Atti convegno: Di chi sono le politiche giovanili?

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Atti del convegno Di chi sono le politiche giovanili? organizzato dalla cooperativa Il Sestante di Treviso

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La cooperativa sociale Il Sestante si occupa di politiche sociali, di progetta-zione, attivazione e gestione di processi sociali. Il principale ambito di lavoro è costituito dalle politiche giovanili e di comunità, secondo un approccio che pro-muove la partecipazione attiva, la citta-dinanza dei singoli e dei gruppi e della comunità, lo sviluppo di empowerment.Il Sestante opera in questo senso da vent’anni, e più precisamente dal marzo del 1989.Il progetto “Di chi sono le politiche giovanili?”, concretizzatosi in un wor-kshop, svoltosi a Caerano San Marco nell’ ottobre del 2009 e di cui questo volume riporta gli atti, parte probabil-mente da lì, dal marzo del 1989.

I vent’anni trascorsi nel territorio della provincia di Treviso e in quelle limitro-fe a sperimentare, costruire, elaborare e gestire progetti di politiche giovanili, in partnership con enti locali, Ulss, altre cooperative, associazioni, hanno segnato la cooperativa, spingendola ad aumenta-re le proprie competenze, a svilupparle, ad aprire riflessioni meta-progettuali, sulle metodologie, sul senso e le finali-tà, sulle potenzialità e i limiti del la-voro sociale. Tutto ciò in un territorio particolare, analizzato da studiosi di diversa estrazione e competenza, ma per lo più valutato secondo parametri politico-economici, urbanistici, al limite turistici, solo raramente secondo la lente delle politiche sociali, del welfare, che è

Introduzione al progetto “Di chi sono le politiche giovanili?”

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mutato e continua a mutare.I vent’anni del Sestante fanno perciò nascere l’idea ai soci e lavoratori della cooperativa stessa: far diventare questo traguardo temporale un elemento gene-rativo di riflessione. Misurarsi solo con i risultati fin qui raggiunti sarebbe stato autocelebrativo e inutile rispetto ai terri-tori, ai giovani e alle politiche giovanili: quindi la volontà è diventata quella di fare il punto sulle buone prassi ed espe-rienze importanti fin qui maturate nei territori coinvolti, perché fossero un ele-mento da condividere con i giovani e i responsabili politici e tecnici, in un siste-ma articolato che permettesse di imma-ginare contenuti e metodi del futuro delle politiche giovanili, contribuendo ad una riflessione già in atto a livello regionale, nazionale e comunitario. Da questa idea prende corpo il progetto: diventa un progetto finanziato a livello comunitario, dall’Agenzia Nazionale per i Giovani, attraverso il programma europeo Gioventù in Azione, azione 5.1. Diventa anche una scommessa importante per la cooperativa, perché si tratta di un progetto articolato, ma concreto nell’incontro con il territorio; un progetto di cui la cooperativa è tito-lare, assumendo così soggettività e visi-bilità nel territorio, parlando in prima persona.Il progetto, in sintesi, ha in sé un’idea: far incontrare e confrontare giovani, politici e tecnici sul tema delle politiche

giovanili. Aprire ad un confronto tra chi decide, chi ha le competenze, chi è in balìa tra il ruolo di cittadino partecipe e quello di destinatario-utente. Il progetto prevede un percorso, che parte a marzo del 2009 facendo il punto sulle politiche giovanili presenti nel territo-rio, passa attraverso la costituzione di un gruppo di lavoro capace di pensare, ragionare e progettare un momento di confronto, che avviene, a conclusione del progetto, il 15, 16 e 17 ottobre 2009, e si concretizza in un workshop, dal titolo “Di chi sono le politiche giovanili?”Le preoccupazioni iniziali erano mol-te, anche di carattere metodologico. La prima riguardava i giovani, e più pre-cisamente il loro potenziale interesse in un progetto che voleva aprire loro un importante spazio di confronto, ma con il rischio che fosse “neutro”, privo di territorialità, di ricadute concrete sul proprio ambito di vita. A questo dub-bio abbiamo avuto ampia ed esaustiva risposta durante il workshop, visto il livello altissimo del contributo dei giova-ni; la seconda preoccupazione era lega-ta alla necessaria fluidità che il gruppo doveva avere: essendo rivolto ad un po-tenziale bacino di utenza molto ampio, dovevamo prevedere che il gruppo fosse in continua evoluzione, in termini di numeri, ma anche di idee, di opinioni, e che allo stesso tempo chiunque potesse entrare capendo il contesto in cui si stava inserendo. Altrimenti si sarebbe corso il

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rischio di escludere chiunque non fosse stato coinvolto fin dall’inizio. Abbiamo scelto di lavorare mantenendo una strut-tura a “fisarmonica”: ogni tema, dibat-tuto durante un incontro, veniva conclu-so durante lo stesso, e tutto era riportato nei verbali. In sostanza, ogni incontro era a sé stante, bastava a sé stesso, aveva un inizio e una fine, cosicché chiunque entrasse nel gruppo durante l’incontro successivo non si sentiva spaesato, trova-va subito il filo del discorso, acquisiva da subito diritto di cittadinanza nel proget-to. Infine, non eravamo sicuri di poter interessare tecnici e politici, quasi che il nostro fosse un tentativo velleitario: an-che questo dubbio è stato fugato durante il workshop.

L’idea ci è piaciuta. Ci è sembrata buo-na, anche e soprattutto visti i risultati, visto il workshop, respirato il clima di quei 3 giorni. Ci ha fatto venire voglia di avere altre idee, ma la stessa voglia è venuta anche ai giovani, a molti politici, ad alcuni tecnici. E questo è sicuramente un risultato inatteso, e positivo.

Mirko Pizzolato, coordinatore del progetto

Andrea Pozzobon, presidente de Il Sestante

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Proporre una riflessione sul cam-mino di questi vent’anni come percorso di crescita della coope-rativa Il Sestante significa adden-trarsi in un terreno impegnativo, fertile e insidioso allo stesso tempo.È un terreno fertile perché riap-propriarsi della propria storia, connettere tasselli che fin qui co-stituivano memoria di una piccola parte dei soci e dei lavoratori, è una scelta che fa della narrazione un tesoro inestimabile e dell’ascol-to uno strumento straordinario di formazione, umana e professionale.È altresì un terreno insidioso per-ché il carattere celebrativo può contaminare l’analisi di un per-corso di crescita e maturazione

operativa che, per essere genera-tivo, deve costruirsi in maniera critica, attenta, non banalizzante.Per un socio e lavoratore come me, che fa parte della cooperativa Il Sestante solamente da quattro anni, questo intervento è stato un momento importante di appro-fondimento e ricerca, condiviso con altre persone (Elena Zanatta, Riccardo Mastromonaco, Andrea Pozzobon e Gianni Troncon), che deve molto a riflessioni di equipe e di ambito. Vi chiedo così un ascolto paziente e aperto. I riferimenti specifici, a volte espressione di progetti operativi più o meno datati, a volte appro-fondimenti anche teorici, sono

Politiche giovanili: dai territori dell’agire alle consapevolezze pedagogiche

Intervento introduttivo della cooperativa Il Sestante curato da Andrea Conficoni, Elena Zanatta, Riccardo Mastromonaco, Andrea Pozzobon.

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tutti messi alla vostra e nostra at-tenzione perché ci appaiono come focus meritevoli, per valenza stori-ca, sociologica o per valore peda-gogico e politico, del nostro ope-rare nel territorio come all’interno della nostra stessa organizzazione.Tracciare dunque una lettura del-le politiche giovanili costruite fin qui, sia attraverso conquiste ge-nerative che per faticose sconfit-te, significa, in questa occasione, approfondire l’impatto che il no-stro operare, il nostro restare tra giovani e comunità, ha avuto dal punto di vista sia progettuale che organizzativo.In questo slancio vogliamo pro-porre altresì suggestioni e rifles-sioni che contribuiscano al lavoro di questo workshop, evento im-portante perché promuove con-taminazioni, confronti che non possono far altro che arricchire e potenziare il nostro lavoro sociale, nostro come di pertinenza di gio-vani, tecnici, operatori e politici e, perché no, cittadini. Questo contributo si sviluppa quindi su una linea immagina-ria, non priva di curve, di avanti e indietro, che collegherà la defi-nizione degli obiettivi progettuali, le metodologie di lavoro, lo spet-tro degli attori coinvolti nell’arco di un periodo storico comunque importante. Percorreremo questa linea di ri-

flessione per tracciare un quadro di riferimento sul nostro agire nel lavoro sociale con i giovani, che possa contribuire alla crescita di consapevolezza di come agiamo e di dove andiamo, non solo come singola cooperativa ma come ven-taglio di espressioni di politiche giovanili.

L’inizio: dal focus del rischio a quello delle relazioni.I primi progetti si sono mossi su uno sfondo particolare: l’inter-vento di politiche giovanili si defi-niva come prevenzione al disagio, come intervento incentrato sulla riduzione dei fattori di rischio, che potevano portare soprattutto all’uso e abuso di sostanze. Come ci ricordano Croce e Vassura (2008), questa centratura rispetto ai giovani aveva il peccato origi-nale di definirsi associando ai gio-vani il problema, l’emergenza, il rischio. I primi interventi si sono appoggiati, dunque, sull’equazio-ne giovani - disagio: un’equazione che impediva di collocare l’ope-rare tra i giovani come scoperta e ricerca di una diversità e di una pluralità di fondo. Un’equazione che causava uno sguardo indiffe-renziato, incapace di avvicinarsi ed operare nei territori in prospet-tiva critica e di ricerca sui caratteri storici, culturali, socio-economici che disegnano le interazioni tra

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individui e gruppi e tra questi e il contesto di appartenenza.La possibilità di stare in strada, di ragionare a livello di equipe e gruppi di discussione non solo locali ma anche regionali, ha per-messo però di fiutare nuovi ap-procci alla “questione giovanile”. Se inizialmente gli obiettivi che andavano a guidare gli interventi di educativa di strada nei quartie-ri popolari di Treviso, o in alcuni comuni limitrofi come Villorba, si definivano attorno alla ricerca dei fattori di rischio e nel loro suc-cessivo contenimento, lo sguardo si spingeva poi sulla relazione tra giovani (a rischio) e la comunità, intesa come quartiere, come pae-se, frazione. Si opera così un cambio di pro-spettiva non indifferente, fonda-mentale per quella che poi sembra definirsi sempre più come un cri-terio condiviso: il lavoro di strada si costruisce e giustifica non come approccio per capire i fattori di ri-schio ma come terreno operativo per collocare questi stessi fattori di rischio nella relazione tra giovani e adulti all’interno di una comu-nità. È un’apertura importante al la-voro sociale in ottica relazionale: i giovani, seppur ancora in balìa di una cultura che ne faceva più degli oggetti che dei soggetti di intervento (vedi politiche dell’affi-

liazione – Colleoni 2006), veniva-no collocati all’interno di relazio-ni, e attraverso queste prendevano corpo gli interventi. Gli obiettivi progettuali si raggiungevano co-struendo relazioni, non cercando di cambiare le persone, i giovani, ma le loro possibilità di interazio-ne all’interno della comunità e con il mondo adulto.Pensandolo vent’anni fa, tutto questo non appare affatto sconta-to. Si è lavorato molto, tra speri-mentazioni e tentativi, per andare a:● definire e collocare il senso del proprio intervento nel territorio come operatori di strada;● definire il proprio ruolo all’in-terno di progetti comunque speri-mentali, sia ai propri occhi sia in rapporto ai giovani e adulti che si incontrano.● costruire ex-novo e adattare stru-menti e metodologie operative ef-ficaci.● definire le competenze necessa-rie da mettere in campo.

Si compone così, anno dopo anno, un quadro operativo che cerca di costruire le politiche gio-vanili come promozione di conte-sti e vissuti relazionali generativi, tra giovani e operatori, tra giovani e adulti. Questo ha fatto crescere i proget-ti sia attraverso l’emersione delle

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rappresentazioni che gli adulti avevano del mondo giovanile e del proprio mondo e, viceversa, per i giovani rispetto al mondo adulto, sia attraverso il ragionamento a li-vello politico e tecnico sui bisogni che emergevano dal lavoro di stra-da, come dalle prime sperimenta-zioni di centri aggregativi e di svi-luppo di attività, come per mezzo di uno stare nella comunità ed incontrare diversi opinion leader.Seppure in alcuni ambiti ci fosse consapevolezza che i bisogni pri-mari da affrontare nelle politiche giovanili si mostravano soprattut-to come relazionali, nella dialet-tica che si instaurava tra rappre-sentazioni reciproche di giovani e adulti, si è lavorato molto su bi-sogni secondari di protagonismo e messa in gioco dei giovani. Da un lato, dunque, si rafforza-no una lettura e una valorizza-zione differente dei giovani, con un cambio di piano che scalfisce fortemente l’associazione giovani e disagio per guardare a loro più come risorsa che come problema (vedi L.29/88).Dall’altro ci si specializza mag-giormente nella predisposizione di politiche ed interventi che po-tenziano i “servizi” per i giovani, si specializzano gli ambiti di in-tervento soprattutto nelle azioni legate al tempo libero e alla creati-vità (vedi politiche dei servizi, ot-

tica del problem solving a matrice medico-sanitaria, Colleoni 2006) con la promozione da un lato di gruppi di interesse anche altamen-te performativi, dall’altro di una rete tra i soggetti maggiormente coinvolti nella “questione giova-nile”. Quest’ultimo aspetto si ap-poggiava comunque su un dato di fondo: la disponibilità da parte del mondo adulto di affrontare, anche conflittualmente, una rela-zione generazionale con i giovani. Via via con gli anni – seguendo una deriva culturale che partiva dall’indebolimento delle dinami-che comunitarie solidaristiche che caratterizzavano il tessuto sociale – si arriva abbastanza velocemente a dinamiche di de-responsabiliz-zazione, di delega, sull’onda di un rapporto sempre più individualiz-zato con il contesto (vedi Bauman 2001).Qui si sono costruite e legittima-te modalità di lavoro sociale con i giovani sempre più specializzate e specializzanti: se “i giovani hanno comunque il diritto di scelta e di azione, (...) sono gli adulti, con la loro razionalità tecnica a trovare posto e risposta alle attese del-le nuove generazioni” (Colleoni 2006). C’è qui forse un movimento par-ticolare che ci deve far riflettere molto, sia come attori del privato sociale che come attori del pub-

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blico: il bisogno di collocarsi nelle politiche giovanili – quella ricerca di senso e di posizione operativa e professionale di cui si parlava prima – ha spinto e facilitato una specializzazione delle organizza-zioni e dei servizi, che ha “costrui-to relazioni privilegiate con alcune categorie di adolescenti e giovani” (idem).Sotto la chiave della definizio-ne dei bisogni e degli approcci e strumenti di lavoro, questo fatto pone un nodo pedagogico fonda-mentale: come possiamo mante-nere costante l’attenzione sulla dialettica tra giovani e contesto (comunità) nella definizione delle varie progettualità? La domanda non è banale se si considera questa dialettica non più sotto la prospettiva di alcu-ne specifiche questioni come il tempo libero, ma come costante espressione della relazione indi-vidui-gruppi-contesto (Lewin) che coinvolge i giovani intesi come identità nascenti (Colleo-ni, Arendt – natalità), che attra-versano varie fasi, chiamate anche transizioni di vita.Hannah Arendt ci indica qualcosa di importante. L’uomo è immerso nell’universo come essere plurale, in un’identità che si apre per for-marsi e definirsi. La ricerca dell’af-fermazione della soggettività por-ta l’uomo a creare uno spazio

comune, che pulsa nelle relazioni. “Non l’uomo, ma gli uomini abi-tano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra.” Se la pluralità è il presupposto e, nello stesso tempo, il sen-so dell’agire, “la realizzazione dell’identità umana ne è forse il risultato più vistoso”. È, infatti, l’agire che rende possibile la rive-lazione del chi dell’attore, che – per definizione – apparendo agli altri manifesta la sua identità nella sua differenza. Si agisce nel mon-do, in uno spazio plurale; nelle diverse forme dell’agire il soggetto si rivela. In questo agire possiamo ancora recuperare due parti che ci posso-no aiutare a dare sostanza ad un lavoro sulle relazioni: la prima, l’inizio, che è opera dell’agente, e la seconda, il compimento, che è ad opera di molti. È proprio nel-la pluralità che l’azione ha il suo compimento perché si significa nel giudizio, nel significato che gli viene attribuito.Considerando le persone, non solo i giovani, sotto questa pro-spettiva, possiamo concepire ciò che la Arendt definisce come natalità: con la parola e l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo secondo inserimento è come una seconda nascita, per la quale si entra in uno “spazio co-mune” in cui ci si esperisce come

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“essere in comune” . Il tentativo della Arendt si disegna come ricerca di uscita dall’estra-neità dell’individuo in una socie-tà di massa, verso un mondo che veda gli uomini guardare alla realtà tenendo conto del punto di vista degli altri.Prendere parola e agire, intese come forme di seconda nascita, ci richiamano le parole di Paulo Freire dove si legittimano l’agire educativo e pedagogico come for-me di “liberazione”, di conquista di cittadinanza…La relazione con l’alterità (e l’espressione dell’alterità) è l’ele-mento sostanziale del vivere il ter-ritorio. C’è tutto un intreccio di azioni individuali e collettive, che si disegnano come relazioni tra at-tori / soggetti sociali. Un lavoro che si inserisce nella legittimazione dello spazio pub-blico, dello spazio comune dove si discute, condivide, socializza il significato e il giudizio sulle pro-prie e altrui azioni. L’auspicio è che questa consapevolezza della nostra affermazione attraverso la relazione produca fiducia. “Fidu-cia intesa come fides, affidamento: io mi fido di te, tu di me e so che possiamo decidere insieme le cose per risolvere un problema. È un fatto di coesione e di ripresa dei rapporti sociali fra tutti noi. Ri-spetto reciproco fra tutti gli attori

che insieme concorrono alla cura di un bene comune” (Arena, Fi-renze 2009)

Continuiamo a seguire questa chiave di lettura relazionale. Considerare relazionalmente i soggetti delle politiche giovanili e in generale di quelle sociali, si-gnifica avvicinarsi ai territori, ai contesti operativi consapevoli che si entra e agisce in un sistema di relazioni. Per inquadrare maggior-mente dobbiamo fare una piccola astrazione. Kurt Lewin si affida ad intuizioni legate alla fisica moderna per cer-care di studiare i e agire nei sistemi e gruppi sociali: il comportamen-to dei soggetti, e la possibilità di lavorare con essi alla ricerca di un cambiamento in positivo, è fun-zione dell’interazione tra la perso-na e l’ambiente. Lewin arriva così a rappresentare le relazioni dinamiche come un campo di forze che agiscono su un sistema di soggetti. Ci si avvi-cina così al territorio, al contesto operativo – da quello di una co-munità locale a quello che si dise-gna attorno ad una classe scolasti-ca – come ad un sistema di forze che definisce spazi di movimento, opportunità, vincoli, bisogni di ogni soggetto; queste forze si atti-vano nella relazione tra attori e tra questi e l’ambiente .

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Questa consapevolezza ci guida nella quotidianità operativa: non possiamo entrare in relazione con i soggetti senza sentire la necessità di valutare e considerare il conte-sto, le forze che si esprimono, il si-stema di relazioni che ne è la base e la struttura. Se dunque il bisogno si crea nella relazione tra individui e gruppi, tra essi e l’ambiente, il contesto sociale, le progettualità devono aprirsi su questi orizzonti. I territori di azione delle politi-che giovanili si ampliano e qui gli esempi possono essere molti. I centri aggregativi devono essere riconsiderati da spazi “occupazio-nali”, “di controllo” esercitato at-traverso varie attività a spazi dove la relazione educativa lavora nella dialettica tempo libero-tempo di lavoro, nei processi di sviluppo della propria identità e di speri-mentazione della propria appar-tenenza sociale e cittadinanza. Va da sé l’importanza di connettere lo spazio aggregativo all’interno di una rete comunitaria, significan-dolo alla luce delle forze e tensioni che essa produce.Per portare un secondo esempio possiamo guardare alle classi sco-lastiche come un sistema comples-so che richiede di essere coinvolto e promosso nell’attivazione dei progetti: entrare in classe con un progetto significa negoziare e defi-

nire insieme a studenti, insegnan-ti, genitori, dirigenza le aspetta-tive e le azioni di cambiamento. L’esperienza in questo senso quasi decennale dei percorsi scolastici ci ha insegnato a considerare questa tipologia di interventi all’interno dell’ampia progettualità delle po-litiche giovanili e di comunità. Gli incontri in classe vanno concertati e progettati coinvolgendo la diri-genza scolastica, gli insegnanti per una condivisione degli obiettivi e degli strumenti; vanno altresì pre-sentati e valutati nella relazione con genitori e studenti, che vanno coinvolti anche nella definizione di un contratto di fiducia recipro-ca con gli operatori. Altrimenti si cade in interventi spot, inefficaci e incapaci di incidere e promuovere cambiamento.

Proseguendo, la chiave relazio-nale ci pone anche la domanda fondamentale: “Chi abbiamo davanti?” che è l’altra faccia del-la domanda guida di questo per-corso: “Di chi sono le politiche giovanili?”La strada da fare è ancora tanta, e come sentiremo, gli stimoli e le esortazioni che arrivano dai gio-vani coinvolti in questo percor-so, saranno densi e – molte volte – spiazzanti. Credo fermamente che alcune suggestioni ci eviden-zieranno le distanze che ancora

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dobbiamo colmare per lavorare consapevoli che i giovani sono soggetti e non oggetti, attori e non elementi scenografici.“Vasi da riempire, da modellare, soggetti a rischio, piccoli adulti” sono alcune delle definizioni che – lavorando – abbiamo legitti-mato o convalidato. Fa parte del percorso di maturazione storica delle politiche giovanili. Lo slan-cio in avanti viene dato dal con-siderare gli adolescenti e i giova-ni come identità nascenti, che esprimono “elementi di fragilità, incertezza, rigidità, incoerenza, instabilità” come anche “elementi di energia, capacità, potenzialità, interesse, comprensione e azione nel reale” (Colleoni 2006). Come persone che crescono, ci pongo-no “domande di aiuto e accom-pagnamento ma anche esigenze di essere lasciati liberi di mettersi alla prova negli eventi della vita”; sono domande di identificazione e dipendenza, di autonomia, di orientamento e socializzazione, di opportunità di praticare “lotte per il riconoscimento” (idem). Ritengo significativo – e lo dico con umile orgoglio – sentire di condividere con molti colleghi l’intenzione pedagogica di “alle-stire condizioni che rendano pos-sibile alle nuove generazioni di esprimere dimensioni identitarie, anche parziali, balbettanti, tem-

poranee” ma che sono reali spe-rimentazioni di cittadinanza, di confronto e riconoscimento con altri soggetti della comunità. La dignità che si riconosce ai giovani contribuisce al rafforzamento del piano su cui poggia la relazione educativa, di accompagnamen-to e orientamento, di supporto e confronto. In questi tre giorni si può concretizzare un aspetto significativo delle politiche gio-vanili che sentiamo più nostre, come orizzonte e come stimolo: il compimento “di occasioni e per-corsi all’interno dei quali persone, gruppi e organizzazioni si incon-trano, si ri-conoscono, appren-dono ad interagire a dialogare”, tentando “qualche passo insieme, attorno a esperienze concrete, rea-li, pregnanti, non attorno a tesi astratte, generali, teoriche”. (Col-leoni 2006) In sintesi, significa disegnare le politiche giovanili non più su tar-get specifici ma affiancando ado-lescenti-giovani in un contesto di vita, inseriti in passaggi di crescita e di richiesta di cittadinanza.

Dal punto di vista metodologi-co questi apprendimenti, queste consapevolezze (ancora da condi-videre appieno), hanno significa-to molto in termini di crescita di competenze, di sistematizzazione di prassi e strumenti, di valutazio-

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ne rispetto agli obiettivi da defini-re a monte.La chiave relazionale ci richiama fortemente ad un intervento da promuovere in termini di pro-cesso. Le testimonianze raccolte, come i ragionamenti meta-pro-gettuali all’interno delle equipe, ci esprimono un passaggio storico che si sta concretizzando sempre più come necessità consapevole: lo spostamento da un lavoro per progetti ad un lavoro per processi. Fino al ‘95-’96 la logica dei grup-pi di interesse caratterizzava molto le nostre politiche giovanili: interi progetti giovani potevano signi-ficarsi lavorando su specifici in-teressi e obiettivi, a volte raccolti a scala individuale o indotti da approcci e percezioni più superfi-ciali.Alcuni stimoli esterni, come la richiesta della Regione, di finan-ziare attraverso la L. 29 progetti di comunità, oppure l’incontro con formatori come Branca, Cro-ce, Martini, altri impulsi inter-ni, come l’entrata di lavoratori e lavoratrici con una formazione particolare, hanno spinto vari ter-ritori, varie equipe a ragionare e sperimentarsi fortemente in chia-ve comunitaria. La cultura opera-tiva si è così via via contaminata; l’approccio alla comunità pone un accento di processo alle politiche giovanili. Questo movimento ha

significato l’apprendimento, l’affi-namento e la sperimentazione di approcci e strumenti particolari, specifici, propri dello sviluppo di comunità e della ricerca-azione. È un gioco al rialzo che ci richiede competenze e abilità specifiche, condizioni e vincoli operativi più significativi; è un cammino che però alza il livello di riconosci-mento della realtà e dei “terreni” di sviluppo delle politiche giova-nili.La crescita ci ha portato all’utilizzo di approcci e metodi che mirano a favorire lo sviluppo dell’interazio-ne individuo-gruppo-comunità, l’influenzamento reciproco tra soggetti diversi, tra generazioni, la presa di decisione in piccoli e grandi gruppi, la condivisione di percorsi e fasi di vita. Approcci, metodi e strumenti questi che legittimano le politiche giovanili come progettualità per fare della pluralità non solo uno stato ontologico, ma l’espressio-ne stessa della realtà e del vissuto dei soggetti presenti nel territorio comunità. La ricerca-azione si le-gittima, ove possibile, come pa-radigma, operativo ed educativo, fondamentale. Si basa sull’iden-tificazione e legittimazione degli attori, sull’esplicitazione delle re-lazioni di potere esistenti, sull’in-vestigazione delle contraddizioni con gli attori e sulla diffusione

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dei risultati affinché vengano usa-ti come base per il cambiamento. La ricerca-azione permette un approccio che non prescinde dal-la complessità territoriale e dei campi di forze attivi e parte dal presupposto che “nessuno educa nessuno, e neppure se stesso: gli uomini si educano in comunio-ne, passando attraverso il mondo” (Freire 2002).Lavorare per processi ci porta a considerare sia gli operatori sia i giovani e adulti coinvolti come soggetti immersi in relazioni di potere che possono cambia-re. Confrontarsi, attivarsi, rico-noscersi all’interno di processi, promuove la scoperta e la con-seguente speranza di percorsi di cambiamento possibili, che deli-neano significati precisi in termini di empowerment. Ecco un altro importante paradigma, pedagogi-camente fondamentale, che sem-bra agire, tra alti e bassi, come filo conduttore in vari progetti: la teo-ria dell’empowerment, che lavora sulle dimensioni delle competen-ze, delle condizioni e dei processi che fanno interagire competenze e condizioni. Giocoforza diventa questo la con-sapevolezza generale che sembra legittimarsi in tutto questo per-correre storia, nodi critici, svi-luppi generativi delle politiche giovanili e delle progettualità

che cerchiamo di proporre, pro-muovere, attivare. “Un approccio ispirato all’empowerment tende allo sviluppo di risorse, al raffor-zamento dei sistemi naturali di aiuto e alla creazione di opportu-nità per processi decisionali parte-cipativi. Il punto centrale consiste nello sviluppare i punti di forza e nel promuovere la salute, piutto-sto che nel fissarsi sui problemi e concentrarsi sui fattori di rischio” (Zimmerman 1999).Le progettualità si definiscono allora come promozione di con-testi ove si riesce ad esprimere la propria opinione, ci si confronta in gruppo e collettivamente sulla percezione dei problemi, si pren-dono delle decisioni; questo au-menta il livello di empowerment di singoli, gruppi e comunità, ac-crescendo il senso di cittadinanza e le reali possibilità di amministra-zione condivisa e di sussidiarietà promozionale (Pozzobon e Bacci-chetto, 2008). Fare lavoro di comunità ci fa agi-re, quindi, su una scala di processi partecipativi che deve essere chia-ra, per non banalizzare il significa-to stesso di partecipazione: si va da un livello minimo che consiste nell’accesso all’informazione ad un livello massimo che consiste nell’intervenire per influenzare la direzione e la costruzione degli in-terventi (Branca 2007).

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Ma se c’è stato un movimento di maturazione e sviluppo delle po-litiche giovanili come significato a cui tendere, passando dall’ani-mazione e dal coinvolgimento alla partecipazione (Branca 1996), esso riguarda anche la Cooperati-va come organizzazione.Brevemente, ma ci sembra im-portante portare alcune riflessioni che riguardano l’identità di una cooperativa come la nostra, nel suo agire nel territorio e al suo interno. La crescita delle consa-pevolezze (in termini di direzioni decise e di nodi generativi) stimo-late dalla prospettiva relazionale, dall’azione in termini di processo, dai soggetti come identità nascen-ti, dall’utilizzo di strumenti dialo-gici, ci ha trasformati e ci richiede altre importanti trasformazioni.

Azione al suo interno. La competenza nel lavoro sociale nel territorio, essendo il risultato di un processo fortemente a ca-rattere culturale, si costruisce sia nelle relazioni con l’esterno, sia in quelle con il proprio interno, la propria soggettività. L’efficacia del proprio agire territoriale richiede fortemente la consapevolezza che la parte agita implica una coeren-za nella cultura del soggetto agen-te: in parole povere, se si intende agire in modo partecipativo con i soggetti del territorio, la compe-

tenza per questo agire parte dal proprio essere organizzazione par-tecipata e partecipante.L’identità della cooperativa come sistema relazionale e organizzativo ci pone di fronte all’altra sfida ne-cessaria, quella dei processi interni: se la prospettiva dell’agire territo-riale è lo sviluppo di comunità, la competenza richiesta alla coopera-tiva è quella nel promuovere pro-cessi empowering (che producono empowerment). In questo senso, come organizzazione, il nostro soggetto Cooperativa ricerca, an-che con fatica e resistenze, di:1. fornire alle persone al suo inter-no occasioni per sviluppare com-petenze e senso di controllo impli-cando “strutture e procedure di natura orizzontale e non gerarchi-ca, […] [permettendo] ai membri di essere coinvolti nelle decisioni e condividere le responsabilità, in-coraggiandone la partecipazione in tutti gli aspetti organizzativi”;2. facilitare processi di consapevo-lezza critica mobilitando risorse al suo interno;3. creare spazi di partecipazione nei quali i suoi membri possano lavorare insieme per “prendere decisioni e proporre obiettivi per l’organizzazione”, facilitando l’apprendimento, lo sviluppo e la messa in pratica delle loro capaci-tà e competenze.

