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1 «conoscere è inserire alcunché nel reale; è, quindi, deformare il reale». Approfondimento su C.E.GADDA (colui al quale i genitori non hanno sorriso, né un dio mai lo ha degnato della sua mensa, né una dea del suo letto.»): Gadda e la Letteratura come groviglio inestricabile della conoscenza e come voce della complessità del mondo. Nella mia vita di “umiliato e offeso” la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la “mia” verità, il “mio” modo di vedere, cioè: lo strumento della mia rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: io strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta. Sicché il mio narrare palesa, molte volte, il tono risentito di chi dice ratenendo l’ira» (da Intervista al microfono) Carlo Emilio Gadda (Milano 1893- Roma 1973) Uno scrittore certamente antipatico e difficile e soprattutto ostinato nella sua maniacale e nevrotica volontà classificatrice della realtà che non si squaderna ordinata e armonica ma si aggroviglia, si addipana in uno gnommero gordiano attorcigliato in altri mille grovigli a simboleggiare la rete di cause e concause che determinano lo snodarsi degli eventi imprevisti e imprevedibili entro cui si muove un’umanità eterogenea segnata comunque dall ’esperienza del dolore. In particolare lo scrittore per Gadda si deve preoccupare di scegliere un linguaggio adatto a rendere l’insensatezza e il non senso della “normalità”, un linguaggio che, in direzione espressionistica, mediante l’ironia, la parodia, il sarcasmo, la deformazione comico-grottesca stravolge il reale fino a coglierne le molteplici relazioni in un estremo tentativo gnoseologico. Il pastiche linguistico è la cifra gaddiana che più caratterizza il suo stile e la sua concezione di vita: una commistione stilistica di codici, di registri, di linguaggi settoriali, di gerghi, di echi letterari, di contaminazioni lessicali, atti ad ottenere una rappresentazione straniata e umoristica della realtà. L’accostamento di espressioni provenienti da codici linguistici diversi svolge una doppia funzione: una comica e una conoscitiva. Gadda in un' intervista concessa ad Andrea Barbato per l’Espresso del 1962 si definisce scrittore sperimentale, afferma che la sua scrittura non è ricercata; la sua ricerca linguistica tende a sondare tutte le possibilità espressive offerte dalla combinazione dei significati che si sono sedimentati nello sviluppo della lingua settaria e in quella d’uso. L’immagine- simbolo che riassume l’opera gaddiana è la villa di Longone in Brianza voluta pervicacemente dai genitori con enorme dispendio di soldi e a costo di grandi sacrifici: uno status symbol di benessere borghese tutto esteriore dietro al quale si celavano le ristrettezze economiche della famiglia specialmente dopo la morte del padre. Alla casa si affianca la figura della madre, Progetto di Letteratura italiana- “Voci del Novecentoanno scolastico 2007/08

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«conoscere è inserire alcunché nel reale; è, quindi, deformare il reale». Approfondimento su C.E.GADDA (colui al quale i genitori non hanno sorriso, né un dio mai lo ha degnato della sua mensa, né una dea del suo letto.»): Gadda e la Letteratura come groviglio inestricabile della conoscenza e come voce della complessità del mondo. Nella mia vita di “umiliato e offeso” la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la “mia” verità, il “mio” modo di vedere, cioè: lo strumento della mia rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: io strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta. Sicché il mio narrare palesa, molte volte, il tono risentito di chi dice ratenendo l’ira» (da Intervista al microfono)

Carlo Emilio Gadda (Milano 1893- Roma 1973) Uno scrittore certamente antipatico e difficile e soprattutto ostinato nella sua maniacale e nevrotica volontà classificatrice della realtà che non si squaderna ordinata e armonica ma si aggroviglia, si addipana in uno gnommero gordiano attorcigliato in altri mille grovigli a simboleggiare la rete di cause e concause che determinano lo snodarsi degli eventi imprevisti e imprevedibili entro cui si muove un’umanità eterogenea segnata comunque dall ’esperienza del dolore. In particolare lo scrittore per Gadda si deve preoccupare di scegliere un linguaggio adatto a rendere l’insensatezza e il non senso della “normalità”, un linguaggio che, in direzione espressionistica, mediante l’ironia, la parodia, il sarcasmo, la deformazione comico-grottesca stravolge il reale fino a coglierne le molteplici relazioni in un estremo tentativo gnoseologico. Il pastiche linguistico è la cifra gaddiana che più caratterizza il suo stile e la sua concezione di vita: una commistione stilistica di codici, di registri, di linguaggi settoriali, di gerghi, di echi letterari, di contaminazioni lessicali, atti ad ottenere una rappresentazione straniata e umoristica della realtà. L’accostamento di espressioni provenienti da codici linguistici diversi svolge una doppia funzione: una comica e una conoscitiva. Gadda in un' intervista concessa ad Andrea Barbato per l’Espresso del 1962 si definisce scrittore sperimentale, afferma che la sua scrittura non è ricercata; la sua ricerca linguistica tende a sondare tutte le possibilità espressive offerte dalla combinazione dei significati che si sono sedimentati nello sviluppo della lingua settaria e in quella d’uso. L’immagine- simbolo che riassume l’opera gaddiana è la villa di Longone in Brianza voluta pervicacemente dai genitori con enorme dispendio di soldi e a costo di grandi sacrifici: uno status symbol di benessere borghese tutto esteriore dietro al quale si celavano le ristrettezze economiche della famiglia specialmente dopo la morte del padre. Alla casa si affianca la figura della madre,

