito sul Cristianesimo perché da un punto di vista estetico-metafisico lo concepisce soltanto come «stato». Mentre il Cristianesimo vuole essere essenzialmente concepito come aspirazione. [...] La realtà cristiana consi-ste nel divenire. Una volta che si è capito questo [...] appaiono le categorie più decisive del Cristianesimo” (2786*).

Era tutta colpa di una ragione presuntuosa, idealisticamente pura, senza un brandello di carne esistenziale e peccatrice e, per questo, cial-trona e superba: “Si ha un’idea cialtrona e presuntuosa della ragione uma-na, specialmente ai nostri tempi; non si concepisce mai un pensatore, un uomo ragionevole, ma la ragione pura e cose simili che non esistono affatto; perché nessuno (sia egli professore o ciò che vuole) può dirsi la Ragione assoluta” (2746*).

A ben vedere, erano ormai secoli che la ragione non aveva le sue radici nell’esistenza, per non contagiare la sua supposta “purezza” con la realtà impura: “Con Platone l’esistenziale fu perduto di vista e così, dogmatica-mente, la dottrina poté dilagare sempre più” (2671*).

Eliminata l’impurità della realtà, si pretendeva di farla coincidere con la logica della ragion pura: “Questa sciagurata filosofia moderna ha fatto entrare la «realtà» nella logica; e poi per distrazione, si dimentica che la «realtà» nella logica non è che «realtà pensata», cioè possibilità” (2802*).

E così, la stessa ragione si era riempita di dubbi e ammalata di scet-ticismo. Erano lontani i tempi antichi quando tutto cominciava con la meraviglia e lo stupore davanti alle cose reali e quotidiane. Adesso si pre-tendeva di guardare la realtà con il filtro scientifico del dubbio; per lui, erano solo chiacchiere, perché così non si poteva vivere esistenzialmente neanche un minuto: “È un punto di partenza positivo per la filosofia, quando Aristotele dice che la filosofia comincia con la meraviglia e non come ai nostri tempi con il dubbio. In generale il mondo deve ancora imparare che non giova cominciare con il negativo, e la ragione per cui fino ad ora il metodo è riuscito, è perché non ci si è mai dati del tutto al negativo, e così non si è mai fatto sul serio ciò che si è detto di fare. Il loro dubbio è una civetteria” (566^).

E così, anche sui bei fatti cristiani che erano stati fatti diventare dal

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“Professore” e dai suoi seguaci solo delle idee, era stata proiettata l’ombra del dubbio; il dubbio che il bel fatto cristiano non fosse la vera felicità.

Adesso, nella cristianità moderna, c’erano solo confusione e dub-bi. E non servivano le apologie formalmente cristiane con le loro ragioni chiare e distinte, con i loro argomenti e prove logicamente e teologica-mente perfetti e coerenti; tutto questo non serviva davanti alla bestemmia che questo dubbio insinuava, che cioè il Cristianesimo non fosse la vera felicità dell’uomo: “Ora si proclama che il Cristianesimo è una dottrina oggettiva. Prima che io mi metta in rapporto con esso, deve innanzitutto giustificarsi per me! Addio, allora, Cristianesimo! Ora il dubbio ha vinto. Questo dubbio poi non può mai essere fermato con ragioni, le quali non fanno che alimentare il dubbio” (2608^).

Il fatto cristiano, non era una novità, aveva i suoi nemici, dichiarati.

Lui lo sapeva bene: “Ciò che è più decisivo è la guerra dei nemici di fuori e quella dei partiti al di dentro” (2196*).

C’erano i traditori aperti del Cristianesimo (che lui preferiva), quelli che si nascondevano sotto sistemi innocentemente teologici.

Anzi, adesso, per sapere cosa fosse il Cristianesimo, quello reale, paradossalmente, bisognava ascoltare cosa dicevano i nemici del Cristia-nesimo: “In un certo senso è bene che il Cristianesimo abbia ancora dei nemici, perché questi sono ormai i soli da cui si possano avere infor-mazioni attendibili sulla natura del Cristianesimo. I cristiani si riservano naturalmente il diritto di adattarle al loro gusto” (3933*).

Per sapere qualcosa del Cristianesimo, quello reale, paradossalmente bisognava ascoltare cosa dicevano i liberi pensatori, i massoni anticlericali e relativisti che sapevano giudicare bene quando si trattava di riconoscere cos’era il Cristianesimo. Adesso “non si riesce a sapere cos’è il Cristianesi-mo, ma si deve cercarlo dal libero pensatore. [...] La concezione del libero pensatore [sul Cristianesimo] è più vera di quella della cosiddetta Chiesa” (4199*).

Ora, paradossalmente, in questi tempi “statalmente” e tranquil-lamente cristiani, i perseguitati a causa del Cristianesimo erano i liberi pensatori: “Non manca molto che il «libero pensatore» nei nostri tempi debba soffrire da parte del Governo [...] sotto l’accusa di predicare il Cri-stianesimo!” (4301*).

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In fondo, gli erano simpatici questi nemici a viso scoperto, questi traditori aperti (in particolare uno di loro) che avevano “assunto il com-pito di difendere il Cristianesimo contro gli stessi cristiani. Si tratta del fatto che la cristianità presente è demoralizzata, [...] ora, Feuerbach, dice, questo non va, alto là. Se voi volete essere autorizzati a vivere nel modo che vivete, dovete anche ammettere di non essere cristiani. [...] È falso quando la cristianità attuale dice che Feuerbach attacca il Cristianesimo. Non è vero! Egli attacca i cristiani, mostrando che la loro vita non cor-risponde alla dottrina del Cristianesimo. [...] Ch’egli sia probabilmente un demonio malizioso, può anche darsi; ma in senso tattico è una figura che può essere utile. È proprio di traditori aperti che il Cristianesimo ha bisogno. La cristianità ha tradito il Cristianesimo in modo subdolo con il volere, senza essere veramente cristiana, aver l’aria di esserlo. Ora ci vogliono i traditori aperti. Anche Dio ha i suoi traditori: traditori reli-giosi i quali assolutamente ubbidienti a Lui, espongono candidamente il Cristianesimo, perché una buona volta si possa riuscire a vedere cos’è il Cristianesimo” (2636*).

Certo, alla fin fine, questi liberi pensatori “anticristiani” erano trop-po ingenui, erano troppo anticlericali, cioè sbagliavano l’obiettivo, perché quello che bisognava eliminare erano proprio i pastori, per poter vivere un po’ di Cristianesimo: “I liberi pensatori vogliono sbarazzarsi dei pasto-ri pensando di sbarazzarsi del Cristianesimo. Sei ben miope con questa tua superficiale riflessione: il rapporto tra pastori e Cristianesimo non è affatto così stretto. No, l’obiezione cristiana comprende meglio la fac-cenda: essa vuole sbarazzarsi dei pastori [...] per avere il Cristianesimo” (4063^).

Quel buco che era la sua Copenaghen non era capace di geniali-tà particolari. Anzi, i suoi abitanti erano solo dei parassiti di ciò che, geograficamente, veniva da un po’ più in là e in basso: “I tedeschi fanno il vento e i danesi se lo mangiano: ecco il rapporto in cui si trovano da lungo tempo danesi e tedeschi” (2909^). Questa dipendenza dai tedeschi si era trasformata in una psicosi per darsi un po’ d’importanza: “Tutta questa paura della Germania è un’immaginazione, un gioco, un nuovo tentativo per lusingare la vanità nazionale” (1635*).

Nessuno si rendeva conto che proprio da qui venivano i traditori

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peggiori, quelli che se ne stavano nascosti e camuffati, quei filosofi tede-schi che si travestivano da teologi.

Purtroppo, anche la filosofia si era messa al servizio della teologia, quella moderna. Riconosceva che lo sforzo di immaginarsi cristiani nasce-va da intenzioni naturalmente teologiche, anche se partiva da logiche e metafisiche filosofiche. Sapeva che quando ci si mette a fare una filosofia teologica, che quando un filosofo vuole travestirsi e diventare un teologo, si fanno solo danni e confusione e, soprattutto, non si fanno più le belle distinzioni cristiane: “Tutta la confusione dei tempi moderni (che si ra-mifica nella Logica, nella Metafisica e nella Dogmatica e in tutto il nostro modo di vivere), ovvero la confusione consiste nell’aver abolito l’abisso immenso della differenza qualitativa fra Dio e l’uomo. Da ciò nella Dog-matica (per il tramite della Logica e della Metafisica) un profondo scherno di Dio che nemmeno il paganesimo ha conosciuto” (1826^).

Così, tutto il problema del Cristianesimo nella cristianità proveniva dal fatto che “i razionalisti [...] si sono impadroniti della Chiesa” (138*). Dalle terre tedesche i filosofi, che volevano essere anche e soprattutto teologi, avevano confuso tutto, avevano trasformato la realtà in idee, per farla poi scomparire nei loro ragionamenti intellettuali: “Questa sciagu-rata filosofia moderna ha fatto entrare la «realtà» nella Logica; e poi, per distrazione, si dimentica che la «realtà» nella Logica non è che «realtà pensata», cioè possibilità. [...] Ma gli uomini quasi van pazzi per questa panteistica scientificità” (2156^).

Adesso, questi intellettuali che s’immaginavano cristiani, volevano dimostrare e provare con le dimostrazioni e le analisi logiche l’esisten-za di Dio: “La speculazione moderna per la quale dolorosamente non è che troppo vero che Dio non esiste [...] e perciò deve essere provato” (3467*).

Adesso, questi filosofi travestiti da teologi, dicevano che poteva es-sere scientifico solo ciò che pensavano e inventavano loro; e che il reale è tutto razionale e che solo quello che la ragione riconosce come una legge scientifica provata con gli alambicchi è la realtà più reale e più vera: “La scienza naturale è la scienza più presuntuosa di tutte e, badate bene, lo è proprio come ribellione a Dio [...] tracotante per i suoi esperimenti ai quali la natura obbedisce, e fiera dei suoi calcoli e previsioni, ecc. Così essa o vuol liquidare Dio completamente come una superfluità sostituen-

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dolo con le leggi naturali, le quali (dopo gli incomparabili progressi ot-tenuti!) in perfetta soggezione devono obbedire alla scienza; oppure essi costringeranno Dio a trovarsi così a disagio con le sue proprie leggi in tale situazione, se posso parlare così, che neppure il diavolo accetterebbe di essere Dio” (2767^).

Ma, così facendo, si obbligava Dio a limitarsi solo alle leggi naturali e necessarie del cosmo e ciò che conveniva a Dio era solo l’ordine universale e necessario delle leggi naturali. Così, tutto quello che non entrava in que-ste leggi naturali, non poteva essere divino. Dio stesso non poteva rompere, perciò, l’ordine delle leggi naturali, era obbligato a starci dentro.

Insomma, per questi filosofi travestiti, non potevano esserci mira-coli; questi dovevano considerarsi solo delle manifestazioni disordinate e accidentali che turbavano l’armonia delle leggi che la ragione aveva sco-perto, poiché quello che non poteva misurare la dea ragione non era reale, non poteva avvenire.

Si voleva, perciò, ridurre tutto a delle miserevoli idee logiche, co-struirsi un sistema e farci star dentro tutte le cose e, soprattutto, farci star dentro il fatto cristiano che non si può mica prevedere con tanta facilità scientifica.

Per lui questo sistematizzare tutto, questa fissazione di mettere tutto all’interno di una spiegazione tranquillizzante che avevano inventato i tedeschi, in fondo, era un attacco diretto al Cristianesimo. Smascherarlo sarebbe stata la sua eredità: “Io presi polemicamente di mira il sistema e ora di sistema non si parla più. A questa categoria è legata assolutamente la mia possibile importanza storica” (1327^).

I traditori peggiori del Cristianesimo, quelli veri, erano quegli ide-alisti che volevano fare i teologi, che volevano fare i professori delle idee cristiane, che volevano imporre le loro idee cristiane come se fossero il vero Cristianesimo e, proprio per questo difendevano il Cristianesimo così tranquillamente moderno: “Difendere il Cristianesimo nella cristiani-tà è essere Giuda n. 2” (2399*).

Invece, in fondo, volevano solo creare confusione e una nebbia che impedisse di vedere i bei fatti cristiani in cui Dio si rivelava e che non po-tevano, naturalmente, essere inventati dalla povera ragione umana: “Per i filosofi ogni conoscenza, anche l’esistenza di Dio, è un prodotto dell’uo-mo, ed è soltanto in senso improprio che si può parlare di Rivelazione;

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pressappoco come quando si dice che la pioggia cade dal cielo, mentre essa non è che nebbia venuta su dalla terra. Essi dimenticano, per restare nell’immagine, che Dio all’inizio ha separato le acque del cielo e quelle della terra [Gen. 1,7] e che esiste qualcosa al disopra dell’«atmosfera» ” (520*).

I nemici del Cristianesimo, quelli che agivano allo scoperto, quando lo attaccavano, in fondo in fondo, lo rispettavano, lo stimavano per quello che era, quasi lo difendevano attaccandolo, conservavano la sua natura, la sua storia, la sua originalità.

Adesso, invece, bisognava riconoscere che i veri traditori del bel fat-to cristiano non stavano fuori della Chiesa: “Nulla, assolutamente nulla, neppure il libero pensatore più disperato e il persecutore della religione più violento, è così pericoloso per il Cristianesimo come un pastore e un professore ufficiale. [...] Qualsiasi attacco contro il Cristianesimo, che lasci intatta l’essenza del Cristianesimo, non può essere pericoloso. È pericolo-so soltanto ciò che ipocritamente mistifica il Cristianesimo” (3884*).

I veri Giuda moderni di Cristo erano i “professori”, i filosofi travestiti da teologi, che pretendevano, con le loro idee cristiane, di sostituire il bel fatto cristiano: “Il Giuda moderno è un uomo molto più colto, calmo, che s’intende assai meglio della vita e del profitto. [...] Questa situazione, secondo me, è più abominevole, qualitativamente, di quella di Giuda. Io credo che un abominio simile non si possa neanche ritrovare nell’anti-chità, esso è stato riservato ai nostri tempi di cultura. Si vede facilmente che io ho concepito Giuda un po’ alla stregua di un professore [...] ” (4095*).

I traditori più pericolosi erano gli intellettuali cristiani, quelli che facevano confusione, quelli che confondevano tutto sotto l’apparenza di essere degli onesti intellettuali cristiani che non volevano ingannare l’uo-mo, soprattutto con il Cristianesimo. Uno di questi, dei più pericolosi, era un certo Lessing, per il quale – secondo il suo poi tristemente famoso argomento – non si poteva “fondare una salvezza eterna su un fatto sto-rico. Dunque, qui esiste un fatto storico, il racconto della vita di Gesù Cristo” (2137^).

Lui riconosceva che le cose, cristianamente, non stavano come dice-va quel tale Lessing: “Ora mi guarderò bene dal prendere una via sbagliata e d’ingolfarmi nei cavilli delle ricerche scientifiche per sapere se si tratta

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di un fatto storicamente certissimo, purché la cosa storicamente sia suffi-cientemente certa. [...] La realtà storica è l’occasione e nello stesso tempo l’oggetto della fede” (2137^).

Si era cominciato, cioè, a dire che l’oggetto della fede cristiana non poteva essere qualcosa, un fatto e un avvenimento accaduto nella storia; che il divino, siccome è di natura universale, non può manifestarsi e acca-dere e apparire in qualcosa d’individuale. Quel tedesco di nome Lessing, in fondo, non faceva che eliminare il Cristianesimo prima ancora di prender-lo in considerazione, perché gli sembrava un’aberrazione che il divino si manifestasse in qualcosa di particolare: “La manovra di Lessing ha fatto un danno incalcolabile. Con un profondo inchino, si è mantenuto per il Cri-stianesimo un rispetto che non dice nulla: mentre esso è stato spogliato di tutte le sue note caratteristiche, bollate di aberrazione e depravazione [...]. Il risultato sarà che il Cristianesimo non è più Cristianesimo” (3132^).

Lui, invece, riconosceva esistenzialmente che “una beatitudine e una infelicità eterna si decide nel tempo per via di un rapporto a qualcosa di storico” (2189^). Sapeva e riconosceva che la vita, quella di tutti i giorni, sa quello che vuole, sa quello di cui ha bisogno: “L’esistenza (che conosce abbastanza quel che ci vuole) ha disposto la cosa in modo che nessuno sa se avrà ancora un’ora di vita, e proprio questa inquietudine il Cristianesi-mo pensa che è indispensabile per realizzare una decisione per l’eternità. Perché una decisione per l’eternità nel tempo è l’intensità più intensiva, il salto più intensivo” (4060*).

Questi traditori occulti avevano un maestro. Lui sì che era l’unico realmente e cristianamente pericoloso: quel tedesco, quel professore, il “Professore” con la maiuscola, quello che aveva inventato la professione di professore e intellettuale cristiano, cioè esistenzialmente, quotidia-namente, un insignificante: “Hegel era uno straordinario professore di filosofia, non un pensatore; ma per il resto deve essere stato una perso-nalità molto insignificante, senza un’impressione di vita. Ma che fosse un «professore» di gran classe questo non lo nego.” (2150^).

Ma poi, cosa c’era di così straordinario in questo professorone che solo pensava alla sua carriera di professore e a essere famoso con il sistema di tre idee messe in croce che aveva inventato?: “Com’è che egli diventa il gran filosofo, autore di 17 volumi? Ammettiamo pure che fosse una testa

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molto buona, molto diligente: ecco che si laurea, prende l’abilitazione, poi ottiene la cattedra. Ora comincia a lavorare. Che risveglio c’è mai in questo? Sempre la solita trivialità: non si tratta che del suo mestiere e tornaconto” (2036*).

Aveva qualcosa di insulso questo professorone, questo intellettuale; aveva qualcosa che nemmeno i peggiori intellettuali avevano: “Ci furono filosofi anche prima di Hegel, che si sono assunti di spiegare l’esistenza, la storia. E a ogni tentativo del genere mi sembra che la Divina Provvidenza in fondo debba mettersi a ridere. Ma proprio essa forse non ne ha riso, perché ciò costituiva sempre una certa serietà di onestà umana. Ma di Hegel (oh, lasciatemi pensare alla greca!) come gli dei devono aver riso di gusto. Un simile schifoso professore che aveva con uno sguardo d’insieme abbracciato la necessità del tutto e aveva messo tutto in filastrocca: oh, voi dei dell’Olimpo!” (3945*).

Al “Professore” dava fastidio tutto ciò che era particolare, esistenzial-mente singolare e reale. Preferiva l’astrazione (naturalmente dal partico-lare), preferiva e si trovava bene solo nelle idee senza nessun brandello di carne e di esistenza (dolorosa, sofferta e a volte contenta). Per lui, insom-ma, quello che era reale erano le sue idee che per questo erano generali, generiche, in cui ci stava tutto, in cui tutto si sistemava. Anche l’esistenza, quella singolarmente dolorosa e sofferta (e a volte contenta), era diluita, era svaporata, era sistemata nel suo sistema che neanche Dio poteva aver-lo pensato così divino e onnicomprensivo.

Insomma, gli dava fastidio la soggettività; voleva che fosse tutto og-gettivo (certo, secondo il suo sistema soggettivo), cioè voleva che tutto fosse astratto. Era proprio uno statalista cui dava fastidio tutto quello che fosse esistenzialmente singolare e quindi imprevisto, che non si può con-trollare facilmente (e per questo non gli piaceva neanche il buon Dio che è così singolarmente incontrollabile): “L’Universale, in cui l’Hegelismo fa consistere la verità (e il Singolo diviene la verità se è sussunto in esso), è un astratto, lo Stato, ecc. Egli non arriva a Dio, che è la soggettività in senso assoluto, e non arriva alla verità, al principio che realmente, in ulti-ma istanza, il Singolo è più alto del genere, cioè il Singolo considerato in rapporto a Dio. Quante volte non ho scritto che Hegel fa, in fondo, degli uomini come il paganesimo, un genere animale dotato di ragione. Perché in un genere animale vale sempre il principio: il singolo è inferiore al

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genere. Il genere umano ha la caratteristica, appunto perché ogni singolo è creato ad immagine di Dio (Gen. 1,27), che il Singolo è più alto del genere” (2791*).

Ma ormai “il professore” era diventato il maestro di tutti quelli che volevano essere oggettivamente integrati al sistema (al suo e a quello dello Stato): “E la filosofia hegeliana è diventata ora così popolare che alla fine i facchini saranno lo «Spirito Oggettivo»” (1502*).

Quello che era pericoloso nel “Professore” era la sua superbia umana smisurata, un’ “auto compiacenza umana che, a forza di accontentare i contemporanei, abolisce Dio e divinizza l’umanità” (1890*).

Il “Professore” era pericoloso proprio perché voleva snaturare diret-tamente il Cristianesimo, voleva svuotarlo dal di dentro con la sua logica sillogistica e con il suo sistema apparentemente dogmatico. Voleva inse-gnare ad andare in cielo, voleva insegnare a tutti a essere cristianamente felici con dei sillogismi fatti di idee cristiane: “Hegel non prende d’assalto il cielo rotolando monti su monti, ma «fa la scalata» a forza di sillogismi” (395*).

Il “Professore” aveva una fissazione per la Trinità, gli piaceva tutto quello che fosse trinitario, aveva inventato un sistema che era fatto di tre idee (un sistema da ridere), un sistema in cui tutto si svolgeva secondo tre passaggi, che lui pensava fosse lo stesso che usava Dio. Più che un siste-ma era una “commedia” decadente sviluppata in tre idee (non si trattava neanche di tre atti...). In fondo aveva inventato un sistema trinitario, un sistema formalmente cristiano (era una cosa da ridere: pensava che Dio e la Trinità ragionassero come lui) in cui non c’era più niente di cristiano: “Per tempi lunghissimi l’umanità si arrabattò con la questione della per-sonalità di Dio. Basterebbe riuscire a comprenderla e si potrebbe fare a meno della Trinità! E poi cos’è accaduto? Venne Hegel con gli hegeliani, i quali capirono meglio la cosa e provarono che Dio è personale, proprio perché è trino. Ora sì che andiamo bene. Tutto l’affare della Trinità è di-ventato una commedia, non sarebbe che la vecchia trilogia logica (tesi-antitesi-sintesi). [...] È questa la più profonda confusione dell’hegelismo nei riguardi del Cristianesimo. [...] è impossibile trattenermi dal ridere quando penso a quel «comprendere» da parte di Hegel nei riguardi del Cristianesimo” (2795*).

Il tradimento del “Professore” non era “a viso aperto”; era un tra-

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dimento culturalmente corretto, un tradimento tipico e proprio di uno che pensava di essere un intellettuale cristiano (due parole proprio con-traddittorie, ma che nel “Professore” erano arrivate a una sintesi in cui non c’era più nulla di cristiano): “Il lato onesto degli attacchi, anche più accaniti, fatti in passato contro il Cristianesimo, è che restava pressappoco intatta l’essenza del Cristianesimo. Il lato pericoloso, nell’opera di Hegel, è che egli ha snaturato il Cristianesimo mettendolo così d’accordo con la sua filosofia. In generale questa è la caratteristica del tempo dei lumi. Invece di lasciare il compito immutato e magari dire: no! si cambiano le carte in tavola e si dice: «Ma, mio Dio, noi siamo d’accordo!». L’ipocrisia dell’intelligenza è infinitamente sorniona e perciò difficilissima a prendere di mira” (3568*).

Ciò che era grave era che il “Professore” snaturava il Cristianesimo con l’aria di chi vuole fare solo il filosofo: “Nessuna filosofia è stata tanto pericolosa per il Cristianesimo quanto quella hegeliana. Perché le filosofie anteriori avevano abbastanza onestà da lasciare il Cristianesimo qual era; ma Hegel fu tanto stupido e sfacciato da sciogliere il problema dei rappor-ti fra speculazione e Cristianesimo, in modo da travisare il Cristianesimo” (2817^).

Al “Professore” non interessava la realtà, quella di tutti i giorni, gli bastava il suo sistema che funzionava a menadito: “Esiste una specie di riflessione che fa perdere completamente l’oggetto, quando cioè ci si com-porta come il corvo allorché perdette il formaggio in seguito all’eloquenza della volpe. Ciò può ben essere un’immagine della dottrina idealistica, la quale, quando tutto è andato perduto, non ha trattenuto che se stessa” (293*).

E già, questo succedeva perché il “Professore” arrivava sempre dopo, sempre in ritardo, non era mai puntuale con la realtà, quella quotidiana ed esistenziale: “La scienza è inferiore all’esistenzialità. [...] L’uccello di Minerva s’alza in volo al calar della notte e la «scienza» vien sempre dopo. Trasformare il Cristianesimo in scienza è il più grande errore possibile” (2802*). Siccome arrivava sempre tardi, in ritardo rispetto a quello che esistenzialmente succedeva, aveva preso il vizio di ridurre tutto a concetti, anche la stessa esistenza, che è tutto tranne un concetto che si può inse-rire in un sistema: “Si opera sempre con il «concetto» di esistenza. Ma il concetto di esistenza è un’idealità e la difficoltà sta appunto nel vedere se

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l’esistenza si risolva in concetti. [...] L’essenza è l’esistenza. A un concetto non si aggiunge nulla in più, sia che ch’esso abbia o non abbia esistenza. [...] Ma l’esistenza corrisponde alla realtà singolare, al Singolo. Per un singolo uomo l’esistenza è qualcosa di molto decisivo” (2729*).

Lo aveva capito e lo aveva scritto in una delle prime pagine del Dia-rio, fin da giovane, riferendosi al “Professore” e ai suoi allievi: “Ogni con-cetto cristiano è stato volatilizzato, così completamente dissolto in una tale nebbia che è impossibile poterlo riconoscere. Ai concetti di Fede, Incarnazione, Tradizione, Ispirazione, i quali, nell’ambito cristiano, si rapportano a un determinato fatto storico, i filosofi hanno creduto bene di dare tutt’altro significato universale con cui la fede diventa coscienza immediata la quale in fondo non è altro che il fluido vitale universale, la sua atmosfera; la Tradizione è diventata il plesso di una certa esperienza del mondo; [...] e l’Incarnazione non è diventata altro che l’una o l’altra presenza dell’Idea in uno o più individui” (180*).

Infatti, per il “Professore”, non era importante quello che accadeva nella storia, sensibilmente, geograficamente, ma solo quello che accadeva eternamente; ciò che per il “Professore” importava veramente era solo l’idea che uno si faceva di Cristo e del Cristianesimo. Cioè, per il “Professore”, ciò che il vero cristiano doveva fare era solo prendere coscienza introspettiva-mente dell’idea Christi che apparteneva da sempre allo spirito dell’uomo.

Così, il “Professore”, riduceva l’avvenimento storico cristiano a una logica, a una dottrina, a un’idea di cui bisognava prendere coscienza. Ri-duceva cioè la fede e l’oggetto della fede a un’idea eterna, all’idea di Cristo, l’idea Christi. Non gli interessava il Cristianesimo storico e carnale, quello che potevano riconoscere i cinque poveri sensi fisici e materiali; quello che interessava al “Professore” era solo il Cristianesimo spirituale ed eterno, uno spiritualismo insomma, un misticismo senza carne né sangue, un intellet-tualismo teologico, un teologismo, una fede spiritualizzata e sterilmente mi-stica. Non c’era niente di più pericoloso e mortale per il Cristianesimo, cioè per Cristo, Dio fatto di carne e di sangue, di ossa e di un corpo umano.

Il “Professore” tedesco che era diventato il maestro di tutti era, in-somma, solo un chiacchierone – “le chiacchiere di Hegel che il reale è vero [...]” (4281*) – che riduceva tutto il Cristianesimo a una nullità: “Con il «nulla» comincia il sistema [del “Professore”], con il «nulla» finisce sem-pre la mistica. L’ultimo è il nulla divino” (2102^).

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Insomma per il “Professore” il bel fatto cristiano era solo un’idea sen-za realtà, un misticismo spiritualista senza carne né sangue, senza alcuna materia terrena e temporale: “Si ha, per così dire, vergogna della propria esistenza terrestre, come se non venisse da Dio. Tutto dev’essere tanto spirituale, così volatilizzato [...] ” (478*).

Tutto il Cristianesimo era stato ridotto dal “Professore” a un’idea di cui prendere coscienza e così, conoscendola, si sarebbe stati felici. Era solo un disgraziato intellettuale della felicità cristiana, uno gnostico mo-derno, uno che pensava che la conoscenza dà la felicità.

Ma, così facendo, e questo era gravissimo, già non c’era differenza fra divino e umano, tra Grazia cristiana e natura umana, perché la salvezza umana stava già tutta nell’uomo, nella sua natura, nella sua conoscenza. Tutto il bel fatto cristiano, determinato geograficamente e storicamente, che era avvenuto in un tempo e in uno spazio reale e determinato, tutto era stato ridotto a un’idea.

In fondo il “Professore” non era che la riattualizzazione moderna (e cambiata) degli antichi gnostici di cui scriveva nelle sue lettere san Gio-vanni, l’apostolo prediletto; essi erano quei tali che volevano andare “più in là” di quello che Dio faceva accadere nella storia, davanti ai sensi, cioè davanti agli occhi. Il “Professore” tedesco voleva proprio andare “più in là” del bel fatto cristiano. Se si vuol proprio dirla tutta, non era contro il Cristianesimo; era “andato più in là” dello stesso Cristianesimo, era – pro-priamente trans cristiano.

Per questo il “Professore”, il maestro di tutti (anche oggi è così), aveva istituzionalizzato (in fondo era solo una riedizione istituzionalizza-ta di ciò che era cominciato nelle università dei tempi medievali), aveva dato finalmente uno status sociale (politico) e cristianamente corretto agli intellettuali della felicità cristiana. Questo era il suo capolavoro: era ini-ziata con lui la setta degli intellettuali della felicità cristiana: “Quando si vedono le buffonate che gli hegeliani ortodossi hanno imbastito con le ca-tegorie del loro maestro, come contenessero chissà quale beatitudine, chi non pensa a quelle genealogie interminabili contro cui mette in guardia san Paolo [I Tim. 1,4]?” (424*). Il “Professore” aveva creato una nuova ca-tegoria umana: i “professori” della felicità cristiana. Era una cosa proprio comica: “Verrà il giorno che questo concetto, “il professore” darà vita a un personaggio comico. Si pensi al Cristianesimo! Ahimè, quant’è cambiato

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da quando aveva i confessores inflessibili, a oggi che ha professores flessibi-li, declinabili secondo tutti i casi” (2795*).

Naturalmente la loro professione era quella d’insegnare, erano do-centi, non era già più necessario essere dei poveracci cristiani che hanno un’esistenza tribolata, innamorata, sofferta e, a volte, anche contenta: “La disgrazia fondamentale del mondo è quel maledetto docere e il fatto che il progresso delle scoperte mette i docenti in grado di impartire un insegna-mento sempre più impersonale. Uomini non se ne vedono più, né pensa-tori, né amanti ecc. [...] È di martiri soltanto che noi abbiamo bisogno e non d’avventurieri” (2060*).

Ma tant’è: se i “professori” volevano essere famosi, conosciuti e se-guiti da tutti, dovevano eliminare quello che poteva dar fastidio alla tran-quillità borghese: “Il pensatore essenziale spinge la cosa agli estremi; in questo consiste la cosa eminente – e pochi soltanto lo possono seguire. Poi viene il «Professore» che elimina il «paradosso», lui sì che una gran moltitudine, quasi la gran «Folla», lo può capire, ed allora si pensa che la verità è diventata più vera” (2427*).

Proprio così nasceva un “Professore”: dall’eliminare quello che gli poteva dare fastidio, quello che non poteva mettere nelle sue misure lo-giche e pure: “Leva da un pensatore il paradosso e avrai un professore” (2456*). Così erano questi “professori” creati e inventati dal “Professore”: gente che voleva una fede tranquilla, che non desse alcun fastidio ai loro ragionamenti puri e sistematici: “Senza paradosso non si può predicare la fede; [...] ecco il contrasto tra un pensatore e un professore” (2461*).

Il “Professore” tedesco, che aveva insegnato a tutti la felicità cristiana intellettuale, era infinitamente più pericoloso dei poveri peccatori car-nali: “È evidente che il Cristianesimo in quella razionalità raffinata, che è l’effetto della degenerazione del Cristianesimo, ha avuto un nemico di gran lunga più pericoloso di quanto non abbia mai avuto nelle passioni sfrenate e nei costumi selvaggi della brutalità” (1477*).

Infatti, lui riconosceva che il pericolo mortale per il bel fatto cristia-no non veniva dai peccati e dalle perversioni morali dei cristiani. Non era mai stata un gran problema l’immoralità dei cristiani. I peccati, cristia-namente, non sono mai stati un gran problema: “Oh! Peccati del cuore e delle passioni: come voi siete più vicini alla salvezza che non il peccato dell’intelligenza!” (3640*).

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Il “Professore” aveva introdotto e insegnato a tutti un nuovo peccato, infinitamente più grave e pericoloso, quello dell’intelligenza e della ra-gione idealista, il peccato di un’esistenza idealista. Era proprio diventato il maestro di tutti: “Succede con quelli che sono andati al di là di Hegel come con la gente che abita in campagna, che sempre devono indirizzare loro lettere «via» una grande città. Così gli indirizzi qui sono: «a N.N.: via Hegel» ” (605*).

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UN’OPERAZIONE CRIMINALE, CIOÈ GNOSTICA

Voleva solo essere un cronista, non voleva fare il teologo. Nel suo Diario scriveva quello che vedeva tutti i giorni, quando usciva in strada e quando parlava con la gente. Qualcuno doveva pur riconoscere le cose come stavano.

Ufficialmente tutti le negavano, tutti ufficialmente dicevano che la Chiesa Cristiana, lo Stato Cristiano e la società Cristiana andavano perfet-tamente bene: “Quando in una contemporaneità la situazione è al punto che quasi ciascuno privatamente sa che tutto è fuori squadra, ch’è una falsità, mentre nessuno ufficialmente vuol dirlo [...] che il tutto è in pu-trefazione, che giochiamo al falso: sì, una situazione simile eo ipso è con-dannata, essa deve tramontare. [...] È tale in fondo la condizione della cristianità, specialmente nel Protestantesimo, specialmente in Danimarca” (4180*).

Tutti, tranquillamente cristiani, si immaginavano ovviamente e siste-maticamente cristiani. Lui vedeva che il Cristianesimo ormai non esisteva più. Lui, solo nel suo Diario, annotava quello che vedeva. Fin da giovane si era accorto che nelle grandi città già non c’era più Cristianesimo: “Nei nostri tempi «cristiani», il Cristianesimo sta per diventare paganesimo: in ogni modo ha abbandonato le capitali da molto tempo” (328*).

Doveva scriverlo, annotarlo, quello che vedeva con i suoi occhi: “Lo stesso Cristianesimo in fondo non esiste più” (1826^). Vedeva e scriveva ciò che era evidente: “Nella cristianità in sostanza il Cristianesimo è stato abolito” (1208^).

Strana abolizione; poteva avere anche una certa pericolosità per la cristianità clericale: “Abolirlo del tutto [il Cristianesimo], il mondo è tanto astuto che capisce bene che ciò potrebbe avere la conseguenza di riaverlo sul serio” (4091*). Infatti, non si aboliva la caricatura, la parodia in cui era stato trasformato il Cristianesimo. Nella cristianità clericale, con un’astuta operazione criminale, si era abolito il bel fatto cristiano (con l’azione della

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sua Grazia), mantenendo nello stesso tempo in piedi lo scenario dove si rappresentavano la parodia e le comiche del Cristianesimo clericale.

Si trattava, bisognava dirlo, di una vera e propria apostasia, che si mascherava perfettamente dietro la più tranquilla ortodossia: “Questa strana apostasia [...] che tutti Ti rimarranno fedeli!” (2034*).

Si trattava realmente di un’operazione clericalmente barocca, cioè di un’operazione che copriva il nulla cristiano che si viveva con il vuoto del-le apparenze di una parodia cristiana: “Ciò che, infatti, il mondo voleva e vuole è che il Cristianesimo sia abolito. Ma, scaltro com’è, il mondo ha capito, come per istinto, che il miglior modo di abolire il Cristianesimo è di mantenere un’apparenza che lo si ha ancora” (4134*).

Così, l’abolizione del bel fatto cristiano, per lui coincideva con il trionfo del Cristianesimo clericale e barocco, del Cristianesimo clerical-mente organizzato e istituzionalizzato: “Il Cristianesimo fu abolito in modo che esso, come si dice, si stabilì e fiorì” (4150*).

Già non c’era più niente del Cristianesimo reale; ma proprio per que-sto, con un’operazione tipicamente barocca, con un’operazione di riempi-mento del vuoto e del nulla cristiano, la gente non rinunciava all’idea di immaginarsi cristiana: “Il Cristianesimo è abolito nella cristianità, la quale oramai non vuole rinunciare alla pretesa di essere nondimeno cristiana” (1868^).

Si imbellettavano tutti di Cristianesimo. Erano i primi uomini dopo Gesù, senza Gesù, i primi uomini cristiani senza il bel fatto cristiano. E, quindi, si stava ancora peggio che ai tempi pagani, prima di Gesù. Adesso si viveva dopo Gesù, 1800 anni dopo Gesù, senza Gesù: “Il Cristianesimo non esiste più, tutto è chiacchiera; non è neppure paganesimo, perché s’imbelletta di Cristianesimo” (2716^).

Nel suo Diario, in cui scriveva quasi tutti i giorni, osava dire quello che vedeva e che nessuno aveva mai detto prima: “Il mondo attuale ha apostatato da Dio. [...] Questo mondo per Dio è perduto; ormai la cosa è decisa, e ognuno che nasce non fa che aumentare la massa di perdizione” (4477*). Si trattava di una vera e propria apostasia, scelta, voluta, libera, quella che lui vedeva con i suoi occhi, guardando la gente che si imma-ginava ovviamente cristiana: “È un mondo di libertà che liberamente ha apostatato da lui” (4477*).

La modernità era solo un deserto senza i bei frutti storici cristiani.

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Desertus, cioè abbandonato; questo era quello che lui vedeva: “La maggior parte degli uomini sono ora a tal punto privi di spirito, sono così abban-donati dalla Grazia [...] ” (3322^).

Insomma, si stava celebrando il funerale del bel fatto cristiano e nes-suno si accorgeva, anzi si faceva una processione festosamente funeraria: “Gli uomini d’oggi possono solo in un certo senso essere chiamati «bec-chini del Cristianesimo», in quanto essi lo portano alla tomba” (3678*).

Adesso, i nemici non stavano fuori dalla cristianità, non erano i poveri relativisti, i materialisti, gli atei, i liberi pensatori; no, adesso i nemici sta-vano dentro la cristianità: “Nella cristianità ci si è dati da fare per difendere l’ortodossia dalle sette e dai liberi pensatori, ecc., senza accorgersi che la cri-stianità stessa è una congiura contro il Cristianesimo del Nuovo Testamento e molto più pericolosa di tutte le sette e di tutti i liberi pensatori” (4333*).