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Sentiamo che stiamo crescendo intendendo “la partecipazione come motore dell’organizzazione [ridando] dignità ai soggetti, ride-finendo via via e collettivamente: 1) le intenzioni politico-pedagogi-che della cooperativa; 2) il tipo di leadership che la co-operativa intende assumere nel rapporto con la comunità locale e, più in generale, con la società; 3) i processi che permettono l’in-tegrazione e la soddisfazione dei bisogni dei membri della coope-rativa; 4) i processi che garantiscono ai membri l’effettivo esercizio del potere di controllo e lo sviluppo del senso di proprietà collettivo (ownership) del sistema” . È un movimento faticoso, ambi-zioso che cerca di rafforzare l’or-ganizzazione interna nella dialet-tica tra organi di governo sociale (coordinamento politico) e di go-verno gestionale (coordinamento operativo).È così importante constatare che c’è un nutrito numero di lavora-tori, soci e non soci, che stanno in cooperativa stimolandola ad essere struttura relazionale e or-ganizzativa che si esprime anche nella promozione, circolazione e avvicendamento di leadership. Si-gnifica che, al suo interno, la coo-perativa come organizzazione, da alcuni anni vive e sperimenta pro-

cessi di vita sociale che facilitano l’espressione delle persone, la loro crescita professionale, arrivando a promuovere l’emersione di figure che riescono a porsi nei confronti dei colleghi lavoratori e dei soci in genere come figure leader, rappre-sentative, trainanti: questo loro ruolo può essere speso sia a livello di gestione operativa dei progetti come nella figura del coordina-tore o consulente di progetto, sia a livello di gestione politica della cooperativa stessa con nuove figu-re che si assumono ruoli ammini-strativi.

Nell’azione al suo esterno la coo-perativa sta incominciando, infi-ne, ad esprimere e maturare que-ste due grandi consapevolezze:1. la necessità di operare per co-struire partnership che si aprono nella dimensione territoriale del lavoro di comunità, dove si agisce con soggetti differenti, nelle asim-metrie di potere, investendo sulla partecipazione attiva dei cittadi-ni. Si guarda al passaggio da un approccio narcisistico, che lavora unicamente al rafforzamento del proprio spazio di azione, ad uno che si pone a favore di una mag-giore consapevolezza della com-plessità, in cui tessere in modo “disinteressato alleanze costrut-tive, non semplificatrici, in una logica di rigenerazione del legame

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sociale” nei territori. In questa lo-gica, se ci riteniamo soggetti delle politiche giovanili la relazione che ci lega al territorio e ai suoi nor-mali committenti ci trasforma da erogatori di servizi a partner del-le Amministrazioni Locali e delle comunità, co-imprenditori nella costruzione e promozione di per-corsi partecipativi.2. In secondo luogo, il ruolo di soggetto territoriale, agente nel campo di forze che si esprime nei territori di intervento. Questo sentire ci deve muovere sempre più come soggetti mossi da una motivazione etica, teleologica e politica, che agisce con un’idea di società/comunità a cui tendere attraverso i processi promossi. Si recuperano molte delle dimensio-ni pedagogiche evocate fin qui, che guardano al “soggetto attivo, all’empowerment, al senso di ap-partenenza, alla reciprocità, alla solidarietà, alla sussidiarietà, alla coesione sociale, alla responsa-bilità individuale e collettiva nei confronti del bene comune, al senso del potere, alla capacitazio-ne, all’aumento del controllo sulla propria vita, alla capacità di solu-zione collaborativa dei problemi e di negoziazione con gli altri sog-getti, alla cooperazione. (Pozzo-bon 2009)Per concludere, sentiamo di poter dire con forza che lavorare nelle

politiche giovanili con un approc-cio di comunità, incentrato nello sviluppo di empowerment e pro-cessi partecipativi, sia l’aspetto che rende il nostro lavoro generativo e soprattutto rispettoso delle perso-ne con cui lavoriamo.

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Cosa significa parlare di politiche giovanili oggi? Più in generale, come intendiamo la “cosa pub-blica”, che di politiche giovanili si occupa, oggi? Su che basi comu-ni provare a discutere di queste tematiche in un workshop che coinvolge tre ruoli diversi come politici, tecnici e giovani? Trovarsi a discutere di politiche giovani-li presuppone la necessità di un passo avanti rispetto alla realtà esistente. La speranza è che, inte-ragendo e discutendo tra di loro, i tre attori principali delle politi-che giovanili – giovani, tecnici, politici – possano arrivare ad una rivalutazione per delle strategie ed azioni diverse, nuove, maggior-

mente efficaci. Ma rispetto a quali obiettivi queste politiche devono essere efficaci? Chi ha il compito e le competenze per stabilirli?Se le politiche giovanili, come più in generale la cosa pubblica sono da intendersi come un “noi” che coinvolge da protagonisti politi-ci, tecnici e giovani, tutti hanno il pieno di titolo di partecipare alla discussione. E’ da superare l’idea delle politiche giovani-li come serie di servizi erogati da un fornitore ad un giovane-cliente, a favore di politiche gio-vanili intese come atteggiamento comune e diffuso di un sistema che considera importante lo svi-luppo delle potenzialità dei giova-

L’intervento che segue è stato scritto dal gruppo dei giovani che ha parte-cipato a questo progetto. È il frutto di un lavoro collettivo, durato diversi mesi, che ha portato i giovani a confrontarsi sul significato di politiche giovanili, a partire dalle diverse loro esperienze di vita, per poi ragionare sul futuro delle politiche giovanili. Il testo finale è frutto del lavoro di un gruppo più ristretto, parte del quale ha relazionato durante il workshop. L’intervento è stato preparato da Giacomo Girotto, Roberta Rossi, Laura Scomparin, Irene Spricigo, Stefano Volpato.

“Giovani, destinatari o attori?”Di chi sono le politiche giovanili?

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ni come individui e cittadini. Da qui anche deriva la necessità di aprire le politiche giovanili ad una trasversalità tematica che fin’ora non è stata pienamente condivisa e raggiunta: oltre alla rivalutazio-ne della scuola e del tempo libero, o meglio tempo non struttura-to, due classici temi da politiche giovanili, occorre aprire una di-scussione anche su temi quali la costruzione di una propria auto-nomia ed indipendenza (che vede nel giovane individuo-cittadino un ruolo attivo) determinati, per esempio, dall’inserimento lavora-tivo o dall’avere una casa. Si tratta di agire delle politiche giovanili non solo come serie di misure, provvedimenti positivi o negativi, ma come un paio di “occhia-li”, coi quali guardare i diversi aspetti nei quali la vita dei gio-vani è coinvolta.

E’ utile quindi rimettere in di-scussione il ruolo pubblico da un punto di vista tecnico e politico, la consapevolezza dei suoi obiet-tivi e fini. Altrettanto utile è una maggiore consapevolezza da par-te di chi sono i destinatari delle politiche giovanili, i giovani ap-punto. Questi tre giorni offrono l’occasione per un esperimento che – auspichiamo – diventi re-gola: provare a mettere in gioco le posizioni di ciascuno, per provare

a discutere in modo nuovo e co-struttivo di politiche giovanili.Se si ritiene che l’approccio più corretto per la rivalutazione debba passare per un “noi” collettivo che coinvolge tutti e tre i soggetti – giovani, politici, tecnici – è fonda-mentale che anche ai giovani siano affidati, e che al contempo essi si prendano, le possibilità e gli stru-menti per partecipare attivamente ad una discussione. Un problema specifico è ancora l’emersione dei bisogni - che presuppone neces-sariamente il riconoscimento e la legittimazione - cui le politi-che giovanili devono rispondere, ma non è solo questo che si deve tenere in considerazione: uscire dallo schema di politiche giovani-li come erogazione di servizi non passa solamente per un aggiorna-mento di spunti, idee, soluzio-ni. Certamente, l’estensione dei modelli positivi che già esistono e sono applicati con successo – insomma, guardare al vicino se ha l’erba più verde - è una buona cosa. Ma di sicuro implementare un catalogo di soluzioni pre-defi-nite, pre-confezionate in una sorta di aggiornamento di software non è la soluzione definitiva ed esau-riente alle questioni sopra poste. Infatti un’operazione simile non uscirebbe da una logica tradizio-nale di pubblico-impresa che fi-nisce per trasformare il giovane in

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cliente. Questo tipo di rapporto impresa-cliente si basa essenzial-mente su una condivisione di fini: l’impresa ha fini propri che in una certa misura possono coincidere o meno con quelli del cliente ed in base a questo “do ut des” si misura il successo. Il concetto di impresa in questo senso tradizionale non può essere adeguato all’ambito delle politiche giovanili. Se si vuo-le infatti parlare di uno sviluppo di autonomia, indipendenza da parte dei giovani verso una citta-dinanza pienamente attiva, parte-cipe, intraprendente – ricordiamo che oggi questo percorso si snoda per un giovane attraverso scuola, tempo libero/non strutturato, la-voro e casa – non si può conside-rare un giovane come un cliente. I giovani non possono e non devo-no essere considerati come clienti di politiche giovanili, perché esse riguardano aspetti del vivere quo-tidiano rispetto ai quali non ci può sentire altro che protagonisti: questo è il ruolo dei giovani in po-litiche giovanili realmente innova-tive e maggiormente rispondenti al mondo in cui viviamo.

Ciò che segue è un’analisi delle politiche giovanili da un punto di vista nuovo, quello dei giova-ni che le vivono, o magari non le vivono affatto. Con tutti i limiti che ciò comporta, si è ritenuto

utile da parte degli attuali desti-natari - potenziali attori - di po-litiche giovanili tentare un analisi ed un ripensamento della propria posizione in relazione alle politi-che giovanili, rilevandone i punti critici e le possibilità di migliora-mento. Consci del fatto che indi-viduare e circoscrivere i problemi che affliggono le politiche giova-nili, ed ancora oltre, trovare del-le soluzioni a questi problemi è un compito difficile, che sarebbe vano pensare di esaurire in questa sede, autonomamente. Su questa convinzione si fonda la validi-tà del workshop “Di chi sono le politiche giovanili?”. Solo dall’in-terazione tra tutti gli attori di po-litiche giovanili – anche i poten-ziali attori – potranno emergere idee concrete ed efficaci per delle nuove politiche. Giovani, tecnici e politici devono imparare a parlar-si: è una strada da seguire per un reale, effettivo ed efficace rinnova-mento. Il lavoro di analisi sullo stato at-tuale delle politiche giovanili si è articolato su quattro grandi ma-croaree: la scuola e più in generale la formazione, l’attività lavorativa, l’autonomia abitativa ed il tempo non-strutturato. Quanto segue è frutto di un lavoro di un gruppo abbastanza variegato di giovani dai 16 ai 30 anni, provenienti da buona parte del territorio del-

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la provincia di Treviso e Padova. Questo lavoro si è concretizzato in una serie di incontri volti ad aprire una discussione tra giovani sullo stato attuale delle politiche giovanili al giorno d’oggi, quali dal nostro punto di vista i punti critici o positivi, quali le possibili strategie da adottare per puntare a politiche migliori e maggiormente condivise.

Di chi è la scuola?In un workshop dedicato alle po-litiche giovanili generalmente non ci si aspetterebbe di discutere temi quali la scuola ed il lavoro, perché non è ancora pienamente condi-viso da tutto il mondo politico e tecnico il fatto che questi siano ar-gomenti da inserire in quello che è il significato canonico di politi-che giovanili. Tuttavia pensiamo che tali politiche per essere mag-giormente efficaci e complete non possano prescindere dall’occupar-si di tali problemi. La mancanza di trasversalità è, anzi, una delle problematicità strategiche delle politiche giovanili, come di tutta la politica in generale.

Uno di temi cruciali emersi du-rante gli incontri del gruppo di lavoro è quello della scuola, per-cepito da molti giovani ma anche dalle istituzioni ad esso preposte (visto il continuo susseguirsi di ri-

forme e controriforme) come un nodo problematico.L’Istituzione scuola è di indiscu-tibile importanza nel mondo dei giovani. Poter contare su di una preparazione di qualità e su di un ambiente formativo adeguato è ciò ogni studente desidera. Inve-stire sul metodo educativo a tutti i livelli della sua applicazione, su in-segnanti costantemente aggiorna-ti e formati anche nell’interazione con le nuove generazioni appare a questo proposito un argomento di forte attualità. È infatti innegabi-le il fatto che il gap generaziona-le creatosi sia sempre maggiore: i cambiamenti avvengono veloce-mente ed è importante evolvere anche sul piano della formazio-ne, dell’informazione e sullo svi-luppo e la conoscenza dei mezzi per “saper evolvere”. Risulta però cruciale instaurare una comuni-cazione interattiva su questi temi, in quanto si avverte che spesso gli studenti, i diretti interessati, non sono interpellati nelle scelte che li riguardano, o forse i metodi utiliz-zati non trovano riscontro rispetto alle esigenze avvertite.

Se il progetto formativo della scuola non prevede a nessun livel-lo la possibilità di partecipazione dello studente, l’ascolto del suo giudizio sull’istruzione che sta ri-cevendo, allora le mille riforme,

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contro-riforme, ri-riforme in base a cosa vengono adottate? Ed an-cora, per quale motivo si pretende che esse vengano accettate passi-vamente sempre e comunque dal mondo studentesco? Fondamentale è quindi l’apertu-ra delle istituzioni al dialogo con gli studenti. Tale apertura non deve essere uno specchietto per le allodole, ma deve corrispondere anche alla disponibilità a liberare le risorse economiche necessarie affinché i cambiamenti siano so-stanziali e non si riducano a stra-volgimenti di questioni puramen-te formali, che non hanno altro effetto che mettere in ulteriore difficoltà chi poi deve applicare tali misure, siano studenti o in-segnanti: ne abbiamo un chiaro esempio nella gestione contem-poranea di ormai tre ordinamenti correnti da parte di quasi tutti gli atenei italiani, ciascuno con pro-prie regole e strutture da mante-nere in vita e gestire.Oltre ai problemi che affliggono la scuola e che tutti conosciamo -strutture inadeguate, preparazio-ne degli insegnanti, costo dei libri, dei trasporti, degli strumenti e de-gli alloggi- va messa sul banco de-gli imputati la concezione odierna di scuola, dando un respiro più ampio alla discussione. Il frutto di tale discussione si può riassumere in due punti, che identificano due

problemi a livello strutturale.In primo luogo troppo spesso il mondo della scuola si estrania (o viene estraniato) completamen-te dalla realtà delle esigenze del paese. In un momento buio per l’economia, come quello che stia-mo attraversando, è fondamen-tale che le istituzioni facciano in modo che la scuola interagisca in modo più stretto con la realtà so-ciale ed economica, in modo che essa, specialmente nel settore della ricerca, possa fornire strumenti e soluzioni valide ai problemi del paese o cogliere spunti nuovi di sviluppo e di crescita. Una forma-zione “massificata”, ma di qualità e di alto livello, è sicuramente una marcia in più per la vita economi-ca ma anche sociale di un paese e di una comunità.In secondo luogo si riscontra un problema che non è nemmeno mai in conto nelle varie riforme, circolari e riunioni, e che è sem-brato opportuno ed efficace espri-mere sotto forma di domande: di chi è la scuola? Quale scuola può esistere senza studenti? E qua-le tipo di risultati ha avuto, ha e continuerà sempre ad avere una politica scolastica che non vede a nessun livello del suo sviluppo, dalla nascita all’attuazione, la par-tecipazione degli studenti stessi? Siamo convinti che processi de-cisionali maggiormente parte-

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cipativi, in cui siano coinvolti istituzioni, studenti e attori della realtà sociale ed economica, con-tribuirebbero a creare una scuola più a misura di studente e mag-giormente qualificante.

Di chi è il lavoro?Queste considerazioni ci guida-no in modo diretto ad un’altra questione che si vuole in questa sede trattare: quella del lavoro. Si ha quasi l’impressione che in quest’ambito ognuno sia fauto-re del proprio destino, in quanto tutto ciò che concerne la profes-sione costituisce una questione prettamente personale. Ma parla-re di lavoro e delle difficoltà che riguardano un giovane in questo ambito, come ad esempio il dif-ficilmente praticabile percorso in entrata o la scarsità di sicurezze dovuta all’alto grado di flessibilità sempre più richiesto, vuol dire a tutti gli effetti parlare dell’esigen-za di maggiori garanzie rispetto al proprio futuro. Se riconosciamo che il lavoro costituisce forse il primo punto per la costruzione di una propria autonomia da parte di un giovane, non è possibile non discuterne parlando di politiche giovanili.

Potenziare il sistema dell’orien-tamento lavorativo, offrendo

occasioni di tirocini e stage ef-fettivamente formativi e profes-sionalizzanti, si configura come una prospettiva auspicabile per ritrovare il valore di una prepara-zione efficace al mondo del lavoro ed avvalersi quindi di un bagaglio spendibile. L’utilità di un sistema così configurato ed effettivamen-te funzionante sarebbe duplice, in quanto anche imprese ed enti pubblici potrebbero trarne van-taggio innalzando notevolmente la qualità della preparazione del loro capitale umano.Poter contare su figure di riferi-mento che fungano da garanti sul piano dell’esperienza formativa è a nostro parere un requisito im-prescindibile. Ad oggi sono già presenti figure simili: tuttavia, per esperienza diretta, possiamo dire che questo sistema di garanzia non è sufficientemente efficace e che strumenti quali lo stage o il lavoro precario troppo spesso ven-gono utilizzati dalle imprese più per ridurre i costi che non come strumento utile per la formazione del personale. Per questo è neces-saria una maggiore presenza da parte dei cosiddetti tutor di stage, il cui ruolo non si può esaurire con il colloquio iniziale ed una firma, come purtroppo spesso si è riscontrato.Una maggiore attenzione va inol-tre dedicata ai giovani aspiranti

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imprenditori. Siamo convinti che per un paese che sta attraversan-do una crisi e che arranca nella competizione internazionale con le nuove potenze economiche, l’unico strumento per uscire vin-citori sia quello di valorizzare nuove idee, non solo intese come innovazioni tecniche, ma anche come nuovi modi di fare impre-sa. Ci chiediamo: da chi possono venire queste idee se non dai gio-vani? Chi può avere il coraggio di cambiare un modo di fare impresa che, escludendo alcune eccellenze, si dimostra sempre più spesso ina-deguato al contesto internazionale in cui, volenti o nolenti, ci trovia-mo a competere? Crediamo che sarebbe un atteg-giamento miope da parte della politica quello di continuare a mantenere un sistema dove per un giovane aspirante imprendi-tore sono presenti barriere d’ogni tipo, dagli ordini professionali che limitano la concorrenza, ad una burocrazia soffocante dove spesso i giovani rimangono invischiati. Per non parlare poi della difficoltà a reperire i mezzi di finanziamen-to necessari all’avviamento.

Concludendo, non chiediamo l’elemosina a nessuno, ma bensì un sistema dove il lavoro dipen-dente sia tutelato ed in cui sia pos-sibile, per un giovane che lo desi-

deri, provare a fare impresa. Poi, in un caso e nell’altro, il mercato farà la sua selezione, com’è un paese liberale come il nostro. La parola liberale però, non può e non deve servire da alibi all’autorità pubbli-ca per lavarsene le mani, perchè ha il fondamentale ruolo di ga-rantire parità di opportunità, la salvaguardia dei diritti dei giovani che si accostano ad un percorso di lavoro dipendente e la ridu-zione delle barriere che ostacola-no l’avvio di nuove imprese. Dal nostro punto di vista, infatti, il li-beralismo senza pari opportunità è svuotato del suo più profondo significato.

Di chi è la casa?La possibilità di uscire di casa per andare a vivere da soli è un altro dei passaggi che conduce al raggiungimento di una propria autonomia. Siamo testimoni di come attualmente riuscire a man-tenere le spese di una casa propria sia troppo spesso improponibile. Contando sullo stipendio medio di un neoassunto, le possibilità di “arrivare a fine mese” sfuma-no letteralmente. Per non parlare dell’impossibilità da parte di gio-vani con un contratto di lavoro precario, ormai prassi da parte di molte imprese per i primi anni di assunzione, di accedere alle fonti

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di finanziamento messe a disposi-zione dagli istituti di credito, qua-li ad esempio i mutui, e quindi la preclusione ad ogni investimento economico a lungo termine.

La prospettiva di incentivare l’in-dipendenza dalla casa natale, me-diante sussidi o prestiti agevolati sembra una strada indispensabile per dare la possibilità ad una ge-nerazione di giovani cittadini di poter contare sulla sicurezza di un certo grado d’autonomia dalle proprie famiglie. Esperienze speri-mentali sono state introdotte nei contesti urbani di alcune città, come ad esempio il progetto di convivenza tra studenti ed anziani in alcune palazzine del bresciano. Si trattava di giovani studenti uni-versitari a cui sono stati applicati affitti particolarmente bassi entro palazzine in cui risiedevano anche persone anziane. Ai ragazzi veniva chiesto, in cambio dell’agevolazio-ne, di aiutare gli anziani residenti nel condominio qualora ne aves-sero bisogno e di sincerarsi perio-dicamente sulle loro condizioni di salute. Viene così incentivata una forma di cittadinanza attiva dove lo scambio generazionale funge da possibilità per fruire di importan-ti vantaggi, come quello di vivere soli e di agevolazioni rispetto a co-sti spesso proibitivi.

Riuscire ad avere una casa, per giovani coppie e in particolare per giovani famiglie, si rivela una questione sempre più difficile… se non impossibile, da non con-siderare solo e semplicemente nel suo aspetto economico. A questo infatti si aggiunge il tentativo di conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita: prendersi cura dei propri figli, della casa, senza con-tare eventuali attenzioni richieste da genitori anziani, rappresentano qualcosa da cui difficilmente si può prescindere e che senz’altro assorbe notevoli quantità ed ener-gie. Contare su un sistema di interven-ti che possano efficacemente non solo tamponare, ma configurarsi come validi sostegni , è quanto di minimo si possa ambire per una vita dignitosa. Inchieste recenti ci parlano di un “ascensore sociale bloccato”, di un paese che assiste ad una paresi della mobilità socia-le: dai dati tratti da un’indagine che coinvolge giovani ventenni, risulta che un giovane su cinque sostiene che il proprio stato sociale è peggiorato rispetto la famiglia di origine. Non si può non ricono-scere in questa situazione l’effetto di un sistema che purtroppo tende direttamente ed indirettamente a disincentivare il raggiungimento di un grado di autonomia sia per quanto concerne i giovani, sia per

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quanto riguarda le giovani fami-glie.

Alcune proposte di cui recente-mente si sente parlare suscitano a questo proposito grande interes-se: l’affitto d’emancipazione, ad esempio, che si rifà all’esperienza condotta in Spagna con “la ren-ta de empancipaciòn”. Con tale provvedimento si andrebbe ad in-tegrare il reddito mensile dei gio-vani d’età compresala tra i 22 e i 30 anni , che hanno lasciato la casa dei genitori e i cui redditi an-nui non superano i 23 mila euro lordi. Parallelamente a tale sussi-dio si farebbe corrispondere una forte agevolazione fiscale per pro-prietari che affittano a giovani al di sotto dei 35 anni. Un’altra pro-posta fa riferimento alle giovani famiglie con figli al di sotto dei 6 anni: dare loro la possibilità di cu-mulare l’affitto di emancipazione e la possibilità di farsi rimborsare le spese di baby sitting. Si potreb-be inoltre pensare di predisporre agevolazioni sulla tassazione dei primi stipendi di giovani mamme lavoratrici. Ci si serve in questa sede di tali citazioni semplicemente per sof-fermarsi su un punto fondamen-tale: dimostrare come non sempre siano necessarie abnormi quantità di risorse per realizzare ed attuare misure volte a rendere una situa-

zione più favorevole alla costru-zione del proprio futuro da parte dei giovani. Serve una connessio-ne tra la condivisione dei biso-gni e le possibilità di risposta attuabili, per arrivare a soluzioni efficaci, senza inefficaci dispersio-ni di denaro ed energie.

Di chi è il tempo libero? Ma, prima di tutto… chi ha de-ciso di definirlo soltanto “tempo libero”? Il termine rischia di esser fuorviante, trasmettendo l’idea che il tempo non occupato da stu-dio, lavoro o attività sportive sia del tempo sprecato, perso, inuti-le, sciocchezze insomma. Si ha la sensazione che tale espressione sia più incline ad un concetto di resi-dualità: il tempo che rimane dopo la scuola, dopo il lavoro, dopo lo sport. Non è così: riteniamo fon-damentale una grande e profonda rivalutazione di quegli spazi e di quei momenti che un giovane - ma il discorso vale agevolmente per tutte le età - dedica alla pro-pria crescita, in maniera consape-vole e indipendente.

Le offerte in questo ambito esisto-no, ma, partendo da presupposti e convinzioni erronee, rischiano spesso di essere poco apprezzate a partecipate, dando l’impressio-ne che il mondo giovanile sia un mondo apatico, passivo, privo di

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idee ed interessi. Di nuovo, non è così. Queste convinzioni non fanno che ampliare e inasprire le situazioni di disagio. Occor-re, ribadiamo, un cambiamento nell’ottica di queste iniziative.Non bastano poche attività stan-dardizzate, pre-ordinate, pensate a tavolino per i giovani - che spes-so si concentrano nei centri più grandi o attenti, lasciando vuoti pericolosi nei piccoli centri e nelle periferie e rendendo inevitabile la migrazione dei giovani verso zone più attrezzate – bensì reali pos-sibilità di fare a disposizione dei giovani.Strumenti che consentano a loro stessi di far emergere esigenze, passioni, interessi e trasformarli in nuove attività, organizzate e ge-stite autonomamente. È necessa-rio che le amministrazioni locali, il mondo politico, i tecnici che di questo si occupano si rendano conto che i giovani possono e vo-gliono gestire se stessi, senza essere costantemente controllati e indi-rizzati nelle loro attività. Per farlo, però, hanno bisogno di conoscere, capire, imparare come è possibile - all’interno di un siste-ma politico e burocratico che non li vede mai partecipi - mettere in pratica idee e progetti che andran-no a beneficio di tutta la comuni-tà, oltre che del loro sviluppo per-sonale come individui e cittadini.

E’ possibile iniziare un processo di rinnovamento concreto, par-tecipato che finalmente riesca a presupporre che un giovane sia cittadino e persona, come qualun-que altro all’interno della propria comunità? Che non sia sempre considerato come pezzo, dipen-dente, di famiglia, scuola, grup-pi parrocchiali, di volontariato, società sportive… Partiamo da questo concetto: non più tempo libero, ma tempo non strutturato. Tempo utile per la crescita e lo svi-luppo della persona, del cittadino, momenti di educazione diversi da quella formale ma ugualmente in-dispensabile.

Conclusione

Dall’analisi sopra esposta emer-ge chiaramente la necessità di un profondo rinnovamento delle politiche giovanili: rinnovamen-to che non può passare solo per l’elaborazione di soluzioni nuove ma anche, ed in modo altrettanto fondamentale, per un modo nuo-vo di elaborare soluzioni. Per questo motivo è auspicabile che l’apporto di ognuno non venga interpretato, o peggio, “bollato” semplicemente come critico in senso distruttivo. Soprattutto il lavoro di preparazione e l’appor-to dei giovani, la loro stessa pre-

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senza alla discussione, non vuole e non deve essere semplicemente considerata scomoda, semplificata in pars destruens. Se abbiamo tut-ti deciso di partecipare, si auspica sia per provare a costruire qual-cosa assieme, in veste di naturale pars costruens, non per smontare ogni buon proposito o critica. Ci si aspetta lo stesso atteggiamento da tecnici e politici, nel discutere di politiche giovanili (ma anche di politiche di qualsiasi altro tipo): si deve essere disposti a negoziare e a condividere anche con i giovani un discorso su di una loro valu-tazione e rivalutazione, una spinta per un rinnovamento. In fin dei conti, non si può non riconoscere un ruolo da protagonisti ai giova-ni, parlando di politiche giovani-li: in qualche modo essi devono, per loro stessa natura di vivere in prima persona il momento uni-co dell’“essere giovani”, prendere parte attivamente alla discussio-ne, alla costruzione ed attuazione. Occorre quindi che la posizione dei giovani all’interno del dibatti-to venga pienamente legittimata: una legittimazione che non si fon-da sul fatto che essi sono più adat-ti di tecnici o politici a parlare di politiche giovanili, perché appun-to “giovani”, ma bensì sul fatto che come tecnici e politici, come qualunque cittadino, essi devono essere considerati cittadini a ti-

tolo pieno, con le loro necessità, capacità, diritti. Anzi, spingendo-si oltre: il discorso sulle politiche giovanili oggi andrebbe allargato a fasce sempre più ampie di citta-dini, a vario titolo, appunto per-ché le politiche giovanili ormai vedono il loro orizzonte allargarsi sempre di più in modo trasversale a moltissimi altri settori: l’econo-mia, l’urbanistica, la sociologia...Alla luce di queste ultime consi-derazioni, sembra opportuno ri-prendere e sottolineare tre aspetti che costituiscono dal nostro pun-to di vista delle problematicità evidenti nelle politiche giovanili. La particolarità di questi aspetti è che in qualche modo attraversano trasversalmente tutte le macro-aree che in cui abbiamo dovuto scomporre le politiche giovanili cercando di farne un’analisi: scuo-la, tempo non-strutturato, casa e lavoro. Oltre a questo, essi sono stati fortemente sentiti in diverse fasi da tutti i partecipanti al grup-po di lavoro.Per prima cosa, è emersa la tra-sversalità di un dato strutturale: ai giovani manca la possibilità di incidere in modo effettivo sull’of-ferta esistente, in tema di politiche giovanili. Mancano tutta una serie di condizioni per cui un giovane possa agire con un sufficiente gra-do di autonomia: strumenti per decodificare e decostruire l’offerta

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esistente, risorse per costruire in modo autonomo, personale ed at-tivo il proprio percorso.Gli ostacoli possono essere i più diversi, e non va fatto l’errore di far coincidere questi con un’even-tuale carenza di risorse economi-che, cui spesso istituzioni ad ogni livello (enti locali, università o privati) imputa a torto la scarsa di-sponibilità a discutere anche sem-plici prassi operative, procedure che possono essere di impedimen-to all’effettiva partecipazione dei giovani: una macchina burocrati-ca non sempre chiara ed efficiente diventa uno scoglio complesso per chi è alle prime armi (per antono-masia un giovane lo è) o magari ancora non ha un’idea precisa di ciò che può ottenere e di cosa vuo-le. Troppo di rado viene concesso ascolto e spazio di azione concreta nelle fasi di costruzione dell’of-ferta sia a livello pubblico, che ad oggi è il piano più strutturato dell’offerta ai giovani – si pensi ad esempio ad un Progetto Giovani – sai a livello privato, non strut-turato. Tutto questo a scapito del successo dell’offerta stessa, poco condivisa e quindi probabilmen-te poco compresa, anche nei suoi aspetti di positività.

In tre parole, si parla di strumen-ti, risorse, potere. Un qualsiasi discorso su risorse e strumen-

ti comporta infatti la verifica di quello che è l’effettivo potere che ogni cittadino ha - o non ha - ed in questo caso particolare quello di un giovane cittadino. “Potere” che non è da intendersi come ri-vendicazione di tipo lobbistico. Dal punto di vista di tecnici e politici, non si tratta di elimina-re una classe dirigente e sostituir-ne una nuova, anche perché non avremmo garanzie sulla sua mag-giore o minore capacità. Si tratta probabilmente di modificare un modo di fare politica e specifica-tamente di pensare ed attuare po-litiche giovanili: cambiare dei pre-supposti, delle strategie, dei modus operandi per non ritrovarsi da qui a due generazioni allo stesso stallo di incomunicabilità tra chi deci-de, progetta ed attua e chi subisce questo iter, al fine di migliorare l’iter stesso nel rispetto reciproco dei ruoli di tutti i portatori di in-teresse.Ecco allora che si chiarisce il tipo di richiesta di potere prima espli-citata ed il secondo dei tre aspetti di problematicità prima accenna-ti. “Potere” va inteso come mez-zo per, da una parte, migliorare le politiche giovanili tramite un coinvolgimento diretto dei giova-ni, dall’altra, cogliere il massimo dalle energie che una comunità dedica ai suoi cittadini, in modo particolare da quelli under 30.

