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Assessorato Istruzione e Cultura della Provincia di Pisa Centro di Documentazione e Ricerca Educativa

Giornata della memoria 2001

Persecuzioni e stermini nella seconda guerra mondiale

Atti del Convegno di studio, Pisa 13 ottobre 2000

Quaderni del Centro per la didattica della Storia

Numero 1

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INDICE Lo sterminio degli zingari durante la seconda guerra mondiale (Mirella Karpati) .................... p. 5

Nazifascismo e omosessualita` (Gianfranco Goretti)................................................................. p. 9

La persecuzione nazista dei Testimoni di Geova (Maurizio Papini).......................................... p. 16

Presentazione del libro "Razza e fascismo. La persecuzione degli ebrei in Toscana (1938-1945)"

(Carla Forti) ............................................................................................................................... p. 19

Guerra totale e totalitarismi (Paolo Pezzino).............................................................................. p. 25

Come spiegare lo sterminio degli ebrei (Michele Battini) .......................................................... p. 31

Ebrei e antisemitismo nell`Italia contemporanea: note sullo stato degli studi (Guri Schwarz).. p. 35

Persecuzione e reintegrazione: il problema dei beni confiscati agli ebrei (Ilaria Pavan) .......... p. 38

Problematiche della continuita` dello stato (Francesca Pelini).................................................. p. 42

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LO STERMINIO DEGLI ZINGARI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE

di Mirella Karpati

La “giornata della memoria” fissata il 27 gennaio, anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche, vede unite nel ricordo delle sofferenze subite le vittime di una persecuzione che colpì non solo gli avversari politici dei regimi dittatoriali, in primo luogo i comunisti, ma anche quanti venivano considerati “corpi estranei” minaccianti l’integrità nazionale, in primo luogo gli ebrei e gli zingari.

L’intrecciarsi del destino degli zingari con quello degli ebrei non è un fatto recente. Cinque secoli fa, ed esattamente il 4 marzo 1499, i re cattolici Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia, bandirono dalla Spagna gli zingari, dopo aver bandito nel 1492 i mori e gli ebrei. Questo nell’intento di creare uno Stato unitario, in cui una coscienza nazionale sostenesse il potere, premessa fondamentale per l’instaurarsi delle monarchie assolute. L’esempio della Spagna fu seguito dagli altri Stati dell’Europa occidentale in un crescendo che giunse sino ad assicurare l’immunità a chi uccideva uno zingaro, come stabiliva la Dieta dell’Impero tenuta ad Augusta nell’anno 1500, o addirittura a premiare l’assassino, come nella Repubblica di Venezia. Né mancò la condanna delle Chiese cristiane verso questi propagatori di superstizioni, sui quali pesava il sospetto di appartenere all’Islam; e se gli ebrei erano i “deicidi”, nella mentalità popolare gli zingari erano i forgiatori dei chiodi della crocifissione di Gesù. Quanto le misure repressive fossero efficaci, lo dimostra un semplice dato statistico: se nei paesi dell’Europa orientale si stima che gli zingari siano circa otto milioni, nell’Europa occidentale essi non raggiungono i due milioni.

In questa lunga storia di persecuzioni la “novità” del nazismo fu la volontà esplicita, puntualmente programmata e metodicamente eseguita, di sterminare ebrei e zingari come popolo, una volontà di genocidio.

Si è molto discusso se la persecuzione degli zingari sotto il regime nazista e sotto i regimi fascisti degli Stati satelliti sia stata motivata dalla prevenzione e repressione della criminalità oppure da motivi razziali. La prima tesi, sostenuta anche a lungo dal governo della Repubblica Federale Tedesca per negare loro ogni riconoscimento e risarcimento, trova il suo fondamento nella qualifica di “asociali” attribuita agli zingari ancor prima dell’avvento di Hitler. Già nel 1899 era stato istituito a Monaco di Baviera un apposito ufficio (Zigeunerpolizeistelle) con compiti di controllo e di schedatura, la cui competenza fu estesa nel 1926 a tutto il territorio nazionale; nel 1938 l’ufficio fu trasferito a Berlino presso la polizia criminale del Reich alle dirette dipendenze di Himmler.

Ma è possibile che 500.000 vittime, fra cui quasi la metà bambini, fossero tutte dei criminali? In realtà già fin dal 1935, in ottemperanza delle leggi di Norimberga “per la tutela del sangue e dell’onore tedeschi”, i teorici della razza includevano nelle misure razziali anche gli zingari. La questione, che si presentava controversa data la loro origine indiana e la lingua ariana parlata, fu affidata nel 1936 ad un apposito ufficio, il Centro di ricerche scientifiche sull’ereditarietà, diretto dal dott. Robert Ritter. Le conclusioni del dott. Ritter e della sua assistente Eva Justin segnarono il destino definitivo degli zingari: erano da considerarsi come un meticciato di diversi elementi razziali e pertanto pericolosi per la purezza del sangue tedesco: dovevano quindi essere sterilizzati e/o deportati nei campi di concentramento.

Le prime deportazioni degli zingari ebbero luogo già nel 1936 nel “campo di lavoro” di Dachau, destinato agli “asociali”, categoria in cui erano inclusi, oltre agli zingari, i detenuti politici, gli omosessuali e i Testimoni di Geova. Il 1° luglio giunse un primo trasporto di 170 zingari, seguito da altri tre. Nello stesso anno per “ripulire” Berlino in occasione delle Olimpiadi i Sinti

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della zona furono rinchiusi nel campo di Marzahn, da cui dovevano uscire solo per essere deportati ad Auschwitz. Nel 1937 crescente fu il numero dei deportati a Sachsenhausen, Sachsenburg, Lichtenberg, Dachau e, dopo l’annessione dell’Austria, a Mauthausen.

Il 27 settembre 1939 fu decisa da Heydrich la “soluzione finale” per ebrei e zingari: la detenzione in campi di concentramento non doveva essere che la premessa della loro estinzione. Un primo passo fu la deportazione dei 30.000 zingari viventi in Germania nella Polonia occupata, il cosiddetto Governatorato generale, rinchiudendoli dapprima nei ghetti di Lodz, Varsavia, Siedle, Radom e Belsec e poi nei Lager di Treblinka, Majdanek, Sobibor. Il Liquidierungsbefehl (ordine di liquidazione) del maggio 1941 dispose “l’uccisione di tutti gli indesiderabili dal punto di vista razziale e politico in quanto pericolosi per la sicurezza”, indicando quattro categorie principali: funzionari comunisti, asiatici inferiori, ebrei e zingari. Infine lo Auschwitzerlass (decreto di Auschwitz) del 16 dicembre 1942 dispose l’internamento di tutti gli zingari anche dai territori occupati. Nel febbraio 1943 fu predisposto ad Auschwitz-Birkenau il cosiddetto “campo per famiglie zingare” nel settore II E con 32 baracche, dove furono accolti in condizioni spaventose, come attestato dallo stesso comandante del campo Rudolf Hoess, i 20.946 Zingari regolarmente registrati. Nella notte del 2 agosto 1944 gli ultimi 2.897 sopravvissuti furono passati nelle camere a gas. Ma altri già li avevano preceduti: si sa di trasporti interi uccisi al loro arrivo per sospetto di epidemie. E molti altri trovarono la morte negli altri Lager: Flossenburg, Ravensbrück, Buchenwald, Bergen Belsen, Majdanek, Sobibor, Kulmhof…

L’Austria non aveva atteso queste disposizioni, ma fin dal 1939 aveva creato dei Lager appositi per gli zingari austriaci a Salisburgo e a Lackenbach, mentre quelli stranieri venivano detenuti a Mauthausen. In seguito molti furono avviati nei campi di sterminio. Dei 16.493 cittadini austriaci morti nei campi di concentramento, 4.097 erano ebrei e circa 6.000 zingari. Nel solo campo di Auschwitz fra il 31 marzo 1943 e il 22 gennaio 1944 furono internati 3.923 zingari austriaci, di cui il 42% era costituito da bambini.

Solo gli zingari polacchi non venivano deportati; temendo che potessero evadere, venivano massacrati sul posto: bambini scaraventati contro gli alberi per sfracellarne il cranio o gettati in aria per infilzarli con le baionette, donne incinte sventrate, altre con i seni recisi, fucilazioni in massa con sepoltura in fosse comuni anche dei feriti. Analoga sorte ebbero gli zingari nei territori occupati all’Est ad opera non solo delle SS, ma anche della Wehrmacht. In Boemia e in Moravia la popolazione zingara fu quasi completamente sterminata. In Ukraina la stessa polizia locale si fece parte attiva nell’individuare gli zingari e ucciderli. Del resto gli ukraini si distinsero anche per la loro ferocia come Kapo nei campi di sterminio. Nelle Repubbliche Baltiche la persecuzione ebbe inizio il 5 dicembre 1941 per ordine del comandate della Sicherheitspolizei Lohse: agli zingari, in quanti inaffidabili e propagatori di epidemie, doveva essere riservato lo stesso trattamento che agli ebrei. Singolare la testimonianza del vescovo di Riga, Mons. Springovics, il quale in una lettera diretta al papa Pio XII del 12 dicembre 1942 raccontava come i lettoni avessero accolto i tedeschi come liberatori dal dominio sovietico, ma ben presto avessero dovuto ricredersi: “L’atrocità della dottrina nazista si è mostrata in Lettonia in tutta la sua durezza e abominazione”. Sterminati “in modo crudelissimo” ebrei, zingari e malati mentali.

In generale nei territori sovietici occupati agivano le Einsatzgruppen (gruppi di assalto), unità adibite alla repressione. Particolarmente dura l’azione condotta in Crimea, dove gli zingari erano molto numerosi. Fra il 16 novembre e il 15 dicembre 1941 ne furono massacrati 824. Il quartiere zingaro di Sinferopol fu minato e fatto saltare in aria. Secondo una testimonianza, al processo di Norimberga “la pila dei cadaveri superava i bordi delle fosse e rimase così a lungo allo scoperto”.

In Slovacchia, Stato satellite del Reich, in un primo tempo solo gli uomini furono inglobati in squadre speciali di lavoro forzato. Quando la lotta partigiana si fece più forte e organizzata, gli zingari furono sospettati di connivenza e le “Guardie di Hlinka”, i fascisti slovacchi, compirono massacri orrendi, sterminando intere famiglie, spesso chiudendole nelle loro capanne per bruciare vivi bambini, donne, anziani.

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In Romania si ebbe la deportazione di quanti abitavano nei dintorni di Bucarest nella Transnistria, il territorio compreso fra il Dniester e il Bug, una terra bruciata dalla guerra dove, privati di ogni loro bene compresi i cavalli e i carrozzoni, perirono praticamente di fame. In Ungheria le “Croci stellate”, i miliziani fascisti, si fecero parte attiva nella deportazione degli zingari nei Lager polacchi. Invece in Bulgaria, pur occupata da truppe tedesche, il primo ministro Dimitar Pečev si oppose decisamente all’emanazione di leggi razziste e costrinse il re Boris a ritirare il decreto che già aveva firmato sotto la pressione degli occupanti.

Anche nei paesi occidentali ci furono gravi persecuzioni, soprattutto in Francia, dove già nel 1940, cioè prima dell’occupazione tedesca, il governo aveva creato numerosi campi di concentramento, vere e proprie anticamere di Auschwitz. Nell’agosto di quello stesso anno ne esistevano ventisei nel Sud e sedici nel Nord della Francia.

Dal Belgio si ebbe un solo trasporto, il convoglio Z del 1944, con cui furono deportati ad Auschwitz 351 Zingari e solo cinque tornarono indietro.

Nella Jugoslavia occupata il governatore tedesco Thurner poteva dichiarare nel 1942 che quello era l’unico paese dove si era riusciti a risolvere totalmente la questione ebrea e quella zingara. Nel dopoguerra la Commissione di Stato della Repubblica Federale e Popolare della Jugoslavia faceva ammontare a 600.000 le vittime e aveva individuato 289 fosse comuni. Da Belgrado fu deportato a Dachau anche il vescovo ortodosso Nikolaj Velimirović, l’unico vescovo rinchiuso nei Lager nazisti, a motivo che era zingaro. La Chiesa serba ortodossa lo ha dichiarato santo nel 1984. Ma forse il paese dove ci furono gli stermini più atroci fu la Croazia, proclamata Stato indipendente il 10 aprile 1941 sotto la guida di Ante Pavelić, capo degli ustaša, i fascisti croati. Subito il ministro dell’interno Andrja Artukovic proclamò lo sterminio degli avversari politici, degli ebrei, degli zingari e dei serbi, creando ben 71 campi di concentramento. La documentazione fu distrutta alla fine della guerra e ora si stanno faticosamente ricostruendo gli elenchi dei deportati. Fra gli zingari le vittime accertate fino al 1998 sono 2.406, di cui 840 bambini. Il campo più terribile era quello di Jasenovac, dove si uccidevano le persone con metodi barbari. Né mancarono campi destinati ai bambini, come quello di “rieducazione” a Jastrebarsko, dove fra l’aprile 1941 e il giugno 1942 morirono 3.336 bambini di varie etnie di età fra gli uno e i quattordici anni a causa degli stenti, ma anche degli “esperimenti medici” finiti poi con una pugnalata al cuore o una mazzata in testa. Nel campo per le donne di Stara Gradiska perirono oltre trecento bambini zingari. Direttrice del campo era Nada Luburic, moglie di Dinko Sakic, comandante del campo di Jasenovac. Alla fine della guerra i due si rifugiarono in Argentina per sfuggire al mandato di cattura emanato contro di loro nel 1945 dalla Commissione per i crimini di guerra. Solo nell’autunno 1998 sono stati estradati a Zagabria e sottoposti a processo. Nada Luburic è stata assolta, perché sarebbero mancati i testimoni. Dinko Sakic è stato riconosciuto colpevole delle torture e della morte di oltre 2.000 detenuti serbi, ebrei, zingari e antifascisti croati e condannato a vent’anni di reclusione.

In Italia non ci furono provvedimenti razziali contro gli zingari. Le leggi razziali, emanate nel 1938, riguardavano solo gli ebrei e i mulatti, cioè i figli degli italiani in Africa, dove vigeva il costume del madamato, cioè di avere una concubina africana. Ai loro figli fu negato il diritto alla cittadinanza italiana.

Verso gli zingari furono introdotte invece misure speciali di polizia a cominciare dal 1938, quando le famiglie nomadi, che vivevano lungo i confini orientali, furono deportate in Sardegna e in Basilicata, dove però furono lasciate libere a patto che non abbandonassero quelle regioni.

Dopo l’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940 una circolare del Ministero dell’Interno ordinava ai Prefetti di predisporre il concentramento degli zingari nomadi in appositi campi. L’ordine fu eseguito solo parzialmente per l’opposizione dei Comuni di accoglierli sul loro territorio; ma anche là dove esistevano, la sorveglianza era minima. Per i Rom stranieri furono creati due appositi campi a Tossiccia sul Gran Sasso in provincia di Teramo e ad Agnone in provincia di Isernia. Vi furono rinchiuse le famiglie dei Rom della Slovenia, divenuta provincia italiana. Ad esse si aggiunsero molti altri, che si consegnavano spontaneamente ai soldati italiani

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per sfuggire ai massacri degli ustaša. I due campi durarono fino all’8 settembre 1943, quando i carabinieri, che li avevano in custodia, si rifiutarono di consegnarli ai tedeschi e li lasciarono liberi di fuggire. Molti si rifugiarono in montagna ed alcuni si aggregarono ai partigiani. Si ha notizia di singole persone rinchiuse in altri campi, come per esempio a Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza, il più grande campo di concentramento italiano.

Quando è finita la guerra, abbiamo detto “mai più”, invece purtroppo oggi dobbiamo dire “ancora”. Le guerre intestine scoppiate nella ex Jugoslavia e i conseguenti programmi di “pulizia etnica” hanno visto in primo luogo tra le vittime i Rom delle Krajne, della Bosnia, della Erzegovina e del Kosovo. Sono continui gli episodi di violenza, dovuti soprattutto a gruppi neonazisti in Slovacchia, in Repubblica Ceca, in Romania, in Bulgaria (villaggi bruciati, gente picchiata a morte o scaraventata dalle finestre o annegata nei fiumi) tanto che l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) ha istituito un apposito ufficio a Varsavia per la tutela dei Rom e il Consiglio d’Europa ha approvato nel maggio 1997 un documento che condanna il razzismo contro gli zingari.

Le persecuzioni e la crisi economica del paesi dell’est ha provocato un forte esodo verso l’occidente, dove questo flusso di profughi non è stato certo accolto benevolmente. Anche l’Italia non è immune da episodi di violenza. La cronaca riporta episodi di fucilate contro gli accampamenti o di mine poste al loro ingresso, di tentativi di bruciare le roulottes, di giocattoli esplosivi regalati ai bambini. E che dire dello stillicidio di morti bianche dei bambini che muoiono di freddo o bruciati vivi nelle fatiscenti baracche, in cui le famiglie vivono spesso ammassate nei cosiddetti campi nomadi (per loro che non sono nomadi) in condizioni indegne di un essere umano, campi che sono valsi per l’Italia il 18 marzo 1999 una dura condanna di razzismo da parte del Comitato per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali (CERD) dell’ONU.

Per la giornata del ricordo del 27 gennaio 1999 l’Associazione Presencia gitana di Madrid ha lanciato un manifesto con una ruota spezzata su uno sfondo di camini dei forni crematori e la scritta “ma bister” (in lingua zingara “non dimenticare”). Credo che questo monito dovrebbe essere sempre tenuto vivo proprio per non veder ripetersi gli orrori del passato. BIBLIOGRAFIA Nella Collana europea “Interface”: AA.VV., Gli Zingari nella Seconda guerra mondiale. 1 - Dalla “ricerca razziale” ai campi nazisti. Libreria Anicia – Via San Francesco a Ripa, 62 – 00153 Roma AA.VV., The Gypsies during the Second World War. 2 – In the shadow of the Swastika University of Hertfordshire Press – College Lane – Hatfield – Hertfordshire

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NAZIFASCISMO E OMOSESSUALITÀ

di Gianfranco Goretti

Cercherò di rimanere nei tempi previsti, anche se dovrò tagliare informazioni, visto tutto ciò che dovrei e vorrei raccontarvi.

Il mio tentativo è di darvi soprattutto dei dati, di raccontarvi dei fatti innanzi tutto in relazione alla persecuzione nazista degli omosessuali, per passare poi a vedere cosa è successo in Italia - argomento che immagino vi interessi particolarmente, in quanto storia di quello che è successo qui, nel nostro paese. Questo materiale relativo al fascismo è in gran parte inedito, essendo stato trattato soltanto in alcuni articoli miei e di Giovanni Dall'Orto. Non è ancora stata pubblicata una trattazione organica sulla repressione degli omosessuali durante il periodo fascista in Italia.

Prima di iniziare, però, visto che siete un bel pubblico di insegnanti, vorrei darvi dei compiti: vi chiedo di porvi, quando tornerete a casa, due domande. La prima domanda è: “Chi è una persona omosessuale, chi è un omosessuale?”. E la “definizione” che esce fuori, la risposta che darete, può funzionare per tutte le epoche storiche? La seconda domanda è: “Perché le persone omosessuali sono vittime delle persecuzioni, insieme ad altre categorie, durante questo periodo? Perché sono vittime insieme ai disabili, perché sono vittime insieme agli ebrei, agli zingari....?”

Apro una parentesi: in questo convegno non c'è nessuno che parlerà dello sterminio delle persone disabili. Io sono insegnante di sostegno, lavoro nella scuola come insegnante delle classi in cui sono inseriti studenti in difficoltà di apprendimento e, anche in virtù di questo, vorrei ricordare che il primo grande sterminio nella Germania nazista inizia nei manicomi psichiatrici, con l'uccisione di 70.000 adulti e bambini disabili gasati e bruciati, sperimentando, tra l'altro, un metodo che sarà poi studiato, perfezionato e utilizzato nei campi di sterminio.

Mi interessa che torni alla memoria anche questo. Torniamo a noi. Rispetto alla prima domanda del compito a casa - “Chi è un omosessuale?”