Progetto di Letteratura italiana- “Voci del Novecento” anno scolastico 2007/08

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austera e parsimoniosa amministratrice del ridotto patrimonio familiare, presenza ossessiva e condizionante per gli studi, per la vita e per la sua produzione letteraria. Dal suo rapporto conflittuale di amore-odio con la madre scaturisce uno dei romanzi più sconvolgenti del Novecento: La cognizione del dolore. La nevrosi che accompagna la vita dello scrittore ha le sue radici nell’ambivalente legame verso la madre: da una parte l’ammirazione per la solidità borghese, per lo spirito pratico e dall’altra un senso di fastidio, quasi di rabbia per l’attaccamento alle regole sociali viste come un vuoto cerimoniale. La madre muore nel 1936 e Gadda libera sulla pagina la sua storia proiettandola nel personaggio- chiave di don Gonzalo. Si allegano alcune pagine tratte dalle opere di Gadda da “La cognizione del dolore”, Parte prima I (1938-1941)

[…]

Al decimo giorno, il 28 d’agosto, verso le undici della mattina, di ritorno appena dal suo primo giro di visite in bicicletta, toltisi i ferma-calzoni e scossa un poco la polvere, il buon dottore stava proprio per non trovar motivo a rimandare ulteriormente una buona saponata, sviluppabile in vittorioso crescendo tra il mento e le orecchie, cui avrebbero fatto seguito, a opera finita, alcune ragionevoli striature color sangue disposte un po’ in tutti i sensi in tutta la regione virile delle gote; e anche sotto il mento: e queste però tali da far pensare alla battaglia del Metauro. Stava proprio per soccombere all’evidenza, davanti lo specchio del lavabo, allorché il José (il Giuseppe della Villa Pirobutirro) gli venne a dire che il figlio della Padrona, con suo comodo, lo avrebbe desiderato per una visita. «Che cos’ha?», gli chiese. Il peone alzò le spalle: «No me enteré», disse.

Il dottore, lieto di potersi esimere da quella rogna d’una barba, prese a lavarsi allegramente le mani.

Era tutto rasserenato. «Anda, anda» – rispose – «pero ligero, otra vez acabo yo de llegar antes…. E digli che vengo subito….». «Bene, io ci dico buongiorno….», fece il contadino: ed uscì. Non s’era neppur tolto il cappello, né le mani di tasca.

«Ci siamo!», pensò il buon medico: la chiamata lo aveva messo in un leggero orgasmo.

Il figlio della Signora lo attendeva! Probabilmente per un nulla, per una delle solite ubbìe: come poteva essere la fifa di morire…. Ma se stava da papa!…. (ridacchiò). Termometro e stetoscopio li aveva in tasca: tolse dalla bicicletta i ferma-calzoni, ma poi mutò idea, e pensò invece d’andar a piedi: ripose le due molle sul ferro del telaio, dove stanno a cavalcioni: prese invece un bastoncello, uscì.

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E pensava, andando, quale cattiva stampa circondasse quel figlio, così appartato, e così lontano da tutti, a Lukones, che lo si sarebbe detto un misantropo, o, peggio, un nemico del popolo; se non addirittura un vigilato della gendarmeria.

D’altronde egli era coniugato con prole, il buon medico; prole che l’Ufficio Leva del Prado aveva sistematicamente negletto, essendo femmine, cinque: una più signorina dell’altra. E il figlio della Signora, per quanto misantropo, poteva darsi che non fosse però misogino. Celibe era di certo, come Beethoven, e anche più se fosse stato possibile immaginarlo: ma di quella paura della moglie pareva ancora in tempo a potersi emendare, per poco che osasse: e sapesse padroneggiarsi. Ovvia! Un cucchiaino di coraggio, ¡por Dios!, pensò il dottore nel fare strada.

Un uomo…. come quello! d’una ottantina di chili perlomeno!…. Un uomo….

Sul conto di lui, anche a Pastrufazio, correvano le voci più straordinarie. A Lukones però lo conoscevano meglio, avendolo veduto qualche volta ad imbucare una lettera, o ad acquistar francobolli davanti lo sportello del correo, dove aveva suscitato la curiosità della signorina. Un nemico del popolo?…. Che egli non compatisse agli umili lo si intuiva dall’andatura, dal portamento….: non altezzoso, questo, ma sembrava escludere dallo sguardo, e forse dallo sguardo dell’anima, la miseria e il giallore della poveraglia.