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La domanda di potere formula-ta dal nostro gruppo di lavoro è una domanda di partecipazione. In filigrana a tutto quanto stia-mo dicendo, questo è il bisogno che si manifesta in modo forte da parte dei giovani: una volontà ma anche necessità di partecipazione, per poter contare su di una pre-senza attiva, vera e tangibile, circa le scelte che riguardano sé stessi ed il mondo da cui si è circonda-ti. “Partecipazione” come essere “parte di un’azione”, essere dentro alle questioni ed alle decisioni che di fatto determinano il contesto in cui viviamo, per essere real-mente dentro al contesto stesso, come ogni cittadino ha il diritto di sentirsi rispetto al paese in cui vive, alla comunità di cui fa parte. I giovani sono oggetto di politiche particolari, come tutti riconosco-no essere necessario; questo non esclude il fatto che essi debbano essere considerati, ad ogni età, cit-tadini a pieno titolo.A questo punto si pone con chia-rezza anche il terzo dei tre aspetti problematici con cui si è aper-ta questa conclusione. Si tratta di un portato culturale che tutti ereditiamo e che innegabilmente tende a marginalizzare i giovani come problema, più che come una risorsa, o che limita le politi-che giovanili ad attività ricreative (la sala prove, il concertino…). A

differenza di quanto avveniva un tempo - va ribadito - quando le politiche giovanili erano pensate soltanto a dare risposta alle pro-blematiche del mondo giovanile, negli ultimi anni stiamo assisten-do al tentativo di coinvolgere tut-ti gli aspetti della vita quotidiana dei giovani-cittadini, ognuno dei quali è essenziale a una crescita armonica e serena nella comuni-tà. Le politiche giovanili sempre di più hanno a che fare con l’idea di trasversalità e si intrecciano in modo forte con le comunità locali in cui vivono ed agiscono i giova-ni, per questo vanno viste come “un paio di occhiali” con cui ana-lizzare le politiche pubbliche, le strategie e le azioni. Le tre macro-aree di cui abbiamo parlato in pre-cedenza e che abbiamo analizzato, in modo tutt’altro che esauriente, sono state valutate, osservate, pro-prio attraverso questa lente. Non si può tuttavia dire che questo sia un traguardo pienamente rag-giunto e condiviso, ne sono tristi e tangibili esempi diversi assesso-rati che ancora sono intitolati alle problematiche giovanili. A dimo-strazione del fatto che modificare, adeguare, modernizzare le struttu-re politico-amministrative e l’otti-ca di base dei responsabili, tecnici e politici, delle politiche giovanili – e con queste di tutta la politica in genere – richiede un notevole

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impegno da parte di tutti i porta-tori di interesse in questo ambito, giovani compresi. L’ostacolo costi-tuito da un portato culturale che ancora caratterizza un certo modo di fare politiche giovanili ed anche politica più in generale è emerso più volte nelle riflessioni del grup-po di lavoro. Per di più, è emerso in tutte le macro-aree nelle quali abbiamo scomposto l’argomento: pregiudizi e stereotipi secondo i quali i giovani sono svogliati, apa-tici, non hanno voglia di far nien-te, evitano di impegnarsi, non hanno alcuna capacità o compe-tenza.Va ribadito con forza, ancora una volta: se vogliamo provare modi nuovi di fare politiche giovani-li affinché esse siano davvero ri-spondenti ai bisogni sempre più trasversali di giovani finalmente considerati cittadini, dobbiamo accettare questi limitanti stere-otipi nella stessa misura in cui li accetteremmo nei confronti di un qualsiasi altro cittadino, adul-to, vecchio, lavoratore, studente, pensionato, imprenditore, dipen-dente. Ci vuole coraggio e fidu-cia reciproca, perché le politiche giovanili non possono essere una serie di freni, sanzioni, soluzioni approssimative calate dall’alto per evitare gli istinti distruttivi e auto-lesionisti del mondo giovanile. Pensiamo che le politiche giovani-

li siano molto di più.

Vorremmo quindi concludere in un’ottica di concretezza, ripren-dendo quanto precedentemente detto sull’idea di politiche gio-vanili come erogazione di servizi su di un modello impresa-cliente, per cercare di descrivere sinte-ticamente quali sono le nostre aspettative su delle nuove idee a proposito di politiche giovanili. Se la metafora economica prima citata di un’erogazione di servi-zi sul modello di impresa-cliente non va bene, la sfida potrebbe essere aprire ad una nuovo tipo di imprenditorialità: rinnovare le politiche giovanili intendendole come cessione di responsabilità, come possibilità di iniziativa, di autonomia di gestione; come pos-sibilità, infine, di decentramento. Una ricetta per ricucire una scolla-tura tra chi si occupa di politiche giovanili e coloro ai quali queste sono indirizzate, che permette in parte di superare alcuni osta-coli che caratterizzano trasversal-mente la difficoltà di un’effettiva partecipazione dei giovani alla definizione, costruzione, verifica delle politiche giovanili in col-laborazione con gli altri protago-nisti. Vanno perseguiti e cercati modi, idee, soluzioni al fine di far emergere i bisogni ma anche stimolare e cogliere le capacità

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autonome di risposta a questi bi-sogni, in sinergia con quanto sono preposti a fare tecnici e politici. Sinergia che si può costruire con disponibilità da parte di tutti i soggetti interessati cioè politici, giovani e tecnici a mettersi su di uno stesso piano: in questo senso sono fondamentali impegno, as-colto, apertura mentale, confron-to, l’aiuto reciproco, lo scambio di informazioni tra tutte le realtà che si occupano di politiche giovanili e soprattutto la capacità di speri-mentare, innovare, essere creativi.

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Dibattito seguito agli interventi

PUBBLICO 1: Partirei dalla fine dell’intervento del gruppo di la-voro dei ragazzi, premettendo che mi è piaciuto molto. Dicevate che ai giovani non è data possibilità di incidere e per arrivare a ciò sa-rebbe necessario possedere degli strumenti e delle risorse…o co-munque un potere. Mi chiedevo se riguardo agli strumenti siete in grado di darmi delle informazioni più specifiche a proposito.

PUBBLICO 2: Per me è stata molto interessante la parte in cui facevate un discorso sull’impren-ditorialità… perché non mi sem-bra che sia mai uscito in maniera così forte. Io vengo dal comune di

Parma e stiamo pensando da un po’ di tempo anche noi a come fare per attivarci in questa dire-zione, ma oltre alle riflessioni la cosa più difficile da fare ci sembra quella di lavorare sul sostegno...è molto più semplice invece dedi-carsi alla creatività o all’arte. Sono anche queste chiaramente forme di imprenditorialità, ma mi pia-cerebbe avere da voi qualche idea anche in altre direzioni.

STEFANO VOLPATO: Vorrei provare a rispondere alla prima domande. Quando ci siamo tro-vati, durante i nostri incontri, abbiamo affrontato la questione degli strumenti, e in particolare

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quello dei bandi di finanziamen-to. Ci siamo resi conto che questi di solito sono poco comprensibili e quindi difficilmente accessibili. Un’idea quindi potrebbe essere quella di rendere i bandi accessibi-li anche a chi non ne ha esperien-za. Credo che facilitare l’accesso a queste opportunità potrebbe es-sere utile ai giovani ma non solo, anche ad esempio a un imprendi-tore, che magari vuole sviluppare un’idea all’interno della sua azien-da, ma che non ha dimestichezza con il linguaggio complesso con cui si formalizzano questi bandi.

GIACOMO GIROTTO: Pro-verò a rispondere alla doman-da legata al “come riuscire a far emergere l’imprenditorialità dei giovani”, poiché riguarda la parte che ho sviluppato io nella nostra relazione. Come ho detto prece-dentemente, credo non si debba fare nulla di nuovo, ma piutto-sto cercare di abbattere le barrie-re che sono ormai vecchie. Non credo che il problema sia come far emergere l’imprenditorialità, io conosco infatti molti giovani che hanno delle idee innovative sia sui modi di fare impresa che in concezioni tecnologiche. Dicevo quindi che non è necessario creare degli strumenti nuovi ma piutto-sto abbattere tutto ciò che ostaco-la l’imprenditoria; ad esempioor-

dini professionali, questione che mi sta particolarmente a cuore. Io ancora oggi stento a capire quale sia l’utilità di questa barriera. A certificare la preparazionedei libe-ri professionisti, dovrebbe essere l’autorità pubblica, eliminando in questo modo tutti gli aspetti nega-tivi degli ordini professionali. Altro problema di cui secondo me dovrebbe farsi carico la Pub-blica Amministrazione, è il rende-re più agevole l’accesso ai finan-ziamenti, che permettono uno sviluppo ad esempio di un’impre-sa. Io sono ancora un economista in erba, quindi non saprei ancora indicare quali potrebbero essere le strategie per arrivare a realizzare questo.Volevo fare un esempio su quanto l’interazione tra mondo del lavoro e mondo della scuola possa por-tare dei vantaggi e dei benefici al mondo dell’impresa: mi è venuto in mente guardando qui davanti a me il pc dell’”HP” che signifi-ca “Hewlett - Packard”, una delle maggiori multinazionali di stru-menti tecnologici. La Hewlett - Packard è stata fondata da due studenti universitari ai quali un professore diede due cose molto importanti: fiducia e uno spazio dove poter realizzare le loro idee. Da due ragazzi e una stanzone dell’università è nato il seme di quella che oggi è la Silicon Valley.

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Tutto questo per dirvi che, a volte, non servono risorse astronomiche o grandi capitali per far partire un’idea.Apro quindi un capitolo su una realtà spesso dimenticate, quella dei ricercatori, che difficilmente lo fanno per i sodi, ma che lo fan-no per passione, in primis.

ANDREA CONFICONI: Mi viene il mente che la chiave non è tanto quella di trovare strumen-ti innovativi, quanto piuttosto di provare a cambiare prospettiva. Prima, confrontandomi con una collega, mi raccontava di un gros-so personaggio degli Stati Uniti, il cui figlio aveva ideato un pro-gettino per amplificare la chitarra. Questo ragazzo è poi andato in banca per chiedere un finanzia-mento e l’istituto finanziario non gli ha chiesto di chi fosse il figlio o quali garanzie potesse offrire, ma rispose che avrebbero fatto valuta-re il progetto da alcuni loro tecni-ci di fiducia, che avrebbero quindi stimato la bontà e l’innovatività dell’idea. Anche se la banca non avesse poi finanziato il progetto, avrebbe dimostrato di voler co-munque dare una possibilità a un’idea scaturita da un giovane. Questo è il punto innovativo a cui guardare. Qui entrano in gioco anche altre parti sociali, ad esem-pio le banche.

GIACOMO GIROTTO: E’ mol-to interessante quello che dice An-drea, poiché è riuscito a tradurre in parole quello che io non sono riuscito a dire, ossia attribuire an-che un valore economico alle idee creative.

PUBBLICO 3: Buona sera, io volevo puntualizzare il concet-to sulla fiducia, soprattutto per quanto riguarda l’imprenditoria-lità giovanile. Io sto provando a diventare un giovane imprendi-tore, passando per bandi europei, finanziamenti vari e burocrazie incomprensibili…e quello che mi è saltato all’occhio da questa espe-rienza è la mancanza di fiducia dei possibili finanziatori nei con-fronti dei giovani imprenditori e della loro creatività, mancanza di fiducia forse dovuta a pessime esperienze di chi si è approfittato o non ha saputo mettere a frutto possibilità e finaziamenti.Se dovessi focalizzare un argomen-to interessante proporrei quello dei giovani e agricoltura. Io sono convinto che l’economia ripartirà nel momento in cui si dedicherà attenzione all’energia rinnova-bile e alle nuove fonti energeti-che e quando la politica deciderà di occuparsi di questi problemi. Lavorando nell’agricoltura, vedo un declassamento della categoria e un progressivo abbandono del-

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le campagne, ma anche dell’im-prenditoria legata alle campagne. Evidentemetne troppe sono le pressioni politiche ed economi-che che impediscono o rallentano lo svilupparsi di forme di energia alternative a quelle tradizionali (non rinnovabili).

PUBBLICO 4: Provo a fare il po-litico provocatorio... mi pare ci sia la necessità da parte dei giovani di confrontarsi con i politici e io come politico vi porto una pro-vocazione. Tutto quello che avete detto questa sera è molto interes-sante, però c’è un problema di fondo... le nuove generazioni non sono in grado di prendersi le pro-prie responsabilità in situazioni come come la possibilità di acce-dere ad un mutuo o ad un finan-ziamento. Spesso davanti a ciò vi tirate indietro. Quando vi viene richiesto di diventare responsabi-li di uno spazio e di firmare per garantire la vostra responsabilità, vi sottraete a questo compito. Ne deduciamo come politici che c’è questo problema e non riusciamo a farvi prendere le vostre respon-sabilità.

PUBBLICO 5: Una cosa che mi colpisce quando si parla di un confronto generazionale in cui un gruppo (giovani) deve progressi-vamente entrare in un altro (adul-

ti), l’unico tempo verbale che sen-to usare è quello del condizionale e nell’aria aleggia sempre l’idea che sia compito dei politici trova-re delle soluzioni. Mi chiedo però come scardinare dal basso questo meccanismo, ossia come far si che si rompa questa convinzione che manchi la fiducia reciproca. Come costruire con i giovani un approccio che cambi la prospetti-va dominante? Come secondo voi è possibile dal basso creare questa sorta di fiducia che facilita poi l’emergere dell’imprenditorialità? Sappiamo tutti che negoziare con un istituto di credito e acquistare questa fiducia è davvero diffici-le per un giovane. Che interesse hanno un’associazione di catego-ria o una banca a dare un finan-ziamento e a creare un rapporto di fiducia se poi non ne ricavano un vantaggio economico?

IRENE SPRICIGO: Cogliendo lo stimolo dell’ultimo intervento vorrei cercare di spiegare com’è possibile mettere assieme il biso-gno di venire incontro alle esigen-ze dei giovani e nello stesso tempo che le istituzioni ne traggano van-taggio. Per questo vorrei portare lo stesso esempio che ho citato prima….si tratta di quel progetto sperimentale portato avanti nel comune di Brescia. A nostro pa-rere è un buon esempio di come si

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possano mettere assieme e coniu-gare due diverse esigenze. Il pro-getto prevedeva la possibilità di mettere una serie di appartamenti in affitto a disposizione dei giova-ni ad un prezzo particolarmente vantaggioso. I giovani, con un costo sostenibile, potevano quin-di studiare o lavorare, abitando vicino alle sedi e facendo un’espe-rienza fuori casa. Tutto questo in cambio, da parte del giovane beneficiario, di una sorta di im-pegno solidale nei confronti dei vicini di casa, bisognosi o anziani. Cioè i giovani si impegnavano a un vicinato solidale, di aiuto, di sostegno. Secondo noi questo può essere un valido compromesso che potrebbe diventare un esempio per altri. Inoltre mette assieme due cose: da una parte il giovane ha l’opportunità di uscire di casa e fare un’esperienza, dall’altro lo Stato non si deve più occupare di procurare, ad esempio, l’as-sistenza domiciliare agli anziani bisognosi. Le vie percorribili esi-stono…basterebbe innanzitutto trovare il modo di comunicarci queste esigenze.

GIACOMO GIROTTO: Io vor-rei invece provare a rispondere alla domanda/provocazione del politi-co. quando sosteneva che se ai gio-vani vengono date delle opportu-nità, nel momento in cui vengono

chiamati ad assumersi realmente delle responsabilità, quegli stessi giovani tendono a tirarsi indietro. Questo è sicuramente un proble-ma reale, ma credo che la risposta sia nel percorso della partecipazio-ne. Molto spesso abbiamo riscon-trato che quello che viene offerto dalle amministrazioni in ambito di politiche giovanili corrisponde a degli stereotipi, sono pacchet-ti preconfezionati, non creati in base ai bisogni emersi. Io imma-gino, invece, un sistema virtuoso, in cui ad un livello precedente alla semplice offerta del pacchetto, si interpella il giovane e gli si chiede di che cosa ha realmente bisogno. E’ un sistema di condivisione di obiettivi che a mio parere ha una probabilità maggiore di avere suc-cesso, anche se sono consapevole che un margine di fallimento esi-ste lo stesso. A me viene un men-te un esempio che scaturisce da un’esperienza vissuta con Stefano. Un paio d’anni fa abbiamo riuni-to in una palestra tutti quelli che, a diverso livello, facevano arte nel comune di Istrana (TV); si sono trovati assieme quindi i gruppi musicali che fanno musica pro-pria, artisti visivi ecc..e abbiamo creato un’iniziativa interessante. Ciò dimostra che certe iniziative, anche se richiedono molto impe-gno, possono avere successo, la stessa iniziativa di oggi ne è un

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esempio: arrivare qui con un di-scorso da fare, con dei messaggi da portare, non è stato facile, ha richiesto un lavoro di confronto e di organizzazione delle idee piut-tosto lungo e che si è incastrato con mille altri impegni che ciascu-no di noi ha. E’ la motivazione il motore di certe iniziative, per cui io credo che, se l’offerta è coeren-te con un processo che viene pri-ma dell’offerta stessa, si ha un’alta probabilità che i giovani non si tirino indietro quando poi è l’ora di assumersi le proprie responsa-bilità.

STEFANO VOLPATO: Ripren-do il discorso iniziato da Riccardo (cfr. pubblico 3) sulla fiducia. Le provocazioni che sono state fatte sono legittime, ma non credo che sia questo il piano in cui possia-mo dare delle soluzioni, in ambito di politiche giovanili. Tutti siamo consapevoli che non solo i giovani possono sbagliare, ma sbagliano realmente, ma sbagliano anche gli adulti. Prendiamo l’esempio della politica urbanistica del comune in cui vivo. Se guardiamo a come sono stati costruiti gli edifici negli ultimi quindici anni a Istrana, ci rendiamo conto che per accettare dei simili errori ci vuole veramen-te un altissimo grado di tolleran-za. A mio avviso il cambiamento di rotta ci deve essere a livello lo-

cale, ma anche e soprattutto a tut-ti gli altri livelli: politico, sociale, relazionale e non ci si può aspet-tare che a cambiare sia sempre e solo “l’altro”. Il coltello dalla parte del manico però non ce l’abbiamo noi, possiamo cercare di provoca-re ma non abbiamo noi il potere.

GIACOMO GIROTTO: Ag-giungo solo due cose. La prima è legata a questo ultimo intervento fatto da Stefano ed è che noi gio-vani, per riuscire a scardinare dal basso, dobbiamo mostrare quello che siamo capaci di fare. Ritor-no sull’iniziativa che ho portato ad esempio: io penso che qual-siasi politico, che sia digiuno di arte, ma che vede che un’inizia-tiva organizzata da un ragazzo di vent’anni ha l’esito che vi ho illu-strato prima, non può non pren-dere atto del valore e della compe-tenza. Penso perciò che qualsiasi politico dovrebbe essere stimolato a dare fiducia ai giovani di fron-te ai risultati ottenuti. La seconda cosa importante che vorrei rileva-re è la questione sollevata dall’in-tervento di Riccardo sulla fiducia data ai giovani che intraprendono la strada dell’imprenditoria in am-bito agricolo.Da quando siamo entrati nella comunità europea, l’agricoltura, che è sempre stata un settore trai-nante nell’economia nazionale, ha

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perso un po’ del suo potere; trovo però che riscoprire l’agricoltura, anche in un paese che sa e può vivere di altro, sia veramente im-portante. Valorizzare le tradizioni e i prodotti tipici, la salvaguardia ambientale… in tutto questo l’au-torità pubblica potrebbe avere un ruolo di primo piano, ad esempio quello di scardinare certi mono-poli agricoli che ostacolano il li-bero mercato e quindi la giovane impresa. PUBBLICO 6: Vorrei fare anch’io delle riflessioni, anche se mi sono perso il vostro intervento inizia-le e magari dirò alcune cose che avete già affrontato nella prima parte. Io da parecchi anno lavoro nell’abito delle politiche giovanili e ho quindi spesso a che fare con i politici, i tecnici e i giovani, e ho rilevato questo: all’interno di questi progetti si fanno tantissi-me cose, a volte, lo dico anche provocatoriamente, si mette in discussione il nostro lavoro di operatori, il nostro tentare di fare da educatori. Ho riscontrato nei giovani una grande difficoltà a sa-persi organizzare e a organizzare le proprie idee, mancando quindi di una rappresentanza che si ponga in grado di dialogare con la par-te politica e tecnica. A mio parere però non si stanno prendendo in considerazione delle linee strate-

giche comuni per andare incontro alla parte politica. Semplicemente l’organizzazione dei numeri, essere in tanti, ben organizzati e credibili offre una chance che attualmente secondo me è piuttosto debole. Tanti assessori sono illuminati e quindi attivano di proprio delle iniziative, altri purtroppo hanno bisogno di essere stimolati. Vorrei sapere da voi, se per caso ci avete pensato, se avete delle idee a pro-posito, sul come mettere in rete certe idee e condividerle con gli altri giovani. Rispetto alle inizia-tive, la regione ha messo in piede tante iniziative e attività in cui i giovani sono protagonisti, come ad esempio il Forum per i giovani, anche se mi pare che non abbia funzionato benissimo. A fronte di questi esempi, immagino però che ci siano molti altri gruppetti di giovani che singolarmente stanno facendo le vostre stesse riflessioni, e quindi chiedo: come mettervi in contatto in rete tra di voi? Come fare in modo che tutti questi ra-gionamenti vengano valorizzati da enti che non siano sempre e solo le amministrazioni comunali? Le amministrazioni comunali sono certamente le più vicine, l’interlo-cutore primo, ma a livello di pote-re nel cambiare le cose forse sono un po’ deboli, mentre bisognereb-be arrivare a farsi sentire ad altri livelli politici.

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PUBBLICO 7: La mia doman-da era simile a quella di Cristian (cfr. pubblico 6); anch’io sono un operatore delle politiche giovanili, mi chiamo Benedetta e lavoro per la cooperativa Il Sestante.Volevo chiedervi questo: voi oggi siete qui e parlate perché avete condi-viso alcune riflessioni, avete fatto un percorso di condivisione e di esperienza assieme, ma di solito, nella vostra esperienza, quando vi trovate a fare delle richieste o ave-te un’opportunità e sentite di vo-lerla cogliere, dovendo quindi in-terfacciarvi con amministrazioni pubbliche o enti, avete l’impres-sione di parlare per voi o di essere in qualche modo rappresentativi di un gruppo, di una categoria di giovani?

STEFANO VOLPATO: La do-manda di Benedetta pone una questione di consapevolezza. Per quanto mi riguarda è stato così: io da quando sono entrato in questo progetto ho fatto un percorso e metà delle cose che ho detto non sono farina del mio sacco; io da solo non ci sarei mai arrivato, se non grazie ad un insieme di sti-moli e di idee che mi sono arrivate parlando con gli altri e probabil-mente la stessa cosa è successa ad altri. Io, ad uno dei primi incontri cui ho partecipato, ho chiesto un po’ stupito da quando in qua po-

litiche giovanili significasse anche parlare del lavoro, io ero comple-tamente fuori da quest’ottica. Mi rendo conto che siamo veramente lontani dal condividere dei pen-sieri, dall’essere un gruppo con-sapevole di avere in comune certi interessi e di impegnarsi per por-tare avanti delle istanze collettive. Ritengo perciò che una politica come quella che si vede spesso in tv, fatta di consenso, di facili pro-messe, di compiacenza, è alla base di questi problemi che nel nostro piccolo riscontriamo:“Ho dei pro-blemi? È tuo compito, politico di turno, cercare il modo di risolver-li”. Forse siamo un po’ disabitua-ti a farci carico dei nostri stessi problemi, anche se percorsi come quello che abbiamo fatto noi sono molto utili per aumentare il livel-lo di consapevolezza, d’altra parte devo dire che tua domanda, Chri-stian, non saprei dare una rispo-sta...

PUBBLICO 8: L’ho fatta appo-sta…il mio obiettivo era quello di provocare una riflessione sul fatto che dobbiamo stare atten-ti a non entrare in una logica di autoreferenzialità... Attenzione: non sto parlando di voi in questo preciso contesto, va benissimo che ci attiviamo, che facciamo dei ra-gionamenti e ne condividiamo i passaggi; mi collego alle riflessioni

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di stamattina: si diceva che è cru-ciale il passaggio che trasforma un mio problema in un bisogno di tanti, pubblico, e diventa proble-ma di tutti e io, amministrazione, lo devo inserire nella mia agenda politica: la difficoltà è arrivare a sentire la condivisione e far si che la mia agenda metta in atto stra-tegie d’azione atte ad affrontare le situazioni. Trasferendo questa riflessione su di voi giovani, il ra-gionamento resta identico, perché c’è il rischio che le cose rimangano così come sono solo perché non arrivano al posto giusto dove po-trebbero essere affrontate.

IRENE SPRICIGO: A proposito di questo mi piacerebbe che par-lasse Fabio, uno dei ragazzi che ha condiviso con noi il percorso e che aveva proprio portato al grup-po questa esigenza di connessione, facendo anche delle proposte.

FABIO PASA: Vi sentivo parlare prima di movimento dal basso e secondo me, nella mia “ignoran-za”, è il punto centrale. La strut-tura politica in cui ci troviamo secondo me è piuttosto ristretta, ossia la cerchia di quelli che han-no in mano i cordoni della borsa, se vogliamo usare un metafora, è davvero piccola, dà difficilmente accesso ad altri. Quello che ave-vamo proposto durante le nostre

riflessioni era di creare una sorta di assemblea permanente, simile a questa, che non si esaurisca però in poche giornate, ma che abbia stabilità e durata nel tempo, co-sicché i giovani possano portare le loro istanze e trovare accoglimen-to e condivisione. Una proposta del genere, se fatta bene, potrebbe avere una eco importante e diven-tare un punto di riferimento im-portante a livello territoriale, non solo per i giovani che hanno un “luogo” in cui trovarsi, ma anche per gli stessi politici, che avrebbe-ro un osservatorio specializzato e costantemente aggiornato a cui fare riferimento. In questo modo si potrebbe anche passare dal pia-no teorico di questa sera al piano pratico, al quale ancora fatichiamo ad accedere: la gestione di questo spazio o spazi simili potrebbe fare ben sperare.

GIACOMO GIROTTO: Vorrei fare una riflessione molto perso-nale su di un argomento proposto poco fa, cioè perché noi giovani non riusciamo ad essere in tanti quando dobbiamo portare avanti delle idee. Parto dalla considera-zione che rispetto agli anni ‘70, quando i movimenti giovanili e studenteschi erano molti attivi, questo è un momento molto di-verso. Noi partiamo da una situa-zione economica florida, siamo

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cresciuti in un periodo di “vacche grasse”. Penso che la congiuntu-ra economica in cui ci troviamo potrà portare ad una situazione drammatica, al punto da muovere effettivamente la gente a cercare delle soluzioni, dei veri momenti di aggregazione… Si potrà fare qualcosa quando la gravità della situazione arriverà ad essere perce-pita realmente, ma finché questo non si avverte o lo si sente in ma-niera tiepida, non sarà possibile il movimento di massa.

CHAIRMAN: lascio spazio per qualche altra riflessione, anche perché sento che da parte dei tec-nici c’è una certa “fame” nel con-frontarsi con voi, e gli interventi che stanno arrivando, compresi gli interrogativi posti, denotano che c’è da parte dei tecnici un forte desiderio di sapere. Sono assoluta-mente stupito, in termini positivi, di quanto sia forte il desiderio di confronto con voi.

PUBBLICO 9: Mi interesserebbe sapere chi siete (rivolto ai giovani n.d.r.), da dove venite e che tipo di processo avete fatto per arrivare in questi mesi a fare questo per-corso.

STEFANO VOLPATO: Rispetto alla mia personale esperienza, io sono andato ad una giornata che

il Sestante ha organizzato a mar-zo, nel comune di Paese (TV), quando è stato presentato questo progetto. Da allora, pur non aven-do ben chiaro che cosa si dovesse fare, abbiamo iniziato a trovarci ogni due/tre settimane, e poi sem-pre più di frequente in prossimi-tà del convegno. Su invito degli operatori sono stati coinvolti altri giovani. Il gruppo ha avuto una struttura aperta fin dall’inizio, a volte eravamo in venti, altre volte in quindici, altre ancora meno, e non sempre con le stesse persone, quindi anche la modalità è stata sempre quella di fare un verbale ad ogni incontro e di farlo circola-re in modo che tutti sapessero più o meno di che cosa si era discusso, anche se ci era persi qualche pun-tata. Abbiamo iniziato a ragionare in maniera molto generale su che cosa fossero le politiche giovanili ed è venuto poi naturale scom-porre il tema in aree: casa, scuola, lavoro e tempo libero… Per quan-to riguarda il tema della parteci-pazione, ci siamo poi soffermati in due distinti momenti, a volte anche con difficoltà perché non riuscivamo a venirne a capo. Pian piano è emersa la struttura di que-sto workshop, alla quale hanno contribuito anche gli operatori, ma che abbiamo condiviso davve-ro punto per punto. La fatica più grande è stata quella di provare a

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tenere il livello della riflessione su un piano alto, teorico, senza però perdersi in astrattismi, e ricondu-cendo quindi ad una certa concre-tezza.

CHAIRMAN: Mi inserisco per una precisazione di tipo meto-dologico; in realtà si è chiesto ai ragazzi di ragionare in un piano che fosse di “meta-struttura”: le ri-flessioni che loro stavano facendo non avrebbero avuto e non avran-no probabilmente nell’immediato una ricaduta pratica, non incide-ranno probabilmente subito ri-spetto ai propri contesti territo-riali. Questa non è cosa da poco, perché probabilmente le politiche giovanili tendono invece a lavora-re in modo da avere una ricaduta immediata, sul “qui ed ora”. Noi siamo convinti che abbiano messo in atto un processo di vera educa-zione nel senso più profondo del termine. Non siamo un comune, siamo una cooperativa, e non ab-biamo un luogo fisico permanen-te su cui operare; tuttavia, questo approccio metodologico è diven-tato un punto di forza che ha per-messo ai ragazzi di rimanere al di fuori dell’obbligo del fare, mante-nendo un livello alto di ragiona-mento. L’altro aspetto: posto che non era facile per i ragazzi venire costantemente a tutti gli incontri, abbiamo preferito mantenere una

struttura del gruppo “a fisarmoni-ca”: ogni incontro valeva di per sé, ossia i temi e le decisioni si apri-vano e si chiudeva nel corso della stessa serata. Questa modalità ha permesso a tutti di esserci secondo le proprie disponibilità, senza per-dere tappe cruciali. E’ improprio definirli “unico gruppo di lavoro”, perchè mi pare più esatto sottoli-neare la molteplicità di gruppi che si sono creati man mano durante il percorso. Il verbale ha permesso di socializzare le decisioni prese e non disperdere i contenuti. Letto a posteriori questo approccio me-todologico è stato fondamentale e vincente, se si fosse costituito un unico gruppo, inevitabilmente si sarebbe impoverito e avrebbe perso pezzi per strada. Infine cre-do ci sia stato un piano di forte e chiara negoziazione iniziale: noi abbiamo esplicitato fin dall’inizio che cosa volevamo da loro, anche se c’è stata la necessità in corso d’opera di ridefinire alcuni punti. L’intervento di oggi, ad esempio, e molte altre cose del workshop, sono stati definiti in itinere. Ma ciò che è importante sottolineare è che quella negoziazione iniziale ha permesso estrema chiarezza da entrambe le parti, grande onestà nei rapporti, cioè partecipazione reale, trasparenza e potere di tutte le parti in causa.

