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——————————————————————————————————————— - AREA DI PROGETTO CLASSE 5 EBS: IL TRASFORMATORE - PAG. 1 1. NOTE STORICHE SULL’EVOLUZIONE DELL’ELETTRICITA’ Le prime informazioni sull’elettricità ci giungono dall’antica Grecia, all'inizio del VI° secolo a.C. da parte di Talète di Milèto, il quale scoperse che l'ambra, in greco èlektron, se strofinata con un panno di lana, acquista la capacità di attrarre corpi leggeri, quali ad esempio piccoli pezzi di paglia. Solo tre secoli dopo, negli scritti di Teofrasto d’Ereso, si trova citazione d’altri materiali aventi le stesse capacità. Nell'antica Roma troviamo, negli scritti sulle scienze naturali di Lucio Anneo Seneca, una distinzione fra gli effetti del fulmine: "Il fulmine che incendia, quello che distrugge e quello che non distrugge". I nostri "antichi", nella seconda metà del secolo VIII° d.C. verificarono sperimentalmente che due corpi dello stesso materiale, carichi elettricamente, si respingono e che, materiali differenti, ad esempio vetro ed ambra, anch'essi elettricamente carichi, si attraggono. La deduzione logica fu che esistevano quindi due differenti tipi di cariche (in seguito chiamate “positive” e “negative”). Nel 1540 nasceva William Gilbert, scienziato inglese che alla corte della Regina Elisabetta, grazie al sostentamento della stessa, iniziò i primi studi scientifici sul magnetismo, culminati nell'opera "De Magnete ". Verso la metà del 1600 vari esperimenti furono eseguiti in Europa e negli Stati Uniti, per comprendere e classificare le varie forme di energia. I primi macchinari elettrostatici furono eseguiti dal tedesco Otto von Guericke, che realizzò la " Sfera elettrostatica " a strofinio. Nel 1692 nasceva a Leida l'olandese Pieter van Musschenbroek, che realizzò la " Bottiglia di Leida, " il primo apparecchio in grado di accumulare energia elettrica; l’invenzione consentì l'esecuzione di vari esperimenti e ricerche scientifiche. La prima distinzione fra i due tipi di cariche va attribuita allo scienziato statunitense Benjamin Franklin, che chiamò "positive" le cariche che si manifestano nel vetro e "negative" quelle che si manifestano nell'ambra. Franklin è ricordato ancora oggi per l'invenzione del parafulmine e per i suoi studi sulle scariche atmosferiche. La legge secondo cui la forza esercitata tra cariche elettriche è proporzionale all'inverso del quadrato della loro distanza fu provata sperimentalmente intorno al 1766 dal chimico britannico Joseph Priestley. Questi dimostrò, inoltre, che una carica elettrica si distribuisce uniformemente sulla superficie di una sfera metallica cava e che, in condizioni d’equilibrio, il campo elettrico all'interno di un conduttore è sempre nullo. Nel 1745 nasceva il genio italiano Alessandro Volta che iniziò la sua attività di ricercatore e sperimentatore avvalendosi delle ricerche di un altro scienziato italiano, Luigi Galvani. Galvani fece i suoi primi esperimenti d’elettrologia con le rane, asserendo di aver individuato una certa elettricità animale, rivelatasi in seguito un errore. Tra il 1785 e il 1787 un celebre fisico francese, Charles-Augustine de Coulomb, eseguì alcuni importanti esperimenti d’elettrostatica, inventando e costruendo poi la " Bilancia di Torsione ", che gli consentì di effettuare alcuni esperimenti che lo portarono all'enunciazione della famosa legge che porta il suo nome. Nell'anno 1799 Volta costruì un dispositivo cui diede il nome di " apparato elettromotore ", in seguito denominato “Pila di Volta”. La pila di Volta era costituita da una serie di dischi in zinco e rame impilati uno sull’altro, con interposti dischi di feltro imbevuti di sostanza acida; era nato così il primo generatore statico d’energia elettrica. Circa 30 anni dopo l'inglese Michael Faraday, proseguendo gli studi e le ricerche iniziate dal danese Hans Cristians Oersted e dal francese André Marié Ampérè, scoperse che la corrente elettrica poteva essere generata dalle variazioni di un campo magnetico, studiò e scoprì il fenomeno dell'elettromagnetismo, gettò le basi per gli studi sull'elettrolito, inventò la "gabbia di Faraday" (efficace parafulmine). Importanti studi e relativa Legge furono fatti da Georg Simon Ohm, che studiò i rapporti tra resistenza, tensione e corrente di un circuito elettrico.

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1. NOTE STORICHE SULL’EVOLUZIONE DELL’ELETTRICITA’ Le prime informazioni sull’elettricità ci giungono dall’antica Grecia, all'inizio del VI° secolo a.C. da parte di Talète di Milèto, il quale scoperse che l'ambra, in greco èlektron, se strofinata con un panno di lana, acquista la capacità di attrarre corpi leggeri, quali ad esempio piccoli pezzi di paglia. Solo tre secoli dopo, negli scritti di Teofrasto d’Ereso, si trova citazione d’altri materiali aventi le stesse capacità. Nell'antica Roma troviamo, negli scritti sulle scienze naturali di Lucio Anneo Seneca, una distinzione fra gli effetti del fulmine: "Il fulmine che incendia, quello che distrugge e quello che non distrugge". I nostri "antichi", nella seconda metà del secolo VIII° d.C. verificarono sperimentalmente che due corpi dello stesso materiale, carichi elettricamente, si respingono e che, materiali differenti, ad esempio vetro ed ambra, anch'essi elettricamente carichi, si attraggono. La deduzione logica fu che esistevano quindi due differenti tipi di cariche (in seguito chiamate “positive” e “negative”). Nel 1540 nasceva William Gilbert, scienziato inglese che alla corte della Regina Elisabetta, grazie al sostentamento della stessa, iniziò i primi studi scientifici sul magnetismo, culminati nell'opera "De Magnete ". Verso la metà del 1600 vari esperimenti furono eseguiti in Europa e negli Stati Uniti, per comprendere e classificare le varie forme di energia. I primi macchinari elettrostatici furono eseguiti dal tedesco Otto von Guericke, che realizzò la " Sfera elettrostatica " a strofinio. Nel 1692 nasceva a Leida l'olandese Pieter van Musschenbroek, che realizzò la " Bottiglia di Leida, " il primo apparecchio in grado di accumulare energia elettrica; l’invenzione consentì l'esecuzione di vari esperimenti e ricerche scientifiche. La prima distinzione fra i due tipi di cariche va attribuita allo scienziato statunitense Benjamin Franklin, che chiamò "positive" le cariche che si manifestano nel vetro e "negative" quelle che si manifestano nell'ambra. Franklin è ricordato ancora oggi per l'invenzione del parafulmine e per i suoi studi sulle scariche atmosferiche. La legge secondo cui la forza esercitata tra cariche elettriche è proporzionale all'inverso del quadrato della loro distanza fu provata sperimentalmente intorno al 1766 dal chimico britannico Joseph Priestley. Questi dimostrò, inoltre, che una carica elettrica si distribuisce uniformemente sulla superficie di una sfera metallica cava e che, in condizioni d’equilibrio, il campo elettrico all'interno di un conduttore è sempre nullo. Nel 1745 nasceva il genio italiano Alessandro Volta che iniziò la sua attività di ricercatore e sperimentatore avvalendosi delle ricerche di un altro scienziato italiano, Luigi Galvani. Galvani fece i suoi primi esperimenti d’elettrologia con le rane, asserendo di aver individuato una certa elettricità animale, rivelatasi in seguito un errore. Tra il 1785 e il 1787 un celebre fisico francese, Charles-Augustine de Coulomb, eseguì alcuni importanti esperimenti d’elettrostatica, inventando e costruendo poi la " Bilancia di Torsione ", che gli consentì di effettuare alcuni esperimenti che lo portarono all'enunciazione della famosa legge che porta il suo nome. Nell'anno 1799 Volta costruì un dispositivo cui diede il nome di " apparato elettromotore ", in seguito denominato “Pila di Volta”. La pila di Volta era costituita da una serie di dischi in zinco e rame impilati uno sull’altro, con interposti dischi di feltro imbevuti di sostanza acida; era nato così il primo generatore statico d’energia elettrica. Circa 30 anni dopo l'inglese Michael Faraday, proseguendo gli studi e le ricerche iniziate dal danese Hans Cristians Oersted e dal francese André Marié Ampérè, scoperse che la corrente elettrica poteva essere generata dalle variazioni di un campo magnetico, studiò e scoprì il fenomeno dell'elettromagnetismo, gettò le basi per gli studi sull'elettrolito, inventò la "gabbia di Faraday" (efficace parafulmine). Importanti studi e relativa Legge furono fatti da Georg Simon Ohm, che studiò i rapporti tra resistenza, tensione e corrente di un circuito elettrico.

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Nel 1797 nasceva Joseph Henry, fisico statunitense famoso per la scoperta dell'autoinduzione; egli perfezionò gli elettromagneti e costruì i primi relè. Il XVIII secolo è stato sicuramente il più denso di scoperte ed invenzioni nel campo dell'elettricità e del magnetismo. Nel 1802 nasceva Charles Wheatstone, fisico che inventò un tipo di telegrafo che fu il primo ad essere impiegato praticamente. Inventò un ponte per la misurazione delle resistenze da cui prese il nome ( Ponte di Wheatstone ). A Hannover, nel 1803 nasceva Henrich Daniel Ruhmkorff, elettromeccanico tedesco, che costruì il rocchetto ad induzione che da lui prese il nome. Si tratta di un particolare trasformatore, ormai di valore soltanto storico, che permette di ottenere elevate differenze di potenziale. Altri esprimenti e studi sull'elettrostatica ed elettromagnetismo furono portati avanti dal fisico tedesco Wilhelm Eduard Weber, che elaborò una teoria sui fenomeni elettrostatici ed elettrodinamici ed un sistema d’unità di misura per grandezze elettrostatiche. Nel 1816 nasceva a Lenthe Werner von Siemens, tecnico ed industriale tedesco che, dopo un passato giovanile in carriera militare, lasciò l'esercito e fondò insieme ai fratelli l'azienda Siemens, oggi una delle più importanti società al mondo operanti nel settore elettrico ed elettronico. Altri studi importanti sui campi elettromagnetici furono portati avanti dallo scozzese James Clerk Maxwell, che formulò la teoria delle onde elettromagnetiche. Nel 1826 nasceva a Liegi Zénobe Theophilé Gramme, fisico che portò avanti importanti studi ed invenzioni sull'elettrostatica e l’elettromagnetismo. Perfezionò la dinamo e costruì il primo alternatore per usi industriali. Nel 1826 nasceva ad Aosta il vero ed unico inventore del telefono, Innocenzo Manzetti. In Italia nel 1808 nasceva a Firenze Antonio Meucci, cui tutti attribuiscono l'invenzione del telefono, ma che lo stesso Meucci riconobbe al Manzetti. Altro inventore cui si attribuisce la paternità dell’invenzione del telefono è l'americano Bell. L'invenzione del telefono è sicuramente una delle più importanti conquiste dell'uomo, poiché consente di comunicare a distanza. Il perfezionamento degli studi e delle ricerche sull'elettromagnetismo condussero alla realizzazione delle prime macchine elettriche: le dinamo e gli alternatori. Fu Antonio Pacinotti, con il suo "anello", a costruire la prima macchina in grado di trasformare l'energia meccanica in energia elettrica continua (la dinamo). Nel 1847 nasceva a Livorno Piemonte un fisico italiano, che ebbe in seguito fama mondiale: Galileo Ferraris. I suoi studi si concentrarono sul campo magnetico rotante e sulla teoria del motore asincrono, e culminarono con la costruzione dei primi modelli di motore elettrico asincrono (1884). In quegli anni si discuteva sul modo migliore di trasformare l'energia elettrica (continua o alternata). Fu Lucien Gaulard, nato in Francia nel 1850 che, grazie all'invenzione del trasformatore, risolse il problema del trasporto a grandi distanze dell'energia elettrica. Un’altra grande sfida di quei tempi era quella di trasformare l'energia elettrica in luce e cioè realizzare i primi impianti d’illuminazione. Qui alcuni grandi personaggi si contesero l'invenzione della lampadina elettrica. I primi esperimenti furono eseguiti, nel 1845 da Sir Joseph Wilson Swan in Inghilterra. Nel 1847 nascevano a Milan, nello stato dell'Ohio (Stati Uniti D'America) Thomas Alva Edison e a Piossasco (Torino) Alessandro Cruto: entrambi contribuirono all'invenzione ed al perfezionamento della lampada ad incandescenza, una invenzione che esiste quasi immutata da oltre 120 anni (1878: accensione della prima lampadina di Swan). Nel 1849 nasceva in Inghilterra John Ambrose Fleming, noto per i suoi studi sull'elettromagnetismo e per l'enunciazione " delle regole delle tre dita o regole di Fleming ". Nel 1904 inventò il diodo, la prima valvola termoionica a due elettrodi; con l'invenzione del diodo nasce l’elettronica.

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Importanti ricerche e studi furono eseguiti da un altro scienziato e ricercatore, Heinrich Rudolph Hertz, nato ad Amburgo nel 1857. Hertz fu lo scopritore delle onde elettromagnetiche, che furono poi applicate dal Marconi con l'invenzione della radio. Fisico statunitense d’origine Jugoslava, nasceva a Smiljan ( Croazia ) nel 1857 Nikola Tesla; furono molto importanti i suoi studi sulle correnti alternate ad altissima frequenza (Correnti di Tesla). Realizzò il primo motore elettrico ad induzione a corrente alternata: ciò contribuì ad un maggior utilizzo dell'energia elettrica negli azionamenti industriali. Nel 1874 nasceva a Bologna Guglielmo Marconi, sicuramente il genio italiano più celebre al mondo. Con gli studi e gli esperimenti sulle onde elettromagnetiche e la trasmissione dei segnali nell'etere, che culminarono con l'invenzione della radio, si aprivano nuovi orizzonti per l'umanità intera.

2. I TRASFORMATORI E LA LORO STORIA 2.1 SVILUPPO STORICO Si passano qui brevemente in rassegna la storia dei trasformatori, i progressi tecnici e tecnologici che furono realizzati nel tempo ed i problemi che, via via, si sono presentati e sono stati risolti o sono ancora allo studio. Questi appunti non sono destinati agli specialisti ( si è volutamente evitato ogni sviluppo di carattere matematico onde renderli meno tediosi ), ma a quanti si interessano ai trasformatori quali elementi essenziali ed indispensabili per lo sviluppo industriale della società moderna. L’invenzione L’invenzione del trasformatore risale agli ultimi decenni del XIX secolo. Sembra indubbio che il merito di essa (se considerato in base alla priorità nel tempo) spetti al francese Luciano Gaulard, anche se gli americani l’attribuiscono, in generale, allo Stanley. Ma non si tratta, in questo caso, di una ripetizione della faccenda del plagio del Bell nei confronti del Meucci, perché la cosa fu assai meno sfacciata: lo Stanley non copiò il trasformatore Gaulard (pur conoscendolo), ma ne sviluppò uno nuovo e diverso. Il fatto è che ogni invenzione, risulti essa, come oggi, da un lavoro di gruppo, ossia, come un tempo, il frutto di iniziative individuali, trae quasi sempre alimento da lavori e da esperienze precedenti. Si dovrebbe risalire agli inizi dell’800, con le esperienze del Faraday , intese a dimostrare la trasmissibilità, in un campo magnetico variabile, dell’energia elettrica da un circuito ad un altro. Ma l’effetto di trasformazione della tensione non venne, in ciò, considerato. Poco dopo, nel 1836, l’americano Page scoprì, assai prima del Ruhmkorff (le cui bobine risalgono al 1848), l’effetto di trasformazione e la possibilità di ricavarne altre tensioni. Il merito di Gaulard fu di aver applicato la bobina di Ruhmkorff alla trasformazione dell’energia generata dagli alternatori. Questo fu il primo trasformatore, che il Gaulard denominò “generatore secondario” , ed il cui modello fu esposto a Londra nel 1882. La prima applicazione pratica si ebbe però alla Esposizione internazionale di Torino, nel 1884: si alimentava, mediante un piccolo alternatore, un circuito per illuminazione che si estendeva da Torino fino a Lanzo. Un altro impianto fu successivamente realizzato da Gaulard in Italia, a Tivoli, e rimase in servizio fino al 1912. Il trasformatore (o “generatore secondario”) Gaulard presentava dei gravi difetti: gli avvolgimenti primari venivano tutti collegati in serie tra di loro, ed il carico, sui singoli secondari, era costituito da lampade, prevalentemente disposte in serie. Onde ottenere la necessaria regolazione locale delle tensioni, il circuito magnetico era aperto, immergendosi più o meno le bobine entro il nucleo

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stesso. A parte la forte dispersione e le eccessive correnti a vuoto, il funzionamento in servizio non era facile e richiedeva un’assistenza continua. Il Gaulard, persona orgogliosa e testarda, che poco si curava di diritti o di brevetti, non volle mai modificare tale collegamento, e rifiutò le vantaggiose proposte di collaborazione fattegli dalla Ditta Ganz a tale riguardo. Questa proseguì allora gli studi in proprio, realizzando con Zipernowsky, Dèri e Blathy, degli ottimi trasformatori. A dare un’idea della bizzarria del Gaulard si può ricordare come egli si spostasse unicamente a dorso d’asino, gettando grandi manate di monetine a tutti i monelli. In America l’idea del Gaulard provocò reazioni diverse. La Società Westinghouse acquistò i diritti di brevetto, che tardivamente il Gaulard aveva acquisito, e, ad opera di un suo tecnico, lo Stanley, ne ricavò un trasformatore assai geniale e, sotto certi aspetti, moderno, avente un nucleo magnetico a circuito chiuso, non più in filo di ferro (come nei primi trasformatori Ganz). Inoltre i lamierini venivano isolati tra di loro per mezzo di fogli di carta, e gli avvolgimenti primari erano collegati in derivazione alla rete. Per queste ragioni, lo Stanley è considerato, in America, l’inventore della macchina. Egli abbandonò successivamente la Westinghouse, creando un fabbrica di trasformatori in proprio, la “Stanley Electric Manufacturing Co.”, a Pittsfield, nel Massachussets. Questa Fabbrica, che venne poi acquistata ed ampliata dalla General Electric Co. , ne costituisce ancora oggi la principale officina per la costruzione di trasformatori. Nel frattempo entravano in lizza, in Europa, con modelli assai geniali e con nuclei in lamierino, la Società inglese Ferranti e quella svizzera Oerlikon, mentre, ancora in America, la Società Edison acquistava i brevetti Ganz con il solo scopo di non utilizzarli e di ostacolarne la diffusione. Il trasformatore costituiva, infatti, una minaccia al sistema di distribuzione in corrente continua per l'illuminazione della città di New York. Si giunse al punto di ricorrere alla politica e si riuscì persino, per breve tempo, ad ottenere un divieto all’impiego di correnti alternate con il pretesto che fossero pericolose per la salute pubblica. Storie dei successivi sviluppi Lo sviluppo di qualsiasi macchina od apparecchio è sempre determinato dalle sue possibilità di impiego. Il trasformatore non è certo sfuggito a questa regola generale, e tutti i problemi, che per esso sono sorti, si riconnettono alla storia dello sviluppo dei sistemi di trasmissione e di distribuzione dell’energia elettrica, ed alle progressive e crescenti esigenze dei sistemi stessi. Destinato inizialmente ad impianti luce, ed alimentato, in funzione di abbassatore, con le limitate tensioni direttamente ottenibili dagli alternatori, il trasformatore non comportava l’impiego di grandi potenze unitarie, e non presentava dei problemi particolarmente difficili. Ma, con il diffondersi dell’impiego dei motori trifasi a campo rotante, la cui quasi contemporanea invenzione si ricollega agli studi di Galileo Ferraris (1884), il campo di applicazione dei trasformatori si spostò sempre più verso gli impieghi industriali. Vennero così richieste delle potenze di impiego sempre più grandi, per le quali le esigenze di trasmissione imponevano dei valori di tensione sempre più alti . Nacque così il trasformatore elevatore e fu necessario ricorrere ad una doppia trasformazione tra la stazione generatrice e l’utenza. I primi trasformatori erano stati costruiti del tipo “a secco”, e cioè avevano il nucleo e gli avvolgimenti in aria. La loro installazione veniva eseguita su mensole o su pali . L’aumento delle tensioni condusse all’impiego dell’olio minerale quale mezzo isolante e di asportazione del calore. Con questo accorgimento, per lungo tempo ancora non si incontrarono difficoltà nell’adeguare i trasformatori alle aumentate esigenze. Ma quando vennero superati certi limiti di tensione e di potenza, quando le esigenze di continuità del servizio imposero interconnessioni sempre più frequenti e più fitte tra i vari sistemi generatori, aumentando in forte misura, in ogni punto delle reti, la disponibilità di energia non solamente in servizio, ma anche in caso di guasto, nacquero alcuni problemi: i problemi di isolamento e di tenuta alle sollecitazioni dinamiche di corto circuito. Sotto l'aspetto dell'economia, è stato notevole il progresso che si è realizzato nel campo delle perdite e del rendimento, e nella riduzione del valore della corrente di magnetizzazione.

