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APPUNTI DI VIAGGIO PER LA VISITA GUIDATA “RADICI PER L’INNOVAZIONE” a cura Ing. Claudia Botton NELL’AMBITO DEL WORKSHOP CONOSCITIVO: TRAPANI NELLA COSTRUZIONE DELLA CITTA’ SICULO-OCCIDENTALE “ NUOVI PORTI PER NUOVE PORTUALITA’ “ TRAPANI 8-10 giugno2011 Politecnico di Milano Facoltà di Architettura e Società Dipartimento di Architettura e Pianificazione Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione Urbana e Politiche Territoriali Corso Integrato “Reti e Nodi di Mobilità”, A.A. 2010-2011 Prof. M. Novati, Prof.ssa P. Pucci Con la partecipazione di GAZELEY Matteo Veneroni, acquarello 2011

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APPUNTI DI VIAGGIO PER LA VISITA GUIDATA “RADICI PER L’INNOVAZIONE”

a cura Ing. Claudia Botton

NELL’AMBITO DEL WORKSHOP CONOSCITIVO: TRAPANI NELLA COSTRUZIONE DELLA CITTA’ SICULO-OCCIDENTALE

“ NUOVI PORTI PER NUOVE PORTUALITA’ “

TRAPANI 8-10 giugno2011

Politecnico di Milano Facoltà di Architettura e Società

Dipartimento di Architettura e Pianificazione

Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione Urbana e Politiche Territoriali

Corso Integrato “Reti e Nodi di Mobilità”, A.A. 2010-2011 Prof. M. Novati, Prof.ssa P. Pucci

Con la partecipazione di GAZELEY

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NUOVI PORTI PER NUOVE PORTUALITA’ VISITA GUIDATA “RADICI PER L’INNOVAZIONE”

a cura Ing. Claudia Botton

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PROGRAMMA VISITA GUIDATA 10 GIUGNO 2011

RADICI PER L’INNOVAZIONE

8.30 Partenza per Mozia da Trapani

9.10 Arrivo all’imbarco del traghetto per Mozia

Visita all’isola di Mozia e al museo Whitaker.

11.30 Partenza da Marsala per Trapani.

12.00 Salita a Erice tramite funivia, pranzo e visita della città .

14.00 Partenza da Erice per la visita al sito archeologico di Segesta.

19.00 Rientro a Trapani e partenza per aeroporto di Palermo.

INDICE

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NUOVI PORTI PER NUOVE PORTUALITA’ VISITA GUIDATA “RADICI PER L’INNOVAZIONE” a cura Ing. Claudia Botton

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1. Erice 3

2. Mozia 5

3. La linea ferroviaria Trapani–Palermo, tra storia e attualità 12

3.1 La Storia 12

3.2 Il percorso 16

3.2 Caratteristiche della linea 18

4. Parco Archeologico di Segesta 21

4.1 Storia 21

4.2 Legenda e piantina del parco 22

4.3 Il tempio 23

4.4 Porta di valle 24

4.5 La moschea 25

4.6 Chiesetta del monte Barbaro 25

4.7 Il teatro 26

4.8 Il castello medioevale 27

4.9 Terrazza superiore dell’agorà 28

4.10 Santuario 29

4.11 Sistema fortificato di porta valle 29

4.12 Area fortificata medioevale 30

4.13 Cinta muraria superiore 31

4.14 L’abitato rupestre 31

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APPUNTI DI VIAGGIO 1. ERICE (lettura tratta da Acquaro, E. (1988) Gli insediamenti fenici e punici in Italia, Roma, istituto poligrafico e zecca dello stato)

L’antica Erice ha dato il proprio nome all’odierno centro, sino al chiamato con il suo toponimo mediovale,

Monte Giuliano. La città, di cui è noto il nome punico ‘rk ha posizione naturalmente forte sovrastante il

golfo di Trapani ed è insieme a Entella e Segesta uno dei centri elimi che garantirono il sicuro ritiro dei

fenici nella Sicilia Occidentale a fronte della montante marea colonizzatrice greca.

Di fondazione eraclea secondo una legenda che registra forse

echi di un’antica presenza micenea, Erice rientra nella

regione degli Elimi, una popolazione anellenica che comuni

antecedenti orientali collegano ai Fenici e ai Punici.

E’ in tale carattere di centro indigeno che registra la presenza

punica senza rinunciare alla propria identità culturale che

risiede l’importanza e la peculiarità di Erice. Posta al centro

con il suo porto di Drepanon, l’attuale Trapani, di una zona

di rilevante interesse strategico contesa tra Greci e controllo

di questi ultimi fino alla prima guerra punica. Distrutta da

Cartagine fatta eccezione per il santuario di Astarte, nel corso

delle operazioni militari del a.C., gli abitanti furono deportati in zona porto, dove fu fondata l’importante

base navale di trapani. Alterne vicende che seguirono la conquista romana di Erice nel 248 a.C. e i successivi

tenativi di riconquista punici ebbero fine con la battaglia delle Egadi del 241 a.C. che darà l’intera Sicilia ai

Romani. Le equivalenze greche e romane del culto celebrato nel santuario consegnano la dedica a Venere il

luogo alla venerazione romana, che sosterrà la sacralità del luogo fino all’epoca di Claudio. Gli Arabi e i

Normanni nelle loro vicende siciliane diedero nuovo impulso al valore strategico del centro.

I monumenti antichi conservati e indagati, le mura, la necropoli ad incinerazione individuata nel 1969 e i

materiali esposti nel Museo Comunale A. Cordici di Erice e nell’Antiquarium del museo Pepoli di Trapani

testimoniano il ruolo svolto nel centro della componente punica che si pone come autorevole origine del

culto del celebre santuario sul cui luogo sorge oggi il castello normanno.

Delle antiche mura che difendevano la città su tre lati, il quarto non necessitava di fortificazioni, è in gran

parte conservato il tratto occidentale. I circa 800 metri di cortina in calcare locale, spessi dai due ai tre metri,

con torri sporgenti a pianta quadrata e tre porte (Trapani, Carmine, Spada), sono stati restaurati e

rimaneggiati in varie epoche, anche recenti. Saggi condotti in questo tratto nel 1969 hanno riconosciuto nel

monumento almeno tre fasi, l’elima, la cartaginese, l’araba medioevale.

Veduta del monte Erice

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Alla prima, anteriore al VI secolo a.C., apparterebbero i filari inferiori di blocchi rozzamente squadrati; alla

seconda, databile dalla dine del VI al III secolo a.C., le assise superiori con ordito in apparato quadrato

messo inopera a secco e zeppe; alla terza, le parti terminali delle cortine, delle torri, le stesse porte di accesso

alla città moderna con l’impiego di conci piccoli a ordito regolare legati da malta e zeppe verticali. La fase

edilizia cartaginese, cui appartiene l’apertura di postierle a sesto acuto ed architrave rettilineo su schemi

poliorcetici già noti da Selinunte, Siragusa e Mozia, è ulteriormente individuata da marchi di cava il lettere

puniche, attestati con maggior frequenza in prossimità delle postierle.

Del celebre santuario di Astarte, la cui prima fondazione mitica risale allo stesso Erice, figlio di Afrodite e di

Bute, o ad Enea, ben poco rimane. Posta all’estremità di sud-est del monte, l’area in parte occupata dal

castello normanno, conserva tracce di un muro megaliticoche ancora un ricordo mitico dice di Dedalo. Saggi

di scavo condotti negli anni trenta hanno raccolto dati che indicano in un’epoca intorno al V secolo a.C. la

prima edificazione del tempio, oggetto nella sua storio di ripetute demolizioni.Nel santuario, costituito da un

tempio, circondato da un portico, e di cui si ha una sommaria raffigurazione in una moneta di roma

repubblicana, vi si praticava con ogni probabilità l’istituto della prostituzione sacra. Il culto di Astarte

Ericina e il suo veicolo principale, l’istituto della prostituzione sacra, ebbe larga diffusione con la sua

equivalenza con Afrodite Pafia e Venere in tutto il mediterraneo, da Malta alla Grecia, dalla Sardegna

all’Africa e all’Italia.La modesta necropoli punica rinvenuta nel 1969 in un’area appena fuori le mura, nei

pressi di porta Trapani, attesta con le sue incinerazioni di anfore, datate fra la fine del IV e a prima metà del

III secolo a.C., la frequentazione di poco anteriore all’occupazione romana.

Ad integrazione della scarsa documentazione monumentale si pone il materiale archeologico conservato nel

Museo A. Cordici di Erice, che prende il nome da un erudito locale del seicento. La collezione accompagna

l’intera storia cittadina, con una maggior messe di documenti che si concentra nei secoli IV e III a.C., epoca

di massimo sviluppo del santuario ericino. La breve storia della moneta di Erice contribuisce a chiarire le

diverse confluenze di culture che

trovano riscontro nel centro elimo.

Iniziata nel 480 a.C. in argento sul

sistema agrigentino, con al diritto

l’aquila q al rovescio il granchio, alla

metà del secolo recupera il proprio

raccordo etnico con Segesta in emissioni

con il tipo del cane e la doppia legenda /. Nel corso dello stesso secolo e per tutto

il IV, Erice, come altri centri siciliani, adotta in

argento i tipi corinzi di Atena e del pegaso, cui si aggiunge la propria leggenda in punico ‘kr. Nome punico

del centro che appare anche in una serie contemporanea di bronzo con testa maschile e toro androcefalo.

Erice. Pianta delle mura.

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2. MOZIA (lettura tratta da Acquaro, E. (1988) Gli insediamenti fenici e punici in Italia, Roma, istituto poligrafico e zecca dello stato)

La città fenicia di Mozia distrutta dei siracusani nel 397 a.C. e riconquistata subito dopo dai Cartaginesi per

poi passare il testimonio della propria continuità urbana alla vicina Lilibeo, sorgeva sull’isola di S. Pantaleo

al centro dello stagnone di Marsala. La piccola isola che costeggia la costa occidentale della Sicilia accoglie

fina dalla fine dell’ VIII secolo a.C. lo colonia fenicia, una colonia che non dovette certo far fatica ad

assimilare le presenze indigene preesistenti.