Non è che fossero aumentati gli attacchi che venivano da fuori del Cristianesimo, gli attacchi esterni portati da quelli che non erano cristiani e che si dichiaravano apertamente nemici del Cristianesimo.

No, la tragedia che lui vedeva, era che gli attacchi contro il Cristia-nesimo, gli attacchi per la distruzione del Cristianesimo e per l’apostasia dal Cristianesimo venivano (come sempre!) dal di dentro della cristianità, da quelli che si immaginavano ovviamente cristiani: “La cristianità è una cospirazione contro il Cristianesimo del Nuovo Testamento. [...] Nella cristianità ci si è dati da fare per difendere l’ortodossia dalle sette e dai liberi pensatori, ecc., senza accorgersi che la cristianità stessa è una con-giura contro il Cristianesimo del nuovo testamento e molto più pericolosa di tutte le sette e di tutti i liberi pensatori” (4333*).

È sempre la stessa storia: le persecuzioni peggiori contro il bel fatto cristiano non le fanno quelli che non sono cristiani, ma quelli che “vi-vazzano” nella cristianità: “E gli attacchi peggiori non sono forse sempre quelli che vengono alle spalle?” (943*).

Non si trattava di nemici esterni; si trattava, anche se formalmente (direttamente non si voleva far vedere), di un attacco che veniva dal di dentro, dalla stessa cristianità moderna: “L’apostasia che il Cristianesimo predice che avverrà prima della fine del mondo, verrà indirecte dal Cristia-nesimo stesso” (2550*).

Si trattava di un’insubordinazione, di una rivolta dall’interno del-la cristianità e contro il bell’avvenimento cristiano; un’insubordinazione

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fatta dai cristiani ovviamente tranquilli e abituati: “La cristianità è perciò la sommossa contro il Cristianesimo, poiché la sommossa non consiste nel fatto che nessuno vuole chiamarsi cristiano, no: la sommossa è nel lasciare che tutti si chiamino cristiani – e così, con il «numero», cambiare il concetto di cristiano” (4362*).

A questo si era arrivati: i cristiani avevano abbandonato Gesù, cioè il Cristianesimo: “La situazione moderna è l’indifferentismo; ciò non si-gnifica tanto che il Cristianesimo ha abbandonato il mondo, quanto che il Cristianesimo ha abbandonato se stesso, o piuttosto che la Cristianità ha abbandonato il Cristianesimo” (2502^).

La cristianità tranquilla e ovviamente cristiana aveva abbandonato il Cristianesimo, in un modo cattivo: snaturandolo. Con un attacco indi-retto, non frontale. Aveva intitolato un appunto del suo Diario: “L’attacco larvato contro il Cristianesimo”. E commentava: ”Ciò che ha danneggiato assai la causa del Cristianesimo è che da molto tempo – a causa del ri-spetto tradizionale di cui godeva il Cristianesimo – gli attacchi sono stati fatti sottomano” (3132^). L’attacco al Cristianesimo era così nascosto e camuffato, che non c’erano neanche più eresie; ora tutto il Cristianesimo era ridotto a un gioco: “Ora non ci sono più eresie, non si ha abbastan-za carattere neanche per questo. Perché un’eresia presuppone: a) probità sufficiente per far valere il Cristianesimo per quel che è; b) passione per avere un’altra opinione. No, ora sono i falsari che sono in voga, non c’è che la miseranda falsificazione di «giocare al Cristianesimo», il far finta che sia Cristianesimo l’insegnamento e la vita correnti; mentre non sono che sentimentalismo annacquato e svirilizzato, raffinato, epicureo. Oh, migliori, molto migliori erano i tempi quando si lasciava che il Cristiane-simo fosse quel che era, o lo si accettava o si rompeva con esso sul serio. Ma ora l’unico Cristianesimo esistente è una falsificazione ed è questo il maggior pericolo” (2817^).

Gesù era venuto a salvare i malati; adesso, questo Cristianesimo barocco serviva solo ad ammalare, faceva male: “Il Cristianesimo della cristianità non solo diluisce e annacqua il Cristianesimo, ma lo falsifica nel suo principio, rendendolo dal punto di vista cristiano il veleno più pericoloso, così che invece di essere il rimedio che salva, è il veleno che uccide” (3290^).

E così, la cristianità si era ridotta a uno sforzo clericale per difendersi

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dal bel fatto cristiano: “La cristianità è lo sforzo del genere umano continua-to attraverso i secoli, con sempre crescente successo, per difendersi contro il Cristianesimo” (22 settembre 1855, 3316^).

Tutto era diventato mediocre: “Il Cristianesimo è abbassato alla me-diocrità più misera e insulsa” (3078^). Tutto era stato annacquato, ane-stetizzato in una mediocrità senza vita reale, esistenziale: “La cristianità è l’acqua che ha spento il fuoco. [...] Il Cristianesimo era un «appiccare il fuoco», e ora è un espediente per tranquillizzare nei riguardi dell’eter-nità, perché noi possiamo tanto meglio rallegrarci e godere questa vita” (3214^).

La ragione idealista e pura aveva ridotto l’esistenza dell’uomo e delle cose a un’idea; e così anche il Cristianesimo era adesso solo un’idea che già non interessava l’esistenza quotidiana: “Si è soliti dire che bisogna avere la fede, poi deve seguire l’esistere. È stata questa la ragione di una così enorme confusione; come se si potesse avere la fede senza l’esistere [...] Poi c’è un altro esistere che segue la fede. Ma quel primo non deve mai essere dimenticato – altrimenti il Cristianesimo è snaturato comple-tamente” (2536^).

Tutti, ai suoi tempi, si erano dimenticati, insomma, che il Cristiane-simo come organizzazione, come sistema per tranquillizzare con le idee cristiane l’esistenza, non esiste e che solo esistono dei poveracci che sin-golarmente vivono della Grazia cristiana: “Il Cristianesimo non esiste più dato che non esistono più cristiani: così il Cristianesimo, mi sembra, è stato abolito”(4006*).

Tutti si erano dimenticati che non esiste il Cristianesimo come una bella idea cristiana, ma realmente e cristianamente esistono solo i poveri cristiani, singoli e individuali: “Appena si perde la categoria del «Singo-lo», il Cristianesimo è abolito. Succederà così che il Singolo si rapporti a Dio attraverso l’umanità, attraverso l’astratto, attraverso un terzo – e così il Cristianesimo è abolito eo ipso. Quand’è così, l’Uomo-Dio è ridot-to a fantasma [...] la cristianità attuale riduce Cristo a un puro fantasma nell’ordine dell’esistenziale, benché affermi che Cristo era un uomo sin-golo. Esistenzialmente non si ha il coraggio di credere all’ideale. [...] Il Cristianesimo è diventato una cosa fantastica che non ha il suo posto nel mondo della realtà. [...] La ragione, la riflessione hanno tolto l’ideale dagli uomini, dalla cristianità, riducendolo a qualcosa di fantastico. Di conse-

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guenza l’essere cristiano dev’essere fatto retrocedere di una riflessione. Cioè l’essere cristiano diventa ora «l’amare» di essere cristiano, l’«aspira-re» ad esserlo [...]” (1941^).

Non serviva a nulla che tutti fossero ovviamente cristiani in una Chiesa di Stato, in stati, paesi e società “naturalmente” cristiani: “Ecco la parola d’ordine: alla malora le astrazioni, le «Chiese di Stato», le «Chie-se di Popolo», i «paesi cristiani» – questi sono piumini e coperte: ogni lavoro in questo senso è un tradimento contro quel fuoco, è contribuire a soffocarlo di più. Lavora invece per disperdere: il «Singolo», ecco la parola d’ordine” (3214^)

Tutto era tranquillamente e ovviamente cristiano, non c’era più nes-suna novità, nessuno scandalo cristiano: “La pretesa ortodossia della cri-stianità stabilita, ha in fondo trasformato il Cristianesimo in paganesimo. [...] La possibilità dello scandalo è dialetticamente decisiva, è il «confine» tra il paganesimo, l’ebraismo e il Cristianesimo” (2127^).

Per lui il crimine della cristianità moderna consisteva nel falsificare e snaturare il bel fatto cristiano. Era evidente che si trattava di un’operazio-ne criminale, dell’assassinio del Cristianesimo da parte della stessa cristia-nità (lo stesso giudizio che poi darà l’altro grande, Péguy): “Il problema del Cristianesimo, com’è specialmente nel protestantesimo, specialmente in Danimarca, dovrebbe essere, dal punto di vista cristiano, considerato come una causa criminale” (4049*).

Tutti sapevano che, in realtà, non c’era più Cristianesimo, quello cristiano che era cominciato e iniziato con Gesù. Tutti sapevano, però facevano finta di niente; erano tutti “innocentemente” criminali: “Dove la conoscenza c’è, ivi la verità è criminale” (4271*).

I falsari della cristianità erano proprio dei criminali: “Anche il più esperto e intrepido agente di polizia che mai sia vissuto, rabbrividirebbe al pensiero di entrare a servizio in questo campo dove si opera con bigliet-ti falsi sul conto dell’eternità per ingannare tutta un’epoca, durante una vita intera, per soffiare agli uomini l’eternità. Neppure tra gli altri crimi-nali c’è qualche analogia con questo. Non c’è nulla che abbia soltanto una traccia d’analogia al prezzo con cui questi crimini sono pagati: con oro, ricchezze, con tutti i beni terreni; e con venerazione!” (4481*). Non si poteva negare: “Se questo non è un brigantaggio, io non so cosa mai può essere una cosa simile!” (4272*). Si trattava proprio di una “mediocri-

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tà criminale” (4497*) meritevole di un castigo inimmaginabile: “Quanto questo delitto sia qualificato, lo si vede anche da questo, che esso in fondo non può essere punito in questo mondo” (ibidem). Insomma “ecco la più tremenda di tutte le storie criminali” (3861*).

La mediocrità criminale, che era diventata l’ortodossia ufficiale della cristianità tranquillamente cristiana, era infinitamente più grave dei più gravi peccati: “Quella specie di ortodossia, a sua volta, fa tutt’uno con la chiacchiera cordiale della vita di famiglia, ha essenzialmente l’asilo nella cordialità della vita di famiglia e a sua volta costituisce il più grande peri-colo per il Cristianesimo: non i piaceri bestiali o le corruzioni e le passioni orrende e simili cose. Tutto questo non è così contrario al Cristianesimo come questa piatta mediocrità, questa esalazione nauseabonda, questa vi-cinanza scambievole, dove certamente è difficile che succedano grandi delitti, eccessi brutali, aberrazioni violente [...] ” (4319*).

Si trattava di tutt’altro genere di crimine, infinitamente più tragi-co e grave. La cristianità clericale annullava il Cristianesimo senza avere bisogno di nessuna violenza apparente, in maniera subdola, indecente, meschina, mediocre. Si distruggeva il bel fatto cristiano trasformandolo nel suo contrario, snaturandolo, insomma: “ [Il Cristianesimo] non si osa abolirlo e neppure i pastori ridono dentro di sé quando l’espongono al popolo: no, lo si trasforma di soppiatto in qualcos’altro, nel suo opposto; ci si adopera con tutte le forze per convincere ch’è Cristianesimo. A tal punto si porta rispetto al Cristianesimo!” (4045*).

Insomma, si falsificava – snaturalizzandolo – il bel fatto cristiano. I Giudei, almeno loro, non avevano mai permesso che si falsificasse ciò in cui credevano: “Il cristiano può essere coinvolto nelle agitazioni di questo mondo ed anche darvi molta occasione. Ma la sua vita religiosa la deve tenere per sé, come i Giudei che nel loro commercio usavano monete ro-mane con l’effigie degli imperatori, ma nel tempio non ammettevano che la propria moneta” (385*).

Nella cristianità moderna si falsificava tutto. Anzitutto, si voleva fal-sificare un fatto evidente, evidentemente storico, umanamente storico: quello del peccato originale: “Julius Müller ha inventato la teoria di ri-condurre il peccato originale ad una caduta fuori del tempo, antecedente la vita di tutti gli uomini nel tempo. Questo significa in fondo spostare tutto il Cristianesimo. Johannes Climacus espone subito il suo problema:

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una beatitudine e un’infelicità eterna si decidono nel tempo per via di un rapporto a qualcosa di storico. [...] In fondo Kant era molto più onesto con la sua teoria del «male radicale», perché egli non pretendeva mai che questa teoria fosse una comprensione speculativa del problema del Cri-stianesimo” (2189^).

Si trasformava il peccato originale in qualcosa che ormai apparteneva a un passato così lontano che già non interessava il tempo, quello storico. Invece, per lui, quel peccato riguardava l’oggi: “Noi uomini prendiamo quella storia della caduta di Adamo come qualcosa di molti, molti secoli fa, come qualcosa di sorpassato e di dimenticato: ora noi siamo persone perbene. Per Dio, la caduta di Adamo, è successa oggi” (4088*).

Soprattutto, e acutamente, lui riconosceva anche che il peccato non è una questione legata solo alla finitezza dell’uomo; il peccato non coin-cide con il fatto stesso di essere nati mortali e finiti, e il fatto stesso di esistere non è un peccato (come dicevano tutti quegli gnostici moderni).

Già dal tempo dei primi filosofi greci, un tale Anassimandro aveva detto che il male coincideva con la stessa finitezza umana; era una colpa già il fatto stesso di essere nato, di essere umanamente finito. Lui aveva già visto che la modernità cristiana avrebbe ripreso questa “spiegazione” sul male nel mondo per inglobare il Cristianesimo in categorie pagane, antiche, gnostiche: “Julius Müller dice [...] che colpa e peccato sono cor-relativi. Ora è impossibile pensare la mia colpa rispetto a qualche cosa ch’io stesso non abbia commesso – ergo, non c’è più allora alcun peccato originale. In questo modo, negando il concetto di colpa, io finisco per negare il peccato originale, proprio in forza della tesi che colpa e peccato son correlativi” (2820*).

Nella cristianità moderna si eliminava il peccato originale proprio perché si diceva che coincideva con la natura dell’uomo, con il suo stesso esistere effimero e mortale. Ma, se così stavano le cose, non c’era nessuna colpa singola, liberamente singolare, fatta da un uomo di carne e ossa perché il genere, quello umano, era già peccatore per il fatto stesso di esistere.

Se si diceva che il male è di tutti perché siamo effimeri e finiti come delle povere creature mortali, nessuno ha una colpa, libera, individuale; ma allora, è evidente, non c’è più nessuna necessità e convenienza di un salvatore singolare, non c’è più bisogno di Gesù. Ci si salva solo se

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si fa parte del genere umano che adesso era la “Folla”, il “Numero”, cioè quello che voleva lo status quo del potere clericale e statale.

Invece, per lui, il bel fatto cristiano aveva ridonato il peccato alla libertà dell’uomo, il bel fatto cristiano di Gesù aveva strappato il peccato alla necessità, all’inevitabile fatalità: “Il Cristianesimo ha per primo messo in luce il concetto di sinergismo e perciò per la prima volta la finitezza ha avuto il suo valore; perciò anche la speculazione, il punto su cui pog-giare, la libertà e la sua realtà. La prima determinazione del sinergismo nel Cristianesimo è il peccato. Il peccato non è perciò semplicemente la finitezza, ma nel peccato vi è un momento della libertà e della libera finitezza” (732^).

Adesso, invece, l’esistenza singola, l’individualità finita non contava nulla, erano indifferenti, erano colpevoli per il fatto stesso di esistere sen-sibilmente e materialmente; adesso valeva solo – come diceva il “Profes-sore” – l’universale, il collettivo, il generale, cioè l’astrazione e l’abolizione di qualsiasi “io” fatto di carne e ossa.

Così, in un mondo e in una cristianità dove dominava la “Folla” e il “Numero”, anche Dio era diventato un astratto impersonale: “Si è abolita la personalità. Dio è diventato impersonale, ogni comunicazione è imper-sonale” (1641*).

E quindi, anche il povero Gesù e la sua entrata nella storia degli uomini, erano ridotti a un’idea senza tempo, senza bisogno del tempo. Il Verbo di Dio (si diceva e si predicava), si era fatto idea, già non aveva nessuna carne e corpo: “Nel protestantesimo si è arrivati al punto che Cristo si è ridotto a un’idea” (2612^). Così, il povero Gesù non era più né uomo né Dio: “Si riduce Dio a una mitezza così vaga che non è né Dio né uomo” (3469*).

Gesù era diventato, nei tempi che gli toccava vivere, una delle idee della ragione idealista: “Come non accorgersi che la filosofia ai nostri gior-ni riduce il Cristo storico a una specie di figlio naturale, o tutt’al più a un figlio adottivo?” (632*). Il bel fatto cristiano, quel Gesù che era stato e continuava a essere di carne e ossa, era ormai ridotto a un’idea spiri-tuale, a uno spirito: “Non si deve mai dimenticare che Cristo si prestò anche a lenire le necessità corporali di questa vita. Si può anche, sbaglian-do prospettiva, rendere Cristo così spirituale da farlo apparire crudele” (1996^).

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Insomma, Gesù era diventato un povero Cristo, ridotto a un fanta-sma, a un’idea strana.

Al massimo, si considerava Gesù come un grande uomo della storia. Ma era pur sempre un’idea, quella di trasformarlo in un grande uomo della storia, il più grande, beninteso. Gesù era così solo un grande uomo, un superlativo dell’umano, una proiezione dell’uomo. In fondo, così, non era difficile confrontarsi e vivere ovviamente da cristiani: “Considerare Cristo come uno dei soliti Grandi è bestemmiarlo. Se nell’essere cristiani non vi è in ogni momento, come al principio, assolutamente il più grande pericolo umano possibile, il Cristianesimo è abolito” (1764*).

Il povero Cristo (e il suo povero Dio) era, in fondo, solo un pretesto per esaltare le magnifiche sorti della ragione, dei suoi pensieri e idee: “L’uomo s’immagina anche di pensare il divino. Ma tutto codesto pensare umano non porta più in là del pensare che il divino è il superlativo più su-perlativo dell’umano” (4359*). Il povero Cristo non era che il punto mas-simo cui poteva arrivare l’uomo, il massimo esponente della magnificenza e del potere umani, una questione politica, insomma, la teologizzazione della politica e la politicizzazione del bel fatto cristiano: “Come ho detto, la colpa della cristianità è un delitto di lesa maestà: si è degradato Dio a un superlativo di maestà umana. [...] Come se Dio fosse una maestà umana, che desidera espandersi e diventare il più potente: dunque precisamente come politica. Ecco come si è trattato il Cristianesimo!” (4256*).

E, siccome nella cristianità dominavano gli intellettuali della felicità, il massimo di grandezza che si concedeva al povero Cristo era di essere un “collega”, anch’egli un professore delle idee cristiane: “Se in realtà il pensiero di Dio fosse che il Cristianesimo è soltanto una dottrina, che si riduce ad alcune tesi, il Nuovo Testamento sarebbe un libro ridicolo: [...] mettere tutto in movimento, così che Cristo debba patire allo scopo sol-tanto di presentare alcune tesi!” (4331*). Gesù, al massimo, poteva solo essere un maestro di tante belle idee spirituali, dottrinali e morali che si potevano discutere e interpretare, che si potevano studiare e analizzare. “Cristo [era stato trasformato] in un Maestro qualsiasi che deve essere giudicato dal pubblico e così anche Lui è obbligato a giustificare Sé e la Sua dottrina” (2608^).

Alla fin fine, nella cristianità moderna, raffinata, erudita, il povero Gesù non sarebbe neanche crocefisso ma sarebbe trattato meglio, si di-

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scuterebbe teologicamente su di lui, sulla sua grandezza: “Si è detto che se Cristo tornasse sulla terra sarebbe di nuovo crocifisso. Questo non è del tutto vero. Il mondo è cambiato: vive ora nella «intelligenza» “ (1755^).

E tutto questo succedeva perché si era buttato il povero Gesù indie-tro, fuori dal tempo, da quello che conta, dal tempo presente. Lo si era ributtato dove era vissuto la prima volta, tanto tempo fa; e per questo, adesso, su di Lui si potevano fare discussioni erudite e borghesemente intellettuali: “Tutto quel malcostume dell’erudizione non arriverà mai alla fede. L’uomo deve rivolgersi nella preghiera a Cristo: purtroppo si tratta Cristo come se fosse un personaggio di 1800 anni fa” (1355^).

Ma così, in mezzo a tutte queste discussioni teologicamente erudite, il povero Gesù già non era il Signore davanti al quale ci si inginocchia e si adora: “Se io voglio attenermi senz’altro all’imitazione del Modello, io prendo questo modello invano. Qui importa soprattutto l’adorazione, e solo attraverso l’adorazione si può voler imitare. Bisogna inoltre che sia il Modello stesso ad aiutare chi Lo deve imitare” (1729^).

Gesù, che adesso era solo un povero Cristo, era stato ridotto a uno dei tanti argomenti di discussione, di interpretazione, naturalmente teolo-gici. Già non si necessitava come Salvatore della povera natura umana.

Anzi, se Gesù era ridotto alla misura della natura umana, il Cristia-nesimo era solo ciò che la natura umana raggiunge quando è al massimo della sua coscienza e della sua umanità, della sua perfezione umana. Già non si distingueva più fra natura e Grazia, non c’erano già più le belle distinzioni di una volta, quando la natura umana aveva bisogno di Gesù e della sua Grazia per essere salvata e redenta: “L’umano e il cristiano s’iden-tificano perfettamente: ecco la tesi, la parola d’ordine dei nostri tempi. Ma essa è l’esatta espressione che il Cristianesimo è stato abolito. [...] L’umano e il divino sono contrasti di qualità. In fin dei conti, secondo Mynster, il Cristianesimo sta all’uomo naturale come l’arte del cavallerizzo al cavallo, come il cavallo addestrato a quello non addestrato, dove appunto non si tratta di togliere la natura, ma di «nobilitarla». Vuol dire che l’essenza del Cristianesimo è l’urbanità; essere cristiano è pressappoco ciò che ogni uomo naturale nel suo momento più felice potrebbe desiderare come la cosa più alta: la perfezione uguale, armonica in se stessa, la virtuosità perfezionata del proprio io. Ma quando si parla in questo modo, non si è

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forse centomila miglia lontani da quel discorso sul Redentore che dovette soffrire nel mondo? [...] Perché vi è una differenza qualitativa infinita tra Dio e l’uomo” (1294^).

Adesso, cristiani si nasceva. Fiunt, non nascuntur christiani, così si era sempre detto, cristiani non si nasce, si diventa, per Grazia: “Ora si è creato il dogma insulso che Cristo ha salvato il «genere umano». Tutte chiacchiere; sì dovrei dire che, anche se Cristo l’avesse voluto, non l’avrebbe potuto. [...] Ma l’essere cristiano è diventato pressappoco un sinonimo di essere uomo; non si è lungi dal credere che i cristiani generano cristiani” (3939*).

D’altronde, era facile pensare che si nascesse cristiani quando si ve-niva al mondo in stati e paesi tradizionalmente cristiani, dove la chiesa cristiana coincideva con lo stato tranquillamente cristiano: “Si è trasfor-mato l’essere cristiano con l’essere massa; da cui deriva il vezzo del tutto anticristiano di parlare di popoli, stati, paesi «cristiani», cioè di «masse» cristiane [...]. O la Grazia dà soddisfazione assolutamente e ci salva tut-ti, tutti senza distinzione, anche i peccatori pubblici, anzi chissà perfino quelli che non sono neppure cristiani [...], ma è facile accorgersi, con tutta questa teoria, che essere massa è essere cristiano [...] si suppone che tutti saremo salvi; si suppone che siamo cristiani fin dalla nascita” (2989^).Tutti erano dei cristiani anonimi, tutti apparentemente felici, salvati.

La teologia dei “professori”, dei teologi del suo tempo, in fondo, non era che una giustificazione politica, di potere, dello status quo (che si voleva rimanesse immobile) degli stati cristiani abitati dai cristiani ov-viamente cristiani: “L’errore della dogmatica di Schleiermacher è in fondo che la religiosità per lui è sempre uno «stato»: essa «è»; egli espone tutto in «essere», la categoria spinoziana. Il «come» essa divenga, nel senso del farsi e nel senso del conservarsi, non gli interessa. [...] Tutta la lotta non viene che col «divenire». Alla luce del «divenire» sorge la questione: ma ora ciò che è, è poi la verità?” (2142^).

Faceva politicamente comodo ridurre il bel fatto cristiano – che è sempre imprevisto – a una teologia statica, astratta, che non si interes-sava dell’esistenza inquieta: “Schleiermacher definisce il «sentimento di dipendenza» come il principio di ogni religione. Questo è a sua volta uno «stato», ovvero la religiosità è in funzione di «essere» statico. [...] Ma la realtà cristiana consiste nel divenire” (2143^).

Il Cristianesimo era diventato una cosa tranquillamente statica: si

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nasceva già cristiani in stati e paesi cristiani e così già non c’era bisogno di essere fatti cristiani, per Grazia: “Il pensiero del Cristianesimo è che tutto gira attorno alla trasformazione qualitativa, alla trasformazione di tutto il carattere nel tempo (com’è qualitativa la trasformazione dal non essere all’essere, qual è la nascita). Tutto ciò che si riduce a sviluppo di quel che l’uomo è originariamente, non è esistere cristiano. La cristianità ha sem-pre l’interesse di riuscire ad abolire il paradosso (perché il paradosso è: «nascere da vecchi») [Gv. 3,7] [...] Spostando il paradosso si è ottenuto che la cristianità è senz’altro ritornata al vecchio paganesimo – abbellito con espressioni e locuzioni cristiane.” (3151^).

Il Cristianesimo nella cristianità moderna era ridotto a null’altro che allo sviluppo di ciò che l’uomo già era, naturalmente e umanamente; era solo il perfezionarsi dello sviluppo della natura umana: “Il finito e l’infini-to, il tempo e l’eternità, dal punto di vista cristiano sono qualitativamente eterogenei. L’infinito è ben altra cosa da un superlativo o il superlativo più superlativo del finito. Ma tutta la sofistica nell’ambito del Cristianesimo (e in questo momento nella cristianità tutto è sofistica) consiste nel sostituire il rapporto diretto a quello inverso. Allora la realtà cristiana diventa lo sviluppo diretto del naturale e dell’umano” (3717*).

Cosi, ormai, tutti gli uomini potevano considerarsi ovviamente dei cristiani anonimi: “Il Cristianesimo non esiste affatto, almeno nella cristia-nità, dove tutti noi siamo cristiani e dove tutti saremo salvi. Come la pro-posizione: «Tutto è vero» significa che niente è vero, così dire che «tutti siamo cristiani» significa che «nessuno lo è». Nella cristianità noi siamo tutti cristiani. Perché si è riusciti a rendere l’essere cristiano sinonimo di essere uomo. Il Cristianesimo del Nuovo Testamento consiste proprio nel ritenere che la salvezza va decisa nel tempo, che il tempo è necessario per questa decisione. Ma nella «cristianità» la cosa è già decisa con la nascita, e allora si può applicare il tempo a qualcos’altro: la salvezza è cosa già de-cisa, noi saremo tutti salvi! La beatitudine eterna ci è concessa senz’altro, semplicemente con l’essere uomini” (4446*).

Si continuava, è vero, a parlare della Grazia cristiana. Ma, appunto, e questa era la tragedia, si parlava, si chiacchierava della Grazia. In fondo, era solo per tranquillizzare tutti quelli che si immaginavano ovviamente cristiani: “Tu sei salvo per Grazia: calmati, sei salvo per Grazia e poi cerca di sforzarti come ti riesce meglio” (4037*).

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Bisognava riconoscerlo: la cristianità era un apparato clericale per far stare tranquilli, per essere perfino ipocriti davanti alla Grazia cristiana, la cosa più imprevista e meno tranquillizzante. Nella cristianità moderna non si guadagnava nulla nel cambio dalla legge antica alla Grazia cristia-na, anzi: “Far l’ipocrita di fronte alla Legge è certo ipocrisia; ma far l’ipo-crita di fronte alla Grazia è infinitamente più abominevole” (4283*).

Insomma, adesso, nei tempi che gli toccava vivere, non c’erano che “uomini naturali travestiti da cristiani” (4459*). E c’era tutto un apparato clericale che convinceva tutti a immaginarsi naturalmente cristiani: “Si raduna una folla strabocchevole [...] e allora si è perfettamente assicurati contro il Cristianesimo. E questa è la Cristianità” (3080^).

Ma così, gli uomini naturalmente cristiani avrebbero adottato la mo-rale umanamente cristiana e il mondo sarebbe andato meglio, tutti sareb-bero stati più buoni, e si sarebbe vissuto tutti nell’uguaglianza e nella fra-ternità (massonica): “La concezione puramente umana dice: «Amiamoci l’un l’altro, cediamo gli uni gli altri, adattiamoci a vicenda, che ognuno ribassi un po’, ecc.» [...] L’estrema conseguenza sulla concezione pura-mente umana sarà che tutti gli uomini passano per cristiani – e così il Cristianesimo non esiste più” (2621^).

Se si riduceva Gesù e il Cristianesimo alla massima espressione dell’umano, di quello che già c’è dentro l’uomo, si riduceva tutto a reli-gione, allo sforzo e al tentativo dell’uomo di essere divino, di raggiungere il divino che già è presente nell’umano.

Per lui, non si trattava che la religione fosse l’oppio del popolo, ma – molto più acutamente – che la religione era diventata l’oppio del Cristiane-simo. Il bel fatto cristiano era ridotto a una religiosità umana che nasceva dall’uomo con i suoi tentativi religiosi di fare e costruire una relazione con Dio: “È evidente che il posto che aveva la politica nella Grecia, l’ha preso nel Cristianesimo la religione (la cosa veramente popolare), oggetto del parlare e dove si agisce col parlare” (1055*). Si era ridotto il bel fatto cri-stiano a una religione come le altre, come quelle che nascono dalla natura dell’uomo naturalmente religioso: “Ora il Cristianesimo ha perduto l’intol-leranza del martirio e si accontenta di essere una religione come le altre, sullo stesso piano del giudaismo, del paganesimo, dell’ateismo” (2502^).

Il bel fatto cristiano era adesso ridotto a uno degli innumerevoli ten-

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tativi religiosi dell’uomo. E tutti, naturalmente, dovevano avere la libertà di esprimere la loro natura “naturalmente” religiosa: “Le idee correnti sul-la libertà di religione, lungi dall’esprimere che il Cristianesimo ha vinto, mostrano piuttosto che esso ha abbandonato la speranza di vincere sul mondo e che vuole badare in pace ai fatti suoi” (2502^).

Per questo, ai suoi tempi, si parlava solo, di tolleranza religiosa: “E ora, dato che la cristianità è diventata straordinariamente tollerante con i giudei, coi maomettani, coi lama, ecc. [...] allora probabilmente anche la cristianità sarà pronta – come in fondo è sempre stata – a perseguitare il vero cristiano” (2054^).

In fondo, si era dimenticata la differenza infinita tra le religioni e il bel fatto cristiano: “Tutte le altre religioni sono discorsi obliqui: il fonda-tore si mette in disparte e fa parlare un altro; perciò ne fa parte come un membro della religione. Soltanto il Cristianesimo è discorso diretto: «Io sono la Verità» [Gv. 14,6]” (287^).

In un appunto del suo Diario, aveva fatto – in due linee – la cronaca della tragedia della cristianità gonfia di idee ovviamente ed eternamen-te cristiane, senza carne né sangue, la cronaca del misticismo trionfante nella cristianità moderna totalmente vuoto del bel fatto cristiano, un mi-sticismo in cui non c’era più né terra né cielo: “Il misticismo non ha la pa-zienza di aspettare la rivelazione di Dio” (660*). Anche l’anticipare quello che Dio vuole fare accadere è “andare più in là” dei bei fatti cristiani: è gnosticismo, moderno.

Quello che lui vedeva nella cristianità moderna (quella che formal-mente pensava essere ufficialmente ortodossa) era che si voleva ricom-prendere il bel fatto cristiano in categorie in fondo pagane: “Anche la pretesa ortodossia della cristianità stabilita ha in fondo trasformato il Cri-stianesimo in paganesimo” (2766*).

Questa ricomprensione era, di fatto, l’attualizzarsi nella cristianità moderna dell’antica gnosi, della stessa mentalità, anche se con sfumature diverse. E questo era opera dei pastori prebendati, degli intellettuali e dei professori della felicità cristiana: “I Pastori sentimentali vanno anche «più in là» del Cristianesimo perché si considerano al di sopra del Maestro” (1936*).

La cristianità era diventata così un’immensa scuola gnostica, dove si pretendeva di andare “più in là” dei bei fatti cristiani che la Grazia faceva

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accadere; dove quello che importava non era quello che succedeva nella storia, ma quello che “accadeva” nelle idee cristiane che riducevano il fatto storico cristiano a un nome, a una parola: un flatus vocis senza realtà storica. Lui, fin da giovane, aveva riconosciuto la differenza tra il bel fatto cristiano e lo gnosticismo: “Il rapporto fra Cristianesimo e gnosticismo è accennato molto significativamente nel rapporto delle due categorie cui arrivarono: il Cristianesimo al λογος, lo gnosticismo al «Nome» di Cristo (Cristo era il nome di Dio invisibile). Quest’ultima cosa [il «Nome»] è appunto un’astrazione al massimo grado” (323*).

La grande tentazione cristiana, infinitamente mortale, è sempre quella di “andare più in là” della carne e del sangue di Gesù (come già diceva nelle sue lettere Giovanni, l’apostolo prediletto). Lui, in quel buco che era la sua Copenaghen, lo aveva riconosciuto: “È chiaro come il sole che la mia categoria è l’unica categoria cristiana: «comprendere che non si può comprendere», rifiutare di voler comprendere. Altrimenti ne na-sce un’alterazione della Fede, di modo che io, andando più in là di essa, abbandono proprio la Fede. Nella Fede [...] non si deve andare più in là. Perciò io devo conservarmi nella Fede. Se poi credo di essere ora perfetto nella Fede, di aver creduto abbastanza per poi comprendere: allora tutto il Cristianesimo sfuma” (1924^).

Era arrivato per lui il tempo di fare la cronaca di come le cose sta-vano nella cristianità gnostica, abituata ad andare “più in là” dei bei fatti cristiani: “Tocca cambiare metodo. Invece della bugia maiuscola di dire che il Cristianesimo è perfettibile (ciò che è un negare completamente il Cristianesimo e proprio un burlarsi di Dio); dunque invece della sfaccia-taggine di «andare oltre»: invece della prudenza e dell’astuzia le quali con non minore impudenza non tralasciano nulla per nascondere le cause della decadenza del Cristianesimo: invece di tutto questo, d’ora in poi bisogna che mettiamo avanti le confessioni. Bisogna che ogni generazione faccia la sua dichiarazione ed entri per questo mezzo in rapporto con il Cristianesimo” (4419*).

Questa era stata la sua grande battaglia che lui pensava di avere vinto nel seno della cristianità moderna, contro il cancro della gnosi riattualiz-zata che voleva abolire il bel fatto cristiano: “Una cosa ch’io non faccio: non sento il bisogno di «andare più in là» dell’essere cristiano. Ma quando tutta una generazione, oggi, con tanta sfrontatezza osa trascurare il Cri-

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stianesimo, pretendendo di voler «andare oltre» [...] La battaglia ch’io ho vinto, consiste nell’essere riuscito a fissare la prospettiva delle categorie dell’essere cristiani e a inchiodarle in modo che nessuna dialettica le potrà scalzare. Io ho visto bene che ciò che deve trattenere non è il Cristianesi-mo in astratto, ma l’essere cristiani, poi il concetto della contemporaneità, quindi la possibilità dello scandalo, e infine il concetto della fede, che sta anzi al vertice di tutti i concetti” (1988*).

Adesso, bisognava riconoscerlo (e ai suoi tempi solo lui lo riconob-be), nella cristianità dominava l’antico cancro della gnosi anche se in una forma nuova. E il bel fatto cristiano (cioè il dogma, la realtà cristiana rico-nosciuta umilmente), che aveva la sua bella geografia, la sua bella storia e il suo bel metodo, il suo “dove”, il suo “quando” e il suo “come” avviene e succede, era stato ridotto a qualcosa di cui l’uomo doveva prendere co-scienza; prendere coscienza di quello che l’uomo già è, di quello che tutti gli uomini sono, in fondo a se stessi, nella loro interiorità: “La disgrazia dei filosofi è di servirsi del mappamondo per studiare il Cristianesimo, mentre si tratta di carte geografiche speciali. Per essi il dogma altro non è che un distillato della coscienza umana universale” (466*).

La vita stessa, quella normale di tutti i giorni, ormai non era più sana e così tutto era ridotto a una patologia intellettuale in cui solo bisognava conoscere idee e vivere di esse: “Appunto perché la vita non è sana e vi predomina il conoscere, le idee non sono concepite come fiori naturali dell’albero della vita” (56*).

Per lui, invece, prima, e in modo decisivo, venivano i fatti, quelli che la ragione e la fede riconoscono: “L’anticipazione storica, come lo stadio che nella coscienza puramente umana corrisponde al principio cristiano del credo ut intelligam, è il vecchio nihil est intellectu quod antea non fuerit in sensu” (292^). Per lui la fede nasceva dal vedere dei fatti storici: “Cristo è l’oggetto della fede” (1892^); non erano i fatti storici, cristiani, che era-no creati dalla fede. Questo sarebbe stato proprio una patologia in cui si vogliono vedere cose che non esistono. Si era invece arrivati a dire che la fede si creava il suo oggetto, che se lo inventava, patologicamente.

Adesso tutto nella cristianità era ridotto alla presuntuosa pretesa gnostica di andare “più in là” della bella Presenza cristiana; cioè, di rag-giungere, andando gnosticamente “più in là” dei bei fatti cristiani, una verità più vera: “Il pensatore essenziale spinge sempre la cosa agli estremi.

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Poi viene il «professore» che elimina il «paradosso»: lui sì che una gran moltitudine, quasi la gran «Folla» lo può capire, e allora si pensa che la verità sia diventata più vera” (1915^).

Questo “andare più in là” del bel fatto cristiano, nel fondo, era solo un’invidia degli intellettuali clericali, l’invidia della facilità della Grazia cristiana e del suo riconoscimento: “L’essere cristiano è qualcosa di estre-mamente facile per chiunque. Ecco allora che diventa aristocratico l’an-dare oltre: diventare filosofo, poeta e chissà che cosa!” (3508*). Erano gli intellettuali che dicevano che si doveva abbandonare la carne e la storia in cui avvengono i bei fatti cristiani sennò le cose sarebbero state troppo semplici, troppo ingenue, troppo infantili.