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Non va inoltre dimenticato che oggi è cosa normale la regolazione sotto carico della tensione di esercizio, e che ciò è stato ottenuto risolvendo alcuni problemi a suo tempo non facili. Le potenze dei trasformatori vanno oggi da pochi VA, fino a oltre 700 MVA, con tensioni da pochi volt fino a oltre 750 KV. Non essendo possibile applicare le medesime regole, nè di paragonare tra di loro una pulce con un elefante, è necessario oggi suddividere i trasformatori per categorie. Si possono attualmente distinguere le seguenti categorie principali: a) Piccoli e piccolissimi trasformatori per potenze inferiori a 1 KVA , e per tensioni generalmente, ma non necessariamente, basse. Coprono una gamma assai vasta di prodotti: dai trasformatori per campanelli e per giocattoli a quelli per elettrodomestici, per apparecchi radio o per televisione e, anche con tensioni assai alte, per apparecchi elettronici o elettromedicali. b) Trasformatori di misura (riduttori di tensione e di corrente). Rientrano nel campo dei piccoli trasformatori, ma le tensioni di servizio possono essere elevatissime; essi si trovano esposti alle medesime condizioni ambientali dei grandi trasformatori di potenza. c) Trasformatori per distribuzione secondaria. Si tratta di macchine, generalmente da 5 fino a 2500 KVA, con tensione di alimentazione non superiore ai 30 KV, destinati all'alimentazione diretta dell'utenza a partire dalla rete di distribuzione MT. Queste macchine non pongono seri problemi al costruttore, sebbene si sia riscontrata la necessità di migliorarne l'isolamento e la tenuta al corto circuito. Il problema principale (oggi che sono per essi unificate le potenze nominali e le tensioni) sta nella produzione di serie. d) Trasformatori di distribuzione primaria (mediamente tra i 5 e i 60 MVA). Trasformano l'alta tensione delle grandi reti in una tensione intermedia, generalmente tra i 6 e i 30 kV, alimentando le reti per la distribuzione secondaria. e) Grandi trasformatori elevatori di centrale. Trasformano la tensione ottenibile dagli alternatori in tensioni molto alte, alimentando le grandi reti per il trasporto dell’energia. f) Grandi trasformatori (assai spesso autotrasformatori), generalmente dotati di apparecchiature per la regolazione sotto carico della tensione (talvolta anche in quadratura onde regolare la ripartizione del carico sulle reti chiuse ad anello). Servono per la interconnessione di reti a tensione diversa. La classificazione di cui sopra è soltanto parziale, e non tiene conto di un’altra categoria, assai varia, di macchine destinate a scopi speciali, di cui citeremo soltanto le più importanti. g) Trasformatori destinati all’alimentazione di forni elettrici. Sono generalmente caratterizzati dalla bassa tensione e dalla enorme intensità della corrente secondaria. h) Trasformatori per installazione su locomotori per navi, e trasformatori antideflagranti per miniere. i) Trasformatori destinati alla conversione di energia alternativa in continua o viceversa. Questa conversione si otteneva un tempo per mezzo di macchine convertitrici rotanti, cui subentrò il mutatore a vapori di mercurio, recentemente sostituito da quelli al germanio, e poi al silicio. Lo scopo di questa conversione è generalmente la trazione ferroviaria, l’azionamento di laminatoi, o l’alimentazione di impianti elettrolitici. Recentemente si è però avuto uno sviluppo nuovo: la trasmissione a distanza di corrente continua ad altissima tensione. Questo sistema presenta qualche vantaggio: il ritorno per la terra limita il numero dei conduttori per le linee aeree, mentre la coincidenza del valore massimo con quello efficace della tensione facilita i problemi di isolamento. Ma il costo è molto alto, anche perché, nei luoghi di utilizzazione, è necessario non solamente ritrasformare la corrente continua in alternata,

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ma anche generare tutta l’energia reattiva richiesta dagli impianti, perché una linea a corrente continua non è, evidentemente, in grado di trasportare energia reattiva. Tuttavia, i più recenti sviluppi hanno alquanto attenuata la differenza tra i costi, specialmente quando sia necessario attraversare il mare. Esistono perciò, e funzionano, alcuni di questi impianti : dalla penisola Scandinava al continente, tra le due isole della Nuova Zelanda e, in Italia, tra la Sardegna e la Toscana, via Corsica. I trasformatori di questa categoria danno origine a problemi molto difficili, specie per quanto riguarda la loro tenuta al corto circuito, fenomeno abbastanza frequente negli impianti di conversione. Si potrebbero citare molti altri casi di macchine speciali, indicandone le particolari esigenze ed esponendone i principali problemi, ma lo spazio non ce lo consente. 2.2 NORME ED UNIFICAZIONE Generalità In passato ogni trasformatore veniva ordinato “su misura”. Se, in base ai suoi calcoli, un committente riteneva necessaria una potenza nominale (quasi sempre assunta pari a quella massima richiesta in servizio) pari, ad esempio, a 33,42 kVA, si costruiva il trasformatore per tale potenza, generalmente intesa come “resa” ai morsetti del secondario, compensando le cadute di tensione per un fattore di potenza pari a 0,8 in ritardo. Ciò era già causa di confusione, ma soprattutto le condizioni termiche, che stanno alla base di una corretta applicazione dei trasformatori alle esigenze del servizio, erano ignote al committente e spesso mal note al costruttore stesso; questi si limitava ad adeguare il trasformatore alle prescrizioni di norma, ma le stesse prove di riscaldamento, almeno in Italia, venivano raramente eseguite. Furono le gravose esigenze di sovraccarico imposte dall’ultima guerra a chiarire il problema, portando allo sviluppo dell’attuale normativa del C.T. 14 del CEI. Essa consente la scelta più opportuna. Da questi nuovi concetti è tuttavia conseguito che l’espressione “potenza nominale”, ha perso gran parte del suo significato e si è ridotta a un puro numero di riferimento valido, non per il servizio, ma per le garanzie tecniche e per il collaudo. Questo è un esempio di come si sia venuto modificando ed evolvendo il significato stesso delle norme. Come è ben noto, queste hanno lo scopo di dare assicurazioni al committente circa la qualità del prodotto e di assicurare un metro unico per la verifica delle garanzie contrattuali, eliminando ogni forma di sleale concorrenza. Ma le norme, pur adeguandosi via via al progresso tecnico e tecnologico, non possono certo precederlo e lo seguono anzi lentamente perché, di necessità, devono codificare delle pratiche a lungo e seriamente sperimentate. D’altra parte, l’evoluzione della tecnica è oggi rapidissima (e non solo nel campo dei trasformatori) ed alla situazione si è cercato di porre, nei limiti del possibile, un rimedio, sia con frequenti edizioni delle stesse norme, sia con guide e con norme sperimentali. Ma più ancora importante, da un punto di vista economico, è il risultato che si è ottenuto con l’unificazione. In passato si era creato un vero caos di potenze, di tensioni, e persino di frequenze. Queste ultime furono facilmente unificate al valore di 50 Hz con la sola esclusione dell’America Settentrionale, ove ancora coesiste, anzi prevale, la frequenza di 60 Hz. Recentemente anche le tensioni, e soprattutto quelle più alte, sono state sufficientemente bene unificate in campo internazionale, ed assai bene in quello delle singole Nazioni. Anche le potenze, specie per la distribuzione secondaria, sono ormai bene unificate e, nel campo delle singole Nazioni, anche le potenze maggiori tendono verso valori unificati. L’ipotetico trasformatore da 33,42 kVA di cui si è parlato a titolo di esempio, non ha più significato alcuno: se richiesto, sarebbe rifiutato, od almeno il costo sarebbe tale da sconsigliarne l’impiego.

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2.3 PROGRESSI TECNICI E TECNOLOGICI Generalità Il progresso che via via si realizza nella costruzione di qualsiasi macchina o apparecchio può essere considerato sotto due aspetti diversi: 1) Il progresso puramente tecnico, e cioè l’affinamento dei procedimenti di calcolo e di progettazione, la migliore conoscenza dei singoli problemi e dei singoli fenomeni e, in generale, qualsiasi progresso realizzato in base a studi teorici od al risultato di esperienze pratiche, senza che sia intervenuta alcuna modifica nei mezzi a disposizione. 2) Il progresso tecnologico, e cioè il miglioramento delle caratteristiche dei materiali disponibili, o dei processi per la loro lavorazione, l’ introduzione di materiali e di processi di lavorazione del tutto nuovi (o tali almeno nei riguardi della particolare macchina o del particolare apparecchio che viene considerato). Si sarebbe tentati di scindere le due cose, ma ci si accorge ben presto come esse siano talmente interdipendenti e collegate tra di loro che ciò non è possibile: i materiali nuovi fanno progredire la tecnica, e le esigenze di questa inducono allo studio ed alla ricerca di materiali nuovi, od al miglioramento di quelli esistenti. Si è perciò preferito descrivere, per le singole parti costituenti il trasformatore, i progressi realizzati nel corso del tempo senza tentare una separazione troppo netta tra il progresso tecnico e quello tecnologico. 2.4 IL CALCOLO ED IL DISEGNO Il fatto potrà apparire strano, ma la verità è che i progressi più importanti e più profondi nel campo della progettazione sono di natura tecnologica, e non strettamente tecnica: si tratta dell’impiego del calcolatore elettronico applicato alla progettazione stessa. Ogni singolo costruttore si è venuto arricchendo, nel corso del tempo, di una quantità enorme di dati e di esperienze che, con una gelosia forse eccessiva, e con molto ottimismo, cercava di mantenere segreti. Sulla base di questi dati il progettista eseguiva a mano i suoi calcoli; alla sua abilità ed esperienza era legato l’esisto, più o meno competitivo ed economico, della costruzione. Tutt’al più, nei casi di maggior impegno, venivano eseguiti due o tre calcoli di progetto, impiegando parametri diversi e diverse disposizioni dei circuiti elettrici e magnetici onde scegliere quello più vantaggioso. Oggi questo lavoro viene eseguito dalla macchina, in pochi istanti, ed è quindi assai facile individuare la soluzione preferibile; anzi, questa ricerca di ottimizzazione può essere eseguita dal calcolatore stesso. Naturalmente, la macchina opera in base alle istruzioni ricevute ed immagazzinate nella propria memoria: non è certamente in grado di giudicare se un procedimento di calcolo sia realmente valido o meno. Essa consente peraltro di risolvere anche alcuni problemi a suo tempo ritenuti praticamente insolvibili : ad esempio, il calcolo della distribuzione spaziale del flusso di dispersione. Le formule erano note, ma un loro sviluppo avrebbe richiesto, per ogni trasformatore, molti mesi di lavoro. La macchina consente di ottenere il risultato in pochi minuti. L’importanza di questo fatto apparirà chiara ove si pensi che a formule empiriche, di validità sovente assai dubbia, vengono sostituite delle espressioni più complesse, ma assai più attendibili ed esatte. Ciò non vale tanto per il calcolo della reattanza di dispersione che sappiamo valutare con grande esattezza anche mediante delle formule assai semplici, quanto piuttosto per la valutazione dei valori delle sollecitazioni dinamiche di corto circuito, o per individuare a priori quei punti che possono essere sede di perdite addizionali e di surriscaldamenti localizzati, provvedendo, con accorgimenti opportuni, alla loro eliminazione. Altrettanto può dirsi del calcolo della distribuzione iniziale delle sovratensioni a impulso all’interno

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degli avvolgimenti, e per quello delle loro successive oscillazioni nel tempo. Il calcolatore elettronico si è così dimostrato uno strumento prezioso sia per il progetto che per il progresso tecnico, anche se ha un po’ umiliato i poveri progettisti che ritenevano ogni progetto un frutto esclusivo della loro genialità e della loro personale esperienza. 2.5 IL NUCLEO MAGNETICO Prima di entrare in merito ai progressi che furono realizzati nel campo dei lamierini e dei nuclei magnetici conviene ricordare come i trasformatori, nei riguardi dei loro nuclei, si possano classificare in due tipi: a) Trasformatori aventi un nucleo del tipo a colonne avvolte. Sono usati dalla maggior parte dei costruttori e comportano, in generale, una costruzione con avvolgimenti concentrici di forma circolare. In essi gli avvolgimenti circondano il ferro del nucleo. b) Trasformatori con nucleo a mantello (shell type). Sono impiegati principalmente dalla Ditta americana Westinghouse e da parte delle sue consociate, od ex consociate, in Europa. In essi il nucleo circonda gli avvolgimenti che sono, in generale, intercalati tra di loro, e presentano bobine di forma rettangolare. Va rilevato un fatto curioso: i due tipi, pur così diversi, si sono sempre equivalsi, ed ancora si equivalgono, nelle caratteristiche elettriche, nei pesi e nei costi. Non appena uno di essi, in seguito ad un progresso tecnico qualsiasi, accenna a prevalere sull’altro, questo lo segue con un progresso analogo anche se, in generale, di struttura completamente diversa. Si devono anche considerare dei tipi ibridi: i nuclei monofasi con tre o con quattro colonne, i nuclei trifasi con cinque colonne. E’ pure assai interessante il nucleo con gioghi e circuiti magnetici di ritorno radiali che, già utilizzato per piccole macchine, è stato poi esteso dalla Ditta Brown Boveri alla costruzione di macchine di grande potenza. Esso presenta dei vantaggi nel peso e nell’ingombro, particolarmente apprezzabili per macchine di questa categoria, e riduce, sin quasi ad annullare, le perdite addizionali causate a carico dal flusso di dispersione esterno agli avvolgimenti. Elemento assai importante per una buona utilizzazione del ferro, è il coefficiente di utilizzazione geometrica, e cioè il rapporto tra le sezione reale del ferro e quella apparente del nucleo, o, meglio, del cerchio ad esso circoscritto. Nelle costruzioni primitive, il valore di questo coefficiente era assai basso, mentre oggi è altissimo. Da esso dipende, in parte, la lunghezza della spira media degli avvolgimenti, e perciò il peso di questi, e l’entità delle perdite in essi generate. Interessante al riguardo è il nucleo adottato dalla Ditta svizzera Oerlikon, a sezione circolare, ma più ancora è importante il progresso che si è ottenuto sopprimendo l’isolamento in carta dei lamierini, e sostituendolo dapprima con lacche, ed ora, infine, con gli isolanti in “carlyte” (un ossido di magnesio), atti a resistere a temperature altissime, e di spessore praticamente trascurabile. Tutto ciò ha conseguito la soppressione di molti canali di raffreddamento interni al nucleo, già indispensabili onde evitare la carbonizzazione della carta, e l’occupazione con ferro attivo dello spazio corrispondente. Ma più importante ancora è il progresso tecnologico nella qualità e nella lavorazione del materiale. Dal primitivo filo, o dalle lamiere in ferro comune, si passò all’impiego di lamiere sempre più sottili in ferro svedese (un ferro chimicamente assai puro), migliorando tutte le caratteristiche magnetiche. Ma un progresso assi più sostanziale fu ottenuto sostituendo al ferro l’acciaio legato al silicio, prodotto con un processo di laminazione a caldo. Questo tipo di acciaio dominò il campo fino al termine dell’ultima guerra, progressivamente migliorando sempre di qualità. Così, nei valori di perdita (misurati con il metodo Epstein all’induzione di un weber/m2 ed alla frequenza di 50 Hz) si passò dagli iniziali 4 ÷5 watt/kg sino al valore di 0,8 watt/kg che è caratteristico, oggi, delle migliori lamiere ottenute con il processo di laminazione a caldo. Già si riteneva di aver raggiunta così la perfezione quando, nell’immediato dopoguerra, entrò in lizza il lamierino al silicio laminato a freddo, e successivamente