Il paesaggio che si offriva alla nuova fondazione ripercorreva fedelmente le esperienze che i coloni avevano

lasciato il patria, da Tiro ad Arado: una piccola isola a poca distanza dalla costa in una tranquilla laguna dove

poter organizzare un impianto urbano con i suoi servizi.

L’impianto urbano risultò dei più funzionali, tale da imporsi all’ammirazione degli stessi Greci: un argine di

collegamento con la terraferma, una cinta muraria turrità e con porte monumentali, un’area potuale e un

bacino di carenaggio, quartieri civili, industriali, santuari e necropoli.

L’accurata pianificazione che da subito interessò l’intera area dell’Isola fu anche all’origine del successivo

abbandono, che ebbe certamente il suo momento traumatico nella distruzione del 397 a.C.

La distruzione coglieva i Moziesi impegnati in un ennesimo ampliamento del proprio centro con la

ristrutturazione della cinta muraria e la conquista di alcuni metri del litorale: l’obiettiva ristrettezza dell’area

a disposizione e il già avviato popolamento del Lilibeo contribuirono alla fine del centro come tale. Le

testimonianze documentali che dimostrano una presenza nell’isola posteriore al 397 non raggiunsero, infatti,

mai consistenza e dignità di riedificazione urbana. La colonia fenicia, salvo l’emergenza di qualche struttura

tardo-ellenistica e bizantina, conservò sotto al terra intatto il proprio tessuto urbano che dai primi del secolo,

l’opera di Giuseppe Whitaker, ha portato a riscoprire.

Fin dal suo primo impanto la colonia fenicia prevede il collegamento con il litorale prospiciente. Da qui la

costruzione di una strada che partendo dal porto nord attraversava lo stagnone congiungendo l’isola alla

località di Birgi. Punto vulnerabile delle fortificazioni moziesi, fu a più riprese smantellata e poi ricostruita

da assedianti ed assediati. Consistenti le rovine che ne segnano ancora il tracciato sotto il livello delle acque:

fino a qualche decennio fa la strada era ancora un ottimo tratturo percorso dai carri che portavano alla

terraferma i frutti della vendemmia dei forti vitigni messi a quasi intera copertura dell’isola.

Su una secca e con un fondo costituito da una massicciata di pietre e limo, la strada conserva il proprio

tracciato rettilineo: aveva lunghezza di circa 1,7 km e larghezza che in alcuni punti consentiva il transito di

due carri affiancati. Presso il tratto della strada che parte dall’isola, sulla sinistra, sono ancora rilevabili le

strutture di approdo: la strada, uno degli impianti meglio conservati in Occidente dell’ingegneria portuale

fenicia che intervenne con successo alla definizione della prima funzionalità portuale di più di un antico

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approdo mediterraneo da Cartagine a Sant’Antioco, dovette con ogni probabilità anche assolvere la funzione

di banchina d’imbarco.

La città, che occupava interamente in quaranta ettari dell’isola, era cinta da mura che corrono lungo il litorale

lambendo in alcuni punti le acque dello Stagnone. L’intero circuito si svolge per 2500 metri e data il suo

primo impianto agli inizi del VI secolo a.C.: i numerosi rifacimenti giungono sino alla veglia della

distruzione siracusana modificando in alcuni tratti l’andamento con rafforzamenti degli spessori e restauri

dell’ordito litico. La consistenza delle strutture, malgrado lo smantellamento della conquista e il successivo

abbandono, favorì l’addossamento al loro esterno e interno di

successive costruzioni e impianti a testimonianza di sporadici

tentativi di recupero antropico dell’area urbana.

Diverse le tecniche murarie utilizzate in varie epoche nella

costruzione dell’impianto difensivo con andamento a

cremagliera rafforzatoda venti torri quadrate: mattoni crudi, a

telaio con impegno di massi squadrati di pietra calcarea locale

a struttura isodoma con pietra tufacea trasportata da fuori.

Merlature e sommità curva coronavano le torri e le cortine

analogamente a quanto è attestato a Tharros.

Quattro porte dovevano aprirsi nelle mura: solo due sono ancora visibili, a nord e a sud, congiunte da una

strada che percorreva il centro nel senso della lunghezza.

La porta settentrionale, che dovette sostenere l’urto decisivo delle truppe siracusane, ha strutture imponenti e

articolate con l’aggiunta operata nel V secolo a.C. di due

torrioni posti di sbieco, a mò di porta scea.

Le numerose porte secondarie e postierle che si aprivano in

antico nei pressi con ambienti destinati a posti di guardia

testimoniano l’attenzione riservata all’opera e alle sue

capacità difensive.

La porta meridionale, anche essa affiancata da bastioni e

apparentemente meno articolata di quella settentrionale, reca

segni evidenti dell’impianto di strutture di spoglio successive

al primo disegno. Le cortine occidentali della porta difendono il cothon o porto artificiale. Il bacino, che

misura m 51x35,50 con profondità massima di m 2,50, ha un fondo piatto di tufo naturale e lati delimitati da

banchine in pietre squadrate con piattaforma sporgente sul lato settentrionale.

Un canale, con stretto gomito, lungo m 30 e largo oltre m 5, metteva in comunicazione il cothon con il mare.

Diverse le fasi di intervento individuate nel manufatto: alla fine del VI secolo a.C. risale lo scavo del canale,

mentre il rifascio di muratura del bacino sembra porsi alla fine del V secolo.

Mozia. Scavi alle mura

Mozia. La porta nord

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La destinazione del bacino ha suscitato parecchie perplessità

e dato vita a più ipotesi da pescheria a porto cittadino.

L’ipotesi più accreditata è quella che vede nell’invaso un

bacino di carenaggio: non è da escludere tuttavia che la

struttura nel corso del tempo abbia potuto cambiare o

modificare le sue funzioni in coincidenza degli interventi

differiti sul suo impianto.

Solo di recente inizia a delinearsi l’interso reticolo urbano

difeso dal circuito murario. Gli interventi di scavo hanno

interessato sia la parte centrale dell’isola sia alcune zone periferiche nord-orientali e meridionali. Abitazioni

al centro e a meridione, quartiere industriale a nord-est testimoniano un organizzazione a edilizia

programmata, in continua evoluzione.

Ad oriente dalla porta sud e a pochi metri dalla cinta muraria, un largo tratto frammentario di mosaico a

ciottoli bianchi e neri con motivi a meandri che inquadrano scene di lotto tra animali attesta una fase edilizia

che con ogni probabilità fu contemporanea o di poco successiva alla distruzione siracusana. La singolare

tecnica impiegata nonché le figurazioni riprodotte riportano ad esperienze costruttive fenicie, attestate

ampiamente in Spagna.

La ricerca archeologica ha individuato a tutt’oggi nell’area nord-orientale dell’isola un notevole

concentramento degli edifici e complessi sacri.

Starà all’indagine futura stabilire se tale localizzazione sia dovuta ad una programmata funzionalità sacra del

settore indicato o se il fenomeno sia dovuto ad uno stadio provvisorio delle ricerche sul campo.

In questo settore, alle spalle della porta sud si trova il complesso del “Cappiddazzu”. Un muro di cinta

delimita un area rettangolare di m 27,40x35,40: su uno dei lati è il basamento di un edificio a tre navate

longitudinale e una trasversale.

Diverse le fasi individuate, tutte tuttavia rientranti in

funzionalità sacre, come gli ultimi resti dell’abside di una

piccola basilica bizantina asportati negli anni trenta:furono

con ogni probabilità i monaci della comunità basiliana titolari

della basilica a dare all’isola il nome di S. Pantaleo.

Al primo impianto del VII secolo a.C. risalgono due brevi

muri e un pozzo, al VI secolo l’erezione del muro di cinta, al

V secolo la fase monumentale di un tempio ora scomparso

con decorazioni architettoniche a gola egizia, ad epoca

successiva la distruzione siracusana l’edificio a navate che utilizza come materiale di spoglio numerosi

frammenti a gola egizia del tempio del V secolo. Nel vicino quartiere industriale è stata scoperta una statua

Mozia. La porta sud.

Mozia. La statua dell’auriga:particolare della

testa

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di un auriga in marmo, che doveva con ogni probabilità venire dal “Cappiddazzu” ed essere inserita nel

contesto monumentale del V secolo.

Fuori le mura, in asse con i bastioni della porta nord sono stati individuati due piccoli edifici templari. Gli

edifici, di cui restano scarse tracce monumentali a testimonianza di rimaneggiamenti diversi, furono in uso

fra il VI e gli inizi del IV secolo a.C.

Ad occidente si trova il tofet. L’area sacra, approssimativamente triangolare, s’impiantò all’inizio del VII

secolo a.C. su unmodesto rilievo calcareo presso il litorale.

Alle poche urne contenenti le ceneri dei primi sacrifici,

depositate direttamente sulla roccia, seguì un notevole

incremento con la deposizione dei vasi-cinerari in ciste di

lastre di pietra accompagnate da un monumento votivo, cippo

o stele, a ricordo dell’atto rituale consumato.

Nel corso del VI secolo a.C., in coincidenza del primo

impianto del circuito murario e della realizzazione delle più

impegnative opere pubbliche dell’abitato, l’area del santuario

si estese verso oriente utilizzando la colmata artificiale di una zona del litorale, delimitata dalle mura e dai

muri di contenimento. A questa fase, che termina con il V secolo, risalgono la costruzione di un sacello

rettangolare e il restauro dei muri e dei pozzi dell’area di servizio. Numerose le stele di questo periodo: le

iscrizioni in punico su alcune individuano l’unica divinità cui i Moziesi sedicavano i propri sacrifici, Baal

Hammom.

La conquista siracusana e la successiva riconquista cartaginese determinarono una stasi nella vita del

santuario, che riprese le deposizioni per tutto il III secolo a.C.

Fra il tofet e la porta nord si estende la necropoli, in uso dalla fine dell’VIII secolo agli inizi del VI, data in

cui la cinta muraria tagliò l’area sepolcrale. I resti, per la maggior parte cremati, erano raccolti in urne e

deposti sia in pozzetti scavati nella roccia sia in ciste analoghe a quelle del tofet con lastra di copertura. Gli

strati più superficiali della necropoli conoscono anche il seppellimento di inumati in sarcofagi di pietra.