Ma erano ormai secoli che si diceva che bisognava andare più in là e lasciarsi dietro l’esperienza troppo carnale e fisica dei fatti cristiani che accadono, che bisognasse arrivare alla “realtà più vera”, quella delle idee. La bella felicità cristiana degli apostoli che vedevano Cristo con i loro occhi, la bella gioia cristiana dei martiri, dei primi cristiani che non vivevano e morivano per un’idea cristiana, era troppo ingenua per la cri-stianità stabilita e gnostica: “In Cristo, negli apostoli, nei primi cristiani, il Cristianesimo era ANCORA SOLTANTO (notate bene: «ANCORA SOL-TANTO»), dico: esso era ancora soltanto vita. Poi si progredisce: si sale, il Cristianesimo diventa dottrina, poi scienza, si sale sempre [...] – e ora siamo al culmine della scienza e gettiamo uno sguardo indietro ai primi cristiani, perché in loro il Cristianesimo tuttavia non era ancora altro che vita. [...] Allora dietro-front! Si faccia il punto (non propongo di più) con-fessando che la situazione presente non è una cosa superiore ma inferiore” (3777*).

Adesso ci si burlava della bella presenza cristiana che continua nella storia: “Il maggior pericolo per il Cristianesimo non sono (a mio avviso) le eresie, le dottrine eterodosse, non i liberi pensatori o la mondanità pro-fana: no, ma è quella specie di ortodossia ch’è la chiacchiera cordiale, è la mediocrità ammansita con lo zucchero. Nulla, assolutamente nulla è così tremendamente contrario all’essenza del Cristianesimo come una cosa si-mile, dov’esso non tanto perisce, quanto deperisce” (4319^).

Dappertutto, nella cristianità, c’erano solo presunte idee cristiane più vere e più reali della stessa povera realtà fisica e carnale in cui Dio si era fatto uomo. Idee cristiane, “ortodosse”, su cui ragionarci per di-

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mostrarle e interpretarle, per trovarle sempre più mediocremente vere; idee cristiane che c’erano da sempre e che non accadevano mai. Adesso si pensava che non era più necessario il semplice riconoscimento affettivo cristiano (con la sua obbedienza e il suo rischio): “Ed è a questo punto che pressappoco ora ci troviamo. Dappertutto ragione. Invece di innamo-ramento incondizionato, matrimonio di ragione. Invece di obbedienza incondizionata, obbedienza per forza di ragionamento. Invece di Fede, sapere per ragioni. Invece di fiducia, garanzie. Invece di rischio, probabi-lità, calcolo prudente. Invece di azione, semplici accadimenti. Invece del Singolo, una combriccola. Invece di personalità, una oggettività imperso-nale, ecc. ecc.” (2693^).

Adesso c’erano solo idee mediocremente cristiane. E il bel fatto cri-stiano erano solo parole formalmente cristiane. Era la mediocrità che aveva introdotto nella cristianità moderna quell’altro tedesco che aveva voluto fare il riformatore; quel Lutero, che non aveva fatto altro che distruggere quel poco che esisteva ancora di Cristianesimo con la sua fissazione che valevano solo le parole, e che l’auctoritas cristiana e i suoi bei fatti non valevano niente: “In una predica Lutero si scaglia nel modo più violento contro la fede che si attiene alle persone, invece che alla parola: «La vera fede si attiene alle parole, senza badare alla persona, ecc.». E sia, finché si tratta del rapporto fra uomo e uomo; ma per il resto, il Cristianesimo con questa teoria sarebbe spacciato. Noi avremmo allora, in senso gene-rale, una dottrina superiore al Maestro, mentre la situazione cristiana è il paradosso di credere che ciò che importi sia la persona. [...] La differenza paradossale del Cristianesimo da ogni altra dottrina in senso tecnico, con-siste nel porre l’autorità. Un filosofo con autorità è un controsenso, per-ché un filosofo non può mai trascendere la propria dottrina. Il paradosso è che la personalità è superiore alla dottrina” (2086^).

Nella cristianità moderna non si faceva altro che prendere coscienza di idee (e parole) cristiane che non avvenivano mai. Una cosa da spostati, da patologia psichiatrica: “La ragione, la riflessione hanno tolto l’ideale dagli uomini, dalla cristianità, riducendolo a qualcosa di fantastico” (1941^).

E così, quello che era così facile cristianamente, il vedere i bei fatti cristiani, adesso, con tutte queste idee e prese di coscienza, era diventato difficile e impossibile: “Com’è diventato difficile nel secolo XIX, il cre-dere, ora che tutto è diventato un caos di riflessioni, di considerazioni!”

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(2224^). Adesso che c’erano solo cristiani eruditi con le loro discussioni formalmente cristiane, era proprio impossibile diventare cristiano: “Un uomo d’intelligenza non potrà mai diventare cristiano; al massimo potrà, attraverso l’immaginazione, baloccarsi con i problemi cristiani. [...] Vo-gliono diventare dotti, scienziati, trasformare tutto in discussioni prolisse. [...] Il Cristianesimo, ovvero il diventare cristiano, non dipende affatto da un mutamento nella sfera dell’intelligenza, ma in quella della volontà. [...] Nella cristianità da molto tempo il diventare cristiani lo si è cambiato in una trasformazione dell’intelligenza” (23 settembre 1855 – 3319^).

Tutti, nella cristianità, si erano dati al lusso della meditazione intro-spettiva, alla presa di coscienza delle idee cristiane, eternamente vere e che non accadono mai nella storia quotidiana: “Anche nel campo religioso si è rivolta l’attenzione al «meditare», al «comprendere». [...] È un inganno im-menso voler far credere che basta aver capito le cose più alte per farle. [...] Un giorno di digiuno, un atto per testimoniare la verità: tutto questo tocca un’esistenza in tutt’altro modo che dieci o cent’anni di studio. Lavorando in direzione del comprendere si prende una falsa strada, ed è molto più vera la concezione tradizionale che spingeva a cominciare subito coll’agire” (3512*) ”. Lui, invece, riconosceva che il bel fatto cristiano s’impara in-contrandolo e seguendolo, nell’azione e non studiandolo sui libri, con uno sforzo dell’intelligenza cristianamente e ovviamente erudita.

Non si può proprio dire che nella cristianità mancasse la conoscen-za delle idee cristiane; purtroppo, quello che mancava era la carità, la conoscenza affettiva, amorosa: “Pascal dice che la conoscenza delle cose divine è in rapporto inverso alle umane: l’umano per amarlo si deve pri-ma conoscerlo; il divino invece prima amare, poi conoscere. Con questo Pascal vuol dire che la conoscenza del divino è in fondo una trasforma-zione della personalità: per conoscerlo si deve diventare un altro uomo. E questa è una cosa che si è completamente dimenticata oggi che non si fa che strillare: conoscenza, conoscenza!” (2424^).

Si conoscevano solo le idee cristiane, di cui bisognava prendere co-scienza. E, così, c’erano solo dubbi: “Ora si proclama che il Cristianesimo è una dottrina oggettiva. Prima che io mi metta in rapporto con esso, deve innanzitutto giustificarsi per me! Addio, allora, Cristianesimo! Ora il dub-bio ha vinto. Questo dubbio poi non può mai essere fermato con ragioni, le quali non fanno che alimentare il dubbio” (2608^).

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Non c’era neanche più bisogno di un cristiano in carne e ossa; ba-stava, nella cristianità moderna, solo la conoscenza delle idee cristiane eterne che non accadevano mai: “Si è abolito il Cristianesimo perché dappertutto si è ricacciata indietro la personalità. Pare si tema che l’Io debba essere una specie di tirannia e che per questo ogni Io debba es-sere livellato, respinto e nascosto dietro un’oggettività. Non mi sarà più permesso dire: «Io credo che c’è un Dio», ma devo dire: «La dottrina del Cristianesimo insegna: io credo», ecc. Ma questo è un Io più universale, non il mio Io personale. Dovunque dottrina, oggettività” (2017^).

Perfino la imprevedibile Grazia cristiana era stata ridotta a un’idea di cui impossessarsi: “Cristo ci acquista la Grazia, di cui poi io m’impossesso per andarmene per i fatti miei?” (2316^).

Ma così si finiva per abolire il Cristianesimo: “Trasformare il Cristia-nesimo in scienza è il più grande errore possibile e se dovesse riuscire completamente (oh, che festa farebbe il «tempo») – anche il Cristianesi-mo allora sarebbe assolutamente abolito” (2156^).

Non c’era più la bella realtà cristiana, fatta di cose cristiane; ades-so, c’erano solo idee e dottrine formalmente cristiane: “La realtà stessa è abbandonata dal Cristianesimo (3629*). Adesso si pensava che bastasse – per essere cristiani – conoscere le dottrine formalmente cristiane: “Pri-ma viene la vita e poi la teoria. Poi viene anche di solito una terza cosa: un tentativo di creare la vita con la teoria, anzi di riaverla in modo poten-ziato. Questa è la parodia (come tutto finisce in parodia!) [...] Prendi ora il Cristianesimo. Esso è entrato, è venuto al mondo come vita: eroismo schietto che rischiò tutto per la fede. Il cambiamento avvenne essenzial-mente appena si è creduto che il Cristianesimo fosse una dottrina. La pura teoria consisteva nel trattare di quel che si era vissuto. [...] Però la dottrina divenne sempre più la categoria più adeguata delle esistenze. Tutto divenne oggettivo. Questa è la «teoria» del Cristianesimo. Poi venne un periodo dove si credeva di poter riprodurre la vita per via della teoria: questo è il periodo del sistema, la parodia” (3632*).

Per trasformare il Cristianesimo in una dottrina, gli avevano strap-pato la materia viva e imprevedibile su cui si attacca la Grazia, l’esistenza umana e cristiana; e così erano arrivati a pensare, agnosticamente, che c’era più realtà nelle loro idee cristiane che nei bei fatti cristiani: “L’anato-mista deve avere un corpo morto, perché anche se potesse avere un corpo

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vivo, questo cambia in ogni momento, è in flusso. La garanzia per poter elaborare una teoria è sempre che l’oggetto sia in «essere» o in «essere stato», non in «divenire». Sembra come se la teoria contenesse qualcosa in più della stessa vita” (3613*).

Nel Cristianesimo ufficiale, clericale e statale, cioè politicamente corretto, si professava solo una dottrina, una materia di insegnamento, quella delle idee cristiane. Questo, per lui, era precisamente il disastro nella cristianità: “L’aberrazione moderna riduce il Cristianesimo in termini di pura dottrina e materia d’insegnamento e a vezzi retorici” (2488^). Le stesse identiche parole ed espressioni che userà poi, settant’anni dopo, l’altro grande, Péguy.

Insomma si era arrivati a professare un Cristianesimo da “professori” eruditi, sedentari, con fissazioni tipicamente intellettuali: “In generale si potrebbe fare questa differenza: Cristianesimo esistenziale e Cristianesi-mo sedentario. Quest’ultimo riduce il Cristianesimo a una dottrina, casca poi in beghe dottrinali sulla dottrina e sull’ortodossia e degenera nel fa-natismo” (3453*).

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LE CHIACCHIERE PER RICCHIDELLA TEOLOGIA PREBENDATA

Aveva inventato una prova inconfutabile per capire quanto Cristia-nesimo era rimasto nella cristianità: “Il «professore di teologia» è un point de vue nella cristianità: se il «professore» è tenuto per la cosa più alta, è un segno che siamo completamente disorientati sul Cristianesimo. Dal come si giudica il professore, si può vedere lo status della cristianità e fare il giudizio del Cristianesimo” (2992*). Più i teologi clericalmente corretti erano famosi e riveriti nei circoli della mondanità, meno ce n’era di Cri-stianesimo.

Adesso, trionfava solo il clericalismo: “Lo stesso clero il quale con incomprensibile – sì, incomprensibile per chi non conosce il clero – dico con incomprensibile tranquillità ha visto e sentito tranquillamente che nel secolo XIX il Cristianesimo ha perduto una posizione dopo l’altra, lo stesso clero con la stessa incomprensibile tranquillità ha visto che la co-munità (la cristianità dove tutti siamo cristiani!) è moralmente putrefatta in un modo ancor più spaventoso della corruzione dell’antichità, mentre il clero continuava a vivere del fatto che noi tutti siamo cristiani. [...]. Ecco, costoro in fondo renderanno impossibile il Cristianesimo” (3066*).

Gli autori intellettuali dell’operazione criminale della scristianizzazio-ne, erano stati, bisognava riconoscerlo, i clericali della felicità cristiana.

Erano quei pastori che “al calduccio di un presbiterio” (2674*) con i loro libri dogmatici che erano per loro tutto il Cristianesimo, si guar-davano bene dall’entrare nell’esistenza cristiana reale, quella pericolosa, dolorosa e gioiosa: “Con i pastori le cose vanno come un maestro di nuoto che desse le sue lezioni standosene a terra” (2169*).

Bisognava finirla una volta per tutte con questa predicazione teologi-camente ortodossa, politicamente e cristianamente corretta: “Sospendiamo la predicazione del Cristianesimo e lo riavremo, invece di mantenere un simulacro con quella miserabile usurpazione del Cristianesimo” (2679*).

In fondo questi pastori erano solo dei funzionari pagati dallo Stato

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cristiano per tranquillizzare tutti: “È per la prebenda ch’essi predicano il Cristianesimo, è come professori – quindi come impiegati – ch’essi inse-gnano il Cristianesimo” (2444*). Come già era successo 1800 anni prima, anche loro avevano venduto il povero Gesù per un po’ di denari: “Vivono qui 1000 ecclesiastici che hanno barattato Cristo in moneta, che si sono acconciata una prebenda” (2524*). Quindi “a Copenaghen in fondo non abbiamo clero” (1859*).

Erano proprio cambiati i tempi, da quando c’erano Gesù e quei quattro gatti che lo seguivano. Allora gli apostoli non avevano né oro né argento, ma dicevano agli storpi che incontravano di alzarsi e camminare; adesso “il clero disse: «Noi abbiamo oro e argento... ma non abbiamo nulla da dare»” (2512*).

Ma non c’erano purtroppo solo i pastori prebendati. C’erano anche i teologi, per capirci, quelli che erano professionalmente teologi, quelli che guadagnavano insegnando teologia, i professori-teologi, i teologi profes-sionalmente laureati, quelli che avevano studiato per guadagnarci con le quattro cose che sapevano su Dio e su Gesù (sarebbe stata una questione veramente comica, se non ci fosse da piangere su tutto ciò): “Ora invece nella cristianità, quando qualcuno ha un figlio buono a nulla, lo manda a studiare teologia: [...] dopo tutto è la via più sicura per ottenere una prebenda. La scienza della pagnotta!” (2753*).

Si può proprio dire che questa nuova categoria di teologi era una sovrastruttura della cristianità ufficialmente tranquilla e accomodata. Sic-come la situazione era tranquilla, siccome tutti erano cristiani e non c’era nessun pericolo per i cristiani, allora ci si poteva permettere il lusso di fare i teologi, di esercitare ufficialmente (naturalmente si era pagati per questo) la professione del teologo: “Non ci minaccia nessun pericolo e ab-biamo tutta l’opportunità di darci alla scienza” (2413*). C’era fin troppo tempo da perdere in una situazione così cristianamente tranquilla: “Dal punto di vista cristiano, un sistema dogmatico è un articolo di lusso; nei tempi di quiete, quando almeno la media degli uomini è cristiana, ci può essere tempo per una cosa simile” (2420*).

Di certo, tutti questi teologi erano un’invenzione moderna. Non si capiva proprio da dove era venuta fuori questa genia e una professione così, il guadagnare la pagnotta in modo così strano (cristianamente). I

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teologi prebendati volevano essere professori; ma di che cosa? Di quello stupore che vivevano quei quattro gatti che stavano con Gesù, che lo guardavano parlare con gli occhi pieni di stupore? Non erano invece, pro-prio loro, gli autori intellettuali dell’apostasia della cristianità moderna? “Nel Nuovo Testamento si trovano passi in cui si può mostrare la legitti-mità dei vescovi, preti, diaconi; ma io sfido chiunque a trovare un passo dove si parli dei professori di teologia! Il «Professore» è un’invenzione cri-stiana posteriore. Il «professore» esprime che la religione si riduce a una questione dotta; il professore è la più grande satira dell’Apostolo. Essere Professore, ma di che cosa? Di quel che quattro poveri pescatori hanno introdotto nel mondo. [...] Cristo, il Fondatore non ha predetto il trofeo dei professori a meno non sia là dove si profetizza la «apostasia ventura» (Lc. 18,8)” (2926*).

Naturalmente era gente che conosceva il Cristianesimo più di Gesù e di quei quattro gatti dei suoi amici pescatori: “Schizzo per una farsa pazzesca: l’apostolo san Paolo esaminato in teologia da un professore di teologia. Naturalmente... san Paolo è bocciato. A molte domande del no-stro catechismo un Apostolo non saprebbe rispondere” (2310*).

Adesso c’era solo una “baraonda teologica-scientifica del Cristia-nesimo” (2930*) per difendersi dal pericolo (esistenziale) del bel fatto cristiano. “La scienza cristiana è l’invenzione enorme dell’umanità per difendersi contro il Nuovo Testamento, è stata inventata allo scopo d’in-terpretare, chiarire, illuminare meglio ecc. Il Nuovo Testamento”, per non stare soli con il Nuovo testamento: “Come si rinchiude il pazzo perché non abbia a disturbare la gente [...] così noi abbiamo rinchiuso il Nuovo Te-stamento con la scienza. [...] Sarebbe per noi tanto pericoloso se il Nuovo Testamento fosse lasciato a piede libero?” (2955*).

In fondo, era tutta una questione di potere clericale ben pensato, premeditato, organizzato nei minimi particolari. Infatti, se si riduceva il Cristianesimo a idee, solo alcuni, una combriccola, solo quelli che ave-vano la laurea sulle idee cristiane, avevano il potere statalmente cristiano nella cristianità.

A lui non era costato molto riconoscere chiaramente questo com-plotto, questa progressiva degradazione dai martiri dei primi tempi, alle chiacchiere cristiane, per arrivare alle scienze teologicamente erudite: “Supponiamo che invece di imitatori venga della gente che non fa che

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chiacchierare sul tema che gli «altri hanno arrischiato il sangue e la vita». Ora sì che si può cominciare la diffusione. Questa massa di chiacchiere è socievole e feconda in una misura spaventosa, feconda di chiacchiere. La generazione che segue a questi chiacchieroni è composta, come sempre, non di imitatori, ma egualmente di chiacchieroni: di pastori e professori che considerano codesti messeri come i veri maestri del Cristianesimo. Inoltre la generazione successiva è in grado di darsi per suo conto alle chiacchiere e assorbe sotto il nome di scienza storica ciò che la generazio-ne precedente aveva ammannito come chiacchiere” (22 settembre 1855 – 3316^).

Lui sentiva ribrezzo per questo partito, per questa setta degli intellet-tuali cristiani che volevano impedire che il buon Gesù fosse anche dei po-veracci, degli ignoranti, degli analfabeti: “Pensa alla realtà più alta, pensa a Cristo. Supponi ch’egli fosse venuto al mondo per salvare alcune anime elette perché le altre non lo avrebbero potuto capire. Com’è orrendo que-sto pensiero! Egli invece non ha inorridito di nessuna sofferenza umana, di nessuna ristrettezza: ma la combriccola degli intellettuali, l’alleanza della cultura, oh, queste sì che gli avrebbero fatto orrore” (2017^).

Adesso che era cambiato tutto, si era trasformato il Cristianesimo in una questione di potere clericale, quello dei “professori clericalmente teologici” che si erano inventati un nuovo lavoro, anzi era qualcosa di più di un lavoro, la chiamavano una “professione”, moderna, nuova, di cui erano gli unici professori. Tutto era cristianamente stravolto: “Il professo-re di teologia è più grande di Cristo. [...] Trasformare il Cristianesimo in scienza è il più grande errore possibile” (2156^).

Gli intellettuali della felicità cristiana, condottieri dell’immaginaria cristianità, volevano insegnare a tutti le idee cristiane, affinché tutti fosse-ro ovviamente cristiani e migliori, più felici. Tutto il contrario di quando era cominciato il bell’avvenimento cristiano: “Cristo non ha istituito dei docenti, ma dei seguaci e imitatori: «Venite dietro a me» [Mc. 1,17]. Non cogito, ergo sum, ma al contrario sum, ergo cogito (1759*).

Lui riconosceva che era inutile affannarsi a insegnare le idee cristia-ne giacché queste non avrebbero fatto più felice un povero uomo neanche di un millimetro: “Ogni docere è cristianamente, esistenza sprecata, per-duta. I docenti possono perfezionarsi sempre più nell’arte di falsificare: non serve, sono sempre esistenze sprecate” (3026^).

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Aveva perfino inventato una parabola, una barzelletta, su questi professori della felicità cristiana: “Personaggi: 1) Nostro Signore; 2) Un professore di teologia. N.S.: «Hai tu cercato prima il regno di Dio»? [Mt. 6,33]. Prof.: «No, questo non lo posso dire. Ma so dire “Cercare il regno di Dio” in sette lingue: 1) in danese si dice così; 2) in tedesco si dice così; 3) in francese si dice così; 4) in greco si dice così; 5) in ebraico si dice così; 6) in latino si dice così; 7) in arabo si dice così; 8) in siriaco si dice così; 9) in fenicio si dice così [...] Come mai? Io lo so perfino in nove lingue; quindi due di più di quanto avevo promesso»?! Nostro Signore si volta dall’altra parte, mentre il Professore continua: «Così con tutte le mie forze mi sono applicato giorno e notte a cercare e investigare [...]». Qui però l’Angelo della tromba lo interrompe: «Va là, vattene farabutto!» e gli dà un ceffone tale da scaraventarlo lontano milioni di miglia” (3136*).

“La disgrazia della cristianità è di aver ridotto il Cristianesimo a una pura dottrina” (2377^): così aveva intitolato nel suo Diario la cronaca dell’ordinaria scristianizzazione che avveniva dall’interno della cristianità. Una dottrina su cui fare poi l’esame di teologia, per dimostrare di sapere tutto su Dio e su Gesù. Conoscere: questa era la fissazione della cristianità moderna che altro non era che il trionfo dell’antica gnosi: “Nei tempi an-tichi, quando si capiva che il Cristianesimo era un esistere, un’imitazione, anche il tirocinio era essenzialmente di natura disciplinare: pratiche di obbedienza, esercizi di abnegazione, di ascesi, ecc. Quando il Cristiane-simo fu ridotto unicamente a dottrina, la prova per diventare maestro furono gli esami eruditi: l’esistenza è completamente assente” (2377^).

Anche suo padre la pensava come i clericali eruditi: “La teologia [...] il colosso enorme che rigurgita di logica. [...] Mio padre crede, infatti, che la vera terra di Canaan si trovi al di là dell’esame di teologia” (1 giugno 1835 – 46^). Infatti, nella cristianità moderna, quando si era fatto e supe-rato l’esame sulle idee cristiane e si era incoronati teologi laureati, final-mente si cominciava a essere “professori” delle idee cristiane, finalmente si cominciava a essere clericalmente prebendati, a funzionare nello stato ovviamente cristiano, a essere dei funzionari pagati, prebendati per non attaccare il Cristianesimo statale (2407*)

[Lui aveva fatto un ben altro tipo di esame (cristiano), che nessuno conosceva tranne lui stesso; un esame con quella ragazza che aveva ama-to tanto e a cui continuava a voler bene: “Io ho subito un esame in più

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degli altri: ho permesso che l’interiorità del mio sentimento fosse esami-nata da una donna. [...] Quindi questa ragazza è stata il mio esaminatore” (1984*)].

Nonostante suo padre e tutti gli eruditi clericali che lo circonda-vano, per lui era impossibile ridurre il Cristianesimo a quell’“articolo di lusso” che era la teologia: “Il Cristianesimo non deve essere oggetto d’in-segnamento disciplinare. Anche Cristo dice: «La mia dottrina è cibo» [Gv. 4,32], essa cioè deve essere assimilata, si deve esistere in essa” ( 1475^).

Erano proprio cambiati i tempi; adesso c’erano solo teologi eruditi che, ben inteso, difendevano il Cristianesimo (quello ufficiale, quantitati-vo, quello del “numero” dei cristiani): “Come il Cristianesimo si rallenta. Prima c’è Cristo: è l’impeto esistenziale dell’eterno che venne per soffrire e morire. Poi vengono gli apostoli che assolutamente sono pronti a morire: hanno la nostalgia del martirio! Poi i martiri. Ma oramai tra breve si farà questione se il cristiano debba assolutamente soffrire il martirio o se non sarebbe altrettanto vero Cristianesimo il voler vivere. Il mettere sullo stes-so piano l’estensione e l’intensità. Così il Cristianesimo si rallenta di tutta una qualità: ora abbiamo soltanto gli apologeti. Così il Cristianesimo si trova essenzialmente bloccato. Poi comincia la scienza e la «teoria» della Chiesa” (2533^).

Per farsi accettare ed essere famosi nella cristianità, i “professori-teologi-pastori prebendati”, con gusto, avevano ridotto il Cristianesimo a un brodino che si prende quando fa freddo: “Questo è il Cristianesi-mo, quella «mite dottrina della verità» nei «momenti di raccoglimento», all’ombra dei «luoghi sacri» ” (1868^). Tutti li accettavano e li riverivano perché consolavano così bene con le loro dottrine teologicamente erudite e permettevano a tutti di vivere tranquillamente e politicamente cristiani: “È certo che il Cristianesimo, com’è predicato ora, è insostenibile: non è che un tentativo grandioso di turlupinare gli uomini. Il pastore non è colui che si trova allo sbaraglio, in alto mare; egli se ne sta sicuro sulla terra ferma, e raccomanda fino alla nausea il Cristianesimo snocciolando le solite magnifiche e inestimabili ragioni di consolazione, il gran bene di essere cristiani [...] ” (1903^); “In fondo la vergogna sono questi maestri, pastori e professori bugiardi, che confermano questa massa di uomini più innocenti nella loro pia immaginazione che l’essere cristiano sia uno scimmiottamento innocuo e un giocare a rimpiattino” (3848*).

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Anche chi aveva voluto fare il riformatore, quel Lutero che aveva pensato di riformare tutto, in fondo, non era che uno dei primi e dei tanti che avevano ridotto il Cristianesimo a una dottrina piena di idee cristiane che non accadono mai nella storia: “Lutero aveva affisso alla porta della chiesa 95 tesi: anche questa era una discussione di dottrina. Ora si po-trebbe mettere nel «Giornale degli annunzi» un’unica tesi: «Il Cristianesi-mo non esiste affatto» [...] invitando alla discussione pastori e professori” (2537^).

Lui proprio non li sopportava questi docenti, pastori e intellettuali prebendati della felicità cristiana. L’aveva scritto tante volte nel suo Diario, quasi quotidiano: “ [...] I docenti, queste creature animalesche. [...] Se c’è una classe di uomini che meritano, a confronto con altri, di essere chia-mati animali, questi sono i pastori e i professori” (4477*).

Per lui erano solo degli impotenti, degli eunuchi della felicità cristia-na, cioè gente che non gode affatto della bellezza cristiana: “Il professore è un castrato; egli però non è svirilizzato «a causa del Regno di Dio» [Mt. 19,12]: ma al contrario, per ben accomodarsi in questo mondo senza ca-rattere” (3581*). Impotenti, hanno voluto castrare, a loro volta, i poveri cristiani: “L’uomo comune io l’amo, i docenti mi fanno ribrezzo. È stata proprio la categoria dei «docenti» che ha demoralizzato l’umanità. [...] Se non ci fosse l’inferno bisognerebbe crearne uno apposta per i docenti, il cui crimine è precisamente di tal fatta che non si può facilmente punire in questo mondo” (3059^).

Che cos’era tutto l’apparato di erudizione che i professori della feli-cità cristiana insegnavano e di cui erano docenti specializzati, se non uno scudo, uno schermo, un paravento per difendere il Cristianesimo borghe-se dai bei fatti cristiani? “Che sono tutte queste scienze [teologiche]? Sono il tentativo del genere umano per difendersi contro il Cristianesimo, ma sotto l’apparenza di voler scrutare veramente quale sia la benevola volontà di Dio. Ognuno dovrebbe invece confessare che il Nuovo Testamento è in sé molto facile da capire [...] «Dà tutto ai poveri» [Mt. 19,21]: è forse que-sto difficile da capire? No, certamente. Ma io preferisco essere dispensato, non avendo il coraggio di dire direttamente: no, ecco che allora invento una scienza. Io dico: per parte mia sono anche disposto a farlo, ma alla condizione che sia certo che quel passo si trova nel Nuovo Testamento;

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ma qui ci devono essere delle varianti, la lettura del testo non è del tutto certa. Ecco che bell’aiuto ci dà tutta la critica testuale!” (2377^).

I “professori” della felicità cristiana, in fondo, volevano che tutti si immaginassero ovviamente cristiani e vivessero tranquilli e immutabili in questo mondo di fantasia: “Colui che mette avanti ragioni naturalmen-te rimane essenzialmente immutato; anzi ciò che è abbastanza ridicolo, resta pressappoco il medesimo, sia che abbracci o non il Cristianesimo” (2768^).

Era triste ammetterlo, però la felicità cristiana che insegnavano gli intellettuali delle idee cristiane era fatta solo per gente cui non interes-sava minimamente il Cristianesimo: “Tutta la disgrazia consiste nel fatto che il Cristianesimo è divenuto un compito di pensiero per comodità di tutte le teste svelte e speculanti [...] che non hanno nulla a che fare con il Cristianesimo in maniera essenziale” (1826^). Una felicità, insomma, per chi non voleva avere niente a che fare con il bel fatto cristiano, che voleva solo difendere la sua tranquillità borghesemente cristiana dalle pretensio-ni troppo esagerate di quello che faceva succedere la Grazia: “Confronta ora la predicazione solita del Cristianesimo [...] e vedrai che tutto è «fino a un certo punto»: ovvero (ciò che poi è lo stesso) che dappertutto ci sono ragioni, dappertutto c’è qualche «perché» a cui si risponde. In altre parole, manca l’Assoluto” (3213^).

Teologie, lauree in teologia, pastori prebendati.Tutto era ridotto a chiacchiere barocche. Nella cristianità moderna tutti si erano ormai ridotti a parlare, so-

cievolmente, amabilmente, educatamente, pieni di tolleranza rispettosa, delle idee cristiane. Il tutto, naturalmente, in ambienti adeguati a questo culto della parola parlata, socievolmente rispettata: “Ora tutto è ridotto a salone, ed è così che si costruiscono le chiese” (2433*).

Saloni cristiani in cui parlare rispettosamente di Dio e di Gesù, e naturalmente della sua passione e morte, con argomenti presentati, que-sto sì, in un modo rispettoso e tollerante; saloni che non erano altro che decadenti teatri: “La predicazione del Cristianesimo diventa teatro” (2612^). Saloni dove tragicamente si scimmiottava un Cristianesimo “da parodia” (2486^). “Parodia”: la stessa parola che userà poi quell’altro grande, Péguy.

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D’altronde se lo potevano permettere: in un Cristianesimo così bor-ghese, a partire dai “professori” e dai teologi laureati e prebendati, il vero lusso era di poter parlare, di poter dialogare, di poter fare delle belle con-versazioni cristiane, di poter ritrovarsi a chiacchierare sulle idee cristiane: “È questo un mettere la legge al posto dei fatti, una massa sempre più enorme di chiacchiere che si chiama scienza e che tocca studiare – dicono – per comprendere il Cristianesimo. Cioè quel che in verità non si vuole è precisamente capire che il Cristianesimo è facile da capire. E per assicu-rarsi invece che non si riesce a capirlo, si mette avanti, come espediente per capirlo, tutta questa massa sterminata di chiacchiere, di erudizione storica” (22 settembre 1855 – 3316^).

Tutto, nella cristianità moderna, era solo un gran chiacchierare del-le idee cristiane: “Tutte queste migliaia e milioni di cosiddetti cristiani hanno ridotto il Cristianesimo a mera chiacchiera” (2127^). C’erano solo chiacchiere, vani cicalecci: “Tutto il Cristianesimo in grandissima parte della cristianità è divenuto chiacchiera” (1402^). Chiacchiere su argo-menti naturalmente cristiani per pavoneggiarsi davanti agli altri e così consolarsi del nulla che si viveva riempiendolo con il vuoto, con il mise-rabile flatus vocis “baroccamente” teologico: “Tutto il Cristianesimo sfuma in chiacchiere; si è tolto tutto il pericolo che esso porta in sé e si è ridotto a civetteria e a consolazione insulsa” (1442^). Naturalmente erano chiac-chiere su argomenti di alto contenuto teologico: “Gente che non fa che chiacchierare sul tema che gli «altri hanno arrischiato il sangue e la vita» (22 settembre 1855 – 3316^).

Già non era rimasto più niente del bel fatto cristiano reale e storico. Tutte queste chiacchiere rimbombanti di frasi formalmente cristiane non facevano altro che distruggere il bel fatto cristiano. Lui aveva inventato una parola, una definizione per questi chiacchieroni cristiani: “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in vesti di lupi, ma dentro son pecore: i fraseologi!” (284*).

In fondo, si riduceva il Cristianesimo a una cultura, sopraffina, piena di idee vere, culturali.

Il suo nemico che viveva e pontificava in quel buco che era Cope-naghen non era altro che un maestro di cultura cristiana: “Mynster pensa probabilmente (e questo è di solito la modernità) che il Cristianesimo è cultura. Ma questo concetto di cultura è quanto mai inopportuno e forse

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persino diametralmente opposto al Cristianesimo, quando diventa godi-mento, raffinatezza, pura cultura umana” (2411^).

Bisognava, invece, sbarazzarsi di questa cultura cristiana, ricono-scerla come pericolosa e infinitamente nemica della bella semplicità cri-stiana: “Che il Cristianesimo sia un’eterogeneità, un’incommensurabilità, qualcosa di irrazionale per il mondo e per l’essere uomo in modo diretto, è assolutamente il punto decisivo. Per questo senza ascetica il Cristiane-simo è impossibile. [...] Invece questa formazione e cultura ha portato a uno sviluppo dell’intelligenza che minaccia d’identificare l’essere cristiano con la cultura, con la prudenza: che noi saremo in grado di comprendere il Cristianesimo, ecc. È qui che si deve dare battaglia, se ci sarà battaglia nel futuro. Si tratterà di far valere a questo riguardo la eterogeneità del Cristianesimo, di tenere aperta la possibilità dello scandalo” (13 febbraio 1853 – 2773^).

Aveva proprio terrore di questi intellettuali della cultura e felicità cri-stiana, sapeva che non lo avrebbero lasciato in pace neanche da morto (nel-le loro lezioni cattedratiche teologicamente erudite): “Alla mia morte ci sarà parecchio da fare per i docenti. Le infami canaglie! Eppure ciò non servirà a nulla, anche se sarò stampato e ristampato, letto e riletto. I docenti mi con-vertiranno in un articolo di lucro; mi faranno oggetto del «docere», forse con l’aggiunta: p.es. la sua proprietà è che non si può «docere»!” (2886^).

La sua simpatia era per l’uomo comune, quello quotidiano che lavo-ra tutto il giorno come un somaro: “Mi ha sempre entusiasmato in modo indescrivibile il pensiero che davanti a Dio non è meno importante es-sere una domestica, quando lo si è, che un grandissimo genio. Di qui la mia simpatia quasi esagerata per la classe semplice, per l’uomo comune” (2135*). In fondo, era una cosa semplicemente cristiana, che aveva in-ventato Gesù: “Non posso rinunziare al pensiero che ogni uomo (assolu-tamente ogni uomo, anche il più semplice e sofferente) possa concepire la cosa più alta, cioè la realtà religiosa. Se non è così, il Cristianesimo è in fondo un assurdo. […] Pensa alla realtà più alta, pensa a Cristo. Supponi che Egli fosse venuto al mondo per salvare alcune anime elette, perché le altre non lo avrebbero potuto capire. Com’è orrendo questo pensiero. [...] Ma la combriccola degli intellettuali, l’alleanza della cultura, oh queste sì che gli avrebbero fatto orrore!” (2741*).

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Eh, sì, per lui il bel fatto cristiano non era una questione per pochi intellettuali: “Il Cristianesimo non è stato mai, anzi ha aborrito di essere un mistero nel senso di essere riservato a poche teste privilegiate di ini-ziati. [...] Io non dimentico mai che rispetto al Cristianesimo un calzolaio, un sarto, un operaio è altrettanto una possibilità come il più grande eru-dito e il migliore cervello” (2735*).

La sua simpatia era per gli analfabeti, per quelli che non “sapeva-no” le idee cristiane: “C’è stata in me una simpatia per l’uomo puro e semplice, specie per i sofferenti, gli infelici, i tardi di mente, ecc. (La mia preghiera è sempre che Iddio mi possa conservare sempre in questa sim-patia, che essa cresca sempre in me) ” (2017^). Lui preferiva le zitelle che erano certamente meglio di quegli intellettuali animaleschi e spiritualisti: “Io aborro per principio codesti briganti di mezza cultura. Quanto spesso nelle conversazioni, ho cercato – per evitarli – di mettermi vicino a qual-che vecchia zitella che spende la vita nel raccontare le notizie di famiglia. E con la più grande serietà ho ascoltato tutto quello che essa mi scodel-lava” (185*).

Zitelle, vecchie signore, o matti erano sempre meglio di questi intel-lettuali: “Preferisco parlare con le vecchie signore che riportano chiacchie-re di casa; poi con i dementi; in ultimo con la cosiddetta gente assennata” (186*).

Anche quei poveri materialisti che vivevano solo della materia, gli erano simpatici. In fondo non erano per niente pericolosi: “Essi vivono puramente per scopi finiti, e questa è la classe di uomini ch’io amo di più e con i quali mi sarei trovato bene se i giornali della plebe non avessero guastato la faccenda” (4427^).,

Amava gli uomini normali, quelli che non erano intellettuali della felicità cristiana: “Io non sono mai stato di quegli spiriti orgogliosi che trascurano gli altri uomini. [...] Con malinconia simpatetica ho amato gli uomini, tutti questi molti uomini che ho veduti, domestiche e domestici e guardiani e fiaccherai ecc.: io ho provato una grande gioia a parlare con loro, a salutarli, ecc.” (4249^).

Lui voleva proprio bene a tutta quella gente semplice che si alzava presto la mattina e dopo aver lavorato tutto il santo giorno, andava a dormire stanca “come un mulo”: “Quella che si chiama la classe semplice, l’uomo comune, non ha e non ha avuto in Copenaghen nessuno che l’ab-

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bia amato con tanto disinteresse cristiano come me” (2131*).Proprio non gli interessavano le combriccole culturalmente cristiane,

dove non c’era più niente in comune con quello che vivevano e soffrivano tutti i giorni i poveracci della vita e dell’esistenza quotidiana: “L’uomo comune è il mio compito” (2559*).

Alla fin fine, a cosa avevano ridotto il bel fatto cristiano questi pa-stori prebendati, questi teologi eruditi, questi intellettuali della felicità cristiana? Che cosa rimaneva del Cristianesimo della cristianità?