- non vi do nessun aiuto: vorrei che cercaste in voi, nelle vostre conoscenze la risposta. Vorrei che ripensaste alla storia - del corpo, della sessualità, dell'amore, degli affetti, ma anche alla storia sociale in genere - e trovaste da soli una definizione. Poi, come dicevo, vi chiedo che questa definizione da voi trovata sia applicabile a tutte le epoche storiche. Io però spero che voi scopriate che non lo è. Mi interessa cioè che si esca dall'idea che la persona omosessuale sia “catalogabile”, “spiegabile” semplicemente in base a una sua astorica omosessualità. La categorizzazione è chiudere la persona in un pregiudizio: e questo è il fondamento della persecuzione nazista. La persona omosessuale vive nella sua epoca storica insieme a tutti gli altri individui: io e voi condividiamo la stessa idea di corpo (pur con sfumature individuali), di affettività, di amore. Per far arrivare un messaggio chiaro di condanna degli eventi che stiamo trattando, bisogna che prima in noi cadano i pregiudizi: solo in questa maniera i messaggi potranno arrivare chiari e non ambigui.

Per la seconda domanda, vi fornisco un aiuto. Vi chiedo di leggere Sessualità e nazionalismo di George L. Mosse, storico tedesco fuggito nel '38 dalla Germania negli Stati Uniti.

E' un testo che applica alla storia d'Europa dalla fine dell'Ottocento al nazismo un approccio storico-culturale; tra l'altro, Mosse è ebreo e omosessuale. Il suo intento è di mostrare in che modo l'idea di rispettabilità borghese, il nascente nazionalismo, la teorizzazione degli stereotipi nazionali, il degenerazionismo, si incontrino e si incrocino. Segue l'evoluzione di tali idee, che diventeranno concrete nel pensiero nazista e porteranno poi, appunto, alle colonie di confino fascista e all'uccisione degli omosessuali nei lager nazisti.

Cominciamo a parlare della Germania nazista.

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I riferimenti antiomosessuali sono presenti in molti discorsi dei dirigenti del partito nazista, anche prima della presa del potere.

La Germania di Weimar viveva in quel periodo un momento di iniziale apertura alle istanze del movimento omosessuale. A Berlino operava un medico all'epoca molto noto, Magnus Hirschfeld, che nel 1899 aveva fondato un'associazione detta “Comitato scientifico umanitario”. Hirschfeld era un ebreo e un omosessuale di sinistra e lavorava a studi sull'origine dell'omosessualità e sulla sessualità in genere. Creò in seguito anche un “Istituto per le scienze sessuali” con sede a Berlino. Questa fu un'esperienza di grande visibilità e di lotta politica per l'emancipazione delle persone omosessuali, forse la più importante non solo per la Germania ma anche per l'Europa intera. La nascita e il lavoro dell'Istituto furono possibili nonostante fosse in vigore in Germania una legge antiomosessuale, il “paragrafo 175”, contro la quale l'Istituto di Hirschfeld si batteva. Anche altri stati, come l'Inghilterra, avevano leggi antiomosessuali. Brevemente va ricordato che il Codice napoleonico aveva di fatto depenalizzato l'omosessualità in tutte le province dell'Impero. Con la Restaurazione, pochi stati avevano poi restaurato nei rispettivi codici nazionali una legislazione antiomosessuale. Essa sopravvisse però nell'articolo 143 del codice prussiano, che con l'unificazione tedesca del 1870 venne esteso a tutto il Reich. Nasceva così il paragrafo 175, che prevedeva il carcere per i maschi sorpresi a commettere atti omosessuali.

L'Istituto per la scienze sessuali lavorò tra l'altro a promuovere una petizione che chiedeva l'abrogazione dell'articolo. La petizione - sottoscritta a livello internazionale, anche da figure come Einstein, Hesse, Tolstoj, Zola, e sostenuta con forza da uno dei maggiori esponenti del partito socialdemocratico tedesco, August Bebel - arrivò al Reichstag nel 1922, e nel 1929 la Commissione penale del Parlamento espresse parere favorevole all'abrogazione.

All'indomani della nomina di Hitler a cancelliere, il primo episodio eclatante, il primo “segnale” dei tempi a venire, è proprio l'assalto all'Istituto per le scienze sessuali. Distruzione della biblioteca; distruzione dei lavori di ricerca; distruzione di tutto il materiale d'archivio; fuga di Hirschfeld dalla Germania (morirà a Parigi nel 1935), e inizio di fatto della campagna antiomosessuale. Va ricordato che il paragrafo 175 aveva avuto scarsa applicazione nella Germania di Weimar: ora invece cominciano gli arresti massicci e le condanne al carcere. La più massiccia ondata repressiva partirà però nel giugno del 1934, in coincidenza con la liquidazione, probabilmente per motivi politici, dell'ala “sinistra” del partito nazista: saranno assassinati tutti i dirigenti delle SA, compreso Röhm, notoriamente omosessuale. Questo eccidio sarà direttamente rivendicato da Hitler, dal governo, in quanto necessario per “ripulire” la Nazione tedesca dalla piaga omosessuale. Nel 1935 viene modificato, e inasprito, l'articolo 175. Nel 1936 Himmler crea (entro la Gestapo) l'“Ufficio speciale 2S”, organo centrale del Reich per la lotta contro l'aborto e l'omosessualità. Il numero di arresti in questi anni aumenta vertiginosamente, con punte massime nel periodo 1936-39. Alcuni degli arrestati verranno in seguito inviati nei campi di concentramento di Sachsenhausen, Mauthausen, Buchenwald e Dachau.

E' estremamente difficile fare una stima esatta dei deportati per omosessualità: alcuni parlano di decine di migliaia, altri di un milione di persone. Io mi atterrò ai risultati di una ricerca svolta in Germania dal prof. Lautmann, che ha potuto vedere e consultare il materiale di archivio delle vittime naziste, contenuto nell'International Tracing Service di Arolsen (Hessen, Germania). Si tratta di materiale frammentario, come tutto quello che riguarda la documentazione dei campi nazisti; in più i conteggi degli arrivi non sempre venivano fatti con regolarità. Va aggiunto che la ricostruzione della storia degli omosessuali è ulteriormente complicata sia dal fatto che al momento della liberazione alcuni dei deportati continuarono a scontare la pena in carcere (visto che erano stati condannati per la violazione di un articolo del codice penale, appunto il paragrafo 175), sia - soprattutto - dalla difficoltà di reperire testimoni diretti della deportazione (visto che l'articolo 175 rimase in vigore nella Germania occidentale fino al 1967). Testimoniare dopo la liberazione dai campi o all'uscita dalla prigione significava anche autodenunciarsi. Si capirà inoltre che fu impossibile per le persone omosessuali, a differenza delle altre vittime del nazismo, chiedere risarcimenti per le pene subite dai nazisti, come previsto dalla legge tedesca: i pochi che provarono

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ebbero come risposta che la loro condanna e l'internamento erano avvenuti in base ad una legge in vigore già prima del 1933, e quindi loro non potevano essere considerati vittime del nazismo.

Dai dati trovati e dalle poche testimonianze raccolte, Lautmann ha costruito stime statistiche, e ritiene realistico parlare di circa centomila arresti, cinquantamila condanne, al massimo trentamila deportati e quindicimila vittime nei campi.

Per le dure condizioni di vita comuni a tutti i deportati - il lavoro, la scarsezza di cibo, ecc. - ma soprattutto perché triangoli rosa (questo era il simbolo che dovevano portare i deportati omosessuali), gli internati omosessuali nei campi di concentramento affrontavano una possibilità di morte che secondo Lautmann varia dal 60 al 90%. La vita nei campi era dura per tutti, lo sappiamo, non lo ricorderemo qui; ma in genere le testimonianze sono concordi nell'affermare che le persone omosessuali erano vittime del pregiudizio razzista anche all'interno dei campi, e in alcuni periodi vissero anche in cameroni separati dagli altri. Come tutti subirono violenze, come tutti subirono sperimentazioni.

Ne voglio ricordare soltanto una, avvenuta nel campo di Buchenwald. Siamo alla fine degli anni Trenta e un medico danese, il dottor Karl Vernaet, ottiene il permesso di avviare una sperimentazione sulle persone omosessuali. Si tratta di inserire nell'addome una ghiandola artificiale che rilascia ormoni maschili. L'esperimento viene ripetuto più volte su diversi soggetti: fallisce per la morte dei soggetti stessi, e viene abbandonato. L'idea era di “correggere” l'omosessualità attraverso la cura con ormoni maschili.

Per quanto riguarda l'Italia bisogna dire che neanche qui è stato agevole ricostruire la storia

della repressione dell'omosessualità durante il fascismo. E' una storia ambigua, che presenta molte contraddizioni, nonché difficoltà di lettura e di interpretazione delle fonti archivistiche. E' una storia che comunque è stata in parte ricostruita, soprattutto in base ai documenti di archivio raccolti nell'Archivio Centrale di Stato.

Nel progetto preliminare del nuovo Codice penale del 1927, quello che sarà nel 1931 il Codice Rocco, si prevede l'inserimento di un articolo antiomosessuale. L'articolo presente nel progetto viene però cassato, e non compare dunque nel nuovo Codice. Nella motivazione della esclusione dell'articolo si rimanda - in caso di necessità di intervento energico - ai sistemi di repressione contenuti nel Testo unico di Pubblica sicurezza: il confino, l'ammonizione, la diffida. Questi strumenti saranno di fatto utilizzati, soprattutto a partire dal 1938. Quante le persone coinvolte? Siamo sicuri di trecento casi di confino per omosessualità dal 1938 al 1943; potrebbero essere di più. Non conosciamo il numero dei casi di diffida e ammonizione. In alcune sentenze complete che ho trovato, il numero delle persone ammonite e diffidate era in genere maggiore dei confinati. Le province coinvolte in questa ondata repressiva iniziata nel 1938 sono circa 59 su 90.

Ma cominciamo con il vedere quello che succede all'art. 528 del progetto di codice penale. Inserito nel Titolo VIII, “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”, così

recitava: “Relazioni omosessuali. Chiunque (...) compie atti di libidine su persona dello stesso sesso, è punito, se dal fatto derivi pubblico scandalo, con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è della reclusione da uno a cinque anni: 1) se il colpevole, essendo maggiore degli anni ventuno, commetta il fatto su persona di anni diciotto; 2) se il fatto sia commesso abitualmente o a fine di lucro.”1

Questo articolo riscosse molto successo. I giudizi dei magistrati, dei professori universitari dell'Azione cattolica, erano stati favorevoli al mantenimento dell'articolo nel codice. Poche in realtà le critiche. Ma nella discussione finale della commissione incaricata, l'articolo viene cassato. E' interessante la motivazione che la commissione dà per il non inserimento dell'articolo 528 : “La commissione ne propose ad unanimità, senza alcuna esitazione, la soppressione per questi due

1 Progetto di un nuovo codice penale, Tipografia delle Mantellate, Roma 1927, pag. 206. La discussione intorno al progetto del nuovo codice penale è al centro di una accurata tesi di laurea in Storia contemporanea di Carola Susani, il cui titolo è "Il dibattito sull'omosessualità nel tardo Positivismo italiano", discussa a Roma presso l'Università degli studi "La Sapienza" il 23 novembre 1991.

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fondamentali riflessi: a) La previsione di questo reato non e’ affatto necessaria, perché, per fortuna ed orgoglio dell'Italia, il vizio abominevole che vi darebbe vita, non è così diffuso tra noi, da giustificare l'intervento del legislatore. b) Nei congrui casi, può ricorrere l’applicazione delle più severe sanzioni relative ai delitti di violenza carnale, corruzioni di minorenni e offesa al pudore.

E’ noto che per gli abituali e i professionisti del vizio, per verità assai rari, e di importazione o di sfruttamento straniero, la polizia provvede fin d'ora, con assai maggiore efficacia, con l’applicazione immediata delle sue misure di sicurezza, anche detentive.”1

A parte la retorica nazionalista sulla purezza morale degli italiani, il retroterra di questa motivazione è in realtà indicativo di una ben precisa scelta politica. Qualcosa di simile si era già verificato in Italia con la discussione del primo Codice penale dell'Italia unita (noto come Codice Zanardelli): un articolo analogo era stato prima inserito nel progetto di Codice e poi cassato. L'esclusione era stata motivata da una parte con l'opportunità che il legislatore non invadesse il campo della morale, e dall'altra con l'idea che tacere sui “delitti di libidine contro natura” fosse più utile nella lotta per la repressione del vizio stesso, in quanto il silenzio non permetteva la conoscenza dell'omosessualità.

L'esperienza dei paesi europei nei quali vigeva un articolo antiomosessuale era già, e sarebbe rimasta, sotto gli occhi di tutti: Oscar Wilde in Inghilterra, e Hirschfeld in Germania, solo per citare i casi più eclatanti. L'Italia scelse, dapprima col codice Zanardelli e poi con il codice Rocco, la strada della negazione della differenza, del massimo silenzio possibile. Giovanni Dall'Orto, in un suo saggio, parla di “tolleranza repressiva”: non si parli dell'omosessualità, per far sì che intorno alla persona omosessuale si creino solitudine, isolamento e nessun sentimento di solidarietà. Strategia che ha ridotto (e in parte questo è visibile ancora oggi) gli omosessuali italiani al parziale silenzio.

Ma in epoca fascista, come dicevamo, si intervenne anche in maniera diretta. Non solo con il silenzio, ma se occorreva anche con la repressione attiva attraverso l'applicazione delle sanzioni amministrative previste dal Testo unico di polizia del 1926 e del 1931. Il confino, come la diffida e l'ammonizione, venivano assegnati su proposta del questore da una Commissione provinciale presieduta dal prefetto. I motivi delle assegnazioni erano contemplati dagli articoli 164-189 del Testo unico, ma erano piuttosto vaghi e grazie a questa vaghezza fu possibile utilizzare tali strumenti non solo per i delinquenti abituali usciti assolti da processi per insufficienza di prove, o per gli “oziosi e vagabondi”, ma anche come strumento di repressione delle opposizioni politiche e, appunto, per la repressione della “pederastia” (questo in genere il termine che ho trovato nei documenti relativi ai confinati). Gli articoli del Testo unico non menzionano affatto la distinzione tra confino politico e comune, ma di fatto i due diversi istituti nascono e sono competenza di due diverse sezioni del Ministero degli interni. Esistono quindi nell'Archivio Centrale di Stato due differenti fondi, uno contenente i fascicoli dei confinati politici, l'altro che raccoglie i fascicoli dei confinati comuni: sappiamo che i materiali di archivio non possono essere consultati se non a distanza di settanta anni dai fatti, ma l'ANPPIA (Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti) ha ottenuto il permesso, per ricostruire la storia della repressione politica durante il fascismo, di consultare il materiale relativo ai confinati comuni. Grazie all'ANPPIA siamo riusciti a consultare almeno i fascicoli degli omosessuali confinati come politici. L'amministrazione centrale infatti presentò ambiguità nel classificare i pederasti arrestati: alcuni furono spediti nelle colonie come confinati politici, altri (la maggioranza) come comuni.

Nel fondo dei politici sono state trovate circa 90 fascicoli personali di persone confinate per omosessualità: di queste 10 vengono confinate prima del 1938, e il motivo per cui si muove la questura è legato a fatti diciamo così “collaterali” all'omosessualità (denunce di terzi legate a casi di ricatto, truffe, sacerdoti denunciati dalla popolazione, e così via). Fra questi si trova l'unico caso (in assoluto) di arresto per lesbismo; riguarda una donna denunciata appunto dal marito di una sua amica, in una difficile causa di separazione. L'omosessualità maschile è la più colpita (non solo in 1 Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Tipografia delle Mantellate, Roma 1928/1929, vol. IV, parte IV, pag. 377.

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Italia). Gli arresti aumentano a partire dal 1938: solo a Catania da gennaio a maggio del 1939 vengono confinati 44 uomini. Il documento che segue è del questore di Catania: si tratta di una serie di considerazioni che precedevano il profilo di ciascun candidato al confino per pederastia. Propongo questo testo perché è indicativo del nuovo clima che si respira in Italia. Siamo nel 1939, le leggi razziali sono entrate in vigore nell'ottobre del '38.

“Oggetto: proposta per il confino di polizia a carico di ...... La piaga della pederastia in questo capoluogo tende ad aggravarsi e generalizzarsi perché

giovani, finora insospettati, ora risultano presi da tale forma di degenerazione sessuale sia passiva che attiva che molto spesso procura loro anche mali venerei. In passato molto raramente si notava che un pederasta frequentasse caffè e sale da ballo o andasse in giro per le vie più affollate; più raro ancora che lo accompagnassero pubblicamente giovani amanti e avventori. Il pederasta ed il suo ammiratore preferivano allora le vie solitarie per sottrarsi ai frizzi ed ai commenti salaci; erano in ogni caso generalmente disprezzati non solo dai più timidi, ma anche da quelli che passavano per audaci e senza scrupoli, ma che in fondo erano di sana moralità. Oggi si nota che anche molto spontanee e naturali ripugnanze sono superate e si deve constatare con tristezza che vari caffè, sale da ballo, ritrovi balneari o di montagna, secondo le epoche accolgono tali ammalati, e che giovani di tutte le classi sociali ricercano pubblicamente la loro compagnia e preferiscono i loro amori snervandosi e abbrutendosi. Questo dilagare di degenerazione in questa Città ha richiamato l’attenzione della locale questura che è intervenuta a stroncare o per lo meno ad arginare tale grave aberrazione sessuale che offende la morale e che è esiziale alla sanità e al miglioramento della razza, ma purtroppo i mezzi adoperati si sono mostrati insufficienti.

I fermi per misure, le visite sanitarie, la maggiore sorveglianza esercitata negli esercizi pubblici e nelle pubbliche vie, non rispondono più alla bisogna. Perché infatti i pederasti fatti più cauti per eludere la vigilanza della Pubblica Sicurezza ricorrono ad una infinità di ripieghi.

I più abbienti mettono su quartini con gusto civettuolo ed invitante, ricorrono ai più disparati espedienti non escluso il furto, per procurarsi i mezzi e mettere anch’essi una casa ospitale. Tutti poi per vanità, per piccole gelosie, menano vanto delle conquiste fatte che tentano mantenere a prezzo di qualsiasi sacrificio.

I giovani dall’altro (quando non espressamente invitati) sono sospinti in quelle case, alcuni dalla curiosità, altri dall’insidioso desiderio di fumarvi gratuitamente una sigaretta, e tutti, dopo aver visto, hanno voluto poi provare sicché vi sono sempre ritornati.

E’ tale presa di contatto, anche quando non sfugge alla polizia, che non può in ogni caso essere impedita, pur prevedendosene gli sviluppi e le ultime conseguenze.

Ritengo pertanto indispensabile, nell’interesse del buon costume e della sanità della razza, intervenire con provvedimenti più energici, perché il male venga aggredito e cauterizzato nei suoi focolai. A ciò soccorre, nel silenzio della legge, il provvedimento del Confino di polizia da adottarsi nei confronti dei più ostinati fra cui segnalo l’individuo in oggetto segnato....”

Lo stesso stile e tono, sicuramente con minore fantasia e con minore ricchezza di particolari

relativi alla vita dei pederasti (il questore di Catania sembra essere un profondo conoscitore della vita omosessuale catanese), si ha nei rapporti dei questori di Salerno, Palermo e Sondrio (che complessivamente inviano al confino 8 persone).

Il riferimento alla mutata politica razziale sembra essere la chiave per la comprensione del fenomeno in questione, la motivazione a rafforzare la repressione delle persone omosessuali.

Altri arresti, con conseguente sanzione di confino politico, li avremo a Firenze, a Vercelli e in altre città italiane. Questi confinati sconteranno la pena (da 2 a 5 anni di residenza obbligatoria, in genere in un'isola) a S. Domino delle Tremiti: per loro nel giugno del 1940, a guerra iniziata, il confino sarà commutato in ammonizione, perché le camerate erano necessarie per alloggiare nuovi confinati politici.

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La vita al confino è sicuramente leggera paragonata al campo di concentramento nazista. S. Domino è un'isola meravigliosa. I confinati erano soli e non facevano nulla. Il dramma che questi uomini hanno vissuto, oltre alla perdita della libertà personale, è essenzialmente legato all'arresto, all'aver subito la visita medica (all'ano, per “stabilire” se fossero pederasti o meno...), all'aver vissuto lo sradicamento e la vergogna davanti ai loro famigliari e concittadini. A distanza di quarant'anni ho rintracciato due dei catanesi arrestati: uno confinato, l'altro arrestato e rilasciato perché minorenne. Alcuni dei reduci dal confino si sposarono per ricostruirsi una vivibilità sociale a Catania. Non abbiamo tempo per approfondire l'argomento; ma la loro vita restò comunque profondamente segnata da questa esperienza.