José, il peone, sosteneva ch’egli avesse dentro, tutti e sette, nel ventre, i sette peccati capitali, chiusi dentro nel ventre, come sette serpenti: che lo rimordevano e divoravano dal di dentro, dalla mattina alla sera: e perfin di notte, nel sonno. Dormiva, la mattina, fino alle otto, e anche otto e mezza: e si faceva portare al letto il caffè, dalla Signora, che non finiva più di far scale per quel figlio, povera vecchia! e anche i giornali; per poi leggerli e beverlo fuori a poco a poco, sia il caffè che i giornali, allungato in letto come una vacca: (così diceva il peone): e teneva anche qualche libro desoravìa del cifone, per leggere di tanto in tanto anche quello, come non gli bastasse i giornali, ma in letto. Mentre i contadini, alle otto, son già dietro da tre ore a sudare, e bisogna rifilare il filo alla falce. Così diceva, e ripeteva poi, la gente. Il dottore, in ragione del suo pietoso ministero, aveva avuto occasione d’ascoltar un po’ tutti: e anche la Battistina, la cugina del Batta, domestica alla Villa Pirobutirro: giornaliera e avventizia per la stagione estiva e per le primissime ore del giorno, che hanno l’oro in bocca; e affetta da gozzo.

E poi non aveva mai voluto prender moglie, per esser più libero, questo era positivo, di fare tutto quello che gli frullasse in capo. Della quale indegnità, per altro, il buon dottore e buon padre non arrivava a sdegnarsi con quella virulenza che il caso richiedeva. «Lo stato attuale occlude un potenziale mutamento», argomentò, «e potenza ed atto son madre e figlio, nel nostro aristotelico mondo». E ne aveva una tal voglia, di non prender moglie, che si era affrettato a rifilare alla Peppa il vestito nero di sposo, per il fratello della Peppa, il Peppino: che il vestito glie lo avevano legato

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come un suo sacro ricordo, morendo, i suoi zii Giuseppe e Nepomuceno, di quei tempi là, che erano stati ambasciatori al Portogallo. Altri però mitigavano l’accusa: egli non s’era affrettato un corno: e anzi lo aveva serbato religiosamente nella naftalina, per quarant’anni: dai cinque ai quarantacinque: mandando anche a casa dei vaglia, quand’era più frusto a sérpere sopra alla pietra, e la sua maledetta pelle non valeva un centavo, dei vaglia perché provvedessero la naftalina al vestito di sposo, e soprattutto il pepe, il pepe! così necessario alla conservazione di qualunque tessuto. Il buon dottore, camminando, sentì di dover condividere questa seconda opinione.

Recentemente s’erano sparse altre voci, tutte assai tristi: o addirittura disgustose. Che fosse iracondo, oltreché uno scioperato, lo si sapeva da un pezzo. Adesso circolava la diceria che, iracondo, in accessi bestiali di rabbia usasse maltrattamenti alla vecchia madre: smentiti per altro dalla Peppa, la lavandaia, ch’era particolarmente dimestica della Signora, e ne riceveva le più dolci ed umane confidenze….: e quindi anche quella reiterata denegazione, della carità e dell’amor materno. Povera Signora!…. Arrivava inatteso. Partiva quando tutti lo credevano a leggere. Dicevano che fosse vorace, e avido di cibo e di vino; e crudele: questo già fin da ragazzo: con le lucertole, che bacchettava perfidamente, coi polli del Giuseppe (il primo Giuseppe, il predecessore dell’attuale), che inseguiva ferocemente con una sua pazza frusta, arrivando perfino, certe volte, tanto era lo spavento, a farli sollevar da terra e quasi volare, pensate! pensate! volare! come fossero falconi, i polli!”

da “La cognizione del dolore”, Parte prima III

«… Sono stato un bimbo anch’io…», disse il figlio. «… Allora forse valevo un pensiero buono… una carezza no; era troppo condiscendere… era troppo!», e l’ira gli tornava nel volto, ma si spense. Poi riprese: «… La mamma è spaventosamente invecchiata… è malata… forse sono stato io… Non so darmi pace… Ma ho avuto un sogno spaventoso…».

«Un sogno?… e che le fa un sogno?… È uno smarrimento dell’anima… il fantasma di un momento…».

«Non so, dottore: badi… forse è dimenticare, è risolversi! È rifiutare le scleròtiche figurazioni della dialettica, le cose vedute secondo forza…».

«Secondo forza?… che forza?…».

«La forza sistematrice del carattere… questa gloriosa lampada a petrolio che ci fuma di dentro,… e fa il filo, e ci fa neri di bugìe, di dentro,… di bugìe meritorie, grasse, bugiardosissime… e ha la buona opinione per sé, per sé sola… Ma sognare è fiume profondo, che precipita a una lontana sorgiva, ripùllula nel mattino di verità».

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Parve incredibile al dottor Higueróa che un uomo di corporatura normale, alta anzi, di condizione socialmente così «elevata», potesse lasciarsi ancorare a delle sciocchezze come quelle. Ma lo sgomento e la tristezza erano troppo evidenti nello sguardo; di persona che teme, che ha un qualcosa che l’occupa, un rimorso; terrore, odio? anche nel sole pieno: nel canto, nella pienezza dolce e distesa della terra.

«… Un sogno… strisciatomi verso il cuore… come insidia di serpe. Nero.