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CHAIRMAN: Sono Mirko Piz-zolato e sono il Coordinatore del progetto “Di chi sono le politiche giovanili?” Nella giornata di ieri abbiamo ini-ziato un lavoro di confronto che ha coinvolto soprattutto tecnici e operatori del privato sociale, ab-biamo poi proseguito nel pome-riggio con una relazione che ha dato una prospettiva pedagogica delle politiche giovanili. Si tratta di una approccio che noi come cooperativa cerchiamo di portare avanti, nei nostri ambiti di lavoro.C’è stato poi un interessante mo-mento in cui tre ragazzi hanno presentato il loro punto di vista. Qualcuno forse si aspettava qual-

cosa di molto semplice, in realtà i ragazzi ci hanno stupito poichè hanno toccato in maniera straor-dinaria alcuni importanti aspetti.A questo punto il desiderio è quin-di quello di creare un confronto tra diverse posizioni e visioni, tra giovani, politici e tecnici. Ieri ab-biamo approfondito quelle che sono le politiche giovanili per i giovani stessi, cioè quelle che - come ci hanno detto con i loro in-terventi- li coinvolgono in quanto cittadini. Oggi ascolteremo quat-tro esperti che interverranno su quattro materie specifiche. Ab-biamo Vando Borghi, ricercatore presso l’Università di Bologna, sociologo che si è occupato mol-

Le politiche giovanili dal punto di vista sociologico, giuridico, economico e urbanistico

Gli interventi degli esperti: Vando Borghi (Università di Bologna), Fabio Giglio-ni (Università “La Sapienza” di Roma), Adriano Marangon (architetto), Paolo Zabeo (coordinatore ufficio studi CGIA di Mestre).

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to dei temi delle politiche sociali e il titolo della sua relazione, così come del laboratorio che seguirà è Giovani in transizione, tra vulnera-bilità e capacitazione. Il secondo relatore è un giurista: Fabio Gi-glioni, ricercatore presso l’Univer-sità di Roma, lavora con “Labsus”, portale che si occupa di sussidia-rietà; poi sarà la volta di Adriano Marangon, architetto che si occu-pa soprattutto di pianificazione urbana: proverà ad inquadrare le tematiche delle politiche giovani-li dal punto di vista urbanistico, approccio sicuramente atipico ri-spetto a quanto siamo abituati a pensare. La sua relazione e il la-boratorio si intitolano Spazi pre-occupati. Infine Paolo Zabeo, che si occupa di economia, ed è co-ordinatore del Centro Studi della CGIA di Mestre: il suo punto di vista permetterà di centrare alcune tematiche legate al fare impresa.

VANDO BORGHI: Io ho cercato di riflettere sullo scenario nel qua-le i giovani si trovano. Per capire lo scenario contemporaneo, sia su scala planetaria che su quella loca-le, è necessario partire da un tema preciso, quello della disuguaglian-za. La scorsa settimana in Emilia Romagna, ero a una piattaforma per il sindacato degli anziani, e in quella sede, nonstante il target di età fosse molto diverso da quello

di cui ci occupiamo in questi gior-ni, hanno fatto delle riflessioni interessanti sia per il mondo degli aziani che dei giovani. Queste ri-flessioni riguardavano temi comu-ni quali quelli legati alla città, alla vivibilità, ai servizi e ai trasporti, ma anche temi legati alle politiche in riferimento alle disuguaglianze e alla vulnerabilità, aspetto che proverò poi a spiegare meglio. Il dibattito che per anni si è svilup-pato all’interno delle scienze so-ciali, oggi dedica gran parte delle sue riflessioni al concetto di disu-guaglianza. Un altro punto che sento di dover precisare è quello legato al target di cui ci stiamo occupando, ossia i giovani. Una categoria che anagra-ficamente non è ben delineata nè esiste di per sè...esistono piuttosto delle persone, che per un certo periodo di vita si trovano a vive-re le stesse o alcune delle proble-matiche legate all’età, in maniera differente. Si va quindi su livelli di vulnerabilità differenziati, che portano ad aspettative diversifi-cate. Quindi più che andare su “i giovani” ho provato a creare una prospettiva di approccio all’argo-mento che potesse guardare alla condizione giovanile come ad un “indicatore di tendenza”, cioè a una sorta di pre-esemplificazione di un futuro che ci aspetta. Ri-spetto a queste tendenze sottoli-

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neo i numerosi fattori transiziona-li quali indicatori di tendenza. Se questo è lo scenario prospettico la conclusione è che le “politiche so-ciali” non possono solo imparare a proteggere, pur essendo un aspet-to importante, ma anche promuo-vere quelle capacità che possono essere definite capabilities. Cosa vuol dire guardare il mondo attraverso le lenti della disugua-glianza? E’ importante considera-re che le disuguaglianze possono essere varie a seconda dalla pro-spettiva o dall’aspetto valutato. Mi preme dire che le disuguaglianze esistono, ma non sono solo eco-nomiche, nonostante il loro peso consistente. Però noi possiamo vedere come il mondo assume forme diverse a seconda delle lenti che indossiamo. Nel sito www.worldmapper.org, c’è la possibilità di guardare il mondo attraverso la lente dell’aspetto che vogliamo analizzare. Nelle mappe sul sito non troviamo la forma del mondo così come siamo abituati a vederla, ma i rapporti tra i pae-si sono stati ricalcolati tenendo presente ogni volta un aspetto di-verso; in questo caso se vogliamo dipingere una cartina del mondo considerando quanti vivono con più di 200 $, queste persone me-diamente stanno sulla parte più “cicciona” della slide mentre alcu-ne zone scompaiono totalmente

dalla faccia della terra; anche l’Ita-lia in realtà è abbastanza “ciccio-na”. Zone come l’Africa o l’India sono davvero prosciugate.Cambiando i parametri attraverso cui dipingiamo il territorio si crea-no altre mappe. Un parametro è, per esempio, la questione del la-voro minorile e nello specifico dei paesi nei quali esiste lo sfrutta-mento per il lavoro dei bambini. Se partiamo dalla dimensione del-le disuguaglianze di tipo econo-mico, l’Italia presenta un quadro piuttosto preoccupante: il reddi-to pro-capite è aumentato vertigi-nosamente e velocemente, ma lo sono altrettanto le disparità eco-nomiche. Un aspetto di disugua-glianza su cui vi voglio portare a riflettere è la dimensione formati-va. Se ci soffermiamo sulla condi-zione dell’Italia per quanto riguar-da la mortalità formativa, ossia quanti decidono di sospendere la frequenza scolastica, vediamo che, rispetto al resto dell’Europa, la media di mortalità è piuttosto alta, considerando anche che è la sintesi tra una condizione meri-dionale in cui questo dato è molto più alto. Un altro aspetto partico-larmente preoccupante è quello della formazione permanente: dal 2004 le persone che partecipano all’educazione permanente, ossia ad un costante aggiornamento, sono in Italia, mediamente molto al di

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sotto della tendenza europea.L’assunzione della prospettiva del-la vulnerabilità ci spinge a guarda-re ai processi di evoluzione sociale cercando di non limitarci sola-mente a guardare la dimensione economica. La vulnerabilità è la risultante di numerosi fattori, lo deduciamo da diversi fenome-ni che hanno visto anche l’Italia come protagonista, come altri paesi cosiddetti avanzati, e riguarda la categoria dei lavoratori poveri.Sembra una contraddizione in termini definire i lavoratori come “poveri” poiché il lavoro, di per sé rappresenta -e ha sempre rap-presentato- una delle condizioni che permettono di uscire da uno stato di povertà. Il fenomeno dei “working poors”, ossia dei lavo-ratori poveri, è emblematico per far capire che il lavoro non è una condizione sufficiente per garan-tire di essere preservati dalla vul-nerabilità. Altro fenomeno su cui bisogna soffermarsi è che risulta impossibile fare una distinzione netta tra ciò che è lavoro e ciò che non lo è, poichè il continuum tra ciò che significa essere occupato e non esserlo si è molto allungato. In mezzo c’è una zona grigia, una fase temporalmente molto varia-bile in cui esistono delle forme di para-occupazione o occupazione temporanea. Sono tutti quei lavo-ri occasionali che un ragazzo in-

traprende per sostenersi negli stu-di, occupazioni che da sole, però, non permettono di garantire un reddito sufficiente all’autonomia. Un’altra zona grigia, così come la definisce l’ISTAT, è quella che rac-chiude tutte quelle persone che, soprattutto nel meridione, di fat-to non risultano più negli elenchi della disoccupazione perchè dopo aver lavorato regolarmente per un certo periodo, hanno smesso, ad esempio, per dedicarsi alla cura della casa e della famiglia e che quindi sono potenzialmente “di-soccupate” ma non formalmente riconosciute. Per essere disoccu-pato ci devono essere dei criteri non esclusivamente legati alla pre-senza/assenza di lavoro. La vulnerabilità, come abbiamo visto, si esprime attraverso una combinazione di fattori, un altro dei quali è la famiglia. Fino a po-chi anni fa elemento di sostegno e punto di riferimento per i giovani, ora la rete famigliare si va progres-sivamente saturando, usurando sempre di più e questa frattura del tessuto sociale si va ad aggiungere agli altri fattori culturali, persona-li che contribuiscono a favorire il rischio alla vulnerabilità.I giovani non possono essere in-quadrati come una categoria so-ciale unica, oggettiva, ma è più sensato definirli un indicatore prospettico del futuro che ci at-

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tende, ossia di come potrebbe essere il mondo di qui a qualche anno.Orientare le politiche giovani-li sull’indicatore di tendenza che abbiamo fin qui a disposizione, si-gnifica sostanzialmente affermare che il rischio sociale non è legato al fenomeno economico in sé e per sé ma che è l’esito di com-binazioni di fattori che possono creare problemi e difficoltà anche in condizioni “normali”. Nello specifico contesto della realtà gio-vanile, infatti, pesano in maniera determinante le condizioni transi-zionali. Lo schema del ciclo di vita delle persone cambia nel tempo e so-prattutto per i giovani quello sche-ma che consisteva in una prima fase di istruzione, una seconda, relativamente breve, di apprendi-stato e una terza di lavoro vero e proprio, completata da una quar-ta generalmente dedita al riposo e all’anzianità, questo schema oggi appare inutilizzabile. Le condi-zioni transizionali si moltiplicano perchè sono sempre più le perso-ne in una fase di attraversamento dalla formazione al lavoro, dal la-voro all’aggiornamento, passando magari per momenti di precariato lavorativo o per pause dovute a scelte familiari.Queste trasformazioni radicali dei meccanismi di vita e della struttu-

ra di vita divengono determinan-ti per capire che tipo di struttura delle politiche giovanili dobbiamo costruire, che tipo di strumenti dobbiamo dare per sostenere que-ste transizioni e per far sì che que-ste transizioni non si traducano in trappole permanenti o porte di ingresso alla stanza della vulnera-bilità. In una città come Modena, mi è capitato di parlare con per-sone che si sono perse nel passag-gio dalla scuola media alla scuola superiore e mi sono reso conto che non esistono processi che ve-rifichino se il ragazzo stia o meno all’interno del circuito scolastico e che magari strutturino dei percor-si alternativi che gli permettano di non “perdersi”. Questo solitamen-te non accade perché non esiste un “qualcuno” che svolga questa funzione, cosa che dovrebbe esse-re dei presidi ma di solito hanno molte altre cose da fare di più ur-genti, i servizi sociali dicono che non è di loro competenza..que-sta è una cosa insomma che pare non voglia fare nessuno. Se que-ste sono le condizioni sociali che vincolano gli scenari che abbiamo di fronte a noi, le Politiche non possono essere esclusivamente di riparazione o di protezione, non devono limitarsi esclusivamente a fare un intervento “ex post”. Par-lare come fanno tutti di “Politi-che di Attivazione” è molto facile,

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molto più difficile è invece realiz-zarle e metterle in pratica. E’ tanto complicato che io in Italia non ne conosco, e vedendo invece come funziona in altri territori all’este-ro, in particolare nelle politiche di cooperazione internazionale, risulta evidente che la sensibilità è ben diversa.Ci sono in Italia delle persone di buona volontà, enti no-profit, ser-vizi sociali...bravi e generosi che lavorano dentro un’ottica di atti-vazione, ma se dovessi comparare misure di attivazione con quelle riportate dai miei colleghi sul pia-no internazionale, dovrei usare misure che sono più familiari agli storici che agli operatori del so-ciale, quali strumenti del reddito minimo d’inserimento. Il mantra di questi contesti di riflessione è quello di “costituire politiche di attivazione”, poiché le politiche passive non bastano più. Il rischio è che anche laddove queste poli-tiche si attuano, le si facciano in maniera riduttiva, ossia si limi-tino solo ad alcuni aspetti, con effetti secondari negativi, come la de-responsabilizzazione collet-tiva: “Se vuoi ottenere qualcosa datti da fare, magari ti do anche qualche soldino in più ma poi te ne assumi totalmente la respon-sabilità dell’esito; inoltre ti do se mi dimostri di essere in grado di portare avanti l’impegno preso”.

Questa è un’interpretazione piut-tosto discutibile del concetto di attivazione.C’è poi un’applicazione pratico-procedurale, anche se il termine che uso è piuttosto brutto, por-to l’esempio del reddito minimo d’inserimento in Italia: questo ha funzionato per alcuni aspetti nel dare delle garanzie di base, ma ha fallito laddove è stato usato come una misura vecchio stampo, ossia come una politica di re-distribu-zione a pioggia dei residui.Per me tutte queste non sono po-litiche di attivazione: l’attivazione o è reciproca o non è. L’attivazio-ne esce direttamente dall’ambito delle cooperative sociali. Io per diversi anni ho lavorato in una cooperativa che si occupava di ra-gazzini vivaci e ho visto che fare attivazione significava mettersi in moto reciprocamente: l’azione de-gli operatori doveva permettere ai bambini di percepirsi non come votati al fallimento, ma come persone dotate di risorse spendi-bili. Per fare questa cosa i primi ad attivarci eravamo proprio noi operatori. L’attivazione scattava se c’era una disponibilità reciproca a mettersi in discussione. Il messag-gio invece che passa spesso, quan-do si parla di attivazione è quello del “datti da fare”. Gli studi più recenti hanno dimostrato che nel-le politiche dell’attivazione quello

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che funziona di più è la così detta “Street level bureaucracy”, ossia la politica di attivazione della stra-da, dove i bisogni dei cittadini vengono direttamente “colti” dal territorio, dalla strada appunto. C’è un bellissimo libro su questo argomento in cui vengono messe a confronto tutte le figure che fan-no politiche di attivazione sulla strada: gli insegnanti, i poliziotti, gli assistenti sociali, gli animatori e gli educatori...tutti coloro che hanno un contatto diretto con i cittadini che esprimono dei biso-gni. Questo dimostra chiaramente che è in strada che si crea o non si crea attivazione. Una precisazio-ne: il fatto che ci siano dei servizi e qualcuno che vi fa riferimento, non dà la garanzia che sia innesca-ta una politica di attivazione. E’ lo scambio costante e reciproco tra questi due partner ciò che garan-tisce una politica di attivazione. Il cittadino deve essere in grado di esprimere la sua “voice”: negoziare ed essere un interlocutore ascolta-to, non solamente saper dire ciò che gli serve o meno, secondo il tipico comportamento del con-sumatore. Il cittadino deve poter dire la sua opinione, portare le sue esigenze, in modo che il servizio le raccolga e, se serve, che modifichi il servizio stesso. Qual è quindi lo spazio nel quale operano le Politiche?

La prima condizione è quella della “capacità”: le Politiche dovrebbero avere il compito di aumentare le capacità e di migliorare i funzio-namenti. Un conto è saper usare uno strumento, un altro è usarlo: possedere l’abilità non è l’unica condizione di poterla mettere in pratica, sono necessarie altri fatto-ri, la sicurezza, ad esempio. La Politiche, comprese quelle gio-vanili, sono quelle che agiscono sui fattori di conversione, quali il funzionamento e le capacità.

CHAIRMAN: Grazie mille a Vando Borghi e passo immedia-tamente la parola al secondo rela-tore: Fabio Giglioni, che guarderà la questione da un punto di vista giuridico.

GIGLIONI: Adesso dobbiamo fare uno sforzo e cambiare gli occhiali che abbiamo utilizzato fin’ora per guardare il tema delle politiche giovanili da un punto di vista giuridico. Se la prospetti-va è questa, dobbiamo assumere come punto di riferimento quelle norme che hanno come oggetto la condizione giovanile. Innanzi-tutto è bene chiarire che l’unico punto di riferimento giuridico per la condizione giovanile è la condi-zione anagrafica. Se osserviamo la condizione giovanile dal punto di vista normativo possiamo ritrova-

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re tre categorie di norme:● le norme che impongono limiti e divieti;● le norme che assumono i giova-ni come utenti;● le norme che favoriscono azioni e progetti promossi dai giovani.Vediamo nel dettaglio queste cate-gorie: la prima si limita a disporre sulle condizioni limitanti diritti che sono potenzialmente nella ca-pacità e nell’esercizio dei giovani. Nel nostro ordinamento giuridico una persona, dal momento in cui nasce, è già dotata di capacità giu-ridica, ma ha una limitata di pos-sibilità agire: per compiere atti vincolanti nei confronti di terzi deve attendere il compimento del diciottesimo anno. Prima può farlo solo in presenza di tutori, di procuratori e cioè con terza per-sona in ausilio. Un giovane può partecipare alla vita politica anche da minorenne, ma acquisisce di-ritto di voto solo al compimento del diciottesimo anno. Ci sono divieti che attengono ad altro tipo, ad esempio quello del consumo di alcolici in alcuni cen-tri urbani, oppure divieti rivolti a terzi, ad esempio rivolti a com-mercianti di alcolici e tabacchi, i quali non possono vendere i loro prodotti ai minori. Questa categoria di norme scatu-risce dal presupposto che i giovani abbiano un’età insufficiente per

assumere impegni di responsabili-tà sociale. Per questo motivo, l’or-dinamento limita loro la possibi-lità di scegliere e di agire. Questo tipo di norme disegnano un mo-dello in cui libertà e autorità sono dimensioni contrapposte.La variante è un modello abba-stanza classico di contrapposizio-ne tra autorità pubblica e cittadi-ni; la cosa interessante, soprattutto per quanto riguarda i divieti che attengono ai minori, è che que-sta limitazione della libertà non è solo a tutela degli interessi ge-nerali ed estranei, ma degli stessi beneficiari di un servizio, quindi dei giovani stessi.Vediamo ora la seconda categoria: le norme che considerano i giova-ni come fruitori. In genere queste norme si limitano a individuare i bisogni di certe categorie di sog-getti e predispone tutta una serie di servizi e di interventi. Visto che ci occupiamo di attività giovanili, il servizio per eccellenza è quello dell’istruzione, ma agevolazioni per i giovani sono riscontrabili anche nella partecipazione alle spese sanitarie per il Sistema Sa-nitario Nazionale o nelle politiche rivolte alle famiglie adottive, che accolgono minori rimasti senza i genitori naturali. Questo model-lo vuole individuare quei bisogni che l’ordinamento giuridico ritie-ne meritevoli di essere soddisfat-

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ti e si assume in prima persona il compito di strutturare un sistema che permetta di regolarli e rispon-dervi.Alcuni di questi interventi sono rivolti a tutti, indistintamente, in altri casi c’è bisogno di un filtro preventivo che permetta di in-dividuare a chi sia necessario un intervento normativo. Questo è il modello classico del Welfare State: i Poteri Pubblici assumono una funzione attiva nell’individuare e soddisfare i bisogni.Nella terza categoria di norme troviamo quelle che promuovono politiche proattive, nelle quali i giovani assumono un ruolo atti-vo. In questo caso le istituzioni si limitano a creare dei network tra società civile e giovani. Il Servizio Civile, per esempio, è in qualche modo un esperimento di questo tipo, in cui le Istituzioni pubbli-che selezionano progetti merite-voli di essere sostenuti e volon-tari che si rendono disponibili a realizzarli. Tra questi due soggetti c’è una terza figura, la Pubblica Amministrazione che “norma” e predispone un rapporto lavora-tivo. Queste iniziative da parte delle Istituzioni possono essere promosse in modo eterogeneo, ad esempio dando anche dei sostegni di carattere economico.Qual’è la finalità di questo terzo modello? È quella di consentire

ai giovani di esprimere le proprie capacità, potenzialità e talenti per perseguire determinate azioni che le Istituzioni ritengono meritevoli di essere sostenute. E’ questo un modello che segue il principio di “sussidiarietà”: bisogni e azioni sono direttamente messi in evi-denza dai destinatari dell’inter-vento, in altre parole, i giovani sono sia i destinatari dell’inter-vento sia coloro che lo realizzano praticamente, divengono parte attiva curandone tutte le fasi di realizzazione. Continuo nel raffronto tra questi tre modelli di norme, assumendo il punto di vista delle relazioni.Tutti questo modelli prevedono, da un lato, i cittadini e, dall’altro, un’autorità pubblica, ma cambia-no le relazioni tra di essi.Nella prima categoria di norme esiste una contrapposizione tra autorità e libertà, poichè si ritie-ne che la libertà lasciata ai sog-getti privati non necessariamente potrebbe produrre un interesse generale per la collettività, quindi l’autorità, contrapponendosi alla soggettività, diviene garante del benessere generale.Nel secondo caso la relazione si traduce in una forma di sostegno tra autorità e privati, in cui la pri-ma individua e soddisfa i bisogni dei secondi. I cittadini diventano quindi dei beneficiari di interven-

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to.Il terzo modello, quello della sus-sidiarietà, è l’esempio invece di un processo di cooperazione, in cui due soggetti contraggono un’alle-anza per la realizzazione di azioni e progetti che soddisfano interessi anche di portata generale e collet-tiva. Proviamo ora a leggere questi mo-delli sotto la prospettiva dei biso-gni.Nel primo modello autorità/liber-tà, il bisogno non viene nemmeno preso in considerazione: la norma esprime un pregiudizio, indivi-dua il bisogno e ne pone il limite poiché ritiene che grazie anche a quella limitazione si possa realiz-zare la soddisfazione del bisogno.Nel secondo modello, quello del welfare state, il bisogno è rilevato sul campo, ma è etero-derminato, ossia sono le autorità pubbliche che lo individuano.Nel terzo modello, quello della sussidiarietà, i bisogni sono au-toderminati: quei cittadini che esprimono un bisogno sono gli stessi che si attivano e realizzano progetti atti a soddisfarlo.

Proseguiamo esaminando i tre modelli dalla prospettiva degli in-teressi generali.Nel primo caso è la norma stessa che individua l’interesse generale

e che si impone autoritativamen-te ai soggetti privati. Nel secondo caso -del welfare state-, gli interessi privati sono individuati dalla pub-blica amministrazione che filtra i bisogni, anche in relazione alle di-sponibilità economiche e decide, secondo la propria scala di priori-tà, quali meritano di essere soddi-sfatti. Nel terzo caso -modello di sussidiarietà- l’interesse generale è condiviso tra i soggetti promotori dell’azione e la pubblica ammini-strazione.Prendiamo ora in considerazione i tre modelli in rapporto al potere pubblico. Nel primo modello, il potere è di tipo autoritativo: ven-gono posti limiti, divieti e sanzio-ni. Nel secondo caso, l’esercizio del potere avviene a monte, nel momento in cui preventivamente seleziona quali cittadini debbano essere beneficiari di un intervento o di un servizio.Nel modello della sussidiarietà il potere non c’è, perchè per pro-muovere quelle azioni non c’è bi-sogno del potere ma della comu-nicazione, per attivare processi di convincimento comune in modo che si sviluppino processi genera-tivi.Esaminiamo ora i tre modelli a partire da una nuova ottica, quella della responsabilità dei giovani.Nel primo caso la norma defini-sce ciò che è lecito e ciò che non

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lo è: la responsabilità dei giovani è totalmente assente. Nel secondo caso, quello del welfare state, la re-sponsabilità esiste, ma viene limi-tata all’osservanza di alcuni obbli-ghi e nell’espletare alcuni compiti.Nel terzo modello la responsabili-tà dei giovani è invece molto forte, poiché essi si assumono la respon-sabilità dell’esito delle proprie azioni e degli obiettivi concordati con le Istituzioni pubbliche.

Tra i modelli fin qui presenta-ti credo che il terzo, quello della sussidiarietà, sia il più interessan-te, poiché prevede che i giovani non siano solamente dei soggetti da tutelare o soddisfare nei loro bisogni, ma anche dei soggetti in grado di rispondere ai bisogni col-lettivi, e quindi soggetti portatori di risorse.Questo modello, sia pure sporadi-camente, sia pure in maniera non diffusa, si realizza da diversi anni in contesti locali, ma ultimamente sta assumendo un interesse molto più ampio. Ad esempio la Comu-nità Europea cerca di promuovere azioni in cui i giovani siano pro-tagonisti in una logica di sussidia-rietà. Il Servizio Volontario Euro-peo, i progetti Erasmus all’interno degli scambi culturali universita-ri, sono servizi che rientrano in quest’ottica. In Italia, inoltre, esiste da alcuni anni un ministe-

ro senza portafolio sulle politiche giovanili. Anche dal punto orga-nizzativo stiamo assistendo ad un progressivo interessamento nei confronti delle politiche giovanili.La cosa più interessante è che possiamo definire il modello del-la sussidiarietà con questo appel-lativo in virtù del fatto che, con modifica costituzionale del 2001, è stato modificato l’art. 18 del-la Costituzione, al comma 1. In quella norma, che riguarda la sus-sidiarietà orizzontale, si legge che Stato, Regioni, Province, Comuni favoriscono le autonome inizia-tive dei cittadini, singoli o asso-ciati, nella realizzazione di azioni volte a beneficio della comunità. E’proprio questo approccio pro-attivo che consente ai giovani di agire in maniera sussidiaria: que-sta norma afferma che ogni qual volta i cittadini si attivano per promuovere un interesse gene-rale, le istituzioni sono obbligate a favorire la realizzazione di tali proposte. Questo è un elemento giuridico estremamente impor-tante, poiché, pur esistendo delle sperimentazioni prima della mo-difica dell’ordinamento, ora la nuova norma crea un elemento di contesto nuovo e la relazione non è più esclusivamente di un potere che concede e di un beneficiario che riceve. Grazie a questa norma anche i cittadini hanno il diritto

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di occuparsi della “cosa pubblica” e le Istituzioni hanno l’obbligo di garantire che il cittadino si espri-ma liberamente.Vorrei ora soffermarmi sul tema della cittadinanza, collegata ad esempio ai diritti politici. Sono Cittadino se riesco ad esercitare il mio diritto di voto per determi-nare l’indirizzo politico del mio paese. Questa è un’idea di cittadi-nanza molto burocratica. Si può anche intendere la cittadinanza come l’essere parte di una comu-nità che ha diritto di usufruire di servizi. Questa è una cittadinanza di carattere sociale. Il modello di sussidiarietà, però, implica una di-versa idea di cittadinanza, poiché ai cittadini viene riconosciuto un ruolo importante, pur non aven-do formali cariche istituzionali o pubbliche. Il valore di questo mo-dello e il suo significato lo si com-prende, per esempio, se si pensa a tutti quei giovani che cittadini italiani lo saranno molto tardi o addirittura mai, come ad esempio gli immigrati; la possibilità, per loro, di avere un’incidenza, pur non essendo giuridicamente rico-nosciuti, ha un forte impatto so-ciale. Possiamo dire quindi che la norma della sussidiarietà permette il riconoscimento degli stranieri e una loro integrazione senza discri-minazione di razza o provenienza politica.

Se vediamo le politiche giovanili dal punto di vista giuridico abbia-mo quindi in sintesi tre modelli, ma di questi tre è evidente che solo l’ultimo, quello della sussi-diarietà, è quello che punta sulle potenzialità dei giovani e sui desti-natari delle stesse politiche come fattore positivo di integrazione e quindi anche di cittadinanza.

CHAIRMAN: Cambiamo com-pletamente materia, con l’archi-tetto Adriano Marangon.