L’impianto urbano di Mozia quale emerge dai monumenti finora passati in rassegna – e che suscitò fra

l’altro interessi di illustri scavatori come Schliemann, lo scopritore di Troia, e di Cintas, il pioniere degli

scavi punici in Tunisia – riporta tutte le evidenze delle evolute esperienze civiche del Vicino Oriente, ivi

compresa l’utilizzazione nelle opere più impegnative di unità metriche fenicie. Come si vedrà anche per la

cultura materiale, Mozia, che pur conosce e adotta in più casi prodotti e tecnologie greche, mantiene fino

all’ultimo coscienza della propria origine orientale. Origine che coltiva e ed evolve per l’orgogliosa

realizzazione di una comunità civica in cui la cultura fenicia d’Occidente trova una delle più alte espressio.

Mozia. Il tofet.

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Concorre alla formulazione del giudizio sulla città la ricca documentazione di reperti mobili , che si

conservano nel museo di Palermo, sia in quello di Marsala sia in quello istituito nell’isola da Giuseppe

Whitaker nei primi del novecento, che ospita anche materiale proveniente da Lilibeo e da altri siti.

Un centro urbano così evoluto come quello di Mozia dovette avere una scultura monumentale. Alla

definizione di tale emergenza che connota in termini universali l’esperienza di una comunità cittadina si

giunge sia attraverso l’importazione sia attraverso l’attività di maestri scultori locali.

Due reperti denunciano emblematicamente le aree di cultura che interagiscono a Mozia: una statua acefala in

roccia vulcanica ripescata nello Stagnone e la già ricordata statua di auriga rivenuta nel centro urbano.

Analoga l’ambientazione cronologica intorno al VI-V secolo a.C., diverse le aree di provenienza. Metre

infatti per la prima l’ispirazione egittizzante è guida di un’origine della madrepatria fenicia con forti

connotazioni cipriote, per la seconda, forse bottino selinunto, è la cultura grca di Sicilia a concorrere al

decoro della colonia Moziese.

Ma le botteghe scultoree locali che tanto prova daranno della loro maturità nel taglio delle oltre mille stele

votive del tofet intervennero anche in quest’ambito. Ne è forse primo risultato il gruppo scultore in calcaree

posto con ogni probabilità a decorazione di una porta urbana, in cui si riproduce una scena di lotta tra due

leoni e un toro: la posizione simmetrica dei leoni determina una ricercata caratterizzazione araldica.

Le stele del tofet, scolpite e dipinte, sono in grado di meglio definire la cultura materiale di Mozia. Prodotti

destinati esclusivamente alla domanda locale, rilevano l’alto livello tecnico e stilistico che li produsse, tale da

costituire elemento insostituibile di giudizio per la valutazione dell’intera categoria a livello mediterraneo.

Concorre alla centralità della documentazione moziese anche l’aspetto quantitativo: i reperti dell’isola sono

inferiori per numero solo alla produzione di Cartagine e di Sant’Antioco. Se si considera che i tofet dei due

centri ricordati sopravvissero al santuario moziese per non meno di un secolo, risulta ancora più evidente

l’importanza della documentazione dell’isola.

Il repertorio delle stele moziesi di connota di novità intrinseche per quanto concerne la tecnica, la tipologia e

iconografia: per la prima l’uso autonomo della pittura, per la seconda l’attestazione di stele doppie, per la

terza la diretta ispirazione da cartoni fenici. Nella produzione delle stele votive Mozia mantenne un ruolo

singolarmente autonomo rispetto al restante mondo punico, con botteghe che esplicarono diversi livelli

artigianali, dal più evoluto al più immediato popolaresco. In sostanza nelle stele si misura la portata di un

fenomeno che fu di giustapposizione e non di compenetrazione fra l’elemento fenicio e il circostante mondo

greco di Sicilia.

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Con le terrecotte, anche esse

provenienti in gran numero dal tofet,

muta il giudizio di autonomia e di

dipendenza dalla Fenicia espresso per

le stele. L’inserimento della

documentazione moziese nella cultura

materiale del mondo fenicio

d’Occidente è dei più evidenti, ivi

compresa l’importazione, e in qualche

caso l’imitazione locale, di prodotti

coroplastici ricavato da modelli greci

di Sicilia e di Rodi.

Sono in special modo le statuette con

corpo al tornio ed elementi

antropomorfi aggiunti con l’applicazione di particolari o l’intervento delle incisioni a collegare strettamente

Mozia, con l’occidente punico,

in particolare con Ibiza. Spesso compare al capo una lucerna bilicne a rendere più perspicua la connessione

con il centro punico delle Baleari, mentre la tipologia di altri esempi richiama analoghe attestazioni sarde

(Narbolia, Tharros, Oristano, Monte Siari, Nora, Sant’Antioco) e nord-africane.

Le circa cento statuette moziesi sono datate fra la fine del VI eV secolo a.C.

Quanto alle protomi del tipo egittizante, all’unica maschera “ghignante” e alle matrici fittili decorate la

rispondenza tipologica con simili esemplari di Cartagine pone l’alternativa o della lavorazione locale o

dell’importazione del pezzo finito ovverossia della stessa matrice.

Arule in terracotta sono da ultimo portatrici di novità del contesto fenicio d’Occidente: evidente è nei temi

(scene di caccia, di combattimento e mitologiche) l’ispirazione della Sicilia greca.

I corredi funerari ripercorrono nel materiale le consuete tipologie di routine nel mondo punico, come amuleti,

scarabei, gioielli.

Evidente è l’aderenza della ceramica vascolare alle esperienze dei vicini centri sicelioti: particolarmente

diffusa è la decorazione metopale unita a forme di tradizione geometrica, che si pensa abbiano con la loro

recezione su forme fenice influenzato la stessa produzione di Cartagine.

Anche la tipologia non rimane estranea agli stimoli delle numerose importazioni di buccheri etruschi di vasi

proto corinzi e corinzi (soprattutto d’imitazione siceliota), di coppe ioniche e tazzette rodie, in gran parte

imitate nella produzione locale, che poteva contare su numerosi forni per ceramica con strutture di origine

vicino-orientale.

Mozia. Pianta dell’isola

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Né poteva mancare a Mozia una propria monetazione: la città batté moneta in argento e in bronzo fin dai

primi decanni del V secolo a.C. con leggenda sia in greco che in punico e riferimento costante ai conii dei

più importanti centri sicelioti, quali Agrigento e Selinunte.

Frammento vicino-orientale in Sicilia, Mozia vi trasferisce quasi inalterata una cultura urbana evoluta che

può porsi come schema di lettura per i successivi centri punici. La sua cultura, gelosa delle origini, sembra

volgere la propria originale creatività artigianale al solo mercato interno. Sono così in particolare le stele, e in

parte le terrecotte e la ceramica vascolare, a beneficiare delle sue capacità, mentre per le altre categorie i

commerci individuano una vocazione pi recettiva che propulsiva.

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3. LA LINEA FERROVIARIA PALERMO-TRAPANI TRA STORIA E ATTUALITA’ (informazioni da TRENO D.O.C. ASSOCIAZIONE DI CULTURA E ATTIVITA’ FERROVIARIA http://www.trenodoc.it/)

Classificata un tempo dalle FS tra quelle complementari, questa linea per l’importanza delle località servite è

da annoverarsi tra quelle principali della Sicilia. Dal tratto iniziale al servizio di diverse esigenze di trasporto,

dalla metropolitana di superficie per Palermo, al servizio passeggeri a media e lunga percorrenza e merci, al

collegamento aeroportuale, alle industrie vinicole del Partinicese, alle belle spiagge di Terrasini e Balestrate,

alle riserve naturali come quella dello Zingaro, ai comprensori archeologici segestano, selinuntino e di Mozia

sono numerose le realtà economico - sociali che meriterebbero una maggiore attenzione al fine di rendere più

competitiva l’intera linea.

3.1 LA STORIA

Come per molte altre linee ferroviarie, le proposte ed i progetti di massima furono numerosi fin dall’epoca

borbonica; solo nel 1870, il 19 dicembre, fu deliberata la costituzione di un consorzio tra le Province di

Palermo e Trapani per assumere la concessione della costruzione della ferrovia tra le due città, che doveva

toccare Castellammare, Castelvetrano, Mazara e Marsala.

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a concessione è stipulata il 25 agosto 1874, e dopo un primo tentativo con un impresario londinese fallito nel

1875, il 12 luglio 1876 si concluse la subconcessione al signor Nicola Lescanne Perdoux di Parigi. Il 3

settembre del 1878 viene costituita dallo stesso Lescanne Perdoux la Società anonima per la Ferrovia Sicula

Occidentale, che iniziò finalmente i lavori nell’anno successivo. L’apertura al traffico del primo tronco tra

Palermo e Partinico avvenne il 1° giugno 1880; i treni non proseguivano però verso la stazione principale di

Palermo, dove si attestavano i collegamenti verso Catania, poiché la circonvallazione ferroviaria di Palermo,

che i convogli avrebbero dovuto percorrere, apparteneva all’epoca alle Strade Ferrate Calabro - Sicule. Al

momento dell'apertura al traffico del tratto Palermo - Partinico i treni si attestavano ad una stazione

provvisoria sita vicino via Malaspina, nell'area oggi occupata dal fascio binari della stazione Lolli e soltanto

dopo diversi anni fu inaugurato l'attuale fabbricato di Palermo Lolli; con la stipula di un’apposita

convenzione il 1° maggio 1882 fu possibile attestare i treni da Trapani a Palermo Centrale (all'epoca situata

nell'attuale via Silvio Boccone).

Nel frattempo proseguivano le inaugurazioni: il 10 luglio 1880 si poté andare da Trapani a Castelvetrano, il

1° marzo 1881 da Partinico a Castellammare del Golfo ed il 5 giugno successivo si completò il tratto

mancante tra Castelvetrano e Castellammare.