Era notte, forse tarda sera: ma una sera spaventosa, eterna, in cui non era più possibile ricostituire il tempo degli atti possibili, né cancellare la disperazione… né il rimorso; né chiedere perdono di nulla… di nulla! Gli anni erano finiti! In cui si poteva amare nostra madre… carezzarla… oh! aiutarla… Ogni finalità, ogni possibilità, si era impietrata nel buio… Tutte le anime erano lontane come frantumi di mondi; perse all’amore… nella notte… perdute… appesantite dal silenzio, conscie del nostro antico dileggio… esuli senza carità da noi nella disperata notte…

E io ero come ora, qui. Sul terrazzo. Qui, vede?… nella nostra casa deserta, vuotata dalle anime… e nella casa rimaneva qualche cosa di mio, di mio, di serbato… ma era vergogna indicibile alle anime… degli atti, delle ricevute… non ricordavo di che… Le more della legge avevano avuto chiusura… Il tempo era stato consumato! Tutto, nel buio, era impietrata memoria… nozione definita, incancellabile… Delle ricevute… che tutto, tutto era mio! mio!… finalmente… come il rimorso.

E il sogno, un attimo!, si riprese in una figura di tenebra… là!… là, dove sono andato or ora, ha visto? al cantone della casa… Ecco, vede? là… nera, muta, altissima: come rivenuta dal cimitero. Forse, col suo silenzio, arrivava alla gronda: sembrò velo funereo, che ne ricadesse… Forse era al di là d’ogni dimensione, d’ogni tempo…

Non suffusa d’alcuna significazione d’amore, di dolore

… Ma nel silenzio. Sotto il cielo di tenebra… Veturia, forse, la madre immobile di Coriolano, velata… Ma non era la madre di Coriolano! oh! il velo non mi ha tolto la mia oscura certezza: non l’ha dissimulata al mio dolore.

Conoscevo, sapevo chi era. Non poteva esser altro… altissima, immobile, velata, nera…

Nulla disse: come se una forza orribile e sopraumana le usasse impedimento ad ogni segno d’amore: era ferma oramai… Era un pensiero… nel catalogo buio dell'eternità… E questa forza nera, ineluttabile… più greve di coperchio di tomba… cadeva su di lei! come cade l’oltraggio che non ha ricostituzione nelle cose… Ed era sorta in me, da me!… E io rimanevo solo. Con gli atti… scritture di ombra… le ricevute… nella casa vuotata delle anime… Ogni mora aveva raggiunto il

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tempo, il tempo dissolto…».Le cicale franàrono nella continuità eguale del tempo, dissero la persistenza: andàvano ai confini dell’estate. Il dottor Higueróa sembrava cercar le betulle, bianche virgole nei querceti a tramontana di Lukones.”

da “L’Adalgisa” (1943)

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da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Cap. I (1957)

Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Con quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.» Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!… Già, Si me chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.

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C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, Cap. II, pagg. 46-48

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da “L’incendio di Via Keplero”in Accoppiamenti giudiziosi(1963)

Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la lor prole globale, fuor dal tanfo e dallo spavento repentino della casa, poi diversi maschi, poi alcune signore povere e al dir d’ognuno alquanto malandate in gamba, che apparvero ossute e bianche e spettinate, in sottane bianche di pizzo, anzi che nere e composte come al solito verso la chiesa, poi alcuni signori un po’ rattoppati pure loro, poi Anacarsi Rotunno, il poeta italo-americano, poi la domestica del garibaldino agonizzante del quinto piano, poi l’Achille con la bambina e il pappagallo, poi il Balossi in mutande con in braccio la Carpioni, anzi mi sbaglio, la Maldifassi, che pareva che il diavolo fosse dietro a spennarla, da tanto che la strillava anche lei. Poi, finalmente, fra persistenti urla, angosce, lacrime, bambini, gridi e strazianti richiami e atterraggi di fortuna e fagotti di roba buttati a salvazione giù dalle finestre, quando già si sentivano arrivare i pompieri a tutta carriera e due autocarri si vuotavano già d’un tre dozzine di guardie municipali in tenuta bianca, ed era in arrivo anche l’autolettiga della Croce Verde, allora, infine, dalle due finestre a destra del terzo, e poco dopo del quarto, il fuoco non poté a meno di liberare anche le sue proprie spaventose faville, tanto attese!, e lingue, a tratti subitanei, serpigne e rosse, celerissime nel manifestarsi e svanire, con tortiglioni neri di fumo, questo però pecioso e crasso come d’un arrosto infernale, e libidinoso solo di morularsi a globi e riglobi o intrefolarsi come un pitone nero su di se stesso, uscito dal profondo e dal sottoterra tra sinistri barbagli; e farfalloni ardenti, così parvero, forse carta o più probabilmente stoffa o pegamoide bruciata, che andarono a svolazzare per tutto il cielo insudiciato da quel fumo, nel nuovo terrore delle scarmigliate, alcune a piè nudi nella polvere della strada incompiuta, altre in ciabatte senza badare alla piscia e alle polpette di cavallo, fra gli stridi e i pianti dei loro mille nati. Sentivano già la testa, e i capegli, vanamente ondulati, avvampare in un’orrida, vivente face.