ADRIANO MARANGON: Pre-figgendomi l’obiettivo di mettere in relazione le politiche giovanili con gli aspetti legati all’urbanisti-ca e al governo del territorio, vi propongo qualche riflessione libe-ra riferita più ad un senso generale di rapporto tra la comunità socia-le in senso ampio (consideriamo i giovani non come categoria chiu-sa ad un aspetto solo anagrafico) ed il luogo in cui vive. Da qui il titolo della comunicazio-ne: “Luogo e Società”. In questo senso si riprende il titolo di una rivista “Spazio e Società” diretta da Giancarlo De Carlo tra il 1979 e il 1997 che trattava temi legati al rapporto tra la città, gli ambiti di vita sociale e l’urbanistica: temi teorizzati e studiati con evidenza negli anni ’60 e ’70.Ho intitolato questa riflessione

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“Luogo e Società” per necessità di contestualizzazione. Luogo come ambito spaziale definito da una comunità; sovrapposizione di spa-zio ed esperienza, che trasforma ambiti spaziali in luoghi appunto, vissuti da soggetti dove si stratifi-cano esperienze, contatti, contra-sti, percezioni, relazioni; spazio dell’esperienza che fa riferimento ad una dimensione fisica e sociale.Ma qual è il ruolo dell’urbanisti-ca come disciplina del governare i rapporti tra società e luogo in cui esplica il proprio vivere? E’ suffi-ciente osservare, nelle definizioni proposte da illustri architetti/ur-banisti, come il concetto di urba-nistica si sia modificato nel corso del tempo.Nel 1966 (Enciclopedia Universa-le dell’Arte) Giovanni Astengo de-finiva l’urbanistica “la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti avendo come pro-prio fine la pianificazione del loro sviluppo storico, sia attraverso l’interpretazione, il riordinamen-to, il risanamento, l’adattamento funzionale di aggregati urbani già esistenti e la disciplina della loro crescita, sia attraverso l’eventuale progettazione di nuovi aggregati, sia infine attraverso la riforma e l’organizzazione ex novo dei siste-mi di raccordo degli aggregati tra loro e con l’ambiente naturale”.Nel 1969, nel Dizionario Enci-

clopedico d’Architettura e Urba-nistica, Ludovico Quaroni defi-niva l’urbanistica la “disciplina che studia il fenomeno urbano nella sua completa interezza, onde fornire su di esso dati conoscitivi interessanti i singoli suoi aspetti e le reciproche loro interrelazioni, perché possano eventualmente ve-nire utilizzati per meglio orientare le molte azioni di carattere poli-tico, legislativo, amministrativo e tecnologico che continuamente vengono a modificare la realtà di un territorio”.Nelle definizioni vorrei sottolinea-re alcuni termini per indicare una sorta di evoluzione della discipli-na. Astengo parla di urbanistica in legame diretto con la città storica e l’ambiente naturale: riordina-mento e risanamento sono pre-valenti. Quaroni considera l’ur-banistica come materia complessa che ha a che fare con il governo, affidato all’azione politico-ammi-nistrativa, delle interrelazioni tra elementi urbani.Nel 2003, un architetto contem-poraneo olandese di rilievo, Rem Koolhaas (nel 2000 è insignito del Pritzker Architecture Prize: uno dei maggiori riconoscimenti di livello mondiale) scrive: “Sono convinto che l’urbanistica così come la si pensa oggi non abbia alcun senso: i sistemi di governo e di controllo dei fenomeni che

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essa presuppone non esistono più. (…) Il quadro intellettuale, il vo-cabolario, i valori e i più intimi ri-ferimenti delle nostre professioni sono molto antichi, spesso bimil-lenari. Il che li rende inadatti (…) E’ in questa direzione che vanno appunto i miei sforzi. Nel senso di capire questa rottura, questo cambiamento della condizione urbana”.In tempi recenti, dopo che per anni ci si è illusi di poter regolare e controllare il disegno della cit-tà attraverso norme, regolamen-ti, prescrizioni, ecc. si registra un sostanziale fallimento della disciplina urbanistica. Koolhaas lo registra con particolare lucidi-tà. La situazione italiana è anco-ra peggiore. Il disegno del nostro ambiente di vita, sia esso costruito o spaziale, è stato deciso e deter-minato dalla categoria dei costrut-tori. Il paesaggio (paesaggio come totalità dello spazio e cioè come sommatoria di pieni, di vuoti e della loro interrelazione) contem-poraneo è il risultato di azioni che hanno più a che fare con le leggi dell’economia che con quelle del vivere bene. Il fallimento forse ha a che fare con una eccessiva semplificazio-ne dei modi di agire e di rispon-dere alle esigenze della comunità pubblica. La complessità sociale, il cambiamento del mondo del

lavoro, il mutamento della com-posizione famigliare classica, la multietnicità crescente, sono tutti fattori ai quali non si è data una adeguata rispondenza in termini di politica urbanistica soprattutto per gli aspetti pubblici. Sembra quasi che la città (intesa come sistema spaziale organizza-to per la vita in comune) non sia più una necessità. La città non è soggettiva, realizzata per singole autonomie, ma oggettiva e razio-nalmente organizzata. Ora que-sta definizione, questo modo di concepire lo spazio comune, si sta dissolvendo. E’ la metropoli / città infinita / città diffusa con le sue forme di desocializzazione a dis-solvere lo schema della città clas-sica, la sua storia e di conseguenza i suoi legami sociali: chiesa, fab-brica, piazza non sono più i poli centripeti che tengono tutto assie-me come un organismo.La città ha perso il suo centro a favore di una periferia generalizzata, si sono dissolti i confini fra l’una e l’altra, il centro non ha più la suprema-zia ma per tutto ciò si sono aperti degli scenari di nuove opportuni-tà che per primi sono stati indivi-duati proprio dai giovani. In questo senso il sistema metro-poli diventa un valore. La metro-poli è l’ambito privilegiato dell’in-terazione socializzante in quanto molto più simile e vicina alla rete

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(web) che alla città storica di cui sopra si è fatto riferimento. Inte-ressante in questo senso è il con-cetto di “sociazione” (proposto da Georg Simmel) come forma di interazione che tende a mettere in contatto ambienti sociali diver-si e a ridurre le distanze fra loro esistenti. L’entrare in contatto con altre cerchie sociali, permet-te di assumere altre informazioni e di “ammorbidire” le rigidezze mentali a favore di nuove attivi-tà e nuove esperienze. E questo fa bene perché apre e spinge verso una dimensione attiva piuttosto che contemplativa o attendista.Questo dovrebbe considerare l’urbanistica contemporanea nel ragionare sulla mutazione del pae-saggio tutto.Alcune veloci considerazioni in questo senso:• si dovrebbe eliminare la con-traddizione contenuta nell’espres-sione “controllo del territorio”. Se consideriamo il territorio in una fase di mutazione, non possiamo accostare al termine di mutazione la parola controllo: con la muta-zione si interagisce, non si va in contrasto;• si consideri il ruolo e l’impor-tanza dello spazio vuoto. Il vuoto svolge una funzione di equilibrio dinamico tra forze che si attraggo-no o si respingono. Il vuoto con-sente connessioni, relazioni, cesu-

re, avvicinamenti, allontanamenti ma senza forzature: i processi non vanno mai imposti, ma favoriti. Facendo un esempio concreto: la posizione, la forma, i materiali di una semplice panchina pubblica sono importanti per determina-re il più ragionevole equilibrio (in termini socializzanti) di uno spa-zio pubblico;• se le relazioni sono un valore, è fondamentale considerare la ca-sualità e il caos come elementi di valutazione importanti;• considerare l’importanza dell’equi-librio fra il concetto di appar-tenenza e quello di autonomia, evitando il rischio di comunità troppo chiuse (vedi: J. G. Ballard, Un gioco da bambini, Baldini & Castoldi, 1999).E’ all’interno di queste considera-zioni che dovrebbero trovare spazi di discussione l’ambito, istituzio-nale e non, delle politiche giova-nili.…Ma quali sono le opportunità?Facendo brevemente riferimento al quadro normativo, la legge re-gionale 11/04 “Norme per il go-verno del territorio” (nella quale vengono definiti gli strumenti ur-banistici, le regole e i livelli di pia-nificazione), introduce all’interno dell’iter del processo di elaborazio-ne delle strategie di sviluppo ur-bano comunale e sovracomunale, il coinvolgimento delle comunità

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sociali locali. L’art.5 prevede una fase di “concertazione e partecipa-zione” ed in particolare al secon-do comma così recita: “L’ammi-nistrazione (…) assicura, altresì, il confronto con le associazioni economiche e sociali portatrici di rilevanti interessi sul territorio e di interessi diffusi, nonché con i gestori di servizi pubblici e di uso pubblico invitandoli a concorrere alla definizione degli obiettivi e delle scelte strategiche individuate dagli strumenti di pianificazione.”Alcune amministrazioni pubbli-che hanno comunque utilizzato il processo partecipativo per proget-ti di interesse pubblico.Le politiche giovanili possono e devono considerare il proces-so partecipativo come momento fondamentale per l’espressione delle proprie esigenze e la rivendi-cazione delle proprie aspettative. L’urbanistica della partecipazio-ne non è una novità, e per l’Italia non sempre ha prodotto risultati buoni, con alcune eccezioni. Ri-cordo la vicenda degli operai del-le acciaierie di Terni che all’inizio degli anni ’70 sono stati coinvolti nella programmazione e progetta-zione del quartiere Matteotti per imposizione del progettista stesso, l’architetto Giancarlo De Carlo: fu creato uno staff interdiscipli-nare, organizzata una lunga serie di incontri preliminari per rac-

cogliere dati, allestita una mostra documentaria su casi edilizi esem-plari, avviato un processo parteci-pativo con discussioni accese non solo sull’architettura ma anche sui ruoli, sulle libertà e sui compiti re-ciproci. Alcune soluzioni proget-tuali vennero decise e disegnate nel corso degli incontri pubblici. L’intento dell’urbanistica della partecipazione è di perseguire il miglior progetto possibile, ma questo dipende dal grado di con-sapevolezza di ciascuno rispetto ai temi complessi (non certo esausti-vi) discussi prima.Credo che, visto come sono an-date le cose fino ad oggi, non ci siano né norme né regole che pos-sano garantire risposte e risultati (in termini di scelte urbanistiche e realizzazioni concrete) per le politiche giovanili. Dipende da noi tutti, dai nostri atteggiamenti sociali, dalla nostra storia cultu-rale, dalla nostra determinazione. Ognuno faccia la propria parte. In questo senso concludo con una ci-tazione/metafora di Borges che mi sembra chiarificatrice per quanto fin qui detto: “Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascor-rendo gli anni, popola uno spa-zio con immagini di provincia, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e

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di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di idee traccia l’immagine del suo volto”.

CHAIRMAN: Passiamo ora all’ultimo contributo. Guardiamo ai giovani da un punto di vista economico, produttivo, del lavo-ro. Paolo Zabeo. PAOLO ZABEO: Mi aggancerò a quanto è stato detto per non per-dere le sollecitazioni interessanti che sono state fatte, ma stravolge-rò un po’ la prospettiva e soprat-tutto la scaletta che mi ero fatto affrontando il problema delle po-litiche giovanili più da un punto di vista politico, mentre arriverò a parlarne in termini economici solo in ultima analisi, nella par-te conclusiva del mio intervento. Credo che riuscirò a trovare un filo conduttore anche se il mio discorso non procederà in modo lineare. Mentre ascoltavo i miei colleghi riflettevo su quali politi-che giovanili uno stato moderno dovrebbe promuovere. Non sono un esperto, ma mi sono chiesto, ad esempio, per quanto riguarda le politiche per la casa, ci sono delle misure che vanno messe in atto per dare un vantaggio ai gio-vani? Credo di si, perchè lo vedia-mo quotidianamente, in questi ultimi anni uno dei problemi dei

giovani è proprio quello di metter su famiglia, acquistare una casa, andare in affitto. E’ un paese un po’ strano il nostro, pieno di con-traddizioni, che solo in Italia sono così evidenti. L’ottanta per cento della popolazione è proprietario dell’abitazione in cui vive, e que-sto fatto condiziona moltissimo la dimensione del lavoro, frenando ad esempio la mobilità lavorativa.Certo, il problema della casa ri-guarda i giovani ma, poichè l’età media di quando si mette al mon-do il primo figlio si è notevolmen-te alzata, accomuna altre categorie e fasce di età, non solo quella dei giovani. L’Italia ha il tasso di di-soccupazione giovanile tra i più alti d’Europa, ma paradossal-mente ha anche una bassa occu-pazione tra gli over 55 e questo dato è in contraddizione con il luogo comune che lasciar andare in pensione i “vecchi” permette di far posto nel mondo del lavoro ai giovani. Purtroppo questo non è stato, non si è verificato quel pro-cesso di ricambio che ci si sarebbe aspettato. Gli aiuti alle persono bisognose riguardano i giovani? Io credo di si...le statistiche ci dicono che il tasso di indigenza dei minori in Italia è più alto di quello degli over 65, solo la Gran Bretagna ci batte in questo.Se io considero questi elementi e

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guardo che cosa ha fatto il paese per cercare di affrontare queste problematiche, mi rendo conto che siamo andati in tutt’altra di-rezione. Noi abbiamo una spesa pubblica che è nella media euro-pea e cioè circa il 25% del PIL, però fortemente sbilanciato in fa-vore delle pensioni, cioè destinia-mo una quota generosa al paga-mento delle pensioni, circa i 2/3 della previdenza sociale, mentre per quanto riguarda le politiche della casa, la maternità, la disoc-cupazione, le famiglie bisognose, spendiamo poco o nulla. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che il nostro paese, nei decenni scorsi ha fatto una scelta ben precisa di sostenere alcune fasce sociali e di penalizzarne altre. In questa prospettiva la scelta di garantire un buon sistema pen-sionistico è stato anche un am-mortizzatore sociale, negli anni ‘70/80, quando hanno iniziato a chiudere le grandi aziende che da-vano da vivere a migliaia di perso-ne (mi viene in mente la Olivetti); si è deciso di fare dei pre-pensio-namenti, a 45/50 anni per favori-re il ricambio. Oggi questo non è più possibile, nella gestione delle aziende c’è tutto un sistema di vincoli che non ci permettono di attivare delle misure riequilibrati-ve. Sono convinto che un tasso di natalità quasi prossimo allo 0 sia

il risultato di questo tipo di scelte politiche.Il nostro paese ha scelto di tute-lare il lavoratore dipendente, tra i 50/60 anni, impiegato prevalente-mente nel settore del “pubblico”, meglio se con una serie di ammor-tizzatori sociali...così si sono pe-nalizzati tutti gli altri.Quando il welfare è tarato sulla fascia che crea opinione pubblica, che in qualche modo ha il potere di dare il consenso e di conferma-re i mandati politici, è ovvio che si cerca di mantenere un posto di governo, piuttosto che andare in contro alle esigenze dei cittadini, e nel nostro caso dei ragazzi e la loro precarietà lavorativa attuale si rifletterà nel prossimo futuro su quella previdenziale. Restiamo sulla precarietà: se in momenti di solidità dell’economia globa-le è tutto sommato sopportabile, l’instabilità lavorativa in periodi di crisi diventa un grosso proble-ma. A perdere il lavoro sono stati prevalentemente coloro che non avevano un contratto stabile, i cosidetti precari, i co.co.pro, in-tere categorie di persone prive di qualsiasi ammortizzatore sociale. Tuttavia lo scenario non è esatta-mente come ci viene prospettato dai media: sembra che tutti i gio-vani vivano nella precarietà, ma da analisi dell’ Eurostat sullo stato la-vorativo dei giovani italiani risul-

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ta che solo il 13 % degli occupati ha un contratto a termine, ossia instabile. In Germania il 14 %, in Gran Bretagna il 34%, in Francia il 13,4%. Poi se andiamo a vedere il range giovanile che va dai 15 ai 24 anni, i dati si modificano: in Italia l’atipicità è oltre il 40%, in Germania scende verso il 36,6%, in Francia è verso il 60%. Il pro-blema esiste, ma dobbiamo anche confrontarlo con le altre realtà euro-pee, per ridimensionarlo. Vi porto un esempio: proprio ieri sera sono stato invitato come ospite ad un convegno organizzato dalle ACLI, di Martellago (VE), insieme a me c’erano un sindacalista della CGIL e un manager della San Be-nedetto, azienda multinazionale di Scorzè (VE), e anche in quella sede è si è discusso della precarietà dei giovani. Una cosa mi ha fat-to riflettere: quando se ne parla, sembra sempre che la precarie-tà sia figlia di questi anni, ma le forme contrattuali introdotte dal ‘96 in poi hanno solamente reso più evidenti situazioni di precarie-tà che già c’erano, solo che prima erano sotto altre forme come la formazione-lavoro e l’apprendistato. Oggi esistono altre tipi di con-tratti temporanei che comunque permettono di legalizzare delle forme di lavoro, anche se non sta-bili, mentre una volta esisteva solo il lavoro nero come alternativa,

quindi anche se sembra un para-dosso, oggi i giovani hanno sem-pre un minimo di garanzia che prima non avevano. Come dicevo prima, questo è un paese un po’ strano, con poca memoria storica e la tendenza a ingigantire le que-stioni senza affrontarle. Mi riferi-sco ancora una volta ai dati: oltre il 70 % dei precari ha un titolo di licenza media o al massimo supe-riore, mentre siamo sempre porta-ti a pensare che la precarietà sia un problema dei laureati. C’è un’altra questione che fa di questo paese un caso straordinario dal punto di vista delle imprese: il 98 % delle aziende in Italia ha meno di venti dipendenti. Due terzi degli occu-pati, escluso il pubblico impiego, lavora in queste mini aziende; circa il 50% del valore aggiunto, escluso il pubblico impiego, pro-viene da queste piccole imprese. Quando vanno in crisi le grandi aziende (come Benetton, Fiat, ecc) la risonanza mediatica è enor-me, ma delle piccole imprese non si parla quasi mai, se non come aziende sfruttatrici, che evadono le tasse, che truffano lo Stato. Qualcuno ci dice: “Scusate, per-chè si fa così fatica a incrociare domanda e offerta di lavoro?... Perché ci sono molti laureati che rimangono precari per molti anni?...” Se lo scenario delle azien-de è per la stragrande maggioran-

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za composto di pochissimi dipen-denti e la formazione dei laureati è in facoltà che non si prestano ad essere impiegate in queste tipolo-gie aziendali, è ovvio che non c’è incontro. Il problema è che que-ste aziende sono troppo piccole e questi laureati che non hanno una formazione adeguata per metter-si nel mercato. Io non credo che il problema sia della dimensione delle aziende, ma credo si debba aprire una riflessione sulla scuola e sulla formazione dell’università.Io mi fermo qui senza la pretesa di aver esaurito tutte le questioni, ma spero comunque di avervi tra-smesso degli spunti di riflessione su cui aprire la discussione.

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Quello che segue è il resoconto dei quattro laboratori, svoltisi in due sessioni, e della discussione che ne è emersa in assemblea ple-naria. I risultati dei laboratori tengono conto del racconto fatto dai partecipanti, ma anche del resoconto dei facilitatori del Sestante, che hanno affiancato i quattro esperti nella conduzione dei labora-tori stessi.Per il laboratorio n.1, “Giovani in transizione, tra vulnerabilita’ e capacitazione”, il facilitatore è Lucia di Palma, per il laboratorio n.2, “Sussidiarietà e giovani”, il facilitatore è Benedetta Talon, per il terzo “Spazi Pre-Occupati” è Giovanna Bandiera, mentre per il numero 4,“Giovani e lavoro”, il facilitatore è Christian Pozzebon.

CHAIRMAN: Ora condivide-remo i risultati dei laboratori, per poi aprire un dibattito e un confronto sugli stimoli che ci ver-ranno offerti. Dopo di che, verso la fine del pomeriggio, avremo l’intervento di Adele Tinaburri, rappresentante dell’Agenzia Na-zionale per i Giovani. Questa sera invece durante la cena creeremo una situazione un po’ nuova, che abbiamo chiamato “Speaker cor-ner”: durante la cena a buffet ci sarà la possibilità di proporre dei temi liberi, che verranno poi discussi a seconda dell’interesse

I laboratori

personale,…sarà un momento di condivisione libera e “leggera”.Partiamo dal primo laboratorio, quello che vedeva il contributo di Vando Borghi, e il cui ruolo di fa-cilitatore era a carico di Lucia Di Palma.

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Laboratorio 1“Giovani in transizione, tra vulnerabilita’ e capacitazione”

DI PALMA: Il primo punto che abbiamo esplorato è stato il con-cetto di politica contrapposto a quello di società civile. La discus-sione è partita dalla provocazione sollevata dai ragazzi sulla scarsa presenza della componente poli-tica oggi al workshop, quindi ab-biamo analizzato il sentimento di sfiducia rispetto alla politica e il suo autoalimentarsi.Oggi al termine politica si attri-buisce un’accezione negativa, in contrapposizione alla società civi-le, connotata positivamente.Da questo confronto sembra evi-dente che bisognerebbe andare oltre la dicotomia verso un’intera-zione delle due dimensioni della società. Se vogliamo entrare in termini metodologici, noi tecnici che cosa possiamo effettivamente fare o attivare, per ridurre questa contrapposizione? Il tecnico può restituire la respon-sabilità politica ai politici e nello stesso tempo lavorare affinché gli operatori sociali rivalutino il senso e il valore stesso della po-litica. Noi tecnici abbiamo, nella quotidianità lavorativa, il duplice ruolo di incidere sulla cultura del cittadino rispetto all’istituzione e su quella dell’istituzione verso il

cittadino.Continuando sempre su questo ragionamento ci siamo detti che è importante il passaggio dall’indi-viduo al gruppo, dobbiamo, cioè, pensare al soggetto come parte della collettività e alle richieste dei cittadini come espressione di tale collettività. Al contrario le stesse istanze perdono valore se restano solo sul piano individuale.Siamo infine giunti a due doman-de aperte sul tema: “Come prova-re ad affrontare questa situazione? Dalle provocazioni emerse si sen-te un incremento nella voglia di cambiare questa situazione?” Ragionando su come sbloccare questa contrapposizione tra po-litica e società civile, abbiamo affrontato il tema della scuola, poiché ci è sembrata un’agenzia importante parlando di politi-che giovanili. Rispetto a questo è emersa la necessità di mettere in discussione il ruolo dei tecnici in relazione a quello degli insegnanti: se permettiamo che all’insegnante spetti solo il compito di trasmet-tere competenze o contenuti, non contribuiremo a cambiare il loro atteggiamento in relazione ai ra-gazzi e alle loro richieste.

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PARTECIPANTE 1: A proposi-to di questo riporto un esempio molto bello lasciatoci da Vando Borghi, su come sia possibile cam-biare l’ottica prospettica per af-frontare i problemi. In un centro per l’impiego finlandese, durante un colloquio per tracciare il pro-filo professionale, alla domanda: “Qual è la tua aspirazione…che cosa vuoi fare?”, il candidato ha risposto che il suo sogno era fare la Parigi-Dakar. In quel contesto, una simile risposta poteva sem-brare senza senso, ma l’operatore che teneva il colloquio ha preso sul serio la risposta e ne ha fatto un punto di forza del ragazzo poi-chè aveva capito la sua “capacità di aspirare”, come l’ha definita Van-do Borghi. Anzichè svalutare que-sta aspirazione, l’operatore ha ap-profondito quanto la motivazione fosse forte in questo soggetto e se avesse requisiti e motivazioni tali da soddisfarla. Questo esempio dimostra che il ruolo dell’operato-re è stato quello di valorizzare il soggetto, di portarlo a sviluppare l’idea che lui aveva tracciato e non di bloccarlo brutalmente.DI PALMA: L’altro concetto che abbiamo approfondito nel labo-ratorio è stato quello di vulne-rabilità, come insieme di fattori che, combinati assieme, creano una condizione di svantaggio, di fragilità e di inadeguatezza. Non

solo le ristrettezze economiche ma, ad esempio, la combinazione del il grado d’istruzione, la quali-tà della vita e le relazioni. Noi ci siamo chiesti se questo concetto di vulnerabilità non ci dovesse costringere a incrementare i ser-vizi assistenziali, aumentando proporzionalmente la fatica e i costi. Ci siamo poi tranquillizza-ti poiché abbiamo condiviso che non è tanto necessario aumentare i servizi, quanto migliorare il co-ordinamento e l’integrazione delle politiche dei servizi, migliorando le connessioni tra quelli esistenti. Siamo poi passati al concetto di partecipazione, intesa come ca-pacità di voice, come processo di partecipazione e di preparazione di condizioni che la favorisca-no, perchè non possiamo partire dall’idea che la partecipazione esi-sta di per sé, a priori. Vi riporto, a questo proposito, un esempio semplicissimo fatto dai ragazzi, di come si trovino spiazzati quando devono gestire autonomamen-te un’assemblea di classe, mentre normalmente sono abituati a vi-vere un atteggiamento fortemente etero-regolato (lezioni frontali). Davanti all’autonomia si rendono conto di essere privi delle compe-tenze necessarie per gestirla. Ab-biamo anche visto che tanto più si favorisce la partecipazione, quan-to più questa aumenta e si raffor-

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za, quindi è una sorta di “allena-mento” che si deve mettere in atto. L’ultimo concetto che volevamo sottolineare riguarda il sognare le condizioni che favoriscano la pre-senza attiva del cittadino all’inter-no della sua comunità. Se questa “capacità di sognare” non viene implementata, non si potranno neppure attivare quei meccanismi virtuosi di cittadinanza attiva di cui si parlava in mattinata.Un ultimo flash sulla necessità di connettere i saperi diversi, ossia la possibilità di mettere a confron-to figure con diversa formazione, esperti che provengono da ambiti culturali differenti che assieme si “contaminano” e producono idee innovative: il rischio è che nel-la tensione verso una specificità delle discipline si perdano invece i preziosi contatti con la realtà, multidimensione del cittadino, che è nello stesso tempo genitore, o studente o lavoratore e che vive sé stesso come sintesi di molte di-mensioni. Le discipline dovrebbe-ro essere in grado di fare un’ope-razione di sintesi e d’integrazione.L’ultima domanda aperta che la-scio a voi è: “Gli spazi dove il di-battito e il confronto anche tra figure differenti dove sono? Oltre a oggi e dopo questo convegno…che cosa succederà?”

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TALON: Obiettivo del laborato-rio era individuare alcuni aspetti significativi rispetto al tema “gio-vani e sussidiarietà” nell’ambito delle politiche giovanili. I parteci-panti erano giovani, tecnici (edu-catori e funzionari) e amministra-tori ed hanno lavorato in piccoli gruppi.Nella prima parte, partendo dal-le sollecitazioni date dall’esperto, i partecipanti, giovani, tecnici e amministratori si sono chiesti quali sono i punti di forza e di debolezza delle politiche giovanili rispetto al tema “Giovani e sus-sidiarietà”? Gli aspetti emersi dai piccoli gruppi sono stati poi pre-sentati agli altri. Dalla discussione che è scaturita abbiamo cercato di definire le priorità che i parteci-panti hanno sentito, rispetto alla tematica proposta.

Punti di debolezza emersi dai la-vori in piccolo gruppo:● gli amministratori non hanno un orario di ricevimento adeguato agli orari dei giovani; ● problema culturale: i giovani sono poco abituati a mettersi in gioco, a capire che possono inci-dere;● le amministrazioni faticano ad

individuare i bisogni dei giovani;● gli adulti danno delle opportu-nità ai giovani, ma non le rinfor-zano;● bandi per finanziare le iniziative giovanili esistono, ma sono com-plessi e difficilmente accessibili da parte dei giovani;● si percepisce una “visibilità stru-mentale” da parte delle ammini-strazioni e un dubbio: al centro ci sono i bisogni del cittadino o gli interessi dell’amministrazione?● la relazione fra amministratori e giovani è ancora spuria, risulta difficile porsi nell’ottica dei gio-vani; inoltre esiste una difficoltà nell’intermediazione fra giovani e amministratori e l’educatore fati-ca a mediare fra i due attori;● esiste un rischio di manipola-zione da parte delle amministra-zioni: “ascolto i tuoi bisogni, ma poi decido io”, come una sorta di ansia di controllare strumenti, spazi, accesso alle risorse;● manca la possibilità di controllo dei risultati da parte dei giovani;● prevale l’idea del fare, poco spa-zio dedicato all’analisi dei bisogni;● manca la “cultura della sussidia-rietà” (prevale l’individualismo);● i progetti giovani faticano a concepirsi su tematiche generali

Laboratorio 2“Sussidiarieta’ e giovani”

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rispetto ai giovani;● non ci sono forme chiare per regolamentare la sussidiarietà fra amministrazioni e cittadini/gio-vani;● la sussidiarietà a volte viena concepita dalle amministrazioni come attesa di “proposte”, ma quale ruolo favoriscono in senso attivo?● come immaginare innovazione attraverso la sussidiarietà?● la sussidiarietà coinvolge il tema del potere.

Punti di forza emersi dai lavori in piccolo gruppo:● gli educatori delle politiche gio-vanili diffondono il principio del-la sussidiarietà, nella relazione fra giovani e amministratori;● gli investimenti per i giovani permettono di creare nuove reti di condivisione fra giovani; favori-scono un nuovo pensiero; facilita-no una nuova relazione fra giovani e amministratori;● la sussidiarietà permette di atti-vare competenze nei giovani (ca-pacitazione);● grazie alla sussidiarietà, dall’in-teresse personale si passa ad un piano di interesse collettivo;● la sussidiarietà crea educazione alla partecipazione nei confronti dei giovani e favorisce il sentirsi in grado di incidere nelle scelte;● la sussidiarietà migliora l’inse-

rimento dei giovani nel tessuto sociale;● la sussidiarietà comporta l’ac-cesso al potere;● le politiche giovanili, concepite come processo, facilitano capaci-tazione, competenze, responsabi-lità;● le politiche giovanili sono tra-sversali a diverse aree (casa, lavoro, tempo libero…);● la sussidiarietà legittima l’essere cittadini.

Conclusioni. Il gruppo individua alcuni ele-menti prioritari rispetto al tema della sussidiarietà nelle politiche giovanili, elementi che rappresen-tano la fase di sintesi e conclusio-ne del laboratorio e che vogliamo consegnare alla tavola rotonda di domani mattina:• la sussidiarietà come strumento di governo per gli amministratori, per i funzionari e i tecnici, per i cittadini;• la sussidiarietà come policy (poli-tica pubblica): con il significato di stare e fare insieme e di obbligo di legge per l’ente locale;• la sussidiarietà è centrata sull’ef-ficacia e non sull’efficienza: ha un alto potere di “produttività” (im-patto economico);• trasmettere la cultura della sussi-diarietà a tutti i soggetti coinvolti (amministratori, dirigenti, dipen-

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denti, fino ai tecnici e ai cittadini);• i giovani chiedono strumenti e condizioni per l’applicabilità del-la sussidiarietà: da soli non hanno la possibilità, non conoscono gli strumenti, non sanno a chi chie-dere.

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Laboratorio 3“Spazi pre-occupati”

BANDIERA: Noi abbiamo cerca-to di concentrarci sui nodi critici che mettevano in relazione i gio-vani con la pianificazione urbana degli spazi. Il nostro cartellone di sintesi in questo apparirà certa-mente più confuso di quello che abbiamo visto fare nei laboratori precedenti. Pur muovendo da di-versi spunti di riflessione, ci siamo resi conto che tutto girava attorno ad un unico nodo fondamentale e condiviso da tutti: la marginalità e la settorialità delle politiche gio-vanili anche in termini urbanistici e spaziali. Per arrivare ad una con-nessione tra le politiche per i gio-vani e l’urbanistica dobbiamo, da un lato, ampliare il raggio di os-servazione, occupandoci anche di molte altre dimensioni e non solo quelle del tempo libero, dall’al-tro lato essere consapevoli che la marginalità si riflette anche sulla disposizione spaziale dei “luo-ghi” per i giovani e dei giovani, notando come le stesse scelte ur-banistiche relegano ai margini gli spazi giovanili. Basti solo pensare a dove di solito sono collocati, se ci sono, i centri giovani, le scuole, le palestre. L’urbanistica è quindi la cartina di tornasole della margi-nalità e fornisce, nello stesso tem-

po, la possibilità di entrare nella pianificazione degli spazi. In una prima fase sono emerse ulteriori considerazioni, tra le quali sono state individuate le priorità.Queste le nostre prime considera-zioni:• vi è poca interazione tra vertice e base nelle scelte urbanistiche, se-parazione tra chi fa e chi vive gli spazi;• ci sono esperienze di partecipa-zione nel costruire un piano urba-nistico? I PAT sono uno strumen-to reale? Ci sono strumenti validi per avviare processi corretti? • oltre al problema dello sviluppo del nuovo, vi è l’incuria nella si-stemazione, risanamento, valoriz-zazione del “vecchio”;• gli spazi spesso non sono a di-mensione dei giovani, non fa-voriscono la socialità, non sono spazi informali d’incontro, anzi più spesso condizionano negati-vamente, sono “etichettati” come ghetti;• ci sono molti spazi pubblici che sono di “nessuno” e spazi privati “in difesa”, fortini chiusi agli altri;• è importante creare degli spazi “predisposti a” e non troppo pre-definiti (esempio: meglio panchi-ne o sedie spostabili che fisse) e

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che siano in relazione ai reali bi-sogni, alle dinamiche dei luoghi. C’è bisogno di creare senso di ap-partenenza agli spazi;• il problema è come rendere con-sapevoli che lo spazio pubblico è un bene comune; • bisognerebbe rendere più visibi-le e centrale il lavoro che si fa con i bambini e i giovani.

Le conclusioni a cui il laboratorio è giunto, in termini di priorità, sono le seguenti:• un nodo che riteniamo impor-tante è la connessione tra i vari assessorati;•importante è anche individuare come favorire la “voce” dei giova-ni che usano gli spazi; • altro aspetto è quello della cul-tura, che probabilmente è davvero latitante, rispetto a quanto i gio-vani sanno o sono coinvolti nel processo di formazione che li vede possibili protagonisti dei propri spazi locali. E’ importante quindi lavorare sul valore del Bene Pub-blico;• notiamo anche come la stessa interdisciplinarietà che chiedia-mo ai politici la sentiamo anche noi educatori e quindi ci sembra importante inserirci all’interno di questa contaminazione per riflet-tere anche sui nostri ambiti pro-fessionali e compiti educativi.