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ricotto dopo la laminazione ( lamierini a cristalli orientati ). In esso, i cubetti che costituiscono i cristalli del ferro sono prevalentemente adagiati su uno spigolo, ed orientati nel senso della laminazione. Da questo orientamento conseguono delle perdite e dei valori delle amperspire di magnetizzazione estremamente bassi a condizione che la direzione del flusso magnetico sia anch’essa orientata nel senso della laminazione. Se questa condizione non è soddisfatta, sia le perdite che la corrente magnetizzante aumentano in forte misura, sino a superare i valori caratteristici per i lamierini laminati a caldo. Ora, quale che sia il tipo di nucleo, tutti i circuiti presentano delle zone (gli “angoli") dove il flusso magnetico cambia di direzione; il peso di queste zone rappresenta una parte non trascurabile del peso totale del nucleo, e il loro apporto al valore delle perdine a vuoto è tutt’altro che piccolo. In queste zone, dove il circuito magnetico forma, in generale, degli angoli di 90°, si eseguivano i giunti tra i fogli di lamierino, creando un piccolo traferro, e precisamente i cosiddetti giunti a lamiere intercalate. Una sola ditta, la Brown Boveri di Baden, preferiva i giunti “affacciati”, in cui i gioghi, montati separatamente dalle colonne, venivano affacciati ad esse con interposto un sottile traferro. Soluzione senza dubbio ottima, ma richiedente una grande esperienza ed una lavorazione accuratissima del lamierino. In entrambi i casi il flusso magnetico era comunque costretto a ruotare di 90° e ciò costituiva un serio ostacolo all’impiego del lamierino laminato a freddo, a “grani orientati”. Si crede sia stata la Ditta Westinghouse a risolvere per prima questo problema, introducendo i giunti a 45°, oggi da tutti adottati, sia pure con qualche variante nella esecuzione. Inoltre, fino a quando fu impiegato il lamierino laminato a caldo, il pacco di esso, costituente il nucleo, veniva tenuto in sito, irrigidito e compresso mediante dei robusti tiranti di acciaio, accuratamente isolati dalle lamiere del nucleo e dalle piastre esterne di pressaggio. Tipico di queste costruzioni è il nucleo monofase con quattro colonne, di costruzione C.G.E.. Impiegando il lamierino a grani orientati, si riscontrò che le derivazioni del flusso causate dai fori per il passaggio dei tiranti, causavano un notevole aumento nel valore delle perdite a vuoto. Si abbandonò di conseguenza l’impiego dei tiranti e, a sostituire la funzione, furono introdotte delle legature in corda trattata, generalmente a caldo, con lacche resinose che la rendono indeformabile, oppure con nastro di vetro, od anche di acciaio, a spira aperta. Soltanto per il nuclei aventi le massime dimensioni si usa ancora una fila di tiranti, ma questi non sono ancora collocati entro fori, bensì entro un canale longitudinale di raffreddamento, al centro nel nucleo, e non deformano pertanto l’andamento delle linee di flusso magnetico. Tipico di questa moderna disposizione è il bel nucleo trifase a cinque colonne, di costruzione ASGEN. Con l’impiego dei lamierini a grana orientata si sono ancora dimezzate le perdite nel ferro, ed i valori delle correnti a vuoto sono stati ridotti ad ¼ circa di quelli primitivi. Questo fatto non deve essere sottovalutato : per una data potenza generata occorrono, oggi, almeno tre o quattro trasformazioni. Se, mediamente, le correnti a vuoto fossero dell’ordine del 5%, ai generatori sarebbero richieste, ed apparirebbero sulle linee, delle correnti in quadratura dell’ordine del 20%, generando perdite e riducendo la potenza attiva trasmissibile dalla linea; ma, se, viceversa, le correnti suddette sono ridotte all’1%, sulla linea apparirà soltanto il 4% della sua potenza nominale, quantità che, essendo in quadratura, è assolutamente trascurabile. Ne consegue un più alto fattore di potenza complessivo, ed una migliore utilizzazione dei generatori e delle linee. Ritornando al lamierino a grani orientati, ai già citati vantaggi se ne deve aggiungere un altro, che è essenziale per le macchine di grandissima potenza che sono assai difficili da trasportare: il limite di saturazione magnetica del ferro è pressoché identico per i due tipi di lamierino, ma le basse perdite e la bassa corrente magnetizzante, che sono proprie di quello a grani orientati, consentono di spingere l’induzione di funzionamento a valori assai prossimi a detto limite, e cioè fino a 1,7 ÷ 1,8 weber/m2. Ne consegue un grande risparmio di peso, di perdite, e di ingombro per la spedizione. Su un altro tipo di lamierino oggi si sperimenta : quello “doppiamente orientato”. In esso i cristalli del ferro giacciono nello stesso piano del foglio, presentando così degli spigoli orientati nel senso della laminazione, ed altri orientati in un senso ad essa perpendicolare. Tuttavia questo materiale ha trovato sinora scarse possibilità di applicazione, sia perché raro e piuttosto costoso, sia perché l’ulteriore miglioramento che esso è in grado di apportare risulta assai limitato.

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2.6 I CONDUTTORI PER LA COSTRUZIONE DEGLI AVVOLGIMENTI Sebbene l’alluminio vada incontrando applicazioni sempre più numerose e frequenti, in particolare nella costruzione dei moderni trasformatori con le bobine inglobate in resina, il materiale principe per i conduttori resta il rame elettrolitico ricotto. Sulla opportunità di questa ricottura i pareri sono oggi discordi. Il rame ricotto presenta la minima resistività elettrica, ma è anche molto duttile, e perciò facilmente deformabile sotto l’azione delle forze dinamiche di corto circuito. Avviene inoltre che, nel corso delle manipolazioni per l’avvolgitura, esso praticamente rincrudisca. Non si può, d’altra parte, approfittare della maggior durezza del rame rincrudito, perché in servizio esso ricuoce, sia pur lentamente, per effetto della sua temperatura di funzionamento. Nel caso dei grandi trasformatori, soggetti a sollecitazioni dinamiche di corto circuito molto violente, alcuni costruttori hanno cercato di ridurre la duttilità del materiale ricorrendo a una lega di rame con argento. Ma la resistività della lega risulta peggiore di quella del rame, mentre il costo ne è molto elevato. Accenneremo per inciso che, in America, durante l’ultima guerra, per scarsità di rame, si fecero avvolgimenti in argento. La resistività dell’argento è minore di quella del rame, ma in misura appena apprezzabile; del costo è inutile parlare: le macchine furono riavvolte in rame appena finita la guerra. Inoltre, l’argento reagisce con l’olio generando un ossido nero, polveroso e buon conduttore; se trascinato in circuito dall’olio di raffreddamento può depositarsi sulle parti in tensione, causando la scarica. Per tale motivo si sono abbandonati i contatti in argento, e quelli placcati in argento, nei commutatori di prese. Nel medesimo periodo, in Germania, si giunse a costruire avvolgimenti in zinco, e persino in magnesio ma, soprattutto, fu impiegato l’alluminio che, quantunque anch’esso eccessivamente duttile, diede dei buoni risultati; ne conseguì anche un affinamento della sua tecnologia, in specie per quanto riguarda la saldatura, e ciò rende oggi l’alluminio abbastanza competitivo nei confronti del rame. Il suo impiego oggi è quasi generalizzato nella costruzione dei trasformatori di distribuzione. Sempre nel campo dei conduttori, un progresso tecnologico è costituito dall’introduzione, per alcuni tipi di avvolgimento, del “cavo trasposto”. Si tratta di un certo numero di piccole e sottili piattine di rame smaltate, poste in parallelo su due strati sovrapposti. I conduttori vengono opportunamente trasposti, cioè ruotati ciclicamente tra di loro, a brevi intervalli di spazio, ed in complesso viene poi isolato con un normale isolamento in carta. Naturalmente tutte queste operazioni vengono effettuate automaticamente dalle macchine. L’impiego di più conduttori sottili in parallelo minimizza le perdite per correnti di Foucault; la trasposizione dei conduttori annulla le correnti di circolazione causate dalle diverse posizioni dei singoli conduttori nel campo magnetico del flusso di dispersione, e le perdite che ne deriverebbero. 2.7 I MATERIALI ISOLANTI Generalità Parlando di materiali isolanti si dovrebbe discutere di isolamento in generale, e delle sue esigenze. Ma qui il discorso si fa lungo e difficile, perciò nei limiti del possibile ci accontentiamo, qui, di parlare dei materiali in sé stessi, e dei progressi tecnologici che furono realizzati nel loro campo. I materiali isolanti solidi Il materiale isolante solido che, più di ogni altro, viene impiegato nei trasformatori immersi in olio è la cellulosa, in forma di carta e di cartone. Nei tipi a secco trovano impiego il cotone, la mica, l’asbesto e, in generale, i materiali che vengono impiegati per la costruzione delle macchine rotanti. Alcuni trasformatori a secco vengono costruiti per le classi di isolamento più alte, ma il limite per il loro impiego non è in generale, posto tanto dalla temperatura quanto dal massimo valore di densità di

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corrente che è ammissibile senza che le perdite raggiungano dei valori intollerabili e, più ancora, da esigenze di incombustibilità. Si usano ancora, per piccole macchine destinate ad essere interrate, oppure adoperate in luoghi molto umidi, dei compounds di varia natura, solidi o semisolidi, ma la tendenza attuale è piuttosto di sostituire l’olio al compounds, costruendo trasformatori chiusi entro cassoncini sigillati ed a tenuta ermetica. Sono entrate nell’uso, specialmente in America, delle carte e dei cartoni speciali, detti “upgraded”. In essi, la cellulosa subisce un trattamento chimico che elimina una parte di gruppi OH, ostacolando così la lenta decomposizione (invecchiamento) del materiale, con produzione di acqua, che ha luogo a caldo per effetto della temperatura di funzionamento. L’impiego di questi materiali “upgraded” consente (secondo gli americani) di spingere le macchine ad una temperatura alquanto superiore a quella consentita dalle attuali norme. Allo scopo di irrigidire la cellulosa, materiale pur esso assai soffice e poco atto ad impedire deformazioni permanenti sotto l’azione delle violente sollecitazioni dinamiche di corto circuito, si usò per lungo tempo la carta bachelizzata, sotto forma di cilindri e di anelli flangiati. Gli stessi avvolgimenti subivano un processo di laccatura sotto vuoto, per mezzo di vernici vetrificate a base di resine, applicate a caldo. Meccanicamente si ottenevano così degli ottimi risultati ma, quando furono introdotte le prove con tensione a impulso, si dovette purtroppo constatare che l’impiego di bachelite e di altre lacche compromette la buona tenuta dell’isolamento. Taluni costruttori impiegano tuttora, e con buon esito , i processi di laccatura, ma limitatamente ad avvolgimenti a tensione molto bassa, qualora essi risultino meccanicamente deboli. Ai cilindri ed ai collari flangiati in bachelite furono sostituiti cilindri e collari in cartone o in carta (in particolare in carta per gli avvolgimenti a strati assiali concentrici). Solamente i cilindri di base, che costituiscono la forma sulla quale si avvolge, che non sono adiacenti gli avvolgimenti, sono rimasti, per esigenze di rigidità e di robustezza, in bachelite che si cerca di tener ruvida, evitando ogni verniciatura. Indubbiamente, dal punto di vista della loro robustezza, le costruzioni sono con ciò peggiorate. Tuttavia un progresso notevole in fatto di rigidità ed indeformabilità dei materiali è stato ancora conseguito, ricorrendo a cartoni fortemente precompressi e durissimi. Nel campo dei progressi tecnologici c’è da aggiungere l’introduzione della resina epossidica. I materiali isolanti liquidi Si premette che la funzione dei materiali isolanti liquidi (come pure anche quella dell’aria e dei materiali isolanti gassosi) è duplice perché, oltre all’isolamento, essi provvedono alla rimozione del calore che si genera nel nucleo e negli avvolgimenti. L’isolante liquido maggiormente impiegato per i trasformatori è uno speciale olio minerale, un prodotto della distillazione della nafta. Furono introdotti anche alcuni liquidi isolanti sintetici, del tutto simili all’olio minerale, o da esso diversi in qualche loro particolarità, come nel caso dell’apirolio (pyranol, askarel) che offre il vantaggio di esser incombustibile, ma non è privo di inconvenienti, quali l’alto costo e l’alto peso specifico e, più ancora, il fatto che esso intacca quasi tutte le vernici e richiede perciò degli accorgimenti del tutto speciali. C’è da aggiungere che esso non è biodegradabile, ed è stato fin dal 1983 proibito dalla normativa internazionale, in quanto ritenuto fortemente tossico e inquinante. Vari altri liquidi isolanti sintetici sono ancora in fase di sperimentazione, ma va posto in rilievo che nessuno di essi potrebbe competere con l’olio minerale se il prezzo di quest’ultimo non fosse gravato da tasse assurdamente onerose. All’olio minerale si richiede una grande purezza chimica, l’assenza praticamente completa di molte impurità, ed in modo particolare dello zolfo. Se gli oli minerali oggi impiegati per i trasformatori sono ottimi, ciò è dovuto ad un lungo, graduale e paziente lavoro di progressivo miglioramento. Gli oli primitivi, per natura propria ed anche perché maggiormente esposti all’aria ed all’azione dell’umidità, erano soggetti a fenomeni di ossidazione per cui si formavano, tra bobina e bobina, dei depositi gelatinosi che finivano per ostruire i canali stessi, impedendo la trasmissione del calore. Era perciò necessario lavare, di tanto in tanto, la macchina , per mezzo di getti di petrolio in pressione. Ma se ciò poteva valere per l’avvolgimento esterno, l’efficacia ne era assai dubbia per quello interno. All’inconveniente fu posto rimedio sia con il miglioramento qualitativo

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dell’olio, sia con la generalizzazione dell’impiego del conservatore. Il peggiore nemico dell’isolamento dei trasformatori è l’acqua. Questa penetra nella macchina per due vie: per assorbimento dell’umidità atmosferica da parte dell’olio (e successiva formazione di acqua libera al variare del limite di saturazione per effetto delle variazioni della sua temperatura in servizio) e per generazione di molecole d’acqua nel corso del processo di invecchiamento dei materiali isolanti solidi a base di cellulosa. Di queste due cause, la prima è di gran lunga la più importante. I vecchi trasformatori venivano adeguati, nei limiti del possibile, alla qualità scadente del loro olio ed alla quasi totale mancanza di protezione nei confronti dell’umidità atmosferica; il processo di laccatura dei materiali isolanti solidi, e degli stessi avvolgimenti, li rendeva inoltre meno sensibili all’azione dell’umidità. Le distanze isolanti eccessive, dovute al timore di ostruzioni causate da depositi gelatinosi, inducevano ulteriormente a trascurare i processi di essiccamento. Fino a qual punto fossero sovradimensionati i primi trasformatori può risultare da un fatto curioso: nel 1927 un piccolo committente rinviò in officina un trasformatore guasto, che recava l’anno di costruzione 1902. La potenza era di 150 kVA, ma le dimensioni corrispondevano a quelle di una macchina moderna da 15.000 o 20.000 kVA . Aperto il cassone, non vi si trovò traccia di olio e l’analisi di laboratorio confermò che olio non era mai stato usato. Il committente, interpellato, disse di non aver mai letto il libretto di istruzioni che ne prescriveva l’impiego. La macchina funzionò dunque in ambiente d’aria chiuso, senza danno, per venticinque anni, malgrado la mancanza di olio, o forse proprio per questo! La costruzione moderna esige, invece, che sia la macchina che il suo olio siano disidratati al più alto grado possibile per mezzo di un trattamento sotto vuoto spinto ai limiti estremi delle possibilità. Ma l’olio disidratato, come pure i materiali isolanti a base di cellulosa, sono molto avidi di umidità ed occorre perciò impedire che quella espulsa durante il processo di trattamento possa rientrare dall’ambiente esterno. L’introduzione del conservatore d’olio consentì di risolvere sufficientemente bene questo problema, specie quando l’accorgimento fu integrato dall’aggiunta di essiccatori d’aria, un tempo al cloruro di calcio ed oggi al silica-gel (una specie di silice colloidale, estremamente assorbente), sulla conduttura di immissione dell’aria esterna. Ma si è proseguito ulteriormente in questi sistemi di protezione dell’olio (specie per le macchine più impegnative e per le tensioni più alte) con l’adozione del doppio conservatore dapprima, del cuscino di gas secco ed inerte (azoto) poi (di ideazione Westinghouse). Per le macchine più piccole si è fatto anche ricorso a un cuscino d’aria secca, che viene lasciato nella cassa avente il coperchio saldato a tenuta ermetica. Ciò non sarebbe tuttavia prudente per alte tensioni; anzi, lo stesso sistema , se non è perfettamente regolato nelle pressioni di immissione e di scarico del gas, ha dato luogo a qualche inconveniente. Infatti, quando il gas è in pressione, esso si scioglie nell’olio. Venendo a cadere la pressione per abbassamento della temperatura (riduzione di carico, od abbassamento della temperatura ambiente) il gas si libera in forma di bollicine, anche sulla superficie degli avvolgimenti. Queste bollicine sono fatalmente sede di fenomeni di ionizzazione che possono portare anche alla scarica con distruzione dell’avvolgimento. E’ perciò necessario che le variazioni di pressione in servizio siano le minime possibili, e, a tale riguardo, è particolarmente efficace il sistema a vescica di gas secco, ideato dal francese Josse ed oggi, con qualche perfezionamento, generalmente applicato alle macchine di maggiore importanza.

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I materiali isolanti gassosi Il principale materiale isolante gassoso è l’aria. Essa, anche se soffiata direttamente sulla macchina a mezzo di ventilatori, è assai meno efficace dell’olio sia come mezzo di asportazione del calore che come dielettrico. Perciò l’impiego dei trasformatori a secco è limitato a piccole potenze, a tensioni assai modeste, ed a macchine destinate generalmente ad installazione in locali chiusi. Infatti il maggior pericolo è costituito dall’azione dell’umidità e perciò, date anche le basse tensioni in gioco, gli avvolgimenti vengono generalmente protetti mediante processi di laccatura. Altri gas furono sperimentati: in particolare l’esafluoruro di zolfo, gas pesantissimo, dotato di ottime caratteristiche sia termiche che dielettriche, che si versa nella casse come se fosse olio. Lo scopo è di sostituire l’apirolio. Chimicamente inerte, una eventuale scarica non può provocare la rottura del cassone, ed i prodotti dell’arco elettrico, a differenza di quanto avviene con l’apirolio, non sono assolutamente tossici. Altre applicazioni furono tentate con il freon e con gas similari, e fu anche sperimentato un metodo di raffreddamento agevolato dall’evaporazione di un gas liquido, ma si tratta per ora di applicazioni a scopo di studio. Attualmente nel campo dei trasformatori da distribuzione MT / BT, si sono notevolmente affermati i trasformatori a secco con bobine inglobate in resina epossidica: rispetto ai trasformatori in olio, pur costando il 20 ÷ 30 % in più, presentano i seguenti vantaggi:

a) Assenza di manutenzione; b) Assenza di rischi in caso di incendio, in quanto la resina epossidica è ignifuga.

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3. COLLEZIONE DI STRUMENTI ELETTRICI

Nelle pagine seguenti sono rappresentati alcuni degli strumenti che hanno segnato la storia del trasformatore e della sua evoluzione, cogliamo l’occasione per ringraziare l’istituto Nazionale di Elettrotecnica Galileo Ferraris di Torino per averci fornito il materiale che ora presenteremo.

Gli strumenti che vedremo sono i seguenti:

Rocchetto di Ruhmkorff (1851)…………………………………………………Pag.15

Generatore secondario di Gaulard e Gibbs - primo tipo (1884)………………...Pag.16

Generatore secondario di Gaulard e Gibbs - secondo tipo (1886)...…………… Pag.17

Regolatore di corrente constante (~1880)……………………………………….Pag.18

Trasformatore originale Ganz (1885)…………………………………………...Pag.19

Trasformatore monofase Ganz (1887)…………………………………………..Pag.20

Trasformatore di Tesla (~1900)…………………………………………………Pag.21

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3.1 ROCCHETTO DI RUHMKORFF

L’elettromeccanico Heinrich D. Ruhmkorff, di Hannover, riuscì, alla metà del 1800, a perfezionare i rocchetti a induzione a due avvolgimenti di Callan, in base alle ricerche compiulte a Parigi da Masson e Bréguet nel 1842, in modo tale che da allora questi apparecchi presero il suo nome. I primi brevetti sono del 1851 e si susseguono introducendo alcune novità fondamentali. Il nucleo di ferro è sempre rettilineo e su di esso si dispongono l’avvolgimento primario, vicino al ferro e il secondario esterno. Il primario è alimentato da una batteria di accumulatori, attraverso un interruttore comandato dal nucleo magnetizzato. La corrente nel primario risulta pulsante, la tensione al secondario alternativa. Anzitutto il Ruhmkorff curò, in modo particolare, l’isolamento del secondario, usando per l’avvolgimento un filo di rame laccato, poi disponendo fra uno strato e l’altro un foglio di carta o di seta verniciata e infine, separando il primario dal secondario con un tubo di vetro. In seguito, utilizzando una disposizione inventata dagli inglesi E. e C. Bright, suddivise il secondario in compartimenti, ciascuno avvolto per proprio conto, e isolato dagli altri; tutti venivano poi messi in serie fra loro. Così i punti fra i quali esisteva la massima differenza di potenziale, venivano a trovarsi alla maggior distanza possibile. Il filo secondario poteva raggiungere decine di chilometri di lunghezza totale. Il Ruhmkorff perfezionò poi l’interruttore a mercurio coprendo questo con alcol per spegnere la scintilla ed evitare l’ossidazione. Infine, adottando il dispositivo di Fizeau, applicò un condensatore fra i terminali dell’arco di interruzione del primario, per aumentare la tensione indotta. Il nottolino anteriore serve per invertire la corrente primaria.