Urlarono le sirene dalle ciminiere o dagli stabilimenti vicini verso il cielo torrefatto: e la trama criptosimbolica delle cose elettriche perfezionò gli appelli disperati dell’angoscia. Dalle stazioni lontane, spalancatesi, le batterie delle autopompe fuoruscirono in corsa, impulsi pronti e celeri a sovvenire a ogni sùbito male delle fiamme, nel mentre l’ultimo pompiere del quinto drappello, spiccato un salto, gli riuscì d’abbrancare con la sinistra l’ultimo ferro del reggiscala dell’autoscala di coda già in voltata fuori dal portone, e viceversa con la destra si finiva ancora d’abbottonare la bottoniera della giacca di servizio[…]

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da “San Giorgio in casa Brocchi” in Accoppiamenti giudiziosi

[…]E per la contessa – così angustiata da tanti aspetti del Male, che negli Incontri nuovi e nelle nuove Occasioni pareva assoldare nuovi divoti famigli a ogni ora, a ogni angolo – per la contessa quel libro veniva tanto più a proposito dopo i discorsi un po’ perifrastici, un po’ strani, un po’ scuciti che, con il nuovo allungarsi de’ giorni, il dottor Martuada e dopo di lui un altro avevano finito per farle, interpellati su qualche passeggero mal di testa di Gigi e su alcuni quattro in meno che s’erano inframmessi fra l’algebra e il giovin signore: «Che per il suo… ragazzo… per il suo… giovanotto… per il suo Luigi… Gigi?… ah! Gigi! bravissimo… ci sarebbe voluta oramai… (quel femminile atterrì la contessa)… qualche… lettura… adatta, ma non troppo; qualche libro che chiarisse… ma non troppo… certi… certe… certi aspetti, certi concetti, insomma! (la contessa cadeva da tutte le nuvole della soavità). Sono dei concetti… assai utili per la gioventù… specialmente coi tempi che corrono… Sebbene non tutti i concetti… possano far veramente bene ai giovani… Bisogna distinguere… Maxima debetur puero reverentia…»

«Ma nella nostra famiglia…» protestò la contessa quasi indignata: senonché la opportunità e la rarità, insieme, della citazione l’avevan distratta: riacquistò la certezza che stava parlando con degli uomini di scienza. Attenuò il tono della protesta: «Nella nostra famiglia, non credo…»

«Capisco… capisco… naturalmente!» retrogradò impensierito il dottore di famiglia.

La contessa si consigliò allora con il suo confessore, poi con Don Saverio, poi con i padri del Collegio San Carlo; con il professor Frugoni si tenne alquanto sulle generali. Per tal modo, nel formulare suggerimenti d’ogni qualità circa le «letture» di Gigi, i suoi consiglieri erano oggimai impegnatissimi: che mestiere difficile quello del consigliere! Dire e non dire! Tastare senza toccare! Insinuare senza ferire! […]

[…]«Venga avanti!» disse Gigi, col tono di un vero nipote di quel conte.

«… perché il dottore non ha trovato niente di grave…» e raccolse un suo ricciolo, fissando sommessamente il nipotino del padrone.

L’odore della ragazza, combinato, teoricamente, con sola acqua di Colonia e un poco di cipria, aveva vinto di colpo quello così augusto de’ vecchi tappeti e della cera de’ pavimenti: e s’era diffuso come un atroce sberleffo sotto il naso de’ quattro antenati gialli, venerabili nella penombra dell’andito: dove, appesi ai muri, due da sinistra e due da destra, li rodeva, ciascheduno, il suo tarlo.

Ella vestiva un bell’abitino domenicale, chiaro come i sogni della primavera: ma la dolce veste era adagiata sopra due seni così franchi nello spazio, che sembravano un cipperimerli vivente a tutte le Etiche dell’Uman Genere: a tutti i doveri, a tutti i regolamenti, alle ammonizioni, ai castighi: al

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Cellulare stesso, dove Gian Carlo, spasimando dai ricordi, si rodeva le unghie. Ma la Jole non era la sorella di cinque fratelli: e, quando la porta fu richiusa, si spiegò meglio: «… Il signor conte è a letto, ma è un’indisposizione leggiera…» (non volle dire dei broccoli, né dell’olio di ricino) «… desidera riposare; come gli ha detto anche il medico, appena l’ha visitato; c’è però in casa la Caterina, per quanto, anche lei, non si senta molto bene… con tutte queste correnti e questi… cambiamenti… di caldo e di freddo…

«M’ha incaricato di portar qui questi libri e questo biglietto per la signora contessa… perché oggi Domenico è andato a casa sua…»

La parlantina s’era disciolta (il dovere di adempiere agli incarichi) sgattaiolando fra i paracarri del cerimoniale.

«Ah!» fece Gigi, come dicesse: «Ora capisco»; e prese, con gesto lento, i libri e il biglietto. Atroci speranze gli scompigliarono l’elenco atroce dei doveri.

«Saranno i libri dello zio…»: e volle aprire il pacco.

«Credo di sì, signorino… M’ha detto anche di farle tanti, tanti auguri…» disse la ragazza, sorridente, «… sebbene… io… avevo soggezione!…» e arrossì davvero. Quello che Gigi non si spiegava, deposti i due libri, era come la ragazza non avesse vergogna, a rimaner lì sola con lui: ma ella, certo, non poteva immaginare che tutti gli altri fossero via.

«Allora, signorino, se non ha altro…»

Vi fu una pausa; come un risucchio dell’evento, durante il quale la spuma labile della speranza sembrò dissolversi dentro l’oscurità, e l’impeto de’ flutti risospinto verso l’oceano, ululante risacca.