Adesso che tutto era ridotto a chiacchiere cristiane, l’accozzaglia dei cristiani anonimi era solo un affannarsi di riunioni, dove tutti s’immagi-navano cristiani; riunioni dove ci si parlava addosso per convincersi di essere ovviamente cristiani: “I più per ritenere un’idea devono riunirsi in cricche dove si confermano a vicenda e asseriscono che quel che pensano è giusto, altrimenti non oserebbero pensarlo” (1352^).

Proprio adesso che non si era più cristiani, si facevano le comunità cristiane per essere bugiardi tutti insieme: “Rieccoci all’imbroglio, come dappertutto ai nostri tempi. Si ha una cattiva coscienza, si sa benissimo ciascuno per suo conto: io non sono cristiano – ma non è vero? Una somma di simili cristiani ecco che dà una comunità cristiana. Allora si potrebbe di-scutere così: tutti. Ognuno per sé, diranno: certo, io non oserei in un senso più rigoroso dirmi cristiano, però una comunità cristiana esiste” (3853*).

La cristianità moderna si preoccupava solo di organizzare e costruire comunità piene di riunioni per convincersi che tutto andava cristiana-mente bene. Era diventata proprio una fissazione della cristianità moder-na l’organizzare comunità che, naturalmente, si riunivano intorno alle idee, alle chiacchiere e alle discussioni teologiche formalmente cristia-ne: “Anche tutto questo parlare della «comunità dei fedeli» è un adattare l’eternità dentro la temporalità. Lo si vede subito dal «medio» in questio-ne. La comunità sta nel «medio dell’essere»: per questo ha la proprietà di diffondersi e di tranquillizzare. Il Singolo si trova invece nel «medio del divenire»: e poiché questa esistenza terrena è tempo di prova, perciò non c’è qui alcuna comunità” (1649^).

E così, anche l’accozzaglia dei cristiani moderni era stata fatta di-ventare un’idea eterna formalmente cristiana, con il suo nome – la chie-sa – teologicamente ortodosso: “La corruzione fondamentale dei nostri

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tempi consiste nell’aver abolito la personalità. [...] La Chiesa è trattata nel campo religioso così: ciò che si vuole è un astratto che serva di copertura per evitare di essere un «io»: ciò che certamente nei nostri tempi è la cosa più pericolosa. E si abbellisce questo astratto [la Chiesa] fino a farne una persona, si parla della vita della Chiesa, ecc.” (30 agosto 1855 – 3313^).

Adesso tutti quelli che si immaginavano cristiani si affannavano a organizzare gruppetti di comunità; e, quanto più si facevano gruppetti cristiani, più ci si immaginava ovviamente cristiani: “Che il Cristianesimo non esiste può essere dimostrato dal fatto esistenziale che nessuno crede al Singolo e alle sue azioni intensive. Dappertutto l’esistenza non mostra che il «facciamo un gruppetto»! Ma questo è esattamente l’opposto del Cristianesimo” (2512^).

Le “comunità”, le “riunioni”, la “Chiesa”: tutto era una diretta conse-guenza della fissazione moderna (scientifica, quantitativa) del “numero”; ci si contava, si contava quanti erano venuti alle riunioni, quanto si era stati cristianamente efficienti a riunire un “numero” considerevole e imponente. Il “numero” dei cristiani alle riunioni: solo questo importava. D’altronde, solo così si era famosi nel mondo e nella cristianità numericamente moder-na. Gli faceva proprio ridere, questa fissazione: “Se Dio nei cieli aprisse la sua finestra e dicesse: Ho bisogno di un uomo [...] – l’umanità risponde-rebbe: «Darò immediatamente le necessarie disposizioni, metterò insieme un paio di centinaia di migliaia di uomini e donne e allora Tu potrai avere quanti uomini vuoi [...] » – Ma Dio desiderava un uomo solo” (3080^).

Adesso nella cristianità moderna c’era solo un niente cristiano, cioè qualcosa totalmente omogeneo al mondo. Come erano cambiate le cose dall’inizio, quando il bel fatto cristiano era eterogeneo, di tutt’altra natu-ra, di tutt’altra dinamica rispetto alle dinamiche del mondo; cioè quando si era cristiani per una Grazia che dava una felicità che era distinta da quella che dà il mondo: “«Mentre le porte erano chiuse, Gesù venne dai discepoli» [Gv. 20,10]: così aveva titolato un appunto del suo Diario. E continuava, mostrando ciò che era cambiato dai tempi di Gesù: “Così le porte devono restare chiuse, chiuse al mondo – allora viene Cristo, per le porte chiuse. [...] Quando il Cristianesimo era militante le porte erano sempre chiuse – la eterogeneità della cosa cristiana. Nella cristianità si sono lasciate le porte spalancate: così Cristo non viene più” (3628*).

Un altro mondo, quello infinito, era entrato in questo mondo finito;

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e, anche se era dentro questo mondo aveva qualcosa di infinito, aveva qualcosa che non si poteva ridurre alle misure finite, di questo mondo effimero: “Il finito e l’infinito, il tempo e l’eternità, dal punto di vista cri-stiano sono qualitativamente eterogenei. L’infinito è ben altra cosa da un superlativo o il superlativo più superlativo del finito” (2739^).

Adesso il bel fatto cristiano, che è un altro mondo dentro questo mondo, era stato assimilato, omologato, trasformato in una cosa natural-mente mondana: “La fede è precisamente il «punto fuori del mondo», il quale perciò muove anche tutto il mondo. Ahimè, da troppo tempo la fede non si trova più nel mondo [...] è perciò non muove il mondo. La fede si è lasciata ingannare e trasformare in un punto dentro il mondo perciò essa muove al più come qualsiasi altro punto dentro il mondo, produce qualche circolazione di probabilità, occasiona qualche piccolo episodio; ma non muove più come il «punto fuori». Così muoveva invece il Cristianesimo quando entrò nel mondo. Ma il mondo che non trovava il suo tornaconto in questo punto fuori – che manterrebbe tutto il mondo in continuo timo-re e tremore – il mondo ingannò se stesso ovvero il Cristianesimo, e riuscì ad avere il Cristianesimo dentro. Dall’essere il punto fuori, il Cristianesimo divenne niente di meno che l’«ordine stabilito»” (2192^).

Così facendo, il Cristianesimo (soprattutto il protestantesimo si era troppo accomodato e “conformato con il mondo”: 2031*) si era trasfor-mato in un ordine stabilito, totalmente omogeneo al mondo: “Essere omogenei al mondo [...]. Il Cristianesimo è completamente sfumato in conformità con il mondo” (3055^).

La stessa Chiesa era diventata una chiesa di Stato: “Proprio ora che si parla di riorganizzare la Chiesa, si vede chiaramente quanto poco di Cristianesimo ci sia, ovvero a cosa è ridotta la cristianità. Chiesa e Stato si trattano del tutto alla stessa stregua [...] Qui senz’altro si scambia (e que-sta è la sciagurata illusione della cristianità) l’esser-cristiano con l’esser-uomo” (1894*).

La cristianità moderna, ormai, gíà non riconosceva le differenze tra la Chiesa e lo Stato, che cioè si deve dare a Cesare quello che è suo (in fondo si tratta di una questione antica) e dare a Dio quello che gli spetta (e qui invece la questione non è così certa, stabile, sicura, anzi è tutto in movimento): “La «Chiesa» deve in fondo rappresentare il «divenire», lo ‘Stato’ invece, lo stabilirsi. Perciò è tanto pericoloso quando Chiesa e Sta-

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to concrescono e vengono a identificarsi. [...] I ministri della Chiesa non devono essere funzionari, essi devono essere gli expediti, fatti apposta per essere al servizio del «divenire»” (2412*).

Erano proprio cambiati quei primi tempi di Gesù, quando a Cri-sto e ai quattro gatti che lo seguivano non veniva neanche in mente di identificarsi con lo Stato, né con la nazione, né con la patria: “Un aspetto evidente della morte di Cristo è ch’egli negò il nazionalismo. Ed ecco ora gli ortodossi spacciano teorie a iosa sugli stati cristiani e sul popolo cri-stiano” (2748*).

In fondo, tutto questo accomodarsi politicamente corretto non era proprio una questione cristiana, ma veniva da un’altra parte, da un’altra influenza e mentalità: “La mia accusa fondamentale contro la cristianità è di volere cioè sostituire subdolamente alla pietà cristiana la pietà giudaica. La pietà giudaica è aggrapparsi alla vita terrestre” (2568*).

Tutto andava bene, tutti erano cristiani, lo Stato stesso era cristiano; non c’era proprio ragione di inquietarsi e non stare tranquilli: “Il panegi-rico di questo mondo come il migliore dei mondi! [...] Il mondo sta nel male (1 Jo. 5,19) ” (2009*). Ma, con tutta questa tranquillità statalmente cristiana, non si riconosceva più il bel fatto cristiano che, al contrario, non faceva stare proprio tranquilli: “Un Cristianesimo pensato in tranquillità [come un «ordine stabilito»] è Giudaismo. Il vero Cristianesimo è in mo-vimento” (1914*).

Una volta che si era trasformato e omologato il Cristianesimo all’or-dine statale clerical-borghese, l’insieme e l’accozzaglia di coloro che si immaginavano cristiani, si era trasformata, era diventava un partito, il partito ufficiale.

Erano proprio lontani i primi tempi cristiani, quelli di Gesù: “Cristo fu crocifisso perché egli, sebbene si rivolgesse a tutti, non volle avere a che fare con la Folla, non volle fondare partiti e allestire ballottaggi, ma essere ciò che era: la verità, la quale si rapporta al Singolo” (1398^). Erano pro-prio cambiati i tempi, anzi era proprio cambiato tutto nel Cristianesimo, adesso: “Il Nuovo Testamento consiste nell’esigenza: «Arrischia come Sin-golo di metterti in rapporto con Dio». Noi uomini invece diciamo: «Unia-moci per rendere culto a Dio: quanti più siamo, tanto più saremo felici, sinceri, accetti a Dio». Oh stolti, furfanti. [...] L’uomo è quell’essere dove il numero è la via per diventare potere. Ecco, per questo Dio confuse Babele

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[Gen. 11,9] e per questo le associazioni gli sono sospette” (2943^).Era cambiato proprio tutto. Da quando il bel fatto cristiano era stato

ridotto a un’idea, a una dottrina della quale chiacchierare e prendere co-scienza in riunioni formalmente cristiane, sembrava che il problema fosse solo fondare il partito dei cristiani, il partito di quelli che erano ovviamen-te cristiani. Un partito per cristianizzare tutti, per fare diventare il mondo intero cristiano. Già non interessava a nessuno che la felicità cristiana fosse singolare, fosse una questione esistenziale di ogni uomo in carne e ossa. In fondo era diventata tutto una questione di potere.

Lui lo riconosceva con facilità: “Una cosa è introdurre una nuova dottrina nel mondo, e un’altra interiorizzarla. Nel primo caso occorre ave-re discepoli, fondare un partito; perché altrimenti potrebbe avvenire che la dottrina, quando il maestro abbia finito i suoi giorni, non riesca a pro-pagarsi. Diversamente, quando si tratta di interiorizzare una dottrina. Qui non si devono precisamente avere discepoli, né fondare partiti, perché ciò sarebbe un indebolire l’effetto d’interiorizzazione. Qui si tratta di lavorare come Singolo, di stare come Singolo, di essere sacrificato come Singolo. Il compito di interiorizzare è in verità l’unico necessario alla cristianità, poiché la dottrina è ormai nota a tutti. Appena ora codesto Singolo, in-vece di tener fermo nell’essere Singolo, si mette a fondare partiti, ottiene forza terrestre per via della diffusione numerica ed i suoi pensieri presto sfumano in chiacchiere. [...] Tralasciare di fondare partiti? Sì, poveri noi! Non è per amore agli uomini che tu vuoi fondare un partito. No, tu vuoi fondare un partito per avere potere mondano” (2790^).

Adesso c’era perfino la Chiesa di Stato, di quel gran partito che era lo Stato clericale che garantiva a tutti la possibilità di immaginarsi cristiani: “Le eresie sorte nella cristianità dipendono in diversi modi dalla dottrina sulla Chiesa. Per via di questa si è voluto abolire e spiantare il vero Cristia-nesimo, il principio che il Cristianesimo si rapporta al Singolo, e si sono così prodotte con la «religione nazionale e il dio nazionale», delle forme di religione inferiore che ci fanno tornare al paganesimo e al giudaismo. Non si è badato abbastanza in quale senso la Chiesa è formata dai Singoli; ma facendo degli uomini dei cristiani, già fin da bambini, si è in fondo stabilito che la Chiesa sia il popolo eletto come lo erano gli Ebrei. Ma questo non è Cristianesimo, ma giudaismo, perché cristiani non si può nascere; no, cristiano lo diventa il Singolo” (3765*).

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Ci si era messo anche quel Lutero che aveva voluto fare il riformatore della cristianità: “Pensa a Lutero, a quale confusione non si è prodotta per colpa sua, per non aver rinunciato a fondare partiti. [...] Invece di diven-tare martire, eccolo mettersi a fondare partiti. [...] Non c’è rapporto che non si nasconda sotto l’etichetta di «essere un’associazione»” (2790^). Come avrebbe poi detto l’altro grande, Péguy, si comincia con la mistica e si finisce sempre in politica.

In fondo, c’era un solo dio, il denaro, con le sue uguaglianze dise-guali: “Mammona è l’ineguaglianza: quella cioè che ha la proprietà di con-solidare la differenza fra uomo e uomo, in un modo del tutto indifferente (cioè ingiusto), perché è proprio questa l’essenza del «denaro»” (2090*).

E così, adesso che il Cristianesimo era diventato il partito ufficial-mente statale, era naturale che lo sfoggiassero solo i ricchi, cioè quelli che avevano il potere reale nell’ordine stabilito. In fondo, si diceva, anche Cri-sto era stato un personaggio straordinario che non poteva essere ridotto a un poveraccio; Lui – si diceva – apparteneva agli aristocratici: “Se Egli è lo straordinario, si dice, egli deve allora avere un segno di distinzione e vivere fra le persone aristocratiche – ma non deve vivere con noi: questa è stravaganza, affettazione” (2944*).

Si era arrivati a pensare che i cristiani ricchi fossero automaticamente e cristianamente benedetti, che fossero cristianamente gli eletti, i salvati, i felici. Alla fin fine il Cristianesimo era diventato una questione da ricchi, un lusso insomma, per il tempo libero, per impegnare il tempo libero. La cristianità aveva così finito col “predicare il Vangelo per i ricchi, per i po-tenti, ecc. […] I ricchi e i potenti non solo mantengono tutte le ricchezze; anzi questo stesso successo della loro vita diventa il segno della loro pietà, il distintivo del rapporto con Dio. […] Quindi i ricchi non sono solamen-te gaudenti, ma anche pii” (3651*).

Da quando il Cristianesimo era stato snaturato in una dottrina e in un’idea che si insegnava, in un insegnamento in cui i pastori e i professori della felicità erano dei prebendati, era diventata tutta una questione di soldi: “Quando il Cristianesimo è una prebenda [...] allora, oh certo allo-ra, il Vangelo si predica meglio per i ricchi” (2691^). Si trattava proprio di simonia, di vendere quello che non si poteva vendere: “La questione sulla natura del Cristianesimo può ben presto diventare una questione

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di denaro” (2732*). A questo si era arrivati: che i cristiani formalmente ortodossi (naturalmente erano i cristiani ricchi che avevano potuto com-prare il diritto ad essere riconosciuti come cristiani) con le loro dottrine impeccabili in fondo non volevano che difendere il loro status quo borghe-semente tranquillo. Questo era quello che lui vedeva: “cristiani ortodossi [...] avidi di potere” (2731*).

In fondo non si faceva che offendere i poveri con questo Cristianesi-mo predicato dai ricchi: “Voler predicare il Cristianesimo quando si è ric-chi, potenti e felici (per non dire quando si sono ottenute tutte queste cose col predicare il Cristianesimo), non è in fondo che un offendere i poveri” (3709*). Adesso che tutto il bel fatto cristiano era ridotto a una dottrina, i ricchi s’impossessavano anche delle consolazioni di cui non avevano bi-sogno e le toglievano ai poveracci: “Codesti uomini mondani, fisicamente troppo forti, la cui vita ed i cui pensamenti non sono altro che monda-nità, s’impossessano del Cristianesimo, di tutta quella consolazione che esso elargisce in forma di umana compassione. E quei poveri infelici, che avrebbero dovuto goderne il vantaggio, vengono cacciati fuori” (2541*).

C’era solo una cosa più triste di questo Cristianesimo per ricchi: che anche i poveri volevano essere come i ricchi cristiani, avere cioè il lusso cristiano dei beni che si comprano e si vendono in questa terra: “Ma i poveri sono forse altrettanto mondani e altrettanto non si interessano di questo Vangelo, ma sono come noi altri, desiderano la Buona Novella dei beni terreni” (3584*).

E così, il Cristianesimo nella cristianità moderna era stato ridotto a una religione per gente ricca, per persone colte, erudite, che avevano tempo da perdere e che potevano permettersi il lusso di chiacchierare delle dottrine formalmente cristiane. Il Cristianesimo era diventato “una dottrina che soddisfa soprattutto le persone colte come l’apice della cul-tura” (1624*).

Alla fin fine, del bel fatto cristiano rimaneva solo quello che il gran francese, il gran Péguy, chiamava una “miserabile religione per ricchi che, non capendo niente del Cristianesimo, lo professano”.

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II.

IL CRONISTA CRISTIANO

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IL BEL FATTO CRISTIANO E IL SUO PERDONO

Nel suo Diario, Kierkegaard non solo aveva fatto la cronaca dell’abo-lizione intellettuale del bel fatto cristiano, non solo aveva detto quello che vedeva, a cosa era stato ridotto il Cristianesimo nella cristianità.

Aveva fatto anche la cronaca di cos’era per lui il bel fatto cristiano, di come accadeva nella sua carne e nelle sue ossa, come accade a un povero e singolo cristiano.

La cristianità moderna voleva, con un’operazione criminale, rimpic-ciolire il mistero cristiano. A lui tutta questa questione non piaceva: “Non dobbiamo essere noi stessi a rimpicciolire l’Onnipotente” (2766^); “Il Cristianesimo è l’Assoluto e l’Assoluto si deve attuare, non si può ribassa-re” (1988*); “Il Cristianesimo è l’assoluto ed esige che la vita del cristiano esprima ch’esiste qualcosa di assoluto” (1904*).

Proprio da questo riconoscimento gli era diventato chiaro il suo compito: “È il concetto di cristianità che si deve riformare: ciò che si deve fare è il contrasto dialettico di introdurre il Cristianesimo però in un altro senso: introdurre il Cristianesimo nella cristianità” (2616*). Ce n’era già fin troppo di Cristianesimo intellettuale: “Il Cristianesimo si può predicare solo nella realtà” (2136*).

Lui solo riconosceva quello che vedeva, come un buon cronista cristiano; non voleva sapere, non era un teologo né un professore della felicità cristiana: “Come principio bisogna dire: la Fede non si può com-prendere; il massimo a cui si arriva è poter comprendere che non si può comprendere. Così anche per un Assoluto non si possono dar ragioni, al massimo si possono dar ragioni che non ci sono ragioni” (2613^).

Riconosceva che, davanti al bel fatto cristiano, non si tratta di discu-tere e ragionarci su, pieni di presunzione, ma di inginocchiarsi pieni di gratitudine: “È veramente tutt’altra faccenda mettersi a dimostrare l’esi-stenza di Dio reggendosi su una gamba sola, dal ringraziarlo in ginocchio” (757*). Anche perché, bisognava riconoscerlo, se non si voleva essere

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solo degli intellettuali e dei professori cristiani, “Dio e l’uomo sono sepa-rati dalla differenza infinita di qualità” (1925*).

Riconosceva anzitutto che il Cristianesimo era proprio un bel fatto storico: “Nel Cristianesimo l’elemento storico è precisamente in esso l’es-senziale” (967*); riconosceva che era un bell’avvenimento, una cosa che non era venuta né poteva venire in mente all’uomo, che non si poteva dedurre da quello che l’uomo sapeva; che non era prodotta da nessuna riflessione antecedente e che perciò era qualcosa di esteriore, qualcosa di propriamente storico: “Nella fede noi riceviamo qualcosa che non è dato e non si lascia mai estrarre e mostrare dalla conoscenza precedente. [...] La manifestazione di Cristo [...] non ci è esteriore nel senso di una cosa che sia esteriore perché non ci riguarda, ma esteriore in quanto è un fatto storico” (681*).

Lui riconosceva, insomma, che “il Cristianesimo è un’invenzione di Dio” (3469*; 2821*), che non se lo era certo inventato e immaginato l’uomo.

Anche perché lui era proprio diverso da tutta quella filosofia statica dei suoi tempi, da tutta quella filosofia che si spaccava la testa sull’ “es-sere” e sul “divenire”, che poi, in fondo, erano solo degli stati immobili in cui la ragione aveva rinchiuso tutto. Per lui invece tutto era qualcosa che succedeva, un evento e un avvenimento sempre nuovo. Anche Dio era così, per lui: “Dio, per essenza, è attualità pura” (1926*). Insomma, per Kierkegaard, Dio non era un vecchietto impotente, mezzo arterioscle-rotico, che se ne sta nei cieli a lisciarsi la barba bianca, come lo conside-ravano tutti i cristiani tranquillamente accomodati, che solo con un Dio così rimbambito potevano fare quello che volevano. Anzi, proprio così si educavano perfino i bambini nello Stato ufficialmente cristiano: “Si è educati fin da bambini nel Cristianesimo; pressappoco come quando un bambino è educato non dai genitori, ma dai nonni. Dio non è più il nostro padre, ma il nonno” (2634*).

Per lui Dio non era un povero arteriosclerotico. Anzi, gli era venuta, a un certo punto, l’idea di rivelarsi, di mostrarsi, di apparire, di manife-starsi (tanto era così poco impotente). Insomma, al buon Dio, era venuta l’idea del Cristianesimo, cioè di rivelarsi nella storia, quella che quotidia-namente, temporalmente e geograficamente vivevano tutti i poveracci.

Dio si era mostrato proprio perché non si pensasse che fosse così

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distante che non potesse raggiungere l’uomo e la sua storia. Ahimè, nella cristianità moderna si era fatto di tutto per avere un’idea di Dio (e di Cri-sto) così pura che era impossibile per Lui rivelarsi nella storia (in fondo riproponevano quello che avevano già fatto i Giudei 1800 anni prima): “La disgrazia della cristianità è che l’idea dell’elevatezza di Dio e dell’ele-vatezza di Cristo è diventata così infinita da apparire in fondo fantastica al punto che in realtà non si può parlare di una vera vita cristiana, ma al massimo di un po’ di pietà ebraica. [...] La cristianità è riuscita a rendere Dio così elevato che questo significa averlo messo alla porta. E si vedono spesso non pochi di siffatti religiosi i quali in fondo, con tutto quel parlare dell’elevatezza di Dio restano senza Dio” (2096*).

Ma tant’e, si viveva in un’epoca illuminata, intelligente, in cui an-che Dio doveva essere puro, assolutamente distante dall’immonda realtà della storia, cioè immobile. Mancava proprio, a tutti questi illuminati, la semplicità dei bambini: “La difficoltà, specialmente per gli uomini di intelligenza, è anzitutto di avere in verità l’idea infinita dell’elevatezza di Dio e dell’elevatezza di Cristo e poi la franchezza infantile di mettersi in relazione con loro come un bambino per quanto riguarda la propria vita personale” (2096*).

Il buon Dio non era proprio uno statico arteriosclerotico impotente; al contrario aveva una soggettività piena d’azioni e di opere, non nell’al di là, ma nell’al di qua. E aveva fatto vedere qualcosa della sua soggettività che non era staticamente impotente, con la Creazione, quella piena di fiori e di stelle; e poi, in modo incomparabile, si era anche fatto uomo, era diventato uno dei milioni di milioni di uomini della terra, incarnato geograficamente, storicamente: “Qui si vede bene la soggettività del Cristianesimo. Di solito si biasimano gli artisti, i poeti, ecc., quando mettono avanti se stessi nelle loro opere. Ma è questo appunto che fa Iddio in Cristo. Proprio in questo consiste il Cristianesimo. La creazione in fondo si è compiuta in quanto Dio ha in essa messo avanti Se stesso. Prima di Cristo Egli si era certamente messo avanti nella creatura, ma come un segno invisibile, come la filigrana nella carta. Ma nell’Incarnazione la creatura risulta compiuta per il fatto che in essa Dio ha messo avanti anche Se stesso” (2453*).

Con la sua rivelazione, con il fatto di farsi vedere, Dio aveva mo-strato di avere una logica strana, quella della condiscendenza, che non diminuiva in nulla la sua eternità e potenza infinita: “Proprio quando Dio

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vuole esprimere la sua condiscendenza, esprime indirettamente anche la sua infinita sublimità” (2648*).

E così, il buon Dio non solo si era inventato la Creazione, ma anche il Cristianesimo, che era, anzitutto, un bell’avvenimento storico che non era venuto in mente all’uomo, che non avrebbe mai potuto neanche im-maginarlo: “Il Cristianesimo non soltanto ha in sé qualcosa che l’uomo non si è dato da sé, ma contiene cose che mai sarebbero venute in mente all’uomo [I Cor. 2,9], neppure come desiderio ideale” (515*).

Dio, quando si era fatto uomo, aveva mostrato a tutti che non era un vecchietto statico e impotente, ma che era giovane pieno di forza e azione: “Nell’ebraismo Dio era quasi confinato nell’alto dei cieli. Vedeva che la Legge non era adempita, puniva, ma poi lasciava andare le cose pel loro verso. Poi venne il Cristianesimo e allora, per così dire, divenne giovane” (2678*).

Il bell’avvenimento cristiano, quello di Cristo, di Dio che si era fat-to uomo, era un’invenzione di Dio, e perciò non nasceva dai desideri dell’uomo, non era il risultato dei desideri di felicità dell’uomo, non era proprio uguale al senso religioso che c’è in ogni uomo: “Il Cristianesimo non è sorto nel cuore di un uomo, esso è proprio ciò che non è sorto nel cuore di un uomo” (3609*).

Il bel fatto cristiano, non venendo dall’uomo, era un supplemento, qualcosa di esterno, storicamente esterno, qualcosa in più che l’uomo non poteva darsi da solo, dopo la disgrazia del peccato originale: “L’uomo è formato, egli pecca, e questo fatto esige il suo supplemento, cioè Cristo” (96*).

Allora, se il Cristianesimo è una cosa che non nasce dall’uomo, si può solo riceverlo ed essere attivamente passivi; e il massimo di attivi-tà dell’uomo è la passività, ricevere quello che lui non si può dare: “Io sento veramente in questo tempo il mio annientamento, di modo che il mio rapporto al Cristianesimo sembra diventare completamente passivo: come con il cieco nato” (548*).

Proprio per questo, per lui il Cristianesimo era un bell’avvenimento che non si presentava assolutamente come il superlativo di quello che l’uomo già è: “Così è tutto il Cristianesimo: [viene] dall’altra parte; cioè il contrario rispetto alla cosa puramente umana. [...] La più grande altera-zione del Cristianesimo è di metterlo sulla stessa linea di ciò che è pura-

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mente umano, considerandolo al più come un superlativo; o in rapidità diretta con la cosa puramente umana, al più come un suo potenziamento” (3591*).

Adesso, siccome il “Professore” diceva che valeva solo l’oggettivo, e cioè l’astratto, e cioè tutto quello che era generico, anche Gesù doveva es-sere ridotto a qualcosa di generico, di generale, come se fosse il massimo rappresentante dell’umanità, il più evoluto, la realizzazione del genere umano. Per lui, invece, non era così che si doveva trattare il povero Gesù: “Cristo è il Singolo, colui che era di più di tutta la generazione” (1887*).

Gesù, però, non poteva essere il superlativo dell’umano perché era un avvenimento in cui si toccavano la terra e il cielo, in cui il cielo comin-ciava sulla terra; e questo non si può proprio paragonare con niente, non si può dire che in confronto a un’altra cosa è solo qualcosa di più: “Come la nascita di Cristo non è soltanto un avvenimento sulla terra ma anche in cielo, così la nostra giustificazione non è soltanto un avvenimento sulla terra ma anche in cielo” (558*). No, non si poteva pensare proprio che il buon Gesù fosse il superlativo dell’umano, anche perché, se uno è mini-mamente onesto con sé stesso, non può che riconoscersi ben poca cosa, anzi un poveraccio che ha bisogno di Lui: “Cristo è nello stesso tempo la realtà dogmatica. Qui sta la differenza. La sua morte è redenzione [...]. Io non posso considerare e concepire Cristo come una persona puramente storica. Considerando la Sua vita e la Sua morte, io considero o devo con-siderare d’essere un peccatore” (2132*).

Siccome siamo tutti dei poveracci, davanti al bel fatto cristiano non si tratta proprio di fare i teologi, di fare la teologia dell’idea eterna di Cri-sto, (l’idea Christi del “Professore”). Si tratta semplicemente di fare la cro-naca di Gesù, dei suoi atti. L’unica “teologia” giustificabile, poteva nascere solo guardando Gesù, e come Lui si mostrava nella storia, come operava, viveva ed esisteva davanti agli occhi di chi lo vedeva: “La dogmatica cri-stiana dovrebbe, secondo me, essere uno sviluppo dell’attività di Cristo: e questo tanto più per il fatto che Cristo non costruì una dottrina, ma agì. Egli non insegnò che esiste una redenzione per l’uomo, ma redense l’uomo. Una dogmatica maomettana (sit venia transit) sarebbe un’espo-sizione della dottrina di Maometto; ma una dogmatica cristiana è uno svolgimento dell’attività di Cristo. Per via dell’attività di Cristo sarebbe data anche la sua natura, il suo rapporto a Dio, la natura dell’uomo, la

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situazione umana condizionata dall’attività di Cristo (che ne sarebbe in realtà la cosa essenziale). Tutto il resto sarebbe soltanto da considerare un’introduzione” (21*).

Non gli piaceva il modo in cui i teologi prebendati insegnavano e scrivevano grossi manuali dogmatici su Cristo, ridotto a un povero Gesù spezzettato, a uno spezzatino teologico. Lui aveva, avrebbe fatto in un altro modo: “Il docere nei riguardi della vita di Cristo, il dividere la vita di Cristo in paragrafi, la smania del sistema ecc., sono un non-senso. Si deve e si doveva battere una via nuova: a questo scopo ho pensato di servirmi della poesia. Le analogie umane, quando si vuol far risaltare la differenza qualitativa fra Dio e l’uomo, credo che possano contribuire per chiarifica-re, per comprendere più intimamente il Vangelo. Il Cristianesimo e il Van-gelo sono diventati triviali per gli uomini, perché gli uomini li conoscono da tanto tempo e li sanno a memoria. [...] Si tratta invece di cominciare, di fare qualcosa per rendere la vita di Cristo presente. Per via di un’analogia umana e in modo poetico si mette avanti la possibilità della realtà, ma la possibilità è appunto il pungolo per il risveglio” (2259*).

L’avvenimento di Gesù aveva impiantato, fondato, istituito un altro mondo in questo mondo; anzi, Lui era questo altro mondo, in questa terra mortale, cosicché l’altro mondo fosse facile per tutti: “Il Cristiane-simo insegna una qualità nuova ed educa con l’eternità e per l’eternità” (1922*). Così poteva essere facile per tutti provare l’eternità nella geogra-fia terrena e storica, anche perché Gesù era l’eternità e un altro mondo in questo mondo: “Cristo non era un «testimonio» della verità ma la stessa «Verità»” (2121*).

Insomma, Dio per salvare l’uomo non aveva mandato una dottri-na, non aveva inviato quattro sillogismi teologici (che i poveri analfabeti cristiani non avrebbero capito). No, Dio si era fatto uomo, aveva vissuto come tutti i poveri uomini; era la sua condiscendenza divina, e Dio si era fatto debole con i deboli in questo avvenimento storico che è Gesù: “Il Cristianesimo non è una dottrina del fatto che Dio s’interessa e ama i poveri, gli umili, i miseri, gli infelici: – no, il Cristianesimo è questo stesso atto che Dio in Cristo si rende uguale all’umile” (3709*).

Se non fosse stato così, se Dio avesse inviato solo quattro tesi teolo-

giche, gli unici felici sarebbero stati i “professori”. Ma i poveri analfabeti,

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cioè tutti gli altri, non avrebbero capito niente, soprattutto non sarebbe servito loro a nulla: “Egli rende il divino del tutto commensurabile all’uo-mo comune, non consente indulgenza per alcuno, non si mette fuori, come oggetto di un pigro e sterile ammirare e contemplare, ma se ne sta dietro per spingere gli uomini fuori, allo sbaraglio” (1798^).

Un bel fatto della storia non si deve proprio ridurre a un’idea, a una teologia: “L’importante è che Cristo sia rappresentato nel Suo modo di vivere e di comportarsi di 1800 anni fa. Solo a questo modo Egli è e vuole essere su questa terra; nell’eternità Egli ritornerà circonfuso di Gloria [Mt. 26,64]” (1764*).

Dio aveva preso carne e ossa in Gesù; era cioè un bel fatto della sto-ria, aveva la sua geografia precisa, uno spazio preciso dove aveva vissuto, mangiato e camminato. E naturalmente aveva un tempo, una storia fatta di minuti, di ore, di giorni, di settimane, di anni (fatto di una eternità temporale).

Ma questo spazio e questo tempo non facevano finire qui, nel tempo e nello spazio, il mistero di Dio. E per questo l’uomo non può mai dire di aver capito tutto di Dio, di averlo ingabbiato nelle sue misure di spazio e di tempo razionali. Infatti, quando Dio si era fatto uomo, non aveva ridotto o annullato il mistero di Dio, non aveva eliminato la sproporzione dell’uomo con il mistero di Dio; anzi, questa sproporzione era aumentata e Dio era diventato ancora più misterioso: “Come dice Pascal, Dio nella rivelazione è diventato più oscuro di prima” (4039*). Invece di ridursi, il mistero di Dio – con Gesù – era aumentato: “L’aspetto umoristico del Cristianesimo è espresso in un assioma secondo il quale la «verità si na-sconde nel mistero [I Cor. 2,7]»” ( 1785^).

Il bel fatto di Gesù non si poteva proprio ridurre a un’idea, a una verità eterna che non accade mai nella storia. Cristo è quell’uomo storico, umano, terreno, geograficamente temporale, che aveva camminato per le strade, cioè, semplicemente “la verità e la vita” (1957*).

Tutti, nella cristianità moderna, avevano ridotto il bel fatto di Gesù a un’idea. Per questo Kierkegaard apprezzava tanto quell’antico Padre della prima cristianità, quell’Agostino, per il quale la fede nasceva e si sosteneva perché c’era Qualcuno presente, un Dio fatto uomo di carne e ossa, cioè perché c’era una auctoritas, un’autorità, Qualcuno che si poteva ricono-scere o che si poteva non riconoscere, Qualcuno che si incontrava o non

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si incontrava, che si amava o non si amava: “Agostino mostra che la per-fezione del Cristianesimo consiste proprio nell’autorità, che il Cristiane-simo possiede la verità nella forma più perfetta, cioè nell’autorità; che se qualcuno potesse avere la stessa verità senza l’autorità sarebbe meno per-fetto, perché è proprio l’autorità che rappresenta lo stadio perfetto. Ahimè Agostino aveva potuto ancora imparare ciò di cui gli uomini hanno bi-sogno: l’autorità, ciò che precisamente l’umanità, estenuata dai dubbi dei filosofi e dalle miserie della vita, aveva potuto imparare dal Cristianesimo che allora entrava nel mondo” (4130*).

Ora era cambiato tutto, come scriveva nello stesso appunto, nel suo Diario quotidiano: “Ora la faccenda si è capovolta. Un cosiddetto Cristia-nesimo filosofico spiega precisamente che l’autorità costituisce lo stadio imperfetto, che essa è al massimo qualcosa di adatto per la plebe; che la perfezione è di abolirla [...] per ritornare alla situazione in cui si trovava l’umanità prima che il Cristianesimo entrasse nel mondo. E la teologia cerca di fondare l’autorità del Cristianesimo con ragioni, un modo di fondarla che è peggiore di qualsiasi attacco perché confessa che non è autorità” (ivi).

Quando si incontra il bel fatto cristiano non si incontrano quattro idee, una dottrina o le spiegazioni teologiche di un docente, di un profes-sore; si incontra una persona e una personalità, una auctoritas, una autorità e per questo è una relazione personale, da Persona a persona, cioè una cosa esistenziale, non intellettuale: “Per i Greci la fede è un concetto che appartiene alla sfera dell’intellettualità. [...] Allora la fede si rapporta al verosimile e noi abbiamo un climax: fede-scienza. Dal punto di vista cri-stiano la fede abita nell’esistenziale: Dio non si è esibito in veste di docente che ha alcune tesi: no, prima bisogna credere e poi comprendere. La fede esprime un rapporto da personalità a personalità. La personalità non è una somma di tesi, neppure una cosa immediatamente accessibile” (2938^).

[Una piccola postilla a questo ultimo punto. Gli era anche toccato, a volte, di non trovarsi d’accordo con quel Santo antico, ma solo perché non lo capiva, perché soprattutto voleva discutere da teologo con quel Santo che era solo un cronista cristiano. Da qualche appunto si capisce che non lo aveva proprio capito: “Agostino ha fatto però un danno incal-colabile. [...] Ha senz’altro rimesso in voga quella determinazione pagana della filosofia greca della fede. [...] Ma già al tempo di Agostino il Cristia-

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nesimo godeva molta, troppa quiete, trovando il tempo per mettere fuori la scienza con tutto il suo sussiego presuntuoso e malinteso [...] E così si ottiene una filosofia pagana, che si spaccia per un progresso cristiano” (2938^)].

Lui riconosceva che il bel fatto cristiano ha la precedenza, deve ac-cadere e avvenire prima di qualsiasi considerazione sull’uomo, sulla sua miseria, sulla sua ricerca affannata della salvezza; deve venire prima di qualsiasi considerazione su quello che è l’uomo e quello che cerca, sulla sua condizione morale e intellettuale.

Così era accaduto ai pastori e ai tre re magi, a quei tre eruditi, in quella notte di Betlemme nella quale videro solo un piccolo indizio e furono felici: “Dove c’era allora più verità: nei tre Re che corrono dietro a un vago indizio, o nei dottori della Legge che con tutto il loro sapere se ne stanno fermi?” (3035*).

In fondo, i “professori-clericamente-teologici” pensavano che era Gesù che aveva bisogno di loro, delle loro idee cristiane e delle loro ana-lisi teologiche. Esistenzialmente impotenti, già non avevano bisogno di Gesù per farsi perdonare i loro peccati (erano così intellettuali che già non li facevano da un bel po’): “Il Cristianesimo occorre prima e sopra ogni cosa per divenire attenti, per imparare come io ho bisogno di esso. [...] Prima di tutto devo imparare dal Cristianesimo il bisogno ch’io ho del Cristianesimo. Il Cristianesimo è l’idea che Dio ha del peccato e della giustificazione, ecc. Se mi trascino a casaccio nella mia idea puramente umana sulla natura del peccato e della divina giustizia, come potrebbe venirmi in mente che il peccato sia una cosa così tremenda che ci vuole la passione e la morte di Cristo per redimerlo?” (3488*).