Continuando a cercare documenti nell'Archivio Centrale di Stato, ho scoperto che nel 1943 sono ancora al confino per pederastia, a Ustica e Lampedusa, 192 persone classificate come confinati comuni. Non è possibile vedere i loro fascicoli personali (per i fascicoli dei comuni viene rigidamente rispettato il termine dei settanta anni dai fatti). Per poter ricostruire con esattezza la loro storia dovremmo aspettare almeno fino al 2013.... Sappiamo che arrivavano da 50 province italiane, segno, come dicevo prima, che la repressione coinvolse la maggior parte del paese: fra le città con il maggior numero di arresti abbiamo Roma, Vercelli, Venezia, Verona, Napoli, e ancora Catania e Palermo.

A parte il nuovo clima razzista che ci spiega il numero di arresti, devo dire che a tutt'oggi non ho trovato direttive che autorizzino a livello centrale l'ondata repressiva. Si trattò forse di iniziative dei questori e dei prefetti, sicuramente non ostacolate a livello centrale (il Ministero stabiliva le destinazioni di confino), anzi considerate logiche in quanto rientravano nella retorica della lotta per “la purezza e la sanità della razza”.

Concludo raccontandovi un piccolo episodio. Ho partecipato un anno fa ad un convegno sul

tema “Omosessualità e nazifascismo”, organizzato da un circolo gay di Verona. Alla fine dei lavori una persona, che si è dichiarata “gay di destra”, mi ha detto che era rimasto sorpreso dal tono partecipativo, enfatico (non so se ha usato esattamente questi due aggettivi, ma il senso era quello) con cui io parlavo della repressione degli omosessuali durante il fascismo: sembrava, continuava, che il fascismo avesse commesso chissà quali crimini, in realtà solo un po' di isola a 300-400 persone... Io mi sono molto arrabbiato.

Non credo che il grado di repressione e il razzismo vadano misurati in base alla quantità di sangue versato dalle vittime. Quello che è successo in Germania è stato atroce. In Italia abbiamo avuto, per la nostra storia e cultura, un altro fenomeno repressivo. A quanto ne sappiamo, per fortuna, nessuno è stato ucciso. Io sono “partecipativo” ed “enfatico” non solo perché questa è una storia che mi riguarda (e non solo in quanto gay), ma perché ritengo che ogni violenza - qualsiasi numero di persone coinvolga (anche una sola) e con qualsiasi mezzo essa si attui - e ogni restrizione della libertà personale compiuta da un sistema statale vadano condannate, sia a livello morale che a livello storico.

Spero che tutto questo lo raccontiate ai vostri alunni.

BIBLIOGRAFIA AA. VV., Le parole e la storia. Ricerche su omosessualità e cultura, a cura di Enrico Venturelli, “Quaderni di critica omosessuale” n. 9, Bologna, Centro di documentazione Il Cassero, 1991; in particolare i saggi di Carola Susani, “Una critica della norma nell'Italia del fascismo”, e Gianfranco Goretti, “Catania, 1939”. Massimo Consoli, Homocaust. Il nazismo e la persecuzione degli omosessuali, Milano, Kaos, 1991. John Lauritsen, David Thorstad, Per una storia del movimento dei diritti omosessuali (1864-1935), Roma, Savelli, 1979. George L. Mosse, Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Roma-Bari, Laterza, 1984

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Martin Sherman, Bent. Nazismo, fascismo e omosessualità, con una presentazione di Guido Davico Bonino, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1984; in appendice i saggi “Gli omosessuali nei campi di concentramento nazisti” di Rüdiger Lautmann e “Le ragioni di una persecuzione” di Giovanni Dall'Orto (su omosessualità e fascismo). Insieme a questi contributi va segnalato anche il bel film di Ettore Scola, “Una giornata particolare”, con Marcello Mastroianni e Sofia Loren (1977). Segnalo inoltre gli atti del convegno “Le ragioni di un silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazifascismo”, tenutosi a Verona il 16 ottobre 1999. Il materiale, in via di pubblicazione, è disponibile presso il Circolo Pink (Centro di Iniziativa e Cultura Gay e Lesbica a Verona), via Scrimiari 7, 37129 Verona, tel. 045-8065911, 0348-2634126.

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LA PERSECUZIONE NAZISTA DEI TESTIMONI DI GEOVA

di Maurizio Papini (Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova)

È stato opportunamente detto che “non è mai troppo tardi per ricordare”, e per questo - an-che se oltre mezzo secolo ci separa dai fatti - la vicenda dell'internamento nei campi di concen-tramento e di sterminio è ancora di attualità. La cosiddetta “burocrazia dello sterminio nazista” ha tentato di annullare l'esistenza di milioni di individui nei 13 anni forse più tragici della storia europeacontemporanea. Nel caso di 11 milioni di persone lo ha fatto letteralmente provocandone la morte fisica. Di tutti gli internati si è tentato comunque di annullare l'individualità e la dignità. Bambini e adulti hanno sofferto pene indicibili. La burocrazia dello sterminio non aveva a che fare tanto con esseri umani, quanto con categorie. E queste nei campi si distinguevano per i triangoli e le stelle di vari colori.

Così, com'è noto, la categoria degli ebrei aveva la stella gialla, quella dei politici un triango-lo rosso (con indicazione della nazione di provenienza), i delinquenti erano contrassegnati dal triangolo verde, gli omosessuali da quello rosa, i rom e i sinti (definiti zingari) da uno marrone e così via per un totale di 8-9 categorie, una delle quali era quella dei testimoni di Geova, rico-noscibili nei campi dal triangolo viola che indossavano.

Le categorie, a loro volta, rimandavano alle ragioni che giustificavano (sempre che le co-scienze naziste cercassero giustificazioni) dapprima il colpirle, quindi l'internamento e, infine, la soppressione o la “soluzione finale”. Per certe categorie le ragioni erano di ordine etnico: la distanza dallo pseudo-modello razziale ariano “giustificava” la repressione e l'internamento di categorie ritenute neppure appartenenti all'umanità, quali ebrei e zingari. Per altre categorie, le motivazioni dell'internamento erano di ordine ideologico, come nel caso dei politici. Per un'unica categoria, per meglio dire per un unico gruppo, tuttavia, le ragioni erano di ordine esclusivamente religioso.

Era proprio questo a rendere così peculiare la presenza di questa comunità relativamente piccola all'interno del sistema concentrazionario. Si trattava dei testimoni di Geova. Quando i nazisti salirono al potere nel 1933, i poco più di 20.000 Testimoni tedeschi furono immediatamente presi di mira quali nemici dello Stato per il loro rifiuto di sostenere l'ideologia nazista imperniata sull'odio. Quasi 10.000 Testimoni infine avrebbero sofferto nelle prigioni o nei campi nazisti, dove 2.000 di loro trovarono la morte.

Pur scrupolosi nell'osservare le leggi, i Testimoni non prendevano parte alle questioni poli-tiche e soprattutto alle guerre. Dal loro credo religioso discendeva una serie di comportamenti quotidiani che si scontravano con l'ideologia totalizzante del nazismo: il rifiuto di imbracciare le armi innanzitutto e di lavorare per l'industria bellica, il rifiuto di idolatrare il fuhrer (il saluto “Heil Hìtler”) o la svastica, il rifiuto di aderire al partito nazista, nonché l'imparzialità con cui diffondevano il messaggio evangelico non facendo distinzioni tra etnie, razze, ecc. Quella dei Testimoni fu la prima associazione religiosa ad essere proscritta nella Germania nazista già nella primavera del 1933, e tra i primi internati c'erano appunto i Testimoni, la cui presenza nei campi è documentabile almeno sin dal 1934. I comportamenti che scaturivano dal proprio credo religioso erano seguiti dai Testimoni con coerenza e scrupolo, come hanno messo in luce anche diversi studiosi. Wolfgang Sofsky, sociologo tedesco ha fatto notare: “Le SS attribuivano a questi detenuti [testimoni di Geova] un'influenza maggiore di quella che in realtà avevano. Per molti anni essi vennero perseguitati assai duramente a causa del loro coerente atteggiamento di resistenza passiva: per rompere la loro solidarietà si decise di sparpagliarli in blocchi diversi, ma poi si dovette fare marcia indietro quando ci si accorse del pericolo rappresentato dal loro attivismo “missionario” all'interno delle camerate [...] La resistenza passiva dei testimoni di Geova era rivolta soltanto

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contro quegli ordini che erano inconciliabili con le loro concezioni religiose”. Per uscire dai campi di concentramento o di prigione ai Testimoni internati sarebbe stato

sufficiente firmare una abiura (non a caso, uno strumento tipico della repressione religiosa). Era un foglio banale, in cui il detenuto sottoscriveva una dichiarazione che diceva in parte: “Ho lasciato completamente l'organizzazione [degli Studenti Biblici o Testimoni di Geova] e mi sono liberato nel modo più assoluto degli insegnamenti di questa setta. Con la presente assicuro che mai più prenderò parte all'attività [...] degli Studenti Biblici. Denuncerò immediatamente chiunque mi avvicini con l'insegnamento degli Studenti Biblici o riveli in qualche modo di farne parte. Consegnerò immediatamente al più vicino posto di polizia tutte le pubblicazioni degli Studenti Biblici che dovessero essere inviate al mio indirizzo. In futuro stimerò le leggi dello Stato, specie in caso di guerra difenderò, armi alla mano, la madrepatria e mi unirò in tutto e per tutto alla collettività”.

Accontentandosi di una semplice firma su un foglio di carta, i nazisti riconoscevano impli-citamente il rigore morale e la coerenza dei Testimoni. Sapevano di dover combattere con loro una battaglia per il dominio dello spirito. Se fossero riusciti a infrangere l'integrità e la coerenza del singolo Testimone inducendolo a firmare l'abiura, ne avrebbero fiaccato la spiritualità. Era una lotta di religione.

Prima ancora, la lotta era cominciata in tutta la Germania. Dal 1933 Bibbie e pubblicazioni bibliche vennero confiscate ai Testimoni e date alle fiamme. Singoli Testimoni furono picchiati e arrestati perché assistevano a riunioni di culto. Si moltiplicarono i licenziamenti di Testimoni che lavoravano nella pubblica amministrazione, nella scuola o in altri impieghi. I loro figli vennero espulsi da scuola. Centinaia di genitori si videro privati della potestà quando i figli furono avviati a centri di rieducazione nazista. Nel 1936 la Gestapo formò un'unità speciale per dare la caccia ai Testimoni che si ostinavano a sfidare il bando nazista e continuavano ad osservare clandestinamente i precetti della loro fede. Nel 1938 erano già circa 6.000 i Testimoni imprigionati o internati per la loro fede, con la loro riconoscibile uniforme completata dal triangolo viola. Molti di loro morirono di stenti, altri dopo essere stati torturati dalle SS che volevano i nominativi di loro confratelli e circa 300 Testimoni furono condannati da tribunali militari quali obiettori di coscienza e giustiziati.

La storia dei testimoni di Geova nella Germania nazista è dunque singolare per varie ragioni:

1. I Testimoni potevano scegliere: diversamente da altri prigionieri, ciascun Testimone avrebbe riottenuto la libertà semplicemente firmando un atto di abiura della propria fede religiosa.

2. I Testimoni furono l'unico gruppo religioso a prendere una posizione coerente contro il regime nazista. Per questo nei campi di concentramento erano l'unico gruppo religioso riconoscibile da uno specifico simbolo sull'uniforme, il triangolo viola.

3. I Testimoni, infine, denunciarono apertamente e sugli stampati che diffondevano la barbarie nazista, e per questo la Gestapo e le SS profusero un impegno spropositato nel vano tentativo di annientare questo gruppo relativamente piccolo.

Sono passati più di 50 anni dalla liberazione dei campi di concentramento. Non è mai troppo tardi per ricordare uomini e donne che, per ragioni religiose, erano entrati in quel mondo terrificante fin dal suo inizio. Molti di loro, come milioni di altri, persero tanto: averi, salute, ma soprattutto familiari, amici o la loro stessa vita. Come tanti altri, però, seppero conservare una propria dignità in mezzo a quegli orrori. E, soprattutto, non persero ciò a cui forse tenevano di più: la propria fede religiosa, per la quale tanto erano stati disposti a soffrire.

BIBLIOGRAFIA W.SOFSKY, L'ordine del terrore, Laterza, Bari-Roma, 1995. L.TRISTAN, S. GRAFFARD, I Bibelforscher e il nazismo (1933-1945), Editions Tirésias, Parigi, 1994. D. GARBE, Between Resistance and Martyrdom. The Jehovah's Witnesses during the Third Reich,

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Conferenza, Museo dell'Olocausto di Washington, 29 settembre 1994. C. KING, Jehovah's Witnesses under Nazism, in A Mosaic of Victims. Non-Jews Persecuted and Murdered by the Nazis, a c. di M. Berenbaum, New York University Press, New York, 1990. F. PERADOTTO, Un'esperienza da ricordare, in Religiosi nei lager a c. di F. Cerela, Franco Angeli, Milano, 1999.

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PRESENTAZIONE DEL LIBRO “RAZZA E FASCISMO.

LA PERSECUZIONE CONTRO GLI EBREI IN TOSCANA (1938-1943)”1 di Carla Forti

Questo libro a più voci espone i risultati di una vasta ricerca compiuta da sette giovani studiosi (F. Balloni, C. Bencini, F. Cavarocchi, S. Duranti, V. Galimi, A. Minerbi, V. Piattelli). L’opera ha un impianto molto organico, pur occupandosi ogni autore di aspetti diversi. Consta di un volume di saggi e uno di documenti. Quest’ultimo contiene una ristretta ma significativa selezione del materiale su cui è stata condotta la ricerca e un’ampia bibliografia utilmente divisa in quattro sezioni. A Enzo Collotti, coordinatore della ricerca, si devono l’introduzione generale e la presentazione di uno dei documenti (il diario dell’ebreo fiorentino Vittorio Pisa).

Dall’opera emerge in tutti i suoi aspetti l’impatto devastante che le leggi razziali italiane (per niente meno dure - come ricorda Collotti - di quelle emanate in Germania) produssero sulla vita quotidiana degli ebrei toscani. Ma i contenuti non si limitano a questo. Il volume di saggi, che comprende quindici contributi, si articola infatti in tre parti: 1) Aspetti della presenza ebraica in Toscana, 2) Stampa regionale e pubblicistica razzista di fronte alla questione ebraica e 3) Momenti della prassi persecutoria.

Punto d’arrivo cronologico della ricerca è il 1943, alla vigilia dell’8 settembre. Non si parla qui della persecuzione nazista, o meglio nazi-fascista, sfociata nelle deportazioni, ma di quella fascista, fino a non molti anni fa “largamente rimossa, per non dir peggio” (Collotti) dalla memoria collettiva e dalla storiografia italiane. Di questa si mette in luce il carattere “autonomo e autoctono” (id.) all’interno della strategia politica del regime.

Peraltro, benchè i limiti cronologici indicati nel titolo di copertina siano quelli del periodo 1938-1943, in realtà i saggi della prima parte prendono le mosse dall’inizio degli anni Trenta. Si può dunque dire, facendo uso di una distinzione introdotta recentemente da Michele Sarfatti, che se è esclusa dalla trattazione la “fase della persecuzione delle vite degli ebrei” (1943-45), vi è però compresa non solo la “fase della persecuzione dei diritti” (1937-43), ma anche, almeno in parte, la “fase della persecuzione della parità” (1922-37).

Questa considerazione non è fine a se stessa. La ’persecuzione dei diritti’ inizia quando il fascismo, diventato imperiale e imboccata la scelta razzista con la creazione dell’Africa Orientale Italiana, si prepara al varo delle leggi antiebraiche; ma quella che Sarfatti chiama la ‘persecuzione della parità’ inizia con il regime stesso, in quanto da subito esso liquida l’eredità laica del Risorgimento, vara nel 1923 la riforma Gentile secondo cui la religione cattolica è fine e coronamento dell’istruzione pubblica e stipula nel 1929 il Concordato. Bisogna tenerlo presente per capire i percorsi tormentati e le lacerazioni interne che caratterizzano l’ebraismo organizzato ben prima delle leggi razziali. L’ebraismo organizzato italiano in generale e quello toscano (o piuttosto fiorentino) descritto nella prima parte di questo libro in particolare.

La prima parte (Aspetti della presenza ebraica in Toscana) è dedicata infatti alla Comunità ebraica fiorentina e a “Israel”, il più importante settimanale ebraico italiano, che aveva sede a Firenze e uscì fino al 1938.

Percorsi tormentati e lacerazioni derivano dal fatto che essere buoni ebrei e buoni italiani - come gli ebrei italiani erano sempre stati, distinguendosi per il loro patriottismo sia nel Risorgimento che nella Prima Guerra Mondiale - diventa difficile nell’Italia fascista che ha fatto del cattolicesimo la religione di stato e che nel 1931 impone l’adozione del testo unico di stato nella 1 E. Collotti (a cura di), Razza e Fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana (1938-1943), Carocci-Regione Toscana 1999. Vol. I, Saggi, pp. 602; vol. II, Documenti, pp. 199.

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scuola pubblica della riforma gentiliana e anche nelle scuole ebraiche. Difficile anche se si è fascisti, come prevalentemente è, fino alle leggi razziali, la borghesia ebraica fiorentina. Ancora più difficile se si è sionisti, come è la redazione di “Israel” (fondato nel 1916 da Dante Lattes e Alfonso Pacifici).

All’interno del sionismo italiano “Israel” mantenne sempre (come mostra Valentina Piattelli nel saggio che apre il volume, “Israel” e il sionismo in Toscana negli anni Trenta) un’equilibrata posizione di centro fra sinistra socialista e destra revisionista; cercò anche di “legittimare la sua stessa esistenza all’interno del regime fascista suggerendo un possibile utilizzo del sionismo e dell’ebraismo italiano da parte del regime, come strumento di penetrazione nel Vicino Oriente e in funzione anti-inglese”; e aderì entusiasticamente al colonialismo italiano in Africa Orientale. Tutto ciò non valse a risparmiargli (e a risparmiare agli ebrei in genere) l’accusa di doppia appartenenza e scarsa italianità da parte della stampa fascista. Ma già prima che la prefettura di Firenze ordini la chiusura di “Israel”, sono i fascistissimi esponenti del “Comitato degli italiani di religione ebraica” a devastarne le sede, miopemente persuasi, o pateticamente illusi, che solo il sionismo abbia provocato la svolta antisemita del regime.

Coltivare e alimentare illusioni non è però un’esclusiva degli ebrei anti-sionisti, è atteggiamento comune a tutti gli ambienti ebraici studiati in questo libro (e in altri che lo hanno preceduto). Non solo nella fase preparatoria della svolta antisemita (basta vedere, p. 65, come “Israel” commenta la Nota diplomatica n. 14), ma anche nei mesi che seguono l’uscita delle leggi razziali. E tutto ciò nonostante che già nel 1933 “Israel” si fosse fatto qualche illusione circa l’effettivo pericolo rappresentato dal nazismo al potere, salvo poi arrendersi all’evidenza e passare a farsi promotore dell’assistenza ai profughi ebrei dalla Germania (Piattelli, La percezione del nazismo e l’assistenza ai profughi dalla Germania attraverso le pagine di “Israel”).

Il tema dei profughi dalla Germania che hanno cercato in Toscana un loro “rifugio precario”, per usare l’espressione di Klaus Voigt, e che furono i primi a subire l’internamento, è direttamente o indirettamente presente in quasi tutti i saggi del volume (anche se in questa sede non si affronta un problema di cui Collotti segnala nell’introduzione l’interesse, cioè che tipo di rapporti si sia, o non si sia, stabilito fra la cultura fiorentina e toscana dell’epoca e questo tipo di emigrazione tedesca, costituita in buona parte di intellettuali e artisti).

Iniziata in anni di rapporti ancora tesi fra l’Italia fascista e la Germania nazista, la persecuzione e l’emigrazione degli ebrei tedeschi è per quelli italiani - ancora cittadini nella pienezza dei diritti per quanto si può esserlo in una dittatura - un banco di prova: prova di solidarietà a cui essi non si sottraggono, ma anche occasione in cui si rivela, con la preoccupazione che l’afflusso di profughi attizzi l’antisemitismo, l’ansia sul proprio futuro, rimossa nelle dichiarazioni ufficiali che vantano la benevolenza del regime.