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3.2 GENERATORE SECONDARIO DI GAULARD E GIBBS - PRIMO TIPO

Primo tipo con nucleo di ferro rettilineo aperto (1884)

Al francese Lucien Gaulard (1850-88) si deve l’introduzione nel campo dell’elettrotecnica industriale dei primi apparecchi efficienti per la trasmissione a notevole distanza dell’energia elettrica a corrente alternata, cambiandone, a piacere, i due parametri fondamentali, tensione e corrente. Questi aparecchi, poi detti trasformatori, insieme col motore a campo rotante di Galileo Ferraris, iniziarono lo sviluppo delle applicazioni delle correnti alternate che costituiscono la base dell’elettrotecnica moderna. L’apparecchio qui presentato è quello su cui G. Ferraris sperimentò nel 1884. Esso ha ancora il nucleo di ferro aperto. I due avvolgimenti sono formati con anelli piatti di lastrina di rame, di 0,25 mm di spessore, tagliati ad un certo punto della circonferenza e muniti di sporgenze alle due estremità. Gli anelli vengono infilati sopra un nucleo di fili di ferro e isolati uno dall’altro mediante carta o vernice. Le sporgenze degli anelli successivi vengono spostate lungo la circonferenza esterna in modo da formare una spirale. Si collegano poi metallicamente le sporgenze degli anelli alternati, cioè il primo col terzo, questo col quinto e così via fino alla fine della colonna e si ottiene così l’avvolgimento primario. Il secondario si ricava allo stesso modo, collegando fra loro gli anelli 2, 4, 6 e così via; questo collegamento si arresta però a un quarto della colonna e si portano fuori i due estremi; si riprende poi col secondo quarto della colonna e così via, di modo che il secondario resta suddiviso in quattro sezioni, che si possono, a loro volta, collegare in serie o in parallelo fra loro, rispetto alla linea di uscita, mediante le spine disposte sulla fronte. In tal modo si può avere sul secondario una tensione e una corrente diverse da quelle che alimentano il primario. Nel presente modello il primario ha 455 anelli, come il secondario. Oggi si possono rilevare i principali difetti di questo apparecchio: grande riluttanza del circuito magnetico ferro-aria; scarsa l’area della sezione del nucleo di ferro; debole isolamento fra le spire per poter arrivare a tensioni elevate di esercizio; piccolo rapporto fra il numero di spire primarie e secondarie, anche collegando tutti i gruppi del secondario in parallelo.

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3.3 GENERATORE SECONDARIO DI GAULARD E GIBBS - SECONDO TIPO

Con nucleo di ferro chiuso - brevetto 245 costruito dalla “National Society for the distribution of electricity by Secondary Generators” di Londra - 1886

Negli anni successivi agli esperimenti di Londra e di Torino il Gaulard si persuase dell’utilità di usare un nucleo di ferro chiuso e seguendo un consiglio di Mr. Esson costruì i Generatori Secondari secondo il modello qui presentato, costituito da due generatori del tipo precedente affiancati e riuniti da un unico nucleo ottenuto collegando fra loro le estremità superiori e inferiori dei due nuclei precedenti rettilinei. Si ottenevano così dei generatori della potenza di 1 kW e oltre.

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3.4 REGOLATORE DI CORRENTE COSTANTE

Questo apparecchio regolava la corrente nei circuiti alimentati con generatori secondari Gaulard, mediante inserzione automatica di resistenze. Le resistenze vengono applicate all’esterno fra i morsetti corrispondenti di ciascuna delle due file e sono inserite per mezzo di contatti a pozzetti di mercurio mediante un solenoide succhiante alimentato dalla corrente di linea.

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3.5 TRASFORMATORE ORIGINALE GANZ

Sistema Zipernowsky, Dèri, Blàthy, Budapest brevetto germanico n.40414 ( febbraio 1885 )

Il “generatore secondario” di Gaulard & Gibbs aveva dimostrato, nel 1883 e ‘84, la possibilità di trasformare i due fattori, corrente e tensione, della potenza elettrica per adattarla alla trasmissione a distanza. Subito gli elettrotecnici si misero alla ricerca del metodo migliore per compiere questa trasformazione. Arrivarono primi alla migliore soluzione gli ingegneri Zipernowsky, Dèri e Blàthy della Casa Ganz di Budapest diretta da A. Mechwart, che ne aveva creato nel 1878 la sezione elettrotecnica. Essi convennero che: a) il nucleo di ferro doveva essere chiuso e molto frazionato per ridurre le correnti parassite nella sua massa; b) che occorreva isolare in modo adeguato il primario dal secondario per poter aumentare la tensione di alimentazione; c) che il trasformatore doveva funzionare a tensione costante al secondario per alimentare apparecchi inseriti in parallelo sul secondario stesso e che per questo bisognava variare un poco la tensione primaria di alimentazione, secondo il carico. L’apparecchio qui presentato è il primo tipo prodotto dalla Casa nel 1885 e consta di due bobine piatte, primaria e secondaria, di filo di rame, sovrapposte e isolate una dall’altra, e avvolte esternamente da uno spesso strato di filo di ferro dolce, che segue le linee del flusso magnetico. La potenza è di 3000 W e ha due rapporti di trasformazione: ½ e ¼. Questo tipo di costruzione fu ben presto abbandonato perchè un guasto agli avvolgimenti obbligava a disfare completamente l’apparecchio. Su questo trasformatore, inviatogli appositamente dalla casa Ganz, G. Ferraris eseguì le note esperienze del giugno 1885, con le quali potè dimostrare la superiorità del trasformatore Ganz su quello Gaulard, esaminato nel 1884 all’Esposizione di Torino.

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3.6 TRASFORMATORE MONOFASE GANZ

Secondo tipo, per 1926/105 V - 2,19/38 A - 42 Hz

Questo secondo tipo ha il supporto interamente metallico, il nucleo di ferro interno e gli avvolgimenti di rame esterni. La carcassa è formata da due dischi orizzontali sostenuti da piastre verticali, che hanno nella parte centrale un foro rettangolare. Il nucleo è formato con un nastro di lamiera sottile di ferro avvolta a ciambella passando entro i fori rettangolari delle piastre. Gli avvolgimenti di filo di rame isolato sono disposti fra una piastra e l’altra. Sul piatto superiore sono disposti gli attacchi ai circuiti esterni, muniti di fusibile di sicurezza. Il rapporto fra primario e secondario è per le tensioni di 18:1. Nel 1887 gli ingegneri della “Ganz” sostituirono il nucleo di nastro di ferro avvolto con una pila di dischi di lamierino tagliati in diverse forme fino al famoso tipo a “E” formato da due pacchi di lamierini tagliati come la lettera E; gli avvolgimenti venivano precostruiti e si infilavano sul gambo centrale di un pacco, sovrapponendo poi l’altro per chiudere il circuito magnetico. Con questo tipo si inizia la grande diffusione del trasformatore e la fortuna della casa “Ganz”.

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3.7 TRASFORMATORE DI TESLA

E’ un trasformatore creato da Nikola Tesla intorno al 1900 per ottenere elevate tensioni, con piccola potenza, in corrente alternata. Consta di un vaso cilindrico di vetro, di 50 cm di altezza e 16,5 cm di diametro interno, che contiene i due avvolgimenti, primario e secondario, immersi in olio minerale per l’isolamento. Il primario è formato con 12 spire di filo di rame, del diametro di 5 mm, avvolte sopra un tubo cilindrico di vetro del diametro esterno di 55 mm. Ha una resistenza ai morsetti R1 = 0,0023 ohm e una induttanza L1 pari a circa 2 uH. Il secondario, esterno al primario, è formato con circa 380 spire di filo di rame del diametro di 0,2 mm, isolate e avvolte sopra un tubo di vetro cilindrico del diametro esterno di 113 mm. Ha una resistenza ai morsetti R2 di 70 ohm e una induttanza L2 di circa 5,5 mH. Alimentando il primario con un circuito oscillante, costituito da uno spinterometro e da un condensatore in serie, eccitato a sua volta da una batteria o da un generatore elettrostatico, si ottengono fra gli estremi del secondario tensioni molto elevate ad alta frequenza e scintille di notevole lunghezza. La frequenza è fra 105 e 106 Hz e dipende dalle condizioni di risonanza del circuito oscillante. Anche il valore della tensione al secondario dipende non solo dal rapporto N2/N1 fra il numero delle spire secondarie e primarie, ma anche dalle condizioni di risonanza del circuito. L’apparecchio è servito, ai suoi tempi, allo studio delle oscillazioni elettriche ad alta frequenza ed alla osservazione delle prime curiose conseguenze dell’effetto di pelle.

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4. TEORIA DEI TRASFORMATORI

4.1 GENERALITA’ E PRINCIPIO DI FUNZIONAMENTO Col nome di trasformatori si definiscono quelle macchine elettriche statiche, cioè senza organi in movimento, che permettono di trasferire potenza elettrica (attiva e reattiva) tra due sistemi elettrici (in corrente alternata) tra loro non direttamente connessi e funzionanti a tensioni anche diverse. I trasformatori che assolvono principalmente a questa funzione sono detti trasformatori di potenza e possono essere monofasi o trifasi. Si hanno poi trasformatori speciali quali gli autotrasformatori (nei quali manca l'isolamento tra i sistemi elettrici connessi) ed i trasformatori a corrente costante (usati per alimentare gli impianti d’illuminazione stradale o aeroportuali con lampade collegate in serie). Infine vi sono i trasformatori di misura, voltmetrici o amperometrici, che servono a adattare i valori di tensione e corrente alternata da misurare alle portate degli strumenti impiegati. Tutti i trasformatori fino ad ora citati sono caratterizzati dal funzionare alla frequenza industriale che, nel nostro paese ed in Europa, vale 50 [Hz], ed è di questi che noi tratteremo. Esistono ulteriori applicazioni del trasformatore a frequenze diverse da quella industriale (radiofrequenze), ma noi non le prenderemo in considerazione essendo d’interesse più elettronico che elettrotecnico. Per quanto riguarda il principio di funzionamento, si può brevemente affermare che la macchina (monofase) si compone di due avvolgimenti in rame o alluminio, l'avvolgimento primario e l'avvolgimento secondario tra di loro isolati, mutuamente accoppiati attraverso un circuito magnetico (chiamato nucleo e realizzato, come vedremo, accostando dei lamierini ferromagnetici). Alimentando l’avvolgimento primario dal sistema da cui si intende prelevare potenza elettrica e collegando ai morsetti dell'avvolgimento secondario il sistema al quale si intende trasferire la potenza, avviene il trasferimento di potenza. Maggiori dettagli sul principio di funzionamento saranno esposti nel paragrafo seguente. Costruttivamente il trasformatore monofase può essere realizzato nei due seguenti modi:

Di seguito si studierà la macchina al fine di ricavarne un modello (circuito equivalente) che consenta di spiegare il suo funzionamento nelle varie condizioni. Considerando la complessità della macchina, risulta conveniente iniziarne lo studio e ricavarne il modello in condizioni ideali e, successivamente, introdurre nel modello le correzioni necessarie a spiegare il funzionamento reale. Il modello che si ottiene è sempre il risultato d’ipotesi

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semplificative, oltre che della corretta valutazione delle leggi che governano il funzionamento della macchina. Il processo di modellazione di un sistema, pur se con procedure diverse, è comune a tutti gli ambiti scientifico-tecnologici: si cerca di arrivare ad un modello matematico, particolarmente idoneo alle elaborazioni, anche numeriche, capace di rappresentare il più fedelmente possibile il funzionamento di una macchina di processo. Nel caso in esame, il modello sarà costituito da un circuito elettrico equivalente e dalle equazioni che lo rappresentano. 4.2 TRASFORMATORE MONOFASE IDEALE Si definisce ideale un trasformatore caratterizzato dalle seguenti proprietà: a) resistività elettrica del materiale conduttore impiegato per gli avvolgimenti di valore nullo, così

da potersi ritenere nulle le resistenze ohmiche degli stessi. b) permeabilità magnetica del mezzo circostante il nucleo di valore nullo, così da potersi ritenere

tutto il flusso magnetico confinato nel nucleo stesso e concatenato con entrambi gli avvolgimenti. Permeabilità del nucleo finita e costante, così da poter ritenere lineare il mezzo ferromagnetico.

c) perdite nel materiale ferromagnetico del nucleo nulle. Funzionamento a vuoto del trasformatore ideale

Alimentando alla tensione sinusoidale V1 il primario del trasformatore composto di N1 spire, in esso circolerà una corrente sinusoidale Iµ (chiamata corrente magnetizzante, in quadratura in ritardo rispetto alla tensione) che creerà una forza magnetomotrice sinusoidale N1·Iµ e, quindi, un flusso sinusoidale Φ0 (in fase con la corrente magnetizzante). Tale flusso, in base alle ipotesi fatte, si chiude tutto attraverso il circuito magnetico ed, essendo variabile sinusoidalmente, indurrà per via della legge generale dell'induzione elettromagnetica una forza elettromotrice sinusoidale in ciascuno dei due avvolgimenti. Tali f.e.m. sono entrambe in ritardo di 90° rispetto al flusso e valgono in valore efficace rispettivamente:

dove f è la frequenza della tensione d'alimentazione, Φ0M [Wb] è il valore massimo del flusso. Essendo il trasformatore a vuoto, la corrente da esso erogata sarà nulla (I2 = 0 ) e l'impedenza di carico che si immagina applicata al secondario del trasformatore sarà infinita (Zu = ∞) . La dimostrazione dell'espressione della f.e.m. è la seguente. Per i valori istantanei, il flusso nel nucleo vale:

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ed il flusso concatenato con l'avvolgimento primario vale: Dalla legge generale dell'induzione elettromagnetica, ricordando che:

si ottiene per la f.e.m. indotta al primario:

Chiamando:

il valore massimo della f.e.m. indotta al primario e ricordando che sen(-α) = -sen(α) e che cos(α) = sen(π/2 - α).

l'espressione ai valori istantanei diventa:

che conferma il ritardo di 90° della f.e.m. rispetto al flusso; per quanto riguarda il valore efficace si ha:

come volevasi dimostrare.

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Passando dai valori efficaci ai valori vettoriali, così da tenere conto delle relazioni di fase tra le varie grandezze, e considerando il flusso ad argomento iniziale nullo, si avrà:

Inoltre, applicando la legge di Ohm alla maglia del primario si ha V1 + E10 = 0 ovvero V1 = E10 mentre al secondario si ha V2 = E20 . Il tutto è riportato sul piano di Gauss nel diagramma sopra disegnato e fa riferimento ad un trasformatore riduttore ( N1 > N2 ⇒ E10 > E20 ). Si osserva che la corrente assorbita dal trasformatore ideale a vuoto è composta unicamente dalla corrente magnetizzante ed è in ritardo di 90° rispetto alla tensione applicata, quindi di essa si può tenere conto nel circuito equivalente con una reattanza fittizia induttiva Xµ [Ω] di adeguato valore. Tale reattanza andrà posta trasversalmente, ovvero sottoposta alla tensione applicata V1 in quanto la corrente magnetizzante ha un valore massimo che vale:

(ricavato dalla legge di Hopkinson applicata al circuito magnetico, dove ℜ [H-1] è la riluttanza di detto circuito) e, dipendendo dal flusso massimo, dipende dalla f.e.m. E1 e quindi dalla tensione V1. La reattanza trasversale fittizia potrà essere calcolata come:

Si osserva che, fissata la tensione e la frequenza di alimentazione del trasformatore, il flusso è del tutto indipendente dalla configurazione e dalla riluttanza del nucleo magnetico, essendo uguale a:

Tali parametri intervengono solo a determinare l'entità della corrente magnetizzante (e quindi della reattanza trasversale) necessaria a sostenere il flusso. In altre parole, fissati i valori di V1, f e N1, resta univocamente individuato il valore del flusso magnetico massimo Φom ; dovendo essere

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N1 · Iµm = φOM · ℜ ( legge di Hopkinson), la componente magnetizzante assumerà un valore pari a:

Iµm = ℜ · φ0m / N1 cioè risulterà direttamente proporzionale alla riluttanza magnetica ℜ del circuito , dove: ℜ = l / ( µ · s ) l = lunghezza del circuito magnetico µ = permeabilità magnetica del materiale costituente il circuito magnetico s = sezione del circuito magnetico E’ evidente che qualora il circuito magnetico fosse costituito da più tronchi ( compresi eventuali traferri ), la riluttanza magnetica risulterebbe pari a : ℜ = ∑ ℜi ; ℜ = riluttanza dal tronco i-esimo. Si osserva che, mettendo a rapporto le f.e.m., si ha:

dove m è chiamato rapporto spire. Questa relazione tra le f.e.m. vale sia per il trasformatore ideale che per quello reale, qualunque sia la condizione di funzionamento. Funzionamento a carico del trasformatore ideale

Il trasformatore si dice funzionante a carico quando eroga corrente al secondario, ovvero quando, col primario alimentato, si collega una impedenza di valore finito ai morsetti d'uscita del secondario. Nel passaggio da vuoto a carico, se si mantengono costanti la tensione applicata e la frequenza, dovrà pure rimanere costante il flusso (basta guardare la sua espressione).

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Per questo motivo la forza magnetomotrice complessiva nel passaggio da vuoto a carico dovrà rimanere costante, in altri termini dovrà essere:

dalla quale si ricava:

alla quantità:

si dà il nome di corrente di reazione primaria. La corrente assorbita a carico al primario del trasformatore si potrà quindi scrivere come:

tale espressione viene interpretata sul circuito equivalente tramite il primo principio di Kirchhoff applicato al nodo dal quale si dirama il ramo trasversale. Supponendo che il carico applicato al trasformatore ideale sia di natura Ohmico-induttiva, ZU = ZU ∠ α con α > 0° , il diagramma vettoriale sul piano di Gauss si modifica come sopra raffigurato (ovviamente I2 = V2 / ZU [A] ). Nel diagramma è stato tolto il pedice 0 a tutte le grandezze rappresentate, questo perché si fa riferimento al funzionamento a carico e non a vuoto. Il flusso, le f.e.m., le tensioni e la corrente magnetizzante hanno lo stesso valore a carico ed a vuoto (se si alimenta con tensione e frequenza costanti). Si osserva che, mettendo a rapporto il modulo della corrente di reazione con il modulo della corrente erogata si ha:

Questa relazione vale sia per il trasformatore ideale che per quello reale, qualunque sia la condizione di funzionamento.