Gigi aprì un cassettino, come cercasse qualcosa, una matita, nell’orgasmo d’un urgente obbligo; disse: «Aspetti un momento!»: andò di là, piantando lì la Jole stupefatta, tornò con un tagliacarte, le ripeté «aspetti un momento!», riprese uno de’ libri, «si sieda!… volevo vedere una cosa, qui nel libro…» Ma la Jole non sedette. Sorrideva, intuendo, ammirava, presa da meravigliosa trepidazione.

Gigi non poté vedere quel sorriso, tagliava la pagina in una sorta d’automatismo, mentre la sciocca enfasi della dedica gli era passata traverso la testa come il volo d’un pipistrello traverso l’ombra.

Una sola idea gli sembrò valida, nel filosofante mondo: trattenere la Jole! «… Educare,» tralesse, «significa elevare le giovani menti nell’esercizio della virtù, pur concedendo al corpo le ore necessarie per il riposo e per i ginnici esercizi…» Ardeva in ogni vena, tremava quasi. Vide quanto vani gli riuscivano, contro il rotolare del mondo, tutti i turaccioli de’ doveri. Oh!… Se la Jole se ne andava… «… Tant’è vero che anche nell’antica Roma, nella grande e virtuosissima Roma…»[…]

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«… Ma lei…» conchiuse con un tono tragico, «non si cura di me, non può curarsi di me!… È giusto…»

«… Perché?…» disse Gigi arrossendo anche più: «Sono un uomo anch’io…» E la verità, finalmente!, parlò con le parole della verità.

«Lei… Lei… e un ragazzo, signorino!» disse, lievemente beffarda, la bella, «… ma un ragazzo magnifico… Non ci crede?…»

«Non so… non me ne sono mai accorto… ma lei, certo, e molto più graziosa di me…»

La straordinaria novità novecentesca di queste parole non impedì ai due giovani di accostarsi, guardandosi, fino al contatto. I seni della Jole opposero come una violenta promessa al torace quadro di Gigi. Allora ogni materno veto fu vano. Il braccio di lui, passatole disperatamente dietro le reni, arcuò la potente figura: le olezzanti braccia della dolce donna si levarono, le mani si congiunsero dietro il collo del signorino.

Non esiste, purtroppo, nella trattatistica dei doveri, una nomenclatura sufficientemente analitica per il catalogo di siffatte irregolarità: ma i nuovi dispiaceri, che la Jole doveva finir per dare ai Brocchi, non si limitarono a così poco. Il dispiacere definitivo viene ora.

Ardenti baci si impressero sulla bocca del giovane e le dita della ragazza, come due pettini demoniaci, gli si insinuarono nel folto de’ capelli, fugandone ogni più casto pensiero, stringendo, stringendo quel capo. I seni di lei si offrivano alla stretta virile come cose meravigliosamente reali, nel mondo di buoni consigli.

«… Signorino, no, no…» diceva, «… qui no, non possiamo…»

Gigi, tenendola con il braccio sinistro, chiuse ruvidamente la porta a chiave. Tenendola sempre, la trascinò, come una dolce preda, dove l’amore potesse essere più pieno e vero.”

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Caravaggio, Vocazione di san Matteo (1599-1600) Chiesa di San Luigi dei Francesi

Caravaggio è oggetto di una costante venerazione: «La contemplazione delle tele dei miei autori preferiti (p.e. Caravaggio) desta in me una vera ebbrezza mista a gratitudine» si legge in una nota di Meditazione, (e cfr. anche Eros,: «“In genere subisco il fascino della signorilità, della vecchia macerazione culturale della Spagna, della pittura del Caravaggio”»). Si rammenti inoltre che nel racconto Dejanira Classis il tenente Dalti, dopo l’aggressione da parte dei socialisti, rifulge agli occhi di Dejanira come quando, a San Luigi de’ Francesi, «il melenso scaccino, per lire una, apre la chiavetta della luce e fasci di verità e di bellezza [...] pervadono le tele del Caravaggio»; che nel Club delle ombre la malinconica «signorina di storia dell’arte» che ha perduto il fratello mostra ai giovani allievi, quasi porgesse loro uno specchio, «i piumati bravi la cui adolescenza risfolgora e le sottili spade posano, alla tavola del giuoco, nella secreta tela del Caravaggio» che, infine, la cappella Contarelli di San Luigi de’ Francesi – dove «le tre tele del Caravaggio sembrano vivere in un tempo sospeso, in un attimo eterno» (Il pasticciaccio) – è meta abituale, nel Pasticciaccio, delle passeggiate solitarie e malinconiche del commendator Angeloni (in Palazzo degli ori, il testo di partenza del futuro romanzo, Angeloni «sosta estasiato davanti ai due stupendi e celeberrimi dipinti del Caravaggio, specie davanti alla Vocazione»).