Per il primo periodo di esercizio vennero ordinate alle officine di Pietrarsa dieci locomotive di rodiggio C,

con i numeri da 1 al 10, ed alla Krauss di Monaco di Baviera altre cinque numerate da 21 a 25; altre

locomotive furono costruite nel 1882 dalla ditta Hunslt di Leeds in Gran Bretagna. Le carrozze della prima

dotazione erano tutte a due assi: una particolarità era la possibilità di formare due letti in ognuno dei tre

compartimenti delle vetture di prima classe. Erano dotate tutte di doppio tetto, per ridurre il riscaldamento da

irraggiamento del sole; vi era anche un tipo di carrozza che in pochi metri incorporava uno scompartimento

riservato di prima classe con lavabo e servizio igienico, il bagagliaio, lo scompartimento postale, uno

scompartimento per la distribuzione dei biglietti ed infine due gabbie per cani! Tra le carrozze del treno non

era prevista l’intercomunicazione, l’illuminazione era fornita da fumose e traballanti lampade a petrolio ed il

riscaldamento invernale non era previsto.

Le stazioni erano praticamente quelle attuali: sono state soppresse da allora le fermate a Sferracavallo, Lo

Zucco - Montelepre, Alcamo (già Alcamo Calatafimi, funziona tuttora come posto di movimento), Segesta

(vecchia fermata), Gibellina (poi denominata Gallitello, attualmente funziona come posto di movimento),

San Nicola di Mazara (anche questa stazione è stata trasformata in posto di movimento), mentre sono state

aggiunte le fermate di Vespri, Francia, Cardillo (si tratta di fermate del servizio metropolitano che non sono

dotate di fabbricato viaggiatori, così come Carini Torre Ciachea, aperta nel 2002 per i lavoratori della

limitrofa zona industriale e che non fa parte del circuito metropolitano di Palermo, ma vi fermano alcuni

regionali per Punta Raisi e Trapani) e le stazioni di Palazzo Reale – Orleans (inaugurata il 22 giugno 2001

come fermata ad un solo binario, divenuta sede di incrocio con l’attivazione del secondo binario il 6 ottobre

2001), Piraineto (aperta al traffico come fermata il 28 maggio 2000, stazione di diramazione dal 6 ottobre

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2001 con l’attivazione della tratta per l’aerostazione di Punta Raisi), Alcamo Diramazione e Terrenuove;

inoltre la stazione di Palermo Lolli è stata sostituita da quella di Notarbartolo e la stazione di Bambina ha

cambiato nome in Petrosino - Strasatti. Il 15 dicembre 2002 la stazione di Ragattisi - Birgi ha mutato

denominazione in Mozia - Birgi, al fine di invogliare i turisti a servirsi del treno per raggiungere il celebre

sito archeologico.

Sulla tratta Alcamo Diramazione - Trapani via Milo, rispetto al momento dell'apertura sono state soppresse

le stazioni di Ummari e Erice - Napola (poi Dattilo - Napola, forse il cambio di denominazione è da correlare

all'apertura al traffico negli anni '50 della funivia Trapani - Erice); le stazioni di Bruca, Fulgatore e Milo

sono oggi posti di movimento.

Passato l’entusiasmo dell’inaugurazione iniziano e si fanno sempre più vive le lamentele sulla lunghezza del

percorso e sull’inutile giro da compiere per viaggiare tra i due capoluoghi; come al solito si sprecano i

progetti e le discussioni per il collegamento diretto via Segesta o lungo la costa per Castellammare, San Vito

e Custonaci si susseguono per diversi decenni, ma non si realizza niente di concreto; solo nel 1921 un

decreto datato 24 novembre autorizza la costruzione a cura dello Stato della linea Calatafimi - Trapani a

scartamento ordinario, contrariamente ai progetti precedenti che ne prevedevano la realizzazione a

scartamento ridotto. La costruzione, affidata nel 1923 alla "Compagnia Generale per Lavori e Servizi

Pubblici", inizia in realtà solo nel marzo del 1931, per concludersi con l’inaugurazione della linea il 15

settembre del 1937.

L’esercizio, che dal 1° agosto 1907 è passato dalla F.S.O. alle Ferrovie dello Stato, continua sulle due linee

senza grossi avvenimenti fino ai giorni nostri; da ricordare l’interramento del tracciato che attraversava in

superficie la città di Palermo, attivato il 26 maggio 1974 con l’abbandono di alcuni chilometri della linea

originaria (compresa la stazione Lolli) che non pochi ingorghi provocava con i suoi numerosi passaggi a

livello, l’inaugurazione della galleria Re Federico e della stazione Notarbartolo, divenuta oggi più centrale

della stessa stazione Centrale. Altro avvenimento importante è stato, a metà del 2001, l'elettrificazione della

tratta Palermo Notarbartolo - Piraineto (successivamente prolungata fino a Cinisi-Terrasini) che ha

consentito, insieme con la realizzazione della diramazione per Punta Raisi, l'istituzione del servizio

cadenzato "Trinacria Express" per l'aeroporto "Falcone e Borsellino" di Palermo. Pochi anni prima era stata

attivata una variante di tracciato (a doppio binario dal 6 ottobre 2001) tra un punto sito pochi metri dopo la

stazione di Carini e la stazione di diramazione di Piraineto. Su tale variante i binari corrono su viadotto ed in

galleria.

Su questa linea sono stati impiegati dei mezzi che hanno lasciato un segno nella storia delle ferrovie italiane

non per eclatanti caratteristiche ma per l’umile servizio che hanno saputo assicurare quotidianamente per

lunghissimi anni. Così si potevano vedere al traino di treni passeggeri e merci le vaporiere dei gruppi 740,

741, 940 e 625, mentre al traino dei diretti con la carrozza per Roma vi erano in turno le "regine" gruppo

685. A partire dalla seconda metà degli anni ’30 entrarono in servizio le littorine Fiat ALn 56, affiancate

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dagli anni ’40 dalle ALn 772. Seguiranno, dal 1° gennaio 1953, le ALn 990.1000 Fiat, nel 1978 le ALn

668.1000, nel 1980 le ALn 668.3000 e 1200 (queste ultime trasferite altrove l’anno successivo, oggi si

trovano concentrate a Treviso) e nel 1985 le ALn 663, che attualmente in Sicilia circolano in prevalenza su

questa linea. Occasionalmente sono state impiegate, anche nei più veloci servizi diretti, le ALn 668.1600,

con oltre trent’anni di vita, trasferite a Palermo dal D.L. di Caltanissetta, e vi hanno circolato inoltre le quasi

quarantenni ALn 668.1500. Tornando alla trazione a vapore, questa resistette fino al 1968 per i servizi

passeggeri ed al 1975 per quelli merci, anche se alcune vaporiere rimasero attive ed occasionalmente

utilizzate fino ai primi anni ’80. La conversione del servizio passeggeri alla trazione diesel coincise con

l’apertura al traffico della variante tra le stazioni Notarbartolo (all’epoca in costruzione) e San Lorenzo, che

comprendeva la lunga galleria Lazio. Il transito di treni passeggeri a vapore in gallerie di quell’estensione era

sconsigliabile per motivi di sicurezza e di confort. Al posto di 625, 740, 741 ecc. sono entrate gradualmente

in servizio le locomotive diesel dei gruppi D 343 e D 443; queste ultime nel 1991 sono state trasferite a

Catania per il servizio merci sulla linea Catania – Caltagirone – Gela anche se possono ancora trovarsi in

trasferta sulla nostra linea. Dopo vari anni sono entrate in servizio anche le locomotive del gruppo D 445 di

prima e terza serie, ma le ultime tre rappresentanti di quest’ultima sottoserie (D 445 navetta) hanno terminato

il loro servizio su questa linea il 5 ottobre 2001. Dal giorno successivo i loro servizi, che si svolgevano

prevalentemente sulla tratta Palermo – Cinisi con una sola puntata su Trapani, sono stati rilevati dalle ALe

582, 801/940 e 841, ma solo sulle corse aventi capolinea nelle varie stazioni della tratta tra Palermo

Notarbartolo e Carini. I treni regionali che proseguono oltre Cinisi sono effettuati da automotrici ALn

663/668 e complessi ALn 501/502 Minuetto. Il 17 ottobre 2001 peraltro le tre D 445, insieme con tre vetture

semipilota abilitate al telecomando di locomotive diesel, sono state trasferite al deposito di Alessandria. Per

il servizio "Trinacria Express" Palermo Centrale - Punta Raisi sono inoltre in servizio le ALe 841 ed i

complessi ALe 501/502 Minuetto. Vi hanno anche circolato per alcuni anni alcune composizioni con

locomotiva E 464 più tre carrozze MDVC di cui due intermedie con aria condizionata ed una pilota con

intercomunicante.

Col passare degli anni anche i più anziani gruppi di automotrici hanno dovuto cedere il passo a quelli più

recenti: così l’ultima ALn 772 ha circolato su questa linea nel 1985 e le ALn 990 Fiat sono state accantonate

nel 1988, sostituite da alcune ALn 668.3000 rilevate a loro volta dalle ALe 582 sull’appena elettrificata linea

Palermo - Agrigento.

Per il servizio metropolitano sulla tratta Palermo Centrale – Giackery hanno effettuato servizio anche altri

gruppi di rotabili: le E 646 con vetture navetta e le lussuose ALe 601, che oggi circolano sugli stessi binari

trasformate in ALe 841.

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I tempi di percorrenza dei treni più veloci all’epoca dell’inaugurazione della linea erano di 5 ore e 22’ (via

Castelvetrano), nel 1940 di 1 ora e 57’ con le ALn 56 (via Milo) e nell’ultimo orario (dicembre 2007) di 2

ore con le ALn 668/663 (sempre via

Milo).

La linea è attualmente utilizzata

prevalentemente per trasporto

pendolare, specialmente nelle tratte

Palermo – Alcamo e Castelvetrano –

Trapani.