Ansia per il futuro e impreparazione al colpo che il futuro ha in serbo per loro convivono dunque contraddittoriamente negli ebrei italiani. O meglio: in quegli ebrei benpensanti o fascisti convinti che costituiscono il gruppo dirigente delle comunità in generale e di quella fiorentina in particolare. Nell’anno da cui prende le mosse l’ampio saggio di Alessandra Minerbi su La Comunità ebraica di Firenze (1931-1943) diventa infatti operante la nuova organizzazione dell’ebraismo italiano voluta dal regime con la creazione dell’U.C.I.I. e con l’accorpamento e la subordinazione gerarchica all’U.C.I.I. delle comunità locali, da sempre abituate all’indipendenza. Il gruppo dirigente delle comunità, che era sempre stato espresso dalla élite più abbiente ed era sempre stato moderato, ora non poteva che essere scelto secondo criteri di affidabilità nei confronti del regime. Ed è inevitabilmente il gruppo dirigente a trovarsi in primo piano in una ricerca come questa, che mette a fuoco l’ebraismo organizzato sui cui archivi e organi di stampa si fonda. Non può comparirvi, per la sua stessa natura, l’ebraismo antifascista; o, se si preferisce, la componente antifascista di coloro che il fascismo catalogò come appartenenti alla ‘razza ebraica’. Costoro infatti, laici e lontani dalla vita dell’ebraismo organizzato, si presentavano e vedevano se stessi semplicemente come antifascisti, non già come ‘ebrei antifascisti’. Qui dunque essi sono presenti solo nella misura in cui la stampa fascista ne denuncia l’attività in chiave antisemita (come accade

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nel ‘34 con l’arresto dei militanti di Giustizia e Libertà, tutti ebrei) e nella misura in cui l’ebraismo organizzato si sforza inutilmente di neutralizzare la strumentalizzazione.

A Stampa regionale e pubblicistica razzista di fronte alla questione ebraica è dedicata la seconda parte del volume. Vengono qui presi in considerazione, in altrettanti saggi, i due quotidiani toscani a tiratura nazionale (Camilla Bencini, “La Nazione” di Firenze, Federica Balloni,”Il Telegrafo” di Livorno), gli organi delle federazioni fasciste (Bencini, “Il Bargello” di Firenze e “Il Ferruccio” di Pistoia, Balloni, “Sentinella Fascista” di Livorno, Simone Duranti, Federazioni di Provincia: Arezzo, Grosseto, Pisa e Siena) e quelli dei G.U.F., attivi non solo nei centri universitari, ma in tutte le province (Duranti, Gli organi del GUF: Arezzo, Grosseto, Pisa e Siena). Per la stampa ecclesiastica (Francesca Cavarocchi, La stampa ecclesiastica di fronte alle leggi razziali) è presente solo il settore dei bollettini ufficiali diocesani.

Lo spoglio sistematico effettuato dagli autori parte dal 1938. Per i due grandi quotidiani toscani i risultati mostrano come, in modo prevedibilmente non diverso che per il resto della stampa nazionale, la campagna antiebraica anticipi l’uscita delle leggi razziali (plaudendo a quelle introdotte in Romania) e l’accompagni, si attenui nell’anno successivo, riprenda virulenta con l’inizio della guerra.

Un’attenzione minuziosa è dedicata ai fogli provinciali che, diffusi capillarmente su scala locale, impongono ovunque gli stereotipi del razzismo antisemita: anche dove, come nella Toscana meridionale, la presenza ebraica è nulla o quasi. Tutta la stampa universitaria risulta allineata su un antisemitismo i cui toni svariano dal truce all’erudito, con occasionali propensioni per il modello nazista, senza rivelare, a giudizio di Simone Duranti (polemico nei confronti delle letture ‘zangrandiane’, e di P. Nello, “Il Campano”, autobiografia politica del fascismo pisano), tracce di dissidenza o di ‘fascismo critico’.

Leggendo queste pagine, da cui si potrebbe estrarre un’antologia degli stereotipi più ripugnanti, si è spesso colpiti, una volta di più, dalla continuità e dalla saldatura fra antisemitismo fascista e antigiudaismo cattolico di lunga durata. Quest’ultimo appare consapevolmente sfruttato in misura maggiore nei contesti della Toscana contadina in cui l’unica immagine nota dell’ebreo è quella tramandata dalla Chiesa (p. 349). Un’immagine che del resto l’arcivescovo di Pisa Francesco Vettori non si perita di riproporre anche nella sua pastorale della Quaresima 1943 (p. 419).

Difficilmente si potrebbe sopravvalutare l’effetto prodotto dalla stampa (anche o soprattutto attraverso lo stillicidio degli articoli di cronaca) nell’imporre al paese l’immagine degli ebrei come “diversità” irriducibile, “da separare e condannare” (Collotti). A conferma, si veda la sezione di documenti intitolata Lo ‘spirito pubblico’ di fronte alle leggi razziali, in cui (come sottolinea la curatrice Minerbi) sono eloquenti soprattutto le comuni lettere di privati, da cui si evince (pur tenendo conto delle cautele imposte dalla censura) quanto a fondo sia penetrato il veleno della propaganda contro gli ebrei.

Nella terza parte del volume, Momenti della prassi persecutoria, è documentata la puntigliosità e capillarità con cui le leggi razziali furono applicate, e il loro progressivo inasprimento attraverso circolari e atti amministrativi. A quest’ultimo aspetto è anche dedicata nel volume di documenti una sezione, significativamente intitolata Gli ebrei non possono: esempi di divieti, che rende evidente “l’accanimento amministrativo” di cui gli ebrei furono oggetto per ridurli praticamente alla morte civile (come scrive nella breve presentazione Valeria Galimi, curatrice della sezione).

L’esame dei diversi momenti in cui la prassi persecutoria si articolò (Cavarocchi, Il censimento del 1938 a Firenze, Cavarocchi e Minerbi, Politica razziale e persecuzione antiebraica nell’ateneo fiorentino, Galimi, L’internamento in Toscana, Minerbi, L’esproprio dei beni ebraici in Toscana e La precettazione per il lavoro obbligatorio nelle province toscane) mostra che essa fu diversamente efficace a seconda della natura dei singoli provvedimenti; sempre, però, l’applicazione dei provvedimenti si rivela finalizzata alla mera vessazione.

Lo conferma la vicenda degli espropri e delle precettazioni. Se infatti l’impatto delle leggi razziali è immediato sull’Università di Firenze, con l’allontanamento dei docenti ebrei e

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l’introduzione massiccia di corsi di dottrina della razza, quando invece si tratta di dar corso all’esproprio dei beni ebraici i tempi si allungano: frequentemente fino alla guerra e ai bombardamenti, che impediscono gli accertamenti. Non già perchè enti e singoli si dimostrino inclini a transigere accogliendo ricorsi e richieste di discriminazione (è vero il contrario), ma per l’inevitabile farraginosità delle norme applicative. Quanto all’entità complessiva dei beni ebraici giudicati espropriabili (cioè, secondo l’articolo 10 della legge 17 novembre ‘38, i terreni eccedenti l’estimo di 5.000 lire, i fabbricati urbani eccedenti l’imponibile di 20.000, le imprese con oltre 100 dipendenti), essa si rivelò subito, e prevedibilmente, insignificante. Ma la burocrazia persecutoria lavorò lo stesso, producendo carte che furono più tardi usate per la caccia all’uomo.

Analogamente, se il provvedimento amministrativo 6 maggio 1942 sulla precettazione degli ebrei per il lavoro obbligatorio (che il Ministero della Cultura Popolare volle ampiamente propagandato sulla stampa) finì con l’essere applicato solo parzialmente, questo avvenne perchè non si sapeva che cosa, in pratica, far loro fare, al di là della ben precisa volontà di umiliarli ed esporli alla pubblica ostilità.

La stessa volontà presiede, a partire dal 16 maggio 1940 e per il periodo qui esaminato, alla prassi dell’internamento, che non è regolato da leggi organiche, ma da circolari e note di prefetti e funzionari di polizia, grondanti stereotipi antisemiti. Gli 83 ebrei toscani internati vengono avviati sia nei campi di concentramento di altre regioni d’Italia (ce ne furono complessivamente nel paese più di cinquanta, sottoposti alla giurisdizione del ministero degli interni), sia nei due campi toscani: quello di Villa La Selva a Bagno a Ripoli e quello di Villa Oliveto a Civitella della Chiana. Dopo l’8 settembre entrambi questi campi, come pure quello creato successivamente a Bagni di Lucca, si trasformeranno in campi di transito verso i lager nazisti. Colpisce, secondo Valeria Galimi, il fatto che essi non siano diventati, all’interno della comunità ebraica, luoghi di memoria della persecuzione in Toscana.

Sembra a chi scrive che le carenze della memoria trovino parziale spiegazione nella schizofrenia della situazione che caratterizzò all’epoca la Toscana (e l’Italia), come appare dal saggio della stessa Galimi. Era possibile che un ebreo si comportasse oggi come quello di cui, nel giugno 1943, la prefettura di Lucca scrive che

“precettato per il lavoro coatto, si presenta ripetutamente al lavoro in monocolo e guanti bianchi; all’ora dei

pasti si fa portare al ristorante in taxi, rimprovera una donna che ascolta i radiogiornali fascisti” (p. 523) e morisse domani ad Auschwitz (o invece attraversasse la bufera indenne). Alla casualità dei

destini corrisponde quella delle memorie. Oggi sappiamo che Bagno a Ripoli e Civitella della Chiana divennero dopo l’8 settembre luoghi di transito verso Auschwitz. Ma chi vi transitò diretto a quel destino non è tornato a raccontarlo e chi invece vi soggiornò prima dell’8 settembre non prevedeva quel futuro, pur vivendo un presente precario e umiliato. Si può aggiungere che non sono le condizioni materiali di vita a connotare i campi di concentramento fascisti. Per disagiate o dure che queste fossero per chi vi era rinchiuso, quelle di molti degli italiani non rinchiusi erano anche peggiori, o assai peggiori: come nel caso degli abitanti di Tarsia, presso cui fu creato il più grande campo di concentramento italiano, quello di Ferramonti. Non sembra a chi scrive che si rischi, dicendo questo, di concedere spazio a sottovalutazioni ‘revisionistiche’. I campi di Bagno a Ripoli e Civitella della Chiana e i molti altri sparsi per l’Italia nacquero, come Galimi mostra efficacemente, dalla precisa volontà di colpire gli ebrei emarginandoli, secondo una strategia persecutoria il cui sbocco inevitabile era la loro distruzione. Ce n’è abbastanza.

La strategia del regime prevedeva la cooperazione, nella prassi persecutoria, di organismi politici, apparati amministrativi, enti economici, strumenti della comunicazione, luoghi di formazione. La risposta della popolazione toscana a questa strategia risulta qui essere stata di sostanziale acquiescenza, quando non di consenso attivo (non diversamente da quanto registrano altri studiosi per altre parti d’Italia, in particolare Fabio Levi per Torino). Un risultato prevedibile, nella misura in cui l’indagine mette a fuoco l’apparato istituzionale, dai funzionari al personale esecutivo.

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Sarebbe peraltro improduttivo - sembra a chi scrive - sostituire al “mito del bravo italiano” uno stereotipo moralistico di segno opposto, o indulgere troppo al mito di una mancata palingenesi nazionale attraverso l’epurazione di quanti erano stati coinvolti nell’attuazione della normativa razziale (o più in generale della normativa fascista). Giustamente Minerbi, commentando il fatto che nessun docente dell’ateneo fiorentino prese apertamente posizione contro l’espulsione dei suoi colleghi ebrei e che “furono pochissimi i docenti designati a sostituire i loro colleghi che si rifiutarono di farlo” (p. 470), scrive che “la valutazione morale diventa problema storiografico”, rinviando alla continuità, nella storia dell’Italia unita, di una tradizione accademica “di arroccamento elitario, disimpegno e subordinazione al potere”. Toltone l’arroccamento elitario, la tradizione era la stessa per tutta la pubblica amministrazione, e quindi per i funzionari e impiegati che con la stessa “grigia e desolante puntigliosità burocratica” (ead., p. 570) gestirono prima l’esproprio dei beni degli ebrei, poi la loro lentissima restituzione nel dopoguerra. Con la differenza che gli impiegati dell’EGELI avevano qualche scusante in più rispetto ai professori universitari. Del resto, la tradizione era la stessa per gli ebrei, i più italiani fra gli italiani: probabilmente neanche i docenti ebrei espulsi concepivano l’idea che ci si potesse rifiutare di sostituirli.

La risposta degli ebrei fiorentini alle leggi razziali fu invece (anche in questo caso non diversamente da quel che è stato osservato altrove) un parziale riavvicinamento alle organizzazioni comunitarie. Lo si constata soprattutto dall’osservatorio privilegiato della scuola ebraica, a cui Minerbi dedica alcune delle pagine più interessanti (non solo per l’evidente centralità di questo settore, ma anche perchè è quello su cui, casualmente, si dispone in maggior misura di fonti, essendo andato in gran parte disperso l’archivio della Comunità).

Più discutibile sembra il giudizio (Piattelli, p. 70) che “Israel”, se non soppresso, potesse trasformarsi dopo il ‘38 in “un settimanale di resistenza alla persecuzione”, quando si consideri, per esempio, che ancora nel ‘42 un personaggio della statura morale di Carlo Alberto Viterbo saluta con favore nella precettazione l’occasione, per gli ebrei italiani, di rendersi ancora utili alla patria.

Attraverso l’osservatorio della scuola compare di scorcio nel saggio di Minerbi una componente dell’ebraismo fiorentino generalmente abbastanza ignorata perchè poco visibile: quella dei poveri. La loro presenza si ricostrusce per via indiziaria: sono quelli i cui figli frequentano la scuola ebraica già prima delle leggi razziali, e anche prima della clericalizzazione e fascistizzazione della scuola pubblica. Lo fanno forse per fedeltà alla tradizione ebraica, ma certo perchè vi fruiscono gratuitamente dei libri e della mensa, come iscritti nel ruolo dei sussidiati dalla Comunità.

Nel caso appena citato la fonte di informazione è un elenco scolastico sopravvissuto alla parziale dipersione dell’archivio della Comunità. Ma in generale è la massa di incartamenti prodotta dalla macchina persecutoria a fornire la maggior quantità di informazioni sulla realtà ebraica. Per esempio, è dai fascicoli degli espropri che si desume l’irrilevanza dell’imprenditoria agricola fra gli ebrei fiorentini, e la sua maggiore consistenza fra quelli pisani (verosimilmente un fenomeno di lunga durata, se si pensa alle situazioni ricostruite per il medioevo nel pisano da Michele Luzzati).

E’ questo un fatto ben noto, e sempre notato a proposito del censimento del 1938, di cui qui si occupa Francesca Cavarocchi (Il censimento del 1838 a Firenze).

L’elaborazione dei dati contenuti nelle schede dei censiti consente a Cavarocchi di abbozzare un profilo del gruppo ebraico fiorentino alle soglie della persecuzione. Vi si constata (p. 454) “una schiacciante predominanza dei ceti medi (83,47%), occupati in buona parte nell’impiego statale e non, compreso l’insegnamento (27,76%)”. Risulta ridimensionata la pretesa vocazione mercantile, mentre a “una specificità ebraica comune ad altre città” rinvia la presenza, fra i ceti popolari, di un significativo numero di ambulanti. Ma nell’insieme gli elementi presi in considerazione (fra cui la distribuzione delle famiglia ebraiche nei quartieri fiorentini, il sistema di relazioni familiari, la concentrazione in alcuni settori delle libere professioni) offrono secondo Cavarocchi l’immagine di un gruppo “ormai assimilato”, anche se non al punto di aver perduto ogni riserva identitaria.

Per triste paradosso insomma - come constata Minerbi (p. 117) - è proprio attraverso l’applicazione delle leggi razziali che “emerge in tutta la sua estensione” allo sguardo retrospettivo

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dello storico quella presenza degli ebrei nella vita cittadina che la persecuzione trasformerà in assenza.

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GUERRA TOTALE E TOTALITARISMI

di Paolo Pezzino (testo non rivisto dall'autore)

Io cercherò di suggerirvi alcuni percorsi di ricerca e di didattica per le vostre classi, perchè il tema del rapporto tra guerre del XX secolo, totalitarismi e, all'interno del totalitarismo nazista, soluzione finale della questione ebraica, è uno dei temi più complessi e dibattuti; quindi non mi sogno affatto di affrontarlo in una dimensione organica. Seguirò alcuni percorsi, intellettuali soprattutto, che poi sono quelli che hanno caratterizzato il lavoro di ricerca, condotto insieme a Michele Battini, su un problema apparentemente diverso rispetto a quello fondamentale della soluzione finale, cioè il problema dei massacri di popolazione civile da parte dell'esercito tedesco in Italia nel corso della Seconda Guerra Mondiale, che sembrerebbe rientrare all'interno delle procedure di guerra di un esercito in armi, ma che viceversa porta agli stessi problemi teorici che pone il problema della soluzione finale. Quindi è questo collegamento che vorrei cercare di mostrarvi.

E' ormai acquisito dalla storiografia dire che le guerre del XX secolo rappresentano un qualcosa di qualitativamente diverso, non soltanto di quantitativamente diverso, rispetto alle guerre precedenti. Il salto qualitativo è però anche un salto quantitativo, dipende cioè dal progresso tecnico applicato alla distruzione bellica il fatto che il numero di morti in guerra sia enormemente più alto rispetto alle guerre precedenti.

I dati li conoscete tutti. Si parla di circa 10 milioni di morti nella Prima Guerra Mondiale; si parla di una cifra che varia, a seconda dei calcoli, da 3 a 5 volte in più nella Seconda Guerra Mondiale: cioè da 30 a 50 milioni di morti, e di questi moltissimi sono civili. Nella Seconda Guerra Mondiale il numero dei civili uccisi è elevatissimo, pensate che solo in Unione Sovietica 20 milioni circa sono i caduti in guerra, e di questi è probabile che almeno la metà sia rappresentata da persone che non vestivano una divisa.

Il tema della guerra totale è indubbiamente un tema collegato anche ai grandi numeri. Perchè questi sono numeri che in effetti non hanno precedenti come conseguenza di singoli episodi e guerre nella storia - per esempio nel XIX secolo - ma sono collegati anche al rapporto che si instaura in queste guerra tra gli eserciti e la popolazione civile; cioè tra quei cittadini in armi ai quali razionalmente veniva riservato l'uso della violenza nel corso dei conflitti bellici, ma sui quali anche tradizionalmente si tendeva a concentrare la violenza della parte avversa, e popolazioni civili che, nel diritto bellico tradizionale - più o meno rispettato in ogni guerra - venivano comunque considerate al di fuori del conflitto. In realtà, questo tipo di distinzione tra esercito e combattenti, nel corso dei due conflitti mondiali che possono anche essere considerati un unico ciclo di guerre che interessa soprattutto l'Europa (gli storici hanno elaborato una tesi storiografica che parla di “guerra dei 30 anni”, tanto per indicare il periodo che va dal 1914 al 1945 in Europa), si viene a sbriciolare. Perché? Qui il problema non è solo quello dei numeri, o di tecniche distruttive più avanzate, di più modernizzazione applicata alla capacità degli Stati di usare violenza. E' un problema più complesso che riguarda il carattere di queste guerre. Vorrei citare da questo punto di vista una lettera di Elie Halévy a Xavier Léon, due intellettuali francesi. Halévy, noto soprattutto per una serie di contributi sull'”era delle tirannie” dei quali parlerà forse Michele Battini, nel gennaio del 1915 scrive a Léon sulla durata della guerra: è un momento particolare e ormai è chiaro che la guerra non si risolverà, come pensavano molti dei contendenti, in breve tempo. Halévy scrive: «Non vedo come ci si possa fermare. E' una guerra di razze, molto sordida, priva di grandi idee, senza generali strategie».

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“Guerra di razze” definisce Halévy la Prima Guerra Mondiale. Perchè guerra di razze? Perchè è una guerra che porta sul terreno della competizione armata il principio nazionale, non è più una guerra tra Stati, ma è una guerra tra Nazioni, in cui la Nazione sta dietro, compatta, allo Stato armato. Questo non solo a livello di propaganda, nel senso cioè che la Nazione rappresenta la volontà nazionale, ma anche a livello concreto di mobilitazione. La Prima Guerra Mondiale è la prima guerra in cui la mobilitazione di tutte le risorse nazionali viene realizzata ed è effettivamente fondamentale in tutti gli Stati. Tant'è che si parla di mobilitazione totale e compare per la prima volta questo termine “totale”, che poi in alcune teorizzazioni che cominciano subito dopo la guerra viene applicato alla struttura di alcuni Stati che diventano Stati e regimi totalitari.