Altri confronti con artisti si possono fare per esempio con Giorgio De Chirico e suo fratello Alberto Savinio, entrambi in qualche misura collegabili allo scrivere gaddiano; il primo fu molto ammirato da Gadda negli anni di permanenza a Firenze e di frequentazione del Caffè Le Giubbe Rosse, il secondo per livello stilistico, in quello stesso gusto per la contaminazione e la mescolanza , per l’amore per la metamorfosi baroccheggiante, per l’accumulo degli oggetti. Infine Colacicchi, tra i fondatori di Solaria, fu amico di Gadda e rappresenta a livello stilistico una vicinanza particolare. Se si osserva l’opera Piazza Santa Trinita del ’24 del pittore Colacicchi si rileva l’effetto fisheye (lett. occhio di pesce), un effetto prospettico per cui si coglie in modo ampliato e completo un panorama di cui però ne ricaviamo anche l’immagine deformata in qualche misura, come una

Collegamenti tra Gadda e l’arte figurativa

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fotografia realizzata con il grandangolo; in Colacicchi è la percezione sintetizzata e cristallizzata che predomina, mentre in Gadda è il caos sottostante che ribollente nella percezione al microscopio.

Alberto Savinio, Oggetti nella foresta, 1927-1928

Collezione privata Giorgio De Chirico "Le Muse inquietanti", 1917

Colacicchi, Piazza Santa Trinita, 1924

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Carlo Emilio Gadda e la Letteratura come groviglio inestricabile della conoscenza e come voce della complessità del mondo.

“Nella mia vita di “umiliato e offeso” la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la “mia” verità, il “mio” modo di vedere, cioè: lo strumento della mia rivendicazione contro gli oltraggi dei destino e de’ suoi umani proietti: io strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta. Sicché il mio narrare palesa, molte volte, il tono risentito di chi dice ratenendo l’ira» (da Intervista al microfono)

Carlo Emilio Gadda (Milano 1893- Roma 1973)

«La lingua, specchio del totale essere, e del totale pensiero, viene da una cospirazione di forze, intellettive o spontanee, razionali o istintive, che promanano da tutta la universa vita della società, e dai generali e talora urgenti e angosciosi moti e interessi della società» (Lingua letteraria e lingua dell’uso, I viaggi e la morte).

Connais-tu les livres de Gadda, et son dernier: Quer

pasticciaccio brutto de via Merulana? Je t’en parlais

dans ma dernière lettre. La fureur de Sade est

inégalable; mais la fureur de Gadda est digne qu’on

la dise une véritable fureur. Le récit: c’est Flaubert

l’auteur auquel il fait plutôt penser: tout Flaubert, y

compris, bien entendu, Bouvard et Pécuchet. Le

langage: Gadda sans doute est plus près de Rabelais

que de Joyce, tout en suivant naturellement la

tradition italienne […]. C’est depuis le Manzoni,

notre meilleur romancier.

Giuseppe Ungaretti a Jean Paulhan,

lettera del 16 Marzo 1958

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E poi, cose, oggetti, eventi, non mi valgono per sé, chiusi nell’involucro di una loro pelle individua, sfericamente contornati nei loro apparenti confini (Spinoza direbbe modi): mi valgono in una aspettazione, in un’attesa di ciò che seguirà, o in un richiamo di quanto li ha preceduti e determinati. (dal saggio Un’opinione sul neorealismo)

Una biografia come avvertimento poetico

Infanzia

Infanzia milanese in una famiglia cogente con un padre preso dagli affari, dai problemi finanziari e con una madre invasiva, autoritaria. Per la mania paterna dell’ascesa sociale e del prestigio il padre fa costruire una villa in Brianza, dove Gadda non andrà mai a vivere, indebitandosi e costringendo la famiglia a grandi sacrifici. La villa di Longone richiederà continui lavori di ristrutturazione e manutenzione con forte dispendio economico che porterà i genitori di Gadda a ridurre le spese familiari e a notevoli ristrettezze economiche. La famiglia cercherà di nascondere lo stato di necessità e difficoltà per salvaguardare una facciata di prestigio di classe. Gadda parla di infelicità nella sua infanzia come di un fatto traumatico. La difformità tra apparenza e sostanza segnerà il giovane Gadda: da questo trauma deriva la prima cognizione del dolore.

Prima guerra mondiale

Gadda si arruola volontario, entusiasta, con l’idea di ristabilire l’ordine nel caos della sua patria, con la volontà di mettersi alla prova, per diventare l’uomo volitivo e determinato che sognava di essere. Anche il fratello Enrico, tanto amato e diverso da lui caratterialmente si arruola per la prima guerra mondiale. Gadda timido, impacciato, l’altro estroverso, elegante e spendaccione, Gadda si sentiva il figlio non sufficientemente amato, mentre l’altro era coccolato dalla madre.

1917: l’anno della disfatta di Caporetto e per il Nostro della prigionia in un campo di prigionia in Germania a Rastatt e poi a Celle ove conosce altri scrittori, Tecchi e Betti. - Alla fine della guerra ritorna a casa e viene a sapere dalla madre della morte del fratello, prediletto e amatissimo dalla madre. Scaturisce in Gadda un senso di colpa nella dolorosa perdita del fratello nei confronti della madre unitamente ad un inevitabile rancore nei confronti della stessa. E’ una fase tragica della vita di Gadda che consolida in lui una visione di disarmonia, di ingiustizia, di impossibilità di felicità; è un secondo momento di rivelazione del dolore che porta alla scrittura del libro- diario, Giornale di guerra e prigionia, con cui afferma la sua profonda disillusione rispetto alle sue aspettative di gloria: la macchina della guerra ha ingranaggi che non funzionano, è sgangherata, l’inefficienza dei vertici militari, la disorganizzazione è spaventosa: è la caduta degli dei, non c’è dunque alcuno spazio per gli eroi. In queste pagine è in nuce già la sua ossessione dell’ordine e la demonizzazione del disordine: il pasticcio lo indigna, lo infuria e però lo attira, diventa il fulcro ispirativi della sua intera opera.