Anzitutto, per lui, il bel fatto cristiano era pieno di misericordia dei suoi poveri peccati umani: “È qui l’essenza del Cristianesimo. Dio risol-vette d’incarnarsi per poter aver veramente misericordia degli uomini” (3583*).

Il bel fatto cristiano, quando accade e si incontra nella vita di tutti i giorni, fa scoprire e rivela tutta la miseria dell’uomo, con un vantaggio: non si hanno sentimenti di colpa. Cioè, quando accade il bel fatto cri-stiano, uno riconosce quello che è: un povero peccatore. Lui ammetteva di essere un povero peccatore proprio perché riconosceva che c’era quel

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fatto e avvenimento di Gesù che lo perdonava: “Una è la coscienza del peccato e l’altra è la certezza del perdono dei peccati. Ma questa certezza non procede, come il sapere, dal dubbio, con una logica interiore [...] La conoscenza del perdono dei peccati è connessa ad un avvenimento esteriore, a tutta la manifestazione di Cristo che non è esteriore nel senso di una cosa che ci sia esteriore perché non ci riguarda, ma esteriore in quanto è un fatto storico” (681^).

Il bel fatto cristiano, pieno di misericordia, è l’unico che può far riconoscere all’uomo il suo peccato e la sua miseria: “L’uomo secondo il Cristianesimo è uno spirito decaduto che per punizione è stato degradato ad animale. [...] Se il Cristianesimo non fosse venuto al mondo, probabil-mente l’uomo non si sarebbe mai accorto di questo triste segreto; perché ci vuole il Cristianesimo per spiegare all’uomo la vera situazione: ch’egli originalmente era tutt’altra cosa, cioè quanto profondamente in basso egli è caduto [...]: Il Cristianesimo è la buona novella che apre gli occhi dell’uomo ad una miseria di cui l’uomo naturale non ha nessun sospetto” (4089*).

Senza la dolce presenza di Gesù che perdona, non si può proprio rico-noscere il peccato perché non si tratta di fare un sillogismo o di concludere un ragionamento (cristianamente formale): “L’ universalità del peccato non può essere oggetto di scienza, ma di fede soltanto: è una comunicazione di Rivelazione, avuta la quale io ho soltanto il compito di concentrare tutta la serietà nel pensiero ch’io sono un peccatore” (2831*).

Insomma, riconoscere il peccato che ognuno ha, è una gran Grazia, è solo frutto e opera della presenza misericordiosa di Gesù e, senza di Lui, uno non può nemmeno immaginarsi fino a che punto è un povero pecca-tore: “Come il sentimento della propria indegnità è la prima impressione di un innamoramento vero e profondo, così il bisogno della remissione dei peccati è il segno del nostro amore per Dio. Ma nessun uomo può riuscire con le sole sue forze a pensare che Dio lo ama: bisogna che gli venga predi-cato. Questo è il Vangelo, la Rivelazione. Ma appunto perché nessun uomo può da se stesso arrivare a pensare che Dio lo ama, non può neppure da se stesso concepire quanto grande peccatore egli sia. [...] Perché la Legge può fare di un uomo un peccatore, ma l’amore fa di lui un peccatore molto più grande: colui che teme Dio può ben sentirsi peccatore; ma colui che in verità ama, si sente più peccatore di quanti altri mai” (1717*).

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Solo dopo aver incontrato la misericordia di Gesù, solo allora, si può correre da Lui con tutti i peccati, senza bisogno di dimenticarne nessuno: “C’è un potere che si chiama peccato. Se tu vuoi salvarti da esso, corri allora da Cristo. Egli è la salvezza” (2334^).

Era proprio una consolazione per lui riconoscere che i suoi peccati erano perdonati non da delle idee né da regole morali naturalmente cri-stiane: “Il Cristianesimo è una consolazione per tutte quelle sofferenze che nessuna sapienza umana può consolare, e può offrire una consolazio-ne per il tormento e il dolore della coscienza del peccato che esiste solo per i sofferenti” (1826^).

Non c’è niente, d’altronde, come il peccato e il suo riconoscimento davanti a Gesù, che fa capire come, in questa terra, la povera esistenza umana è proprio una questione che interessa a ognuno, singolarmente: “Che il Cristianesimo si rapporta assolutamente all’isolamento (al Singolo) lo si vede anche da questo, che il presupposto del Cristianesimo è sempre la «coscienza del peccato», che esso comincia col predicare la remissione dei peccati. Ma la coscienza del peccato è l’isolamento assoluto. Anche la infelicità e la sofferenza più speciale umana non isolano a questo modo. [...] Soltanto il peccato è l’isolante assoluto. Il mio peccato non riguarda alcun altro uomo all’infuori di me, riguarda la mia personalità nel suo fondo più intimo. Come si vede quant’è sciocco affermare di popoli, stati, paesi e simili astrazioni che sono cristiani [...] (3119^).

Proprio per questo si doveva sfuggire dall’idea di essere tutti ovvia-mente cristiani, tranquillamente impeccabili: “Si deve chiudere la bocca al popolo e far convergere e sottoporre la sua coscienza di Dio alla coscienza del peccato” (992^).

Per lui, esistenzialmente non ci sarebbe stata nessuna altra ragione per essere cristiani se non quella di riconoscere i propri peccati (perdona-ti): “Il Cristianesimo non si rapporta che alla coscienza del peccato. Voler essere cristiani per qualche altra ragione, è una vera stupidità” (1989*). Anche perché, se non si è stupidi o superbi, i nostri peccati sono una cosa seria, non è che ci si possa giustificare sempre nascondendosi dietro un dito: “Solo una cosa ci deve rendere seri: il proprio peccato” (2177*).

Certo, c’era ancora qualcosa di peggiore, cercare di spiegare, di fare gli intellettuali davanti ai nostri peccati: “L’universalità del peccato non può essere oggetto di scienze, ma di Fede soltanto; è una comunicazione

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di Rivelazione, avuta la quale io ho soltanto il compito di concentrare tutta la serietà nel pensiero ch’io sono un peccatore” (2831*)

Ma, di sicuro, la cosa peggiore era essere troppo severi, essere troppo esigenti con i propri peccati, meditarli troppo e prenderli troppo sul serio: “C’è anche una severità nel condannare se stessi e nel non voler neanche sentir parlare della Grazia, severità che non è che peccato” (2794*).

D’altronde Gesù era venuto proprio per toglierci il peso e la preoc-cupazione di dover riparare i peccati che facciamo e non voleva che ce ne preoccupassimo troppo: “Credo che anche Cristo come Redentore si inquieti quando il fedele vuol affaccendarsi per dare da sé soddisfazione del suo peccato. [...] È la fede che ci fa compiere atti veramente buoni” (2662*). In questo si trovava d’accordo con chi aveva voluto fare il “rifor-matore”: “Lutero fa una buona distinzione: «Il Vangelo non ci insegna ciò che dobbiamo fare, ma dove prendere le forze per farlo»” (2663*).

Davanti all’imprevisto perdono di Gesù, solo allora, tutti potevano riconoscere che per il perdono dei propri peccati, per la loro salvezza, non era sufficiente nessun sforzo di volontà, neanche il più sincero: “Il proposito del bene è così “tentante” e contiene tanto spesso qualcosa di narcotico che può bensì sviluppare un’intuizione, ma non un’elasticità che dia energia” (368*).

In fondo, tutti gli sforzi dell’uomo sono impotenti, non servono a niente per essere cristianamente felici; anzi, quanto più pensano di far-cela da soli tanto più sono ridicoli, sono una cosa che fa ridere: “Perché ciò che fa l’uomo con le proprie mani, non sarà mai più di foglie di fico” (476*). E perciò non serviva a niente parlare di coerenza morale e obbli-gare a fare degli sforzi per poter vincere l’incoerenza: “Come l’incedere umano è un cadere continuato, così ogni coerenza è un’incoerenza con-tinuata” (630*).

Riconosceva che senza l’aiuto della Grazia proprio non si può fare niente di buono: “Padre celeste! Cammina Tu con noi come una volta camminavi con gli Ebrei. Oh non farci credere che noi siamo diventati troppo grandi per fare a meno della Tua educazione. [...] Facci sentire che senza di te non siamo buoni a nulla” (388*).

Lui riconosceva che lo sforzo morale dell’uomo non serve a nulla; e che la salvezza è un’altra cosa, distinta, che non viene dall’uomo, una Grazia che viene dal di fuori dalla natura umana, una cosa soprannatura-

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le: “Lo sforzo più grande possibile – per un nulla: ecco il paradosso più grande possibile. Ma così è, se è vero che è solo e solamente «Grazia», nonostante tutto – e quindi il più grande sforzo possibile è per un niente: il nostro sforzo non significa nulla, nulla” (3691*). Per cui era proprio una grande illusione pensare (come quell’illuso di Kant) che fosse suffi-ciente per essere buono e felice obbligarsi a uno sforzo di coerenza che ci si impone da se stessi: “L’autoraddoppiamento effettivo senza un terzo che stia fuori e che costringa, riduce ogni esistenza consimile a illusione, a uno sperimentare. Kant pensa che l’uomo sia a se stesso la sua legge (autonomia), cioè che si leghi alla legge ch’egli stesso si è data. [...] Se si deve fare sul serio, ci vuole costrizione” (2131^).

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CRISTIANO, PER GRAZIA(CON TIMORE E TREMORE)

Kierkegaard riconosceva, in se stesso, che il Cristianesimo era una questione di esperienza, di un’esistenza non ovvia e di una relazione non scontata con la realtà. L’esistenza, l’incontro con la realtà di tutti i giorni, questa sì rivelava quotidianamente quale fosse il bisogno vero per la feli-cità dell’uomo: “È per via e con la realtà quotidiana che comincia la vita religiosa ed è così che io comprendo la mia vita” (1660^). Gli interessava il bel fatto cristiano, ma non come una fuga dalla ferita che ci portiamo dentro e che nasce nelle cose quotidiane.

Ma proprio questo era quello che mancava alla cristianità dei suoi tempi, ai cristiani che credevano tranquillamente alle idee cristiane eterne che non accadevano mai nella storia. A tutta la cristianità moderna man-cava l’esistenza e l’esperienza umana e cristiana.

Era una cosa proprio paradossale, perché mai si era parlato tanto di esperienza: “Se mai ci fu un tempo o un’epoca che abbia apprezzato e fatto gran caso dell’esperienza è proprio il nostro. Tutto deve essere espe-rienza, scienza sperimentale, ecc. Soltanto riguardo al Cristianesimo ci si esime dal fare esperienza. Si pretende giudicarlo, senza voler osare met-tersi in rapporto con esso. [...] Così al posto dell’anormalità di arrischiarsi con l’azione, si è avuto il mettere avanti ragioni pro e contro” (2768^).

Era successo che anche l’esperienza fosse fatta diventare una que-stione di dottrina e di idee sistemate in un bel sistema logico, in cui non c’era più neanche un pezzetto di carne: “Una conseguenza dell’idolatria della scienza è quella di voler introdurre anche la scienza per esporre la realtà esistenziale. L’esistenziale è assai più concreto di ciò che è «scienti-fico»” (2784*).

E così, anche i cristiani si rintanavano dietro la sicurezza delle dottri-ne e delle idee formalmente e ufficialmente cristiane o dietro un’attività di funzionario statalmente cristiano in cui non c’era bisogno di vivere nean-che un po’ di quotidiana inquietudine esistenziale: “Raggiungere la «real-

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tà» dal punto di vista religioso è non porre senz’altro il proprio rapporto a Dio al coperto dell’oggettività di una dottrina, di ciò che il credente fa in generale, od al coperto dell’oggettività di un impiego” (2656*).

Si era giunti perfino a pensare che si diventava cristiani informando-si sui libri che scrivevano gli intellettuali prebendati della felicità cristiana: “Una cosa è l’essere acuti nei libri, ed un’altra il raddoppiare dialettica-mente il «pensato» nell’esistenza. [...] Ogni pensatore che non ha raddop-piato la dialettica del suo pensiero, produce continuamente un’illusione” (1127^).

Certo, lui era un protestante, lo avevano educato così, gli avevano messo in mano un libro, anche se era sacro, le Sacre Scritture. Ma lui ve-deva che c’era in tutto questo un gran pericolo, che ci si poteva illudere di essere felici solo leggendo questo libro e che tutto era cristianamente a posto: “Una riforma che mettesse da parte la Bibbia, sarebbe in fondo assai più utile dell’abolizione del Papa invocata da Lutero. Questa storia della Bibbia ha sviluppato la religiosità dell’erudizione e del «legalismo», che è uno spasso magnifico. A questo modo una specie di sapere si è diffuso a poco a poco nelle classi infime così che nessuno più sa leggere la Bibbia in modo umano. Ma allora essa fa un danno irreparabile. La sua esistenza si trasforma in una fortezza zeppa di scuse, di pretesti ecc. Rispetto all’esistere, perché così c’è sempre qualcosa che ancora resta da cercare prima di esistere: sempre questa apparenza che si deve avere anzi-tutto la dottrina perfetta formalmente, prima di cominciare a vivere, e così in conclusione non si comincia mai. Le Società Bibliche, codeste scialbe caricature della Missione, agiscono come qualsiasi altra società e soltanto a suon di quattrini: si danno tanto da fare a diffondere la Bibbia con siste-mi di propaganda non meno mondani delle altre società per i loro affari. Le Società Bibliche hanno fatto un danno irreparabile. La Cristianità ha avuto da lungo tempo bisogno di un eroe religioso il quale in timore e tremore, davanti a Dio, avesse avuto il coraggio di proibire ai cristiani di leggere la Bibbia. E questo è necessario quanto lo è il predicare «contro» il Cristianesimo” (2007*).

Si lasciava stare l’esistenza cristiana, quella che si vive sempre precariamente e ci si dedicava e ci si affannava solo ad essere degli eruditi biblici. Quella che tutti chiamavano la “riforma” e un ritorno alle origini del Cristianesimo, aveva fatto anche questo danno: “Poi venne la Rifor-

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ma ed eccoci di nuovo affogati nella sobria filologia scientifica [...] ora si trasforma in dottrina, insegnamento. [...] Si dimentica completamente Paolo (il Singolo) per il pezzo di carta ch’egli ha lasciato” (2878*). Ormai si affannavano tutti a vedere nella Bibbia i significati più astrusi, più criti-camente intellettuali, e così stavano tutti tranquilli: “Nel sec. XVII, quello che propriamente cominciò a concepire la Sacra Scrittura come dottrina venne fuori, come corrispondente all’allegoria di quei tempi, quando ogni parola, ogni lettera era allegoria, un concetto dell’ispirazione altrettanto fantastico” (2879*).

Lo avevano educato con il libro delle Scritture Sacre, era stato edu-cato come un vero protestante. Lui vedeva che c’era un pericolo, quello di pensare che in questo libro ci fosse solo una dottrina che si doveva capire, che si doveva interpretare, che si doveva sapere. Ma, così facendo, l’esistenza cristiana, quella quotidiana, andava “a remengo”: “Veramente noi protestanti facciamo molto perché possibilmente ciascuno abbia il Nuovo Testamento. Ma cosa anche non facciamo per inculcare a tutti che il Nuovo Testamento non sia capito che attraverso la scienza come fosse una dottrina per cui è necessario il rincalzo della scienza per comprenderlo!” (2955*).

E così si era arrivati a pensare che i ragionamenti e le interpretazioni bibliche, quelle storico-critiche, valessero di più dell’autorità di quello che si diceva sul bel fatto cristiano. Per questo, quando lui girava per le strade, si sentiva come un animale raro, ai suoi tempi: “Per caso a Copenaghen io sono forse l’unico a possedere un libro molto raro: il Nuovo Testamento” (2607*). Nessuno ormai guardava il bel fatto cristiano che c’era scritto in quel “libro ch’è il Nuovo Testamento” (2649*).

Alla cristianità dei suoi tempi mancava proprio la semplicità cristia-na, quella che riconosce che davanti a Gesù e alla sua Grazia non ci si può mettere a fare gli intellettuali, che davanti a Gesù, semplicemente, si può solo vivere ed esistere con tutti i dolori e i desideri che ci portiamo nelle ossa. E che si può essere fatti cristiani, per Grazia, solo nell’esistenza sto-rica e terrena che è sempre, naturalmente, sofferta e ferita: “La «semplicità cristiana» [...] consiste in questo, che il paradosso c’è proprio perché non si prenda la direzione della speculazione, del ragionamento, ecc., ma si vada in direzione dell’esistere, dell’esprimere esistenzialmente il Cristia-nesimo. L’esistere è, appunto, la cosa semplice” (3148*).

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L’esperienza del bel fatto cristiano, terrena, geograficamente tempo-rale, non cominciava dalle idee cristiane, ma dalla povera carne e dalle povere ossa che lui sentiva essere ancora troppo poca cosa: “La mia di-sgrazia, umanamente parlando, sta nell’aver avuto troppo poca corporeità” (1778*). [Chissà se questa “poca corporeità” fosse proprio quel suo famoso “pungolo nella carne” di cui parlava sempre nel suo Diario?: “Io sono nel senso più profondo una individualità infelice. Fin dai primissimi anni io sono stato inchiodato a una forma di sofferenza confinante con la pazzia, che deve avere la sua più profonda ragione in una sproporzione tra la mia anima ed il mio corpo [...]. Quella dolorosa sproporzione l’ho considerata il mio «pungolo nella carne», il mio limite, la mia croce”. (977^)].

Forse questa è stata la sua grande tentazione e sofferenza: essere troppo spirituale, troppo poco carnale e corporeo: “La mia sofferenza, in un certo senso, dipende dal fatto ch’io veramente non sono un uomo: io sono troppo spirito” (2375^).

Lui, però, non voleva essere come quelli che non volendo essere e partecipare alla povera natura umana, alla corporeità umana e terrena, pensano già di appartenere e essere di Dio; cioè non voleva proprio essere uno spiritualista nella dimensione temporale della carnalità: “La vera vita dell’individuo è nella sua apoteosi, la quale non comporta che l’io vuoto e senza contenuto abbandoni, per così dire, di nascosto questa sua fini-tezza per rendersi evanescente e perdersi migrando verso i cieli, ma che la Divinità abiti in questa finitezza e non ricusi di adattarvisi (Salmo 67,17)” (4 luglio 1840 – 508^).

Non si può proprio dire che lui fosse tranquillamente un cristiano abituato alle idee cristiane come tutti nella cristianità moderna.

Per lui il bel fatto cristiano non era una faccenda conclusa, una fac-cenda che si risolveva facilmente prendendo coscienza delle idee cristiane eterne che non accadono mai nella storia quotidiana. Invece, intorno a lui, tutti erano tranquillamente cristiani, sicuri fin da bambini, delle quat-tro idee cristiane erudite che gli mettevano nella testa i pastori prebendati e che gli facevano perdere l’insicurezza così nobile e grande dei pagani: “La disgrazia della cristianità è che un uomo è educato fin da bambino in una sicurezza sulla cosa suprema che alla fine diventa indifferenza. Un pa-gano in verità non era sicuro, ma angosciato – ecco perché poteva capire

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che senza Cristo egli era perduto e doveva diventare cristiano” (1639*). Lui viveva in timore e tremore, con una precarietà che conoscono

solo quelli che non vivono delle idee cristiane eterne: “Ecco perché sta scritto che dobbiamo «lavorare alla nostra salute con timore e tremore» [Fil. 2,12]: perché non si tratta di un affare fatto e concluso, ma di una cosa sempre precaria” (115*). Non si poteva mai stare tranquilli, cristia-namente, si era sempre come degli ospiti che non sanno dove posare la testa: “Il Cristianesimo è invece il considerarsi pellegrini e ospiti su questa terra” (2753*).

Viveva il bel fatto cristiano precariamente, da precarius perché la feli-cità e la salvezza cristiana non sono un diritto naturale, ma sono qualcosa che si può solo domandare, supplicare, con preci, con preghiere, piene di timore e tremore perché non dipende da noi uomini stare e rimanere nella Grazia, e non dipende nemmeno da noi che il Signore ci metta nella sua Grazia.

L’azione della Grazia cristiana non dipende da noi e non inizia quan-do vogliamo noi; ma neppure continua quando vogliamo noi, e così è sempre una Grazia imprevista, che non possiamo possedere. Il mistero e l’azione della Grazia ci precedono sempre, e non una volta per tutte; sem-pre, cioè quando Gesù e la sua Grazia vogliono: “O Dio, Tu ci hai amati per primo [I Gv. 4,10]! Ahimè, noi ne parliamo come di un semplice fatto storico, come se una volta soltanto Tu ci avessi amato per primo. E tuttavia Tu lo fai sempre. Molte volte, ogni volta, durante tutta la vita, Tu ci ami per primo. Quando ci svegliamo al mattino e a Te volgiamo il nostro pensiero, Tu sei il primo, Tu ci hai amato per primo. E se m’alzo all’alba e nello stesso secondo a Te volgo in adorazione l’animo mio, Tu mi hai già preceduto e amato per primo. Quando da una dissipazione io raccolgo l’animo mio e penso a Te, Tu sei stato il primo. E così sempre – e poi noi ingrati parliamo come se una volta sola Tu ci avessi amati per primo!” (3146*).

Timore e tremore. Non un possesso pieno di presunzione gnostica e intellettuale. Uno stupore precario, fatto di preci, di semplici preghiere: è fatto così il semplice cammino cristiano.

D’altronde, quando si è vista una cosa bella, l’ultima cosa a cui si pensa è che si possa possedere in qualche idea e che così l’affare è conclu-so. Il timore e il tremore erano proprio il contrario delle idee cristiane dei “professori” clericali.

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È come quando uno si innamora: allora sì che si vive in timore e tremore perché uno non si sente nemmeno degno di tanta Grazia e Bel-lezza: “Come se una piccola ragazza fosse amata da uno spirito a lei molto superiore, come anch’essa ammetteva. Una relazione simile non diventa seria in senso ordinario; qui manca l’eguaglianza che è sicurezza di serie-tà. Essa non può che sorridere di sé, quando pensa di essere amata da lui. Eppure durante le sue visite è tutta felice. Essa neppure osa dire a se stessa in senso volgare: «Ma è proprio vero che mi ama?» Perché essa dirà: «Il mio rapporto a lui in fondo è un nulla, ed egli non avrebbe torto se mi abbandonasse, perché tra noi due non c’è nessuna proporzione!». Però beata questa relazione finché dura” (2025^).

Viveva cristianamente in timore e tremore, e riconosceva che non dipendeva da lui la sua precaria felicità cristiana, che non era una cosa che poteva possedere riducendola a quattro idee eterne formalmente cri-stiane: “Io ho bisogno della Grazia non soltanto per il passato, ma anche per l’avvenire” (3737*).

Tutto era cristianamente precario per lui, viveva una felicità e una salvezza che si potevano perdere da un momento all’altro, perché non erano sue: “Dio mette in movimento tutto: commuove, adesca, persua-de; alle volte quasi sembra come se pregasse per Sé, come se fosse Lui il bisognoso. In altri tempi, terrificante, ti abbandona per un momento, perché la ricaduta di un momento nel peccato ti possa insegnare tanto la necessità di un nuovo sforzo, quanto a non pretendere il Suo amore invano” (3102^).

Qui, sulla terra, non si poteva che desiderare di vivere cristiana-mente e per Grazia, in modo precario: “Ogni cristiano imitatore di Gesù Cristo si trova nella condizione (checché si possa dire della sua vita) di non ambire altra cosa se non di pensare con timore e tremore alla salvezza della propria anima” (4477*).

Eh, sì, perché la tentazione più grande è fuggire da questa precarietà cristiana rifugiandosi nell’abitudine delle idee cristiane: “Tutta la dottrina è soltanto un tentativo di fare di quel «timore e tremore» che ha la sua verità nella vita del singolo, una categoria dogmatico-scientifica” (441*).

Insomma, per lui, vivere in timore e tremore la felicità cristiana vo-leva dire supplicare, chiedere, domandare, con una semplice preghiera: “”Padre celeste! [...] mantienici vigilanti con timore e tremore (Fil. 2,12)

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a lavorare alla nostra salvezza” (377*). Anche perché il Padre celeste può sempre e quando vuole ritirare la sua mano piena di Grazia dalla vita del povero cristiano: “Padre celeste! Dalla Tua mano noi vogliamo ricevere tutto! [...] E anche se spesso sembra che Tu la ritiri, noi sappiamo che la chiudi soltanto per serbarvi una benedizione” (540*).

Tutti, adesso, intorno a lui, nella cristianità, si immaginavano ov-viamente cristiani: “Un Cristianesimo pensato in tranquillità (come un «ordine stabilito») è giudaismo. Il vero Cristianesimo è in movimento” (1914*). E anche Gesù e la sua Grazia erano ovviamente pensate come delle idee eterne, cioè come qualcosa che c’è e che non si può perdere: “Nella Cristianità in fondo è anche troppo una pazzia con quale leggerez-za si pronuncia il nome di Cristo” (2104*). Gli ebrei, almeno, non pro-nunciavano invano il nome di Dio come lo facevano i cristiani moderni con il bel nome di Gesù.

E anche la povera Grazia di Cristo la trattavano allo stesso modo, ov-viamente abituati: “ [...] si mette avanti Cristo soltanto come un calmante (sedativo, tranquillizzante), come «Grazia»”. (2316^). Adesso il Cristia-nesimo era abolito proprio perché si era persa la precarietà cristiana, quel-la supplica, quel timore e tremore che ben conoscono quei poveracci per cui la felicità cristiana non è una cosa loro di cui si può stare tranquilli: “Se nell’essere cristiani non vi è in ogni momento, come al principio, assolutamente il più grande pericolo umano possibile, il Cristianesimo è abolito” (1442^).

Senza la santa precarietà cristiana nella cristianità moderna c’era solo una falsa calma artificiale; sarebbe stato meglio che ci fossero stati un po’ di bei peccati cristiani con la loro ferita terrena che producono, da cui sarebbe potuta entrare la Grazia: “Dove c’è inquietudine (e questa c’è dove ci sono grandi peccati!) c’è tuttavia una possibilità di qualcosa di alto; ma codesta calma è proprio la distanza più grande dalla «spirito»” (3079^).

In fondo, l’incarnazione di Dio era accaduta proprio per disabituare gli uomini a Dio e così impedire loro di metterLo in quattro idee eterne e cristiane: “Egli [Cristo] rende il divino del tutto commensurabile all’uomo comune, non consente indulgenza per alcuno, non si mette fuori, come oggetto di un pigro e sterile ammirare e contemplare, ma se ne sta dietro per spingere gli uomini fuori, allo sbaraglio” (1798^).

Ma questo non vuol dire che questa santa precarietà e inquietudine

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cristiana si dovesse confondere con una vita agitata, affannata, turbata, difficile, piena di fissazioni esistenziali. Al contrario, l’inquietudine cri-stiana è l’attrazione di Gesù che non ci fa abituare, che non ci permette di sentirci tranquillamente cristiani, cioè come degli eruditi intellettuali che pensano di sapere tutto su Dio, su Cristo e sulla Sua Grazia: “Iddio, che vuol essere amato, attira gli uomini per via dell’inquietudine. Il Cristia-nesimo è l’inquietudine, la massima, la più grande possibile, di cui non si può pensare una maggiore: essa vuole (in questo senso operava preci-samente anche la vita di Cristo) inquietare l’esistenza umana fin dal suo intimo fondo, spezzare tutto, mandare tutto all’aria. Quindi Dio si serve dell’inquietudine, mette avanti l’inquietudine per attirare gli uomini che Lo vogliono amare” (4238*).

Adesso era cristianamente cambiato tutto: “Lo spirito è l’inquietu-dine: il Cristianesimo è l’inquietudine più profonda dell’esistenza – così nel Nuovo Testamento. Nella cristianità il Cristianesimo serve a tranquil-lizzare, perché «noi possiamo goderci la vita»!” (4417*). Erano proprio lontani i tempi in cui il cuore dei cristiani non era mai tranquillamente abituato: “Come sono tremendamente vere le espressioni del Cristianesi-mo! «Gettare il fuoco sulla terra». Sì, perché cos’è un cristiano? Il cristiano è un uomo nel quale divampa il fuoco. [...] Lo Spirito è fuoco; il Cristiane-simo un appiccare il fuoco”. (3133^). Ora c’era solo abitudine e ovvietà: “Il Cristianesimo era un appiccare il fuoco; ed ora è un espediente per tranquillizzare nei riguardi dell’eternità [...]” (3214^).

Lui era un povero cristiano, uno di quelli che vivono in timore e tremore, che riconoscono che sono loro ad aver bisogno del bel fatto cristiano e non il contrario: “La coscienza angustiata capisce il Cristia-nesimo come un animale affamato; se gli metti davanti una pietra o un pezzo di pane, capisce che l’uno è da mangiare e l’altro no; a questo modo la coscienza angustiata capisce il Cristianesimo. [...] Ma dirai: «La redenzione io non la posso capire» Qui dovrei domandarti: «In quale senso tu la vuoi capire? Nel senso della coscienza angustiata o in quello della speculazione indifferente e oggettiva?» Se uno vuole starsene tran-quillo e oggettivo al tavolino a speculare: come potrà capire la necessità della Redenzione? Una redenzione è necessaria solo per una coscienza angustiata” (1277*).

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Nei tempi che gli toccava vivere tutto era diventato scientifico, tut-to era stato trasformato in un sapere scientifico e critico di come stavano le cose.

E così anche il passato era diventato oggetto di scienza e andavano di moda i metodi storico-scientifici che volevano imparare dalla storia, dal passato. Si viveva insomma con la testa girata indietro, come se questo servisse a qualcosa: “In un senso più profondo nessuno può più vera-mente imparare qualcosa del passato, per quanto vivacemente egli riesca a richiamarselo, perché è il passato ed è quindi da concepire solo con la fantasia” (1966*).

Nella cristianità, seguendo questo andazzo, era allora diventato di moda considerare il bel fatto cristiano di Gesù come un personaggio da fiaba del passato, come una bella favola che ormai era finita: “Purtroppo si tratta Cristo come se fosse un personaggio di 1800 anni fa” (1649*). Il povero Gesù si era ributtato indietro di 1800 anni, naturalmente come un personaggio storico molto importante: “La realtà è – disgraziata confusio-ne – che gli uomini credono che Dio sia molto lontano, che ormai sono passati 1800 anni da quando Cristo morì” (2200*).

Certo, faceva comodo a tutti i cristiani accomodati della cristianità moderna considerare Gesù come qualcosa di lontano; così si poteva fare quello che si voleva e il buon Gesù non dava nessun fastidio: “È da 1800 anni che ci stiamo allontanando dalla tensione della contemporaneità e si è divenuti completamente apatici. Per di più si diventa anonimi (è una distanza, se possibile, di 18.000 anni...) (2358*).

Perfino gloriarsi di tutti i secoli di storia che erano trascorsi da quan-do c’era Gesù era diventato un’obiezione al bel fatto cristiano e una prova che qualcosa non andava nella cristianità: “È tanto lungi che i 18 secoli di storia siano una prova del Cristianesimo che piuttosto si potrebbe-ro trasformare in un’obiezione contro il Cristianesimo, nel senso che la Provvidenza ha permesso che il Cristianesimo si sprofondasse nelle illu-sioni [...] l’ha lasciato a tal punto degenerare ch’è diventato insignificante, irriconoscibile in una gigantesca illusione” (2815*). Non c’era niente da gloriarsi dei secoli che erano passati da quando Gesù aveva vissuto in quella terra sperduta e sconosciuta: “Il Cristianesimo era più vero nella prima generazione, nella contemporaneità ed è diventato più falso a ogni generazione” (2319*).

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Lui non sopportava la tranquillità con cui tutti consideravano il bel fatto di Gesù come un racconto e una novella che apparteneva al passato e che quindi già non era sufficiente a fare felici nel presente: “E tutto segue il suo rapido corso. Ognuno bada a sé, il vento soffia, scorre il fiume: è come se Dio fosse andato infinitamente lontano – e sono 1800 anni da che Cristo è venuto!” (1389*).

Lui riconosceva che la pretesa di Cristo era semplice: essere ricono-sciuto per quello che è, cioè presente: “Gesù Cristo non vuole vivere nella storia se non come Gesù Cristo” (1766*). Si faceva di tutto per non dover prendere sul serio la pretesa di Gesù, cioè quello che Gesù era, la sua contemporaneità che non poteva lasciare tranquillamente cristiano nessu-no: “Ora si schiva l’altra difficoltà del Cristianesimo, la contemporaneità, trasformandolo in qualcosa di passato” (2672*).

Per questo era un errore di metodo e di prospettiva, era un erro-re proprio degli intellettuali clericalmente eruditi, pensare che si potesse conoscere Cristo studiandolo, come se fosse un personaggio storico del passato, ributtandolo lontano come il Dio che ogni religione cercava di in-terpretare. Era un tragico errore di metodo, una slealtà, eliminare l’“Ogget-to” presente, che si vuole conoscere, ributtandolo nel passato. D’altronde l’“Oggetto” cristiano ha proprio questa pretesa: che È, è nel presente: “La pointe del Cristianesimo è che esso è la «cosa presente»” (1809*.

Anche perché, esistenzialmente, all’uomo di tutti i giorni non in-teressa il passato, anche bello, non interessano i ricordi, neanche quelli cristiani. Proprio per questo la felicità cristiana è precaria, non è acquisita per sempre, si decide ad ogni istante, cioè nel presente, nel momento, quotidiano, che ad ognuno tocca vivere. Per questo, il momento e l’istante del presente, cristianamente sono incomparabilmente intensi: “L’esistenza (che conosce abbastanza quel che ci vuole) ha disposto la cosa in modo che nessuno sa se avrà ancora un’ora di vita, e proprio questa inquie-tudine il Cristianesimo pensa che sia indispensabile per realizzare una decisione per l’eternità. Perché una decisione per l’eternità nel tempo è l’intensità più intensiva, il salto più intensivo” (4060^).

Da secoli, la precarietà del presente non valeva cristianamente nien-te. Lui aveva capito che, in fondo, il “Professore” tedesco era solo figlioc-cio di un patrigno antico, un abate calabrese, un tal Gioacchino da Fiore, uno che aveva vissuto dopo la fine del primo millennio cristiano, in cui

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tante cose erano cambiate, cristianamente. Un patrigno che diceva che finalmente la cristianità era entrata nell’epoca dello Spirito, in cui si dove-va abbandonare il Cristianesimo terreno e carnale, sensibile, appoggiato sui sensi, che vedevano e toccavano i bei fatti cristiani e storici, in cui si manifestava la Grazia. Insomma, che il presente non era qualcosa che cristianamente cominciava sempre di nuovo. Adesso, con quel patrigno, si era entrati nell’“età dello Spirito”, in un’epoca solo spirituale, in cui non c’era più bisogno di quello che Dio faceva accadere temporalmente e geograficamente nella storia; e in cui non c’era neanche più bisogno della povera carne e del corpo di Dio fatto uomo, cioè di Cristo. L’“età del Figlio”, cioè il tempo di Gesù e della sua carnalità, adesso dovevano essere superati, bisognava andare più in là del fin troppo semplice e inge-nuamente cristiano avvenimento storico e geografico di Gesù e della sua carne e ossa terrene. Lui aveva capito che il “Professore” tedesco non era che un figlioccio naturale di quell’antico abate e delle sue teorie troppo spirituali per essere cristiane: “Poiché si è riusciti a ridurre il Cristianesi-mo del Nuovo Testamento a qualcosa di semplicemente storico, poiché si è riusciti a illudere se stessi, con la teoria che il Cristianesimo è perfettibile, la conseguenza inevitabile fu che s’inventò anche la teoria delle «diverse epoche». L’epoca del Figlio è stato il Cristianesimo del Nuovo Testamento, e ora è imminente l’epoca dello Spirito. No, no e poi no! [...] Un’epoca dello spirito! Se questo modo di parlare avesse un senso, la cosa dovreb-be cominciare subito con gli apostoli. Ma farlo cominciare più tardi, nel progresso della cristianità (ci siamo: un progresso della cristianità!): cri-stianamente non ha assolutamente nessun senso parlare di progressi di generazione in generazione! Ogni generazione comincia daccapo, l’esame è sempre il medesimo” (4244*).

Per lui, invece, valeva solo il tempo fatto dei giorni e delle ore che gli toccava vivere, insomma il presente che si vive quotidianamente. Gesù stesso era passato in mezzo al presente, lo aveva vissuto, non lo aveva sfuggito; e così, chi pretendeva di allontanarsi dal presente, non era più cristiano (cioè di Cristo): “Appena la religiosità esce dal presente esisten-ziale, dove tutto è attualità, subito si attenua. Che perda nella sua intensi-tà e verità lo si riconosce subito dal fatto che la religiosità si trasforma in dottrina e appena diventa una dottrina, non si affretta in modo assoluto. In Cristo la religiosità era assolutamente il «presentico»” (2295*). Appena

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la vita cristiana si trasformava in dottrina non c’era più nessuna esigenza esistenziale e quotidiana, cioè non c’era più niente di cristiano. Cristo era invece venuto – e questa era la sua pretesa – come Qualcuno presente che non faceva stare tranquilli nel presente.

L’unico rapporto con Gesù che gli interessava era nella contempora-neità, con Lui, vivo e presente. Non gli interessava sapere la dottrina e la morale cristiana scientificamente teologiche.

È proprio così vero questo. L’attualità e la contemporaneità cristiana non sono qualcosa che si sa, che si studia, non sono delle idee teologiche che danno una visione della storia e del tempo cristiano. La contempo-raneità di Cristo, quando accade per Grazia, sfugge sempre alle misure e ai quattro schemi artificiali e barocchi pieni di idee eterne, ovviamente cristiane.

Per lui non c’era cosa più triste che conoscere Cristo come una cosa del passato, che amarLo come un bel ricordo del passato. Gli interessava solo riconoscere e amare il bel fatto cristiano di Gesù nell’ora e nei giorni che gli toccava vivere. Tutto il resto sarebbe stata una patologia cristiana, una necrofilia, la relazione con un morto che già non feriva e sanava le ore che si vivono nel presente: “L’unico rapporto etico che si può avere con la grandezza (così anche con Cristo) è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico: la sua vita ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette di ammirarlo [...] e mi lascia anche vive-re in tutt’altre categorie: non mi costringe a giudicare in senso decisivo” (1574^).

D’altronde, se Gesù non fosse contemporaneo, non potrebbe nean-che attrarre gli uomini a sé (e al Padre) e così non potrebbe neanche salvarli: “Colui che non «potesse» sedurre gli uomini, non li «potrebbe» neppure salvare (questa è una categoria della riflessione)” (1967*).