Perché è una mobilitazione totale? Su queste cose ha scritto delle pagine molto belle F. Furet in un libro che ha fatto molto discutere, Il passato di un'illusione, pubblicato da Mondadori in Italia: un libro sulla fine del comunismo, ma che parla anche degli sconvolgimenti europei nel corso della Prima Guerra Mondiale, e dimostra proprio come la Prima Guerra Mondiale rappresenti uno spartiacque, non tanto perché, come la Seconda, è una guerra con fortissime caratterizzazioni ideologiche (ad un certo punto la guerra diventa la guerra delle democrazie contro i regimi autocratici e autoritari degli imperi centrali, ma questa è in verità un'invenzione del Fronte degli Alleati che arriva solo successivamente), quanto perchè è una guerra che traduce sul terreno democratico e di popolo la passione nazionale. Quindi è per la prima volta, dice Furet, una guerra democratica, la prima nella quale la Nazione, l'intera comunità nazionale, viene chiamata a partecipare totalmente; tant'è che tutti sappiamo l'importanza che ha il così detto “fronte interno”. Tra l'altro, una serie di attività che poi assumeranno una grossa importanza in contesti diversi, come la pubblicità, nascono proprio all'interno e durante la Prima Guerra Mondiale, per l'esigenza che tutti gli Stati hanno di una propaganda che raggiunga tutti gli strati della Nazione. Furet instaura anche un rapporto tra Prima Guerra Mondiale e rafforzamento dell'antisemitismo poiché la Nazione, che per sua tradizione universale si identifica con l'intero corpo dei cittadini, ha bisogno però, per affermarsi, di un nemico interno: e chi, meglio dell'ebreo, raffigura il nemico interno? L’ebreo oltre tutto può incarnare anche l'odio contro il borghese, che era qualcosa che, già dalla seconda metà dell'800, cominciava ad avere uno suo peso nel pensiero politico.

Vorrei cercare di analizzare un'altra definizione di guerra democratica, quella di Hobsbawm nel suo volume sul XX secolo, Il Secolo Breve. Anche Hobsbawm parla di guerra di massa, con un'accezione più ampia rispetto a quella di Furet. A Furet interessa soprattutto la questione della guerra come prodotto del sentimento nazionale. Hobsbawm invece rileva che la guerra modifica il rapporto tra Stato e società civile. La Prima Guerra Mondiale, dice Hobsbawm, è la più grande impresa economica coscientemente organizzata e diretta che l'uomo avesse mai conosciuto. C'è una mobilitazione totale per l'organizzazione del lavoro e della produzione industriale; quindi si dilata enormemente l'intervento dello Stato nella società civile, anche in quegli Stati che in precedenza professavano ufficialmente il liberismo, per esempio in Gran Bretagna.

Questo, secondo Hobsbawm, ha dirette conseguenze sulla crescita di quella che lui definisce la barbarie della guerra moderna, che deriva proprio dal fatto che una guerra totale come mobilitazione di tutte le risorse porta poi alla demonizzazione dell'avversario; cioè si fa appello ai sentimenti nazionali delle masse attribuendo agli avversari, che non sono più i regimi o le istituzioni degli Stati combattenti, ma i popoli stessi, aspetti di tipo demoniaco. Vengono demonizzati, vengono considerati qualcosa di altro, appartenenti ad un'altra etnia, e non è un caso che Halévy parli di guerra di razze. Potete considerare le reciproche distruzioni che attuano i francesi ed i tedeschi durante la Prima Guerra Mondiale.

Se pensiamo poi agli intellettuali, è abbastanza sorprendente vedere quanti e quali intellettuali si siano schierati nei due Paesi a favore della guerra, da Bergson a Freud, a Weber, ecc. Allora, dice Hobsbawm, la barbarie aumenta perché democratizzazione vuol dire demonizzazione degli avversari, e questo è il primo punto; per la conduzione impersonale della guerra, il sistema, dovendo mobilitare tutte le risorse, si affida ad una burocrazia di guerra, burocratizza anche la guerra, e proprio nel corso della Prima Guerra Mondiale noi abbiamo i primi esempi di genocidio: il

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massacro degli Armeni da parte dei Turchi, con l'assassinio di circa 1 milione di persone, e dopo la guerra i grandi processi di espulsione delle popolazioni a seguito di cambiamenti geo-politici. Pensate che dal '14 al '22 ci sono tra i 4 ed i 5 milioni di profughi in Europa; naturalmente nel secondo conflitto mondiale sono stati molti di più: circa 40 milioni di persone sradicate dalle proprie case e che si spostano in altri contesti, tra cui 13 milioni di tedeschi espulsi dalle regioni della Germania annesse alla Polonia dopo la conclusione della guerra. Anche questo va ricordato perchè il fatto che i tedeschi abbiano la principale responsabilità della guerra non toglie affatto che anche nei loro confronti questo carattere totale e globale della guerra sia stato applicato, una volta che la guerra, invece di vincerla come pensavano, l’hanno persa. Questi sono gli elementi fondamentali delle guerre moderne.

Sempre Halévy, in una lettera del 3 luglio 1915 a Léon, ci dà un'altra indicazione essenziale relativa al rapporto tra guerra totale e Stati totalitari. Parlando dell’influenza della guerra all'interno del mondo socialista, scrive che questa influenza è sfavorevole al progresso delle forme liberali del socialismo, in quanto rafforza in modo considerevole il socialismo di Stato. Anche Hobsbawm coglie questo aspetto, ma ben prima di lui Halévy parla di rafforzamento delle strutture degli Stati. Senza voler fare la storia del concetto di totalitarismo, il concetto viene utilizzato per la prima volta dopo la fine della guerra, all'inizio del '23, dagli avversari del fascismo per definire le caratteristiche del regime fascista; il termine viene poi ripreso da Mussolini in senso positivo nel 1925 e da Gentile per indicare la nuova volontà dello Stato fascista di essere uno stato totale, che riassume al suo interno l'intera nazione. Ma viene utilizzato anche da Carl Schmitt in molti suoi scritti proprio in relazione alla guerra: nel paradigma amico-nemico indotto dalla guerra, egli vede il nuovo modello della lotta politica dopo la Prima Guerra Mondiale. Tra l'altro, un modello in cui si presuppone l'identità totale di Stato e società come alternativa alla pluralizzazione liberale.

Mi fermo con queste brevi note sul totalitarismo e vorrei nel tempo residuo passare ad affrontare alcuni problemi che derivano da questa definizione delle guerre come guerre totali. Il primo problema fondamentale che ne deriva è il seguente. Se la guerra è la realtà che provoca, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, non soltanto una serie di regimi che noi oggi chiamiamo totalitari, sia pure con molte discussioni sull'ampiezza e l'utilizzazione di questo termine, ma anche un atteggiamento per cui l'intera popolazione dello Stato avversario diventa il nemico, noi ci dobbiamo chiedere se questa caratteristica della guerra moderna in qualche misura equipari regimi di tipo diverso in diversi contesti. Ad esempio, possiamo noi affermare che siano soltanto gli stati fascisti, la Germania nazista e l'Italia, ad applicare coerentemente questa equiparazione tra militari e civili? Possiamo cioè affermare che la condotta bellica di questi Stati - Stati Uniti, Gran Bretagna, ecc. - abbia una caratteristica differente in merito a garanzie e immunità per la popolazione civile non combattente, rispetto alla condotta bellica degli Stati avversari? Il tema è grosso. La Seconda Guerra Mondiale più ancora della Prima rappresenta un salto verso la guerra totale, perché a questo tema della guerra democratica, della guerra che applica il concetto di nazionalità sul piano della condotta bellica, unisce anche una particolare valenza di tipo ideologico contro il nazismo sul terreno Europeo, contro il Giappone sul fronte del Pacifico. Ricordiamoci che per gli Stati Uniti il principale avversario nell'immaginario collettivo nazionale era il Giappone, non la Germania nazista; era il Giappone che dal loro punto di vista identificava per antonomasia anche razzialmente il “diverso”. Uno studioso americano, Paul Fussel, nel libro Tempo di guerra ha analizzato la propaganda di guerra americana nei confronti del Giappone; l'immagine che ne viene fuori dei giapponesi è un'immagine deformata dal punto di vista razziale: una razza inferiore. Ci sono anche storie di comportamenti dei soldati americani che lo dimostrano.

Questo carattere di guerra totale, in cui scompare la distinzione tra civili e combattenti, come coinvolge i vari contendenti? Per esempio, è il caso di cominciare a porre con forza il tema dei bombardamenti di popolazioni civili. Non conta tanto, da questo punto di vista, fare la storia di come si arriva a bombardare le città italiane, le città tedesche, o dire che i bombardamenti li hanno cominciati i tedeschi sull'Inghilterra, a Coventry, ma occorre riconoscere con onestà intellettuale che ad un certo punto la tematica del morale della popolazione civile come elemento fondamentale

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per la condotta bellica, la distruzione del morale della popolazione civile è stata assunta all'interno del campo alleato con un'efficacia ed un'efficienza che, per motivi tecnici e militari, l'esercito tedesco in quella fase non ha più potuto avere. I grandi bombardamenti sulle città tedesche, su quelle italiane, per arrivare poi alla bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki, fanno pienamente propria questa concezione della guerra totale. Se voi vedete le discussioni all'interno degli alti comandi della Raf e dell'aviazione americana, vedete che soprattutto gli inglesi su questo sono tranquillissimi; cioè è chiaro che le popolazioni civili sono obiettivi militari e quindi, per minare il consenso a Hitler, per cercare di costringere la Germania alla resa, si progettano bombardamenti che progressivamente perdono di vista gli obiettivi militari e si comincia a dire che le città sono gli obiettivi militari. In altri termini, appare effettivamente che la disumanizzazione dell' “altro” contribuisca a quel senso di distacco psicologico che rende possibili e facili le uccisioni e le strategie di atrocità nel corso della guerra. Da questo punto di vista io non noto alcuna differenza tra i massacri di popolazione civile per rappresaglia, fatti dai tedeschi, e i bombardamenti terroristici fatti dagli alleati, o altri tipi di comportamenti terroristici degli alleati, per esempio i mitragliamenti di colonne di profughi particolarmente in uso, sembra, nell'aviazione americana. Lo vediamo anche nei film: ci sono i profughi che sono chiaramente profughi, arriva un aeroplano e comincia a mitragliare tutti. Per chi ha vissuto quei momenti, questi sono tra i ricordi più intensi, che inducevano particolarmente all'odio nei confronti del nemico; mentre sul peso che hanno avuto in Italia i bombardamenti in rapporto all'atteggiamento della popolazione civile verso Mussolini gli storici ancora discutono. C'è l’idea classica tramandataci dall'antifascismo che i bombardamenti rafforzassero l'antifascismo degli italiani, perché consideravano che il colpevole fosse Mussolini; recenti indagini dimostrano invece il contrario. Alcune delle testimonianze raccolte da Pioltelli e pubblicate nel libro sulle Fosse Ardeatine dimostrano che anche nei quartieri antifascisti di San Lorenzo, quando vi furono centinaia di morti, la gente ce l'aveva con gli alleati che avevano bombardato le case.

Detto questo, però, e detto che questo è un terreno di indagine ancora da esplorare, io credo che il problema del rapporto tra le condotte di guerra degli eserciti appartenenti al fronte liberal-democratico e dell'esercito nazista e fascista, non sia ancora risolto. Nel caso delle stragi tedesche, infatti, troviamo non tanto un'elaborazione progressiva dell'importanza strategica dei bombardamenti terroristici, come nel caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, ed un'accettazione di questa importanza, ma una teorizzazione, il prodotto di un'ideologia, quella nazista, che rappresentava un qualcosa di unico. La guerra scatenata dalla Germania non era soltanto una guerra totale e non aveva soltanto una giustificazione in termini nazionali, nel senso in cui Furet parlava della Prima Guerra Mondiale. Aveva una valenza specificamente razzista e di destrutturazione da un lato, ristrutturazione dall'altro, dello spazio europeo che andava dall'Atlantico fino ad ampi territori appartenenti all'Unione Sovietica, in base ad una caratterizzazione prevalentemente razziale, volta cioè a creare un'Europa razzialmente omogenea, in cui nella gerarchia delle razze naturalmente doveva dominare la razza ariana rappresentata dai tedeschi. Questo veniva esplicitamente teorizzato e fu applicato soprattutto con l'invasione dell'Unione Sovietica, che rappresenta da questo punto di vista un salto di qualità anche nei confronti dei progetti di ristrutturazione del così detto “spazio vitale” della Germania.

Non è un caso che la soluzione finale - almeno questa è la tesi non degli intenzionalisti, cioè di chi vede la soluzione finale come già presente nella testa di Hitler fin da quando non è ancora dittatore della Germania, ma dei funzionalisti che la vedono come un prodotto proprio della radicalizzazione evolutiva del regime - si aggrava e viene messa in atto definitivamente dopo l'invasione dell'Unione Sovietica. Su questo gli storici sono abbastanza concordi. Quindi c'è una differenza tra questo tipo di conduzione della guerra, una guerra che è anche di distruzione e ristrutturazione dello spazio politico, sociale, vitale delle popolazioni contro le quali si combatte, in nome di un'ideologia esplicitamente razziale che viene teorizzata (ci sono studi su come utilizzare questo spazio conquistato dalle armate tedesche), e un comportamento come quello degli inglesi o degli americani che non teorizzano mai un'ideologia razziale (pur non essendo esenti da razzismo,

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come ho detto prima, per esempio nei confronti dei giapponesi) e non esprimono progetti politici di ristrutturazione dello spazio politico mondiale su queste basi. Un analogo atteggiamento hanno, per esempio, i generali tedeschi nei confronti delle popolazioni civili in Italia: un Paese che teoricamente non apparteneva all'elenco dei Paesi in cui esistevano razze inferiori da sradicare, eliminare o comunque ridurre a schiavitù, ma in cui teoricamente esisteva una razza appartenente anch'essa all'élite ariana che avrebbe dovuto governare l'Europa e il mondo. Se noi andiamo a vedere però, dopo l'8 settembre, l'occupazione tedesca in Italia, negli interrogatori dei generali tedeschi che con Michele Battini abbiamo ritrovato a Londra ed abbiamo pubblicato in un libro qualche tempo fa, voi troverete espliciti sentimenti di disprezzo razziale nei confronti degli italiani. Disprezzo razziale che si nutre di stereotipi del tipo: gli italiani traditori, gli italiani incapaci di essere organizzati, di essere coraggiosi, ecc. Proprio questo atteggiamento di disprezzo razziale favorisce l'esplosione di violenza nei confronti delle popolazioni civili, che è un'esplosione che si manifesta nei 10.000 civili italiani uccisi dall'esercito tedesco in azioni così dette “di rappresaglia”, o comunque in azioni anti-partigiane. Questo odio è alimentato dal complesso del tradimento, e si ritrova molto spesso in ufficiali che arrivano in Italia dai fronti orientali, che cioè hanno già sperimentato e assimilato localmente il nuovo tipo di guerra del fronte orientale, una guerra esplicitamente e tipicamente con finalità razziali. Questa è la fondamentale differenza tra le due parti in lotta. Entrambe accedono alla violenza che è propria della guerra: bombardamenti, distruzioni, ecc., ma dalla parte nazi-fascista c'è un innanzitutto un progetto politico portato avanti dalla struttura politica dell'esercito, dalla struttura politica dello Stato nazista, che è di un nuovo ordine internazionale lucidamente perseguito, basato sulla subordinazione delle altre nazioni agli interessi germanici, sulla teorizzazione di una razza superiore, sullo sterminio e la deportazione di intere popolazioni. Qualcosa di mai concepito prima nella storia europea e direi neanche nella storia mondiale.

Quindi, la guerra ai civili condotta dall'esercito tedesco ha alle spalle questo tipo di ideologia. Ripeto, i rapporti che ci sono tra questo tipo di guerra e la soluzione finale sono abbastanza ovvi, sono abbastanza evidenti, anche se poi l'interpretazione del peso che ha avuto la guerra nella decisione della soluzione finale è ancora contrastante tra i diversi storici.

Chiudo con un breve riferimento ad una tematica collegata a questo che vi ho detto, una tematica complessa, quella della punizione dei crimini di guerra. Innanzitutto sapete tutti che, dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, dal novembre '45 all'ottobre del '46 si celebra a Norimberga un grande processo contro i responsabili militari e politici del regime nazista con una serie di imputazioni: crimini di guerra, crimini contro la pace e crimini contro l'umanità. Quest'ultima è un’imputazione, nuova, che ha alle spalle l’elaborazione giuridica di un giurista americano che si chiama Raphael Lemkin, che nel 1944 elabora il concetto giuridico di “genocidio” e quindi, collegato a questo, il concetto di crimini contro l'umanità. Il problema di Norimberga è il problema per cui Norimberga finisce lì, mentre è un tribunale internazionale che poteva rappresentare in effetti l'avvio di un nuovo diritto internazionale applicato a questo tema. C’è stato poi un blocco e, come saprete, solo ora si ritorna a discutere di tribunali internazionali, ma molto faticosamente perché l'intesa raggiunta a Roma, mi pare nel '98, della costituzione di un tribunale internazionale per i crimini contro l'umanità è un'intesa ferma, molti parlamenti non l'hanno ancora ratificata e, tra gli altri, i parlamenti degli Stati che più contano: Stati Uniti, Cina, Russia, ecc.

Il problema per cui Norimberga finisce lì è che, in realtà, per celebrare Norimberga bisogna istruire il processo; e poiché non esisteva un diritto precedente, non vi era una definizione di questi crimini, secondo alcuni giuristi il principio di nullum crimen sine lege - principio fondamentale della civiltà giuridica occidentale - è stato calpestato. Ma lasciamo perdere questo problema e concentriamoci sui problemi effettivi. Norimberga si basa su due mistificazioni. La prima mistificazione è quella relativa all’idea che quanto era avvenuto in Germania fosse responsabilità di un ristrettissimo numero di persone. Norimberga si può celebrare solo immaginando un complotto di un'associazione a delinquere composta di qualche centinaio di persone. Quindi Norimberga lascia fuori completamente tutto il problema delle responsabilità più ampie della società tedesca. Dopo

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Norimberga si succedono vari processi ad alcune categorie di medici, giudici e così via, ma comunque rimane in piedi la tesi del complotto di un gruppo di criminali. Questa è la prima mistificazione che permette di celebrare subito il processo. Altre Norimberghe non verranno celebrate. Con Battini abbiamo dimostrato che c'era il progetto di celebrare una Norimberga italiana, cioè un processo ai generali tedeschi operanti in Italia per crimini di guerra contro la popolazione civile, perché l'Italia, a parte i Paesi dell'Est Europeo, è stato il Paese dell'Europa centro-occidentale col maggior numero di caduti civili per stragi operate dai tedeschi. Questo progetto non va in porto perché una serie di motivazioni geo-politiche e i nuovi equilibri internazionali lo rendono inattuabile; cioè non conviene più insistere sulla colpevolezza dei tedeschi, quando la Germania occidentale è diventata un elemento fondamentale del blocco occidentale nella nuova guerra fredda che a questo punto ha ridiviso in due il mondo, e non conviene neanche perchè le varie Norimberga avrebbero allargato notevolmente l'ambito delle responsabilità.

La seconda mistificazione è che il bene fosse tutto da una parte e il male fosse tutto dall'altra. Quando a Norimberga si arriva a toccare il tema specifico della condotta della guerra, non delle SS che, in quanto tali, venivano considerate un'associazione criminale, ma dell'esercito, del quale gli storici hanno dimostrato abbondantemente il coinvolgimento, non solo nelle strategie di atrocità contro i civili, ma anche nella soluzione finale in Polonia ed in Russia, a quel punto molti dei comportamenti che avrebbero dovuto essere attribuiti alla Wehrmacht come crimini e come reati avrebbero potuto essere attribuiti anche ai combattenti delle potenze vincitrici. Quindi lì ci si ferma, perché certi comportamenti di guerra erano comuni ad entrambi i contendenti. Da questo punto di vista hanno ragione coloro che dicono che Norimberga è un processo politico, cioè un processo dei vincitori nei confronti dei vinti. Non poteva essere altro, però voglio che non ci siano equivoci: meno male che c'è stato quel processo politico. Il punto è che la tematica della guerra totale pone allora di diritto un'altra tematica, quella della difesa dei diritti dell'uomo, di quelli che poi sono stati definiti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo: a chi attribuire il potere di reprimere i comportamenti contro i diritti dell'uomo, che non può essere lasciato a raggruppamenti di Stati, ma alla creazione di istituzioni sovra-nazionali, dotate di una forza persuasiva tale da poter operare autonomamente rispetto ai singoli Stati nazionali.

La conclusione di questo percorso, che in realtà non è concluso, è la constatazione che le guerre di oggi sono sempre più guerre totali, e lo sono state anche le guerre dopo la Seconda Guerra Mondiale (pensate che soltanto nel conflitto limitato tra Pakistan e India, per il distacco del Pakistan dall'India, ci sono stati due milioni di morti, per non parlare poi della Cambogia, del genocidio in Indonesia, ecc.). Quello che voglio dire è che da queste considerazioni emergono problemi che sono assolutamente non risolti per l'affermazione dei diritti dell'uomo come diritti universali.