4.3 TRASFORMATORE MONOFASE REALE

Il trasformatore reale si differenzia da quello ideale per i seguenti motivi : a) resistenze Ohmiche R1 , R2 degli avvolgimenti non nulle. A causa di ciò le correnti primaria e

secondaria produrranno delle cadute di tensione ohmiche e delle perdite di potenza per effetto Joule. Il valore delle resistenze ohmiche aumenta con la temperatura, quindi per il circuito equivalente si dovrà fare riferimento ad una ben precisa temperatura chiamata temperatura convenzionale di riferimento T [°C] che vale 75 [°C] per le classi d'isolamento A, E, B oppure 115 [°C] per le classi F, H. Dal momento che gli effetti prodotti dalla presenza delle resistenze dipendono dalle correnti, nel circuito equivalente che costituisce il modello del trasformatore reale, le resistenze R1 e R2 andranno poste in serie al circuito, in modo da essere percorse rispettivamente dalle correnti primaria e secondaria. Queste resistenze vengono proporzionate in

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modo tale che, a pieno carico, le perdite per effetto Joule al primario ed al secondario siano circa uguali ; ciò equivale a fissare per i due avvolgimenti la stessa densità di corrente (nei trasformatori trifasi di media e grande potenza 2,5 ÷ 4 [A/mm2] per il rame, 1,5 ÷ 2,5 [A/mm2] per l'alluminio, nei piccoli trasformatori monofase 1,5 ÷ 3 [A/mm2] .

b) presenza di flussi di dispersione al primario ed al secondario Φd1 e Φd2, causati dal fatto che la permeabilità del mezzo circostante il nucleo non è nulla. Si tratta di flussi alternati sinusoidali di frequenza pari a quella di rete, indipendenti dalla temperatura, sostenuti rispettivamente dalla corrente primaria e secondaria, concatenati con un solo avvolgimento e che si sviluppano prevalentemente in aria. Si ha così un flusso autoconcatenato in ciascun avvolgimento che determinerà un'autoinduzione di f.e.m. e, in definitiva, una caduta di tensione reattiva induttiva ed un impegno di potenza reattiva in ciascun avvolgimento. Di tali aspetti si terrà conto mediante due reattanze di dispersione:

Tali reattanze, se la frequenza è costante, si possono ritenere costanti perché il flusso di dispersione che le origina, sviluppandosi in gran parte in aria, percorre un circuito magnetico che è lecito ritenere a permeabilità magnetica costante (µ0) . Inoltre, vanno poste in serie nel circuito equivalente, in modo da essere percorse dalle correnti primaria e secondaria: infatti, gli effetti da esse prodotti dipendono da tali correnti. c) perdite nel ferro del nucleo ,dovute all'isteresi magnetica ed alle correnti parassite. L'entità di tali perdite, riferite ad 1 [Kg] di ferro, ammonta rispettivamente a: Pis = Kis·f·BM

α [W/Kg] , α = 1,6 se BM < 1 [Wb / m2], α = 2 se BM ≥ 1 [Wb / m2] Pcp = Kcp·(Kf·f·BM)2 * δ2 [W/Kg] , dove Kf è il fattore di forma del flusso alternato e δ è lo spessore dei lamierini. In tali espressioni, BM è il valore massimo dell'induzione alternata, Kis e Kcp sono due costanti dipendenti dal tipo di materiale ferromagnetico. Entrambe le perdite si possono riassumere nell'espressione:

Si tratta di una espressione empirica, dove Cp è la cifra (perdita specifica) di perdita che rappresenta le perdite in 1 [Kg] di ferro quando la frequenza vale 50 [Hz] e l'induzione massima vale 1 [Wb/m2]. Le espressioni sopra scritte evidenziano come le perdite varino con la frequenza ad induzione costante e con l'induzione a frequenza costante. Se invece si immagina di mantenere costante la tensione applicata V1 (caso pratico più frequente, specialmente per il trasformatore), allora si dimostra che le perdite per correnti parassite sono indipendenti dalla frequenza, mentre le perdite per isteresi diminuiscono all'aumentare della frequenza secondo l'esponente (1 - α) < 0.

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Infatti:

avendo trascurato la caduta sull'avvolgimento primario e quindi considerato E1 ≅ V1. Ponendo Y = 4,443 · N1 · S e sostituendo nelle espressioni delle perdite si ha:

avendo posto K1 = KIS / Y ; se α=2 ( come in genere è ) , PIS = K1 * V1

2 / f ; dalla quale si evince che, a tensione costante le perdite per isteresi diminuiscono all'aumentare della frequenza;

212

22

122CPCP VKδ

fVV

fKfKP ⋅=⋅

⋅⋅⋅=

avendo posto K2 = KCP * Kf 2 · δ 2 / Y ; dalla quale si evince che, a tensione costante, le perdite per correnti parassite non dipendono dalla frequenza. Dalle stesse relazioni si nota come, per frequenza costante, le perdite per correnti parassite e per isteresi aumentano proporzionalmente al quadrato della tensione (potendosi ritenere di solito α uguale a 2). Quindi è da evitare l'impiego del trasformatore a tensioni superiori ed a frequenze inferiori alle nominali. Delle perdite complessive nel ferro si terrà conto nel circuito equivalente con una resistenza fittizia trasversale R0 in parallelo alla Xµ, perché le perdite nel ferro sono pressoché proporzionali al quadrato della BM e, perciò, della E1. Tale resistenza varrà: PIST = KIS · f · BM

α ; PCP = KCP · ( Kf · f · BM )2 · δ2 ; V1 = 4,443 · N1 · S · BM · f ; BM = V1 / ( Y · f ) ; PIS – KIST · f · [V1 / ( Y · f ) ]α = K1 · V1

α · f ( 1 - α ) ≅ ( Kd · V12 ) / f per α = 2;

V1 = costante ; PIS diminuisce se f aumenta ; PCP = KCP · Kf

2 · f 2 · [ V12 / ( Y2 · f 2 ) ] · δ2 = K2 · V1

2 , costanti al variare della frequenza;

R0 = E12 / PFE , dato che PFE = E1

2 / R0 ; Si chiama attiva la componente Ia di corrente assorbita che tiene conto delle perdite nel ferro. La Iµ e la Ia sono sempre presenti nel funzionamento del trasformatore. Nel funzionamento a vuoto esse sono le sole correnti e dalla loro composizione si ha la corrente assorbita a vuoto µa10 III += . Ovviamente la corrente attiva è in quadratura in anticipo rispetto alla corrente magnetizzante e vale Ia = E1 / R0 [A] .

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Perdite addizionali nel rame Queste perdite sono dovute alla maggior resistenza presentata dagli avvolgimenti in corrente alternata rispetto alla corrente continua. Le perdite addizionali diminuiscono all'aumentare della temperatura e sono originate dall'effetto pelle, dall'effetto di prossimità e dalle correnti parassite che i flussi dispersi fanno scaturire nei mezzi conduttori da essi intersecati. Di tali perdite si tiene conto, conglobandole assieme a quelle ohmiche, mediante la resistenza equivalente ridotta al primario od al secondario, riferita alla temperatura convenzionale.

Perdite addizionali nel ferro Queste perdite sono dovute all’incrudimento dei lamierini durante il taglio, sbavature che stabiliscono contatti tra lamierini ( difetto di isolamento ), non omogeneità della permeabilità magnetica, distorsione del flusso, ecc.. Inoltre la non linearità del mezzo ferromagnetico determina l'impossibilità di avere contemporaneamente sinusoidali la corrente magnetizzante ed il flusso. Infatti la permeabilità di un materiale ferromagnetico non è costante, ma dipende dal valore del campo magnetico. Quindi la caratteristica di magnetizzazione B = f(H) non è rettilinea, così che a variazioni costanti di campo corrispondono variazioni diverse d'induzione e la stessa cosa succede nella relazione tra flusso (proporzionale all'induzione) e corrente magnetizzante (proporzionale al campo). Considerando che il trasformatore viene alimentato da una tensione forzatamente sinusoidale e che la f.e.m. è pressoché uguale alla tensione, si può senz'altro ritenere sinusoidale il flusso (direttamente proporzionale alla f.e.m.) e, quindi, deformata la corrente magnetizzante. La deformazione è tanto più accentuata quanto più il punto di lavoro sulla caratteristica di magnetizzazione si sposta oltre il ginocchio nella zona di saturazione. Nella pratica si lavora con valori d'induzione massima nel nucleo ( 1,3 ÷ 1,75 ) [Wb/m2] a seconda del tipo di lamierino per i trasformatori trifasi di media e grande potenza, (0,8 ÷ 1,2 ) [Wb/m2] per i piccoli trasformatori monofase; tali valori non consentono di raggiungere la zona oltre il ginocchio,

così che la deformazione della corrente magnetizzante è poco marcata. In tali condizioni, trascurando le armoniche di ordine superiore al terzo, è lecito ritenere la corrente magnetizzante uguale alla somma delle sue componenti di prima ( detta fondamentale ) e terza armonica, come mostrato in figura.

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La componente di terza armonica, di frequenza 150 [Hz], può, nel caso non sia sufficientemente piccola, provocare disturbi delle linee telefoniche poste in prossimità alla linea che alimenta il trasformatore essendo la sua frequenza nel campo dell'udibile. Sovracorrente di inserzione

Si presenta nell'istante di messa in tensione del trasformatore a vuoto quando la tensione ad esso applicata ha argomento iniziale nullo, cioè è esprimibile nella forma v1(t) = V1M·sen(ω·t). In tale caso il flusso nel nucleo assume inizialmente un valore massimo doppio rispetto a quello normale e, mandando in saturazione il ferro, determina il richiamo di una intensissima corrente magnetizzante, anche 40 volte quella normale. Poichè la corrente magnetizzante può anche essere il 5% della nominale a carico, si osserva che all'inserzione (durante la prima semionda) la corrente può diventare anche il doppio della nominale a pieno carico e di ciò si dovrà tenere conto nella scelta dei dispositivi di protezione contro i cortocircuiti dei trasformatori. La condizione migliore di inserzione è quella per la quale v1(t) = V1M·sen(ω·t + π/2); infatti, in tal caso il flusso assume fin dalla prima semionda il valore normale che poi conserverà.

4.4 CIRCUITO EQUIVALENTE DEL TRASFORMATORE MONOFASE REALE

Partendo dal circuito equivalente del trasformatore ideale e tenendo conto degli aspetti che caratterizzano il trasformatore reale si ottiene, per quest'ultimo, il seguente circuito:

Il significato dei vari parametri che compaiono nel circuito equivalente è stato chiarito nei paragrafi precedenti. Il circuito equivalente è da intendersi a parametri costanti, cioè invarianti nel tempo. Perché ciò sia vero, deve essere costante sia la frequenza della tensione di alimentazione che la temperatura di funzionamento. Per quanto riguarda la temperatura, essa deve essere quella convenzionale di riferimento. Le equazioni interne alla macchina (costituenti il suo modello matematico), sono:

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Le equazioni esterne, che vincolano la macchina ad uno specifico funzionamento, sono:

E' importante osservare come, nel trasformatore reale, pur mantenendo costanti la tensione e la frequenza di alimentazione, il flusso utile Φ non possa ritenersi costante. Infatti, al variare del carico (cioè al variare della corrente erogata I2 in conseguenza di variazioni dell'impedenza ZU del carico) varierà la corrente di reazione primaria I1' e, quindi, la corrente I1 al primario del trasformatore. Questo fatto determina una variazione della c.d.t. sull'impedenza longitudinale dell'avvolgimento primario e, in definitiva, una variazione della f.e.m. primaria dalla quale dipende direttamente il flusso. E' facile immaginare le complicazioni, nell'uso del modello, che tale fatto implica.

Oltre al rapporto spire, sono pure significativi il rapporto reale di trasformazione a carico:

ed il rapporto di trasformazione nominale, definito come il rapporto tra la tensione primaria nominale V1n e la corrispondente tensione al secondario a vuoto V20n:

Si può facilmente verificare che, nel caso di carico Ohmico-induttivo, risulta essere Ko < K, mentre è sempre lecito considerare K0 ≅ m.

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Circuito equivalente semplificato ridotto al secondario

E' il più utilizzato dei circuiti equivalenti. Se si trascurano le c.d.t. provocate dalla I10 sulla impedenza 1Z = R1 + j Xd1 (la qual cosa è lecita essendo, in condizioni di funzionamento nominali, la corrente a vuoto pochi percento della corrente assorbita al primario), allora si può immaginare che i rami trasversali siano sottoposti alla V1 anziché alla E1, e quindi è possibile trasportarli a monte di tutto il circuito. Ciò equivale a ritenere il flusso nel trasformatore costante al variare del carico (purché siano costanti la tensione e la frequenza di alimentazione). In tale ipotesi si può ritenere che l'impedenza Z1 sia percorsa dalla I1

’ anziché dalla I1 e si può scrivere: E1 / E2 = m ; I1

’ = I2 / m ;

Ricordando le relazioni che legano le f.e.m. e le correnti attraverso il rapporto spire e moltiplicando ambo i membri per N2 / N1 = 1 / m si ottiene:

Risolvendo rispetto alla f.e.m. secondaria si ha:

Si osserva che, essendo m ≅ K0, sarà:

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Applicando la legge di Ohm al secondario e sostituendo si ottiene:

Vengono chiamate resistenza equivalente secondaria [Ω] :

e reattanza equivalente secondaria [Ω]:

così che la legge di Ohm si può riscrivere come:

correttamente trascritta nel circuito equivalente sopra disegnato. Volendo si possono portare al secondario anche i parametri trasversali; è facile verificare che anch'essi devono essere divisi per il quadrato del rapporto di spire. Circuito equivalente semplificato ridotto al primario

Applicando la legge di Ohm al secondario del circuito equivalente e ricordando le relazioni che legano le f.e.m. e le correnti al rapporto spire, si ha:

( )2d22202 XJRIVV +⋅−= ; I2 = I1’ · m ;

( )2d221

2 XJRImE

V +⋅−

= ; V20= E1 / m ;

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Moltiplicando per N1 / N2 = m si ottiene :

2V · m = '12 IE − · R2 · m2 – '

1I · J X2d · m2 ;

1E = 2V · m + I1’ · (R2 · m2 + J X2d · m2) ;

E1 = V1 – I1

’ · (R1 + J X1d ) cioè V1 = E1 + I1’ · (R1 + J X1d)

V1 = V2 · m + I1

’ · [R1 + R2 · m + J (X1d + X2d · m2) ] ; Ponendo : V2 · m = V2

’ ; R2 · m2 = R2

’ ; X2d · m2 = X2d

’ ; ZU · m = ZU

’ ; R1 + R2

1 = RE’ ;

X1d + X2d

’ = XE’ si ottiene V1 = V2

’ + I1’ · ( RE

’ + J XE’ ) ;

Tutto ciò avviene nell’ipotesi semplificativa che la macchina lavori a flusso costante, e quindi che si possa trasportare il ramo trasversale a monte di tutto. Quindi, per portare un parametro dal secondario al primario, si moltiplica per m2 (mentre per fare il passaggio inverso, come abbiamo visto, si divide per m2 ). Osservazione: i circuiti equivalenti semplificati vengono praticamente impiegati al posto di quello non semplificato dal quale si è partiti. Infatti, la semplificazione effettuata (quella di considerare la macchina funzionante a flusso costante) non introduce significative differenze nei risultati ottenibili mediante il modello; inoltre, i parametri longitudinali equivalenti sono più significativi di quelli separati per i due avvolgimenti. Questo perché i parametri equivalenti si ottengono attraverso prove fatte sulla macchina attraverso le quali le resistenze equivalenti longitudinali tengono conto, oltre che delle perdite Ohmiche, anche delle perdite addizionali. Infine, per motivazioni teorico-tecniche, che noi non prendiamo in considerazione, si può anche dire che le reattanze di dispersione considerate singolarmente per i due avvolgimenti, variano (leggermente) al variare del carico, mentre la reattanza equivalente (non importa se riportata al primario od al secondario) è più prossima all'essere indipendente dal carico.

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4.5 DATI DI TARGA DEL TRASFORMATORE

Il trasformatore, come tutte le macchine, è caratterizzato da una targa che riporta i valori nominali di funzionamento. Si tratta dei valori che servono a definire le prestazioni della macchina agli effetti delle garanzie e del collaudo. Non bisogna infatti dimenticare che l'efficienza della macchina dipende, oltre che dalle sue parti attive (ferro del nucleo, rame degli avvolgimenti), anche dal buon funzionamento degli isolanti impiegati. Gli isolanti sono condizionati dall'ambiente nel quale lavorano, dalle tensioni che devono sopportare e dalla temperatura che la macchina (in particolare gli avvolgimenti) raggiunge a regime termico. La temperatura a regime dipende dalle perdite di potenza interne alla macchina: perdite nel ferro che sono funzione del quadrato della tensione applicata e perdite nel rame che sono funzione del quadrato della corrente negli avvolgimenti. I valori nominali sono quei valori che le grandezze elettriche possono assumere garantendo il corretto funzionamento della macchina. Per il trasformatore, i più importanti dati di targa sono: a) la frequenza nominale fn [Hz]; b) le tensioni nominali primaria V1n [V] e secondaria V20n [V] (concatenate per la macchina trifase), in valore efficace e riferite al funzionamento a vuoto; c) il rapporto nominale di trasformazione

d) le correnti nominali primaria I1n [A] e secondaria I2n [A], in valore efficace e riferite ai terminali di collegamento del trasformatore alle linee; e) la potenza nominale definita come Sn = V1n·I1n = V20n·I2n [VA] per il trasformatore monofase, Sn = √3·V1n·I1n =√3·V20n·I2n [VA] per il trasformatore trifase; f) le perdite a vuoto espresse in percento della potenza nominale Po% , la corrente assorbita a vuoto in percento della corrente nominale Io% , il f.d.p. a vuoto cosϕ0 quando il trasformatore è alimentato a tensione e frequenza nominali (esiste la relazione cosϕ0 = Po% / Io% ); g) le perdite in cortocircuito espresse in percento della potenza nominale Pcc% , la tensione applicata in cortocircuito in percento della tensione nominale Vcc% , il f.d.p. in cortocircuito cosϕCC quando il trasformatore ha i morsetti d'uscita cortocircuitati, ha gli avvolgimenti percorsi dalle correnti nominali e la temperatura è quella convenzionale di riferimento (esiste la relazione cosϕcc = Pcc% / Icc% ); h) il gruppo (o la famiglia) d'appartenenza, solo per i trasformatori trifase; i) la classe d'isolamento, che definisce la temperatura convenzionale di riferimento della quale abbiamo già parlato; l) il tipo di servizio (continuo, di durata limitata, intermittente).