Non gli interessava ricordare Gesù, non gli interessava il Suo ricordo. D’altra parte non gli interessava neanche una contemporaneità sen-

timentale con Cristo, da gente pietosa che si immagina sentimenti cri-stiani ovviamente tranquilli: “È spaventoso però quel sentimentalismo di voler «mettersi accanto alla croce di Cristo per dare di là uno sguardo sul mondo». C’è bisogno di un’altra croce per noi [...]” (1624^). Per questo si sarebbe accontentato di essere come il buon ladrone che era stato così contemporaneo a Gesù (2961*).

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No, proprio non gli interessava un estetismo cristiano che non cam-biava niente nella vita quotidiana: “La verità dell’ammirazione dipende ossia corrisponde al potere ch’essa esercita sull’ammirante. Il massimo di questo potere è proprio di essere ossia di uguagliare l’ammirato. Invece è una falsità che si ammiri ciò che non esercita nessuna influenza o potere su qualcuno per trasformarlo in uguaglianza con l’ammirato” (1958*). Tutti si riempivano la bocca con questa questione della contemporaneità con Gesù; ma era tutto un estetismo barocco e teatrale: “Tutte le chiac-chiere sul desiderare di essere contemporanei di Cristo rasentano l’em-pietà” (2685*).

La contemporaneità con Gesù, per lui, non era la relazione con una idea cristiana di Gesù. Anzi, bisognava dire che era proprio un miracolo pieno di Grazia. Neanche gli apostoli erano riusciti, con le loro sole forze, a essergli contemporanei: “Nel racconto del buon ladrone [Lc. 23,39 ss.] [...] tutti quanti hanno disertato, perfino l’apostolo Pietro ha rinnegato Cristo: l’unico cristiano contemporaneo di Cristo è il ladrone in croce. Il Cristianesimo, se così posso dire, è infinitamente troppo alto per gli uomini (quando la situazione è quella che fa più violenza, cioè la con-temporaneità con Cristo) che durante la vita di Cristo neppure l’apostolo riesce ad attenersi a Cristo. Solo un ladrone, un ladrone morente; in lui soltanto, la coscienza del peccato e la situazione della morte l’aiutano ad attenersi a Cristo” (2961^).

È sempre così: al cristiano, questa benedetta contemporaneità con Cristo, gli fa riconoscere che non si è proprio capaci di esserGli presente: “Col divenire contemporaneo di Cristo (il Modello) tu scopri appunto che non gli assomigli affatto, neanche in ciò che tu chiami il tuo momento mi-gliore. [...] Per conseguenza tu impari sul serio a ricorrere alla fede nella Grazia. Ciò che si esige da te è il Modello: ahimè, e tu senti tremendamen-te la dissomiglianza. Allora ricorri al Modello, perché abbia misericordia di te. Così il Modello è a un tempo Colui che infinitamente ti giudica nel modo più severo e Colui che ha misericordia di te” (1837*).

Per lui, la contemporaneità con Gesù, nel presente effimero di tutti i giorni, era proprio un miracolo e una grande Grazia. Era il miracolo e la Grazia dell’adesione cristiana ragionevole e affettiva, che poi non è altro che una conseguenza dell’attrazione di Gesù su di noi; era successo così anche per gli apostoli: “Gli stessi apostoli dovettero essere forniti di forze

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straordinarie per essere – cioè per poter sopportare di essere – contempo-ranei con Cristo. Ciò che è la miglior prova che nessuno può da se stesso sopportare di essere suo contemporaneo” (2062^).

Lui riconosceva che nella storia del bel fatto cristiano (anche se ades-so non rimaneva nulla di ciò nella Cristianità), c’era una bella parola, forse la più bella di tutte, una parola piena di realtà, di una realtà che non sarebbe mai venuta in mente all’uomo. Gli piaceva in modo speciale la parola Grazia, perché gli piaceva la realtà che questa parola indicava e suggeriva; anche perché, senza questa realtà (che la parola indicava), non c’era più Cristianesimo.

Adesso anche questa bella parola era ridotta a chiacchiera, era stata fatta diventare argomento di dottrina e cioè di interpretazione e analisi: “Chiacchiere di vento sulla Grazia, con cui Nostro Signore è ridotto a un vecchio impotente il quale ormai non ci bada più di tanto” (2678*). Non è che non si parlasse della Grazia cristiana ai suoi tempi; anzi, siccome era una cristianità formalmente ortodossa tutti ne se riempivano la bocca. Ma, il suo mistero e la sua azione, cioè che Gesù continuasse a agire nella storia attraverso la sua Grazia, cioè il suo potere, questo già non si riconosceva.

Adesso tutti si erano abituati al bel fatto cristiano e alla sua Gra-zia, perché tutto era stato fatto diventare dottrina, frasi vuote, flatus vocis: “Quando san Paolo affermava ch’egli tutto poteva, ma con la Grazia (1 Cor. 15,10), il suo discorso faceva allora l’effetto giusto, perché per i pa-gani non era una frase fatta. Ma nella Cristianità quelle parole sono diven-tate da molto tempo un luogo comune, dove la riflessione fa il suo gioco astuto” (2191*). Tutto nella cristianità era diventato chiacchiera, anche la Grazia cristiana: “La lingua non significa più nulla o significa al rovescio. [...] La Grazia: formule trite e luoghi comuni” (1878*).

A lui, invece, piaceva questa parola perché diceva, suggeriva e indi-cava cos’è il fatto cristiano, cioè qualcosa di imprevisto e che non si può prevedere: “Certo, e chiunque abbia un po’ d’esperienza lo sa, che anche la Grazia ha il suo tempo e le sue ore e che viene sempre il momento in cui all’improvviso si ottiene ciò che per anni e anni si è cercato invano” (1933*).

La Grazia cristiana, in fondo, è come quelle fortune che capitano a volte nella vita, che sono gratis e che succedono quando neanche si cerca-

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no, è trovare e incontrare qualcosa di bello anche se non si cerca. Il bello della Grazia è che è gratis e non dipende da chi cerca: “La cosa migliore nella vita è il trovare. Talvolta chi cerca trova; altre volte si trova senza aver cercato” (1806*).

La bella Grazia cristiana, che è gratis e per questo non si può pre-vedere, aveva naturalmente (divinamente) le sue vie imprevedibili, che erano inventate e create nella storia quotidiana da Dio e dalla sua libertà. Dio aveva inventato e faceva accadere nella storia tante storie cristiane di Grazia; non ce n’era una sola, che valeva clericalmente per tutti: “Il pen-siero infinitamente elevato del Cristianesimo è che ogni cristiano diventa cristiano in diversi modi e vie – sempre diverse – , è proprio ciò che Dio vuole. Egli è inesauribile nel differenziare” (4294*).

Quando la Grazia succede, fa vivere agli uomini che lei sceglie sto-rie cristiane così impreviste che nessuna storia di Grazia è uguale all’al-tra. Sono tutte diverse; soprattutto diverse da quelle che si immaginano i pastori e i professori prebendati funzionari dello Stato cristiano e della Chiesa ufficialmente tutta uguale.

E allora, davanti a tutta questa creatività di Dio, il povero cristiano riconosce che c’è una sproporzione infinita tra quello che lui può fare e quello che invece fa Dio, cioè la sua misericordia: “La Grazia è perciò an-zitutto l’espressione dell’infinito amore di Dio, ma poi è al massimo grado l’espressione della maestà, come l’indice dell’infinità di Dio. [...] Con la Grazia, Dio, una volta per sempre, ti ha messo alla distanza infinita – per poi avere misericordia” (3608*).

La stessa storia cristiana nel suo primo momento storico, temporale e geografico, aveva mostrato che l’uomo senza la Grazia non può darsi un millimetro di felicità: “Perché il salvatore del mondo è nato Bambino? L’espressione più forte del fatto che noi siamo salvati completamente per la Grazia e che non siamo capaci di nulla, è che il Salvatore sia un bam-bino” (3575*).

Ma, siccome non si tratta di vivere solo di un bel ricordo di quel pri-mo Natale, né di fare delle belle feste natalizie, esistenzialmente, il povero cristiano doveva riconoscere che senza questa Grazia di Dio è impossibile cambiare vita (adesso) ed essere cristiani: “L’uomo per convertirsi ha bi-sogno dell’aiuto di Dio” (109*). E, siccome l’uomo non può fare nulla di buono per la sua salvezza, deve perciò ricevere tutta la felicità cristiana da

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Dio e, nello stesso tempo non fare nulla come i bambini che ricevono tut-to dalla mamma: “Ecco la legge del rapporto fra Dio e l’uomo in rapporto a Dio. Maggiore. C’è un’infinita abissale differenza qualitativa tra l’uomo e Dio. Ciò significa o si esprime dicendo che l’uomo non può assoluta-mente nulla, che è Dio a dare tutto, che è Lui che dà all’uomo di credere, ecc. Questa è la Grazia, e qui si ha il primo principio del Cristianesimo. Minore. Benché non si possa pretendere alcun merito per qualsiasi opera, non meno di quel che possa dirsi meritoria la Fede (perché in questo caso la maggiore è tolta, mentre ora noi siamo nella minore), ciò che importa è tuttavia osare di mettersi in rapporto con Dio come bambini. Se tutto si esaurisce nella maggiore, Dio diventa allora così infinitamente elevato che non c’è nessun vero e proprio rapporto fra Dio e l’uomo singolo. Si deve badare molto perciò alla minore, senza di che la vita del singolo non riuscirebbe in fondo ad avere slancio alcuno” (2092*).

Lui riconosceva che davanti al mistero e all’azione della Grazia cri-stiana non si può proprio essere come quegli adulti clericalmente eruditi che vogliono fare qualcosa, che si riempiono di attività e riunioni in cui immaginarsi cristiani. Per essere cristiani non bisogna fare un bel niente, si deve (e questo è proprio facile, non è certo un dovere kantiano) solo ricevere, cioè non si deve fare niente che possa ostacolare l’azione della Grazia. Insomma, i bambini sono quelli più adatti alla Grazia cristiana: “Perché noi non ci rapportiamo a Te, o Dio, come un uomo da cui possia-mo comperare. Sei Tu che prima devi dare, e solo in seguito ci potrà essere questione del nostro dovere, d’acquistare da Te – ciò che Tu hai dato: la Fede, la Speranza, l’Amore, la nostalgia, il tempo opportuno. Tu dai tutto e senza pagamento, per niente (perché solo il pagano che non ti conosceva, credeva che gli dei niente dessero gratis) – ma quando Tu hai dato, esigi anche che noi acquistiamo da Te quel che Tu ci hai dato. Così Tu ti degni di metterti in rapporto con noi uomini, e non disdegni di essere il nostro Dio [Eb. 2,11]. È come quando noi diamo qualcosa a un bambino: e per farlo contento, supponiamo che sia lui a darci ciò che invece noi gli abbiamo dato e che quindi è nostro. [...] Deve essere quindi come quando un padre e una madre hanno aiutato il bambino a scrivere la letterina d’auguri per il loro compleanno, e poi l’accettano come suo dono quel giorno” (1534*).

Si era tanto parlato, kantianamente (e anche nella cristianità mo-derna erano tutti d’accordo), che bisognava uscire dallo stato infantile,

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quello dei bambini. Nel fondo, era solo per ostacolare la Grazia con le attività e l’attivismo cristiano. Invece, al contrario, si trattava solo di essere come bambini, di ridiventare bambini perché la Grazia ha una sua logica temporale particolare: “Nel rapporto a Dio non si comincia coll’essere bambini per diventare poi sempre più fiduciosi col crescere dell’età: no, si diventa sempre più bambini” (2722*). Anche perché non è come mettersi in rapporto con le tabelline, che una volta imparate a memoria e capite non si dimenticano mai: “Nel rapporto a Dio più a lungo si vive con Lui, più infinito Egli diventa – e più piccoli diventiamo noi. [...] Giunti all’età virile, si scopre quanto Dio è infinito e quanto è infinita la nostra distanza da Lui. In ciò consiste l’educazione” (2578*).

Nella cristianità moderna, invece, tutti si gonfiavano i muscoli, vo-levano apparire davanti a tutti come dei palestrati cristiani: “Crescere in senso spirituale o inteso spiritualmente non è diventare più grandi, ma più piccoli. [...] La disgrazia della maggior parte degli uomini non è che son deboli, ma troppo forti per poter veramente sentire Iddio. Un albero, un animale sono più forti ancora, e perciò non si accorgono di Dio; una pietra è più forte di tutto e perciò non s’accorge assolutamente di Dio” (2087*).

E così si diceva, siccome era un’epoca illuminata, storicamente criti-ca e scafata, che il Gesù dei bambini non era il vero Gesù, che era troppo poco storicamente critico, che era una favola mitologica che solo i bam-bini potevano inventarsi. Ahimè, non ci si rendeva conto che proprio con tutta questa erudizione storica, esegetica, epistemologica ed ermeneutica, ci si inventava solo un Gesù da favola, lo si trasformava solo in una de-cadente mitologia: “Nella cristianità la situazione è completamente capo-volta: il Cristo mitico sarebbe il Cristo dell’infanzia, è l’infanzia a creare i miti. Charmant! È vero proprio il contrario. Prima viene il Cristo storico, poi, dopo molto tempo, quello mitico – un’invenzione dell’intelligenza che essa poi mette in conto a quel tempo dell’infanzia come se l’intelligen-za avesse ora il compito di spiegare questo mito – il mito che essa stessa ha creato” (1841*).

Per lui era tutto diverso, non era certo un intellettuale e un teologo prebendato: “Ciò che importa è tuttavia osar di mettersi in rapporto con Dio come bambini” (2092*). Questo ci sarebbe stato bisogno per i cri-stiani che vedeva per le strade: “Ai nostri tempi si tratta specialmente di riavere l’infanzia” (2093*).

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Lui era proprio come un bambino cristiano che si stupisce di tutto e che poi prega pieno di meraviglia: “Che io, pieno di meraviglia giro nella notte chiara e contemplo le stelle, possa aver l’animo di dire: tutto questo è di mio Padre” (2647*).

Non andavano molto di moda i bambini e il loro stupore ai suoi tem-pi così scientificamente critici, così razionalmente puri e incontaminati dalla bella realtà: “In una notte stellata quanti osano dire a se stessi, con umiltà ma con fede: ‘Questo è di mio Padre’ con una certezza pari a quella del barone che la baronia è di suo padre?” (2474*).

Eppure, questo era lo sguardo cristiano, era lo sguardo – il suo – come di un bambino cristiano: “«Universo», Uni-versum, è una bella pa-rola per esprimere che tutto il creato serve a un solo Signore, che si volge soltanto a Uno” (2182*).

È proprio vero: la Grazia cristiana ha una sua logica temporale, speciale, che fa diventare bambini anche quelli che sono già avanti con gli anni.

La Grazia cristiana ha i suoi tempi, incomparabili ed unici, ha la sua logica temporale, che tuttavia è adeguata a quel poveraccio che è l’uomo terreno, che ha tutta un’altra velocità da quella della Grazia che è imprevi-sta e succede rapidamente: “In fondo la Grazia si rapporta a quella sintesi di tempo ed eternità che è l’uomo. Se si gira con troppa rapidità un corpo, si può determinare l’accensione: così anche quando l’eternità e l’esigenza dell’ideale si scagliano tutte in un attimo addosso all’uomo e vogliono impossessarsene: egli allora deve disperare, perdere la ragione [...] In tale condizione il poveretto dovrebbe gridare al cielo: «Per carità, un momen-to, un momento ancora!». In questo consiste la Grazia, ed anche per que-sto l’esistenza temporale si chiama «il tempo della Grazia»” (2663*).

In poche parole, la Grazia cristiana, che viene da Dio e da Gesù (dall’eternità), ha il suo tempo storico, cioè con Lei non siamo già diret-tamente e totalmente in Paradiso e nell’eternità. Con Lei viviamo solo (e questo è sufficiente) l’inizio precario e temporale, terreno e geografico del Paradiso in questa terra: “Si chiama Grazia il Cristianesimo perché, per via di Cristo, è posto e promesso quel bene che si chiama «immortalità»” (4213*).

D’altronde, se Gesù vuole salvare gli uomini con la sua azione – con la sua Grazia – deve fare i conti con quel poveraccio che è l’uomo, che è

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fatto di tempo e di spazio: “La Grazia si rapporta a quella sintesi di tempo ed eternità che è l’uomo” (2663*).

La temporalità della Grazia cristiana vuol dire che Dio non elimina la storia e il tempo della libertà dell’uomo cristiano, che non è esonerato dall’obbedire ai comandamenti terreni, che valgono per tutti gli uomini umanamente terreni. Però, la Grazia cristiana fa capace il povero cristia-no di obbedire alla vecchia legge dei comandamenti: “È forse intenzione del Cristianesimo di voler abolire, per via della Grazia, ogni sforzo? No, il Cristianesimo vuole proprio con la Grazia, se è possibile, far sì che la Legge sia adempiuta. [...] La Grazia dovrebbe infondere spirito e coraggio per l’azione” (3714*).

La Grazia cristiana non esonerava dal dovere umano di compiere la legge dei comandamenti; ma, con la Grazia cristiana, era tutta un’altra storia, più facile, non ci si doveva più preoccupare: “La Grazia è diventata un pretesto per ridurre le esigenze della legge. No! L’esigenza è e rimane sempre la stessa, anzi forse è acuita sotto la Grazia. La differenza è che sotto la Legge la mia salvezza è condizionata dall’adempimento delle esi-genza della Legge; mentre sotto la Grazia io sono dispensato da questa preoccupazione che, spinta agli estremi, dovrebbe portarmi alla dispera-zione. [...] La Grazia toglie questa preoccupazione, quell’imposizione di adempiere la Legge che ne rende precisamente impossibile l’osservanza” (2678*).

È evidente, cristianamente, che l’inizio di qualsiasi cosa, e così anche di quello che l’uomo può fare, è solo un affare divino; è evidente che l’uo-mo non può iniziare nulla di buono, di felice, perché ogni inizio nostro, ogni inizio d’azione nostro è già bacato in partenza, fin da quando comin-cia. All’inizio della nostra felicità non ci siamo noi, non ci sono le nostre buone azioni (e intenzioni); all’inizio di qualsiasi nostra azione felice c’è solo la Grazia: “Noi uomini comuni non abbiamo un rapporto immediato a Dio. Per questo non possiamo esprimere assolutamente l’Assoluto; ab-biamo sempre bisogno della Grazia anche in avanti, perché anche l’inizio più probo è sempre un’imperfezione, messo a confronto con l’esigenza dell’ideale; dunque è come un nuovo peccato. Quindi la Grazia al primo posto. E poi si sente a sua volta in bisogno tanto più profondo di qualcosa di oggettivo: ma questo è offerto nei Sacramenti, nella Parola, non però intesi come un rito magico” (3769*).

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Riconosceva, insomma, che la Grazia cristiana è facile perché è la stessa personalità di Dio, cioè è il buon Dio che incontra a uno a uno, personalmente e soggettivamente gli uomini che Lui sceglie. Tutto era soggettivo nel bel fatto cristiano. Dio era entrato personalmente, sogget-tivamente nella storia degli uomini; e così anche l’uomo cristiano doveva essere soggettivamente singolare, non si doveva certo mettere con quattro idee teologiche. Anche perché Dio non è così stupido da pretendere di essere solo un’idea che si mette in rapporto con un uomo in carne e ossa: “Dio certamente è persona; ma che Egli lo voglia essere rispetto al Singo-lo, ciò dipende se poi la cosa piaccia a Dio. È una Grazia di Dio che Egli in rapporto a te voglia essere personalità, e se tu sprechi la Sua Grazia, Egli ti punisce con il rapportarsi a te oggettivamente” (4334*).

Proprio per questo, la Grazia cristiana non è per nulla una cosa gnostica (né buddista) che fa svanire l’uomo e la sua umanità così effimera nel nulla della divinità eterna che li assorbe: “L’uomo, secondo il Cristia-nesimo, deve unirsi a Dio non per via di uno svanire panteista, né per una cancellazione dei tratti individuali nell’oceano della Divinità” (331*).

È tutto il contrario: la Grazia cristiana rispetta la povera natura dell’uomo, quella povera cosa che è la natura dell’uomo e perciò non è un’idea gnostica che annulla le differenze e che fa una gran confusione panteista, come quella che facevano tutti i “professori” della felicità cri-stiana, quella “confusione dell’Universale e del finito (del momento che è fuori del tempo)” di cui loro “ne facevano una religione” (240*).

Insomma, se Dio era venuto su questa terra, se si era degnato di ve-nire a vivere in questa terra, non era venuto per eliminare l’uomo e quello che viveva temporalmente; non era necessario per essere cristianamente felici essere un nulla di umanità umana e temporale: “Il divino può ben coesistere coi rapporti terrestri e non ha bisogno del loro annientamento come condizione del suo apparire” (405*).

È proprio evidente: umanamente e cristianamente non si può pro-prio fare niente per la nostra felicità, se non c’è quella cosa bella che è la Grazia che ci attrae liberamente e ci fa felici di fare quello che bisogna fare. Con la felicità della Grazia, tutto diventa facile: “Tocca a te attraver-sare questo «TU DEVI»; è questa la condizione per il rispetto incondizio-nato. E dietro questo «tu devi» sta poi la Grazia, e lì tutto è sorriso, tutto è mitezza” (3315*). Con la Grazia non si è esonerati dall’essere liberi; anzi,

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Lei, attraendoci ci fa liberamente liberi di correre dove siamo attratti, cioè da Gesù. Io devo e tu devi correre verso Gesù non perché è un dovere kantiano, ma perché saremmo stupidi a non andare laddove c’è Chi ci fa felici.

E se nella cristianità moderna tutti si erano abituati alla bella Grazia cristiana, lui invece riconosceva che non solo l’inizio della fede, quel-la cristiana, è una Grazia, ma che questa deve continuare ad agire se si vuole rimanere cristiani: “La Grazia non è una categoria pronta una volta per sempre: si ha ancora bisogno della Grazia. Immagina un uomo a cui sia promessa la Grazia, il perdono della Grazia di tutti i suoi peccati, la misericordia di Dio. Va bene; ma c’è il domani, il doman l’altro... e for-se cinquant’anni ancora. Ed ecco che vengono le difficoltà. Fa egli uso degnamente da quel momento e in ogni momento della Grazia? Ahimé no. Allora c’è bisogno ancora della Grazia in rapporto alla Grazia. È più facile morire che vivere. Quando debbo vivere la decisione infinita di-venta di nuovo dialettica; si ha cioè bisogno della Grazia in rapporto alla Grazia. Questo vuol dire che la vita consiste in una continua aspirazione” (2657*).

Infatti la Grazia cristiana non è qualcosa che possiamo possedere per sempre, non è una cosa gnostica che si sa una volte per tutte e che si sa con certezza che ci sarà sempre. I cristiani sono gente proprio precaria, sono appesi ad un filo alla Grazia che si può perdere e che perciò si può solo chiedere, supplicare, pregare.

Inoltre, senza la bella Grazia cristiana non potremmo – alla lun-ga – non cadere in tentazione e fare peccati: “Un Salvatore non esiste unicamente perché possiamo ricorrere a Lui quando abbiamo peccato e ottenere il perdono con la fiducia in Lui, ma proprio perché ci preservi dal peccare” (1932*).

Ma, se le cose stavano così, il cammino cristiano diventava proprio facile, non era per nulla difficile, perché la Grazia cristiana è proprio l’at-trazione che Gesù esercita e attua sugli uomini che lui liberamente sceglie. Non si può proprio dire che è difficile seguire quello che attrae: “Dio è amore significa naturalmente che Egli farà di tutto per aiutarti ad amarlo cioè a trasformarsi a somiglianza con Lui. Egli vede bene quant’è infini-tamente deliziosa questa trasformazione per l’uomo. [...] Ma come col bambino un adulto, che desidera attirarsi il suo amore, cerca di rendersi

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simpatico nel senso di piacere al bambino e alla fine gli porta i dolci e cose simili, così anche il Cristianesimo porta qualcosa che attira” (4225*).

E se dopo il peccato originale tutto era diventato umanamente dif-ficile, adesso con la Grazia tutto era diventato cristianamente facile, an-che perché siamo trasformati, non siamo più difficili, umanamente, come dopo il peccato delle origini; cioè siamo qualcosa di nuovo, siamo trasfor-mati in qualcosa di nuovo che non è prodotto dalla nostra carne tempora-le ma viene da Gesù, dal suo stesso Spirito, che ci fa spiritualmente carnali e temporali: “Per poter comprendere [il Cristianesimo, ndr] occorre che preceda nell’uomo quella trasformazione a cui mira il Cristianesimo, cioè diventare spirito” (22 settembre 1855 – 3316^). La Grazia produce dav-vero un cambio nell’umanità dell’uomo che Gesù sceglie, lo fa diverso da tutti gli altri, lo resuscita, gli dà una vita nuova che non è più difficile come dopo il peccato originale. È sempre stato così, a partire da quello che aveva fatto Gesù: “Ecco che significa essere cristiani. I Giudei vole-vano uccidere Lazzaro perché Cristo l’aveva risuscitato (Jo. 12,11): tanto pericoloso è l’essere risuscitati... da Cristo” (2239*).

Ma, allora, tutto nella vita cristiana è gratitudine. Trasformati come siamo dalla Grazia, non si può proprio essere ingrati per aver ricevuto e ricevere sempre (se Dio vuole) la bella fortuna di essere stati fatti cristiani e conservati così in ogni ora: “Ogni dono di Dio è buono quando è accolto con gratitudine; in questa e per questa gratitudine Egli ha vinto il mondo” (755*). In fondo il bel fatto cristiano è la salvezza di noi poveracci, si è proprio stupidi quando non si ringrazia perché si finisce per non capire più niente: “ [...] Come quei nove furono guariti dalla lebbra e poi ne pre-sero una ancor maggiore: l’ingratitudine e la sconoscenza” (2599*).

Lui riconosceva che senza questa Grazia e senza un minimo di gra-titudine per questa immeritata fortuna cristiana, il Cristianesimo sarebbe diventato solo un moralismo, una cosa impossibile e insopportabile. Sen-za un minimo di gratitudine per la bella Grazia cristiana che si riceve sen-za meritarla sarebbe stata una cosa cristianamente insopportabile anche voler imitare Gesù: “Non si deve cominciare con l’imitazione, ma con la «Grazia»; poi deve seguire l’imitazione, come un frutto della gratitudine come meglio si può. Come nell’amore, l’amante non deve tormentarsi ogni momento per sapere se soddisfa alle esigenze dell’amato; questo non sarebbe amore, ma un meritare l’amore, un voler meritarlo e dimenticare

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che l’amato non è un creditore, ma un amante. No, si comincia invece con la gioia di essere amati e poi segue un’aspirazione di compiacere, che tuttavia è sempre incoraggiata dal pensiero che, anche se l’aspirazione fallisse, si è amati ugualmente” (3277*).

Insomma, cristianamente, non bisogna prendersi troppo sul serio, non bisogna pensare che l’imitazione di Gesù sia una cosa che si deve sobbarcare tutta il povero cristiano, cioè non bisogna voler essere più cri-stiani di Cristo: “Che vuole Cristo? Anzitutto e soprattutto la fede. Poi la gratitudine. Questa gratitudine è nel discepolo, in un senso più rigoroso la «imitazione». Ma anche il cristiano più debole ha questo in comune con il discepolo più forte: mostrare gratitudine. La «imitazione» non è una esigenza della legge con cui un povero uomo deve torturare se stesso. No, una tale tormentosa imitazione anche ripugna a Cristo. Egli direbbe certamente a costui, se per il resto lo vedesse pieno di gratitudine: per carità non ti agitare, datti tempo e sarà facile che la cosa venga da sé; ad ogni modo che venga come un frutto di gioia della gratitudine, altrimenti non è «imitazione». Già si dovrebbe anche dire che una simile imitazione così tremendamente tormentata, sarebbe piuttosto uno scimmiottamento da parodia” (2486^).

Cristianamente si può essere cristiani solo con un po’ di ironia che non ci fa prendere troppo sul serio quello che possiamo fare: “Non si deve prendere alla lettera che Cristo è il Modello e che a me non resta altro che volerLo imitare. In primo luogo, io abbisogno del Suo aiuto per poter assomigliare a Lui. In secondo luogo, in quanto Egli è il Salvatore e il Re-dentore degli uomini, io non posso certo assomigliarGli” (1727*).

In fondo, lui non voleva essere cristiano più di Gesù, cioè senza di Lui e il suo aiuto: “Se io voglio attenermi senz’altro all’imitazione del Mo-dello, io prendo questo modello invano. Qui importa soprattutto l’adora-zione, e solo attraverso l’ adorazione si può voler imitare. Bisogna inoltre che sia il Modello stesso ad aiutare chi Lo deve imitare” (1729^).

Non voleva proprio flagellarsi per essere un buon cristiano: “Il con-cetto vero dell’ascesi consiste nel ridurre al massimo le necessità della vita e, per il resto, nel non maltrattare se stessi con flagellazioni e cose simili” (2623*).

In fondo, per lui era evidente che l’imitazione di Gesù è tutta una scusa per non ridurre il bel fatto cristiano a un’idea ovviamente cristiana:

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infatti, l’imitazione di Cristo “garantisce il Cristianesimo perché non sfu-mi in poesia, mitologia, nell’idea astratta, come pressappoco è diventato nel Protestantesimo. [...] Nel protestantesimo si è arrivati al punto che Cristo si è ridotto a una idea” (2612^).

E se proprio si voleva parlare di ascesi, del sacrificio cristiano, biso-gnava metterli non nei muscoli che si gonfiano per lo sforzo ma nell’in-telligenza che doveva accettare la “possibilità dello scandalo” (3761^), lo scandalo di Gesù, quello fatto di carne e ossa, che non è proprio possibile ridurre a un’idea cristiana. Come sempre, quando si fa, si disfa; quando si vuol fare qualcosa per Cristo – ascesi, sacrifici e sforzi cristiani -, si finisce per disfare il bel fatto cristiano. Invece, tutto quello che si deve fare, tutto lo sforzo che si deve fare, è farsi scandalizzare da Dio che si è fatto uomo. Accettare questo scandalo, questo sì che è ascesi, questo sì che costa un bel po’ a quei cristiani che vogliono essere più cristiani di Gesù e che vo-gliono salvarsi meglio di quello che Gesù farebbe per loro.

Proprio non c’era da fare un bel niente; e anche l’imitazione di Gesù, era tutta una scusa per aver bisogno della sua Grazia: “L’imitazione deve essere posta per mantenere la disciplina, per imparare l’umiltà e il bisogno di ricorrere alla Grazia, per arrestare il dubbio” (2611^).

Gli piaceva proprio la Grazia, non si può dire che la considerasse un optional, un lusso che si può anche non avere per vivere cristianamente tranquilli: “La Grazia deve essere la cosa decisiva” (2349^).

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LA FEDE E LA RAGIONE ANALFABETE

Riconosceva che l’inizio della bella fede cristiana è facile perché non dipende dall’uomo, che non può fare niente per meritarla. La fede inizia quando, dove e con chi vuole e per questo è una sorpresa che l’uomo non si sarebbe mai aspettata.

Era già da molti secoli che si discuteva sulla ragione e la fede, sulla loro relazione, sui loro contrasti e contraddizioni. Per lui era tutta una fissazione da intellettuali.

La questione non era così difficile, anzi.Per lui il Cristianesimo era un bel fatto. Non c’era niente da discute-

re, la ragione non aveva niente su cui discutere. Anche perché davanti a un fatto, non ci si può mettere a discutere. Già lo avevano detto gli anti-chi: Ante factum non valet illatio. Davanti a un fatto non si discute; o si rico-nosce o non si riconosce. Era così che lui vedeva il Cristianesimo. Per lui non era una dottrina, quattro idee su cui si poteva discutere, ma un fatto, un’autorità (come diceva quel suo amico antico, sant’Agostino): “Quando si tratta di autorità, allora il fatto è un’autorità, ecco la «cosa»: ergo, non si può discutere né oggettivamente né anonimamente” (2358*).

Un fatto è sempre imprevisto; si dovrebbe proprio chiamare avveni-mento, perché è incondizionato. Ecco, per lui il Cristianesimo era un bel fatto che non era condizionato da nulla di anteriore, che era imprevisto, che non si poteva prevedere e immaginare, che non si poteva dedurre da delle logiche anteriori: “L’Incondizionato non può essere aiutato con ra-gioni – perché ciò di cui si danno ragioni, eo ipso non è l’Incondizionato. Non si tratta di questo, cioè che non vi siano – se si vuole – delle ragioni: ma il predicatore non deve a nessun costo dare ragioni: tradirebbe l’In-condizionato. Che vi siano delle ragioni, non è un plus rispetto all’In-condizionato: è un minus, una sottrazione che riduce l’Incondizionato a condizionato” (3532*).

Un fatto, un avvenimento, naturalmente, è sempre imprevisto. Nello

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stesso modo era fatto il Cristianesimo: non si poteva dedurre da premesse antecedenti, non c’è continuità tra quello che pensa l’uomo e quello che Dio fa accadere nella storia quando si fa uomo, quando viene sulla terra e si chiama Gesù. No, non si poteva proprio dedurre, non si poteva proprio mediare, cioè assimilare e farne la conclusione di un ragionamento: “La fede non può perciò essere dimostrata, fondata, compresa, perché manca l’anello che rende possibile la connessione e ciò non significa altro che il paradosso; poiché l’elemento originale del paradosso è che esso manca di continuità” (962*).

Naturalmente (cristianamente) davanti a un fatto, a un avvenimen-to, non si può non essere sorpresi, non si può non stupirsi, perché un fatto non lo possiamo dedurre da premesse anteriori, non lo potevamo neanche pensare. Anche davanti al bel fatto cristiano l’inizio della sua esperienza è la meraviglia, lo stupore che esso fa nascere e spuntare im-previsto. Gli intellettuali, i pastori prebendati, i clericali della cristianità moderna, invece, non capivano proprio niente dell’inizio della fede cri-stiana: “Il punto di partenza naturale della pietà è la meraviglia. Ma fin quando la meraviglia non ha in sé qualche riflessione, è alla merce di tutto e può suggerire le sciocchezze più madornali. Non appena la riflessione comincia a intervenire, anche la meraviglia si viene purificando; ma eccoli ora caduti in un errore sciocco quanto la superstizione, quello di credere che la ragione possa eliminare con la riflessione la meraviglia. In realtà essa non elimina che l’invenzione dell’uomo [...] La meraviglia assoluta corrisponde alla vera cosa divina che la ragione non abbia inventata. Sol-tanto qui comincia la fede” (1003*).

Naturalmente (cristianamente) davanti al bel fatto cristiano che sor-prende, non si può star lì a discutere, a rifletterci su. Bisogna essere come bambini, cioè si obbedisce (se si vuole) o si disobbedisce: “Una defini-zione della fede, cioè il concetto cristiano della fede. Cos’è credere? È volere (ciò che si deve e perché si deve) in obbedienza riverente e assoluta difendersi contro i pensieri vani di voler comprendere e contro le vane immaginazioni di poter comprendere” (2285*).

O si obbedisce al bel fatto cristiano, alla sua autorità che si impone non con la forza, ma con il suo stesso essere lí, con la sua stessa presenza ed evidenza, o si scappa da questa obbedienza così evidente con le rifles-sioni e le discussioni che fanno diventare matti, cioè degli spostati (anche

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se ufficialmente cristiani): “Prendi un bambino. Invece di ordinargli in un singolo caso di rinnegare se stesso, prova un po’ a fargli una lunga disquisizione sull’abnegazione, magari dandogli un panorama della storia universale, delle diverse forme di abnegazione, ecc. e quel bambino finirà per impazzire. Così con gli uomini per la religione; se non divengono pazzi, finiscono per essere degli spostati” (2460^).

Adesso, siccome gli illuminati avevano detto che si era usciti dallo stato dell’infanzia dove solo si obbedisce, nessuno voleva più obbedire al bel fatto cristiano; era troppo infantile quest’obbedienza. Si voleva discu-tere, capire, interpretare. Nessuno obbediva più. Ma, così, se c’erano solo dottrine e discussioni cristiane, non era più necessaria l’esistenza cristia-na, quella quotidiana: “Il Cristianesimo è «comunicazione di esistenza» introdotto nel mondo con l’uso dell’«autorità» Non si deve speculare. Il Cristianesimo deve essere mantenuto esistenzialmente. Prendiamo un esempio molto semplice: una guardia municipale che interviene in un tumulto e dice: «Per cortesia, sgombrate, niente discussioni». «Niente di-scussioni». E perché? Perché la guardia fa uso di autorità. [...] L’oggettivo è dato da quello che dice lui, colui che ha l’autorità. Ma niente discussioni e meno di tutti da parte di chi vuole sgattaiolare alle spalle dell’autorità e riuscire alla fine a sbarazzarsi con la speculazione anche di essa, metten-do tutto in mano della speculazione. [...] L’obbedienza incondizionata si trasforma nella spiegazione” (2606*)

Non era poi così difficile la fede, visto che nasceva dal bel fatto cristia-no, riconosciuto con stupore e obbedienza, senza discussioni.

Ma allora perché erano nate, nei secoli anteriori e negli anni che lui viveva, tutte quelle polemiche e discussioni sulla ragione e la fede?

Sicuramente era colpa di quella ragione così moderna e cialtrona, idealista, che pretendeva di capire tutto in tre idee che giocavano fra di loro come tre zitellone capricciose (quelle che aveva inventato il “Profes-sore”), quelle tre idee piene di risentimento (erano come tre zitelle che nessuno aveva voluto sposare) che erano la tesi, l’antitesi e la sintesi: “La realtà non si lascia comprendere. Comprendere è risolvere la realtà in possibilità; ma allora è impossibile comprenderla, perché comprenderla è trasformarla in possibilità, quindi non mantenerla come realtà” (2802*).

La ragione aveva voluto diventare pura, assoluta (ab-soluta=senza

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vincoli né limiti), cioè senza realtà, e così non c’erano più limiti per la ragione, la ragione era illimitata nella sua pretesa di comprendere tutto. Non c’era più un limite, la ragione non poteva arrivare a un punto dove doveva ammettere che non poteva andare più in là. Anzi, la ragione as-soluta era proprio questo: “andare sempre più in là” (era proprio una ra-gione gnostica). La zitellona maggiore, la “sintesi”, inglobava, assimilava, fagocitava anche quell’altra zitellona più negativa, quella che si chiamava “antitesi”, che vedeva limiti dappertutto. In fondo la zitellona sintetica era un’ottimista imperdonabile, per lei non c’erano proprio limiti: “È un errore fondamentale credere che non vi siano concetti negativi. I principi più alti di ogni pensare, ovvero le prove di essi, sono negativi. La ragione umana ha dei confini; è li che stanno i concetti negativi. Si ha un’idea cial-trona e presuntuosa della ragione umana, specialmente nei nostri tempi. [...] La Ragione assoluta è un prodotto della fantasia e ciò spiega quella fantastica mancanza del limite per cui non c’è alcun concetto negativo ma dove si comprende tutto” (2746*).