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COME SPIEGARE LO STERMINIO DEGLI EBREI

di Michele Battini

Il tema di cui mi devo occupare è naturalmente centrale rispetto alla problematica della Giornata della Memoria. Avrete capito benissimo che il mio titolo contiene un'omissione: manca un punto interrogativo. “Come spiegare lo sterminio degli ebrei?” è una domanda. La storiografia su questo problema si è a lungo interrogata e divisa. Io non farò altro che riproporre il succo delle tesi e delle opere principali e, soprattutto, cercare di rispondere ad un'ulteriore questione, preliminare, forse, alla domanda “Come spiegare lo sterminio degli ebrei?”. Bisogna chiedersi infatti: lo sterminio degli ebrei d'Europa è spiegabile? Si tratta di una questione di dimensioni non soltanto storiografiche, evidentemente. Nell'ambito più limitato della riflessione storica, il primo problema riguarda sostanzialmente come riconsiderare, alla luce della Shoah, la storia dei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo nei secoli precedenti. Come ha detto Yehoshua, lo sterminio ha mutato non soltanto la percezione che gli ebrei avevano avuto della propria storia e del proprio mondo, ma anche la percezione che il resto del mondo ha dell'ebraismo e della presenza degli ebrei nella storia europea. Lo sterminio impone anche una riconsiderazione totalmente diversa del significato del totalitarismo fascista e nazionalsocialista europeo. Non c'è dubbio che la considerazione che noi abbiamo del fascismo dopo il 1945 e la conoscenza della portata dell'impresa nazista è sicuramente diversa da quello che era il giudizio che potevamo dare dei fascismi europei e del nazionalsocialismo tedesco prima del 1945.

Infine la terza questione concerne l’”unicità” dello sterminio degli ebrei e la comparabilità di esso con altri massacri della storia mondiale. Tre questioni che rinviano comunque al dilemma preliminare sulla possibilità stessa di spiegare lo sterminio degli ebrei, che lascio sullo sfondo con la consapevolezza piena dei limiti, non solamente di questa comunicazione, ma della stessa storiografia su questo problema: i limiti di un'interpretazione storica e quindi razionale dello sterminio degli ebrei. Il punto interrogativo della domanda deve essere dunque mantenuto.

L'opera più completa su questa enormità della storia europea del '900 è, come voi sapete, La distruzione degli ebrei d’Europa, di Raul Hilberg, pubblicata da Einaudi nel 1995. Un'opera a cui l'autore ha dedicato più di 50 anni. La sostanza della tesi di Hilberg è che lo sterminio degli ebrei d'Europa, dal 1942 al 1945, certamente il prodotto di una decisione politica degli alti poteri del Terzo Reich, può essere compreso storicamente soltanto se lo si situa all'interno di un contesto storico preciso. E' il contesto degli anni 1942-1945, e degli eventi che caratterizzano la seconda metà della Seconda Guerra Mondiale: in particolare l’impossibilità per i comandi militari tedeschi e per la dirigenza politica del Reich di realizzare i piani di espulsione degli ebrei dall'Europa che erano stati previsti precedentemente.

Il secondo elemento importante è quello della guerra, condotta a partire dal 1941 dal Reich nei territori dell'Europa orientale, in particolare dal giugno del 1941 con la dichiarazione di guerra all'URSS e l'invasione del territorio sovietico: una guerra profondamente diversa da quella condotta ad occidente dal Reich contro la Francia, l'Olanda e altri Paesi invasi. Nella guerra di sterminio nell'Europa orientale intervengono procedure ispirate a criteri politici, e non solamente militari: in particolare i criteri di gerarchizzazione etnica su cui la nuova organizzazione di questi territori si doveva fondare essenzialmente in funzione anti-slava, ma anche antiebraica. L'organizzazione di questi territori si sarebbe ispirata al progetto politico del Lebensraum, lo “spazio vitale”; per la Germania si trattava di un progetto politico caratteristico di molte correnti nazionaliste e pragmatistiche tedesche sin dagli anni della Prima Guerra Mondiale. Consisteva nell’organizzazione imperiale del territorio e nel controllo delle risorse economiche, industriali,

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agricole, energetiche di quelle zone in funzione della realizzazione di uno spazio vitale per l’economia tedesca, che naturalmente veniva concepita come l'economia che avrebbe avuto il ruolo centrale nella nuova organizzazione dell'Europa, nel Nuovo Ordine Europeo.

Tale contesto spiega molto bene, secondo Hilberg, l'esito della politica nei confronti degli ebrei praticata a partire dal 1941. Ciò non significa che questo esito sarebbe stato possibile senza le fasi precedenti della politica tedesca, in particolare senza l'inasprimento continuo che la politica di persecuzione dei diritti degli ebrei aveva conosciuto nei territori sotto controllo diretto dei nazionalsocialisti: in primo luogo, a partire dal 1933, in Germania e successivamente, a partire dal 1938, nell'Austria annessa e poi negli altri territori conquistati dal Reich prima della e con la guerra stessa: i Sudeti, la Cecoslovacchia, la Polonia (il governatorato polacco), i territori balcanici. L'esito dello sterminio non sarebbe stato possibile senza la partecipazione di grande parte delle organizzazioni burocratiche e dell' amministrazione del Reich e dei regimi di collaborazione con i tedeschi nei territori dell'Europa occupata, e anche dei Paesi alleati dell'Asse. Il regime di Vichy in Francia partecipò attivamente con la propria politica di persecuzione dei diritti e poi con l'organizzazione della deportazione. Analogo fu il comportamento delle autorità italiane della RSI dal settembre 1943. La Repubblica Sociale Italiana passò ad una politica di persecuzione attiva, di privazione della cittadinanza e di persecuzione delle vite degli ebrei italiani, in continuità con le scelte precedenti del regime, a partire naturalmente dai provvedimenti di legge del 1938, 1939 e 1942 elaborati con il fine di perseguire i diritti dei cittadini italiani di religione ebraica.

Ci fu un un'escalation, una radicalizzazione del processo di persecuzione che conobbe modalità e procedure simili all'interno della Germania, e successivamente nell'area europea da essa controllata. Il caso dell'Italia è un caso di estremo interesse, perché conduce a sfatare il mito di un fascismo italiano immune dall' antisemitismo: componenti anisemitiche nel fascismo italiano (e nel precedente nazionalismo) vi erano sempre state, seppure minoritarie. Dal 1937 esse divennero più importanti e più evidenti.

Per fissare una prima cronologia importante, le date significative per la costruzione delle premesse dello sterminio degli ebrei sono quelle che vanno dal 1938 al 1942. Nel 1938 c'è già una legislazione operante in buona parte dell'Europa totalitaria o filo-totalitaria, non solo in Germania e in Italia, ma anche in Ungheria e in Austria (anzi, spesso in alcuni di questi Paesi la legislazione è per certi aspetti ancora più radicale di quella dei Paesi fascisti). Dal 1938 nasce la consapevolezza che l’esito finale sarà quello della scomparsa degli ebrei dall'Europa. Non dico “sterminio” ma “scomparsa” degli ebrei dall'Europa, e poi preciserò perché è importante questa distinzione. Sino al 1941 rimarrà impregiudicato lo strumento con cui realizzare tale eliminazione. Probabilmente si pensa all'espulsione e all'emigrazione forzata. Ma nel 1939 c'è un ulteriore e importante passaggio. Una soluzione di sterminio viene praticata nei confronti di una componente della società tedesca, le persone portatrici di handicap e menomate: il Progetto eutanasia, che viene realizzato in continuità con le biopolitiche razziali ispirate a criteri eugenetici insanamente diffusi nella cultura scientifica europea (pratiche di sterilizzazione furono richieste anche in Scandinavia).

In Germania, il Progetto eutanasia sperimentò le procedure di eliminazione fisica. In seguito, alla conferenza tenuta a Berlino nel quartiere residenziale del Wansee, la soluzione obbligata dello sterminio fu per la prima volta proposta anche per tutti gli ebrei d'Europa. Ma già da mesi erano iniziate le fucilazioni in massa degli ebrei polacchi.

Recentemente è stato tradotto in italiano un altro libro che vorrei ricordare (anche perché la sua presentazione è stata organizzata dalla Comunità Ebraica di Pisa in collaborazione con la Provincia): di K. Patzold e E. Schwarz, Ordine del Giorno: sterminio degli ebrei. La conferenza del Wansee del 20 gennaio 1942, un libro pubblicato da poche settimane da Bollati Boringhieri. Si tratta di un testo interessante perché offre documenti originali della discussione tra i dirigenti del Reich. Innanzitutto il verbale, redatto da Eichmann, all'epoca membro della Direzione generale di sicurezza del Reich, dirigente della sezione “Emigrazione ed evacuazione”, responsabile della deportazione degli ebrei tedeschi e del protettorato nei territori del governatorato polacco. Il verbale della conferenza del Wansee documenta come la Direzione generale di sicurezza del Reich fosse

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determinata a organizzare il passaggio dalla persecuzione allo sterminio. Il mandato al capo della Sezione fu dato direttamente da Göring e da Himmler: il verbale documenta dunque esplicitamente come l'input all'intensificazione delle procedure di persecuzione venisse direttamente dai vertici del Reich, in particolare da Göring che, nel luglio 1941, avrebbe autorizzato Eichmann a preparare la “soluzione globale” della questione ebraica.

L'autorizzazione di Göring è il più importante dei documenti di questa prima fase, perché esplicita formalmente che la direzione del Reich, già nel luglio del '41, e quindi prima della conferenza del 1942, si era posta quattro obiettivi: il primo era l'attribuzione del trattamento degli ebrei in Germania e in Europa alla competenza della Direzione generale di sicurezza del Reich; il secondo era che il fine del trattamento fosse l'eliminazione integrale, o la “soluzione globale”, degli ebrei dall'Europa. Ciò significava l'eliminazione in primo luogo dei tre milioni d'ebrei presenti nel territorio del governatorato polacco, tra cui anche gli ebrei tedeschi espulsi dal territorio nazionale e gli ebrei polacchi espulsi dai territori occupati. La prospettiva, a brevissimo termine, era però quella dell'eliminazione di undici milioni d'ebrei presenti su tutto il territorio europeo. Il terzo obiettivo era il coordinamento di tutte le istanze del Reich a questo scopo, e infine l'ultimo era l'organizzazione di un sistema che coinvolgesse i vari livelli della burocrazia e dell'amministrazione dello Stato, per concepire e realizzare lo spostamento di questa massa di popolazione verso i luoghi dove si sarebbe dovuta applicare la soluzione finale. Non c'è quindi in questo documento la decisione formale dello sterminio. E questo è il punto su cui vorrei attirare la vostra attenzione.

Nei documenti non c'è la rivelazione esplicita e non c'è la “svolta sensazionale”. Grazie a ciò, uno storico inglese che è stato imputato in un processo penale in cui è stato condannato per le proprie affermazioni menzognere, David Irving, ha fondato anche sull'assenza in questi documenti di un ordine formale la menzogna che non esistesse l'intenzione ed il progetto di sterminare gli ebrei d'Europa. In molti paesi europei la menzogna che lo sterminio degli ebrei sia stata un'invenzione di una storiografia ideologizzata è stato argomento che ha tenuto banco nelle polemiche pubbliche nel corso degli anni '80 e '90, alimentando un'opinione neonazista. Pensate alla Francia e alle polemiche che un personaggio come Paul Faurisson ha alimentato per anni (Faurisson tra l'altro è un personaggio proveniente dall'ambiente di sinistra). Quindi nei documenti nazisti noi troviamo soltanto la prova di un processo già iniziato, perché nei verbali pubblicati sul libro di Patzold e Schwarz ci sono le cifre del bilancio dell’operazione di polizia che già nel 1941 era stata iniziata soprattutto nei territori del Governatorato. Quando nel gennaio del 1942 si organizza il meccanismo dei campi nei territori dell'est, era già iniziata una procedura di sterminio degli ebrei che aveva utilizzato altre tecniche, in particolare quella delle fucilazioni di massa o dell'uso dei camion a gas.

A mio avviso, la storiografia più accorta ha da tempo cercato di suggerire una spiegazione delle origini dello sterminio degli ebrei non legata alla dimostrazione di una coerenza del percorso politico-ideologico da parte del gruppo dirigente nazionalsocialista, una spiegazione “intenzionalista”. Molti storici hanno insistito su quest'intenzionalità da parte di Hitler, che avrebbe cominciato a concepire il progetto tra il 1920 e il 1925, o addirittura a Vienna prima della Prima Guerra Mondiale. In realtà, l'ossessione antiebraica è un problema importante ed è vero che c'è stata una continuità ideologica nella vicenda nazionalsocialista, prima e dopo l'ascesa al potere, che documenta sicuramente un progetto politico di persecuzione. Però non ci documenta il progetto dello sterminio e il passaggio dalla persecuzione dei diritti allo sterminio. La spiegazione intenzionalista rischia dunque di scontrarsi con l'assenza del documento che dovrebbe contenere un esplicito ordine di sterminio. Non lo troveremo mai, forse, questo documento. Non sono mancate esplicite affermazioni di Hitler; pensate al famoso discorso del gennaio 1939 al Reichstag, ripetuto nel settembre '39 in un delirante comizio: la “profezia” che la guerra avrebbe significato anche la scomparsa degli ebrei dall' Europa. Ma anche questo può essere considerato una spia dell'esistenza di un ordine. I biografi di Hitler hanno illustrato come fosse un tipico atteggiamento di Hitler, molto importante per capire il suo modo di agire, quello di creare le condizioni perché certi processi s'innescassero e far sì che i processi procedessero per proprio conto, secondo una dinamica che era tipica della burocrazia del Reich e anche delle burocrazie preposte all'organizzazione dello

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sterminio. Non una catena di comando lineare dall'alto verso il basso, ma un input da parte del Fuhrer, attraverso illuminazioni (spesso non chiarissime dal punto di vista pratico) che poi le alte sfere traducevano in ordini pratici.

Si trattava di un meccanismo che sottraeva Hitler da una responsabilità diretta e che egli aveva praticato già all'esordio delle persecuzioni nei confronti degli ebrei, nel 1933. Decreti e legislazioni processarono prima di “definire” chi fosse un ebreo, poi giunsero al licenziamento dalla pubblica amministrazione dello Stato, alla soppressione delle imprese, alle imposte sul patrimonio. Nel 1935 seguirono le leggi sul sangue e sulla cittadinanza e nel 1938 ulteriori provvedimenti e ulteriori persecuzioni. Ma in nessuno di questi casi voi trovate un ordine di Hitler esplicito. Trovate semmai un atteggiamento molto attento ai contraccolpi che i provvedimenti più radicali potevano avere sulle classi dirigenti del Reich, in particolare in alcuni settori conservatori che non amavano le radicalizzazioni di certi ambienti nazionalsocialisti. E questa linea di condotta Hitler la mantenne sino alle decisioni fatali del 1942.

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EBREI E ANTISEMITISMO NELL’ITALIA CONTEMPORANEA:

NOTE SULLO STATO DEGLI STUDI1

di Guri Schwarz

La storia degli ebrei e dell’antisemitismo nell’Italia contemporanea è senza dubbio uno degli ambiti della storiografia italiana che ha conosciuto maggiori progressi negli ultimi anni: non solo si è assistito ad un moltiplicarsi delle ricerche, che sino a pochi anni or sono coinvolgevano un esiguo drappello di studiosi, ma si è anche verificato un vero e proprio ribaltamento di tesi storiografiche che parevano ormai consolidate.

Merita di essere sottolineato che la storiografia italiana ha considerato a lungo l’antisemitismo fascista quale elemento sostanzialmente estraneo alla tradizione nazionale, frutto dell’istrionismo mussoliniano e di scelte politiche contingenti; un’ideologia ritenuta del tutto incapace di coinvolgere efficacemente la popolazione. Ne conseguiva che la questione era considerata di poco o nullo interesse e scarsamente studiata. Fino a pochi anni or sono gli studi di un qualche rilievo dedicati a questi temi erano infatti pochissimi; anche gli approfonditi contributi di Renzo de Felice e Meir Michaelis non riuscirono a stimolare interesse ed a creare un clima fecondo per il dibattito e la ricerca. E’ sostanzialmente alla fine degli anni ottanta che la situazione sembra mutare in maniera radicale: da allora studi e ricerche di vario genere si sono andati moltiplicando ad un ritmo impressionante, una grande quantità di ricerche originali sono state condotte. Questa nuova serie di studi ha messo in evidenza come la politica persecutoria sia stata applicata in maniera rigorosa ed efficace in diversi settori della società, ha analizzato le radici culturali del razzismo fascista, ponendo con forza il problema di una revisione delle tesi storiografiche sino ad allora dominanti ed incentrate su di una rappresentazione rassicurante ed autoassolutoria del recente passato.

Si potrebbe identificare nel 1988 – cinquantesimo anniversario delle persecuzioni razziali, anno denso di convegni ed iniziative editoriali – il momento di svolta. Va peraltro notato che la recente revisione storiografica è avvenuta dopo la crisi del “paradigma antifascista”, con il progresso del dibattito storiografico sul consenso al regime, e forse ha risentito anche dell’eco dell’Historikerstreit. Si tratta di questioni chiave che hanno caratterizzato l’evoluzione del clima culturale ed hanno lasciato intravedere nuove prospettive per l’indagine storica sul fascismo, come per la riflessione sull’identità nazionale italiana.

Va segnalato però che la svolta ha riguardato principalmente gli studi dedicati all’antisemitismo fascista: è stato sicuramente questo il polo d’attrazione principale attorno al quale si sono andate disponendo le nuove schiere di studi. Molto inferiore è – e continua ad essere – l’attenzione prestata alla storia degli ebrei italiani. Si è ancora ad uno stadio arretratissimo per quanto riguarda la storia sociale della minoranza ebraica, mentre è stata studiata maggiormente ma ancora in modo insufficiente la storia delle istituzioni e delle classi dirigenti dell’ebraismo italiano. Le ricerche dedicate agli ebrei nel Risorgimento e nell’età liberale sono ancora, nonostante i sia pure significativi sviluppi conosciuti di recente, in uno stato di eccezionale arretratezza. Mentre le ricerche sul secondo dopoguerra, gli studi volti a ricostruire le conseguenze durevoli della campagna persecutoria e l’evoluzione del rapporto della società italiana con la minoranza ebraica sono ancora allo stadio ricognitivo. Soltanto per quanto riguarda il periodo fascista vi è una maggiore quantità di ricerche ed un maggiore grado di approfondimento delle vicende interne all’ebraismo italiano. 1 Questo intervento è una versione leggermente rielaborata del contributo apparso su «Normale. Bollettino dell’Associazione Normalisti», a. III, n. 2, ottobre 2000, pp. 6-8.

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Con il risveglio di interesse registrato in anni recenti per queste tematiche, in assenza di una radicata tradizione di studi, si è assistito ad un moltiplicarsi, spesso disordinato, di percorsi di ricerca. E’ sicuramente d’aiuto per chi voglia orientarsi in questo magmatico ribollire di pubblicazioni il recente saggio di Michele Sarfatti, Gli ebrei nell'Italia fascista. Vicende, identità e persecuzione. Si tratta di un’opera di sintesi critica ed originale che domina con sicurezza una mole notevole di materiale archivistico e bibliografico e rappresenta sicuramente un importante passo avanti rispetto all’unica opera confrontabile, per ampiezza e scelta dei temi, ovvero la defeliciana Storia degli ebrei in Italia sotto il fascismo. L’importante contributo di Sarfatti fornisce una serie di riferimenti importanti per orientarsi ed inoltre suggerisce alcuni stimolanti spunti di riflessione sul processo politico attraverso il quale l’Italia di Mussolini arrivò alla legislazione razziale, un processo le cui origini politiche sono studiate concentrandosi sul rapporto tra l’ebraismo italiano, o meglio la sua classe dirigente, ed il regime. Purtroppo anche in quest’opera risulta predominante l’attenzione alla storia della persecuzione rispetto alla storia degli ebrei; d’altra parte ritengo si possa affermare che essa chiude una fase degli studi che si può considerare pionieristica, contrassegnata da un grande fermento, e talvolta anche da una notevole confusione. Fornendo una serie di punti di riferimento chiari e ponendo con forza il problema del rapporto tra il regime ed i “suoi ebrei”, il volume appare destinato a stimolare nuovi studi.