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POZZEBON: Vorrei chiamare qui con me Anna, Tobia e Gia-como, partecipanti al laboratorio. Prima di iniziare voglio fare una premessa, poi lascio la parola ai ragazzi: questo laboratorio si è in qualche modo un po’ autogestito, in termini di conduzione. La te-matica non era neanche sempli-cissima, ma mi pare che comun-que le riflessioni e risultati siano interessanti. Le visioni dei parte-cipanti sono state volutamente mantenute separate, in modo da valorizzare quelle dei politici, dei tecnici e dei ragazzi e per suscitare quindi un maggiore confronto. Il gruppo si configurava come ete-rogeneo, ossia con rappresentanti di tutte e tre le categorie. Lascio quindi a voi la parola.ANNA – PARTECIPANTE 1: Quello che è emerso da par-te della rappresentanza politica presente nel gruppo è che forse è importante considerare quanto i giovani stanno “bene”, ossia il loro benessere, che può quindi di-ventare una risorsa. Benessere non significa solo eliminare il disagio, ma pensare in forma più ampia. Nei servizi infatti ci sono delle figure preposte per occuparsi del

disagio in senso stretto, mentre mancano dei servizi volti a pro-muovere l’agio. A questo propo-sito non ci sembra così banale nè scontato, partire dalle occasioni di confronto per arrivare ad esplici-tare le situazioni. La presenza, nel nostro gruppo, di assessori molto giovani credo sia stata una grande opportunità, anche per loro, che hanno modo di portare nella loro esperienza politica l’essere giovani e quindi essere vicini alle proble-matiche in discussione. Non paga lasciare agli altri il compito di ri-solvere i problemi nè demandare il lavoro senza sentirsi direttamen-te coinvolti.Altro aspetto considerato è la re-sponsabilità che rappresenta l’isti-tuzione e le buone pratiche in po-litica.TOBIA – PARTECIPANTE 2: Abbiamo avuto un po’ di difficol-tà nel rimanere circoscritti all’am-bito economico, quindi durante la fase dei gruppi abbiamo cer-cato di focalizzare un po’ di più quello che volevamo sintetizzare da questi due giorni, sentivamo insomma la necessità di fare una sorta di sintesi di tutte le riflessio-ni che sono state fatte da più par-

Laboratorio 4“I giovani ed il lavoro”

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ti. Rispetto alla definizione stessa di politiche giovanili, abbiamo sentito che era più corretto am-pliarne il significato definendole “politiche della cittadinanza”, per distinguerle da quelle che poteva-no essere solamente politiche dei servizi… sentivamo invece che adottando un termine più ampio si includevano anche le varie fasi di transizione e di evoluzione che abbiamo in questi giorni preso in considerazione come parte fon-dante delle politiche giovanili.Abbiamo poi cercato di definire il nostro ruolo di operatori/educa-tori, sentendo che il nostro com-pito si avvicina a quello di un fa-cilitatore di relazioni sociali e non a quello di un operatore di uno specifico servizio.GIACOMO-PARTECIPANTE 3: Abbiamo voluto in un certo senso abbandonare l’ottica che è stata adottata fin’ora, di tipo macro, tornando invece ad una dimensione più specifica. Il pri-mo punto che abbiamo affronta-to riguarda il riconoscimento di iniziative portate avanti da gruppi informali. Una ragazza di Caera-no ci ha spiegato che se non si è un’associazione, una cooperativa o una persona giuridica, non si ha la possibilità di avere le autorizza-zioni e gli eventuali finanziamenti per realizzare dei progetti, mentre se sono ideati da gruppi informali

non è detto che siano meno vali-di di quelli proposti da un ente o da un’associazione. Faccio un’altra considerazione rispetto a questo primo punto, legata proprio a voi “operatori del sociale”: io non riesco a capire perché gli opera-tori debbano essere organizzati in cooperative, che poi vengono as-sunte dalle amministrazioni con un dispendio di soldi pubblici e svolgendo poi dei servizi pubbli-ci, quando magari, se foste assunti direttamente dai comuni, la spesa e lo spreco sarebbe inferiore. Vedo queste cooperative come un inter-mediario in più che sottrae risorse che si disperdono.Un’altra considerazione riguarda i Progetti Giovani come servizi a tutto tondo: ci rendiamo conto che persone estranee al mondo dei Progetti Giovani, ad esempio gli imprenditori, non conoscono le potenzialità, anche dal punto di vista del lavoro, di questi pro-getti. Queste strutture offrono spesso dei servizi che vanno ol-tre lo stretto scopo aggregativo; a esempio la bacheca che espone le offerte di lavoro, che è secon-do me un’iniziativa molto utile che andrebbe ampliata e svilup-pata. Negli ultimi anni abbiamo visto un proliferare di agenzie per l’impiego interinale, io ritengo che questo servizio offerto da loro potrebbe essere assolto ad esem-

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pio dagli stessi Progetti Giovani, in modo che un servizio pubblico possa fare da interfaccia e da col-legamento tra il mondo giovanile e quello del lavoro.Io credo che il sistema liberale debba essere supportato da una base di servizi pubblici a garanzia di alcune condizioni di base ugua-li per tutti.

POZZEBON: Vi proponiamo quanto, in sintesi, è emerso nel la-boratorio, suddiviso per categoria di partecipante.

GIOVANI 1.Necessario il riconoscimento di iniziative promosse da gruppi in-formali.2.Progetti Giovani come servizio a tutto tondo, che si occupano di più materie, non solo tempo libe-ro.

TECNICI1.Politiche giovanili come poli-tiche di cittadinanza e accompa-gnamento nelle fasi di transizione2.Ruolo dell’operatore come faci-litatore di relazioni e di reti sociali.

AMMINISTRATORI1.Confronto/Partecipazione/Cittadinanza attiva/Comunanza d’intenti (assessori/giovani)/Criti-ca positiva2.Fiducia nelle istituzioni/Re-

sponsabilità delle istituzioni/Buo-ne pratiche politiche.

CHAIRMAN: Abbiamo ora un po’ di tempo, per aprire la discus-sione al pubblico, anche rispetto alle proposte, riflessioni idee che sono venute fuori dal lavoro dei laboratori.

PUBBLICO 1: Parlo da socio di una cooperativa sociale e anche da consigliere di amministrazione. Innanzitutto penso che sia stata una bella esperienza, molto coin-volgente, quella di confrontarci alla pari con i giovani. Vorrei poi rispondere a Giacomo: mi sembra che stiate facendo presente a noi operatori che siamo un po’ chiusi nel tenere il “copyright” della pro-mozione sociale. Sembra quasi che ci “accusiate” di tenerci “strette” certe cose per venderle ai comuni, come se questo fosse il nostro la-voro. D’altro canto sento che ab-biamo una finalità promozionale nel territorio, per questo forse dovremmo iniziare a condividere un po’ di più le nostre strategie operative, confrontarci magari ri-spetto alle conoscenze maturate in questi anni.

PUBBLICO 2: Io non sarei in-tervenuto se non ci fosse stata la provocazione di Giacomo. Sono Andrea Pozzobon, presidente del-

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la cooperativa “Il Sestante”. Dico due motivi per cui non sarei d’ac-codo con l’ipotesi che le coope-rative non esistessero più e che i comuni incaricassero direttamen-te gli operatori. Primo motivo è che se non ci fosse stata la nostra cooperativa sarebbe mancata una forte esperienza di imprenditoria giovanile: di fatto, quando la co-operativa è nata, i fondatori ave-vano 26, 28, 30 anni, io stesso ho iniziato che ne avevo 24. Inoltre credo che la relazione e la dialetti-ca tra privato e pubblico sia mol-to più profonda e ricca per la co-munità, nel senso che il ruolo del pubblico ha una gestione diversa dal privato e si crea quindi un in-teressante processo di stimolazio-ne reciproca. Però la provocazione che ha fatto Giacomo è comunque interessante perché è in fondo uno dei temi su cui abbiamo dibattuto a lungo, gettando le fondamenta della cooperativa. Gli educatori volevano che enti pubblici li assu-messero in pianta stabile e questo sembrava un riconoscimento di valore…la realtà è che questa di-namicità a mio parere è un arric-chimento.

PUBBLICO 3: Sono consigliere delegato delle politiche giovanili per il comune di Montebelluna. Rispetto a quello che dicevi tu, Giacomo, della possibilità di attri-

buire al Progetto Giovani il com-pito di fare da intermediazione tra il lavoro e i giovani, abbiamo appurato proprio stamattina, du-rante un altro convegno presso il comune di Vicenza, che questa cosa non è fattibile. Infatti per aver promosso un’intermediazio-ne lavorativa il Progetto Giovani è incorso in una sanzione, per non aver pagato una sorta di diritto ri-spetto all’azienda per la quale ave-va mediato. Bisogna perciò stare davvero attenti quando si attiva-no certe iniziative. Mi riallaccio a quello che diceva Andrea: trovo che sia più utile che ad occuparsi di certi incarichi siano delle coo-perative, piuttosto che dei singoli educatori incaricati, perché se per ipotesi come amministratore inca-rico sei educatori e l’amministra-zione successiva non vuole con-tinuare il processo attivato dagli operatori e li licenzia, nel giro di un attimo sei persone rimangono improvvisamente senza lavoro. E’ vero che in un caso simile, anche la cooperativa perderebbe l’appal-to, ma in una logica d’impresa probabilmente la perdita non si riverserebbe pesantemente su po-che persone, ma porterebbe a una riorganizzazione della struttura per dare lavoro a quelli che sono rimasti senza. C’è poi il discorso, legato alla formazione e all’ag-giornamento che una cooperati-

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va garantisce non solo nell’abito delle politiche giovanili, ma anche di quelle familiari. Infine parlo anche della flessibilità che ha un operatore di cooperativa garanti-sce, cosa che probabilmente man-ca a un dipendente comunale, che non vediamo facilmente lavorare il sabato mattina o pomeriggio o anche la domenica, così come du-rante le serate, quando magari è più facile trovare i giovani e lavo-rare con loro.

PUBBLICO 4: Probabilmente la discussione del nostro laboratorio può dare una risposta al titolo del workshop: “Di chi sono le politi-che giovanili?” Probabilmente di nessuno, perché le politiche giova-nili non dovrebbero esistere come ambito specifico, nel senso che ca-tegorizzare pare sempre più ridut-tivo. Ha senso forse invece pensa-re alle politiche in cui la comunità si prende cura del proprio futuro, anche di persone che a diverse età si trovano in un momento di dif-ficoltà, e non solo a 20, a 30, ma anche a 50 anni, piuttosto che li-mitarci a pensare che attraverso le politiche giovanili noi combattia-mo la transizione verso il mondo adulto di una sola categoria.

PUBBLICO 5: Probabilmente Giacomo si riferiva prima al fatto che un ambito pubblico può ga-

rantire una continuità, che in una cooperativa c’è e non c’è.

PUBBLICO 6: E’ molto impor-tante quello che è appena stato detto: la continuità è importante in questi processi perché mentre i dipendenti di una cooperativa possono essere trasferiti, il dipen-dente pubblico che gestisce i ser-vizi per i giovani in un comune rimane per un periodo di tempo più costante e quindi riesce più fa-cilmente a radicarsi nel territorio.

PUBBLICO 5: Riflettevo prima rispetto anche alla presenza dei giovani e mi chiedevo come mai nonostante ci siano stati anche in questo progetto molti giovani che hanno partecipato al percorso adesso non ci sono, e forse l’idea lanciata prima di un’assemblea permanente dei giovani non sa-rebbe male. Il progetto che i tec-nici o i politici hanno ideato può essere produttivo solo se troverà una continuità nel tempo, anzi-ché rimanere un’esperienza isola-ta. Senza considerare che i giovani vanno e vengono e la possibilità di mantenere un gruppo stabile di riferimento permetterebbe conti-nuità progettuale e di idee.

PUBBLICO 7: Volevo contraddi-re in parte Giacomo, poichè pen-so che la pluralità di contributi

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che può portare una cooperativa i cui dipendenti hanno conosciuto realtà differenti è una ricchezza insostituibile che amplia scenari e visioni.Poi c’era un’altra cosa che mi pre-meva dire: nel laboratorio con Vando Borghi, il sociologo, ab-biamo parlato diffusamente di partecipazione. Ieri, durante la discussione dopo l’intervento che abbiamo fatto noi ragazzi, ho colto che, in filigrana a tutto il discorso che abbiamo fatto, c’era proprio questa domanda di partecipazio-ne. Oggi la nostra aspettativa era quella di arrivare ad avere se non delle risposte, almeno qualche cer-tezza in più, ma mi sono reso con-to che la questione è molto, molto complessa e non è riducibile alle riflessioni che abbiamo fatto noi ieri. Soprattutto quello che ho no-tato è stata la grande disponibilità da parte dei tecnici di mettersi al nostro pari per provare a confron-tarsi, mi ha molto deluso invece il fatto che non ci fosse la possibili-tà sostanziale di confrontarsi con qualche politico, pertanto la gran-de accusa che abbiamo rivolto ai politici è di essere assenti, quan-do si parla di politiche giovanili. Sono un po’ deluso da questo e credo che lo porterò domani mat-tina alla tavola rotonda, anche se esco da questo workshop con una maggiore consapevolezza riguardo

a queste tematiche, consapevolez-za che sicuramente che non avevo quando sono entrato.

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Il programma Gioventù in Azione

Sono Adele Tinaburri e insieme alla mia collega Sabrina Tallarino rappresento l’Agenzia. Siamo vo-lute venire a vedere come si stava svolgendo questo progetto, che ci è sembrato interessante soprattut-to per i contenuti e per la modalità di realizzazione, che per noi è as-solutamente nuova, così destrut-turata. Il Sestante ci ha invitate a venire a queste giornate anche per presentare il programma Gioven-tù in Azione.Vi volevo riportare gli esiti della chiacchierata che ho avuto prima con Mirko Pizzolato, il coordina-tore, sull’andamento del proget-to e abbiamo capito che è stato molto appassionante il modo in

cui è stato condotto e il processo di costruzione. Una cosa che ci aveva già raccontato Mirko e che salta agli occhi, sia ora che nelle sessioni precedenti, è che questa è una sala competente. Anche gli interventi dei partecipanti mi sembrano comunque pertinenti e competenti. Motore di Gioventù in azione è proprio una metodo-logia attiva che permetta l’acquisi-zione di competenze partendo dal diretto contatto con i protagoni-sti. Quando dico sala competente intendo quindi un gruppo che è in grado di promuovere dei ragio-namenti, di fare riflessioni adot-tando uno stesso piano linguisti-co, motivo per cui mi verrebbe

Intervento di Adele Tinaburri - Agenzia Nazionale per i Giovani

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quindi da dire che gli esperti siete voi, poiché sentendovi parlare si capisce che sapete quello che dite.

Gioventù in Azione

Gioventù in Azione è un pro-gramma comunitario di mobilità di gruppo e individuale, di imple-mentazione di progetti a carattere locale che si rivolge specificata-mente ad una fascia d’età, quella che va dai 13 ai 30 anni. E’ inoltre uno strumento per l’implementa-zione del Libro Bianco sulla Gio-ventù e la Cooperazione Europea nel settore della Gioventù. Il Li-bro Bianco è un documento che è stato il risultato di una discussio-ne sulla condizione giovanile av-venuta nel 2002. Possiamo quindi definirlo lo strumento operativo per la realizzazione delle iniziative progettuali locali, la parte econo-mica che sovvenziona i progetti.Chi può partecipare?• Giovani tra i 13 e i 30 anni, re-sidenti in uno dei paesi del Pro-gramma.• Enti pubblici locali.• Altri attori del settore dell’edu-cazione dei giovani e non formale.Il programma è aperto a tut-ti i giovani, indipendentemen-te dal loro livello d’istruzione o background sociale e culturale; non sono richiesti quindi prere-quisiti d’ingresso, così come suc-

cede ad esempio per altri progetti comunitari come l’Erasmus.Il budget è di 885 milioni di euro per il periodo di tempo tra il 2007 e il 2013.Le azioni sono:• Gioventù per l’Europa: scambi, iniziative per i giovani, progetti di partecipazione alla vita democra-tica;• sostegno alla cooperazione poli-tica, misure per il dialogo tra i gio-vani e i responsabili delle politiche per i giovani;•Servizio Volontario Europeo;•Gioventù nel mondo: coopera-zione con i paesi limitrofi e con altri paesi partner; • sistemi di sostegno ai giovani, formazione, informazione, inno-vazione.La Commissione Europea richie-de che i partecipanti al progetto non appartengano solamente ad una categoria ma che ci sia una pluralità di esperienze. Il programma Gioventù in Azio-ne offre la possibilità di muoversi in Europa, costruire la cosiddetta “Cittadinanza Europea”, che si batte per i diritti umani, per pro-muovere i valori ecc… Per quanto riguarda l’implemen-tazione dei progetti locali il pro-gramma permette:• di realizzare un progetto nella propria comunità (importo di cir-ca 8000 euro) (azione 1.2);

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• di scambiare le esperienze anche a livello europeo;• di promuovere i giovani e la de-mocrazia (azione 1.3);•di organizzare incontri tra gio-vani e responsabili delle politiche per la gioventù, iniziativa nella quale rientra questo progetto del-la cooperativa Il Sestante (azione 5.1).All’interno dell’Azione 1.3 rien-trano iniziative anche molto sem-plici di democrazia partecipativa, come ad esempio quella di orga-nizzare una simulazione di consi-glio comunale, nella quale i gio-vani “provano” che cosa vuol dire “fare politica”.Lo specifico di questo vostro pro-getto/workshop sta nel dare molto rilievo alla parte pedagogica, oltre che favorire un coinvolgimen-to della parte politica in un’otti-ca di confronto e di scambio. La differenza con l’Azione 1.3 è che questa si sviluppa in maniera più semplice e concreta. Noi abbiamo anche finanziato progetti che già esistevano ad esempio di cittadi-nanza attiva e di progettazione partecipata. La cosa interessante è che in que-sto vostro progetto la parte giova-nile è stata direttamente partecipe anche alla parte economica, ossia presumo che nella progettazione siano stati coinvolti nella decisio-ne di come stanziare e di come

disporre delle risorse economiche.

Le priorità permanenti di Gio-ventù in Azione sono:• cittadinanza europea;• partecipazione dei giovani;• diversità culturale;• inclusione dei giovani con mi-nori opportunità.Gli obiettivi principali sono:• cittadinanza attiva;• solidarietà e tolleranza tra i gio-vani;• comprensione reciproca;• qualità dei sistemi di sostegno per le attività.Una grande sfida che il program-ma vuole affrontare è quella legata al linguaggio, alla mediazione tra linguaggi differenti. Adattare il linguaggio alla cultura giovanile non significa avvicinarsi in ma-niera semplicistica, ma in termini di vicinanza emotiva, che mette in gioco competenze non facili da acquisire. L’essere alla pari si-gnifica considerare i giovani come interlocutori esperti e testimo-ni della propria esperienza. Poi è importante che ci siano persone come Mirko, come Alberto... e al-tri educatori che fanno da tramite.

PUBBLICO 8: Volevo sapere se esistono, nella vostra esperienza, altri progetti che in qualche modo assomigliano a quello che stiamo facendo…

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TINABURRI:Volete sapere quan-to siete bravi! A dire la verità non ci sono esperienze simili o di que-sto livello. Qualcuno lamenta-va l’assenza dei politici, ma noi, nella nostra esperienza, abbiamo constatato che il politico di tur-no viene in queste occasioni solo a fare presenza a scopi “promo-zionali”, ma non ha la capacità di porsi realmente a confronto sullo stesso piano, mettendosi anche in discussione. Direi che l’unica esperienza assimilabile alla vostra è in Piemonte, ma si tratta di un progetto ventennale di costruzio-ne di reti.

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Dopo una giornata intensa e im-pegnativa come quella del vener-dì, che ha visto l’intervento degli esperti nel corso della mattinata e il lavoro dei quattro laboratori nel pomeriggio, per concludere con l’intervento delle rappresentanti dell’Agenzia Nazionale Giovani, si è ritenuto necessario prevedere una serata che coniugasse l’esigen-za di confronto ulteriore tra i par-tecipanti in modo più distensivo. Ci siamo quindi immaginati una situazione che partisse dalla cena e potesse poi proseguire ad oltranza, situazione grazie alla quale, attor-no ai tavoli del buffet, si creasse-ro dei “capannelli di discussione” estremamente flessibili, in cui i

partecipanti potessero liberamen-te contribuire alla discussione. Ogni capannello avrebbe avuto un tema predominante, senza però precludere cambiamenti di tema o digressioni, permettendo in ogni momento ai partecipanti di cambiare gruppo.Gli obiettivi di questa modalità di confronto erano principalmente quelli di: • permettere di riprendere alcune tematiche o sollecitazioni arrivate dal lavoro delle due giornate semi-nariali.• favorire un confronto libero tra partecipanti senza vincolare la di-scussione ad un metodo di lavoro preimpostato, garantendo la mas-

Lo “Speaker Corner”

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sima fluidità della discussione.• permettere ai partecipanti di parlare di temi “diversi” da quel-li emersi nei laboratori ma sentiti con forza.• stimolare delle discussioni che potessero mettere assieme una profondità delle riflessioni con la leggerezza della cena, non gravan-do ulteriormente su una giornata di studio di per sé impegnativa.• dare cittadinanza a una dimen-sione, quella dell’informalità, che esiste e viene cercata in tutte le situazioni seminariali, ma rispetto alla quale i partecipanti non pos-sono dedicare spazi specifici, e vie-ne limitata al “corridoio”.

MetodoNella cartellina consegnata a cia-scun partecipante è stato predi-sposto un foglio nel quale era possibile esprimere liberamente un argomento/tema, da propor-re durante lo Speaker Corner. Il promotore del tema avrebbe poi avuto il solo compito di dare il via alla discussione, presentando il tema stesso all’uditorio, per poi incontrarsi con tutti coloro che li-beramente si sarebbero detti inte-ressati alla discussione, formando un capannello. Al termine dei laboratori del ve-nerdì sono stati raccolti i temi proposti e nel corso della cena i partecipanti hanno avuto modo

di leggerli, prima esposti in un cartellone e poi presentati sinte-ticamente da una sorta di “pulpi-to” dallo stesso promotore. Dopo che tutti i temi sono stati esposti, attorno ai vari argomenti si sono spontaneamente raccolti i capan-nelli e i partecipanti hanno avvia-to la discussione, favorita anche dal contesto molto informale del-la cena a buffet. I temi principali che sono stati proposti e discussi:●“assessori e politici: perché tut-ti li criticano ma pochi si assumo-no l’impegno di farlo”; ● “il supporto familiare e della co-munità alle esigenze dei giovani di fare volontariato”; ● “l’abito fa il monaco? essere o apparire nell’ottica dell’identità di genere”;● “l’onda e i movimenti culturali e sociali degli anni 60/70. Espe-rienze estemporanee?”.

ConclusioniTra i partecipanti si è respirata un’atmosfera febbrile, di intensa comunicazione, ma nello stesso tempo animata dalla tipica levità di chi si sente libero di dire quello che realmente pensa senza temere critiche o limitazioni alle perso-nali posizioni. L’idea che si voleva creare ha trovato la sua massima realizzazione, pur non nasconden-do che tale proposta si configura-

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va inizialmente come un azzardo, visto che si discostava dai classici metodi di discussione guidata proposti nei seminari.L’intensa e prolungata partecipa-zione allo Speaker Corner ha di-mostrato l’effettiva “urgenza” di spazi di discussione, che esulano dai contesti formalmente struttu-rati. È stata, per i partecipanti al workshop, la conferma del biso-gno di confronto tra giovani, tec-nici e politici. Infine ha dato uno spunto interes-sante ai tecnici, sotto il profilo del-la metodologia: lo Speaker Corner fa interagire un livello di discus-sione importante, anche sotto il profilo contenutistico, normal-mente dedicato a setting formati-vi o seminariali, con la dinamica dell’aggregazione informale, abi-tualmente invece centrata su ele-menti di leggerezza, quando non di evasione. Si tratta perciò di un setting abbastanza inusuale, che offre alcuni elementi di riflessione importanti, soprattutto alla luce della grande partecipazione che si è concretizzata: tutti i giovani hanno preso parte alla discus-sione, intervenendo spesso e in modo talvolta accorato, aprendo discussioni e portando punti di vi-sta anche non prevedibili, mentre nei setting più formali capita che la partecipazione sia attiva e par-tecipe, ma più controllata.

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MIRKO PIZZOLATO - CHAIRMAN: Per iniziare la rielaborazine e la di-scussione vi propongo una chiave interpretativa: abbiamo discusso sull’accesso al potere e sui mecca-nismi che favoriscono o meno la partecipazione dei giovani… Quel che resta ancora del tutto irrisolto è che la partecipazione sembra es-sere una questione di “fortuna”: ossia se un ragazzo è nel territorio giusto, nel posto giusto allora è fortunato, altrimenti sarà sempre tagliato fuori. Dai racconti e dalle testimonianze viste in questi gior-ni, sembra quasi che la fortuna di-penda strettamente dalla geografia dei territori, da come sono geo-graficamente organizzati. Alcuni

territori, alcuni comuni investono nella partecipazione, altri non lo fanno, determinando macchie di leopardo della partecipazione, iso-le felici. A questa domanda pro-babilmente una risposta va data e va affrontata anche la questione del “come” non rischiare che il mio essere oggi nell’sola felice, tra cinque anni mi porti a non esserlo più e quindi sia di nuovo escluso dai territori “fertili”.E’ questa la tematica che dobbia-mo cercare di affrontare, poiché non può essere che la “partecipa-zione” sia in primo luogo un fat-to di fortuna, così come pensare a politiche di welfare basate sulla fortuna appare piuttosto difficile

Tavola rotonda conclusivaIl workshop si è concluso con una animata tavola rotonda alla quale erano presenti tecnici, politici e giovani. Le amministrazioni locali erano rappresentate da Roma-no Astolfo, Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Motta di Livenza; Chiara Tullio, Assessore a Cultura, Turismo, Biblioteca comunale, Politiche giovanili, Comunicazione istituzionale, Relazioni con il pubblico e con il CTA, Associazioni di volontariato e di promozione sociale del comune di Roncade; Marco Trevisan, Assessore alle Politiche giovanili, Associazioni culturali, Cultura del Comune di Trebaseleghe; Loris Poloni, referente Politico dell’Area Montebellunese e consigliere comunale delegato alle Politiche Giovanili e di Comunità del Comune di Mon-tebelluna. I tecnici presenti alla tavola rotonda erano Daniele Lando, assistente sociale e responsabile d’area del comune di Crespano del Grappa e Andrea Pozzo-bon, educatore e presidente della cooperativa sociale Il Sestante. I giovani presenti, in rappresentanza dei giovani partecipanti al progetto, erano Laura Scomparin e Stefano Volpato.

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da accettare. In secondo luogo vi chiederei di concentrarvi su due temi: uno di metodo, ossia come è possibile effettivamente agire questa partecipazione? Sono già emerse alcune proposte, ad esem-pio “che i ragazzi entrino a fare politica, che mettano piede nella stanza dei bottoni”, ma esistono delle condizioni perché queste si-tuazioni favorevoli siano create? È sufficiente un assessore “attento”? Vi chiedo, poi, una riflessione sul “contenuto”. Qualcosa è già sta-to tracciato rispetto al metodo: in Veneto esiste già da parecchio tempo ormai una legge, la l.29/88, a favore del protagonismo gio-vanile, che parla chiaramente di trasversalità. Come arriviamo alla trasversalità nelle politiche gio-vanili? Il rischio è che l’assessore alle politiche giovanili, nel fare il passaggio alla trasversalità, perda di concretezza. La domanda allora potrebbe essere: “Come possiamo indossare gli occhiali delle politi-che giovanili mentre ci occupia-mo degli altri aspetti della politi-ca? E come concretamente si attua la trasversalità?” Chiedo però di cercare la maggio-re concretezza possibile, cerchia-mo cioè di uscire oggi da qui con delle idee che da domani possia-mo cercare di realizzare. LORIS POLONI: Un dato veloce per iniziare, rivolto sia ai tecni-

ci che ai giovani presenti in sala: chiedo quanti di voi hanno parte-cipato ad una commissione consi-gliare delle politiche giovanili.Non vedo nessuna mano alzata e parto da questo per dire che no-nostante voi siate qui, interessati al tema, non sapete che esistono le commissioni per le politiche gio-vanili. Non è detto tra l’altro che esistano in tutti i comuni, ma dove siano presenti è importante parte-cipare. Vi porto un esempio: noi a Montebelluna abbiamo appro-vato le linee programmatiche del Progetto Giovani in un consiglio comunale in cui erano presenti tanti giovani e tutti hanno votato a favore; se non ci fosse stata que-sta massiccia presenza dei ragazzi, magari ci sarebbe stata una minore accettazione delle proposte. Una presenza più costante dei giovani alle commissioni consigliari per le politiche giovanili potrebbe essere uno stimolo che invita alla parte-cipazione. La commissione si sta occupando in questa fase di definire in modo specifico che cosa debba fare l’as-sessore alle politiche giovanili, quale sia il suo mandato, per il motivo che se un giorno dovesse mancare l’assessore, o si verificas-se un avvicendamento politico, rimarrebbe comunque chiaro il suo incarico e i compiti. Questo definisce non solo le caratteristi-

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che o i compiti dell’assessore di competenza, ma permette che i consiglieri comunali, sia di mag-gioranza che di minoranza, siano garanti di questo processo, svin-colati dai personalismi o dalle ca-ratteristiche proprie della persona che ricopre temporaneamente quel ruolo. Un altro esempio è il progetto promosso dal comune di Montebelluna nell’ambito del programma Gioventù in Azione-Azione 5.1, “Giovani e politici ne-goziano il futuro”. In questo caso la commissione del progetto può intervenire di fronte al rischio di scarsità di fondi o di scelte poli-tiche diverse da parte della nuo-va giunta. Gli strumenti per dare continuità ci sono, l’importante è saperli utilizzare al meglio. Serve però un impegno e una presen-za costante dei giovani e dei tec-nici, senza i quali sarebbe stato impossibile intraprendere questo percorso di riflessione. Lo stesso discorso lo possiamo fare ragio-nando sulla creazione di aree di comuni. Le aree hanno anche una funzione economica: molti bandi sono costituiti appositamente per lavorare su reti territoriali e quin-di permettono il finanziamento a patto che i territori creino reti tra di loro.E’ vero che alcuni finanziamenti sono raggiungibili solo lavorando per aree, ma la sensibilità e la pre-

parazione dell’assessore compe-tente possono individuare i canali da aprire per riuscire ad ottenere i finanziamenti giusti. E’ estre-mamente importante anche avere dei tecnici competenti che sanno compilare i bandi e quindi san-no come arrivare ai fondi. Porto ancora l’esempio di Montebellu-na: abbiamo ottenuto 200.000 euro per il Piano Locale Giovani, che sono stati messi a bilancio da parte del comune, perché il mini-stero aveva previsto un impegno di finanziamento. Altri comuni, non sentendosi sufficientemente garantiti dall’impegno ministe-riale, hanno rifiutato di procedere e hanno perso il finanziamento. Questo dimostra che, se c’è un dirigente competente che sa come fare, assumendosi le sue responsa-bilità, si riescono a ottenere fondi e finanziamenti anche ingenti.

MIRKO PIZZOLATO: Riassu-mendo: una strategia potrebbe essere quella di coinvolgere mag-gioranza e minoranza, a garanzia della continuità progettuale. Ciò permetterebbe la costruzione di un progetto condiviso e nello stes-so tempo permanente.

LAURA SCOMPARIN: Un ap-punto: non è la stessa cosa chiede-re ai giovani di attivarsi e metterli in condizione di sapere che questo

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è possibile e come. Ci sono gio-vani nel nostro comune che non sanno neanche che esiste il Cen-tro Giovani, figurarsi se arrivano a immaginare che esiste una com-missione alla quale possono parte-cipare. Secondo me anche questo dovrebbe fare l’amministrazione: aiutare i giovani a sapere che esi-stono anche queste realtà politi-che e amministrative.

LORIS POLONI: Scusa, ma su questo punto mi sento di dover rispondere immediatamente: non condivido assolutamente que-ste puntualizzazioni. Se io come cittadino, anche come padre di famiglia ho un bisogno, una ne-cessità…porto un esempio: ho bi-sogno di sapere se mio figlio può avere o meno gratis i pannolini perché mi servono, posso stare là ad aspettare che qualcuno me li porti? Oppure mi do da fare per trovare le informazioni? Non devo fare altro che accendere il compu-ter, entrare nel sito del mio comu-ne e andare sotto la voce “Servizi per il Cittadino”… lì trovo tutto quello che mi serve, le informa-zioni necessarie per capire se pos-so o meno avere le agevolazioni di cui ho bisogno.

STEFANO VOLPATO: Giustis-simo quello che sta dicendo Polo-ni, però bisogna anche aggiungere

che forse il consiglio comunale attuerebbe cambiamenti in modo più veloce o efficace se chi parte-cipa come uditore potesse anche parlare. Se il cittadino potesse avere la parola, potesse esprimere il suo dissenso e le sue opinioni, potrebbe rendere quell’occasione veramente uno scambio costrut-tivo e produttivo. Un secondo aspetto che è legato a quello che diceva Laura: è vero che ci vuole impegno e motivazione da parte dei giovani per raccogliere le in-formazioni e per interessarsi, ma quando si leggono i comunicati che spiegano i punti all’ordine del giorno dei consigli comuna-li, si scopre che sono veramente incomprensibili per chiunque cerchi di capirne qualcosa, anche per uno che ha studiato. Questa cosa dei giovani che dovrebbero informarsi di più è verissima, ma allo stesso modo ci sono moltis-simi adulti che non sanno e non vogliono fare altrettanto, che sono disinformati e che poi si lamenta-no e basta.