Così, anche davanti al bel fatto cristiano, la filosofia delle tre zitel-lone pretendeva di capirci tutto, anche perché per lei non c’era già più il bel fatto cristiano, ma solo delle dottrine eternamente cristiane che non accadevano mai nella storia quotidiana: “Ma la filosofia prende sempre la fede come una somma di teoremi” (2414*).

Già non interessava l’esistenza cristiana, quella che si viveva nella fede eternamente terrena e che nasceva come stupore e obbedienza al bel fatto cristiano: “L’attenzione del mondo è sempre quella di distrarre l’atten-zione dal fare, dall’agire, per ripiegare nel campo della dottrina” (2954*).

Le tre zitellone del “Professore” erano diventate così famose e di moda perché nella cristianità moderna era successo che il bel fatto cri-stiano era stato ridotto a una dottrina, a delle tesi eternamente cristiane, a delle idee eternamente vere e che non accadevano mai nella storia.

L’attenzione era stata spostata tutta sui contenuti, sulle idee, e non interessava “come” accadeva il bel fatto cristiano: “Quel che importa non è mai il «ciò» ma il «come»” (2948*).

Allo stesso modo si era inventata la lotta tra la fede e la ragione, una lotta che non sarebbe esistita se la fede fosse nata, se la fede umilmente avesse riconosciuto che nasceva dal bel fatto cristiano, che era fatta di stupore e obbedienza.

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Quella del problema della ragione e della fede era una delle più tristi invenzioni moderne, nata dall’interno della stessa cristianità moderna. Siccome non c’era più fede, era nato il problema e le discussioni sulla sua relazione con la ragione. Era stato fatto diventare un problema quello che era sempre stato (almeno fino alla fine del primo millennio cristiano) uno stupore obbediente, quello della fede che ha le sue ragioni per stupirsi e obbedire all’autorità del bel fatto cristiano.

Così anche i cristiani (quelli che si immaginavano tali) si erano fatti venire i complessi di colpa davanti a una filosofia che voleva discutere e capire tutto e si vergognavano che la fede, quella cristiana, fosse semplice, fosse fatta solo di stupore obbediente: “La lotta della Fede col mondo non è una lotta teoretica di pensiero col dubbio, di idea contro idea: questa è stata la confusione che portò alla pazzia del «sistema». La fede, la lotta del credente con il mondo, è di carattere. La vanità umana è di voler com-prendere, di non voler ubbidire come un bambino, ma di fare l’adulto che può anche capire ma non vuole ubbidire quando non può capire (cioè in sostanza non vuole ubbidire). Il credente è allora l’uomo di carattere il quale, assolutamente obbediente a Dio, capisce come un compito di ca-rattere che non si deve voler comprendere. Ecco il conflitto: «Voler crede-re ciò che non si può comprendere, ecco, una simile obbedienza sarebbe definita oscurantismo, stupidità, ecc! » Cioè il mondo vuole intimidire il credente con il timore degli uomini e svegliare in lui la vanità di poter poi anche comprendere. Qui c’è il conflitto” (2284*).

Alla fin fine, non si capiva più nulla, né della fede né della ragione: “Per via della speculazione, dell’apologetica, ecc., la chiave gira a vuoto nella toppa del Cristianesimo” (2860*).

Ormai si pensava che la ragione dovesse solo capire tutto, sistemare tutto in quelle tre idee-zitelle del “Professore”. La ragione era stata ridotta solo a capire tutto. E, se si metteva questa idea di ragione nella fede, na-turalmente nasceva un contrasto. La ragione voleva “andare sempre più in là” (gnosticamente) del bel fatto cristiano; la fede, quella vera, quella del bel fatto cristiano, invece partiva da ciò che non si poteva sorpassare: “L’interesse della Fede (rispetto al credere) è di concludere e di arrivare a una decisione assoluta; l’interesse della ragione è di tenere la «riflessione in vita»; come la polizia si troverebbe in imbarazzo se non ci fosse alcun delitto, così la ragione quando la riflessione fosse esaurita. La «Fede» vuol

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mettere l’Assoluto, la Ragione vuole continuare la riflessione”. (2921*).Siccome il Cristianesimo era dato dal bel fatto cristiano, imprevisto,

che non si poteva dedurre da nessuna premessa anteriore, era proprio sbagliato pensare che la fede fosse prendere coscienza – gnosticamen-te – di quello che già c’era dentro l’uomo e farlo salire – visto che si era dimenticato – allo stato cosciente. Cioè c’era una bella differenza fra il ricordarsi di qualcosa che già c’era nell’uomo e essere messi davanti a un fatto nuovo e imprevisto, quello cristiano: “La comunicazione di ciò che è il Cristianesimo deve infine concretarsi nell’atto del «testimoniare»: la maieutica non può essere l’ultima forma. Perché la verità, come la intende il Cristianesimo non sta (come la intendeva Socrate) nel soggetto, ma è una Rivelazione che deve essere annunziata” (1872*).

Adesso il Cristianesimo era diventato solo la presa di coscienza di quello che già c’era dentro l’uomo, l’umanizzazione, la “coscientizzazio-ne” [...] al grado più eccelso della divinità che già c’era da sempre nell’uo-mo: “Il divino è per essi semplicemente un superlativo enfatico, retorico e insulso dell’umano: di qui il loro contentarsi nell’immaginazione di poter comprendere sempre di più” (2516*).

Adesso, nei tempi che gli toccava vivere, dominava solo quell’antica eresia, quella pretesa gnostica di andare sempre “più in là” del bel fatto cristiano: “La mia categoria è l’unica categoria cristiana: «comprendere che non si può comprendere», rifiutare di voler comprendere. Altrimenti ne nasce una alterazione della fede di modo che io, andando più in là di essa, abbandono proprio la fede. Nella fede la stabilità dello scandalo è un mo-mento superato; ma non si deve andare più in là. Perciò io devo conservar-mi nella fede” (2452*).

Era diventato di moda discutere sulla fede, cioè ragionare sul bel fatto cristiano. E quanto più si ragionava, quanto più si trovavano ragioni e motivi per essere cristiani, più si pensava di essere cristiani. Già non bastava il bel fatto cristiano per convincere i cristiani di come nasceva e cresceva la fede: “Le ragioni e le dimostrazioni della verità del Cristiane-simo devono essere soppresse; non c’è che una prova, quella della fede. [...] È la convinzione che porta le ragioni, non le ragioni che portano le convinzioni. Le ragioni, per quanto le giriamo e rigiriamo, non possono generare o far nascere una convinzione. La convinzione nasce altrove. [...] Le ragioni son un che d’importanza secondaria. No, la cosa allora diventa

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personale, ovvero interessa la personalità; la convinzione si può difendere solo personalmente. [...] Non sono le ragioni che fondano la fede nel fi-glio di Dio, ma la fede nel Figlio di Dio è la testimonianza” (2370*).

Già non bastava la fame esistenziale dell’uomo per fargli riconoscere come era necessario il cibo cristiano. Adesso si pensava che fossero le discussioni a rendere interessante e stimolante la fede, come si fa con gli aperitivi che dovrebbero stimolare la fame (che non si ha): “Il Cristianesi-mo entrò nel mondo a questo modo: esso presupponeva l’affanno, il do-lore, la sofferenza della coscienza angustiata sotto la legge, straziata dalla fame che non fa che gridare per aver cibo – e così il Cristianesimo fu il cibo. Ed ora – ora si pensa che ci vorrebbero gli aperitivi per far accettare il Cristianesimo! E quali aperitivi piccanti? [...] Prove, ragioni, probabilità e simili. Ed ecco che la predicazione si concentra tutta negli aperitivi. Cioè si tradisce il Cristianesimo: si nega in sostanza ch’esso sia assoluta-mente il cibo. Ma ora è il Cristianesimo che ha bisogno degli aperitivi per poter avere un poco di sapore: altrimenti probabilmente non saprebbe di nulla. E, con gli aperitivi, di che sa? Un sacco di ragioni e prove per ren-dere probabile che c’è qualcosa di vero nel Cristianesimo” (2817*).

Proprio per questo riconosceva che era stupido fare dei ragionamenti per dimostrare che la fede cristiana e la sua felicità sono belle e reali. Che la fede cristiana fosse una cosa ragionevole e non da matti, non dipendeva dai ragionamenti e dalle prove, ma solo dal mistero e dall’azione della Grazia di Gesù: “Tutta codesta «storia universale» e le ragioni e le dimostrazioni della verità del Cristianesimo, devono essere soppresse; non c’è che una prova, quella della Fede. [...] Come un gallo non può fare un uovo da covare, così le «ragioni», per quanto le giriamo e rigiriamo, non possono generare e far nascere una convinzione. La convinzione nasce altrove. [...] Delle ragioni si può parlare mezzo umoristicamente: «Se tu vuoi assoluta-mente delle ragioni, ti accontenterò volentieri. Ne vuoi tre, cinque, sette? Dimmi un po’, quante ne vuoi?». Ma non posso dire nulla che sia più alto di questo: «Io credo». Qui c’è il positivo della sazietà” (1181^).

Non era certo colpa del bel fatto cristiano se non si faceva racchiu-dere nelle quattro idee che si erano inventati i cristiani: “Non sarebbe una contraddizione da parte tua ammettere prima il Cristianesimo come dot-trina divina e poi, quando tu trovi qualcosa che non arrivi ad accordare

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col tuo cervello o col tuo sentimento, dire che è una contraddizione da parte di Dio, invece di essere una contraddizione da parte tua?” (3494*).

Anzitutto non ci poteva essere nessuna contraddizione tra Dio e l’uomo, tra la fede che Dio fa nascere e la ragione, perché c’è una spropor-zione qualitativa tra Dio e l’uomo: “Giobbe (Job. 9,20) dice giustamente che, anche se uno avesse ragione, davanti a Dio non potrebbe mai avere ragione [...] per la sproporzione ovvero la differenza qualitativa fra Dio e l’uomo” (2178*). Quando uno si mette davanti a Dio e a Gesù, non si può dire che col passar del tempo e che coll’aumento delle riflessioni, li capi-sca di più; anzi, aumenta sempre di più il mistero: “Quanto più a lungo ci si occupa dell’Infinito, più si scopre quanto Egli è infinito: cioè tanta più relatività, avanzando, ci si lascia alle spalle come cose che non esaurisco-no l’infinito. [...] L’infinito cresce sempre più in infinità e noi stessi invece non facciamo che diminuire sempre più” (2085*).

In un appunto aveva scritto: “Dio vuole avere ragione. [...] Dio vuole assolutamente essere creduto (2387*). Ma la ragione che Dio voleva che gli si riconoscesse, non era per forza, non era fatta di ragioni e ragionamenti che obbligavano per le loro conclusioni logiche. Dio voleva avere ragione in un modo diverso, soprattutto da quando era venuto sulla terra: “La potenza più alta è impotenza. Che impotenza per Cristo esser stato l’unico a non aver mai ragione” (2013*).

Nella vita cristiana non si tratta proprio di mettersi a discutere. Non c’è tempo, sarebbe perdere tempo. L’esistenza non ha tempo da perdere. E lui non aveva tempo da perdere. Lottava, come Giacobbe, quello dell’An-tico Testamento, esistenzialmente con il suo Dio che era troppo spropor-zionato. Non si trattava per lui di una questione di cultura, era proprio una questione esistenziale: “Con ragione Hamann dice: «Come la legge abolisce la Grazia, così il comprendere abolisce il credere». Ma in Ha-mann è solo un aforisma; io a furia di lottare l’ho sviscerato e liberato da certa filosofia e cultura fino a porre la tesi: comprendere che non si può comprendere, ovvero che non si deve comprendere la Fede” (2668*).

Per lui il Cristianesimo non era una questione di far vedere e dimo-strare le ragioni dell’essere cristiano; per lui si trattava di comunicare la sua esistenza e come il bel fatto cristiano la cambiava e non la lasciava tranquilla nei ragionamenti eruditi: “Il Cristianesimo non è una dottrina ma una comunicazione di esistenza. [...] Per questo ogni generazione deve

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cominciare da capo; tutta codesta erudizione sulle generazioni passate è essenzialmente superflua. [...] Il Cristianesimo è una comunicazione di esistenza e può essere esposto soltanto con l’esistere. Esistere in esso è esprimerlo esistendo” (1864*).

Anche perché lui stesso e tutte i ragionamenti sulla fede non po-tevano spiegare come era stato fatto diventare cristiano. Solo gli stupidi chiedono le ragioni della fede, perché c’è una sola ragione: il mistero e l’azione della Grazia di Gesù che attua nel presente di un uomo e, in modo imprevisto, che non si può dedurre, lo cambia: “La speculazione può comprendere tutto; soltanto non può comprendere come io sono arrivato alla fede, o come la fede è entrata nel mondo” (2414*).

Non gli era mai venuto in mente di pensare che la fede fosse contro la ragione; per lui la fede era solo contro la ragione degli intellettuali della felicità cristiana. Per lui non ci poteva essere nessun contrasto fra la fra-gile e povera ragione e la fede nel bel fatto cristiano. Che siano due cose distinte non vuol dire che siano due nemiche in competizione o in con-traddizione. Perché mai dovrebbero essere in contraddizione? “Ciò che io cerco di esprimere dicendo che il Cristianesimo consiste nel paradosso, la filosofia nella mediazione, la stessa cosa dice Leibniz facendo la differenza fra ciò che è sopra la ragione e ciò che è contro la ragione. La fede è sopra la ragione. Per ragione egli intende, come dice in molti luoghi una conca-tenazione (enchaínement) di verità, una conclusione da principi” (962*).

Nel suo Diario, quasi quotidiano, quando scriveva di queste cose usava parole che si potevano capire male, ma che non erano ambigue; usava parole che potevano non far capire quello che voleva dire.

Lui voleva solo comunicare che Dio e il suo Gesù sono troppo spro-porzionati alla ragione anche se sono proprio quello che la ragione stessa attende da sempre. E che se Dio e il suo Gesù non si possono misurare con il centimetro e il millimetro della ragione, se non si possono capire, possedere e ingabbiare in tre o quattro idee sistematiche, non per questo sono contro la ragione: “L’assurdo, il paradosso, [l’assurdo e il paradosso cristiano] è costruito in modo che la ragione non può da sola risolverlo e mostrare che non ha senso. No, esso è un segno, un enigma, un enigma di sintesi, di cui la ragione deve dire: è irriducibile, incomprensibile, ma non per ciò un nonsenso. La cosa semplice consiste in questo, che il parados-so c’è proprio perché non si prenda la direzione della speculazione, del

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ragionamento, ecc., ma si vada nella direzione dell’esistere, dell’esprimere esistenzialmente il Cristianesimo. L’esistere è appunto la cosa semplice. Esistere, fare secondo quanto è comandato: ecco la cosa semplice. Specu-lare, ragionare è il contrario della cosa semplice. [...] La speculazione è la sofistica che di continuo ritorna in rapporto all’esistere” (2353^).

Non aveva inventato niente di nuovo parlando del paradosso della fede. Anzi, gli piaceva citare e ricordare un benedettino francese antico, Ugo di san Vittore, che ne aveva già parlato: “È una massima giusta di Ugo di san Vittore: «Le cose che sorpassano la ragione non sostengono la fede con qualche ragione, perché la Fede non comprende ciò che tuttavia essa crede. Ma c’è anche qui qualcosa che determina la ragione o da cui essa è determinata a tenere in onore la fede che però non riesce a comprendere completamente». Lui commentava così: “Cioè che non ogni assurdo è l’assurdo o il paradosso della fede. L’attività della Ragione è proprio in modo negativo di conoscere il paradosso – ma non di più. [...] Il concetto dell’assurdo è proprio nel «comprendere che non si può e non si deve comprendere»: una categoria negativa, ma altrettanto dialettica come qualunque principio positivo. L’assurdo, il paradosso, è costruito in modo che la ragione non può da sola risolverlo e mostrare che non ha senso. No, esso è un segno, un enigma di sintesi di cui la ragione deve dire: è irriducibile, incomprensibile, ma non per ciò un nonsenso. Naturalmente se si abolisce la Fede e si fa sparire tutta questa sfera, forse la ragione pre-suntuosamente conclude: ergo, il paradosso è il nonsenso. [...] La fede è il competente riguardo al paradosso. Essa crede il paradosso e ora «la ragio-ne può bensì essere determinata ad onorare la Fede», approfondendosi la ragione nelle categorie negative del paradosso” (2746*).

Nello stesso tempo riconosceva anche che la certezza cristiana non se la dava il cristiano, ma nasceva dal bel fatto cristiano, che corrispon-de a quello che la ragione da sempre desidera; che nasceva dall’incontro tra quello che l’uomo desidera, tra il desiderio di essere felici che hanno tutti gli uomini e il bel fatto cristiano che va incontro all’uomo e alle sue esigenze di felicità contenute nei suoi desideri ragionevoli. Un incontro che è gratis, senza averlo meritato, senza averlo atteso: “Il Cristianesimo [è] ciò che ha soddisfatto nel corso dei secoli le più intime aspirazioni dell’uomo” (41*).

E così, fidarsi dell’auctoritas cristiana, cioè fidarsi del bel fatto cri-

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stiano che accade imprevisto e che si riconosce per Grazia, non è irrazio-nale, non è qualcosa che fa chiudere gli occhi sforzandosi d’immaginarsi cristiani: “Quando si dice che la fede si appoggia sull’autorità e con ciò si crede di aver escluso il momento dialettico, si è in errore. La dialettica della fede comincia con la questione: «Come ora avviene che si affida a questa autorità? C’è una ragione per sceglierla o è per un puro caso?». In quest’ipotesi l’autorità non è autorità neppure per il credente, se egli sa che si tratta di un puro caso” (1009*).

Ma non si trattava solo di una bella corrispondenza tra quello che desiderava la ragione e l’incontro con il bel fatto cristiano. C’era in ballo anche una questione che era vitale per l’uomo, una questione esistenziale e storica, dopo quello che era successo con il peccato originale. Non c’era solo la bella corrispondenza con i desideri della ragione dell’uomo; c’era-no in ballo, soprattutto, anche i peccati dell’uomo. Anche per questo la fede era una cosa ragionevole, perché il bel fatto cristiano salvava dai pec-cati che erano entrati nella stessa ragione e l’avevano contaminata. Senza i peccati dell’uomo la bella corrispondenza della fede era solo estetismo frivolo e smorfioso: “Il Cristianesimo deve essere presentato in modo (e in questo consiste la «possibilità dello scandalo») che un uomo deve essere pazzo per entrare nel Cristianesimo se non c’è la coscienza del peccato che lo spinge. Bisogna finirla con tutte quelle chiacchiere smorfiose che il Cristianesimo soddisfa le aspirazioni più profonde, ecc.” (2133*).

Non si deve pensare che ce l’avesse con la ragione e i suoi desideri e esigenze, quella stessa ragione con cui il poveraccio e l’uomo comune che lui tanto amava fa i conti di quante mele e pere deve comprare. Non la disprezzava. Però non voleva che si dicesse che la fede fosse razionale perché se la inventa l’uomo ovviamente cristiano. Non ce l’aveva con la ragione; ce l’aveva con quegli intellettuali, con quei “professori”, con quei pastori prebendati che pensavano che quello che si inventavano con la loro ragione era l’unica realtà.

Lui non metteva in dubbio l’intelligenza e la ragione dell’uomo, non le disprezzava. Sapeva che dentro la ragione (e in tutto l’uomo) c’è il de-siderio di vedere quello che fa felice il cuore: “Come la freccia scoccata dall’arco del fromboliere non trova requie prima di toccare il bersaglio, così l’uomo, creato da Dio, non trova requie prima di toccare il suo ber-saglio che è Dio” (1669*).

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L’abbiamo già detto: lui vedeva diffusa un’idea cialtrona e presun-tuosa della ragione umana. A differenza degli “spostati” della cristiani-tà moderna, lui aveva, bisogna riconoscerlo, una ragione cristianamente sana, che non pretendeva di misurare tutto, tanto meno il buon Gesù che fa felice il povero uomo terreno. Aveva una ragione cristianamente umile e per questo non la disprezzava. È tutta un’altra faccenda disprez-zare gli intellettuali e disprezzare l’intelligenza. Riconosceva che, davanti a quell’uomo che è Dio, davanti a Gesù, non si poteva star lì con il metro e il centimetro dei sillogismi.

Che il bel fatto cristiano non fosse venuto in mente all’uomo e che perciò superasse infinitamente quello che poteva pensare il povero uomo, questo non vuol dire che fosse contro la ragione; anzi, per lui, c’era pro-prio una bella corrispondenza tra quello che desidera la ragione e la Gra-zia imprevista dell’incontro con quell’uomo che è Dio: “Il Cristianesimo è ciò che non è mai venuto in mente ad alcun uomo – e tuttavia dal mo-mento che è dato all’uomo, esso gli sembra naturale (così anche qui Dio si fa creatore)” (808*).

Semplicemente non sopportava quel voler aver sempre ragione, con ragioni inventate da quelli che si credevano cristiani illuminati; ce l’aveva cioè con quell’idea di ragione che voleva misurare tutto, anche quello che non si poteva misurare. E così, cercando di capire e di sapere il Cristia-nesimo, come se si trattasse di tre o quattro idee messe in croce, si finiva per abolire il Cristianesimo: “Si cerca di entrare con la speculazione nel Cristianesimo: cioè con la speculazione lo si caccia dal mondo” (2346^).

Non ce l’aveva con l’intelligenza e la ragione; solo non voleva che si usassero con violenza, cioè in un modo gnostico, pretendendo di capire tutto. Voleva che la ragione e l’intelligenza si usassero – nella fede – con timore e tremore, senza pretese, perché non si può pretendere niente da Dio e dal suo Gesù: “Ma dall’altra parte l’intelligenza, la riflessione sono certamente anche un dono di Dio. Cosa si deve fare di essa, come decide-re quando non la si deve usare? È quando ora la si usa in timore e tremore, non per avere vantaggi, ma per servire la verità” (1873*). In un appunto del suo Diario tutto questo lo aveva espresso con una bella preghiera che non si può proprio dire che fosse irrazionale: “Oh, mio Signore Gesù Cri-sto, possa Tu riempire il mio pensiero in modo che si possa vedere in me ch’io penso a Te” (2939*).

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Non voleva che la fede fosse solo un salto nel vuoto, che non do-vesse riflettere e riconoscere che non c’era niente da capire, da possede-re e ingabbiare in tre o quattro idee eternamente cristiane: “Si è sempre pensato che la riflessione debba annientare il Cristianesimo; che sia il suo naturale nemico. Ma io spero di poter mostrare, con l’aiuto di Dio, che la riflessione pia può attingere ancor più nodi che una riflessione superficia-le ha così a lungo allentato. [...] La riflessione capovolge la situazione: essa rimette le molle al Cristianesimo. [...] Il compito non è di comprendere il Cristianesimo, ma di comprendere che non lo si può comprendere. Que-sta è la causa santa della fede e la riflessione è perciò santificata nell’essere usata a questo modo” (1886*)

Anzi, era un bene che si usasse la ragione nella fede; ma doveva essere una ragione che semplicemente doveva riconoscere le cose come stavano, una ragione realista, una ragione da cronista: “La speculazione può esporre i problemi della fede, conoscere che ogni singolo problema è per la fede – segnato e composto in modo che esista per la fede – e poi prospettare la decisione: «Vuoi tu ora credere, sì o no?». Inoltre la spe-culazione può controllare la fede, cioè sorvegliare su quel che si crede in un dato momento o è il contenuto della fede, per vigilare onde a furia di chiacchiere non s’insinuino nella fede determinazioni che non sono og-getto di fede ma invece per es. speculazione. La speculazione è il veggen-te, però soltanto nel senso che essa dice: «La cosa sta qui», per il resto è cieca. Dopo viene la fede che crede: essa è il veggente (riguardo all’oggetto della fede)” (2796*).

E siccome la fede vedeva con la ragione, che constatava quello che credeva del bel fatto cristiano, era una meraviglia, quella cristiana, in cui non si finiva mai di entrare; e quanto più si rinnovava questo stupore meno c’erano limiti a questa meraviglia che si vedeva con la ragione della fede: “Per ogni cosa umana vale il principio: più la si pensa e più si riesce a comprenderla. Ma le cose divine, più le si pensa e meno si riesce a com-prenderle. Questa è qui una differenza di qualità, l’eterogeneità qualitativa fra Dio e l’uomo deve mostrare questa situazione. Si deve perciò tralasciare lo studio delle cose divine? Imbecille: invece tu devi dedicare possibilmen-te ogni momento a questo scopo, e con ogni momento bene usato appren-derai a meravigliarti sempre di più [...] perché nel rapporto fra l’uomo e Dio non c’è mai un limite, meno che nell’eternità. E per questo il credente

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ha la nostalgia dell’eternità, per poter soddisfare in quel mare sconfinato la sua sconfinata meraviglia con la quale egli nel tempo si trova a disagio come l’abitare in stanze così piccole che non ci si può muovere” (2947*).

Per lui la fede era semplicemente un modo distinto di conoscere, non qualcosa che non c’entrava niente con la ragione e con la conoscenza: “Il Cristianesimo è certamente un fatto di conoscenza, ma un tale fatto di conoscenza che può soltanto essere creduto [...]” (1303*).

Ma questa conoscenza della fede, quella cristiana, era un modo di conoscere che non era matematico; era un modo di conoscere distinto, affettivo. Insomma, per lui, la ragione che si usava nella fede non era quella che misurava con il millimetro o il centimetro, ma era una ragione cristiana, cioè era una ragione innamorata, affettivamente ragionevole e innamorata. Per lui la fede era un modo di conoscere che non era mate-matico, ma che era affettivo.

Anzitutto, perché era una conoscenza che dava gioia, che dava una felicità che l’uomo non si sarebbe mai aspettato con la sua ragione: “Il Cristianesimo insegna: c’è una beatitudine eterna che ci attende, una be-atitudine che sorpassa ogni intelligenza (Philip. 4,7) e che l’uomo può pregustare fin da questa vita nella beatitudine della fede” (2567*). In un appunto del suo Diario aveva anche esclamato: “Ma quale beatitudine non è il credere” (2367*).

Una gioia che non sarebbe mai potuta venire in mente alla ragione dell’uomo e che era così diversa da tutte quelle gioie che preoccupavano la ragione umana di quei poveracci degli uomini che volevano trattenerle come potevano e più a lungo che potevano: “La gioia che è la pace di Dio, supera ogni intelligenza, tant’è indescrivibile e conserva i cuori e i pensieri in Cristo Gesù, tanto essa è diversa da tutte le altre gioie che noi dobbiamo conservare per non perderle, mentre questa gioia custodisce noi – conserva noi. Che sicurezza!” (2694*).

No, non si trattava di avere delle ragioni per dimostrare che la fede era una cosa bella e che faceva felice l’uomo. Quello che fa contento l’uo-mo è essere amato e amare quello che ci ama e ci attrae. La sua fede non era quella dei matematici, ma quella degli innamorati, era una ragione cristiana innamorata: “Che importano le obiezioni contro il Cristianesimo per colui che è cosciente di essere un peccatore e sperimenta davvero la fede nella remissione dei peccati? L’unica obiezione che può sorgere è que-

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sta: «Va bene, ma sarebbe anche possibile che tu ti potessi salvare in altro modo». È come dire a un innamorato che si sarebbe potuto innamorare di un’altra ragazza. Quello dirà: «A questo non posso rispondere, poiché so solo una cosa, di amare lei». Quando un innamorato può rispondere all’obiezione, eo ipso non è più innamorato” (2341*).

La sua ragione cristiana era proprio innamorata e affettiva. Per que-sto non si preoccupava di dimostrare le ragioni per cui amava ed era ama-to dal suo Gesù facendo una scala di preferenze e di confronti, dove vale solo il più e il meno: “L’espressione per l’amore più alto è: io amo quella e solo quella. Se si dice di amare più di tutti gli altri io dico allora di meno: il superlativo sottrae e mostra che nell’amore c’è un confronto erotico. Altrettanto dicesi che le «ragioni» rispetto alla fede sono «sottraenti». Io credo – non una parola in più, è il massimo; se ho 17 ragioni, allora la mia fede è minore; se ne ho 18 è minore ancora”. (2379*)

Nella fede cristiana non c’è da far confronti e dimostrare perché si ama di più il bel fatto cristiano di un’altra cosa. La gioia cristiana è in-comparabile, è un’ altra cosa, è distinta, non si mette a fare confronti, non si vuole mettere in concorrenza con altre cose belle: “Come quando un fidanzato dice: «È lei ch’io amo»: non parla né d’amarla di più di quel che gli altri amino le loro fidanzate, e neppure parla delle ragioni che ha per amarla” (1881^).

Anche perché, se la fede cristiana si mette a fare confronti, vuol dire che ha qualche dubbio sulla sua incomparabile bellezza: “Non ci si accor-ge che le «ragioni» invece di fondare e potenziare, sottraggono – più sono le ragioni che qualcuno ha per amare, e minore è il suo amore” (2517*).

Per lui non si trattava proprio di vincere cristianamente sul mondo con le ragioni e le idee eternamente cristiane; perché il dubbio che la felicità cristiana fosse reale, quel dubbio che la modernità aveva gettato sul bel fatto cristiano, non si vinceva certamente con ragionamenti cultu-ralmente cristiani: “Una volta che il dubbio è penetrato, si annida come il colera: ogni difesa scientifica non fa che alimentare il dubbio. Solo Iddio e l’eternità sono forti abbastanza per dominare il dubbio” (1149^).

In fondo, fare le battaglie culturali cristiane contro il mondo che non è cristiano, non poteva che peggiorare le cose: “Ora si proclama che il Cri-stianesimo è una dottrina oggettiva. Prima ch’io mi metta in rapporto con esso, deve innanzitutto giustificarsi per me! Addio, allora, Cristianesimo!

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Ora il dubbio ha vinto. Questo dubbio poi non può mai essere fermato con ragioni, le quali non fanno che alimentare il dubbio” (2608^).

Per lui non bisognava avere la fissazione di cristianizzare il mondo con la cultura cristiana. Aveva perfino paura di quello che scriveva, perché poteva essere capito male, poteva essere inteso come una preoccupazione culturale per far diventare cristiani gli altri uomini: “Muovere qualcuno: no, non lo faccio. C’è chi legge i miei scritti, chi se li studia, chi li impara a memoria, chi se ne serve quando deve predicare e insegnare [...] Mio Dio, ma allora io faccio più male che bene! Solo Tu, o Dio, puoi muovere un uomo. [...] Al tuo cospetto io sono un nulla” (1814*).

Era proprio evidente per lui che la certezza e la felicità cristiana non se le crea l’uomo, non se le immagina né se le inventa; sono tutta un’al-tra cosa: “La convinzione si crea per via di Dio. La sua convinzione [il cristiano] non la può né difendere né provare con ragioni: sarebbe una contraddizione dato che le ragioni sono un che d’importanza secondaria. [...] Non sono le ragioni a fondare le convinzioni, ma le convinzioni che fondano le ragioni” (1881^).

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LA SUA FELICITÀ CRISTIANA

Lui voleva, per sé, una felicità cristiana che lo facesse felice esisten-zialmente, singolarmente, in un modo personale.

Ne aveva bisogno, esistenzialmente: “Fin da bambino sono stato in-descrivibilmente infelice” (2107*). Aveva avuto da suo padre un’educa-zione troppo rigida, troppo moralista: “Ho avuto un’educazione cristiana troppo severa che in fondo mi ha scandalizzato” (2570*). Non era stato un bambino felice con l’educazione moralista di suo padre: “La gioia di essere bambino io non l’ho mai avuta. [...] Mio padre m’ha reso infelice” (2052*).

Tuttavia, anche questo lo aveva reso diverso dagli altri che erano beatamente cristiani: “Fin da fanciullo sono stato in potere di una malin-conia originaria” (2918*). Questa differenza, umana, era stata una parte della sua fortuna (esistenziale): “È stata per me una fortuna, un bene in-descrivibile, l’aver avuto una natura così malinconica” (2782*).

La maggior parte dei suoi concittadini lo aveva fatto soffrire anche per questioni ridicole, perfino per un modo di vestire un po’ strano che lui aveva: “Che malinconia! Anche questa faccenda dei miei pantaloni, di cui si è fatto tanto chiasso” (2204*).

In fondo, lo insultavano perché voleva bene a Gesù, al bel fatto sto-rico e cristiano: “L’esistenza di un cristiano essenziale è diventata una cosa comica” (2546*)

Insomma, aveva imparato fin da piccolo ad aver bisogno di Gesù: “Infelice come sono stato fin da bambino, sofferente di pene indicibili e poi un penitente, trovo che il Cristianesimo mi si addice. [...] Ho desi-derato anch’io un tempo di essere felice. Mi fu negato e mi fu assegnato il Cristianesimo. [...] Io ho imparato ad avere bisogno del Cristianesimo” (2959*).

Lo sapeva di essere un genio, di avere una “testa immensamente brillante” (1838*) che gli altri usavano per riempirsi la bocca e farsi belli:

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“Piccoli profeti mi saccheggiano in conferenze che non hanno né capo né coda [...]; ma nominarmi, per carità” (1907*). Questa sua genialità (cristiana) era anche il motivo per cui gli altri lo insultavano: “La mia di-sgrazia è di essere stato un genio” (2265*).

In fondo, lui non si credeva gran cosa, anzi: “Non mi sono mai spac-ciato per un cristiano straordinario” (2556*). Era solo uno che aveva tanti peccati da espiare: “Io sono un penitente” (1846*). Ma, anche per questo, la sua genialità religiosa e cristiana si era ingigantita, esistenzialmente: “Pri-ma di me non c’è stato nessun poeta che abbia avuto una conoscenza così profonda dell’esistenza, specie della realtà religiosa. Ma io non voglio essere poeta perché significa rapportarsi alla realtà solo con la fantasia. [...] Nel fondo tutti i pensatori moderni anche i più profondi (penso ai tedeschi) sono dei poeti” (2055*).

Lui era diventato scrittore non perché l’avesse imparato leggendo come fanno quasi tutti (e scopiazzando i modi e le forme); aveva vissuto tutto nella propria povera carne, quella dell’esistenza quotidiana che vivo-no gli uomini comuni, che non sono intellettuali: “Al giorno d’oggi si di-venta scrittori non per originalità, ma a furia di leggere. Si diventa uomini a furia di scimmiottare gli altri; non si sa più esser uomini da se stessi, ma in forma di un sillogismo: si è ‘come gli altri’, ergo si è uomini” (2506*).

Nessuno poteva negare che era diverso dagli altri, esistenzialmente e cristianamente: “Difficilmente, anzi nessuno scrittore in Danimarca potrà contestarmi la palma del genere dell’interessante” (2255*).

Anche perché, e soprattutto, riconosceva che non si può mai essere cristianamente borghesi, cioè cristiani fino a un certo punto dell’esistenza: “Rispetto a Dio non ci si può mettere in rapporto «fino a un certo punto», perché Dio è proprio la negazione di tutto ciò ch’è ‘fino a un certo punto’” (2936*). Non la sopportava tutta quella farsa cristiana, quell’ “ [...] astuzia del « fino a un certo punto»” (2043*).

Forse anche per questo aveva rotto il fidanzamento con la sua ama-ta Regina con cui il buon Dio l’aveva attratto, a un certo punto: “È stata la Provvidenza a servirsi di lei per accalappiarmi. Essa era colei che do-veva svilupparmi e poi la responsabilità nel rapporto a Dio” (2520*). Con lei (lo ripetiamo) si era sottoposto a un esame che non era intel-lettuale (come quelli che facevano i teologi prebendati per laurearsi e guadagnarsi la pagnotta): “Io ho subito un esame in più degli altri: ho

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permesso che l’interiorità del mio sentimento fosse esaminata da una donna. [...] Quindi questa ragazza è stato il mio esaminatore” (1984*).

Poi, lui aveva rotto il fidanzamento, solo perché voleva da tutto que-sto dolore una ferita religiosa: “La ferita ch’ebbi dalla sua mano, guidata però dalla mia, era e doveva diventare una ferita religiosa: il vincolo che lega è il rapporto a Dio” (2502*). Lei si era sposata con un altro, ma lui continuava a volerle bene come nessuno avrebbe potuto volerle: “Ma que-sta ragazza è uno strumento ch’egli [il marito che lei aveva sposato] non sa suonare: essa ha dei toni che soltanto io sapevo far sprigionare” (2586*).

Non aveva potuto sposarla perché riconosceva che era attratto da un’altra cosa (ben più attraente del santo piacere del matrimonio), da “un’esistenza religiosa decisiva per la quale mi sento attirato” (2380*). E così si era “fidanzato a quell’Amore che mi ha abbracciato” (2230*).

Faceva parte del suo compito: “La cristianità aveva veramente biso-gno al massimo grado di una persona celibe per riprendere in mano la causa del Cristianesimo” (1879*).

Di tutto questo non poteva che ringraziare: “Non posso mai rin-graziare abbastanza Iddio d’avermi concesso molto, infinitamente di più di quanto mi aspettassi” (1876*). Ringraziava senza sentirsi mai sicuro, senza essere mai un cristiano tranquillo: “In timore e tremore io lavoravo per la mia eterna salvezza” (1838*).

Aveva sofferto tanto; ma aveva anche ricevuto una Grazia incompa-rabile: “Io non ho avuto che la consolazione di sapere qualcosa che può rendere felice ogni uomo” (2741*)

Tutti, invece, si erano dimenticati che il Cristianesimo è qualcosa che fa felice il singolo uomo, e che la felicità cristiana è una felicità dell’uomo fatto di carne e ossa. E che non esiste quindi una felicità comunitaria, una felicità cumulativa, una felicità di massa, una felicità della “folla” o del “numero” quantitativamente numeroso dei cristiani.

E che è proprio la felicità del singolo uomo che viene fatto diventare cristiano ciò che fa iniziare e che dà l’avvio (per Grazia) alla felicità cri-stiana che, per questo, è anche di tutta quella gente che è felice anzitutto singolarmente: “Nella comunità il Singolo «è». Il Singolo è dialetticamen-te decisivo come un prius per formare la comunità. [...] Il principio di coesione per la comunità è che ciascuno sia il Singolo, e poi l’idea. Ogni

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singolo nella comunità garantisce la comunità. [...] La comunità è certo più di una somma, ma è però in verità una somma di unità. Il pubblico è un nonsenso, una somma di unità negative, di unità che non sono unità, che diventano unità per via della somma” (2128^).

Il problema era facile da risolvere: “Cercare di mettersi possibilmen-te con tutti, ma sempre come Singoli” (1398^). Si trattava, allora, solo di essere felici cristianamente (per Grazia), e cioè ognuno, singolarmente: “Il pericolo che la comunità sia presa invano e diventi sinonimo di «pubbli-co», «folla»; mentre si deve ricordare questa cosa sconosciuta, che non è il rapporto del singolo alla comunità che determina il suo rapporto a Dio, ma è il suo rapporto a Dio che determina il suo rapporto alla comunità” (2808^).