In relazione a queste tematiche si riscontra a tutt’oggi una notevole vivacità storiografica: superata la stagione movimentata, intensa e per taluni aspetti rivoluzionaria degli studi incominciata oltre dieci anni fa, sembra di veder profilarsi all’orizzonte, con il moltiplicarsi dei giovani studiosi attratti da tali questioni, ed in un contesto di maggiore chiarezza, un periodo di studi più ordinato e che si prefigura promettente.

BIBLIOGRAFIA Corrado Vivanti (a cura di), Gli ebrei in Italia, in Storia d'Italia, Annali, n. 11, 2 vol, Einaudi, Torino 1997. Questi due volumi costituiscono certamente un importante punto di partenza per chi sia interessato a studiare la vita ebraica e l'antisemitismo nella storia d'Italia. Per orientarsi nel dibattito storiografico sull'antisemitismo fascista è d'obbligo partire dagli studi oramai classici, anche se per molti versi superati, di Meir Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, Edizioni di Comunità, Roma 1982 e di R. De Felice, Storia degli ebrei in Italia sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1993 (ed. or 1961 con prefazione di Delio Cantimori). Rispetto a questi volumi rappresenta un notevole passo in avanti l'approfondito studio di Michele Sarfatti, Gli ebrei nell'Italia fascista. Vicende, identità e persecuzione, Einaudi, Torino 2000. Per quanto riguarda l'elaborazione della normativa persecutoria si veda inoltre, dello stesso autore, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell'elaborazione delle leggi del 1938, Zamorani, Torino 1994. Sull'applicazione della legislazione antisemita cfr. la ricostruzione dedicata alla provincia di Torino da Fabio Levi (a cura di), L'ebreo in oggetto. L’applicazione della normativa antiebraica a Torino (1938-1943), Zamorani, Torino 1993; per quanto riguarda in particolare la sottrazione dei beni vedi Id. Le case e le cose. La persecuzione degli ebrei torinesi nelle carte dell’EGELI 1938-1945, Compagnia San Paolo, Torino 1998. Recenti studi hanno inoltre messo in evidenza come la svolta razzista non fosse priva di radici nell'ambito della cultura italiana. In questo senso rimando a R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999. In merito agli effetti della politica razzista sul mondo della cultura si vedano, per quanto riguarda il mondo universitario, A. Ventura, La persecuzione fascista contro gli ebrei nell’Università italiana, in “Rivista Storica Italiana”, n. 1, 1997, pp. 121-197; R. Finzi, L’Università italiana e le leggi antiebraiche, Roma 1997.

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E' dedicato invece all'editoria lo studio di G. Fabre, L'elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino 1998. Sul dopoguerra ed i problemi relativi alla reintegrazione la produzione è molto più scarsa. Si vedano in proposito, M. Sarfatti (a cura di), Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, La Giuntina, Firenze 1999 e per un'analisi del processo di abrogazione delle leggi razziali M. Toscano (a cura di), L'abrograzione delle leggi razziali in Italia, prefazione di G. Spadolini, Servizio Studi del Senato della Repubblica, Roma 1988.

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PERSECUZIONE E REINTEGRAZIONE:

IL PROBLEMA DEI BENI CONFISCATI AGLI EBREI

di Ilaria Pavan

Il problema dei beni sequestrati e poi confiscati agli ebrei durante i sette anni della persecuzione, ed il conseguente problema della restituzione dei beni ai loro legittimi proprietari nel secondo dopoguerra, è un tema che la storiografia italiana non ha sicuramente affrontato in maniera esauriente e completa fino ad ora. Come ha detto Schwarz, siamo in un momento di grande e nuova produzione da questo punto di vista e quindi, finalmente, anche questo tema si sta affacciando. Ma non siamo finora in grado di avere un quadro generale e quindi di dire che cosa sia effettivamente successo a livello nazionale, di quantificare quanti ebrei furono colpiti da questo tipo di provvedimenti. Quando parlo di ebrei, non mi riferisco soltanto a quelli italiani che al momento dell'emanazione delle leggi erano circa 48.000, secondo il dati del censimento del '38, ma anche ai 10.000 ebrei stranieri che nell'estate del '38 risultavano essere residenti sul territorio italiano e quindi furono colpiti, come quelli italiani, da questi provvedimenti. Si tratta di un fenomeno che ha investito una comunità estremamente ampia di persone, perchè anche gli stranieri, prima di lasciare il territorio come le leggi prevedevano, dovevano lasciare tutti i loro beni.

Se si eccettuano i pochi studi dedicati a singoli casi, o singole persone o piccole comunità, l'unica ricerca completa che si può citare e che riguardi questo argomento, probabilmente è quella edita due anni fa da Fabio Levi, che si è occupato di descrivere l'applicazione della normativa antiebraica nei riguardi degli immobili a Torino, seguendone l'evoluzione dal '38 fino al momento della loro restituzione nel dopoguerra. Ci sono naturalmente delle cause, delle spiegazioni molto concrete, oggettive, che spiegano questa mancanza di studi su questo tema per così tanti anni. La prima spiegazione è quella legata alle fonti: si tratta di una pluralità di fonti veramente sterminata. Essendo scomparsi tutti i documenti dei Ministeri delle Corporazioni, delle Finanze e dell'Interno che gestirono l'esproprio dei beni ebraici, non si ha modo di verificare all'Archivio Centrale dello Stato, quindi al centro, come è avvenuta la persecuzione dei beni; bisogna inevitabilmente andare alla periferia. Non c'è Archivio di Stato, né della Camera di Commercio, né di Tribunali, né archivi notarili che non conservino montagne di carte su questo argomento. E’ quindi ovvio che riunirle, fare una storia a livello nazionale di quello che è successo, è estremamente difficoltoso proprio in termini materiali, pratici.

Legato al problema delle fonti c'è anche il problema della loro consultazione, perchè entrare nell'archivio di una banca è cosa assai complicata e, anche quando ci si entra, si ha a che fare con la legge che tutela la consultazione dei conti personali e che impone che queste fonti non possano essere viste, se non dopo 70 anni dalla morte del personaggio su cui si intende fare ricerche. Sicuramente, poi, c'è anche il problema, non così concreto e oggettivo, ma certamente delicato e per certi versi ancora attuale delle assicurazioni, se si pensa alle polemiche recentissime comparse anche questa estate sui giornali. Voi sapete che c'è un'organizzazione statunitense che sta curando, per tutti gli ebrei che a lei si rivolgono, la riscossione di polizze-vita mai concesse dalle assicurazioni. Anche in Italia sia le Generali che la RAS sono impegnate attualmente nel risarcire tutta una serie di polizze che furono accese da perseguitati poi morti in deportazioni e mai risarcite. E’ un tema molto controverso, delicato e che suscita continue polemiche.

Comunque sia, da qualche anno su questo argomento sono in corso nuovi studi, grazie anche all'interessamento dei governi europei, perchè da circa 3-4 anni in molti Paesi europei sono attive delle commissioni costituite a livello governativo, che hanno lo scopo di fare finalmente chiarezza su questo fenomeno e di arrivare a quantificare i beni espropriati, a vedere come è stata applicata la

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normativa antisemita. Alcune commissioni hanno già terminato i loro lavori: quella norvegese, quella svizzera, che ha prodotto due consistenti volumi, uno sul tema dell'oro (perchè chiaramente la Svizzera era il tramite per i beni di molti rifugiati) e anche la commissione francese, che questa estate ha pubblicato ben 11 volumi. Questo per darvi l'idea della quantità di materiale che occorre raccogliere per poter avere il quadro della situazione. La commissione francese, per farvi un esempio, è riuscita a quantificare, conteggiando tutti i tipi di beni sequestrati, l'ammontare delle espropriazioni, che in cifre attuali sono circa 9 miliardi di franchi. La cosa forse storiograficamente più importante che la commissione ha stabilito è che comunque il 95% di questi beni furono restituiti nel dopoguerra, e quindi ha posto la parola fine a questo processo.

In Italia, dal febbraio '99 è attiva un'analoga commissione, patrocinata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: si chiama Commissione Anselmi, dal nome di Tina Anselmi che la presiede, e lavorano sul tema alcuni storici. Dovrebbe terminare i suoi lavori nel marzo del 2001 e quindi pubblicare una relazione conclusiva. Entro quindi la primavera del 2001, anche per quanto riguarda la situazione italiana, dovremmo essere in grado di avere un quadro più chiaro e di quantificare e spiegare quello che è successo.

Se pure molte domande sono ancora in attesa della risposta definitiva, ci sono comunque alcuni aspetti della persecuzione dei beni che sono ormai oggi completamente chiariti. In particolare tutto ciò che riguarda il livello normativo della legislazione antiebraica in materia di beni. Dobbiamo questo soprattutto agli studi condotti negli ultimi anni da Michele Sarfatti, in particolare nel volume Mussolini contro gli ebrei, che studia la genesi della normativa fascista in materia antiebraica; poi l'ultimo volume, sempre di Michele Sarfatti, di quest'inverno, pubblicato da Einaudi, che amplia moltissimo il precedente.

In materia economica, le leggi ed i decreti-legge che vanno ricordati, perché rappresentano le tappe della persecuzione degli ebrei italiani, sono fondamentalmente tre. Già leggendo queste norme si ha la conferma di quanto è stato detto fino ad ora, cioè che alcune tesi sono state completamente sfatate. Se noi leggiamo la normativa fascista e la normativa nazista, mettendole specularmente a confronto - e parlo di materia strettamente economica e quindi di beni - i due testi sono praticamente identici. Non si può certo definire blanda la normativa nazista, ma non si può neppure fare altrettanto per quella fascista perché, ripeto, quei testi sembrano l'uno la copia dell'altro. Il primo decreto in materia economica per i beni degli ebrei fu quello del novembre 1938, seguiva quindi di soli due mesi l'emanazione dei primi provvedimenti relativi alla scuola. Fu integrato e ampliato da un secondo decreto del febbraio 1939. Questi due decreti costituiscono la base della legislazione in materia di beni. Cosa prevedevano? Prevedevano che nessun ebreo potesse essere proprietario o gestore a qualsiasi livello di aziende commerciali ed industriali che avessero più di 100 operai, o fossero interessanti la difesa nazionale. Quindi qualsiasi socio di una S.r.l. o di una S.n.c. che veniva reputato di razza ebraica doveva essere allontanato di ufficio dalla sua condizione, così come dalle amministrazioni o dalla dirigenza delle società. Le aziende potevano essere autodenunciate dai singoli ebrei al Ministero delle Corporazioni, che prevedeva la nomina di un commissario liquidatore, che quindi prendeva il controllo dell'azienda fino a che questa non veniva venduta ad un ariano. Questo per quanto riguarda i beni industriali e commerciali.

Gli ebrei, poi, non potevano possedere terreni che avessero un estimo catastale superiore alle 5.000 lire, o immobili che avessero un'imponibile superiore alle 20.000 lire. Partivano, sempre dopo l'autodenuncia dei singoli proprietari, le rilevazioni dell'ufficio tecnico erariale, quindi dei catasti e delle intendenze di finanza. Si metteva in moto una complicatissima e lunghissima macchina burocratica che arrivava a stimare per ogni singolo ebreo i relativi beni; la quota che veniva definita eccedente, cioè quella che superava gli imponibili consentiti, veniva sequestrata e praticamente passava sotto la tutela dello Stato, che avrebbe poi provveduto a rivenderla. Era stato creato a questo fine, nell'inverno del 1939, un ente apposito che dipendeva dal Ministero delle Finanze: l’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare, denominato EGELI, che aveva il compito di amministrare temporaneamente, in vista della successiva vendita ad altri proprietari, tutti i beni

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degli ebrei. Fortunatamente le carte di questo ente si sono conservate e quindi, sulla base dei documenti dell'EGELI, saremo in grado di ricostruire quanti beni passarono sotto la sua amministrazione e se poi furono venduti o meno.

E' significativo che l'EGELI non fu affatto sciolto con il '45, come si potrebbe legittimamente pensare. L'ente fu sciolto solo all'inizio degli anni '60; questo indica chiaramente come la persecuzione, in particolare quella dei beni, non si interruppe con il '45, ma andò avanti per molti anni, innescando cause e ricorsi, una storia lunga.

Dopo i decreti del '38 e del '39, praticamente sulla loro base si svolgono i primi cinque anni della persecuzione, fino al '43; c'è poi lo spartiacque del '43, l'8 settembre, con la costituzione della Repubblica di Salò, e nel gennaio del '44 abbiamo il nuovo decreto del Duce, che radicalizza ed estremizza le posizioni finora assunte. Oltre a stabilire l'arresto e l'internamento di tutti gli ebrei italiani e stranieri, questo decreto prevede l'immediata confisca, non più il sequestro ma la confisca, di tutti i beni degli ebrei. Quando dico tutti, intendo proprio tutti: dai titoli azionari alle obbligazioni, all'apertura delle cassette di sicurezza, ai conti correnti, al mobilio, ai terreni, alle aziende e qualsiasi altra cosa. Vengono quindi emessi nei due anni successivi qualcosa come 8.000 decreti di confisca, tutti intestati ai singoli nominativi. Anche questi fascicoli fortunatamente sono arrivati fino a noi e sono conservati nell'Archivio Centrale dello Stato, nel fondo del Ministero delle Finanze, in un'apposita sezione definita Servizio Beni Ebraici. Sono 8.000 decreti di confisca che, una volta che saranno tutti studiati (attualmente è in corso l'elaborazione di una banca-dati che dovrebbe renderli noti), ci potranno consentire di sapere quanti beni furono effettivamente sottratti.

L'EGELI, l’ente che gestiva questi beni, nel settembre del '45 emette la circolare che dà inizio al processo di reintegrazione dei beni sequestrati. Questo processo inizia quindi da subito, anche sulla base di una normativa che in realtà era stata già emanata nell'inverno del '44. Il primo provvedimento a favore della reintegrazione dei diritti politici, civili e patrimoniali degli ebrei italiani è infatti del gennaio '44, durante il governo Badoglio. Ma la delicatezza del problema legato ai beni si chiarisce subito, perchè si rimanda l'applicazione di questa legge a quando termineranno le ostilità con la Germania. Quindi, anche se ufficialmente doveva cominciare la reintegrazione dei beni già dal gennaio '44, questa venne poi posticipata.

Le leggi per la reintegrazione dei beni costituiscono un corpus estremamente ragguardevole, proprio numericamente, anche se la produzione più consistente è quella relativa al triennio precostituzionale, dal '44 al '47, quando viene emanata la maggior parte delle leggi che poi entreranno in vigore.

Come ho detto prima, non siamo ancora in grado di dire se l'EGELI abbia restituito tutto o meno, questa è una cosa che deve essere verificata. Però siamo in grado di seguire i processi che nel dopoguerra molti ebrei italiani intentarono alla Magistratura repubblicana per rientrare in possesso di alcuni beni. Valutando un'arco cronologico di circa 20 anni, dal '45 al '65 più o meno, si può verificare quale fu il comportamento della Magistratura repubblicana in materia di restituzione dei beni agli ebrei. Anche in questo campo gli studi non sono moltissimi, si tratta di 3-4 articoli; ma è abbastanza consolidata la convinzione che le resistenze opposte dall'apparato statale nel dopoguerra alla riaffermazione dei diritti sul patrimonio degli ebrei furono molto più consistenti a livello giurisprudenziale che non a livello legislativo. In genere la legislazione esisteva, era chiara, ma fu applicata in maniera estremamente restrittiva dalla Magistratura italiana, in particolare dall'Alta Magistratura: quindi dalle Corti di Appello e soprattutto dalla Corte di Cassazione. Nel 64% dei casi infatti i processi intentati dagli ex-perseguitati si conclusero con un verdetto sfavorevole e c'è il fondato dubbio che, per ragioni legate all'età, alla classe sociale, alla formazione culturale, la Magistratura repubblicana che interviene nel dopoguerra sia stata poco sensibile ai valori della Costituzione.

Di questi processi è anche interessante sottolineare un altro aspetto. Nella maggioranza dei casi, circa il 50%, gli ebrei si rivolsero alla Magistratura per rientrare in possesso di beni che erano stati venduti tra il '38 e il '43, cioè che ufficialmente non erano stati espropriati o confiscati dallo Stato, ma che loro stessi avevano provveduto a vendere, magari con clausole che prevedevano una

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loro restituzione quando la guerra fosse finita. Comunque furono venduti sottocosto, in maniera chiaramente frettolosa e svantaggiosa; quindi i proprietari ebrei ricorsero alla Magistratura per chiedere l'annullamento di questi contratti. Ma quasi sempre la Magistratura diede loro torto perché, da un punto di vista formale, questi contratti non avevano nulla di eccepibile. Sarà molto difficile valutare quanti beni furono venduti in questo modo tra il '38 ed il '43. Oltre alle confische ed ai sequestri operati dallo Stato e dall'EGELI, ci fu quindi anche questo trasferimento di ricchezza che fu una componente importante dei processi e dell'applicazione delle leggi razziali in materia di beni e che con molta difficoltà potrà essere ricostruito nel suo complesso.

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PROBLEMATICHE DELLA CONTINUITÀ DELLO STATO

di Francesca Pelini

1. Sul concetto di continuità “Gli storici, a cominciare da Tocqueville, ci hanno insegnato come, in ogni crisi

rivoluzionaria, grande o piccola, e nei suoi esiti finali, gli elementi di novità, di discontinuità, di rottura, si mescolano - in diversa misura, a seconda dell’impeto e delle forze in gioco - con quelli della continuità e della sopravvivenza del passato.”1

Neppure l’esperienza della resistenza e della guerra civile può sottrarsi a questo statuto impuro, a questa natura contraddittoria, in bilico tra conti con il passato e senso del futuro, quel “senso della vita come qualcosa che può ricominciare da capo”, descritto da Italo Calvino nell’introduzione alla ristampa del 1964 del Sentiero dei nidi di ragno2.

Alla resistenza non può essere negato il valore di nodo periodizzante della storia dello stato italiano. Questo non toglie che la transizione dal fascismo alla democrazia abbia costituito un processo complicato e doloroso, dai costi, così pubblici come privati, enormi. Lo scriveva Luciano Bolis nella sua autobiografia, parlando di una liberazione costata un “cumulo di valori, in sangue, terrore e attese”3.

Compito dello storico è proprio quello di misurare con equilibrio l’intreccio di persistenze e fratture, evitando il pericolo di cadere nell’enfasi dell’innovazione o, sul versante opposto, di appiattire processi altrimenti mossi sotto il segno della continuità.

È mio proponimento, in questa relazione, di affrontare il tema della continuità dello stato, disarticolandolo nei suoi due aspetti costitutivi: la continuità istituzionale, con la restaurazione degli apparati democratici di tipo liberale, e la continuità degli uomini, frutto del fallimento dell’epurazione dei fascisti e della reintegrazione delle minoranze, come quella ebraica, perseguitate durante il ventennio.

2. La continuità istituzionale Il colpo di stato del 25 luglio 1943 non scriveva automaticamente la parola fine ad una

ventennale dittatura. Sacrificato il suo rappresentante più scomodo e appariscente, la monarchia e i quadri dirigenti dello Stato continuavano a credere nella possibilità di un “fascismo senza Mussolini”. Il decreto 2 agosto ‘43 parlava chiaro, laddove, come minimum, predisponeva lo scioglimento del Gran Consiglio del Fascismo e riesumava la Camera dei deputati, mantenendo però in vita un Senato di nomina regia, fascistizzato al punto da meritare, da parte dell’indignato Croce, l’appellativo di “lurido”.

L’immobilismo del governo badogliano non sapeva rispondere all’aspettativa, realmente diffusa sul territorio italiano, di un cambiamento visibile.

1 A. Galante Garrone, Il mite giacobino. Conversazione su libertà e democrazia raccolta da Paolo Borgna, Roma, Donzelli, 1994, p. 24. 2 I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Milano, 1964, p. 7. 3 L. Bolis, Il mio granello di sabbia, Einaudi, Torino, 1946, p. 4.

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“C’era un moto generale di rivolta - racconta il giovane ed entusiasta protagonista dei Piccoli maestri - un no radicale, veramente spazientito. Ce l’avevano contro la guerra e implicitamente, confusamente, contro il sistema che prima l’aveva voluta cominciare, e poi l’aveva grottescamente perduta per forfè. Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l’intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni: c’era un po’ di antifascismo esplicito e tecnico (non molto), un po’ di rabbia verso i tedeschi spaccatutto, un po’ di patriottismo popolare, e una bella dose dell’eterno particulare italiano, gli interessi locali, parrocchiali. Ma l’anima di questi tropismi era nell’idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d’occhio. Gli istituti non c’erano più, li avremmo potuti rifare noi, di sana pianta; era ora.”