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Per ultimo è bene ricordare che, indipendentemente dall'impiego che se ne farà (riduttore o elevatore di tensione), si definisce primario l'avvolgimento alimentato dalla rete, e i morsetti dei due lati (di alta e bassa tensione) si identificano mediante lettere maiuscole dal lato di alta tensione e minuscole dal lato di bassa tensione, usando la stessa lettera per i morsetti dei due lati che si corrispondono (ovvero che assumono contemporaneamente il potenziale positivo o negativo).

4.6 FUNZIONAMENTO A VUOTO DEL TRASFORMATORE MONOFASE REALE

Il trasformatore si dice funzionante a vuoto se è nulla la corrente da esso erogata, ovvero se è Zu = ∞ [Ω] , I2 = 0 [A]. Sotto tale ipotesi è ovviamente nulla anche la corrente di reazione al primario e, con riferimento al circuito equivalente semplificato ridotto al secondario, si può scrivere: I1 = I10 , V2 = V20. In tale condizione di lavoro è sicuramente nulla la potenza erogata dal trasformatore, mentre la potenza assorbita al primario coincide con le perdite nel ferro e vale:

Se la tensione e la frequenza di alimentazione sono quelle nominali, V1n , fn, risulta evidente come, misurando la corrente e la potenza assorbite nel funzionamento a vuoto, Pon, I10n sia possibile calcolare i parametri trasversali del circuito equivalente semplificato:

Normalmente la corrente a vuoto e la potenza assorbita a vuoto si esprimono in percento:

Valori normali sono Io% = 1 ÷ 30 , Po% = 0,2 ÷ 10 passando dai trasformatori trifase di grande potenza ai monofase di piccolissima potenza. Osservazione: nel funzionamento a vuoto di un trasformatore reale viene assorbita anche una piccola potenza dissipata per effetto Joule nel rame dell'avvolgimento di alimentazione. Tuttavia, essendo la corrente assorbita a vuoto molto più piccola della nominale (pochi percento), è lecito trascurare queste perdite.

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4.7 FUNZIONAMENTO IN CORTOCIRCUITO DEL TRASFORMATORE MONOFASE REALE

Il trasformatore si dice in cortocircuito se l'impedenza collegata ai suoi morsetti d'uscita è nulla, ovvero se Zu = 0 [Ω] , V2 = 0 [V]. In tali condizioni è impensabile applicare al trasformatore la sua tensione nominale: infatti, la corrente negli avvolgimenti, a causa della piccolissima impedenza interna (l'impedenza longitudinale del circuito equivalente semplificato), tenderebbe ad assumere un valore molto più grande del nominale, distruggendo così gli avvolgimenti stessi. Per questo motivo, al trasformatore in cortocircuito si applica una tensione ridotta, più precisamente si applica la tensione di cortocircuito, che è quella tensione per la quale la corrente negli avvolgimenti, col trasformatore cortocircuitato, assume il valore nominale. Essendo tale tensione molto più piccola della nominale (pochi percento), anche il flusso utile nel nucleo sarà molto inferiore al nominale e, quindi, saranno piccolissime le perdite nel ferro e piccolissima la corrente magnetizzante. In definitiva, nel circuito equivalente semplificato saranno trascurabili (cioè di impedenza infinita) i parametri trasversali. Se le correnti e la frequenza di alimentazione sono quelle nominali, I1n , I2n , fn, e la temperatura è quella convenzionale di riferimento, risulta evidente come, misurando la tensione applicata e la potenza assorbita nel funzionamento in cortocircuito, V1ccn, Pccn, sia possibile calcolare i parametri longitudinali del circuito equivalente semplificato:

;]V[KccnV

ccnV0

120 = ][

nIccnV

Ze2

20'' Ω=

;][nI

PccnRe 22

'' Ω= ][TgReReZeXe cc''2 ''2 '''' Ω⋅=−= ϕ

Normalmente la tensione di cortocircuito e la potenza assorbita in cortocircuito si esprimono in percento:

Valori normali sono Vcc% = 4 ÷ 20 , Pcc% = 1 ÷ 15 passando dai trasformatori trifase di media grande potenza ai monofase di piccola potenza.

Osservazione: nel funzionamento in cortocircuito di un trasformatore reale, viene assorbita anche una piccola potenza dissipata nel ferro del nucleo. Tuttavia, essendo la tensione applicata molto più piccola della nominale (pochi percento), è lecito trascurare queste perdite.

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4.8 FUNZIONAMENTO A CARICO DEL TRASFORMATORE MONOFASE REALE

Il funzionamento a carico risulta descritto dalle equazioni già presentate. Con riferimento al circuito equivalente semplificato ridotto al secondario:

immaginando che l'impedenza di carico sia Ohmico-induttiva, con α > 0°, si ottiene il diagramma vettoriale sotto riportato (disegnato a partire dal flusso posizionato sul semiasse reale positivo):

In tale diagramma ϕ1 è lo sfasamento d'ingresso, ϕ10 è lo sfasamento d'ingresso a vuoto, ϕ2 è lo sfasamento d'uscita, ϕ20 è lo sfasamento interno. Ovviamente lo sfasamento d'uscita coincide con

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l'argomento dell'impedenza di carico, cioè ϕ2 = α . Lo sfasamento interno vale invece:

dove Xu e Ru sono la reattanza ed la resistenza dell'impedenza di carico. Si osserva come sia 11 EV −= , questo perché ci stiamo riferendo al circuito equivalente semplificato.

La corrente erogata vale:

La tensione d'uscita a carico 2V differisce da quella a vuoto 20V di una quantità pari alla caduta vettoriale di tensione sull'impedenza equivalente riportata al secondario:

4.9 CADUTA DI TENSIONE INDUSTRIALE NEL TRASFORMATORE MONOFASE REALE

Viene definita come la differenza aritmetica tra il valore efficace della tensione d'uscita a vuoto ed il valore efficace della tensione d'uscita a carico: ∆V2 = V20 - V2 [V], mantenendo costanti la tensione e la frequenza d'alimentazione.

E' possibile calcolarla con un'espressione semplificata. Con riferimento al circuito equivalente semplificato avente i parametri riportati al secondario ed alla figura riportata sopra (relativa ad un carico di natura Ohmico-induttiva), possiamo scrivere:

∆V2 = V20 - V2 = OD - OA = AD

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Se l'angolo δ è piccolo (pochi gradi), allora l'arco CD si può confondere con la semicorda CE, ovvero si può trascurare ED rispetto AD, così che si ha:

∆V2 ≅ AE = AN + NE

∆V2 ≅ I2·(Re"·cosϕ2 + Xe"·senϕ2) [V]

Per trasformatori correttamente dimensionati e che erogano su carichi normali (Ohmico-induttivi), l'espressione approssimata sopra dimostrata è sufficientemente precisa. Volendo, esiste un'espressione meglio approssimata che noi non stiamo a dimostrare:

Molte volte la c.d.t. industriale viene espressa percentualmente rispetto alla tensione secondaria a vuoto oppure a carico. Nei trasformatori ben costruiti, la c.d.t. industriale a pieno carico assume valori percentuali poco discosti dal 4%.

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4.10 DIAGRAMMA DI KAPP DI UN TRASFORMATORE MONOFASE

E' una costruzione che permette di determinare graficamente la c.d.t. industriale e di fare importanti considerazioni sul funzionamento del trasformatore, ipotizzando costanti la tensione di alimentazione, la frequenza, la corrente erogata.

La costruzione si basa sul triangolo fondamentale OAB (triangolo di cortocircuito) del trasformatore disegnato per la corrente erogata I2 per la quale si vuole determinare la c.d.t. industriale. In questo triangolo, il cateto orizzontale OA è proporzionale alla caduta sulla resistenza equivalente secondaria Re"·I2 , il cateto verticale AB è proporzionale alla caduta sulla reattanza equivalente secondaria Xe"·I2 , l'ipotenusa OB è proporzionale alla caduta sull'impedenza equivalente secondaria Ze"·I2 , l'angolo sul vertice O è l'angolo di cortocircuito ϕCC. La costruzione prevede poi che siano tracciate due circonferenze γ' , γ" di raggio uguale pari a V20 e centro rispettivamente in O e B. Una semiretta r orizzontale tracciata a partire dal vertice B costituirà il riferimento per impostare lo sfasamento d'uscita ϕ2 per il quale si desidera conoscere la c.d.t. industriale:

Dopo avere disegnato il triangolo fondamentale, le due circonferenze e la retta di riferimento per gli sfasamenti, se si desidera conoscere la c.d.t. industriale per il generico sfasamento d'uscita ϕ2, basta tracciare dal vertice B una semiretta formante l'angolo ϕ2 rispetto al riferimento r: il segmento CD formato dall'intersezione di questa semiretta con le due circonferenze rappresenta senz'altro la c.d.t. industriale cercata.

Questo perché, essendo OC e OB rappresentativi rispettivamente della V20 e della Ze"·I2 , sarà BC pari alla tensione d'uscita V2 essendo soddisfatta l'equazione 2

''e202 IZVV ⋅−= . Inoltre BD è per

costruzione uguale a V20, quindi è sicuramente CD = BD - BC uguale alla ∆V2.

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E' facile verificare che quando ϕ2 = ϕCC si ha la massima c.d.t. industriale, pari alla caduta di tensione sull'impedenza equivalente secondaria. Quando lo sfasamento d'uscita, di natura Ohmico-capacitiva, è pari a ϕ2* si ha una c.d.t. industriale nulla. Quando lo sfasamento d'uscita, di natura Ohmico-capacitiva, supera ϕ2* si ha una c.d.t. industriale negativa, ovvero la tensione d'uscita a carico supera quella a vuoto.

4.11 CARATTERISTICHE ESTERNE DI UN TRASFORMATORE MONOFASE

Sono le V2 = f(I2) con V1 = cost. , f = cost. , ϕ2 = cost. e si possono ricavare analiticamente, noti che siano i parametri longitudinali del trasformatore, oppure graficamente basandosi sul triangolo fondamentale disegnato per la corrente nominale.

La costruzione necessaria per ricavarle graficamente è la seguente: si disegna il triangolo fondamentale OAB per la corrente nominale I2n, quindi si traccia un arco di circonferenza centrato in O e di raggio γ pari a V20 = V1 / K0, dove V1 è la tensione primaria per la quale si desidera la caratteristica esterna. Per ultimo, a partire dal vertice O si traccia una semiretta r di riferimento per lo sfasamento d'uscita ϕ2 per il quale si desidera la caratteristica esterna. Si dimostra facilmente che, preso un generico punto B' sull'ipotenusa OB o sul suo prolungamento, il segmento OB' nella scala delle correnti rappresenta la corrente erogata dal trasformatore. Inoltre il segmento B'C' mandato da B' e formante con r un angolo ϕ2 pari allo sfasamento d'uscita desiderato, rappresenta la tensione d'uscita. Ovviamente il segmento BCN mandato dal vertice B rappresenta la tensione d'uscita quando la corrente erogata è quella nominale, il segmento OC0 mandato da O rappresenta la tensione d'uscita a vuoto. Il segmento OBCC rappresenta invece, nell'opportuna scala, la corrente di cortocircuito alla quale corrisponde una tensione d'uscita nulla.

Le caratteristiche esterne intersecano tutte l'ordinata nel valore V20 [V] e l'ascissa nel valore I2CC = V20 / Ze" [A]. Le caratteristiche esterne hanno andamento decrescente quando il carico è Ohmico, Ohmico-induttivo, oppure Ohmico-capacitivo debolmente sfasato. Possono essere crescenti per carichi Ohmico-capacitivi fortemente sfasati. La caratteristica per ϕ2 = ϕCC è la più bassa di tutte ed è l'unica ad andamento rettilineo.

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4.12 CARATTERISTICHE DI REGOLAZIONE DI UN TRASFORMATORE MONOFASE

Sono le V1 = f(I2) con V2 = cost. , f = cost. , ϕ2 = cost., e si possono ricavare analiticamente, noti che siano i parametri longitudinali del trasformatore, nel seguente modo:

Questa espressione è facilmente ricavabile dal diagramma vettoriale del trasformatore a carico. L'andamento delle caratteristiche di regolazione è opposto rispetto a quello delle caratteristiche esterne (se le prime sono crescenti le seconde sono calanti). Sono utili perché permettono di sapere quale tensione applicare al primario per ottenere una determinata tensione al secondario, con prefissate condizioni di carico.

4.13 RENDIMENTO DI UN TRASFORMATORE MONOFASE

Si distingue il rendimento effettivo:

nel quale sia la potenza assorbita P1 [W] che la potenza erogata P2 [W] sono direttamente misurate, dal rendimento convenzionale:

nel quale una delle due potenze si ricava dall'altra tenendo conto delle perdite PP [W] (calcolate con riferimento al modello semplificato).

Le perdite nel ferro Pfe [W] valgono Po (potenza assorbita nella prova a vuoto, riportata sulla targa) se il trasformatore è alimentato a tensione e frequenza nominali, altrimenti si calcolano con:

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Le perdite nel rame Pcu [W] valgono Pcc (potenza assorbita nella prova in corto, riportata sulla targa) se il trasformatore ha gli avvolgimenti percorsi dalle correnti nominali, altrimenti si calcolano con:

Il trasformatore viene dimensionato per dare il massimo rendimento intorno ai 3/4 del pieno carico. Si dimostra che il rendimento è tanto più grande quanto più è grande il f.d.p. del carico. Inoltre, se si trascura la c.d.t. industriale, cioè se si immagina costante la tensione d'uscita al variare della corrente erogata, allora la corrente per la quale si ha il massimo rendimento è quella che produce nel rame le stesse perdite che si hanno a vuoto nel ferro, ovvero:

( ) ''e

02maxη0

2 2maxη

''e R

PIPIR =⇒=⋅

Qualitativamente, l'andamento del rendimento in funzione della corrente erogata è quello sopra raffigurato. Nei trasformatori ben costruiti e funzionanti a pieno carico il rendimento è sempre molto elevato, anche pari al 99,5% per le macchine di elevata potenza.

4.14 FATTORE DI CARICO DI UN TRASFORMATORE MONOFASE

E' definito come:

ed indica quanto un trasformatore viene utilizzato rispetto alla sua prestazione nominale. Valori normali per il fattore di carico sono 0,7 ÷ 1.

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5. PROGETTAZIONE E COLLAUDO DI UN TRASFORMATORE MONOFASE A MANTELLO

SPECIFICHE DI PROGETTO Il trasformatore viene dimensionato conoscendo la potenza che dovrà erogare; esso verrà dimensionato attraverso i seguenti dati di progetto.

• tensione nominale dell’avvolgimento primario: V1n = 230 V; • tensione nominale dell’avvolgimento secondario a carico: V2 n = 48 V; • Potenza apparente An = 120 VA; • fattore di potenza: 1cos =ϕ ; • frequenza di funzionamento: f = 50 HZ⋅; • Raffreddamento: in aria libera; • Tipo di servizio: continuo; • Isolamento dei lamierini: carlyte

5.1 DIMENSIONAMENTO DEL TRASFORMATORE

5.1.1 Dimensionamento nucleo magnetico Noto il valore della potenza nominale del trasformatore e stabilita un’induzione massima Bmax = 1,1 Wb / m2, si ricava dal grafico seguente ( fig.1 ), la sezione netta Sn della colonna centrale.

fig.1 Ad una potenza nominale An = 120 VA corrisponde una sezione netta della colonna centrale Sn = 1440 mm2.

V alori della Sezione netta della colonna centrale in f unzionedella Potenza N om inale

0

200

400

600

800

1000

1200

1400

1600

5 20 40 60 80 100 120 140 150

A n [ V A ]

Sn

[ m

m 2 ]

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B

A

D

D

D”

E

C C’

Ora si calcola la sezione lorda Sn della colonna centrale considerando il coefficiente di stipamento Ks che tiene conto dello spazio occupato dall’isolamento dei lamierini ( carlyte ); il suo valore è 1,1.

Sl = Sn * Ks = 1440 * 1,1 = 1584, arrotondato a 1600 mm2 Considerando la colonna centrale a base quadrata, si calcola la misura del lato Sp di quest’ultima che sarà lo spessore del pacco lamierini:

mm401600SlSp ===

Noto Sp, si possono calcolare il numero dei lamierini NL necessari per costruire il nucleo, sapendo che lo spessore di un singolo lamierino sl = 0,5 mm:

lamierini800,540

slSpN L ===

5.1.2 Dimensionamento e scelta dei lamierini I lamierini che costituiscono il nucleo a mantello ( fig.2 ) hanno spessore che può variare da 0,35 a 0,5 mm, e sono isolati mediante uno strato di vernice, detta carlyte, e strettamente serrati fra di loro. Le dimensioni del nucleo a mantello sono: A = altezza lamierino; B = larghezza lamierino; Sp = spessore pacco lamierini: 40 mm; C = larghezza colonna centrale: 40 mm; C’= larghezza finestra; D = larghezza colonne laterali; D’= altezza del giogo superiore; D”= altezza del giogo inferiore; E = altezza finestra.; Sg = spessore d’aria tra rocchetto e nucleo: 0,5 mm; Sr = spessore rocchetto: 1,5 mm.

fig.2

Le dimensioni dei lamierini e conseguentemente quelle del nucleo magnetico dipendono dal valore di C. Sapendo il valore di C [mm], si possono quindi calcolare le dimensioni teoriche del lamierini:

mm1004025C

25A =⋅=⋅= mm20

240CDD

2CD '''' ======

mm120403C3B =⋅=⋅= mm604023C

23E =⋅=⋅=

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Trovate le dimensioni teoriche, dalla tabella dei lamierini unificati UNEL ( fig.3 ) si ricavano le dimensioni commerciali.

Tabella lamierini unificati UNEL A B C D E F G H I D 30 36 12 6 18 24 3.50 2.50 35 42 14 7 21 28 3.50 3.50 40 48 16 8 24 32 4.00 4.00 45 54 18 9 27 36 4.00 4.00 4.00 3.50 50 60 20 10 30 40 4.00 4.00 4.00 4.00 55 66 22 11 33 44 5.00 6.00 4.50 5.00

62,5 75 25 12,5 37,5 50 5.00 6.00 4.50 5.00 70 84 28 14 42 56 6.00 8.00 5.00 6.00 80 96 32 16 48 64 6.00 8.00 5.50 6.00 90 108 36 18 54 72 7.00 9.00 6.00 7.00 100 120 40 20 60 80 7.00 9.00 6.00 7.00

112,5 135 45 22,5 67,5 90 8.00 10.00 7.00 8.00 Dim

ensi

one

Lam

ierin

i In

mm

125 150 50 25 75 100 8.00 10.00 7.50 8.00

fig.3 5.1.3 Calcolo misure reali del rocchetto Ora si calcolano le dimensioni reali del rocchetto ( fig.4 ), tenendo conto dello spessore d’aria tra la colonna centrale e il rocchetto ( Sg ), che vale 0,5 mm, e dello spessore del rocchetto ( Sr ) che vale 1,5 mm. Pertanto la larghezza del rocchetto ( Cr ) è:

mm443140Sr2Sg2CCr =++=⋅+⋅+= Quindi L’altezza del rocchetto hr è:

mm57360Sr2Ehr =−=⋅−= Infine lo spessore del rocchetto br è:

mm443140Sr2Sg2Spbr =++=⋅+⋅+=

fig.4

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5.1.4 Dimensionamento degli avvolgimenti Dimensionamento elettrico dell’avvolgimento secondario Imponendo Bmax = 1,1 Wb / m2, si determina il flusso massimo che attraversa la colonna centrale:

Wb0,0015841014401,1SnBΦmax 6max =⋅⋅=⋅= −

Nota la potenza apparente An, si ricava dalla tabella sottostante ( fig.5 ) il valore della caduta di tensione percentuale:

An ( VA ) ∆V % 10 ÷ 30 20 ÷ 10 30 ÷ 50 10 ÷ 7 50 ÷ 100 7 ÷ 5 100 ÷ 500 5 ÷ 3 500 ÷ 1000 3 ÷ 2,5

fig.5 Fissando il valore della ∆V% al 5 %, si calcola la tensione a vuoto (V20 ) del secondario:

V4,50100

5148100

%V1VV n220 =

+⋅=

+⋅=

Quindi si calcola il numero di spire al secondario ( N2 ):

spire143)001584,05044,4(

4,50max)f44,4(

VN 20

2 ≅⋅⋅

=Φ⋅⋅

=

Noto il numero di spire, si calcola la corrente nominale al secondario ( I2n ), a cosϕ =1, che è uguale a:

A5,248

120VA

In2

nn2 ===

Si calcola ora la sezione dei conduttori dell’avvolgimento secondario ( Scu2 ), prendendo in esame il tipo di servizio e di raffreddamento a cui è sottoposto il trasformatore. Si sceglie la densità di corrente ( δcu ) appropriata, compresa tra 1,5 e 3 A / mm2. In questo caso 2

Cu mm/A3=δ .