I treni che percorrono la via diretta

Trapani - Alcamo viaggiano a volte

semivuoti nella tratta oltre Alcamo

diramazione, in quanto coloro che si

debbono recare da Trapani a Palermo trovano più conveniente il pullman, che ha un tempo di percorrenza

nettamente inferiore. Il trasporto merci infine vede il transito di pochi treni, che non sono però del tutto

inutilizzati; capita abbastanza spesso che i merci in servizio abbiano parecchi carri in composizione. Circola

in particolare una coppia di merci tra Cannizzaro (nei pressi di Catania) ed Alcamo Diramazione, che

percorre la linea Catania - Palermo e sosta a lungo a Palermo Brancaccio. Ad Alcamo Diramazione e Mazara

del Vallo hanno avuto residenza delle composizioni di carri cisterna per trasporto di gas propano e metano.

Un contributo al traffico e’ dato dalla campagna vinicola, in occasione della quale si sono effettuate pesanti

(per le possibilità delle locomotive diesel) treni composti da carri cisterna francesi per trasporto di vino o di

mosto.

3.2 IL PERCORSO Subito dopo la partenza dalla stazione Centrale di Palermo si passa una prima volta il fiume Oreto e si entra

lentamente in una stretta curva a destra: a sinistra si trova il deposito locomotive di Brancaccio, che si vede

in lontananza; più vicina è la Squadra Rialzo con le carrozze viaggiatori. Subito dopo avere oltrepassato il

Bivio Oreto, dove si incontra la linea proveniente da Brancaccio, si entra in una galleria sotto la borgata della

Guadagna; in questa galleria in futuro verrà ospitata una fermata del servizio metropolitano. Uscendo da

questa galleria si ripassa sull’Oreto con un ponte in ferro e si raggiunge la fermata di Vespri, che una volta

terminati i lavori di sistemazione del nodo di Palermo sarà trasferita in una sottostante galleria attualmente in

corso di progettazione. Si entra quindi a velocità ridotta nella breve galleria Tukory, per fermarsi subito dopo

nella stazione sotterranea Palazzo Reale - Orleans, dotata di binario d’incrocio, dedicata all’imprenditore

Libero Grassi, ucciso dalla mafia nel 1991. Quando il treno riparte si prosegue in sotterranea imboccando la

lunga galleria Re Federico, allo sbocco della quale il treno ferma alla stazione Notarbartolo. Si entra quindi

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nella galleria Lazio che sottopassa dal 1968 la città nuova fino all’altezza di via Alcide de Gasperi, dove

inizia un tragitto attraverso la periferia nord-occidentale di Palermo, con un susseguirsi di palazzi moderni,

villette con giardino e fuggevoli visioni degli ultimi frammenti dell’antica Conca d’Oro, fazzoletti di terreno

coltivato scampati alla speculazione edilizia per la vicinanza della ferrovia che ha fatto preferire ai costruttori

occupare terreni meno soggetti al rumore del passaggio dei treni; fino agli anni ‘70 circolavano treni merci

anche in piena notte, ed un espresso per Trapani partiva a tarda sera. Solo in corrispondenza di Sferracavallo

appare il mare; il tragitto seguente si svolge per lo più tra le campagne e le villette. Dopo Carini si percorre

un tratto a doppio binario di nuova costruzione, con una lunga galleria, al termine della quale si raggiunge la

stazione Piraineto, dove si dirama la breve linea per la stazione dell’aeroporto di Punta Raisi, quasi tutta in

galleria e comunque senza nulla di interessante sotto il profilo paesaggistico. Si potrà osservare come il

viaggio appaia molto lungo, con frequentissime fermate per incroci e bassa velocità tra una stazione e l’altra.

Dopo avere oltrepassato lo scalo di Cinisi - Terrasini, il paesaggio diventa più agreste e le costruzioni si

diradano, ma il mare scompare alla vista. Molto caratteristica e’ la lunga salita per Partinico, con la

rigogliosa vegetazione e la stretta curva in corrispondenza della stazione soppressa di Lo Zucco –

Montelepre, uscendo dalla quale si impegna il bel viadotto in ferro sul fiume Nocella, uno dei punti migliori

dell’intera linea per i fotografi ferroviari. Una volta superata Partinico, al termine della successiva discesa si

raggiunge nuovamente la costa del Tirreno, con la riviera di Trappeto e Balestrate; si percorre l’ultimo tratto

in vista del mare (se si prosegue via Milo), con l’alternarsi di alte scogliere ed ampie spiagge, assai affollate

di bagnanti nella stagione estiva. La linea abbandona definitivamente il litorale poco dopo la stazione di

Castellammare del Golfo, ed il treno s’interna nella vallata del fiume Freddo, con qualche breve galleria,

giungendo ad Alcamo Diramazione, dove si può proseguire verso Castelvetrano o Trapani. Proseguendo da

Alcamo per Trapani via Milo la salita prosegue in vista del teatro di Segesta, che domina la scena dall’alto

del Monte Barbaro, e si arriva in breve a Calatafimi. La stazione possiede un vasto piazzale, dovuto al fatto

che all’epoca della costruzione (anni ’30) si era iniziata a costruire una ferrovia a scartamento ridotto che

partendo da qui, attraverso Calatafimi centro, Vita e Salemi centro, doveva arrivare a Salemi FS, dove era già

in funzione il collegamento, sempre a scartamento ridotto, con Santa Ninfa ed il resto della rete del Belice;

questa ferrovia, di cui è rimasto ben conservato il tracciato, come varie altre non fu mai aperta. Oggi il

piazzale di Calatafimi (che nel caso si fosse aperta la linea sopraccitata avrebbe ricevuto la denominazione di

Kaggera) è un grande spazio desolatamente vuoto. Il paesaggio da qui si fa più aspro, trovandoci ormai nel

brullo interno della Sicilia; si sale lungo il fianco del Monte Barbaro, che si sottopassa in galleria, all’uscita

della quale vi è la fermata, senza binario d’incrocio, di Segesta, situata abbastanza distante dalla zona

archeologica, ed il cui fabbricato viaggiatori è stato con meritevole iniziativa adibito a ristorante. Il viaggio

prosegue tra colline e radi abitati; si passa da Ummari, ex stazione oggi del tutto soppressa, insieme a Dattilo,

mentre a Fulgatore, Bruca e Milo, posti di movimento impresenziati e telecomandati dal DCO, e' possibile

effettuare incroci benché non sia previsto servizio viaggiatori. Giunti a Trapani si può affrontare il viaggio di

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ritorno percorrendo l’itinerario via Castelvetrano. Ripartiti dalla città dominata dal Monte Erice si percorre

una piatta campagna per arrivare in breve alla stazione di Paceco. Poco dopo si profila a destra l’aeroporto

civile e militare di Birgi e proseguendo ci si avvicina alla costa dove si trovano le famose saline ed i mulini a

vento per la lavorazione del sale, che rendono questa zona assai caratteristica ed attraente; inoltre sempre in

questi dintorni ci si può imbarcare per l’isola di Mozia, meta di turismo internazionale per gli importanti resti

della città punica. Il traffico in questo tratto di linea è abbastanza sostenuto, dato che vengono servite le

popolose città di Marsala e di Mazara del Vallo; l’importante porto peschereccio di quest’ultima città non si

serve tuttavia della ferrovia per il trasporto della grande quantità di pescato che vi viene sbarcato (in passato

c’era anche un raccordo, ormai smantellato), preferendo il vettore gommato, favorito dalla presenza

dell’autostrada. Da qui termina la pianura costiera e si attraversa la zona delle antiche cave da cui venivano

estratti i materiali utilizzati per la costruzione dei templi della vicina Selinunte. Avvicinandosi a

Castelvetrano si può ancora scorgere tra i rovi sulla destra il binario a scartamento ridotto che fino al 31

dicembre 1985 era percorso dalle RALn 60 per Ribera; giunti in stazione il binario non si vede più, in quanto

è stato ricoperto con asfalto ed utilizzato come parcheggio per camion. Nel ripartire, sempre sulla destra,

sono ancora esistenti le grandi rimesse dell’ex deposito locomotive, totalmente murate e quasi inaccessibili,

dove si trovano ancora accantonati automotrici e carri merci a scartamento ridotto. Il viaggio prosegue

lentamente fino ad Alcamo Diramazione in un paesaggio abbastanza monotono tra aride colline; una volta

giunti ad Alcamo, se si prosegue per Palermo sulla stessa vettura potrebbe capitare che il mezzo accenni a

riprendere la via del ritorno verso Trapani: nessun problema, è solo una manovra per accodarsi

all’automotrice arrivata da Trapani via Calatafimi, e in pochi minuti si ripartirà per Palermo.

3.3 CARATTERISTICHE DELLA LINEA

LUNGHEZZA: km.125,17 via Calatafimi; km. 194,17 via Castelvetrano. La diramazione Piraineto - Punta

Raisi è lunga 4 km.

PENDENZE MASSIME: 22 per mille tra Salemi Gibellina e Castelvetrano; fra Trapani e Palermo per la via

diretta si incontra il 19 per mille fra Trappeto e Partinico.

RAGGIO MINIMO DI CURVATURA: m. 300

GRADO DI PRESTAZIONE: 17

VELOCITÀ MASSIMA: 125 km/h in due brevi tratti di circa tre chilometri ciascuno tra Capaci e Carini e

tra Carini e Piraineto; in realtà la velocità effettiva della linea è tra 80 e 90 km/h.

Mezzi di trazione

A) locomotive elettriche

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E 645/646 per servizi merci tra Palermo Brancaccio e Carini o tra Brancaccio e lo scalo Sampolo.

Le E 656 hanno circolato molto raramente sempre verso Sampolo isolate o al traino di qualche merci, con la

limitazione a 60 km orari al ponte sul fiume Oreto.

Limitatamente al tratto Palermo - Punta Raisi la società RFI ha concesso la circolabilità anche ai gruppi E

424, E 464, E 626, E 636, E 656 (con velocità max di 70 km/h tra Palermo Notarbartolo e Carini), ed altri

gruppi attualmente non presenti in Sicilia: E 632, 633, 652. Curiosamente le E 636 erano ammesse a

circolare fino a Trapani, evidentemente a traino di una locomotiva diesel visto che manca la linea aerea di

alimentazione.