E ancora, quando, con il senno di poi, lo stesso protagonista riguarda a quei giorni e al loro

clima irripetibile, non sa perdonarsi di non aver sfruttato, insieme ai suoi compagni, le potenzialità di quella situazione. Colpa dell’impreparazione politica e della lacunosa conoscenza di Mazzini che sull’organizzazione delle bande aveva già scritto tutto il necessario:

“Bastava aver studiato i testi giusti, essere un po’ meno ignoranti. Si doveva proclamare

l’insurrezione, subito. Non la resistenza, ma l’insurrezione: il fondo della situazione, la sua carica esplosiva era politica, non convenzionalmente militare. Bisognava impostare subito una guerra politica e popolare, non una resistenza generale e attesistica; agire, non prepararsi. Bisognava dire: andiamo giù in paese, stasera, ora. Chiamiamo la gente in piazza, suoniamo il tamburo, esponiamo le bandiere, i ritratti: possiamo esporre insieme i ritratti del Re, del Papa e di Lenin; tutto il mondo è con noi. Gridiamo: viva i Sovieti! Viva Gesù Eucarestia! Il resto s’inventa da sé. Era un niente, in quei giorni, avviare la rivoluzione, l’Alto Vicentino avrebbe preso fuoco in poche ore. Bastava pensarci. Se c’è un comitato nell’aldilà, che giudica e registra i meriti patriottici, questa non ce la perdoneranno mai. Naturalmente ci avrebbero presto sterminati, almeno la prima infornata, e poi anche la seconda e la terza. Ma almeno l’Italia avrebbe provato il gusto di ciò che deve voler dire rinnovarsi a fondo, e le nostre lapidi sarebbero oggi onorate da una nazione veramente migliore.” 1

In queste pagine, scritte da Meneghello a distanza di anni dall’esperienza resistenziale, la

rivoluzione sembra inseguita quasi come uno sfizio. Ma, fra le righe del distacco ironico assunto dall’autore, il lettore riesce comunque a cogliere quell’oscillazione confusa tra i bagliori dell’utopia e i suoi frantumi tipica degli anni tra il ’43 e il ‘45. La sensazione di una rivoluzione a portata di mano, seppure riempita di contenuti diversi, era in quel momento largamente condivisa da intellettuali e masse. Nel maggio ‘44, l’azionista Franco Venturi scriveva al più perplesso compagno di partito Manlio Rossi Doria:

“La situazione è ben più rivoluzionaria di quanto molti di voi mi pare che pensino e la

rinascita è anch’essa seria. Non voglio sopravvalutarla, ma ti assicuro che la base reale degli scioperi, delle bande, delle lotte qui non potrà più riassorbirsi in una politica di manovra con il vecchio Stato, ma presto o tardi entrerà in vero e profondo contrasto con essa.”2

Fautore di un profondo rinnovamento istituzionale, già disegnato a grandi linee nei “Sette

punti”, documento programmatico risalente al maggio ’42, era proprio il Partito d’Azione, alcuni mesi prima della liberazione, a coinvolgere gli altri partiti in una riflessione sul tema dello Stato.

1 L. Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, Milano, 1986, p. 33 e pp. 42 B 43. 2 Missiva del 24 maggio 1944, riportata da G. De Luna, Storia del Partito d’Azione 1942 – 1947, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 163.

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Avviando, nel novembre ‘44, uno scambio epistolare tra le segreterie passato poi alla storia con il nome di dibattito delle cinque lettere.

2.1 Il dibattito delle cinque lettere: teoria e prassi del governo dei Cln Nella “lettera aperta” inviata a comunisti, socialisti, democristiani e liberali, gli azionisti

ribadivano con forza che compito della resistenza, oltre alla guerra patriottica contro i tedeschi e civile contro i repubblichini, era di superare il vecchio sistema parlamentare e centralizzato dell’Italia liberale, promuovendo la partecipazione popolare alle scelte politiche. Il documento individuava nella collaborazione tra Cln ed organizzazioni di massa (sindacali, femminili, giovanili) la struttura portante del nascente edificio democratico. La formula da una parte sapeva pensare in modo innovativo il rapporto tra governo e popolo, dall’altra tentava di sottrarre i Cln a quel processo sclerotico che invece puntualmente si verificò: ovvero la loro riduzione a pentapartiti in miniatura, anchilosati da interessi di parte, operativamente rallentati dalla regola della unanimità, legati ad una contingenza e per questo limitati nel tempo. Nella loro pronta risposta, i comunisti dichiaravano di condividere la linea proposta dal Pda:

“La realtà è che il CLN deve rispondere a un’esigenza democratica e nazionale ben

superiore a quella di ogni coalizione di partito (…). E l’azione del popolo, di cui il CLNAI vuole essere la superiore espressione di lotta dell’Italia occupata, è una necessità per compiti che si allargano ben oltre quelli attuali della guerra di liberazione, all’opera di ricostruzione e di rinnovamento democratico del paese.”1

Il documento, tuttavia, finiva per subordinare la riforma dei comitati alle “esigenze delle

masse” e al non esplicitamente menzionato primato del partito, rinunciando ad elaborare un progetto statuale coerente e coraggioso. Nonostante il loro leader Nenni avesse lanciato, ricalcando quello sovietico, lo slogan “Tutto il potere ai Cln!”, neppure i socialisti sapevano collocarsi in una dimensione progettuale, chiudendosi nella polemica contro la crisi romana e l’esclusione dal secondo governo Bonomi. Come previsto, la DC si arroccò nella tetragona difesa dei partiti e della loro individualità, scorgendo nel prolungamento dell’esperienza dei comitati il rischio della “creazione di una specie di partito unico”, con la conseguenza di una situazione di “caos politico o di un nuovo dominio totalitario”2. La lettera rivelava poi una profonda fiducia nel sistema statuale prefascista, da sottoporre a riforma ma da mantenere nelle sue nervature, e nei meccanismi elettorali liberali, strumenti autenticamente democratici di misurazione e di raccolta del consenso. Fu il Partito Liberale, infine, nel febbraio ’45, a mettere la ciliegina sulla torta della restaurazione conservatrice, elogiando il passato e arrivando a criticare, nel proprio intervento, l’assenza, nei Cln, dell’idea di una rappresentanza dei datori di lavoro.

Fin qui la riflessione teorica, attestazione di un confuso bisogno, avvertito dalle forze politiche con diverse gradazioni, di progettazione per il futuro. Di fatto, tuttavia, i Cln non riuscirono mai a costituire una reale e autonoma rete di contropoteri. L’origine della loro decadenza si annidava proprio in quella delega di poteri, concessa, nel dicembre ‘44, dal governo di Roma al Clnai. Il risultato della legittimazione politica conteneva infatti, in nuce, il suggello di un rapporto di dipendenza e il diniego di ogni ipotesi di autonomia. I poteri trasmessi si rivelarono, come aveva correttamente previsto il socialista Morandi, “a tasso d’usura”. Un’usura che avrebbe progressivamente corroso i comitati, riducendoli da potenziali centri alternativi di potere a deboli coalizioni di partiti, svuotandoli del proprio segno politico nel corso del secondo governo Bonomi, portandoli infine ad un irreparabile e rapido declino durante il governo Parri, che pure sembrava rappresentare l’espressione più diretta e immediata del movimento resistenziale. 1 Stralcio della risposta del PCI, datata 26 novembre 1944, citato da R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1970, III edizione, p. 594. 2 Lettera del 12 gennaio 1945, riportata, non integralmente, da R. Battaglia, cit., a p. 601.

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3. La continuità degli uomini 3.1. Responsabilità e punizioni L’epurazione, scrive Claudio Pavone, “si colloca nel punto di congiunzione fra un passato da

rinnegare e punire, ma anche da comprendere, e un futuro da tutelare contro ogni nuovo rischio di tipo fascista”1. Nonostante costituisca un importante nodo della storia politica italiana, soltanto da pochi anni la vicenda della defascistizzazione ha saputo uscire dal fitto cono d’ombra che la avvolgeva e tornare alla ribalta dell’interesse storiografico, come attesta il numero delle recenti pubblicazioni dedicatele2.

È bene anticiparlo da subito, pur sapendo di violare la regola romanzesca della suspence: l’operazione di pulizia politica, concepita ai fini di una risolutiva resa dei conti con il regime dittatoriale e di una rinascita democratica del paese, dopo avere arrancato per circa due anni, fallì, sacrificata, come ben sappiamo, alle ragioni politiche della continuità dello stato e a quelle psicologiche della volontà di normalizzazione e pacificazione.

Non dobbiamo però cadere nell’errore di risolvere un processo complesso e frastagliato nell’unico segno del suo poco edificante esito finale. Né, con il freddo distacco consentitoci dalla distanza temporale, risolverlo sub specie di una semplice amputazione, fallita soltanto a causa della negligenza, deliberata o distratta, del chirurgo. Esistono attenuanti che è opportuno concedere a coloro, e non furono pochi, che si videro impegnati su questo fronte.

“C’era peraltro un problema unico - ammonisce sempre Pavone - quello del fondamento

stesso del trattamento punitivo che si intendeva infliggere ai fascisti, problema che rinviava a sua volta al giudizio da dare del fascismo. Si trattava insomma di rispondere alle domande: chi sono i colpevoli? E qual è la ratio dei provvedimenti da adottare nei loro confronti? La risposta da una parte non poteva essere univoca, dall’altra era tutt’altro che facile tradurne la sostanza storico - politica in termini giuridici”.3

Il tema della responsabilità appare centrale nel dibattito dell’epoca. Le riflessioni di politici

e intellettuali disegnavano un ampio arco di possibilità che oscillava tra i poli del colpevole unico, nella lectio facilior offerta da Churchill, e di una complicità diffusa, secondo la formula gobettiana del fascismo come autobiografia degli italiani. Croce sembrava abbracciare proprio questa seconda ipotesi proponendo una condanna generalizzata, da cui però aveva preventivamente cura di risparmiare l’aristocrazia intellettuale dei pochi spiriti eletti capace di non cadere nella trappola della retorica del regime.

1 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 562. 2 Mi limito qui a ricordare, per un primo orientamento, alcuni studi sull’argomento: M. Flores, L’epurazione, in L’Italia dalla liberazione alla repubblica. Atti del Convegno internazionale organizzato a Firenze il 26 - 28 marzo 1976 con il concorso della regione Toscana, Milano, Feltrinelli, 1977; AAVV, Epurazione e stampa di partito (1943 – 46), Edizioni Scientifiche italiane, 1982; D. Mengozzi, L’epurazione nella città del Duce (1943 - 1948), Roma, Quaderni della FIAP, 1983; L. Mercuri, L’epurazione in Italia 1943 - 48, Cuneo, L’Arciere, 1988; C. Pavone, Alle origini della repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995; M. Storchi, Uscire dalla guerra. Ordine pubblico e forze politiche. Modena 1945 – 46, Milano, Insmli – Franco Angeli, 1995; D. Roy Palmer, Processo ai fascisti. 1943 - 48: storia di un’epurazione che non c’è stata, Milano, Rizzoli, 1996; H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1945 - 48, Bologna, Il Mulino, 1997; Processi ai fascisti 1945 - 47, in “Venetica. Annuario di storia delle Venezie”, 1998, n. 1 (terza serie); R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943 - 48, Milano, Baldini e Castoldi, 1999; M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 1999. 3 C. Pavone, La continuità dello Stato, cit., pp. 123 - 124.

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“Ma egli - scriveva riferendosi a Mussolini, in aperta polemica con la versione assolutoria firmata dal capo di stato inglese - chiamato a rispondere del danno e dell’onta in cui ha gettato l’Italia con le sue parole e con la sua azione e con tutte le sue arti di sopraffazione e di corruzione, potrebbe rispondere agli italiani come quello sciagurato capo popolo di Firenze, di cui parla Giovanni Villani che rispose ai suoi compagni di esilio che gli rinfacciavano di averli condotti al disastro di Montaperti: ‘E voi, perché mi avete creduto?’”1.

3.2. Resistenze della burocrazia e della magistratura Il problema delle responsabilità, di uno, di tutti o di pochi, e delle punizioni ad esse collegate

- ampio ventaglio che si dispiegava fra le ipotesi di una generale sanatoria e quelle di un giudizio più sfumato, misurato con i criteri della compromissione morale, della militanza politica o addirittura, nelle ipotesi più radicali, dell’appartenenza di classe - per quanto avvincente, e ancora oggi lontano da una risposta esauriente e definitiva, non era neppure l’unico da affrontare.

L’epurazione, consegnata ad una norma mal congegnata e spesso ambigua, doveva scontrarsi, sul terreno materiale dell’applicazione, con rocciose resistenze di apparato. Nel suo doppio aspetto di punizione dei delitti fascisti e di eliminazione dei fascisti dai reparti statali e parastatali, nella sua natura sdoppiata, sul piano penale ed amministrativo, di dispositivo risanatore, l’epurazione scontava la tendenziosità interpretativa di una magistratura non previamente ripulita e le vischiosità di una burocrazia fedele a se stessa e a un’ideologia di stretta matrice corporativa.

Sul ruolo giocato dalla burocrazia nell’insabbiamento della defascistizzazione, l’Alto Commissario Scoccimarro non si ingannava. Nel novembre ‘44, in una famosa intervista rilasciata all’”Avanti!”, l’intransigente comunista polemizzava con le alte sfere del governo Bonomi (soprattutto con i ministeri della Marina e del Tesoro) e con la Commissione Alleata di Controllo. Seduto alla sua scrivania, aveva visualizzato agli occhi dell’intervistatore una situazione difficile da gestire, servendosi di due matite: una nera, simbolo dei reazionari e dei fascisti, e una blu, che invece rappresentava la democrazia. Nel mezzo, la sua mano, emblema dei moderati, inclinava inesorabilmente verso la matita nera. Ad aggravare il quadro, aggiungeva Scoccimarro, stava la burocrazia che, dopo avere servito per vent’anni la dittatura, ostacolava l’epurazione con una forma di resistenza passiva molto vicina, nei fatti, ad un vero e proprio sabotaggio.

Le deficienze tecniche contenute ab origine nella legislazione sanzionatoria, unanimemente riconosciute, forse anche esagerate dal pensiero giuridico a posteriori, offrivano un terreno fertile a questo tipo di operazioni. Un’occasione che neppure la magistratura si fece sfuggire, approfittando di carenze e lacune per piegare la normativa in direzione conservatrice. Della politicità insita nell’interpretazione e nell’applicazione del testo di una legge, Achille Battaglia fornisce una lucida spiegazione, che merita di essere citata:

“L’espressione letterale della norma non può sbarrare la strada[al giudice, N.d.R.] se non

quando essa sia chiarissima e quando il legislatore abbia previsto tutte le ipotesi da regolare. Ma quando la norma non è tecnicamente perfetta - e, soprattutto quando si tratta di applicare la legge ad una ipotesi sfuggita alla previsione del legislatore, aggiungendo così un nuovo comando a quelli effettivamente impartiti - allora non vi è nulla che possa impedire al giudice di far trionfare le proprie idealità e preferenze politiche”.2

Preferenze evidentemente indirizzate verso la difesa dello status quo. Un esempio emblematico del colpevole modus operandi adottato dalla magistratura in quegli anni ci viene dall’applicazione dell’amnistia (decreto presidenziale 22 giugno 1946, n. 4). Concessa, nelle parole del guardasigilli Togliatti, come “atto di clemenza e in pari tempo di forza e di fiducia nei destini 1 B. Croce, Scritti e discorsi politici, Laterza, Bari, 1973, pp. 217 - 218. 2 A. Battaglia in AA.VV., Dieci anni dopo, 1945 - 1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Bari, Laterza, 1955 p. 321.

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del paese”, l’amnistia si trasformò in una sanatoria generale e indifferenziata, fonte di grave indebolimento per la nascente democrazia.

Gli equilibrismi escogitati in tal senso dalla magistratura meritano un cenno più dettagliato. Nelle mani dei giudici persino il concetto di “sevizia particolarmente efferata”, serio ostacolo sulla strada della concessione dell’amnistia, fu progressivamente svuotato di significato, con il risultato di garantire l’impunità a ogni sorta di torturatori e stupratori. Spulciando fra le sentenze, Pavone ha saputo cogliere ed offrire un valido campionario di tali aberranti interpretazioni. Nei giudizi della Suprema Corte, non costituirono sevizie particolarmente efferate:

“‘le applicazioni elettriche fatte con un comune telefono da campo (…), fatte soltanto a

scopo intimidatorio e non per bestiale insensibilità come si sarebbe dovuto ritenere se tali applicazioni fossero avvenute a mezzo della corrente ordinaria’; il fatto di un capo delle brigate nere che dopo l’interrogatorio di una partigiana la fece ‘possedere dai suoi militi, uno dopo l’altro, bendata e con le mani legate’, perché ‘tale fatto bestiale non costituisce sevizie, ma solo la massima offesa all’onore e al pudore della donna’. Massima riassuntiva fu quella formulata il 7 marzo 1951: ‘Sevizia particolarmente efferata è soltanto quella che, per la sua atrocità, fa orrore a coloro stessi che dalle torture non siano alieni’. Così – commenta lo storico – il cerchio si chiudeva, e giudice della particolare efferatezza delle sevizie diventava il seviziatore stesso, di cui la Suprema Corte, si limitava a recepire il giudizio.”1

3.3. La scadenza emotiva del processo epurativo L’amnistia costituiva l’ultimo atto di un rapido processo di depoliticizzazione e ripiegamento

della norma e della prassi epuratoria. Che, sul piano amministrativo, trovava il proprio corrispettivo nel decreto Nenni, concepito per semplificare una procedura troppo macchinosa e per chiudere in tempi brevi un meccanismo ormai divenuto impopolare. Il provvedimento, si legge nella presentazione dell’allora Alto Commissario Peretti Griva, rifletteva un diffuso bisogno di pacificazione e normalizzazione:

“Si è potuto nettamente notare dagli inizi dell’epurazione, una graduale attenuazione nelle

decisioni delle commissioni, dovuta, evidentemente, alla riduzione progressiva dello stato di accensione degli animi, determinata dall’allontanamento delle cause acute che agisce, fatalmente, come ammortizzatore di tutte le umane passioni. Fu attraverso questo travaglio ideologico che la gran parte della pubblica opinione di ogni partito si orientò verso una meta di pacificazione e di allontanamento dall’inquisizione faziosa, per affrettare la ripresa della vita del paese…”2

Questo desiderio di chiudere i conti con il passato, anche a costo di dimenticare e di lasciare impunite le atrocità e le persecuzioni patite, d’altronde, non deve sorprendere, né incorrere in un’affrettata condanna a posteriori.

La fine della guerra aveva generato negli italiani una vera e propria ossessione della rimozione. La letteratura di quegli anni ce ne offre uno spaccato significativo: dal reduce inascoltato della Napoli milionaria di De Filippo, allo spaesato protagonista di un racconto di Bassani che, di ritorno dal campo di Buchenwald, incontra l’ostilità dei propri concittadini, disposti a ricordarlo come nome su una lapide, ma non ad affrontarlo come uomo in carne ed ossa, con un proprio pesante passato da raccontare3. Lo stesso sentimento, probabilmente, ha finito per condizionare l’esito di un processo politico e giuridico che rischiava, con i suoi strascichi, di turbare una ricostruzione pacificata almeno nella sua facciata. 1 C. Pavone, La continuità dello stato, cit., pp. 138 – 139. 2 Riccardo Peretti Griva, Cenni illustrativi del Dll 9 novembre 1945, riportato da Romano Canosa, Storia dell=epurazione in Italia., cit., p. 325. 3 Mi riferisco a Una lapide in via Mazzini, in Cinque storie ferraresi, Torino, Einaudi, 1956.

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“La continuità in sé e per sé – credo opportuno chiudere citando l’equilibrata riflessione di

Silvio Lanaro - non è un peccato contro natura o un demone da esorcizzare: è anzi un processo parzialmente inevitabile quando una catastrofe non scompagina del tutto un’ossatura amministrativa, e per quanto riguarda le persone è il frutto di un normale fenomeno di adeguamento alle circostanze, di trasformismo salvifico e talvolta di sincera resipiscenza. A renderla minacciosa e a tratti ‘sovversiva’ nell’Italia del dopoguerra, è un indurimento mal contrastato del nocciolo conservatore che essa reca sempre dentro di sé”1.

Quel nocciolo avrebbe trasmesso al nascente stato democratico una classe dirigente

profondamente collusa con il fascismo, eppure sfuggita alle larghe maglie dell’epurazione e sopravvissuta quasi integralmente nei propri posti di potere.

1 S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 40 – 41.

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