Era proprio facile, per Grazia, essere cristiani: “Iddio ha avuto a tal punto misericordia degli uomini, dopo aver mostrato la sua Grazia fino a voler mettersi in rapporto con ogni Singolo, ed è proprio in questo che consiste la Grazia” (3026^). Era proprio facile, grazie a Dio: “Mettiti pri-ma in rapporto con Dio e non con gli altri” (3026^).

Cristianamente è sempre stato così: la felicità non può che essere di questo e quell’uomo singolo, con la sua carne e le sue ossa. Era Dio stesso che aveva voluto fosse così: “Dio non vede che i singoli” (2372^). D’altronde, Dio non era entrato nella storia con quattro idee messe in cro-ce, ma si era fatto singolarmente un uomo di carne e ossa che incontrava uomini come lui. Questa, del “singolo”, in fondo era una legge di Dio, la legge della sua incarnazione. Anche Dio, quando si era fatto uomo, si era fatto un singolo uomo, con la sua carne e le sue ossa singolarmente sue: “Se Dio interviene, lo fa per mezzo del Singolo” (2440^).

Adesso, nei tempi che gli toccava vivere, era cambiato tutto: “Dio vuole degli «io», perché vuole essere amato. [...] La cristianità è un assem-bramento di milioni tutti alla terza persona: nessun io” (3067-4161^). Non si riconosceva che non era un problema di quantità di cristiani e del loro numero, possibilmente elevato: “La comunità cristiana è una società che consiste di singoli qualitativi; oggi la comunità cristiana è diventata identica al genere umano” (2826).

Tutti invece pensavano che mettendosi insieme, formando un buon numero di cristiani, si diventava più cristiani: “Si pensa che consocian-dosi si sviluppa una perfezione più alta. No, grazie, questo è un regresso”

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(1949). Per questo tutti si affannavano a creare comunità, ad aggregare seguaci cristiani: “Gli uomini credono che la causa ottiene maggiore velo-cità in proporzione dei seguaci che essi raccolgono” (2271).

Gli piaceva ripetere una frase di un tal Vinet, dieci semplici parole di cronaca storica di ciò che è il bel fatto cristiano: “Il Cristianesimo insegna la caduta del genere e il ristabilimento dell’individuo” (3458*). Questo era successo, questo bisogna riconoscere: il genere umano aveva contratto, nes-suno escluso, il peccato originale; ma la salvezza e la felicità cristiana sono una questione individuale e singolare, di ogni uomo salvato da Cristo.

A lui interessava il bel fatto cristiano, perché desiderava incontrare qualcosa che lo facesse felice; perché se non rendeva felice lui, singolar-mente, non poteva interessare neanche agli altri: “Si tratta di comprendere il mio destino, di vedere ciò che in fondo Dio vuole ch’io faccia, di trovare una verità che sia una verità «per me», di trovare «l’idea per la quale io voglio vivere e morire». E quale vantaggio potrei avere mai dallo scoprire qualcuna di quelle cosiddette verità oggettive, d’ingolfarmi nei sistemi dei filosofi e di poterli, al bisogno, passare in rassegna: di poterne dimostrare le incoerenze in ogni singolo problema? [...] Quale vantaggio dal poter sviluppare l’importanza del Cristianesimo, dal poter spiegare molti suoi particolari, quando per me e per la mia vita esso non avesse un significato più profondo? Qual vantaggio avrei io da una verità che si ergesse nuda e fredda, indifferente se io la riconosca o no, che mi causa piuttosto un brivido di angoscia invece di un fiducioso abbandono? Certamente non voglio negare ch’io ammetto un «imperativo della conoscenza» e che per via di un tale imperativo potrei agire sugli uomini; ma «bisogna che io l’assorba vitalmente» ed è «questo» ora per me l’essenziale. Di ciò ha sete ora l’anima mia, come i deserti africani sospirano l’acqua. Ecco quello che mi manca, e perciò eccomi come chi ha raccolto i mobili, preso a pigione stanze senza aver ancora trovato la sua amata” (55*).

Non gli interessavano le verità eterne ed oggettive, quelle dei teologi, dei pastori prebendati, dei clericali intellettuali della felicità cristiana: “Un discorso religioso non deve mai essere una verità astratta, perché altri-menti tutti lo capirebbero e tuttavia nessuno capirebbe un bel niente. È perché si tratta di te e di me, di questo e di quello, di Pietro o Paolo, del pentolaio, del rigattiere, del ciambellano [...] ma per ricondurre tutto (in concreto) all’Assoluto” (1133*).

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Nei suoi altri scritti, nei suoi altri libri scriveva spesso una frase non ambigua, anche se forse si poteva interpretare male, ma che era sana e bel-la, cristiana. Scriveva spesso che “la verità è la soggettività”. Con questo voleva solo dire una cosa semplice e cristiana: che se il bell’incontro con il fatto cristiano non era una cosa che corrispondeva a quello che lui deside-rava, non poteva interessargli, né avrebbe interessato e commosso nessun uomo sano di mente. Per lui, la verità non erano idee, dottrine clericali e teologiche; queste astrazioni non avrebbero potuto dare nessuna felicità alla sua povera vita. Gli interessava una verità che fosse piena di realtà, cioè che lo facesse felice, singolarmente. Voleva, per sé, una verità che non fossero idee e dottrine universali; voleva una verità che fosse fatta di realtà e che lo rendesse felice, che lo edificasse: “Solo la verità che edifica è verità per te” (849*).

Nessuno era d’accordo con lui, soprattutto quegli illuminati che vo-levano travestirsi da teologi, tutta gente per la quale tutto ciò che era sin-golare, esistenziale, cioè soggettivo, doveva essere superato e bisognava “andare più in là” (erano tutti gnostici), arrivare all’universale, all’oggetti-vo che era la vera realtà, la realtà più reale, cioè realmente oggettiva. Lui, invece, viveva un’altra cosa: più si era soggettivi e più si era oggettivi; cioè più uno era soggettivo, con la sua carne, le sue ossa, i suoi peccati e i suoi desideri, più era soggettivamente oggettivo (nel senso di reale) perché la sua carne e le sue ossa avevano bisogno di una felicità non inventata dall’uomo, di una felicità singolarmente reale, cioè avevano bisogno della soggettività reale di Dio, che il buon Gesù fosse esclusivamente per loro: “Tutti i pensatori più profondi (Hegel ecc.) concordano nel far consistere il male nella «soggettività isolata»; la salvezza sarebbe nell’oggettività. [...] L’oggettività deve essere salvata con la soggettività, cioè con Dio, che è la soggettività che costringe infinitamente” (2775).

Non poteva essere che così: se la felicità doveva essere qualcosa di oggettivo, doveva innestarsi in qualcosa che era vivo, che era soggettiva-mente esistente: “Si crede che l’oggettività sia superiore alla soggettività. Ciò che importa è che alla fine l’oggettività sia nella soggettività corri-spondente” (2141).

Gli illuminati avevano proprio cambiato la testa di tutti. Ormai tutti parlavano in terza persona, in nome della cricca a cui appartene-vano e che volevano difendere: “Nessuno dice: «io». Uno parla in nome

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dei «secoli», uno in quello del «pubblico», uno in quello della «scien-za», uno per ragioni di «ufficio»” (2473). Così erano tutti, come si dice, uno, nessuno e centomila: “Ogni comunicazione personale, ogni perso-nalità è svanita: nessuno dice «Io», né parla a un «Tu»” (2423).

Avevano tutti paura della felicità cristiana singolarmente imprevista e così parlavano come dei libri (e dei manuali di teologia) stampati: “Si è abolito il Cristianesimo perché dappertutto si è ricacciata indietro la per-sonalità. Pare si temi che l’io debba essere una specie di tirannia e che per questo ogni Io debba essere livellato, respinto, nascosto dietro una oggettività. Non mi sarà più permesso dire: «Io credo che c’è un Dio», [...] ma devo dire: «La dottrina del Cristianesimo insegna: io credo, ecc.». Ma questo è un Io più universale, non è il mio Io personale. Dovunque dottrina, oggettività” (2622).

Nessuno si accorgeva che, se si eliminava la relazione soggettiva del-la carne e delle ossa dell’uomo con la soggettività di Dio, non restava che il fatalismo, la relazione con un fato e un destino sconosciuto, capriccioso e assurdo: “Escludere la soggettività non si può a meno che non si voglia cadere nel fatalismo” (2708).

Un altro segno che nessuno era già cristiano era che nessuno ricono-sceva che proprio questa soggettività era la novità che il bel fatto cristiano aveva portato nella vita dell’uomo in confronto agli sfortunati (e grandi) uomini antichi: “Il contrasto con l’antichità, che usava la terza persona per indicare se stessi (perché la propria vita era un semplice accadere), è osare la cosa estrema dicendo: «Io», e dire senz’altro di se stessi la cosa più alta. Questo si vede chiaramente nell’uomo-Dio” (2583).

E se non c’era già più nessuno che voleva essere felice con le sue ossa e la sua carne temporale, dove Gesù e la sua Grazia avrebbero potuto incontrare un minimo di carne, un minimo di materia, un minimo di ossa per impiantarsi e fare felici?: “La maggior parte degli uomini non ha soggettività abbastanza perché la Provvidenza riesca veramente ad acca-lappiarli” (2097).

Proprio non poteva capire come gli uomini potessero vivere per una cosa che non li facesse personalmente felici. Non capiva come ci si potes-se tranquillizzare immaginandosi ovviamente cristiani, in stati cristiani, in popoli cristiani, contenti di essere in tanti, contenti di essere un buon numero e una buona folla e una buona comunità di cristiani.

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Ma giacché tutti erano tranquillamente cristiani, già non interessava a nessuno essere singolarmente e cristianamente felici: “Dal punto di vista cristiano è completamente errato dire: «L’umanità intera ha bisogno del Cristianesimo», e poi mettersi a dimostrarlo senza fine. Dal punto di vista cristiano si deve dire: «IO ho bisogno del Cristianesimo»” (3107*).

Non capiva come ogni uomo, singolarmente, non riconoscesse esi-stenzialmente la necessità di una felicità singolare, vissuta e sperimentata nelle sue ossa e nella sua carne, naturalmente singolari. Per questo lui scriveva sempre di quanto fosse importante il singolo uomo, la felicità del singolo uomo, non quella degli stati cristiani, non quella delle chiese di stato cristiane: “E per quale ragione faccio io tanto conto della categoria del «Singolo»? Semplicemente perché per essa e con essa si regge la causa del Cristianesimo. [...] Basta mettersi sotto la responsabilità eterna del Singolo perché ognuno possa diventare cristiano. Tutto il resto non sono che impiastri che fomentano la malattia” (1149*).

Non aveva inventato nulla di nuovo parlando della bella felicità del singolo cristiano anche se adesso non interessava a nessuno. Per questo suo suggerimento e insistenza forse lo avrebbero ricordato, dopo la sua morte: “A questa categoria [il Singolo] è legata assolutamente la mia pos-sibile importanza storica” (1616*).

Lui voleva solo dire che la felicità cristiana è una cosa che si deve provare nella carne e nelle ossa che appartengono ad ogni uomo, singolar-mente. Che non esiste la felicità delle comunità cristiane, degli stati cristia-ni, dei gruppetti cristiani; questa è una felicità da panteisti, che cioè non serve a nessuno. Si diceva che la felicità cristiana era di tutti, naturalmente di tutti; nel fondo, si diceva che non era di nessuno, che non c’entrava con nessun uomo: “Con questa categoria sta o cade la causa del Cristianesimo dopo che lo sviluppo del mondo ha raggiunto il grado attuale di riflessio-ne. Senza questa, il panteismo ha vinto assolutamente. [...] Ma il «Singolo» è e rimane l’ancora che deve arrestare la confusione panteista. [...] Il Sin-golo: questa categoria è stata finora usata dialetticamente in modo decisivo solo una volta, da Socrate, per dissolvere il paganesimo. Nella cristianità si dovrà usare, proprio in senso contrario, una seconda volta, per rendere i cristiani cristiani. Non è la categoria del missionario rispetto ai pagani a cui egli predica il Cristianesimo, ma la categoria del missionario nella cri-stianità stessa, per interiorizzare l’essere e diventare cristiani” (1616*).

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Non si era inventato nulla con questa sua insistenza sul “singolo”. È normale: una felicità che non sia singolarmente vissuta, sperimentata e provata, che felicità è? Non importa un bel niente che gli stati siano cristia-ni, che la cristianità sia ovviamente cristiana. Quello che interessa è che la Grazia faccia cristianamente felice ogni uomo, adesso, nel presente.

Lui ci soffriva vedendo come tutti erano ovviamente felici in stati cristiani, in comunità cristiane, in gruppetti cristiani che allontanavano ancora di più dal bel fatto cristiano: “Lo Stato si rapporta alla categoria «genere umano»; il Cristianesimo a quella del «Singolo»: da questo sol-tanto si può vedere che sono eterogenei” (2679*). Proprio perché nessu-no voleva essere singolarmente felice, nella sua carne e ossa quotidiane, si preoccupavano tutti di fare e organizzare gruppetti, partiti, cricche e comunità cristiane: “Il Singolo non vuole e non osa aver discepoli [...] Tutti ad eccezione di lui, si riducono a combriccole e partiti” (2691*).

Ma, se l’uomo-Dio non dava la felicità al singolo uomo, con la sua carne e le sue ossa, cosa diventava allora il povero Gesù? Soprattutto sof-friva vedendo a cosa si riduceva il povero Gesù se la felicità che Lui dona era solo un’ invenzione immaginata dai cristiani felici di vivere in stati e comunità e gruppetti cristiani. Leggiamo di nuovo quello che scriveva: “Appena si perde la categoria del «singolo», il Cristianesimo è abolito. Succederà allora che il singolo si rapporti a Dio attraverso l’umanità, attra-verso l’astratto, attraverso un terzo – e così il Cristianesimo è eo ipso abo-lito. Quand’è così l’Uomo-Dio è ridotto a un fantasma. [...] La cristianità attuale riduce Cristo a un puro fantasma nell’ordine esistenziale, benché affermi che Cristo era un uomo singolo” (1941^).

Non si era inventato nulla con questa storia cristiana del singolo uomo che ha bisogno di essere singolarmente felice. Non era colpa sua se Dio aveva voluto che fosse così: “Capisco sempre di più che il Cristianesi-mo è in fondo di troppa felicità per noi uomini. Si pensi soltanto a quel che significa l’osare credere che Dio è venuto al mondo anche per me: sembra quasi l’empietà più blasfema” (1700*). Dio stesso si era inventato que-sta storia del “singolo” e della sua felicità singolare: “Dio vuole degli «io» perché vuole essere amato. L’interesse dell’umanità è di porre dappertutto delle oggettività: è l’interesse della categoria del genere. La cristianità è un assembramento di milioni tutti alla terza persona: nessun io” (3067^); e, nello stesso senso, scriveva: “Dio deve avere gli uomini: ogni Singolo deve

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in fondo essere un tale Singolo, questa è l’esigenza di Dio” (2096).Invece il Cristianesimo era proprio una questione e una storia singo-

lare inventata da Dio anche perché il Dio cristiano è proprio singolare, è speciale, è imprevisto e crea delle affinità uguali a quello che Lui è: “Dio non può essere che affine al Singolo e solo il Singolo può avere un’affinità con Dio. Il Singolo è più del genere perché egli è tutto il genere e nello stesso tempo l’individuazione” (2834).

Per lui il peccato aveva attaccato direttamente il “singolo” uomo e l’aveva trasformato: “L’uomo era fatto per essere il Singolo: per via della colpa egli è diventato massa” (2843). E così, se Dio era così singolare nelle sue affinità elettive, era anche perché la storia umana di ogni uomo è fatta di poveri peccati singolari: “Sempre solo come Singolo un uomo può rap-portarsi a Dio nel modo più vero, poiché la idea della propria indegnità la si può avere meglio da soli” (1927).

Ma allora, il Dio cristiano non era minimamente confrontabile con quel destino così crudele delle tragedie greche, tragedie che adesso, nel-la cristianità moderna, si ripetevano ancor più tragicamente: “Il destino nella tragedia greca schiaccia l’eroe. [...] Il concetto generale, un astratto, il pubblico e categorie simili sono il Destino, il negativo contro il singolo, ma soltanto contro il singolo eminente” (2135^). Il Dio cristiano era pro-prio diverso: “Dio non vede che i singoli” (2372^).

A lui proprio non piaceva che trattassero Cristo come un’idea cri-stiana, come uno che era obbligato a entrare in un bel discorso pieno di idee cristiane: “La fede esprime un rapporto di personalità a personalità. La personalità non è una somma di tesi [...]” (2938^).

Voleva solo essere liberamente felice; voleva una libertà cristiana-mente felice. Altrimenti non sarebbe stata la sua felicità, quella della sua ragione e della sua libertà terrene.

Riconosceva che davanti a Cristo non si tratta di star lì a discutere sul libero arbitrio e sulla possibilità di scegliere una cosa o l’altra. Per lui era troppo poco una libertà di scelta, era troppo intellettuale una libertà così perché, alla fin fine, non lo faceva cristianamente felice. In fondo, tutte queste discussioni sul libero arbitrio erano solo sogni e vaneggiamenti intellettuali buoni solo per i professori e i pastori prebendati: “Il libero arbitrio, puro e semplice, è una chimera” (2681*).

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Peggio che peggio era sostenere, come faceva quel tale, Kant, di le-garsi a un dovere che la ragione stessa voleva: “Se ciò che lega non è qual-cosa di più alto dell’Io stesso e tocca a me legare me stesso [...] Tutte le individualità eminenti sono veri strumenti, son tutti costretti” (2771*).

Anche perché, davanti allo splendore del bel fatto cristiano non c’è possibilità di scelta. Quando uno è cristianamente attratto, è come obbliga-to a seguire quello che lo attrae, deve seguire e andare dietro a tutta questa bellezza; e, se non lo fa, vuol dire che è stupido, che non è libero. Solo a uno stupido piace seguire il suo libero arbitrio. In questo era proprio d’accordo con il suo amico antico, con il gran Agostino anche lui così esi-stenziale: “Oh, quanta verità ed esperienza c’è in ciò che Agostino dice della vera libertà (diversa dalla libertà di scelta): il sentimento più forte l’uomo l’ha quando, con una decisione piena, imprime alla sua azione quell’inte-riore necessità che escluda il pensiero di un’altra possibile scelta” (3451*).

In un appunto scritto un giorno in cui forse era particolarmente ispirato, aveva detto che tutta la bellezza della libertà cristiana non con-siste tanto nel poter scegliere, ma nel scegliere quello che attrae così esi-stenzialmente che non si può non scegliere, che non si può non volere (a meno di essere stupidi): “Il Cristianesimo può dire ad un uomo: tu devi scegliere l’unica cosa necessaria, ma in modo che non ci debba essere questione di scelta. Cioè se ti perdi in chiacchiere senza fine, tu in fondo non scegli più la cosa necessaria. Così dunque c’è qualcosa rispetto alla quale non si deve scegliere, e secondo il cui concetto non vi può essere questione di scelta e che pure è una scelta. Quindi: proprio questo, che non c’è alcuna scelta, esprime con quale intensità e passione immensa uno sceglie. Si potrebbe esprimere con precisione maggiore che la libertà di scelta è solo una determinazione formale nella libertà? E che proprio l’accentuazione della libertà di scelta come tale è la perdita della libertà? Il contenuto della liberta è decisivo a tal punto per la libertà, che la verità della libertà di scelta è appunto di ammettere che qui non ci deve essere scelta, benché sia una scelta. Proprio per questo la libertà dà tanti fastidi agli uomini, in quanto essi restano sempre attaccati alla libertà di scelta. La riflessione – che a sua volta dipende dalla pigrizia – si mette a fissare la libertà di scelta invece di rammentare il principio: «non vi deve essere scelta» – e poi scegliere. Per quanto sembri strano, si deve dire perciò che solo il timore, il tremore e la costrizione possono aiutare un uomo a

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diventare libertà: possono costringerlo a non scegliere e quindi a scegliere bene. Dio è il miracolo dell’amore infinito: ‘Mi vuoi tu, sì o no? E aspettare un secondo solo per la risposta. Ma ahimè l’uomo ragiona così: se la scelta è lasciata a me stesso, allora voglio prendermi un po’ di tempo, voglio riflettere prima per davvero, seriamente sulla cosa. Triste anticlimax! La «serietá» è appunto di scegliere Dio subito e «anzitutto». Così l’uomo non indugia ad arrabattarsi col fantasma delle prove della libertà di scelta, se l’abbia o non l’abbia, ecc. E perfino a provarla scientificamente! E non s’accorge che a questo modo ha perduto la libertà” (2793).

In fondo, la libertà cristiana che è felice di essere attratta, deve solo cedere davanti alla bellezza di Gesù e alla sua estetica così attraente: “Ri-spetto a Cristo si vede che la religiosità cristiana costituisce una sfera a sé, dove i rapporti estetici ritornano ma, paradossalmente, contro la legge ordinaria, più alti di quelli etici. Perché esteticamente (qui non si conside-ra che il rapporto a un modello umano) è l’ammirazione la cosa più alta. Davanti all’uomo-Dio importa soprattutto l’adorazione e solo attraverso l’adorazione si può voler imitare. Bisogna inoltre che sia il Modello stesso ad aiutare chi Lo deve imitare” (2134*).

Il Cristianesimo per lui era una questione estetica perché c’era di mezzo un’attrattiva, l’essere affascinati e attratti dallo splendore di Gesù che non si può non desiderare e volere proprio perché si manifesta nella sua umanità così terrena e temporale: “L’attirare è un concetto composto (due fattori) specialmente quando si tratta di attirare un essere libero (che deve lui stesso scegliere). Anzitutto tu devi sentirti attirare a Lui dal suo abbassamento, altrimenti l’altezza è un’illusione” (1891*).

Aveva scoperto, insomma, che uno è libero quando non ha possi-bilità di scelta, quando il bel fatto cristiano che lo attrae è troppo bello cristianamente per non seguirlo. Anche perché, questo è l’unico modo di essere liberamente felici: “Il Cristianesimo può dire ad un uomo: tu devi scegliere l’unica cosa necessaria, ma in modo che non ci debba essere questione di scelta. [...] Proprio questo fatto, quindi, che non c’è nessuna scelta, esprime con quale intensità e passione immensa uno sceglie. [...] L’accentuazione della libertà di scelta come tale è la perdita della libertà. Il contenuto della libertà è decisivo a tal punto per la libertà, che la verità della libertà di scelta è appunto di ammettere che qui non ci deve essere scelta, benché sia una scelta” (2148^).

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Per lui, essere cristianamente liberi voleva dire dipendere felicemen-te da quello che lo attraeva: “La vera libertà consiste in un libero appro-priarsi del dato e dunque nell’essere attraverso la libertà assolutamente dipendente” (662*).

Questo, cristianamente, non lo potevano capire quegli intellettuali della felicità che volevano che i cristiani fossero ovviamente felici di essere cristiani negli stati, nelle comunità e nei gruppetti cristiani: “Che Iddio possa creare delle nature libere al Suo cospetto, è la croce che la filosofia è impotente a portare ma a cui è stata conficcata” (485^).

Adesso, lui lo riconosceva, si poteva essere contemporanei a Cristo solo essendo contemporanei con coloro in cui viveva la Grazia e la pre-senza di Gesù: “Lo sforzo per divenire ed essere cristiani consiste nella «contemporaneità» con un cristiano nel senso più rigoroso, la contempo-raneità quindi con un apostolo è tanto spossante che nessuno di noi riesce a viverla [...] Ed ora, che sarà mai la contemporaneità con lo stesso Cristo? Il miracolo, tutti i miracoli della compassione di Cristo per i tribolati e i sofferenti, sono un sollievo e un lenimento indispensabile, altrimenti vive-re con Cristo sarebbe stato impossibile. Se Egli si fosse presentato soltanto per un giorno come puro spirito, il genere umano si sarebbe spezzato” (1996^).

Alla fin fine, se essere cristianamente liberi vuol dire dipendere da ciò che fa contenta la ragione e la libertà dell’uomo, a lui non dispiaceva tanto l’idea antica, quella delle amicizie cristiane che vivevano e obbe-divano in un chiostro, per essere liberamente felici: “Nei tempi antichi, quando si capiva che il Cristianesimo era un esistere, un’imitazione, an-che il tirocinio era essenzialmente di natura disciplinare: pratiche di ob-bedienza, esercizi di abnegazione, di ascesi, ecc. Quando il Cristianesimo fu ridotto unicamente a dottrina, la prova per diventare maestro furono gli esami eruditi: l’esistenza è completamente assente” (2377^).

E non si può proprio dire che si rinuncia alla propria libertà, quella “singolare”, quando si accetta di dipendere liberamente da un’amicizia cristiana che aiuta la nostra povera carne umana e cristiana: “L’importanza della socialità religiosa si basa in sostanza su questo, che quando l’idealità del rapporto con Dio è divenuta troppo forte per il Singolo (poiché egli non può esigere da Dio una rivelazione immediata e resta prigioniero del-

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la sua riflessione) egli deve avere un altro uomo con il quale consultarsi. Si vede da ciò che la socialità non è la cosa più alta, ma una concessione alla debolezza della natura umana” (1925^).

D’altronde – lui lo soffriva nella sua povera carne – , è proprio diffici-le vivere cristianamente se nessuno ti aiuta, se non c’è un amico cristiano benedetto: “Se ti accorgi che Dio ti assoggetta ad uno sforzo eccessivo, prendi pure per aiuto il rapporto umano. [...] e lo prendi come qualcosa che Dio benedice” (2572*).

Dopo il peccato originale era proprio difficile vivere cristianamente da soli. Lo aveva capito fin da giovane, quando aveva scritto nel suo Dia-rio che questa libertà che si vive cristianamente insieme con altri cristiani è una necessità esistenziale dopo la tragedia del peccato originale: “Lo stesso peccato originale non implica forse la dottrina della funzione della Chiesa, del suo tesoro di buone opere e del beneficio che questa Chiesa porta con sé (secondo il suo concetto cattolico) come il solo contrappeso adeguato?” (254*).

Perfino Gesù, che era senza peccato, aveva dimostrato di essere Dio proprio perché si era fatto degli amici, perché stava con quei quattro gatti che lo seguivano e che Lui andava a cercare tutti i giorni sulle rive del lago dove pescavano: “A Lui, Cristo, che in un certo senso non può fare a meno degli apostoli, perché un paio di uomini gli sono indispensabili: ecco una cosa sovrumana!” (2715*). Anche Gesù – che non era un su-perman, ma era Dio fatto di carne e ossa aveva avuto bisogno (mistero della sua condiscendenza) di quei quattro gatti di pescatori che andava a cercare tutti i giorni: “Anche Cristo non può fare a meno di un paio di uomini” (2311*).

Era un povero cristiano, educato da un padre protestante che gli aveva messo nelle mani e davanti agli occhi solo le Scritture, un libro, insomma. Ma lui non si era accontentato di questa felicità libresca, da intellettuale erudito.

Aveva proprio un cuore cristiano e Gesù era l’unica cosa che non voleva perdere; per questo viveva in timore e tremore. Aveva una nostal-gia, come un “pungolo nella carne”: quella di vedere nello stesso modo in cui avevano visto i primi discepoli che erano stati felici: “Ecco l’impor-tante nella vita: aver visto una volta qualcosa, aver sentito una cosa tanto

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grande, tanto magnifica che ogni altra cosa sia un nulla al suo confronto e anche se si dimenticasse tutto il resto, quella non si dimenticherebbe mai più” (219*).

Un giorno si era proprio stupito leggendo quella frase del Vangelo quando Gesù parla ai suoi apostoli dei loro occhi felici. Nel suo Diario aveva scritto: “«Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete» [Lc. 10,23]: deve valere per tutti, deve essere per tutti senz’altro una beatitudine l’es-sere o l’essere stati contemporanei con Cristo, il vedere ciò che solo il credente può vedere” (2371*).

Tutti, nella cristianità stabilita erano diventati degli intellettuali a cui bastava una dottrina teologicamente ortodossa che li lasciasse stare in pace e tranquilli; era tutta gente che già non aveva bisogno di miracoli: “As-surdo aguzzare l’ingegno per provare l’assurdità, l’inverosimiglianza del miracolo. [...] No, il miracolo rimanga quello che è, oggetto di fede. La disgrazia è che il Cristianesimo è divenuto un compito di pensiero per comodità di tutte le teste svelte e speculanti” (2288*). Era tutta gente che non aveva bisogno di miracoli perché, per loro, il vero miracolo era che erano in tanti ad essere cristiani, erano proprio un bel numero: “Questo continuo parlare che il Cristianesimo sarebbe più vero perché ora conta tanti milioni di cristiani. Si dice: quando il Cristianesimo entrò nel mondo aveva bisogno di miracoli perché i cristiani erano pochi; ora che son tanti [...] (già ormai quasi tutti son cristiani!) ora non c’è bisogno di miracoli. A me sembra che sia ora bisogno maggiore di miracoli” (2308).

Lui, invece, credeva ai miracoli, era forse l’unico, in quel tempo, che riconosceva la necessità dei miracoli: “C’è bisogno di miracoli in ogni ge-nerazione” (3950*). Ecco, lui desiderava, per sé, il miracolo degli stessi occhi felici degli apostoli quando guardavano Gesù.

Non gli interessava un Gesù spirituale, spiritualizzato e mistico, un Gesù che bisognava chiudere gli occhi per immaginarselo. Un Gesù spiri-tuale era solo un indifferente che non si commuoveva davanti a tutto quel-lo che devono soffrire i poveri uomini terreni: “Non si deve mai dimen-ticare che Cristo si prestò anche a lenire le necessità temporali di questa vita. Si può anche, sbagliando prospettiva, rendere Cristo così spirituale da farlo apparire crudele” (2589*).

Voleva e desiderava che il buon Gesù si rivelasse davanti ai suoi occhi e così lo facesse partecipare della Sua felicità: “Cristo dice: «Colui

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che mi ama, a lui Io mi rivelerò» (Jo. 14,21). Così è dappertutto. Ciò che uno ama, anche si rivela a lui; a colui che ama la verità, essa si rivela, ecc. Perché di solito si crede inattivo colui che riceve e che la cosa che si rivela sia quanto si comunica a lui. Ma la realtà è che colui che riceve è l’amante; e così la cosa amata si rivela a lui, perché egli dall’amore è trasformato a somiglianza della cosa amata; e il diventare la cosa amata è, per l’appunto, l’unico modo serio di comprendere; si comprende qualcosa soltanto in quanto la si diventa. Si vede del resto qui che amare e conoscere (jadá) sono essenzialmente sinonimi; e come amare significa che l’altro si rivela, così significa che anche noi stessi in esso ci riveliamo” (2004*).

Voleva, per lui, per la sua felicità cristiana, un atto d’amore di Gesù, temporale, terreno e geografico, che lo abbracciasse nella sua povera e miserabile Copenhagen: “La fede si deve conoscere dall’amore e questo non è invisibile. [...] L’amore è atto d’amore. L’amore di Cristo non era quel sentimento interiore e quel cuore profondo, ma l’atto d’amore in cui riassumeva la sua vita” (2378*).

Aveva tanto sofferto, soprattutto per quella sua “spina nella carne”; però non voleva perdere l’amore di Cristo per un suo tornaconto: “Desi-dero e supplico che la spina sia tolta, ma non per questo mi dimenticherò di Dio [...]. Questo mai! Se col farmi togliere la spina avessi da sentire meno viva la mia unione con Dio, lasciatela pure stare” (2683*)

Voleva stare con Gesù, non voleva essere felice che con Lui. Si ricor-dava sempre quello che era successo ai discepoli di Emmaus quando, a un certo punto, Gesù voleva lasciarli e andare in un altro posto e loro lo avevano supplicato di non abbandonarli. Anche lui voleva che Gesù ri-manesse e non lo abbandonasse: “Rimani con me! È di questa compagnia che l’uomo ha bisogno” (2740).

Intorno a lui c’erano solo intellettuali e professori prebendati: “Vi sono state ore in cui ho sentito come un bisogno di avere un uomo, un asceta con il quale poter parlare. Ma dappertutto, dove volgo lo sguardo, scorgo solo l’abominio del professore docente, il quale esistenzialmente non conosce che prebenda e carriera” (3664*). Adesso c’era solo un gran numero di cristiani, una folla di cristiani coi loro pastori prebendati. Lui avrebbe voluto incontrare un cristiano in cui il buon Gesù si facesse ve-dere con la sua Grazia e bellezza: “Un cristiano essenziale io non l’ho mai visto. [...] Mille di pastori e circa due milioni di cristiani” (1903*). Non

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aveva neanche un cane di cristiano con cui parlare: “E magari potessi par-lare con qualcuno; io in fondo non ho nessuno con cui parlare” (2233).

Cosa avrebbe dato per uno sguardo come quello degli apostoli! Cosa avrebbe dato per avere un contatto vitale, sensibile, cioè coi

suoi cinque sensi carnali e temporali, almeno con qualcosa che era di Gesù!: “E se fosse stata possibile questa cosa impossibile, che cioè, in qualche luogo della Giudea, forse in un sentiero di campagna dei meno battuti, si fosse conservata l’impronta dei Suoi Piedi: cosa non si sarebbe data per avere quelle poche zolle di terra e poter veramente calcare l’orma dei Suoi Piedi?” (1976*).

Ma a lui avevano messo in mano solo le Scritture, un libro, insom-ma. Per lui, era tutta un’altra cosa avere tra le mani un libro e avere nello sguardo quello che avevano visto gli apostoli: “La Sacra Scrittura è l’indi-catore stradale, Cristo la strada” (1356*).

Lui sapeva che la Bibbia era come la lettera che l’amante scriveva all’amata (3112*). Ma, a lui, interessava questo amante e vederLo come gli apostoli. Aveva nelle mani il libro più nuovo, l’ultimo, il Testamento Nuovo che avevano scritto gli apostoli; però desiderava avere negli occhi quell’uomo che avevano visto quei poveri pescatori. Proprio non gli in-teressava una felicità cristianamente erudita: “Leggi il Nuovo Testamento senza commenti. Chi è quell’innamorato a cui verrebbe in mente di leg-gere una lettera dell’amata con tanto di commento vicino? In rapporto a tutto ciò che per la sua qualità pretende di avere un’importanza puramente personale, un commentatore è un intruso molto pericoloso. Se la lettera della mia amata fosse scritta in una lingua che io non capisco: ebbene im-parerei quella lingua, ma non la leggerei col commento di altri. Io la leggo: e quando il pensiero dell’amata è proprio presente davanti a me ed ho il proposito di volere tutto ciò che vuole la volontà e il desiderio dell’amata, non mancherò di capire da me. Così con la Sacra Scrittura” (2883*).

Non aveva scritto i suoi libri per amore dell’arte, per diventare famo-so; e il suo Diario quasi quotidiano, la cronaca semplice e sofferta della tragedia della cristianità, avrebbe dovuto solo far piangere chi lo leggeva: “Mi sembra di aver scritto delle cose che dovrebbero commuovere le pie-tre fino alle lacrime: ma ciò non muove i miei contemporanei che allo scherno e all’invidia” (1788*).

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Alla fin fine, dopo aver ascoltato tanti discorsi ovviamente cristiani, tante idee tranquillamente cristiane, alla fin fine, dopo aver vissuto in mezzo a tanti “professori” e clericali prebendati della felicità cristiana, alla fin fine non gli rimaneva che una semplice preghiera. Anche perché non si è mai così simili a Dio come quando lo preghiamo. Anche Dio prega: “E come colui che ha orecchi per udire, ha anche la capacità di domandare; così anche Iddio. Egli domanda con più insistenza di qualsiasi altro. Egli domanda: infatti che altro è la coscienza se non domanda! Egli domanda nelle molteplici congiunture della vita e quando ha domandato, inclina il Suo orecchio verso di te per sentire [...] e tu non Gli vuoi rispondere” (803*). La preghiera non è una cosa difficile, anzi è facile (per Grazia), è la relazione con il buon Dio e il suo Gesù che diventa facile, leggera, come un bambino quando prega prima di dormire: “Il pregare ci rende anche leggeri nel rapporto con Dio, altrimenti Egli ci potrebbe sopraffare completamente” (1856*).

Non pregava per cambiare il mondo e per riformare quello che non andava nella cristianità. Pregava per la sua povera felicità cristiana, in ogni momento, come un respiro che non si fa nessuna fatica a farlo: “Giusta-mente gli antichi dicevano che pregare è respirare. Qui si vede quanto sia sciocco voler parlare di un «perché». Perché io respiro? Perché altrimenti morrei. Così con la preghiera. E come respirando non presumo di trasfor-mare il mondo, ma solo di riprodurre in me stesso la vitalità di «essere rinnovato», così con la preghiera in rapporto a Dio” (2020*). Natural-mente (cristianamente) la preghiera di un povero cristiano è una cosa facile perché c’è di mezzo Gesù e la sua Grazia: “Io non oso avvicinarmi a Dio senza il Mediatore; la mia preghiera può essere esaudita, solo nel Nome di Gesù; ciò che alla preghiera dà forza, è questo Nome” (2582*)

Lui era un povero cristiano che nessuno voleva ascoltare nella cri-stianità che andava allo sfacelo. Gli erano rimaste solo le semplici pre-ghiere, come quelle dei bambini che dicono qualcosa a Gesù prima di addormentarsi nelle braccia della mamma: “La mia preghiera è diventata un tranquillo e dolce abbandono a Dio, dato che non vedo chiaro come debba pregare” (2766^). Lui che aveva sofferto tanto, aveva trovato in un vecchio libro di spiritualità cristiana una frase che gli piaceva molto per-ché diceva come si sentiva davanti a Dio e a Gesù: “Presso colui che soffre Iddio dorme un sonno leggero, come dorme la madre accanto al bambino

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malato, perché possa svegliarsi appena il bambino si muove” (2979*). Nel deserto della cristianità, lui pregava il suo Gesù che lo attirasse

come aveva fatto tanti secoli prima con quei poveri pescatori: “Signore Cristo Gesù, tante cose ci trattengono e vogliono attirarci a sé; ognuno ha le sue cure che sono tante! Tu che sei eternamente il più forte attiraci ancora più fortemente a Te” (1554*).

Nella sua povera esistenza singolare e temporale, attratto dal suo Gesù, gli correva incontro, lo supplicava.

Questo gli avevano donato Gesù e la sua Grazia. Non si può proprio dire che fosse poca cosa. In fondo, aveva combattuto umanamente e cri-stianamente (nella sua esistenza singolare e quotidiana) la buona battaglia della fede: “In questa fede io vivo, in essa spero con la Grazia di Dio di morire” (1868*). Non si deve pensare che a lui, un così povero cristiano, fosse chiesto qualcosa in più.

Non si deve mai misurare la Grazia che Gesù dà ai poveri cristiani.

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Finito di stampare nel mese di Dicembre 2009da Tipolitografia Martin – Cordenons (Pn)