222 83,0

350,2 mm

IS

Cu

nCu ===

δ

La sezione trovata è quella teorica del conduttore nudo; da questa si sceglie il valore commerciale più vicino arrotondando per eccesso.

)smaltato(mm1116,1d)nudo(mm1,1dmm9503,0)com(S s2Cun2Cu2

2Cu =→=→=

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Con la nuova sezione commerciale Scu2c si calcola l’effettiva densità di corrente ( δcu2c ):

2

2Cu

n2c2Cu mm/A63,2

9503,05,2

)com(SI

===δ

Il conduttore smaltato viene avvolto sul rocchetto isolante ( mediante bobinatrice ) su più strati concentrici. Ogni strato è costituito da un numero di spire ( n s2 ), pari a:

stratoperspire498,481116,105,1

57dKavv

hrns2Cu

2s ≅=⋅

=⋅

=

Dove Kavv è il coefficiente d’avvolgimento che tiene conto dell’aria interposta tra spira e spira nella costruzione dell’avvolgimento e vale circa 1,05. Ora si calcola il numero di strati ( N2s ) che costituirà l’avvolgimento:

strati39,249

1432ns

Ns2N 2 ≅===

Tra uno strato e l’altro è interposto un foglio di carta isolante Mylar di spessore sc = 0,1 mm, per evitare che i conduttori di uno strato vadano ad incastrarsi nella gola lasciata dai conduttori appartenenti allo strato precedente. Si calcola ora lo spessore radiale ( bcu2 ) dell’avvolgimento secondario:

mm3,53480,11)(31,11163Sc1)(N2sdN2sb Cu2sCu2 =⋅−+⋅=⋅−+⋅= Dimensionamento elettrico dell’avvolgimento primario Nota la tensione nominale al primario ( V1n ), il numero di spire al secondario ( N2 ) e la tensione a vuoto al secondario ( V20 ), si calcola il numero di spire al primario ( N1 ):

spire6531434,50

230NVVN 2

20

n11 ≅⋅=⋅=

Ora da tabella ( fig.6 ) si ricava il valore del rendimento in funzione della potenza ( An ) del trasformatore; tale valore serve a calcolare la corrente nominale al primario ( I1n ).

An ( VA ) η 10 ÷ 30 0,65 ÷ 0,8 30 ÷ 50 0,75 ÷ 0,85 50 ÷ 100 0,8 ÷ 0,9 100 ÷ 500 0,85 ÷ 0,92 500 ÷ 1000 0,90 ÷ 0,94

fig.6

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In questo caso il valore teorico scelto per il rendimento è 0,86 ( 86 % ), quindi:

A61,086,0230

120V

AIn1

nn1 =

⋅=

η⋅=

Si calcola ora la sezione del conduttore dell’avvolgimento primario ( Scu1 ), prendendo in esame come visto in precedenza per l’avvolgimento secondario, il tipo di servizio e il tipo di raffreddamento. Per quanto riguarda la densità di corrente ( δcu ) si è mantenuto lo stesso valore scelto per il secondario: 2

Cu mm/A3=δ .

2

Cu

n11Cu mm20,0

361,0IS ==

δ=

La sezione trovata si riferisce al conduttore nudo; da questa si ricava il valore commerciale ( Scu1c ):

)smaltato(mm599,0d)nudo(mm55,0dmm2376,0)com(S s1Cun1Cu2

1Cu =→=→= Con la nuova sezione commerciale ( Scu1c ) si può ricalcolare l’effettiva densità di corrente ( δcu1c ):

2

1Cu

n1c1Cu mm/A56,2

2376,061,0

)com(SI

===δ

5.1.5 Esecuzione degli avvolgimenti Il conduttore smaltato del secondario viene così avvolto ancora sul rocchetto isolante, a più strati concentrici sopra al conduttore del primario. Ogni strato è costituito da un numero di spire ( n s1 ) che è uguale a:

stratoperspire916,90599,005,1

57dKavv

hrns1Cu

1s ≅=⋅

=⋅

=

Calcolato il numero di spire per strato ( ns1 ) possiamo calcolare il numero di strati di cui è costituito l’avvolgimento ( N1s ):

strati791

653ns1NN1s 1 ≅==

Come per l’avvolgimento secondario, tra uno strato e l’altro dell’avvolgimento primario è interposto un foglio di carta isolante Mylar di spessore sc = 0,1 mm. Inoltre, per separare il secondario dal primario si interpone tra di essi un foglio di carta isolante Mylar di spessore si = 0,2 mm; un ulteriore foglio verrà infine applicato sull’ultimo strato dell’avvolgimento secondario, per proteggere lo stesso. Dopo aver considerato i precedenti accorgimenti, si calcola ora lo spessore radiale dell’avvolgimento primario ( bcu1 ):

mm4,80,11)(70,5997Sc1)(N1sdN1sb Cu1sCu1 ≅⋅−+⋅=⋅−+⋅=

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Conoscendo ora l’ingombro radiale dei due avvolgimenti,si calcola lo spessore radiale totale ( bcut ):

mm8,750,44,83,5348si2bbb Cu1Cu2Cut ≅++=++= Il valore dell’ingombro radiale totale dei due avvolgimenti ( bcut ) deve essere minore della larghezza della finestra, lasciando inoltre uno spazio d’aria maggiore o al limite uguale a 3 mm. Una distanza minore di 3mm tra il nucleo e l’avvolgimento, infatti, potrebbe provocare l’innesco di archi elettrici che pregiudicherebbero il corretto funzionamento del trasformatore. Se questa condizione non viene soddisfatta, è necessario ridimensionare il nucleo. La disequazione da impostare è la seguente:

mm325,118,752403b

2C

Cut >=−⇒≥−

In questo caso la condizione imposta precedentemente risulta verificata. Nella figura sono rappresentati gli avvolgimenti in sezione visti da due prospettive diverse ( fig.7 ).

fig.7

5.1.6 Verifica del rendimento e della caduta di tensione Prima di passare alla realizzazione del trasformatore è necessario verificare che il rendimento ( η ) e la c.d.t. ( ∆V ) non si discostino eccessivamente dai valori indicativi precedentemente ricavati. Il valore del rendimento a cosϕ = 1 è dato da:

CuFe WWAnAn

++=η

Dove An è la potenza nominale del trasformatore, WFe rappresenta le perdite nel ferro e Wcu le perdite nel rame.

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Inizialmente si calcolano le perdite nel ferro ( WFe ), che dipendono dalla massa del nucleo ( MFe ), dall’induzione prescelta ( Bmax ) al quadrato e dal valore della cifra di perdita dei lamierini ( Cp ) che in questo caso vale 2,3 W / Kg al valore di induzione Bmax = 1 T . La massa del nucleo è dato da:

[ ] [ ] kg2,6711060)20(21201001,1407,6510E)D(2BA

KsSpMsM 66

FeFe =⋅⋅⋅−⋅⋅

⋅=⋅⋅⋅−⋅⋅

⋅= −−

Dove MsFe è la massa specifica dei lamierini ( 7,65 Kg/dm3 ). Nota la massa del nucleo, le perdite nel ferro ( WFe ) sono data da:

W7,4322,6711,12,3MBmaxCpW 2

Fe2

Fe =⋅⋅=⋅⋅= Il corrispondente valore percentuale è:

%6,19100120

7,433100AnW

%W FeFe =⋅=⋅=

Si calcolano ora le perdite nel rame ( Wcu ) determinando innanzitutto la massa del rame degli avvolgimenti; per far questo bisognerà innanzitutto calcolare le lunghezze medie delle spire dei due avvolgimenti: per semplicità si farà riferimento alla figura seguente ( fig.8 ).

fig.8

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Inizialmente si calcola la lunghezza media della spira dell’avvolgimento primario ( lm1 ):

lm1 = 2⋅Cr + 2⋅br + 4⋅bCu1 = 244 + 244 + 44,8 = 195,2 mm Ora sapendo che la massa specifica del rame ( Mscu ) vale 8,9 Kg / dm3, la massa dell’avvolgimento primario ( MCu1 ) è uguale a:

kg0,27100,2376653195,28,910(com)SNlmMsM 66Cu111CuCu1 ≅⋅⋅⋅⋅=⋅⋅⋅⋅= −−

Come eseguito in precedenza per il primario, si calcola ora la lunghezza media della spira dell’avvolgimento secondario ( lm2 ):

lm2 = 4 · ( 44 + 2 · 4,8 + 0,4 +3,5348 ) =230,14 mm

Quindi la massa dell’avvolgimento secondario ( MCu2 ) è data da:

kg0,278100,9503143230,148,910(com)SNlmMsM 66Cu222CuCu2 =⋅⋅⋅⋅=⋅⋅⋅⋅= −−

Nota la massa degli avvolgimenti, si procede al calcolo delle perdite per effetto joule nell’avvolgimento primario ( Wcu1 ):

W4,20,272,562,37Mcu1δ2,37W 22cu1cCu1 ≅⋅⋅=⋅⋅=

Analogamente nell’avvolgimento secondario ( Wcu2 ):

W4,560,2782,632,37Mcu2δ2,37W 22cu2cCu2 =⋅⋅=⋅⋅=

Quindi si calcola il rendimento effettivo del trasformatore a pieno carico e a cosφ = 1:

%880,884,564,27,433120

120WWWAn

AnηCu2Cu1Fe

→=+++

=+++

=

Ora si procede alla verifica della caduta di tensione del trasformatore a pieno carico con cosϕ =1; essa è data da:

V3,332,5

4,56653143

0,614,2

IW

NN

IW

∆V2n

Cu2

1

2

1n

Cu1 =+⋅=+⋅=

Dunque la caduta di tensione relativa percentuale vale:

%94,61004834,3100%

2

=⋅=⋅∆

=∆nV

VV

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Nella figura seguente è rappresentata la vista in pianta del trasformatore ( fig.9 ).

Fig.9 5.1.7 Calcolo resistenze degli avvolgimenti Calcolo resistenza dell’avvolgimento primario:

Ω11,30,614,2

IW

R1 221n

cu1primario ===

Calcolo resistenza dell’avvolgimento secondario:

Ω0,732,54,56

IW

R2 222n

cu2secondario ===

5.1.8 Calcolo rapporto di trasformazione e resistenza equivalente Calcolo del rapporto di trasformazione:

4,5650,4230

VVK

20

10 ===

Calcolo resistenza equivalente del trasformatore riportata al secondario:

Ω1,270,734,5611,3Rx

tRx

Req 2secondario2primario

trasf'' =+=+=

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Di seguito è possibile osservare lo schema di montaggio del trasformatore ( fig.10 ).

Fig.10

5.2 COLLAUDO DEL TRASFORMATORE

Il collaudo del trasformatore consiste in otto prove che sono: • Verifica della continuità degli avvolgimenti; • Verifica della resistenza di isolamento Ri; • Verifica del rapporto di trasformazione K0; • Controllo dei morsetti corrispondenti; • Verifica della resistenza degli avvolgimenti; • Prova a vuoto, per definire le perdite nel nucleo ferromagnetico; • Prova di corto circuito per definire le perdite sugli avvolgimenti per effetto joule; • Prova a carico per definire la caduta di tensione e il rendimento del trasformatore.

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5.2.1 Verifica della continuità degli avvolgimenti Consiste nel verificare la continuità elettrica di ciascun avvolgimento. Questa prova viene effettuata tramite l’utilizzo di un multimetro seguendo gli schemi sottostanti. le misure effettuate sono le seguenti: Prova di continuità dell’avvolgimento primario ( fig.11 ):

fig.11

Prova di continuità dell’avvolgimento secondario ( fig.12 ):

fig.12 5.2.2 Verifica della resistenza di isolamento Ri Consiste nell’ accertarsi che non vi sia continuità elettrica tra gli avvolgimenti e tra questi ultimi e il nucleo del trasformatore. Prova della resistenza di isolamento tra primario e nucleo ( fig.13 ):

fig.13

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Prova della resistenza di isolamento tra l’avvolgimento secondario e il nucleo ( fig.14 ):

fig.14

prova della resistenza di isolamento tra l’avvolgimento primario e il secondario ( fig.15 ):

fig.15

La verifica è positiva poichè il valori rilevati sono dell’ordine dei MΩ. 5.2.3 Verifica del rapporto di trasformazione Ko Si procede ora a verificare il valore teorico del rapporto di trasformazione precedentemente calcolato: Dai dati di targa: V1n = 230V V2n = 48V In base ai seguenti dati di targa vengono scelti due volmetri con le seguenti caratteristiche: V1 con V.f.s. ≥ V1n V2 con V.f.s. ≥ V20 Con il trasformatore a vuoto, si può trascurare la caduta di tensione sull’avvolgimento primario

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perché la corrente a vuoto ( I0 ) è molto piccola; inoltre, è possibile trascurare anche l’autoconsumo del voltmetro. Quindi si può affermare che: V1n ≅ E1 V20 ≅ E2 Lo schema elettrico del circuito è il seguente ( fig.16 ):

fig.16 In questo caso, con una V1n di 230V si rileva una V20 (tensione secondaria a vuoto) di 50,2 V in accordo quindi con il valore teorico di progetto ( V20 = 50,4 V ). Pertanto, il rapporto di trasformazione a vuoto risulta essere il seguente:

K0 = E1 / E2 = V1n / V20 = 230 / 50,2 = 4,57 Quindi il valore teorico K0 precedentemente calcolato risulta praticamente verificato ( K0 = 4,56 ). 5.2.4 Controllo dei morsetti corrispondenti Questa prova consiste nell’individuare le polarità corrispondenti tra i morsetti del primario e quelli del secondario. La conoscenza di questa corrispondenza è necessaria per un eventuale collegamento in parallelo di due o più trasformatori. Per eseguire la prova, è stato necessario scegliere due voltmetri uguali aventi le seguenti caratteristiche: V1 = V2: V.f.s. = 300 V Rv = 5000 Ω I casi che si possono presentare sono due ( si veda la fig.17 ): A) I morsetti fra i quali è collegato il voltmetro V non sono corrispondenti: in questo caso il valore

rilevato da quest’ultimo sarà: V1 + E2 (polarità additiva) per cui sarà V1 < V;

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B) I morsetti fra i quali è collegato il voltmetro V sono corrispondenti: in questo caso il valore rilevato da quest’ultimo sarà: V1 – E2 (polarità sottrattiva) per cui sarà V1 > V;

fig.17 Caso A: Caso B: A → b A → a B → a B → b V = V1n + V20 = 230 + 50,2 = 280,2 V V = V1n - V20 = 230 - 50,2 = 179,8 V 5.2.5 Verifica della resistenza degli avvolgimenti

Deve essere eseguita in corrente continua, con un adeguato metodo di misura, tenendo conto del fatto che si tratta quasi sempre di una resistenza di piccolo valore. E' importante che la macchina sia stata lungamente a riposo e che l'ambiente del laboratorio non abbia nel contempo subito importanti sbalzi termici. Solo così si può ritenere la temperatura t (°C ) degli avvolgimenti uguale a quella ambientale. La corrente continua di misura deve essere inferiore al 10 % della corrente nominale dell'avvolgimento, così che non si produca un riscaldamento dello stesso durante la prova (è noto che per effetto Joule un conduttore percorso da corrente tende a riscaldarsi).

Dati rilevati

RESISTENZA PRIMARIO RESISTENZA SECONDARIO

Rta ( Teorica ) 11,3 Ω 0,73 Ω Rta ( Rilevata ) 8,8 Ω 0,68 Ω

Kt = (235+ϑmax)/(235+ϑa) 1,22 1,22 Rt75° 10,7 Ω 0,82 Ω

I valori delle resistenze verificate sono molto vicini a quelli teorici di progetto.

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5.2.6 Prova a vuoto La prova a vuoto ha lo scopo di determinare le perdite nel ferro ( P0 = Pfe ), ossia le perdite nel nucleo ferromagnetico, la corrente a vuoto ( I0 ), il fattore di potenza a vuoto ( cosϕ0 ) e, dal punto di vista del circuito equivalente, i parametri caratteristici del trasformatore, cioè la reattanza ( X0 ), la resistenza ( R0 ) e successivamente l’impedenza ( Z0 ). La strumentazione richiesta per questa prova è costituita da un voltmetro, un amperometro e un wattmetro. Nella prova a vuoto l’avvolgimento secondario è aperto, mentre all’avvolgimento primario è applicata la tensione nominale; poichè la corrente a vuoto è molto piccola, si può trascurare la caduta di tensione sulla resistenza e sulla reattanza dell’avvolgimento alimentato. D’altra parte, la resistenza e la reattanza dell’avvolgimento non alimentato ( secondario ) possono essere trascurate, dal momento che non sono percorse da corrente. In queste condizioni anche le perdite nel rame, cioè la potenza dissipata negli avvolgimenti per effetto joule, sono molto piccole. Di conseguenza tutta la potenza assorbita in queste condizioni sarà quella dovuta alle perdite nel ferro, cioè la potenza dissipata per isteresi magnetica e correnti parassite nel nucleo magnetico.