LORIS POLONI: Certo, confer-mo assolutamente questa tua os-servazione.

PIZZOLATO: Per cercare di rias-sumere mi sembrava che la que-stione fosse posta da voi su due livelli; mi sembrava che Laura

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tematizzasse rispetto alla circola-zione delle informazioni mentre tu Stefano rispetto al linguaggio attraverso il quale queste informa-zioni vengono diffuse. E’ allora un problema di linguaggio?

STEFANO VOLPATO: E’ si-curamente anche un problema di linguaggio che, se modificato, permetterebbe anche una riduzio-ne di distanza tra amministrazio-ne e cittadini. Non possiamo cer-to pretendere che tutti gli adulti siano super informati… e non lo possiamo pretendere neppure dai giovani… ma possiamo cercare di fare leva sulle risorse: se la parteci-pazione è un risultato, cerchiamo di allargare il coinvolgimento dei cittadini alla vita pubblica.

ANDREA POZZOBON: Io sono d’accordo con quello che dici tu, però io non vorrei che questo fa-cesse dimenticare il problema che mi pare avesse sollevato prima Laura, il problema, se ho capito bene, è che, pur lavorando sulla partecipazione, la consapevolezza dei propri bisogni non è sempre chiara e, quindi, sia con i giova-ni che con gli adulti è importante lavorare per uscire da quel “senso di solitudine”, che fa pensare che da soli non si arriva da nessuna parte e non si riesce a realizzare nulla. Per quanto poco, io se fac-

cio da solo, resto comunque solo. La connessione tra giovani e altri giovani, giovani e parti politiche e con la stessa comunità locale è fondamentale a mio parere, per-ché esiste anche un problema di “marginalità”, ossia di una fetta della popolazione che per esserci ha bisogno di essere stimolata e non è sempre facile capire qual è la chiave giusta per arrivare a que-ste persone. Tutti come cittadini, e in particolare quelli che hanno un ruolo istituzionale hanno il dovere di stimolare, di andare a scovare quei cittadini poco atten-ti, poco sensibili o demotivati nel sentirsi parte attiva della propria comunità.

CHIARA TULLIO: Io concordo con quanto dice Laura, ma non nel momento in cui definisce come sede di confronto il consi-glio comunale, poiché quello è in momento formalizzato e isti-tuzionale, poco adatto allo sco-po. Ci dovrebbe essere invece un momento antecedente al consi-glio comunale, in cui i cittadini, nel nostro caso i giovani, hanno modo e occasione di informarsi e di discutere. Ovviamente io fac-cio riferimento all’esperienza del mio comune ma ci sono anche altri esempi ed esperienze di cui potrei parlare. Sono decisamente d’accordo sul fatto che i giovani

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non si interessano, così come gli anziani del resto, ma c’è un modo statico di fare politica che si è ra-dicato nel tempo. Probabilmente è il momento di individuare dei modi nuovi di fare politica o che comunque siano più attinenti alla società di oggi, in continua evo-luzione. Lo sforzo deve essere se-condo me quello di provare anche se non è detto che si ottengano subito dei risultati o un successo. Mi viene in mente un esempio del mio comune, il “Parlamenti-no Rosa”, ion cui molte donne si incontrano e discutono dei pro-blemi che sentono propri, incon-trandosi una volta al mese. Noi amministratrici in queste occasio-ni abbiamo modo di raccogliere i bisogni e di riportarli poi in giun-ta. Tra le varie tematiche affronta-te si è discusso della scuola, dei ta-gli della sanità, è un momento di discussione alla pari, senza livelli di gerarchia o di potere che per-mette di sperimentare un modo di fare comunicazione più semplice e trasparente e nello stesso tempo di raccogliere ciò che viene elaborato portandolo poi al piano politico.Sono d’accordo invece sul fatto che la partecipazione al consiglio comunale sia poco stimolante, in primo luogo perché gli udi-tori non hanno potere di parola, in secondo luogo perché le stesse comunicazioni sono poco stimo-

lanti e chiare. Uno sforzo da parte dell’amministrazione di creare del-le modalità che si avvicinino al cit-tadino ci deve essere, a mio avviso. Quindi in sintesi le mie proposte riguardano la creazione di luoghi di confronto e di spazi trasversali, in cui s’incontrano più “categorie” di persone (ad esempio un centro giovani che aggreghi anche le fa-miglie o gli anziani). Penso anche che un buon modo per sviluppare il protagonismo delle persone sia l’ autogestione degli spazi.

DANIELE LANDO: Rispetto alle tre domande/stimolo, parto dall’ultima per poi procedere a ritroso. Rispetto alla trasversalità credo che la distanza sia davvero tanta e non facilmente colmabile, sia sul piano organizzativo che su quello culturale. Sono consapevo-le però che di strada se n’è fatta tanta, da Bassanini a Brunetta, lo sforzo di cambiamento c’è stato e anche piuttosto evidente, anche se non significa che siamo andati in meglio: in questo preciso momen-to in cui si fa un gran parlare di fannulloni, ora più che mai nes-suno si permetterà di rischiare di fare qualcosa di diverso, “da fan-nullone”… ci vorrebbe una vera rivoluzione in questo senso. Sulla partecipazione vedo che proposte ce ne sono tante: per esempio ri-spetto all’individuazione di buone

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prassi; in questo rientra il proble-ma di come stimolare le persone a sentirsi protagonisti della vita pubblica. E’ importante trovare il modo di fare una comunicazione chiara, strutturata e costante nel tempo: forse non aiuterà tutti e non raggiungerà la totalità della popolazione, ma questo non si-gnifica che si debba modificare il consiglio comunale, poiché si tratta di un organo normato da uno statuto che non può essere cambiato a proprio piacimento. Essere presenti al consiglio co-munale significa informarsi, non “partecipare”, che è invece ben al-tra cosa, mentre per i politici può essere fortemente gratificante ave-re un ampio pubblico ai consigli comunali.Se i giovani fossero già maturi e responsabili non servirebbe nean-che star qui a parlarne e invece noi siamo consapevoli che se siamo qui a parlare di politiche giova-nili è forse perché i ragazzi hanno ancora bisogno di qualcuno che li aiuti a crescere e ad accompagnarli alla maturità.Concordo con quanto detto da Poloni prima, sul fatto che mol-to dipende dalla presenza di as-sessori compententi e capaci di creare reti di supporto anche con i comuni limitrofi. Chiudo rife-rendomi al piano metodologico: potrebbe essere utile guardare alle

politiche giovanili in un’ottica di-versa, che non si limiti al man-tenimento degli Informagiovani. Ampliare il ragionamento ad altri spazi progettuali eviterà il rischio di escludere dalle riflessioni tutte quelle problematiche citate pri-ma: dall’uscita di casa al diritto allo studio.

MIRKO PIZZOLATO: Mi sem-bra funzionale provare a fissare al-cuni punti prima di procedere. In-nanzitutto pare che la marginalità delle politiche giovanili comporti dei limiti al processo di cambia-mento, d’altra parte è evidente che quanto più saranno nodali i temi affrontati dalle politiche giovanili, tanto più il concetto di trasversa-lità verrà a consolidarsi. Inoltre, più le politiche giovanili saranno centrate su temi come l’autono-mia abitativa o il lavoro, tanto più rinunciarvi diventerà difficile.

PUBBLICO 1: A me era piaciuto molto il discorso che avevano fat-to Loris Poloni e Daniele Lando. Secondo me il nocciolo della que-stione rispetto alla partecipazione dei giovani alla vita politica è quel-lo di come vengono pubblicizzati questi eventi: se ad esempio ci si limita ai manifesti sui bar, questi sono davvero incomprensibili, ma se non mi informo oppure mi la-mento di come funziona l’ammi-

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nistrazione di turno e poi non fac-cio nulla per cercare di cambiare le cose... posso arrogarmi il dirit-to di lamentarmi? Ossia, è lecito lamentarsi se poi non s’intende esporsi in prima persona per mi-gliorare le cose? Secondo me, non bisogna per forza diventare politi-ci attivi per essere cittadini attivi che contribuiscono alla crescita e al benessere del proprio paese, ma è sufficiente anche essere curiosi e interessati.

ROMANO ASTOLFO: Velo-cemente sulle tre domande e poi due riflessioni. Parto anch’io dall’ultima e poi risalgo: per far evolvere e tutelare il principio di trasversalità è necessario porgli maggiore attenzione, farlo mag-giormente riconoscere. Ricordia-mo ci però che stiamo parlando di realtà variegate e diversissime tra loro sia in termini geografici che numerici: Montebelluna con-ta circa 30.000 abitanti, mentre piccoli comuni come Cessalto di abitanti ne ha 3.000 circa. In questi contesti specifici parlare di trasversalità nelle politiche giova-nili che si occupano di autonomia abitativa mi pare piuttosto diffici-le. Ecco che quindi la trasversalità e i suoi limiti vanno declinati a seconda delle caratteristiche locali e dal contesto, nonché dagli enti sovraordinati che spesso stanno

al vertice. Ci sono questioni che permettono modalità e approcci simili, altre che invece non sono praticabili. Non esistono quin-di situazioni uniche trasportabili tout-court, ma dobbiamo capire il “qui ed ora”. Su come agire la partecipazione, spendo solo due parole a favore dei tecnici: pro-prio perché stiamo accompagnan-do questi giovani nel processo di transizione, è necessario che ci sia in mezzo qualcuno che media, che sia in grado di prendere le istanze positive che arrivano dai giovani ma che sappia anche veicolarle correttamente nei confronti della pubblica amministrazione. Io ho l’esempio di un progetto giovani in cui dei ragazzi appartenenti alla parte politica “di sinistra” hanno lavorato benissimo con un sin-daco “leghista”. Passatemi queste categorizzazioni perché sono utili per capire come non sono le eti-chette politiche spesso che fanno la qualità del lavoro, quanto piut-tosto la condivisione di obiettivi e di idee. L’operatore ha mediato, non tanto rispetto alle etichette politiche, ma piuttosto su quello che c’era da fare.L’altra cosa che mi riporta alla pri-ma domanda è la questione della fortuna, circa l’essere nel posto giusto o in quello sbagliato. Io penso che non sia pienamente corretto mettere sullo stesso piano

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i giovani e le istituzioni: le istitu-zioni hanno una responsabilità in più, rispetto ai ragazzi, cioè poter o meno mettere in moto un pro-cesso. E’ chiaro che questo au-menta il rischio della macchia di leopardo, poiché potrei trovare chi intende impegnarsi e chi no, ma significa saper dare fiducia ai ragazzi, per potersi guadagnare la credibilità. I giovani in questo de-vono quindi trovare qualcuno che dia loro fiducia, e quindi un’op-portunità, ma nello stesso tempo i ragazzi devono sapersela giocare bene, dimostrando che si è in gra-do di gestire la situazione. Temo che una grossa fetta di responsa-bilità la detenga ancora la parte politica, e dico “temo” perché di esempi fallimentari in questo sen-so ne ho visti. Da questo punto di vista penso che manchino i partiti, che in passato veicolavano questo tipo di formazine ai giovani. Mi chiedo se dobbiamo quindi ritor-nare al passato o cercare invece di produrre nuovi modelli di forma-zione. Fermo restando che, anche se siamo in una democrazia par-tecipativa, non possiamo sovver-tire regole come la presenza dei cittadini al consiglio comunale, altrimenti si va verso l’assemblea-rismo, che spinge alla semplifica-zione. Detto questo, molte altre cose si posson fare: lavorare in rete ad esempio, è un buon modo e di

esempi in questo territorio ne ab-biamo. Penso alla gestione di certi servizi sociali da parte dell’ULSS, o il laboratorio scuola/volontaria-to. Ci sono ambiti in cui il lavoro di rete è ancora difficoltoso, mi ri-ferisco ad esempio alla scuola o a quello dell’associazionismo spor-tivo. Forse voi giovani qui presen-ti dovreste farvi un po’carico di quelli che non ci sono. La provin-cia mi pare che ci abbia provato, costituendo la “Consulta del Gio-vani”, ma non mi pare che l’esito sia soddisfacente e corrisposta dal-le amministrazioni comunali.Chiudo con una battuta e una proposta; prima si ragionava sulle luminarie natalizie e sul loro co-sto che potrebbe essere investito in altro, ma perché non iniziamo a pensare di alimentarle con pan-nelli fotovoltaici? Nessuno ci per-derebbe, nè in soldi nè in deco-razioni e magari con il risparmio che creiamo andiamo a finanziare le politiche giovanili. Andando al di là della battuta, se pensiamo che la logica comune è quella che per guadagnarci io devo sottrarre necessariamente qualcosa a qual-cun altro, cerchiamo di sovvertire questo modo di pensare, generan-do modalità che portino soddisfa-zione e vantaggio reciproco.

MARCO TREVISAN: Su queste tematiche concordo con i colleghi

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amministratori che l’intervento del pubblico in consiglio comu-nale non sarebbe semplice perché è già difficile gestire l’assemblea di soli politici, figurarsi se dobbiamo considerare anche il pubblico par-lante, diventerebbe ingestibile. Io porto però l’esempio di Trebasele-ghe (PD), in cui esiste il consiglio comunale aperto per i giovani, in cui 1 o 2 volte all’anno i giovani, che sono invitati a partecipare, possono intervenire.Rispetto alla semplificazione delle informazioni, io ad esem-pio ho proposto di porre insie-me alle diciture tecniche una “traduzione”semplificata dei pun-ti del giorno.Il tema della trasversalità secon-do me sarà fondamentale. Prima, sentendo tutti vari interventi mi veniva in mente una cosa: in tut-ti i comuni c’è un assessorato alle politiche giovanili e c’è un mini-stero della gioventù a livello na-zionale, ma non esiste ancora un ministero per la terza età, questo dimostra che una sensibilità in più si è radicata a livello politico. Riguardo alla macchia di leopardo spero che con questa legge-bozza (legge regionale 17, ndr), si dia un input affinché le politiche siano condivise a livello di zone e anche le province e le regioni individui-no delle strategie comuni. Lo stes-so dovrebbe valere nel momento

in cui si decide di erogare un fi-nanziamento, perchè segua dei criteri di maggiore collegialità e di servizio di area.

MIRKO PIZZOLATO: Vorrei concludere chiedendo ai ragazzi di rispondere ad una domanda: giovedì pomeriggio, nel vostro in-tervento, avete lanciato delle pro-vocazioni che pensavate potessero essere sviluppate in queste giorna-te di discussione. Ora è importan-te che voi ci diciate se sentite che queste risposte sono state date o se abbiamo alzato troppo il livello delle aspettative e dobbiamo fare un passo indietro per riprendere.

STEFANO VOLPATO: Mi sem-bra chiaro, alla fine di questa mat-tinata che solo dall’interazione tra i tre soggetti, giovani, politici e tecnici, può nascere qualcosa. Io sono sono soddisfatto della di-sponibilità manifestata dai politici presenti al tavolo, nel mettersi in gioco e del risultato complessivo di questa mattina. Credo anche che non avremmo potuto pre-tendere di più nel giro di quattro ore di lavoro. Ora, quando usci-remo di qua, si vedrà se cambierà qualcosa effettivamente oppure se tutto rimarrà ad una pura discus-sione di convegno. Questa secon-da ipotesi comporterà sicuramen-te da parte mia l’acquisizione di

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qualche strumento conoscitivo in più, una maggiore consapevolezza e magari il tentativo di relazionare direttamente con le parti politiche del mio comune. Non può e non deve però fermarsi a questo, ma dobbiamo portare avanti le idee e il dibattito, forzando anche quelle che potrebbero essere le indica-zioni della normativa, esistente o futura. Si è costituito in vista di questo workshop un gruppo di giovani da varie parti della pro-vincia che ha lavorato per quattro mesi solo per il workshop... quin-di vorrei provare a rispondere alle tre domande che ha fatto Mirko.Questo è il modo per superare le macchie di leopardo: trovarsi ad un livello di riflessione che sia an-che più alto dei semplici problemi sul piano locale, perché magari il piccolo comune potrebbe non avere in sé le forze per agire un cambiamento, ma se la riflessione è su un piano alto, non legato alle specifiche realtà, allora si possono portare dei contributi che sono utili a tutti.Potrebbe addirittura essere que-sto un evento permanente, che si ripete magari annualmente e con funzione di controllo, verifi-ca e monitoraggio della situazione delle politiche giovanili. Provare a lavorare assieme sul lungo perio-do potrebbe permettere di lavora-re anche sui problemi concreti. La

terza questione, quello della tra-sversalità, è stata pienamente con-divisa. A questo punto però mi chiedo se sia necessario un rico-noscimento formale da parte delle istituzioni per ottenere, come gio-vani, maggiore credibilità.

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Fabio Giglioni: dal 2002 è ricer-catore di Diritto amministrativo presso la Facoltà di Scienze poli-tiche dell’Università di Roma “La Sapienza” e dal 2004 è stato affi-datario di corsi di insegnamento in Diritto amministrativo presso la sede di Roma e Pomezia della Facoltà di Scienze politiche, ac-quisendo pertanto il titolo di pro-fessore aggregato. Nell’anno acca-demico 2008-2009 ha conseguito l’affidamento di Diritto sanitario nell’ambito dell’insegnamento multidisciplinare Diritto ed eco-nomia sanitaria. Ha svolto attività di consulenza e incarichi di studi e ricerca presso enti pubblici di ricerca (MIPA), ministeri (LA-VORO E POLITICHE SOCIA-

LI), presidenza del consiglio dei ministri (UNAR), autorità am-ministrative nazionali (COGIS), scuole di formazione per pubbli-che amministrazioni (FORMEZ), regioni ed enti locali. Dal 2006 cura la sezione giurisprudenza della rivista online Labsus (www.labsus.org) in materia di sussidia-rietà orizzontale.È autore del volume L’accesso al mercato nei servizi di interesse gene-rale. Una prospettiva per riconside-rare liberalizzazioni e servizi pub-blici (2008) e ha curato, insieme a Riccardo Acciai, il volume Poteri pubblici e laicità delle istituzioni (2008). Nel 2006 ha pubblicato gli esiti di una ricerca commis-sionata dal Ministero del lavoro e

Brevi note sui relatori del Workshop

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delle politiche sociali in materia di accreditamento nei servizi socioassi-stenziali.

Adriano Marangon: si occupa di pianificazione urbana, progetta-zione architettonica, architettura del paesaggio con un’attenzione particolare alle fasi che compon-gono il processo progettuale nella sua relazione con la dimensione sociale.Nel 2001 apre lo studio Made Associati, con Michela De Poli con cui partecipa a conferen-ze, mostre, seminari e workshop ricevendo premi e segnalazioni in numerosi concorsi nazionali ed internazionali. Visiting professor in Università italiane e straniere.

Paolo Zabeo: dal 2002 è il coor-dinatore dell’Ufficio studi della CGIA di Mestre che da oltre 15 anni ha costituito un gruppo di ricercatori che si occupano delle problematiche delle piccole e mi-cro imprese.

Vando Borghi: ricercatore pres-so il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna, è se-gretario del Centro Internazionale di Studi Sociologici sui Problemi del Lavoro (C.I.Do.S.Pe.L.), e se-gretario redazionale della rivista Sociologia del Lavoro. E’ membro dell’Active Social Policy Europe-an Network. Insegna Sociologia

dell’organizzazione e Organizza-zione e impresa presso la Facoltà di Scienze Politiche di Bologna e ha pubblicato Vulnerabilità, in-clusione sociale e lavoro. Mercato e società introduzione alla sociologia economica (con MauroMagatti) e Riconoscere il lavoro (con Tindara Addabbo).

Gruppo di lavoro del Sestante che ha contribuito alla stesura dell'intervento introduttivo

Andrea Conficoni: educato-re professionale, dottorato in "Uomo e Ambiente". Lavora dal 2005 al Sestante come educatore e formatore in progetti Giovani e di Comunità, con particolare at-tenzione a processi partecipativi tra gruppi e istituzioni, sviluppo di comunità ed empowerment, formazione alla genitorialità e ge-stione delle dinamiche di classe. E' referente per l'Ambito delle Po-litiche Giovanili.

Elena Zanatta: educatrice pro-fessionale, specializzazione in Counseling Sistemico Relazio-nale. Al Sestante dal 1998 come educatrice, formatrice e counsel-lor nel mondo della scuola e in vari progetti giovani, di comunità e per le pari opportunità, con at-tenzione a processi partecipativi tra gruppi e istituzioni, formazio-

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ne alla genitorialità, al lavoro di gruppo, gestione delle dinamiche del gruppo classe sia con gli inse-gnanti che con gli studenti.

Riccardo Mastromonaco: educa-tore e operatore di strada. Socio fondatore del Sestante è coordina-tore di vari Progetti Giovani e di Comunità, con particolare espe-rienza in processi partecipativi, la-voro di rete ed educativa di strada. E' parte del Direttivo di Ambito Politiche Giovanili e responsabi-le del Sistema di Gestione della Qualità per le progettualità ester-ne.

Andrea Pozzobon: educatore professionale. Lavora dal 1992 nella cooperativa Il Sestante - di cui è l'attuale Presidente - come formatore e coordinatore del Pro-getto giovani e di Comunità e del Progetto Politiche Famigliari di Montebelluna (TV). E' esperto in politiche giovanili, famigliari e di comunità, con particolare espe-rienza in processi partecipativi tra gruppi e istituzioni, sviluppo di comunità ed empowerment, po-litiche per la famiglia e la genito-rialità.

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APPENDICE

I materiali che seguono riguardano la sessione del giovedì mattina, a tutti gli effetti un “aspettando il workshop”, dedicato ai tecnici, del pubblico, del privato sociale. La sessione del giovedì mattina, intitolata “Welfare mix, Welfare community”, ha visto una prima introduzione al tema e poi la pre-sentazione di 3 esperienze significative sotto il profilo della sussidiarietà e del welfare community. I documenti che seguono sono le slides proposte e, in due casi, le relazioni presentate.

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Quelle che seguono sono le slides presentate come introduzione ai lavori. Si tratta di una cornice teorica sull’evoluzione dal welfare state al welfare community. Il lavoro e la presentazione sono a cura di Mirko Pizzolato, educatore della cooperativa Il Sestante e coordinatore del progetto “Di chi sono le politiche giovanili?”

Welfare mix, welfare community

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Cos’è una Consulta Giovanile?

L’esempio di Trebaseleghe…

La Consulta Giovanile è un organo consultivo del Consiglio Comunale

che presentaproposte di deliberazioni inerenti le tematiche

i ili giovanilie

dà un parere non vincolante anche se obbligatorio dà un parere - non vincolante, anche se obbligatorio –su tutti gli argomenti affrontati dal Consiglio Comunale

che riguardano i giovani. che riguardano i giovani.

Progetto Consulta Giovanile dell’Alta Padovana Est

Quelle che seguono sono le slides presentate per relazionare sulla prima delle tre esperienze: si tratta del progetto Consulta Giovanile dell’Alta Padovana Est. Il lavoro e la presentazione sono a cura di Chiara Bragagnolo, educatrice della cooperativa Il Sestante ed operatrice del progetto stesso.

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Le Consulte come esempio di welfare Le Consulte come esempio di welfare community

Protagonismo come bilit i i

I giovani delle Consulte:• non solo fruitori dellemobilitazione e messa in

gioco delle risorse del territorio, in un’ottica

i l i i

• non solo fruitori dellePolitiche Giovanili, ma nemmeno solo esecutori.

negoziale tra i varisoggetti della comunità che contribuiscono a • Costruttori di reti sul definire e realizzare il welfare

territorio (anchesovracomunale) e non

l i t f i t SUSSIDIARIETÀORIZZONTALE

solo interfaccia tral’Amministrazione e i giovanigiovani.

Le Consulte come esempio di welfare Le Consulte come esempio di welfare community

• I giovani presenti come soggetto collettivo in

Consulte come PROSUMERS(produttori, distributori e consumatori) di servizi di

soggetto collettivo, in relazione con altri soggetti della comunità, d ll’id i ll

)welfare dall’ideazione alla

progettazione erealizzazione delle azioni realizzazione delle azioni di politica giovanile.

• Circorlarità del fare per sé e per gli altri allo stesso tempotempo.

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Le Consulte come esempio di welfare Le Consulte come esempio di welfare community

• Legittimazione

Perché una Consulta e non un gruppo informale?

• Riconoscimentog pp

• Dialogo strutturato e diretto tra giovani e diretto tra giovani e decision makers

•L’operatore come facilitatore di processi e non come erogatore di servizi.e non come erogatore di servizi.

•Non è mai autoreferenziale: non esiste il •Non è mai autoreferenziale: non esiste il ruolo “operatore di politiche giovanili” al di là dei gruppi di giovani o adulti con cui di là dei gruppi di giovani o adulti con cui questo va ad interfacciarsi.

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I li itiI limiti

• Identità committente-controparte• Disponibilità della comunità nelDisponibilità della comunità nel

riconoscere i giovani come soggetti negozialinegoziali

• La Consulta, come organoistituzionale, perde il potere di realizzare azioni

di chi sono quindi le politiche giovanili l din Alta Padovana Est?

Sono funzione sociale diffusa (dell’operatore dei giovani dei politici (dell operatore, dei giovani, dei politici,dei servizi, della comunità,…) non una

t t i liti ti h strategia politica o operativa chequalcun altro attua e qualcuno fruisce.q q

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L’Amministrazione Comunale di Asolo, riconoscendo l’attua-le l’importanza delle tematiche legate alle Pari Opportunità, ha partecipato ad un bando della Regione Veneto, ottenendo un finanziamento, per promuovere nel territorio un progetto rivol-to alle donne della comunità, sui temi della partecipazione politi-ca. Il progetto, sin dalla sua ideazio-ne, rispecchia e aderisce ai princi-pi della sussidiarietà e del welfare di comunità in quanto ri-mette al centro il cittadino come ogget-to e soggetto di welfare.Il progetto è partito all’inizio del 2009, momento in cui alcune

donne attive nel territorio hanno iniziato a ragionare di politiche di pari opportunità, di cittadi-nanza politica al femminile. La prima fase del progetto è sta-ta proprio la condivisione tra e con queste donne del territorio degli obiettivi e dei presupposti del progetto. Successivamente, le donne che hanno scelto di partecipare attivamente alla re-alizzazione del progetto, hanno lavorato insieme, accompagnate dai tecnici, al fine di creare un gruppo che si impegnasse a pro-porre nel territorio un percorso formativo rivolto alle donne. Per arrivare alla realizzazione del percorso, il gruppo di donne ha

PROGETTO PARI OPPORTUNITA’ DI ASOLODonne – politica – territorio: percorso di formazione alle pratiche e ai linguaggi della politica

Quella che segue è la relazione sul progetto Pari Opportunità di Asolo. Il lavoro e la presentazione sono a cura di Andrea Capovilla, assistente sociale del comune di Asolo.

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percorso varie tappe e ha mosso i primi passi nella relazione tra le persone, creando così i pre-supporti sia per sviluppare ow-nership rispetto al progetto, ma anche per consolidare il grup-po, passando così dal lavoro in gruppo, al lavoro di gruppo. Tale processo è avvenuto innanzitutto valorizzando le esperienze indivi-duali, condividendole, creando la sommatoria di differenze di esperienze, visioni, punti di vista. Con una maggiore consapevolez-za, il gruppo ha portato agli ope-ratori una serie di bisogni, inte-ressi e istanze in quanto donne di uno specifico territorio. Si è trat-tato di una fase importante, che ha collegato il gruppo al proprio territorio, e ha aggregato bisogni individuali, li ha sintetizzati in bisogni di gruppo, connessi però strettamente al contesto territo-riale. Questa, in un’ottica sussi-diaria, è la fase che ha permesso di rendere questo un gruppo unico, e non più solo un gruppo di donne. È evidentemente un passaggio fondamentale, senza il quale parlare di sussidiarietà di-venta fuori luogo: la sussidiarietà prevede necessariamente una let-tura del contesto, per determina-re bisogni a cui i cittadini, in base al principio dell’amministrazione condivisa, vorranno provare a ri-spondere. I bisogni sono quelli di

un gruppo composto da donne in un territorio specifico, Asolo, in un momento specifico. Gli operatori quindi hanno soste-nuto e facilitato il gruppo nella realizzazione di un percorso for-mativo che rispondesse ai bisogni e agli interessi che le donne ave-vano fatto emergere.In corso d’opera è nata l’esigenza di realizzare un percorso forma-tivo rivolto a tutta la comunità, anche nella sua componente ma-schile, in quanto anch’essa po-tenziale portatrice di cultura di parità. Quindi il gruppo di don-ne, che nel frattempo si è nomi-nato “Donne in cerchio”, ha pia-nificato tre azioni ben distinte: 1. la realizzazione di due serate pubbliche, una volta a dipingere la situazione femminile attuale, e una sulla partecipazione delle donne asolane alla vita pubblica, politica e lavorativa; 2. un percorso formativo sull’identità rivolto a sole donne ;3. una mostra per rappresentare la storia e il percorso di emanci-pazione che le donne hanno af-frontato fino a ad oggi in questo specifico territorio.

A prescindere dai risultati che avrà questo progetto (che è an-cora in corso), possiamo già, ad oggi, evidenziare non solo la qualità dei contenuti proposti

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dal programma, ma anche il coin-volgimento e l’investimento che un gruppo di donne sta offrendo a sé stesse e alla propria comuni-tà. Questo aspetto, e molti altri, sono legati e veicolati dai pre-supposti di fondo su cui si basa questo progetto: una concezione globale dell’uomo e della socie-tà, intesa sia come individuo che come legame relazionale. Questa visione antropologica evidenzia la centralità della persona nella sua globalità, non solo come portatri-ce di bisogni ed esigenze, ma an-che come fulcro dell’azione e della relazione.Nel progetto Pari Opportunità di Asolo, la donna non è spet-tatrice e fruitrice di un percorso formativo organizzato e predi-sposto dall’amministrazione e dai suoi operatori; le donne stesse, accompagnate e supportate dagli strumenti dei tecnici, attivamen-te agiscono nel territorio le loro riflessioni attraverso l’organizza-zione del “loro” programma sulle Pari Opportunità. D’altra parte, questo non è nem-meno solo un esempio di parteci-pazione: se il gruppo rispondesse a bisogni propri, con strumenti di partecipazione significativima rivolti al solo gruppo, potremmo parlare di partecipazione, di em-powerment, sia individuale che di gruppo, ma non di sussidiarietà.

Invece è possibile pensare in que-sta’ottica, perché i bisogni emersi, ma soprattutto le azioni imple-mentate, mirano a un processo più ampio, offrono spazi a tutte le donne del territorio, ma anche agli uomini, in virtù di una in-terpretazione collettiva e relazio-nale delle pari opportunità, dello stesso principio di cittadinanza. Questa visione dell’individuo, per di più in un progetto sulle Pari Opportunità, permette alle persone di vivere ed essere comu-nità; ed in questo modo l’Ammi-nistrazione Comunale non solo mette in moto delle azioni vicine al cittadino, ma offre al cittadino gli strumenti perché sia esso stes-so l’agente. La valenza della sussidiarietà è ancor più evidente in quei pro-getti che, come quelli sulle Pari Opportunità, hanno come obiet-tivo il cambiamento di visioni e prospettive sul medio e lungo periodo. Sappiamo quanto sia-no lenti e difficili i cambiamenti culturali e di pensiero, soprattut-to per quelle attitudini legate alla quotidianità e che sono fisse in noi, sedimentate culturalmente. Tuttavia, concepire il cittadino stesso come attore di cambia-mento ne costituisce la svolta e delinea la strada che esprime la possibilità di cambiamento.