B) locomotive diesel

D 343.1001 e 1035, D 345 e sporadicamente D 443 con treni merci (in un’occasione ha svolto servizio merci

di linea anche una D 145 di Messina)

D 445.1034 al traino di treni merci e di passeggeri straordinari.

C) automotrici elettriche

ALe 582 e rimorchi, ALe 501/502 Minuetto ed ALe 841 in servizio metropolitano tra Palermo Centrale e

Notarbartolo verso Giachery; assicurano inoltre i servizi di collegamento aeroportuale tra Palermo Centrale e

Punta Raisi.

D) automotrici diesel

ALn 501/502 Minuetto, ALn 668 serie 3000 e ALn 663 per servizi metropolitani (specialmente le corse tra

Palermo Notarbartolo e Giachery) e regionali.

Interventi di riqualificazione

Le condizioni della linea sono migliorate negli ultimi anni in seguito a lavori, finanziati anche dalla

Comunità Europea, di rifacimento dei binari e della massicciata. La lentezza dei convogli e l'anzianità di

alcune automotrici hanno finito per limitare l’uso della linea ad un traffico vicinale, preferendosi per le

lunghe distanze l’autopullman.

Considerata l’importanza della linea e l’impegno di risorse economiche occorrente, l’ipotesi di raddoppio del

binario appare alquanto esagerata; più plausibile invece appare l’elettrificazione, che consentirebbe l’uso di

mezzi confortevoli come i Minuetto elettrici, una ripresa del traffico merci e magari il ripristino delle

relazioni dirette da Trapani per Roma, Milano o Torino.

In alternativa, mantenendo l’attuale trazione termica potrebbero introdursi automotrici con assetto variabile

(adoperate con successo in Germania già da alcuni anni). Inoltre l’uso di più efficienti sistemi di controllo

del traffico nella tratta Palermo Notarbartolo - Carini consentirebbe di ridurre le attese per incroci, e una

riqualificazione dei fabbricati viaggiatori potrebbe rendere più piacevole l’attesa del treno.

Appare anche necessario ed urgente il completamento dei lavori per rendere più frequente il servizio

metropolitano di superficie sulla tratta Notarbartolo - Punta Raisi, visto il pendolarismo che esiste tra i centri

attraversati ed il capoluogo; il traffico e la qualità della vita ne trarrebbero senz’altro un grande giovamento.

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Da sviluppare, infine, l’uso della linea per raggiungere celeberrime mete turistiche, quali Erice, Mozia,

Selinunte o Segesta. Per quest’ultima la distanza tra la stazione e l’area archeologica rende necessario un

servizio automobilistico in coincidenza con i treni; a Selinunte l’iniziativa migliore appare il ripristino della

tratta a scartamento ridotto, che potrebbe essere di notevole richiamo per i turisti e gli appassionati di

archeologia (anche ferroviaria…). A Mozia la linea passa già abbastanza vicina all’imbarcadero, di

conseguenza è opportuno istituire una fermata apposita tra le attuali stazioni di Mozia - Birgi (all'uscita della

quale i turisti debbono ancora percorrere alcuni chilometri a piedi) e Spagnuola. Aumentando il comfort dei

veicoli e migliorando in genere le prestazioni della linea, lo sviluppo economico e turistico della Sicilia

occidentale ne potrebbe ricavare un grosso guadagno.

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4. PARCO ARCHEOLOGICO DI SEGESTA (notizie parte tratte da http://www.siciliasud.it/parcosegesta.html)

4.1 STORIA

Situata nella parte nord-occidentale della

Sicilia, Segesta fu una delle principali città

degli Elimi, un popolo di cultura e tradizione

peninsulare che, secondo lo storico greco

Tucidide, era originario di Troia. La città

sorge sul monte Bàrbaro, nel comune di

Calatafimi-Segesta, a una decina di chilometri

da Alcamo e da Castellammare del Golfo.

Fortemente ellenizzata per aspetto e cultura,

raggiunse un ruolo di primo piano tra i centri

siciliani e nel bacino del mediterraneo, fino al

punto di poter coinvolgere nella sua secolare ostilità con Selinunte anche Atene e Cartagine. Distrutta

Selinunte grazie all’intervento cartaginese nel 408 a.C., Segesta visse con alterne fortune il periodo

successivo, fino ad essere conquistata e distrutta da Agatocle di Siracusa (nel 307 a.C.), che le impose il

nome di Diceòpoli, Città della giustizia.

In seguito, ripreso il suo nome, passò nel corso della prima guerra punica ai Romani che, in virtú della

comune origine leggendaria troiana, la esentarono da tributi, la dotarono di un vasto territorio e le permisero

una nuova fase di prosperità.

Segesta venne totalmente ripianificata sul modello delle grandi città microasiatiche, assumendo un aspetto

fortemente scenografico. Segesta fu distrutta dai Vandali nel V secolo, e mai più ricostruita nelle dimensioni

del periodo precedente. Ciononostante, vi rimase un piccolo insediamento e, dopo la cacciata degli Arabi, i

Normanni vi costruirono un castello. Questo, ampliato in epoca sveva, fu il centro di un borgo medievale. Se

ne perse poi quasi il nome fino al 1574, quando lo storico domenicano Tommaso Fazello, artefice

dell'identificazione di diverse città antiche della Sicilia, ne

localizzò il sito.

Già famosa per i suoi due monumenti principali, il tempio di tipo

dorico e il teatro, Segesta vive ora una nuova stagione di

scoperte, dovute a scavi scientifici che mirano a restituire

un’immagine complessiva della città.

La pianta mostra l’area del Parco archeologico: la città occupava

la sommità del Monte Barbaro (due acropoli separate da una

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sella), naturalmente difeso da ripide pareti di roccia sui lati est e sud, mentre il versante meno protetto era

munito in età classica di una cinta muraria provvista di porte monumentali, sostituita in seguito (nel corso

della prima età imperiale) da una seconda linea di mura ad una quota superiore. Al di fuori delle cinte

murarie, lungo le antiche vie d’accesso alla città, si trovano due importanti luoghi sacri: il tempio di tipo

dorico (430-420 a.C.) e il santuario di Contrada Mango (VI-V sec. a.C.).

Fuori le mura è stata anche individuata una necropoli ellenistica. L’urbanistica di Segesta è ancora in corso

di indagine: sono segnalati alcuni probabili tracciati viari, l’area dell’agorà e alcune abitazioni. Sull’acropoli

Nord, dove si trova il teatro, sono visibili i resti più recenti di Segesta: il castello, la moschea e la chiesa

fondata nel 1442 su un terreno pluristratificato.

4.2 LEGENDA E PIANTINA DEL PARCO

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4.3 IL TEMPIO

Il teatro fu costruito o intorno alla metà del IV

o nel II sec.a.C. (vi sono due teorie al

proposito) in quel punto per le intrinseche

qualità panoramiche dell'area cacuminale del

monte Barbaro. Nel sito del teatro si trovava

una grotta con materiale dell'età del bronzo,

successivamente inglobata nella costruzione. E'

curioso notare che lo stesso fenomeno sia

avvenuto in occasione della costruzione del

teatro di Siracusa. E' ovvio che le maestranze e

gli ideatori del teatro di Segesta erano di

ambiente ellenico data la canonicità del progetto. Si tratta di uno dei più riusciti esempi di architettura

teatrale collocabile nel passaggio dal tipo greco a quello romano. La cavea era in parte scavata nella roccia,

in parte costruita con un poderoso muro di contenimento. E' logico supporre che, malgrado il teatro si

trovasse in una città non greca, esso doveva avere quelle funzioni e quel ruolo nella città quasi identico a

quello che un analogo monumento aveva nelle città greche. Fu sempre visibile nel paesaggio. Fu

parzialmente scavato agli inizi del secolo e recentemente restaurato. E' oggi parte della zona archeologica

visitabile di Segesta e viene periodicamente utilizzato per rappresentazioni teatrali.

Il tempio, di tipo dorico, sorgeva in una suggestiva posizione extra-urbana, su un poggio ben visibile anche

da lontano. La sua struttura lievemente diversa dai templi greci canonici, l'assenza di ogni struttura interna

(cella, adyton etc.) e il suo essere in una città non greca, hanno generato un dibattito acceso fra gli studiosi.

Il grande tempio fuori le mura della città era un periptero greco-siceliota di 6 x 14 colonne. Dopo

l’innalzamento del colonnato la costruzione rimase incompiuta, molto probabilmente a causa della presa

della città da parte dei cartaginesi, nel 409 a.C.

La discussa cella, di cui oggi non si conserva traccia visibile in superficie, era stata progettata e vanne

cominciata, come testimoniano alcuni tratti della fondazione individuati in recenti saggi di scavo. Nel

colonnato (peristasi), le bozze sulle gradinate (crepidoma) e sulle colonne, che di solito venivano esportate

soltanto nella fase di rifinitura, testimoniano lo stato di incompiutezza del tempio.

Le bozze, utilizzate per il sollevamento e la messa in opera dei conci, illustrano bene (insieme ad altri

accorgimenti) alcune importanti caratteristiche della tecnica costruttiva di età classica.

Nelle sue proporzioni generali, nella sintassi delle sue membra e nelle caratteristiche stilistiche (capitelli,

cornicioni, curvatura delle linee orizzontali) il tempio segue fedelmente i modelli dell’architettura classica

delle città greche in Sicilia, specie nella vicina Selinunte. Alcune forme particolari (palmette nei soffitti dei

cornicioni angolari, modanatura del timpano) e le proporzioni degli elementi architettonici indicano anche

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una buona conoscenza della contemporanea architettura attica.

Del culto e dell’altare presso il quale era praticato non si hanno notizie. Tuttavia, i modesti resti di un

semplice edificio sacro precedente, scoperti nello scavo al centro del tempio, fanno ipotizzare un luogo di

culto piuttosto antico

4.4 PORTA DI VALLE

Fine VI – inizi V sec. a.C. - La cinta inferiore

di mura segue la forte pendenza della valle fino

a chiudere, come una diga, il varco naturale.

Dall’alto, due torri (VI e IX) proteggono

l’apertura centrale, larga 6,60 m.