Scelta degli strumenti La portata degli strumenti va scelta in base ai dati di targa, tenendo conto che la corrente a vuoto I0 è circa il 10 % di quella nominale. Gli strumenti saranno di buona classe, in particolare il wattmetro sarà del tipo elettrodinamico a basso cosϕ, per poter apprezzare meglio la lettura. Le caratteristiche degli strumenti utilizzati sono le seguenti: • Un wattmetro elettrodinamico ( W ) a basso cosϕ (0,2) con i seguenti parametri: V.f.s. = 300 V Rv = 30 kΩ I.f.s. = 0,5A Ra = 7,6 Ω • Un voltmetro ( V ) avente i seguenti parametri: V.f.s. = 300 V Rv = 5 kΩ L = 80 mH • Un amperometro ( mA ) avente i seguenti parametri: I.f.s. = 0,5 A RA = 5,6 Ω

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L = 1,08 mH • Un frequenzimetro ( f ) avente i seguenti parametri: F.f.s = 80 Hz Lo schema elettrico del circuito della prova a vuoto è il seguente ( fig.18 ):

fig.18 Calcoli effettuati Il wattmetro l’amperometro ed il voltmetro, forniscono direttamente i valori di Pm, Im e V. Inizialmente si deve calcolare il valore della resistenza equivalente ( Req ), che è data dal parallelo della resistenza del voltmetro e dalla resistenza voltmetrica del wattmetro:

Ω=+⋅

=+⋅

= 4285300005000300005000

RwRvRwRvReq

Successivamente per ricavare la potenza a vuoto P0, ossia la potenza persa nel nucleo ferromagnetico, bisogna tener conto dell’autoconsumo delle bobine Voltmetriche: Quindi P0 = PFE sarà dato da:

PFE = Pm – V 2 / Req Di conseguenza, dal principio di conservazione dell’energia, la corrente a vuoto I0 sarà data da:

eq

0m2m0 R

PPII

+−=

Infine, il fattore di potenza cosϕ0 sarà:

010

00 IV

Pcos

⋅=ϕ

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Dati Rilevati Questa prova è stata effettuata a una frequenza costante di 50Hz, variando la tensione di alimentazione da 0 a 1,2 V1n. L’intervallo di valori rilevati è compreso tra 150 e 260 V. La seguente tabella riassume i dati rilevati:

MISURE

Im ( A )

V (V )

Req ( Ω )

Pm ( W )

V2 / Req ( W )

P0 = Pfe ( W )

I0 ( A )

cosϕ0

V⋅I0 ( VA )

1 0,05 150 4285 8,4 5,2 3,2 0,03 0,71 4,5 2 0,065 170 4285 10,8 6,7 4,1 0,028 0,86 4,76 3 0,075 190 4285 13 8,42 4,6 0,038 0,63 7,22 4 0,085 210 4285 15,6 10,3 5,3 0,048 0,53 10 5 0,1 230 4285 18,6 12,3 6,3 0,064 0,43 14,7 6 0,115 250 4285 22 14,6 7,6 0,079 0,38 19,7 7 0,125 260 4285 23,8 15,7 8,1 0,092 0,33 23,92

Ora, con i dati rilevati a Vn = 230 V è possibile calcolare i valori di Z0, Ia, Iµ, R0 e X0.

Z0 = V1n / I0 = 230 / 0,064 = 3594 Ω

Ia = I0 ⋅ cosϕ0 = 0,064 ⋅ 0,43 = 0,0275 A

Iµ = I0 ⋅ senϕ = 0,064 ⋅ 0,90 = 0,058 A

R0 = V1n / Ia = 230 / 0,0275 = 8358 Ω

X0 = V1n / Iµ = 230 / 0,058 = 3965,5 Ω

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Caratteristiche a vuoto

Grazie ai valori sopra calcolati, si possono tracciare i grafici delle seguenti caratteristiche a vuoto:

a) corrente assorbita in funzione della tensione applicata: I0 = f (V).

0,0000,0100,0200,0300,0400,0500,0600,0700,0800,0900,100

0 50 100 150 200 250 300

V [ V ]

I 0 [

A ]

La caratteristica corrisponde a quella di magnetizzazione del nucleo; infatti, la tensione applicata è proporzionale al flusso e quindi all'induzione, e la corrente assorbita (per gran parte magnetizzante) è proporzionale al campo magnetico. Considerando che il circuito magnetico ha traferri molto limitati, la caratteristica è abbastanza incurvata.

Il punto di funzionamento nominale, se il trasformatore è bene dimensionato, si situa nella zona iniziale del ginocchio. Questo permette di contenere sia i fenomeni di non linearità propri del mezzo ferromagnetico, che le perdite nel ferro (legate ai valori dell'induzione).

In corrispondenza della tensione primaria nominale V1n si leggerà sul diagramma la corrente a vuoto I0.

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b) perdite nel ferro in funzione della tensione applicata: P0 = f ( V ).

0

2

4

6

8

10

12

0 50 100 150 200 250 300

V [ V ]

P 0 [

W ]

Le perdite nel ferro, a frequenza costante, variano pressoché con il quadrato dell'induzione massima e, quindi, col quadrato della tensione applicata. Per tale motivo questa caratteristica ha andamento parabolico; in corrispondenza della tensione nominale primaria V1n si leggeranno sul diagramma le corrispondenti perdite nel ferro P0.

c) fattore di potenza a vuoto in funzione della tensione applicata: cosϕ0 = f ( V ).

00,10,20,30,40,50,60,70,80,9

1

0 50 100 150 200 250 300

V [ V ]

Cosf

0

Il valore del fattore di potenza a vuoto si mantiene molto al di sotto del valore uno. La sua notevole variazione al variare della tensione applicata è dovuta al variare del rapporto tra la potenza attiva e la potenza reattiva assorbite, ed è legata anche ai fenomeni di non linearità propri del mezzo ferromagnetico.

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5.2.7 Prova in corto circuito

La prova in corto circuito ha lo scopo di determinare le perdite nel rame ( Pcc ), la tensione di corto circuito ( Vcc ), il fattore di potenza di corto circuito ( cosϕcc ) e, dal punto di vista del circuito equivalente, le resistenze ( Rcc ) e le reattanze di dispersione ( Xcc ) degli avvolgimenti primario e secondario. Nella prova di corto circuito, l’avvolgimento secondario viene cortocircuitato, mentre l’avvolgimento primario viene alimentato ad una tensione ridotta Vcc in modo tale da far circolare negli avvolgimenti la corrente nominale (questo particolare valore di tensione è detto tensione di corto circuito). Normalmente la tensione di corto circuito è espressa in valore percentuale rispetto alla tensione nominale, ed è data dalla seguente formula:

100V1nVcc%Vcc ⋅=

Scelta degli strumenti La prova richiede, nel caso di trasformatore monofase, l’utilizzo di un voltmetro, un amperometro e un wattmetro. Per la scelta del voltmetro e della portata voltmetrica del wattmetro, si deve tener presente che il valore di tensione di corto circuito Vcc è dell’ordine di circa il 5 ÷ 10 % della tensione nominale V1n. Per la scelta dell’amperometro e della portata amperometrica del wattmetro, si considera il valore della corrente nominale al primario I1n.

Tutti gli strumenti di misura impiegati devono essere per corrente alternata e frequenza pari a quella di prova, inoltre la loro classe di precisione deve essere pari a 0,5 o migliore, così che si possano trascurare gli errori strumentali, e si possa tenere conto unicamente degli errori sistematici d'autoconsumo (che andranno corretti in relazione al tipo d'inserzione impiegato nella prova). Il trasformatore deve essere alimentato dal lato di alta tensione (lato primario). Questo perché il valore della tensione di cortocircuito è una piccola percentuale della nominale e, per avere valori rilevabili con maggiore precisione, risulta conveniente scegliere il lato di alta tensione.

Le caratteristiche degli strumenti utilizzati sono le seguenti: • Un wattmetro elettrodinamico ( W )a basso cosϕ (0,2) con i seguenti parametri: V.f.s. = 30 V Rv = 7,5 KΩ I.f.s. = 2 A Ra = 7,6 Ω

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• Un voltmetro ( V ) avente i seguenti parametri: V.f.s. = 30 V Rv = 300 Ω L = 80 mH • Un amperometro ( mA ) avente i seguenti parametri: I.f.s. = 0,5 A RA = 5,6 Ω L = 1,08 mH Nel funzionamento in cortocircuito del trasformatore le perdite nel ferro e le perdite addizionali sono del tutto trascurabili perché l’induzione magnetica nel nucleo è molto piccola; ne risulta quindi che l’intera potenza assorbita dal trasformatore (potenza di corto circuito) corrisponde unicamente alla potenza che viene dissipata per effetto joule nei due avvolgimenti (perdite nel rame).

Esecuzione della prova Per poter tracciare le caratteristiche di cortocircuito è necessario fare diversi rilievi, tutti alla frequenza nominale, a partire da una tensione applicata sufficiente a fare circolare una corrente leggermente superiore alla nominale, e continuare riducendo la tensione fino a zero. E' importante procedere riducendo le correnti circolanti per facilitare il raffreddamento degli avvolgimenti durante la prova, così da poter ritenere la temperatura degli stessi costante e pari al valore t (°C ) che essi avevano prima di cominciare la prova. Seguendo questo procedimento avremo una maggior precisione dei dati rilevati. La potenza persa per effetto joule a temperatura ambiente è data da: Pccta = Pm – Vcc

2 / Req = Pfe + Pcuta + Padd = Pcuta Perché, come detto precedentemente, le perdite nel ferro e le perdite addizionali causate dai flussi dispersi sono trascurabili; quindi: Pccta ≅ Pcuta

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Lo schema elettrico del circuito della prova in corto è il seguente ( fig.19 ):

fig.19 Calcoli effettuati Inizialmente si calcola il valore della resistenza equivalente ( Req ) del parallelo tra la resistenza del voltmetro e la resistenza della voltmetrica del wattmetro:

Ω=+⋅

=+⋅

= 5,28875003007500300

RwRvRwRvReq

Nota la resistenza equivalente, si calcola la potenza di autoconsumo della componente voltmetrica:

Paut = Vcc2 / Req

Conoscendo l’autoconsumo si può ricavare la potenza persa nel rame a temperatura ambiente ( Pccta ) sottraendo quest’ultimo al valore direttamente misurato dagli strumenti ( Pm ); quindi:

Pccta = Pm – Paut Con la potenza rilevata a temperatura ambiente si può ricavare il fattore di potenza ( cosϕcta ) a temperatura ambiente:

cosϕccta = Pccta / (Vcc * Icc)

Ora, l’impedenza di corto circuito si calcola nel seguente modo:

Zccta = Vccta / Icc

In questo modo conoscendo l’impedenza e il fattore di potenza, è possibile ricavare la resistenza di corto circuito ( Rccta ):

Rccta = Zccta ⋅ cosϕccta Infine il valore della reattanza di corto circuito ( Xccta ):

Xccta = Zccta ⋅ senϕccta

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Noti i parametri a temperatura ambiente, si possono ricavare i corrispettivi parametri a 75 °C, utilizzando il fattore Kt dato da:

Kt = 235 + 75 / 235 + ta

Noto Kt, si calcolano i seguenti parametri a 75 °C:

Pcc75° = Kt ⋅ Pccta

Rcc75° = Kt ⋅ Rccta

2cc75

2cc75cc75 )X()R(Z °°° +=

cosϕcc75° = Rcc75° / Zcc75°

Dati rilevati Nella seguente tabella sono riportati i valori rilevati dalla misura a temperatura ambiente:

n° misure

Icc ( A )

Vcc ( V )

Req ( Ω )

Vcc2 / Req

( W ) Pm

( W ) Pccta ( W )

cosϕccta

Zccta ( Ω )

Rccta ( Ω )

Xccta ( Ω )

1 0,61 12 288,5 0,5 7,4 6,9 0.97 19,67 18,49 6,68 2 0,50 10 288,5 0,34 5,2 4,86 0,94 16,4 15,9 3,93 3 0,40 8 288,5 0,22 3,2 2,98 0,93 13,1 12,18 4,8 4 0,30 6 288,5 0,12 1,8 1,68 0,93 9,8 9,1 3,6 5 0,20 4 288,5 0,05 0,8 0,75 0,93 6,55 6,1 2,4 6 0,10 2 288,5 0,04 0,22 0,18 0,9 3,28 2,95 1,4

Di seguito invece si ha la tabella dei parametri a 75 °C:

n° misure Pcc75° ( W )

Rcc75°

( Ω ) Zcc75° ( Ω ) cosϕcc75° Kt

1 8,38 22,37 23,34 0,96 1,21 2 5,9 19,24 19,63 0,98 1,21 3 3,28 14,7 15,46 0,95 1,21 4 2 11 11,57 0,95 1,21 5 0,9 7,38 7,75 0,95 1,21 6 0,21 3,56 3,82 0,93 1,21

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Ora, con i dati reali delle perdite nel ferro e delle perdite negli avvolgimenti a 75°C è possibile verificare il rendimento effettivo della macchina con quello teorico precedentemente calcolato:

%8989,038,83,6120

120

752

2 ⇒=++

=++

=°jfen

n

PPPP

η

Essendo il valore teorico del rendimento uguale all’88 %, si può affermare che quest’ultimo è quasi perfettamente verificato.

Caratteristiche di corto circuito

Grazie ai valori di tabella, si possono tracciare i grafici delle seguenti caratteristiche di cortocircuito:

a) tensione applicata in funzione della corrente assorbita ( Vccta = f (Icc) ).

0

2

4

6

8

10

12

14

0 0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 0,6 0,7

I cc [ A ]

Vcc

ta

Se durante la prova la temperatura è rimasta costante e così pure la frequenza, saranno rimaste costanti la resistenza e la reattanza di dispersione degli avvolgimenti. Per tale motivo la caratteristica avrà un andamento rettilineo, essendo la tensione proporzionale alla corrente attraverso l'impedenza equivalente. In corrispondenza della corrente primaria nominale I1n, si leggerà sul diagramma la tensione primaria nominale di cortocircuito Vccta riferita alla temperatura ambiente.

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b) perdite negli avvolgimenti in funzione della corrente assorbita ( Pccta = f ( Icc ) ).

0

1

2

3

4

5

6

7

8

0 0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 0,6 0,7

I cc [ A ]

Pcc t

a [ W

]

La curva ha un andamento pressoché parabolico, poichè le perdite negli avvolgimenti variano con il quadrato della corrente, mentre la resistenza degli stessi si può ritenere costante. In corrispondenza della corrente primaria nominale I1n, si leggeranno sul diagramma le corrispondenti perdite negli avvolgimenti Pccta alla temperatura ambiente.

c) fattore di potenza in cortocircuito in funzione della corrente assorbita ( cosϕccta = f ( Icc) ).

0,890,900,910,920,930,940,950,960,970,98

0,00 0,10 0,20 0,30 0,40 0,50 0,60 0,70

I cc [ A ]

Cosf

ccta

Tale curva ha un andamento quasi orizzontale poiché il fattore di potenza si ricava dal rapporto tra la resistenza e l'impedenza, che si possono ritenere costanti.

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d) perdite negli avvolgimenti in funzione della corrente assorbita al quadrato ( Pccta = f ( Icc2

) ).

0

1

2

3

4

5

6

7

8

0 0,05 0,1 0,15 0,2 0,25 0,3 0,35 0,4

I cc2 [ A ]

Pcc t

a [ W

]

5.2.8 Prova a carico La prova a carico serve a determinare la caduta di tensione e il rendimento del trasformatore. Per il calcolo della caduta di tensione massima si è utilizzato un carico puramente resistivo con fattore di potenza cosφ = 1. Scelta degli strumenti La prova a carico va eseguita a frequenza e tensione sul primario costante, variando la corrente I2 ( del carico ) in modo da rilevare i valori di I1, V2, Pm1 e Pm2. Gli strumenti utilizzati sono i seguenti: • Un amperometro (A1) avente le seguenti caratteristiche: I.f.s. = 0,5A Ra = 5,6 Ω I.f.s. = 1 A Ra = 2,3 Ω

• Un amperometro (A2) avente le seguenti caratteristiche: I.f.s. = 1,5 A Ra = 0,078 Ω I.f.s. = 3 A Ra = 0,042 Ω

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• Un voltmetro (V1) avente le seguenti caratteristiche: V.f.s. = 300 V Rv = 5 kΩ • Un voltmetro (V2) avente le seguenti caratteristiche: V.f.s. = 60 V Rv = 400 Ω • Un wattmetro (W1) a cosϕ = 1 avente le seguenti caratteristiche: V.f.s. = 450 V Rv = 30 kΩ I.f.s. = 1 A Ra = 7,6 Ω • Un wattmetro (W2) cosϕ 1 avente le seguenti caratteristiche: V.f.s. = 300 V Rv = 25 kΩ I.f.s. = 3 A • Resistenza di carico Rp = 15,36 Ω • Reostato di carico R2 = 61,44 Ω Lo schema elettrico del circuito della prova a carico è il seguente ( fig.20 ):

fig.20

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Calcoli effettuati I corrispondenti valori delle due resistenze equivalenti in base agli strumenti scelti sono:

Ω=+⋅

=+⋅

= 4285300005000300005000

1 RwRvRwRvReq

Ω=+⋅

=+⋅

= 3932500040025000400

2 RwRvRwRvReq

Dovendo far circolare una corrente al secondario che varia da 1/4 a 5/4 della I2, si calcola il valore del reostato e della resistenza di carico da collegare, mediante le seguenti formule:

Ω=⋅=⋅= 36,1554

5,248

54

2

2

n

np I

VR

Ω=−=−⋅≥ 44,6136,158,76)4(2

22 p

n

n RIVR

Con le seguenti relazioni e con i dati ricavati dalla prova, abbiamo impostato la tabella e disegnato le curve caratteristiche del rendimento e della caduta di tensione, in funzione rispettivamente di α e della corrente I2: Calcolo del valore della frazione di carico:

α = I2 / I2n

Calcolo della potenza di autoconsumo delle bobine voltmetriche al primario:

Paut1 = V1n2 / Req1

Calcolo della potenza assorbita dal trasformatore al primario:

P1 = Pm1 – Paut1

Calcolo della potenza di autoconsumo delle bobine voltmetriche al secondario:

Paut2 = V2

2 / Req2 Calcolo della potenza erogata dal trasformatore:

P2 = Pm2 + Paut2 Calcolo del rendimento:

η = P2 / P1

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PAG. 75

Dati rilevati La seguente tabella riassume i valori rilevati durante la prova e i calcoli effettuati:

N° misure

I1 ( A )

V1 ( V )

P1 ( W )

Paut1 ( W )

Pm1 ( W )

I2 ( A )

V2 ( V )

Pm2 ( W )

Paut2 ( W )

P2 ( W ) η α

1 0,25 230 46,6 12,34 59 0,65 50 37,61 6,36 31,25 0,80 0,26 2 0,40 230 79,6 12,34 92 1,3 49,6 70 6,25 63,75 0,87 0,52 3 0,53 230 111,6 12,34 124 1,95 48,8 101 6 95 0,90 0,76 4 0,66 230 143,6 12,34 156 2,6 48,4 130,96 5,96 125 0,91 1 5 0,80 230 177,6 12,34 190 3,25 48 155,86 5,86 150 0,87 1,3

Caratteristiche della prova a carico

Grazie ai valori sopra calcolati, si possono tracciare i grafici delle seguenti caratteristiche della prova a carico:

a) Rendimento del trasformatore in funzione della frazione di carico ( η = f ( α ) ).

0,78

0,8

0,82

0,84

0,86

0,88

0,9

0,92

0 0,2 0,4 0,6 0,8 1 1,2 1,4

α

η

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b) Caduta di tensione al secondario in funzione della corrente al secondario ( V2 = f ( I2 ) )

47,5

48

48,5

49

49,5

50

50,5

0 0,5 1 1,5 2 2,5 3 3,5I 2 [ A ]

V2 [

V ]