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Si parla di sussidiarietà vertica-le quando i bisogni dei cittadini sono soddisfatti dall’azione degli enti amministrativi pubblici, e di sussidiarietà orizzontale quan-do tali bisogni sono soddisfatti dai cittadini stessi: crediamo che il progetto Pari Opportunità di Asolo costituisca un mix di questi livelli, in quanto l’Amministrazio-ne Comunale è vicina al cittadino, sostiene il processo descritto con risorse proprie, senza dare una risposta diretta ai bisogni emersi, ma fornendone puntualmente gli strumenti perché il cittadino stes-so possa darne risposta.

Il gruppo promotore “Donne in cerchio” è, dal nostro punto di vista, la risultante di due elementi intimamente collegati ai principi di sussidiarietà e welfare communi-ty: il primo è l’aggregazione socia-le, ovvero l’insieme delle persone in relazione tra loro che possono agire liberamente senza che l’isti-tuzione debba sostituirsi ad esse nello svolgimento delle loro atti-vità; il secondo è l’autonomia che gruppi di cittadini possono acqui-sire nel saper fornire risposta ai bi-sogni della comunità. Le “Donne in cerchio” in questo senso po-tranno, nel loro futuro prossimo, sostenere la comunità e l’Ammi-nistrazione nella creazione di un Organismo di Parità Comunale

che possa quindi autonomamente diventare rappresentante della cul-tura di parità, sia per l’amministra-zione che per il territorio.

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La famiglia è una risorsa: è capa-ce di attivarsi, creare reti con altre famiglie, con la comunità e pro-muovere solidarietà sociale su base famigliare. Con questa consapevolezza, nel 2004, l’amministrazione comu-nale e le famiglie di Montebelluna hanno avviato il Progetto Politi-che Famigliari come percorso che permettesse alle famiglie di esse-re protagoniste nella comunità, esprimere i propri bisogni, con-dividere i problemi, proporre e realizzare insieme le soluzioni per giungere al benessere della per-sona e della comunità attraverso l’attuazione del principio di sussi-diarietà, o di welfare community.

Progetto Politiche Famigliari della città di Montebelluna

Quella che segue è la relazione sul progetto Politiche Famigliari di Mon-tebelluna. Il lavoro e la presentazione sono a cura di Maria Rosa France-schini, dirigente del comune di Montebelluna.

In tal senso sussidiarietà significa passare da una concezione di cit-tadinanza basata sulla relazione verticale amministratori – ammi-nistrati (i primi soggetti del bene pubblico, i secondi oggetti delle decisioni dei primi), ad una re-lazione di amministrazione con-divisa, in cui i soggetti pubblici e privati perseguono insieme il bene comune, riconoscendo e sviluppando insieme le risorse e le capacità disponibili. Inevita-bilmente in questa concezione di amministrazione pubblica condi-visa le politiche attivate sono più efficaci, perché sono direttamente progettate e pensate dai cittadini con gli amministratori, su bisogni

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che i cittadini, singoli o in gruppi, hanno fatto emergere. Si sviluppa in tal senso welfare community, nel senso più pieno del termine, perché è la comunità stessa che è capace, sostenuta con strumenti appositi dai tecnici e da scelte e decisioni coerenti dai politici, di implementare politiche sociali ef-ficaci e rispondenti ai bisogni.Il Progetto Politiche Famigliari è basato su un approccio di ricerca-azione: si tratta di un approccio di lavoro con la comunità che mira al cambiamento sociale attraverso la partecipazione attiva dei sogget-ti coinvolti. Si articola in tre fasi: l’azione per conoscere, nella quale si identificano insieme i problemi/bisogni; l’azione per progettare, nella quale emergono e si struttu-rano le ipotesi di azione; l’azione per cambiare, nella quale si attua l’intervento. Le tre fasi sono cir-colari e si nutrono a vicenda: in tal senso la conoscenza è azione e l’azione produce altra conoscenza. Questo progetto nasce nel 2004 con l’obiettivo di promuovere una cultura della relazione, dei legami sociali e solidali. Ciò significa con-siderare la famiglia come risorsa in grado di attivarsi, di co-attivarsi e di attivarsi-per, di associarsi con altre famiglie, di relazionarsi con la comunità.Il primo passo, l’azione per co-noscere, è stato il contatto con

alcune famiglie “sensibili” del ter-ritorio e l’attivazione, con il loro aiuto, di 15 gruppi focus volti a individuare i principali ostacoli al raggiungimento del benessere della famiglia a Montebelluna. In una successiva assemblea si sono individuati i 7 principali ostacoli e sono nati i primi 7 gruppi di la-voro.Le priorità emerse sono state:1. il problema della viabilità;2. la mancanza di un servizio di sostegno psicologico a chi ha un anziano, malato o disabile in casa;3. la mancanza di un servizio di sostegno psicologico alle coppie che vivono un momento di dif-ficoltà e una formazione ai valori nella coppia;4. la mancanza di una politica per la casa in chiave famigliare;5. l’esigenza di sviluppare reti di relazioni tra famiglie, amicali e di vicinato come sostegno alla geni-torialità e nelle situazioni di emer-genza-bosogno;6. la necessità di potenziamento dei servizi per la prima infanzia;7. la mancanza di un sistema di agevolazioni economiche alla fa-miglia.

I 7 gruppi si sono costituiti con l’obiettivo di trasformare l’osta-colo specifico in possibili azio-ni in grado di superarlo (azione per progettare). Tutto il lavoro e

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in particolare le ipotesi di azione sono state presentate nel primo convegno (2005) “la famiglia pro-tagonista” alla cittadinanza e alla giunta comunale, in un clima di forte coinvolgimento e partecipa-zione delle famiglie protagoniste del progetto. Da questo momento i gruppi hanno iniziato a realizza-re le principali azioni individuate (azione per cambiare) con l’atten-zione a coinvolgere altre famiglie. Questo modello di percorso uti-lizzato nella parte iniziale del pro-cesso è stato utilizzato successiva-mente anche per la nascita di altri gruppi (gruppo seconda infanzia, gruppo caro libro e gruppo stili alternativi). La maggior parte dei gruppi nati nel 2005 sono ancora attivi; altri hanno attuato alcune azioni e poi hanno concluso il loro percorso; altri sono nati suc-cessivamente.I gruppi di famiglie si trovano periodicamente in assemblea per condividere e definire la strategia di lavoro generale. Mensilmente i rappresentanti di ognuno dei gruppi di famiglie si incontrano nel Gruppo di Coordinamento per l’accompagnamento del pro-getto.Le famiglie del progetto, inoltre, da circa un anno hanno iniziato a un percorso verso la costituzio-ne di un Forum comunale delle famiglie. La prima tappa è stata

quella di individuare una famiglia responsabile quale rappresentante e punto di riferimento per tutte le famiglie del progetto: attraverso un questionario più di 40 famiglie hanno contribuito a definire ruo-lo, funzione e tipo di impegno del-la famiglia responsabile e nel mag-gio del 2009, durante l’Assemblea delle Famiglie, è stata eletta la fa-miglia responsabile. Nell’arco del 2010 l’obiettivo è la costituzione formale del Forum comunale del-le famiglie. La famiglia responsa-bile, oltre a condurre il Gruppo di Coordinamento, partecipa ad un gruppo di “regia” progettuale composto anche dall’assessore alle Politiche Famigliari, dal dirigente e dai tecnici comunali, dagli ope-ratori del progetto.Le principali azioni fin qui realiz-zate nell’ambito del Progetto Poli-tiche Famigliari sono:1. tessera parcheggio bebè – tesse-ra per il parcheggio gratuito (per 1 h e 30’) per le famiglie dei nuovi nati, fino al primo anno di età;2. detrazione ICI – detrazione di 103 € a famiglia per le famiglie con due o più figli a carico entro i 21 anni di età;3. realizzazione di percorsi di for-mazione al matrimonio civile e alla vita di coppia;4. convenzione tra amministra-zione comunale e gruppo viabilità – gestione in comune di 25.000

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€ per l’abbattimento di barriere architettoniche;5. apertura di uno spazio “incon-trafamiglie” – aperto alle famiglie e gestito dalle stesse;6. attivazione di un sito internet sul Progetto Politiche Famigliari;7. riduzione dei costi, dal secondo figlio in poi – riduzione costi di trasporto scolastico, mensa scola-stica, ecc.;8. attivazione della rete famiglie-comune-scuole – implementazio-ne del progetto “caro libro” per il riutilizzo dei libri della scuola media con l’obiettivo di far ri-sparmiare le famiglie (risparmio del 50% sui costi di copertina) e di raggiungere con gli studenti obiettivi educativo-ecologici;9. attivazione di 5 “punti bebè” – locali pubblici o privati dove i genitori possano in situazione di bisogno cambiare o allattare il bambino;10. attivazione di un gruppo di acquisto di materiale di cancelle-ria;11. apertura di uno spazio d’in-contro per famiglie con bambini da 0 a 6 anni, chiamato “Dire Fare Giocare”;12. un percorso formativo per le famiglie su come prendere deci-sioni in gruppo e sulla gestione dei rapporti gruppi e istituzioni;13. avvio di un percorso per la realizzazione di un Forum citta-

dino per le famiglie.

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M.P.: Una riflessione emersa ri-guarda il tema della trasversalità delle politiche giovanili. Noi fi-nora abbiamo lavorato sulle po-litiche giovanili principalmente all’interno del tempo libero e del-la formazione parallela all’interno della scuola. Da un po’ di tempo si sta aprendo una riflessione at-torno ad una progettualità diver-sa; è una richiesta forte da parte dei ragazzi, che un po’ ci ha colpi-to, e riguarda il concetto di “tra-sversalità”.L’idea centrale è che, in futuro, nelle Amministrazioni Comunali, ma anche Provinciali o Regionali, le politiche giovanili non abbiano un assessorato apposito, ma siano

una sorta di “tema”, comune e trasversale a tutti gli assessorati. Chi fa urbanistica non può dirsi estraneo a politiche che riguarda-no i giovani, così come chi si oc-cupa di bilancio. In tutto questo il tema delle trasversalità diventa centrale.E’ una prospettiva che a noi, come cooperativa, pone degli interro-gativi importanti, poiché da una parte ci chiede di aprire a prospet-tive diverse, dall’altra anche a una formazione, in quanto operatori, diversa. Se pensiamo alle nostre competenze, ci possiamo ritenere “formati ed esperti” rispetto alla pedagogia, rispetto alla scuola, ri-spetto alla conduzione di processi

Oltre il workshop: suggestioni e riflessioni nell’ambito delle Politiche Giovanili della cooperativa Il Sestante

Gli interventi di seguito riportati sono avvenuti in un’assemblea dei soci della cooperativa sociale Il Sestante, titolare del progetto “Di chi sono le politiche giovanili?”. Si tratta di una discussione centrata sulle politiche giovanili, su come sono agite dalla cooperativa e nel territorio, su quale futuro abbiano o possano avere. Riteniamo utile pubblicare questo inter-vento, che riguarda l’intero progetto citato, ma che si è concretizzato nel mese di settembre 2009, perché ci sembra porti ulteriori punti di vista, ulteriori analisi. Gli interventi sono stati fatti da diversi soci lavoratori che conoscono e operano nel campo delle politiche giovanili, con ruoli operativi o di coordinamento. Il lavoro che i soci lavoratori della cooperativa hanno iniziato con questa discussione proseguirà in ulteriori riflessioni, anche te-nendo conto di quanto emerso durante il workshop. Da questi momenti nascono le innovazioni, da queste analisi scaturiscono idee, contaminazi-oni, progettualità.

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partecipativi e di cittadinanza, ma per quanto concerne “l’urbanisti-ca” (per fare un esempio) siamo certamente meno preparati.Inoltre ci si pone dinanzi la pro-spettiva di abbracciare nuovi ap-procci, di sperimentare nuove modalità di lavoro e magari pro-spettive differenti da quelle nor-malmente intraprese.Se ci riferiamo ad un’esperienza recente, ad esempio il PLG (Pia-no Locale Giovani), ci rendiamo conto che abbiamo dovuto speri-mentare modalità e approcci per noi innovativi, in particolare per gli attori coinvolti.

M.E.: Una cosa che mi veniva in mente, in termine di prospettive, modalità, approcci… un proble-ma con cui stiamo impattando fortemente in questo contesto, anche in relazione al PLG, è la questione del potere negoziale dei giovani. Quando si va a tratta-re con un soggetto economico o sociale, qual è il potere e la for-za negoziale che hanno i giovani? Ci rendiamo conto che su molti aspetti la forza negoziale iniziale che questi hanno è davvero molto bassa. Il fatto stesso di trovarsi di fronte ad una rappresentanza del-la popolazione giovanile limitata, li pone ad essere poco credibili o comunque scarsamente conside-rati di fronte al potere istituzio-

nale. Sarebbe invece interessante poter capire come sviluppare un lavoro che sostenga e promuova questo tipo di incontri, come raf-forzare il potere negoziale. Paral-lelamente, un altro aspetto cen-trale: capire come promuovere la relazione con quegli adulti che possono fungere da riferimento (pensiamo ad esempio a quelli che hanno funzione pubblica in ambito economico o di bilancio delle risorse). Se noi ci guardia-mo un po’ attorno, possiamo ben vedere come ci sia un’esperienza strutturata su questo campo, an-che se per quanto ci riguarda il terreno appare invece piuttosto inesplorato. Si tratterebbe quindi di intraprendere un campo speri-mentale che metta in gioco nuo-ve risorse ma anche e soprattutto diverse opportunità finora poco considerate.Una seconda riflessione riguarda gli strumenti: noi sappiamo ope-rare sui processi relativi ai gruppi ma riveliamo delle debolezze sul rapporto tra gruppi e comunità, dobbiamo perciò come soggetti sperimentare ancora tanto.

A.P.: A mio parere un’altra di-mensione fondamentale è la rela-zione con la comunità territoria-le, sia con i soggetti adulti, come è gia stato detto, ma anche e so-prattutto con i ragazzi. A me pare

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che come cooperativa non abbia-mo ancora acquisito in maniera forte delle competenze rispetto ai processi valutativi del lavoro che si fa con i giovani, ossia il riuscire ad acquisire degli strumenti va-lidi e degli indicatori di verifica oggettivi che ci permettano di stabilire quanto il lavoro con i giovani sia efficace nel territorio o quanto piuttosto le azioni che i giovani fanno rimangano circo-scritte al loro contesto, senza in-cidere sensibilmente sulla strut-tura e sul tessuto sociale.Io ritengo che questo sia un gros-so problema, anche vedendo il paragone con l’ambito delle po-litiche familiari, poiché ritengo che le energie da investire nel settore politiche giovanili siano enormi, rispetto all’impatto che possono avere invece sul resto della comunità i progetti pro-mossi dagli adulti. La realtà è che la comunità degli adulti conta, mentre quella dei giovani mol-to meno. Quindi a mio parere è fondamentale uscire, non solo dal concetto di trasversalità tra i diversi assessorati e soggetti, ma far sì che ci sia una relazione con-tinua nel lavoro di relazione tra i giovani e tutti gli altri soggetti della comunità.Per me questa è una cosa molto significativa e a dire la verità, an-che cogliendo uno spunto di ri-

flessione dagli studi di psicologia sociale, pedagogia sociale e psico-logia di comunità, in tutti questi contesti, i giovani si trovano spes-so al margine delle riflessioni teoriche.Un ulteriore ostacolo riguarda la scarsa rappresentatività che i gio-vani hanno rispetto alle istanze che essi portano e da ciò deriva anche il loro basso potere con-trattuale; bisognerebbe trovare dei sistemi per coinvolgere e per age-volare la partecipazione. In questa direzione è importante ragionare in termini di rappresentanza e rappresentatività. E’ interessante il potere che i giovani possono ac-quisire, costituendosi come sog-getto collettivo riconosciuto, in particolare, dalle amministrazioni comunali. Anche rispetto alle po-litiche familiari ci si è resi conto che, quando un gruppo resta in-formale, non acquista il potere negoziale, mentre è evidente il ri-conoscimento che potrebbe avere se formalizzato in associazione o ente.

C.P.: Anche ammesso che non aggiungo nulla di nuovo, vorrei rafforzare il concetto che tutto quello che stiamo dicendo privo di un forte avvallo politico, non porta a nulla. Sento che i poli-tici, mai come adesso in questo periodo storico, hanno bisogno

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di un sostegno contenutistico, pedagogico, ma anche più leg-gero. Abbiamo tanti politici che hanno magari buone intenzioni ma pochi strumenti a disposi-zione o scarse risorse, anche di tipo economico. In questo forse sento che noi potremmo essere per loro uno strumento prezio-so, dovremmo quindi tentare di immaginarci qualcosa a soste-gno del ruolo di questi politici, poichè nelle nostre piccole espe-rienze abbiamo compreso che al di là di come vengono impiegate le risorse o si decide di finanzia-re un progetto X piuttosto che un’iniziativa Y, quel che è im-portante è il processo che porta alla costruzione di certi percorsi. Sento che lavorare con i politici è sempre più strategico e per arri-vare a questo è essenziale, anche come cooperativa, negoziare con queste amministrazioni, usando strumenti diversi a quelli che sia-mo soliti usare. Bisogna pensare che l’unico modello è quello di costruzione di partnership con amministrazioni locali. Le po-litiche sociali, se erano viste 10 anni fa come l’ultima ruota del carro, oggi sono addirittura sotto il carro, se consideriamo i capito-li di spesa che vengono loro soli-tamente riservati, ma nonostante ciò c’è ancora voglia di lavorare e di mettersi in discussione.

Quello che suscita alcune per-plessità è che anche dove ci sono situazioni in cui c’è la necessità di continuare a lavorare, ma la mancanza di una partnership -re-lazionale, di strategie, di model-li e di processi- è forte, ebbene, queste situazioni non funziona-no, né possono funzionare.

M.P.: Per molti assessori, non è sufficiente la contrattazione classica, in cui la parte politica esterna i propri bisogni, le pro-prie priorità, e sulla base di ciò costruiamo un progetto credibi-le. Nel momento in cui l’asses-sore chiede che sia dimostrato con dati “empirici” che ciò che abbiamo costruito dà effettiva-mente i risultati attesi, sento che in questo siamo piuttosto deboli. Forse dobbiamo pensare ad altre modalità di valutazione, che ci permettano di capire se stiamo lavorando nella maniera corretta e se il nostro lavoro è realmente rispondente ai bisogni espressi. Se ci chiedono di dimostrare che un centro aggregativo funziona, probabilmente ci è facile co-struire degli strumenti di verifica e monitoraggio; dati numerici di affluenza, attività realizzate…ma quando parliamo di trasversalità, di politiche che attraversano i set-tori giuridici, urbanistici, forse si parla per qualcuno di aria fritta.

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B.T.: Stavo riflettendo su una questione di tipo metodologi-co agganciandomi alla teoria dell’empowerment. Per sviluppare empowerment sono necessari tre fattori: sviluppare le competenze, individuare le condizioni affinché queste competenze si realizzino e creare il processo, attraverso il quale competenze e condizioni si intrecciano. Ripensando ve-locemente ai progetti che noi promuoviamo in questi anni, mi sembra che questo possa essere un buon filo conduttore sia per le comunità in senso macro, sia nei progetti in cui lavoriamo a livello micro, oserei dire anche a livello di counselling. Quello che dobbia-mo cercare assieme è il trovare un filo conduttore che ci permetta di lavorare su entrambi i livelli e in tutte le fasi di vita dei ragazzi. Lo stesso vale appunto con i ragazzi: per portarli ad essere in grado di avanzare delle istanze o delle pro-poste bisogna aiutarli nell’acquisi-re delle competenze fin dai 12/13 anni, in un percorso di crescita personale e di progressiva autono-mia. Una prospettiva interessante è quella di trovare un filo condut-tore rispetto a tutti i progetti che si occupano di politiche giovanili, che a volte ci sembrano molto di-versi. Progetti che apparentemente ci sembrano distanti e diversi come

ad esempio gestire uno spazio d’ascolto o proporre un processo nella comunità, probabilmente hanno dei punti di convergenza che si traducono in una metodo-logia comune, in strumenti di em-powerment condivisibili. L’ottica proposta mi pare il modo più fun-zionale per mettere assieme anche diversi tipi di approcci che spesso vengono utilizzati nella struttura-zione dei progetti; da quella Siste-mica, Cognitiva, Familiare, Tran-sazionale…ecc

M.Z.: Riflettendo ora rispetto a tutto ciò che è stato detto fin qui, rilevo un problema a mio parere piuttosto importante, che non so se definire un limite, un ostacolo o piuttosto un pregio nel lavoro con i ragazzi e cioè il “camaleonti-smo” dei progetti. Mi rendo conto che spesso i progetti assumono la forma dei ragazzi che incontriamo nei territori, come se in qualche maniera gli venissero cuciti ad-dosso e in alcune situazioni questa cosa è facilitante, in altre ostaco-lante.Cerco di specificare meglio: se in un territorio le istanze dei ragaz-zi non sono ancora chiare ci sarà necessariamente una prima fase di emersione dei bisogni e il proget-to assumerà progressivamente una forma a seconda di ciò che il ter-ritorio esprime e si aspetta, se in-

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vece l’assessore o il referente tec-nico decide a priori di aprire uno spazio aggregativo, indipendente-mente dalle istanze portate avanti dal territorio, l’esito progettuale sarà inevitabilmente diverso. Ma-gari più semplice nella sua defini-zione e chiaro nell’esecuzione. In tutto ciò l’educatore può essere lui stesso un “camaleonte”, da quello che anima il centro aggregativo a quello che fa l’edu-counsellor, a quello che organizza eventi. Il no-stro centro dov’è? O meglio, esiste un centro?Se in una comunità si sviluppa un processo di gruppi di interesse con venti giovani, che a loro volta provengono da un bacino di mil-le, mi chiedo se il processo avviato con quei venti sia effettivamente rispondente ai bisogni reali della popolazione dei giovani o solo di quelli che sposano la nostra me-todologia operativa. Paradossal-mente oltre quei venti ragazzi ce ne sono magari altri cinquanta che potrebbero aver bisogno di un setting uno-a-uno, ma che in quel contesto il nostro approccio non ci permette di intercettare e quindi di cogliere come bisogno.In questo caso la scelta è di tipo politico, tecnico? Le diversità ci sono, ma quali strumenti posse-diamo per cogliere e per rispon-dere a tali diversità?

M.S.: Una delle principali diffi-coltà, ma che diventa anche un grosso punto a favore della coope-rativa è quella di coprire le distan-ze siderali tra il mondo dei ragazzi e la percezione del mondo che ha la controparte, i politici, i tecni-ci… grossolanamente il mondo degli adulti. Potremmo definire la cooperativa come una sorta di cerniera tra due realtà, quella dei ragazzi che sento veramente parte di una nuova generazione, che re-spira l’era della globalizzazione, e quella degli adulti che per la mag-gior parte vivono questo concetto più come un assunto teorico che reale. Le modalità comunicative proprie dei ragazzi, digitali nativi, diventano strane e spesso estranee alla comunità adulta, con la quale si crea inevitabilmente un paralle-lismo di piani che s’incontrano con estrema difficoltà. Chiave di questa difficoltà è proprio la mo-dalità comunicativa.Il lavoro teorico che a mio parere va fatto, è quello di favorire questo processo di consapevolizzazione in entrambi i piani e in particolare di sostenere i ragazzi nella presa di coscienza che questa nuova epoca determina e genera diversità. Già in questa consapevolezza si ridu-ce la distanza. L’altra riflessione è che spesso la valutazione dei pro-getti, dei processi e dei risultati raggiunti, hanno la cifra delle am-

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ministrazioni che li devono finan-ziare e quindi devono rispondere a delle aspettative che non sono sempre quelle dei ragazzi.Un ultimo elemento di difficol-tà che vorrei sottolineare è quel-lo dei tempi: percepisco i tempi della politica come tempi lunghi, che si esprimono nell’arco dei 5 anni, 10 anni, i tempi dei man-dati istituzionali, invece vedo i ragazzi che sono produttivi in tempi molto più rapidi: 6 mesi, un anno al massimo, quello cioè che dedicano alla realizzazione di un’idea. Poi magari partono, cambiano città, vanno a studiare lontano e quindi i loro bisogni si trasformano. Prima si diceva che i gruppi informali hanno meno po-tere contrattuale, eppure io colgo in questa informalità il potere di essere produttivi ed efficienti. A.C.: Quanto detto da Benedet-ta sull’empowerment può salvarci dal rischio di essere camaleontici, per esempio la crescita dei proget-ti, delle competenze e dei gruppi può avere dei tempi di attivazio-ne piuttosto rapidi, è il tempo dei servizi, quelli delle istituzioni che devono magari approvare un pro-getto, formalizzare un incarico, accettare un percorso, ad essere estremamente lento e farragino-so. Le istanze si bloccano a questo livello e forse il compito della

cooperativa potrebbe proprio es-sere quello di agire su queste reti. Ancora, quanto possiamo noi la-vorare per favorire la stessa costru-zione di reti tra comuni, servizi? Secondo me qualcosa di significa-tivo è già emerso proprio da quei territori in cui si è creata una men-talità di rete progettuale, in alcuni casi anche innovativa.Noi come cooperativa lavoriamo per una connessione territoriale o ci limitiamo a lavorare per ri-spondere ad interessi specifici in un comune, magari limitandoci territorialmente? Per riprendere un concetto espresso in preceden-za, ci limitiamo a processi di em-powerment mirati o investiamo in processi ad ampio spettro?

C.B. : Per dare una risposta alla tua domanda, spesso questo la-voro di rete lo facciamo, ma sen-za un mandato chiaro e spesso lo facciamo anche gratis, perché non siamo ufficialmente riconosciuti come ruolo e non è detto che dob-biamo effettivamente assumerlo.

A.P. : Quello che state dicendo in fondo implicitamente viene co-munque fatto anche in un inca-rico di educatore domiciliare, ma lo stesso operatore di comunità mette la sua posizione, il suo es-sere nel ruolo che riveste e quin-di di fatto porta la sua visione nel

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lavoro che svolge. La domanda è a questo punto: la nostra visione del mondo c’è e la mettiamo quo-tidianamente nel lavoro... ma c’è una visione del mondo collettiva? A livello di cooperativa come pos-siamo tradurla in intenzionalità pedagogica? In questi anni stiamo andando in questa direzione?

M.E.: A volte ci troviamo in un’ambiguità operativa, come educatori di comunità, quando non sappiamo bene come rispon-dere alle richieste del territorio. Quando ci chiedono di attivare uno spazio aggregativo, implicita-mente ci chiedono anche di fare un lavoro di cultura operativa e progettuale, di formazione legata al senso di quello che stiamo fa-cendo. Se come cooperativa ab-biamo perseverato in tutti questi anni proponendo un modello di operare nel sociale mantenendo una linea discostata dalla sempli-ce erogazione di servizi, così come invece è stato per molte altre co-operative, è perché forse abbiamo saputo cogliere questi bisogni del territorio permettendoci anche di essere riconosciuti per la quali-tà del servizio svolto. Si tratta di capire e di condividere tra di noi quanto siamo coscienti e consa-pevoli di questo. Noi siamo cer-tamente erogatori di servizi, ma siamo anche portatori di una cul-

tura di sistemi sociali diversa da quella di altri. E’ necessario quindi avere una visione più organica del nostro ruolo come cooperativa.

A.B.: Mi pare che ci stiamo discostando dalla domanda iniziale; stiamo cercando di ri-spondere a come la Cooperativa può farsi portatrice delle istan-ze dei giovani e fare da tramite verso le parti sociali che si do-vrebbero poi occupare di poli-tiche giovanili. In questa nego-ziazione ci siamo anche noi con la nostra esigenza di mantenere il ruolo lavorativo, variabile che non va trascurata perché non ci permette di essere disinteressati rispetto al fatto di saper veicola-re o meno le istanze.Questa consapevolezza a livello politico è bassa e il nostro pote-re di cambiamento è altrettanto debole, ma sento che in questa spirale l’unico nostro spiraglio potrebbe essere quello di pro-porre in autonomia dei percor-si culturali, finanziati da noi, quindi indipendenti da qualsia-si committenza. V.B.: Marco (M.E. ndr) ha in parte risposto all’idea di coope-rativa, mi chiedo se uno degli ostacoli sia il fattore economi-co, non ancora citato, ma che fa parte del processo di empower-

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ment. In fondo se nel momento storico in cui ci troviamo si riesce a mala a pena a garantire le for-me assistenziali di base, mi chie-do come sia possibile produrre e sostenere, soprattutto economi-camente, progetti in tutti quei settori che esulano dai bisogni di base. Un comune che deve sta-bilire come stanziare i suoi fondi (pochi), deciderà di erogarli in quei servizi che ricadono visibil-mente sull’elettorato che poi lo riconfermerà, non di certo verso quel target (giovani o adolescen-ti) dai quali non otterrà consensi formali (voti). In questo pare vin-cente la strategia della cooperativa di investire sulla ricerca di risorse alternative (ufficio bandi), per ac-cedere a risorse che dal territorio difficilmente possono arrivare. Il messaggio inoltre potrebbe arriva-re agli stessi giovani che possono essere resi partecipi di opportu-nità (finanziamenti) a cui attin-gere per portare avanti idee non altrimenti realizzabili. E’ un buon modo per mantenere in vita tutta una serie di modalità operative in cui noi crediamo, nell’attesa che magari passi questo infelice perio-do di austerità o che le stesse am-ministrazioni avviino localmente le trasformazioni culturali che au-spichiamo.L.d.P.: A mio parere manca un aspetto importante, che è la fetta

degli adulti che dovrebbero valu-tare la bontà o meno dei progetti, e qui chiamo in causa i genitori, che dovrebbero essere dei testimo-ni privilegiati nel dire se e quanto a loro parere un’iniziativa, un cen-tro giovani o altro giovi o meno ai loro figli. Ci sono dei soggetti adulti che andrebbero coinvolti dalla fase di progettazione ma an-che di realizzazione e di verifica.Altro aspetto su cui riflettere è l’ambito scuola: “Vogliamo sem-plicemente “vendere” pacchetti o sviluppare empowerment?” Infine la comunità, con cui solitamen-te lavoriamo, taglia fuori alcune categorie importanti con le quali non riusciamo a creare partner-ship e, a causa di ciò, spesso in-deboliamo gli stessi progetti sui quali impegniamo gran parte delle nostre energie (ad esempio lo Sportello Casa con 40 richie-ste e 3 assegnazioni, perché non abbiamo i contatti con le imprese edili). Dobbiamo pensare le co-munità come soggetti più ampi. Torniamo perciò alla trasversalità, al tema del coinvolgere soggetti solitamente percepiti come estra-nei alle politiche giovanili.

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Introduzione 5

Politiche giovanili: dai territori dell’agire alle consapevolezze pedagogiche 9“Giovani, destinatari o attori?” Di chi sono le politiche giovanili? 24Dibattito seguito agli interventi 39

Le politiche giovanili dal punto di vista sociologico giuridico, economico e urbanistico 50I laboratori 70Laboratorio 1 “Giovani in transizione, tra vulnerabilita’ e capacitazione” 71Laboratorio 2 “Sussidiarieta’ e giovani” 74Laboratorio 3 “Spazi pre-occupati” 77Laboratorio 4 “I giovani ed il lavoro” 79Il programma Gioventù in Azione 85Lo “Speaker Corner” 89Tavola rotonda conclusiva 92Brevi note sui relatori del Workshop 103

Appendice 106Welfare mix, welfare community 107Progetto Consulta Giovanile dell’Alta Padovana Est 114Progetto Pari Opportunita’ di Asolo 118Progetto Politiche Famigliari della città di Montebelluna 122

Oltre il workshop: suggestioni e riflessioni nell’ambito delle Politiche Giovanili della cooperativa Il Sestante 126

Sommario 136