Seconda metà V sec. a.C. - Due grandi torri,

VII e VIII sono addossate (in due momenti

diversi), come indicano il materiale impiegato e

la diversa tecnica costruttiva) alle mura ai lati

della porta.

Fine V sec. a.C. – L’ampiezza della porta viene dimezzata (fino a 2,90 m) da un nuovo muro collegato alla

torre ovest.

Fine IV – inizi III sec. a.C. – Le difficoltà di difesa di una porta in questo luogo, anche a causa delle nuove

tecniche di guerra, portano alla chiusura totale del varco, sostituito dalla cosiddetta Porta Stazzo in posizione

più elevata. Le torri e i nuovi ambienti vengono quindi trasformati in un possente apparato per

l’alloggiamento di macchinari bellici, come dimostra anche la presenza di un magazzino dove sono state

rinvenute 120 palle per catapulta. A maggior difesa viene scavata una serie di fossati davanti al fronte

fortificato, raggiungibili sotterraneamente da una delle torri, che da un lato consentiva ai soldati sortite e

rientri rapidi, e dall’altro costituiva un pericolo per gli assedianti che osavano spingersi fin sotto le mura. Nel

riempimento della trincea sono state trovate palle per catapulta, chiodi di ferro (appartenenti forse ad una

impalcatura lignea interna alla trincea) e numerose punte di armi da lancio.

Seconda metà III sec. a.C. – La costruzione tra le torri VI e IX di un tratto di mura (cosiddetta "cinta di

mezzo"), che arretra il sistema difensivo si circa 100 m, determina un lungo periodo di abbandono della zona

e la creazione di un notevole interro della parte interna delle mura.

Seconda metà I sec. a.C. – I sec. d.C. – Dopo un uso limitato delle strutture della porta, al livello della

quota di interramento, il definitivo abbandono dell’utilizzo militare della zona è conseguente alla costruzione

della cinta superiore nella prima metà del I secolo d.C. L’area della Porta di Valle viene quindi riutilizzata da

un frantoio per la spremitura delle olive. Nella parte ovest è parzialmente conservato un impianto di

torchiatura organizzato su due livelli: resta un basamento circolare in pietra inserito in un pavimento di

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cocciopesto, collegato, tramite un canale di scolo, ad una vasca di raccolta dell’olio. Al livello inferiore era

probabilmente alloggiata l’asta verticale con la quale si azionava il torchio a vite; di questa non rimane che la

buca di asportazione.

4.5 LA MOSCHEA La moschea di Segesta, la prima ad essere

identificata con sicurezza in Sicilia, è lunga 20

m e larga 11 m. Era in origine divisa in due

navate, parallele al muro della qibla (che indica

la direzione della preghiera, verso la Mecca).

Proprio al centro di questo muro, per segnalarne

la peculiarità, si apre la nicchia del mihrab,

elemento presente in tutte le moschee antiche e

moderne.

E’ stata proprio la scoperta di questa nicchia a

permettere di attribuire al semplice edificio

rettangolare la funzione di moschea.

Date le dimensioni della costruzione, è plausibile che si tratti di una moschea congregazionale o "moschea

del venerdì", dal giorno fissato di riunione di tutti i maschi adulti della comunità per la preghiera solenne.

La moschea di Segesta si può datare con sicurezza al XII secolo (nel pieno della dominazione normanna) e

fu certamente costruita dalla comunità musulmana che si stabilì sulla cima del Monte Barbaro in quell’epoca.

A questa stessa comunità si possono anche attribuire alcune abitazioni ed il cimitero di rito musulmano

rinvenuto dietro la cavea del teatro.

La distruzione della moschea dovette avvenire agli inizi del XIII secolo in seguito all’arrivo di un signore

cristiano che costruì il vicino castello.

4.6 CHIESETTA DEL MONTE BARBARO

La piccola chiesa a navata unica, originariamente coperta da una volta a botte, venne fatta costruire nel 1442

da cittadini di Calatafimi, in una zona ormai disabitata del Monte

Barbaro: si trattava probabilmente di una cappella rurale, frequentata

da pastori, dedicata a San Leone. Non più officiata già alla fine del

XVI secolo, cadde in rovina all’inizio dell’Ottocento (Fase IV).

Scavi recenti hanno rivelato che la cappella fu costruita sulle rovine

di una chiesa precedente di dimensioni maggiori, la cui pianta

basilicale a tre navate terminate da absidi trova confronti con altre

chiese di epoca normanna e normanno-sveva, databile alla fine del XII secolo – inizi del XIII secolo. Questa

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chiesa apparteneva all’abitato medievale che è ormai attestato in tutta l’area dell’antica Segesta e che aveva

la sua roccaforte nel castello posto sulla sommità del Monte Barbaro (alle spalle del teatro e della chiesa).

All’esterno della chiesa si trovava un cimitero di semplici tombe scavate nel terreno, rivestite e coperte di

lastre di pietra (Fase III).

Il cimitero si sovrappone, almeno in parte, ad una serie di ambienti (probabilmente abitazioni) di una fase

precedente, databile al XII secolo e correlabile per tipologia e tecnica edilizia alle costruzioni di tipo

musulmano ritrovate sulla sommità del castello e a nord dell’agorà (Fase II).

A sua volta, l’impianto medievale è sovrapposto ai resti della città antica, che doveva costituire

un’inesauribile cava di materiale da costruzione. Si possono riconoscere alcuni ambienti di un edificio di età

ellenistica (fine II – inizi I secolo a.C.) di cui non è nota la destinazione né la pianta completa; l’edificio era

originariamente pavimentato con mosaici che sono stati riutilizzati anche come pavimento delle due chiese

posteriori. Alla fase più antica appartengono anche numerose cisterne per la raccolta dell’acqua piovana,

scavate nel banco roccioso della montagna (Fase I).

4.7 IL TEATRO

Il teatro, costruito sul versante nord

dell’acropoli di Segesta, si apre su un vasto

panorama dominato dal monte Inici; a destra lo

sguardo arriva fino al golfo di Castellammare.

Costruito con blocchi di calcare locale, presenta

forme tipiche dell’architettura greca, anche se

la cavea non poggia direttamente sulla roccia

ma è interamente costruita e delimitata da

poderosi muri di contenimento (analemma).

Dall’alto si entrava al teatro attraverso due

ingressi sfalsati rispetto agli assi principali

dell’edificio. La cavea, con i sedili per gli spettatori, ha un diametro di 63,60 m ed è divisa orizzontalmente

da un corridoio (diazoma); nella parte inferiore sono disposte ventuno file di posti, divise da sei scalette in

sette cunei (kerkides) di dimensioni variabili. La fila superiore aveva sedili forniti di schienale. Delle

gradinate della summa cavea rimangono solo poche tracce. Recenti ricerche hanno mostrato l’esistenza

anche di un settore di gradinata più in alto, tra i due ingressi, parzialmente riutilizzato nella necropoli

musulmana (prima metà del XII secolo). Nel complesso, il teatro poteva contenere 4000 spettatori.

L’orchestra (cioè lo spazio dove, nel dramma antico, agiva il coro), a semicerchio oltrepassato, ha un

diametro di 18,40 m. Vi si accedeva dalle parodoi (ingressi laterali) che, come in quasi tutti i teatri greci di

occidente, sono ortogonali all’asse dell’orchestra. Pochi filari di blocchi (per una lunghezza di 27,40 m e

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larghezza di 9,60 m) permettono di ricostruire la pianta della scena (logeion), un edificio di due piani negli

stili dorico e ionico e con due corpi laterali avanzati (come nel teatro di Dioniso ad Atene) ornati da satiri

scolpiti ad altorilievo. Una bella strada lastricata corre lungo il lato ovest del teatro, raggiungendo l’orchestra

e l’ingresso ad una grotta naturale, in cui si trova una sorgente sacra. Tale grotta fu frequentata in epoca

preistorica (antica etá del bronzo - cultura del Bicchiere Campaniforme) e fu inglobata nel muro di sostegno

della cavea. Il grande edificio, che anticipa soluzioni dell’architettura teatrale romana, si può datare, su base

stilistica e stratigrafica, alla metà del II secolo a.C., quando Segesta, entrata ormai stabilmente nell’orbita di

Roma, realizza un nuovo assetto monumentale della città.

4.8 IL CASTELLO MEDIEVALE Il castello o, per meglio dire, la dimora del

signore che agli inizi del XIII secolo si stabilì

sulla cima del Monte Barbaro era organizzato

intorno a un cortile centrale pavimentato in

mattoni. Della costruzione originaria rimane

solo il piano terra, ma era certamente dotata di

un piano superiore che costituiva la parte

propriamente residenziale della famiglia del

signore. L’altezza complessiva della

costruzione doveva aggirarsi intorno agli 8-10

m.

Al piano terra, il buono stato delle strutture e degli strati archeologici ha permesso di ipotizzare le possibili

funzioni dei diversi ambienti. Nell’estremità sud-orientale era situata la latrina, con adiacente un vano scale

di collegamento con il piano superiore. Nell’estremità nord-orientale si trovava una legnaia. Nell’ambiente

più settentrionale è stato trovato un deposito con numerose anfore vinarie. Le due stanze a sud, dotate di

pavimenti in cocciopesto ed intonacate, avevano probabilmente funzioni di rappresentanza. Sulla fronte

dovevano trovarsi le cucine ed un altro deposito.

La vita della dimora signorile si svolse tutta nel corso del ‘200: sorta agli inizi del secolo, venne ristrutturata

nel secondo quarto, poi abbandonata intorno alla metà del secolo. La sua rovina si protrasse per molto tempo

e fu comunque molto graduale, non escludendo anche le funzioni di rustico ricovero. Prima dell’inizio degli

scavi, nel 1989, era totalmente ricoperta di terra, sassi e vegetazione che ne nascondevano l’effettiva

consistenza.

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4.9 TERRAZZA SUPERIORE DELL'AGORA' In quest’area si sono avvicendate costruzioni

dall’età protostorica (resti di una capanna

indigena) a quella classica (probabilmente un

edificio pubblico della prima metà del V secolo

a.C.) ed ellenistica (il bouleuterion), fino

all’epoca medievale (un vasto complesso

abitativo). La principale costruzione di età

ellenistica (fine II – inizi I secolo a.C.) è senza

dubbio il bouleuterion (sede delle riunioni della

boulè, il consiglio della città): all’interno di un

edificio rettangolare, cui si accedeva attraverso

un colonnato, è ricostruibile una gradinata semicircolare con sette ordini di sedili divisi in quattro cunei da

tre scale. I due ordini superiori di sedili poggiavano su un criptoportico che collegava l’agorà (corrispondente

al piazzale moderno) con l’abitato posto ad ovest. Un’iscrizione monumentale più antica, che ricorda i nomi

del direttore dei lavori e dell’architetto dell’edificio, insieme con la presenza di materiali di IV e III secolo

a.C., lasciano ipotizzare una fase anteriore di fondazione del complesso. Seguono, più a sud, un edificio con

portico dorico e cortile lastricato e un secondo colonnato d’ordine corinzio-italico, messo in luce su un

terrazzamento inferiore, che segnava l’accesso all’agorà.

L’età romana imperiale è scarsamente attestata, mentre in epoca medievale c’è una ripresa intensa

dell’attività edilizia, con la costruzione (frutto di accorpamenti e di aggiunte progressive) di un vero e

proprio "palazzo" che ingloba più modeste abitazioni, circondato da un possente muro di cinta e composto da

due parti separate da una strada interna e da una corte. Alcuni ambienti avevano certamente un piano

superiore sorretto da volte; anche il muro di confine doveva essere imponente, con un ingresso a quota

elevata (sul lato est) forse munito di scala lignea o di ponte mobile. L’edificio è confrontabile

cronologicamente con il castello sopra il teatro. Abbandonato intorno alla metà del XIII secolo, al momento

delle guerre antisaracene di Federico II, il suo primo impianto forse risale alla fine del XII secolo – inizi XIII

secolo, con la costruzione del muro di cinta e dei vani ad esso connessi a sud. Il tipo edilizio richiama in

alcune parti edifici fortificati di tradizione araba in Sicilia (quali il palazzo di Entella), con forme che

oscillano tra mondo islamico e cristianità occidentale.

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4.10 SANTUARIO Sotto il monte Barbaro, in località contrada

Mango, recenti scavi hanno messo in luce le

rovine di un grande santuario rettangolare, cinto

da un muro monumentale, all' interno del quale

sono stati rinvenuti i resti di due templi dorici

assegnabili ai secoli VI e V a.c., insieme ad altri

edifici più modesti.

4.11 SISTEMA FORTIFICATO DI PORTA DI VALLE

Il vallone naturale che si trova sul fianco

occidentale del Monte Barbaro costituisce un

accesso naturale alla città. La sua difesa è stata

affidata, nel corso dei secoli, ad un complesso

fortificato che col tempo ha subito notevoli

cambiamenti. La cinta inferiore di mura, di età

classica (inizi V secolo a.C.) seguiva la forte

pendenza della valle fino a chiuderla come in

una diga. Una larga apertura al centro (6,6 m)

costituiva inizialmente il varco di accesso della

Porta di Valle, che venne successivamente

(seconda metà – fine del V secolo a.C.) rinforzata ai lati da due grandi torri (VII e VIII) e poi dimezzata da

un muro collegato alla torre ovest. In posizione più elevata il controllo della valle era affidato a una sorta di

bastione fortificato sul piccolo pianoro oggi occupato da un recinto per le pecore che riutilizza in parte le

strutture antiche. Intorno al pianoro tre torri della cinta muraria inferiore (IX, X e XI) controllavano da un

lato la zona della Porta di Valle e, dall’altro, la strada che conduceva alla cosiddetta Porta Stazzo,

probabilmente la porta principale d’accesso alla città (oggi vi transita il sentiero pedonale per il teatro).

Tra la fine del IV secolo e la seconda metà del III secolo a.C. la Porta di Valle fu oggetto di radicali

cambiamenti che determinarono, tra l’altro, la chiusura della porta e la realizzazione di alcuni vani sul fronte

esterno delle mura per ospitare catapulte e magazzini per i proiettili di pietra. La linea difensiva delle mura

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venne arretrata costruendo un muro tra le torri VI e IX (cosiddetta "cinta di mezzo") che tagliava fuori la

Porta di Valle determinandone lo stato di abbandono. L’utilizzo militare di questa zona cessò definitivamente

nel corso della prima età imperiale, quando si costruì la cinta muraria superiore, ridotta rispetto a quella

precedente, anche in funzione della contrazione della città. Trovandosi fuori le mura, la Porta di Valle venne

riutilizzata da un frantoio per la spremitura delle olive. Durante i lavori di restauro della Porta Stazzo è stata

messa in luce sulla sommità della torre IX una tomba a cassa costruita con lastre di calcare. All’interno, due

scheletri femminili, uno dei quali, precedente, accantonato ad una estremità della cassa. Il corredo della

sepoltura più recente (due brocchette di ceramica di produzione tunisina) fanno datare la tomba tra V e VI

secolo d.C.

4.12 AREA FORTICATA MEDIEVALE Sulla cima più alta del Monte Barbaro si sono

susseguite molte e diverse costruzioni. Quasi

nulla rimane, purtroppo, delle strutture di età

classica ed ellenistica, se non qualche lembo di

pavimento (in cocciopesto o in mattoni

quadrati). Probabilmente verso la fine

dell’epoca romana e l’inizio di quella bizantina

(V-VI secolo) furono costruite al centro

dell’area una torre e una cisterna.

Dopo un lungo periodo di abbandono, vi si

costruirono una serie di strutture, interpretabili come abitazioni, racchiuse da un recinto. Queste case, di una

tecnica edilizia relativamente povera (blocchi di calcare locale legati con semplice terra), erano coperte da

tetti di coppi. La loro costruzione si deve con ogni probabilità alla popolazione musulmana che si stabilì sul

Monte Barbaro nel corso del XII secolo. Case molto simili a queste sono state anche ritrovate nell’area della

chiesa alle spalle del teatro. Esse vennero in seguito abbandonate e occupate da sepolture cristiane.

Verso gli inizi del XIII secolo, con l’arrivo di un signore cristiano, si costruì al centro della sommità una gran

dimora dotata di un cortile centrale, mentre le precedenti abitazioni furono riadattate al fine di ricostituire un

recinto difensivo.

L’intera acropoli venne infine completamente abbandonata verso la metà del XIII secolo in seguito ad un

evento bellico, come testimoniano le numerose punte di freccia rinvenute, commiste a strati di incendio,

negli ambienti del circuito più esterno. La distruzione può collegarsi con i rivolgimenti che caratterizzarono

questa parte della Sicilia durante il regno di Federico II. Dalla seconda metà del XIII secolo la città non fu

più abitata, anche se vi sono prove di una frequentazione sporadica di pastori e cavatori di pietra.

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4.13 CINTA MURARIA SUPERIORE

Nella prima età imperiale la difesa della città

viene affidata ad una nuova cinta muraria,

costruita ad una quota più elevata rispetto a

quella fino ad allora in uso. La nuova muraglia

protegge i lati settentrionale ed occidentale, con

due sole aperture alle estremità (Porta Teatro e

Porta Bastione), nei punti di innesto con la cinta

precedente. Sul suo percorso si dispongono

nove torri di forma quadrata o leggermente

trapezoidale. Una di queste, la torre 8, era una

delle più grandi e più importanti del sistema difensivo ed è ancora oggi uno dei punti di maggiore interesse

delle mura superiori.

La torre è fondata in parte sul crollo di una struttura preesistente, probabilmente una casa tardo ellenistica,

databile tra il II e il I secolo a.C., ed è costruita con materiale proveniente da edifici precedenti distrutti. La

parete orientale è conservata fino all’altezza del primo piano, che corrispondeva anche al livello del

camminamento di ronda delle mura (circa 6 m sopra il piano della roccia). Nel restauro moderno si sono

rialzati i muri crollati (con materiale proveniente perlopiù dal crollo stesso) fino all’altezza della parete

orientale, lasciando un’apertura sul lato meridionale per far vedere le strutture preesistenti.

4.14 L'ABITATO RUPESTRE Scavi recenti hanno rivelato che le abitazioni

più antiche della città (almeno dalla fine del VI

secolo a.C.) erano realizzate lungo i pendii del

monte, praticando tagli regolari nel banco

roccioso e alzando alcuni tratti in muratura solo

dove la roccia tagliata non raggiungeva

l’altezza desiderata per l’ambiente. Tali case

hanno avuto una lunga vita, punteggiata da vari

rifacimenti, fino all’età medievale. Questa che

si presenta restaurata esemplifica bene il tipo di

casa rupestre: si tratta di due grandi ambienti

separati da un tramezzo (anch’esso tagliato nella roccia), in cui pareti e pavimento sono di pietra

accuratamente lavorata. Nel vano anteriore è ancora visibile un silo per la conservazione degli alimenti,

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mentre una cisterna in quello posteriore è coperta da una successiva trasformazione della casa; alcuni buchi

nel piano di roccia indicano la presenza di pali di sostegno per la copertura. Questa prima fase è databile, per

analogia con altre case scavate in diversi punti di Segesta, alla fine del VI secolo a.C. (Fase I).

Dopo una occupazione, scarsamente documentata, nel II secolo a.C., una radicale trasformazione si ebbe in

epoca augustea: nel vano posteriore venne ricavato un altro piccolo ambiente ed al muro di fondo vennero

addossati un forno e due altari per i culti domestici; le pareti vennero intonacate e la roccia pavimentata con

cocciopesto. L’aspetto della casa, a giudicare dalle cornici di stucco che si sono rinvenute e dalla cura

dell’allestimento interno, doveva essere signorile; non si esclude la presenza di un secondo piano (Fase II).

Un incendio causò l’abbandono della casa nel I secolo d.C. e la sua trasformazione in discarica di rifiuti. In

età sveva (fine XII-XIII secolo), infine, il passaggio tra le due stanze venne chiuso e l’ambiente anteriore

venne rioccupato da un nucleo di abitazioni monofamiliari, ciascuna dotata di un focolare (Fase III).