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Ingegneria e Meditazione milanese

Riprende gli studi di Ingegneria elettrotecnica, indirizzato dalla madre per stare al passo con i cugini. Il conflitto con la madre si acutizza per vari motivi familiari. Appena laureato se ne va a lavorare lontano, va in Sardegna e poi negli anni ‘22-‘24 va in Argentina. Si costruisce una vita di sradicato, abita in camere ammobiliate di pensioni. Tornato in Italia, negli anni Venti, nel Partiti Nazionale Fascista nascente vede uno strumento d’ordine da cui subirà poi un’altra cocente delusione. Comincia a scrivere un Cahiers d’etudes, una sorta di diario, di Zibaldone, che comprende anche una traccia di romanzo mai concluso, il Racconto italiano d’ignoto del novecento, in cui il protagonista è un giovane fascista, che secondo le intenzioni dello scrittore doveva rappresentare un’immagine positiva, eroica, vitalistica, ma nel romanzo compare anche un altro personaggio, la figura di un ingegnere povero che è un debole, un fallito. Entrambi sono rappresentazioni e proiezioni dello steso Gadda in Grifonetto, il giovane fascista, proietta il suo vitalismo la sua ansia di affermazione, la sua potente autostima, nell’altro, Gerolamo Leherer, si riflette il suo senso di impotenza, il suo sentirsi vittima. E’ la manifestazione della polarità che sta alla base della visione del mondo gaddiana, la realtà è una combinazione di contrari. Insegna Matematica al Liceo Parini di Milano nel ‘24-‘25, per poco non si laurea in Filosofia ma abbandona nel ’29 la stesura della sua tesi su Leibniz; dal ’26 collabora con la rivista fiorentina “Solaria” di cui Tecchi, il vecchio amico di prigionia, era stato uno dei fondatori e vengono pubblicate alcune prose e nel ’24 scrive l’Apologia manzoniana: che cosa può ammirare in Manzoni? Anzitutto lo spunto di partenza che conduce al Manzoni prosatore non è affatto letterario, e, ciò che è ancora più significativo, la letteratura non viene confinata entro la riserva protetta del discorso di finzione, ma è al contrario «analisi» a cui vengono affidati fondamentali compiti «euristici», «pratici» ed «etici»: qualcosa di molto simile a un prontuario medico in cui cercare istruzioni per riuscire a tenersi in piedi, per qualche tempo almeno, sulla superficie scivolosa, in perenne trasformazione, del reale-garbuglio. La letteratura come analisi sociale e culturale, fondata su valori etici, su uno stile antiretorico, anticlassicista, si pone nel solco della tradizione di autori lombardi come gli illuministi del Caffè, il Parini, Porta e lo stesso Manzoni. Il nodo morale lo porta poi nello stesso saggio a dilungarsi sull’opera di Caravaggio, in particolare La vocazione di San Matteo. I compagni di San Matteo sono legati al mondo degli impulsi, alla loro individualità, dall’altra c’è l’invito perentorio di Cristo rivolto a San Matteo a seguirlo, Matteo deve seguire un dovere. Ma per Gadda tra il sapere teoricamente il fine da raggiungere e il compito quale sarà nel concreto adempimento esistono infinite varianti rappresentate dalle azioni che gli uomini fanno in una realtà che è groviglio di relazioni. Dietro il mondo del dover essere c’è il mondo variopinto dell’essere, la realtà è in un continuo stato di modificazione. Nel ’28 riporta queste idee nello scritto di carattere filosofico Meditazione milanese.

(da Apologia manzoniana) “Ma una tragica sinfonia inizia il poema: una mucca magra trottola per un sentiero ai primi freddi d’una sera d’ottobre. Un ordinato per paura non adempie a quello a cui è ordinato. Un governatore, anzi dieci governatori fanno stampare dei divieti che dovrebbero essere legge e non sono. Solo 25 lettori hanno compreso l’atroce sarcasmo di ciò. Gli altri hanno interpretato come una diligenza di storico. I primi motivi s’intrecciano e si fondono: già si delinea la tragedia spaventosa di una società senza norma e senza volere, che il caso allora travolge. Passano poi su questa le masnade a cui han dato passo i valichi rètici. I villani discorrono tra di loro abbastanza sensatamente e con un fondo che par giusto e ragionevole. Il frumentone vien sù. Lavorano e lavorano e gli pare che al lavoro debba seguire un pane sicuro, una vita tranquilla.

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Ma ci sono cavalli e fanti e altre razze nel mondo: istinti profondi di difesa e di lotta, deliberate offese, ed altro volere ed altre forze, ed altri sogni ed altre follie che non quelli abbastanza onesti e un po’ chiusi della casuccia e del campicello. Anche l’antico piagnucolava sul suo campicello vitelli e calpestate carote: poi dovette scrivere gli «alti versi», di altissima e profondissima sonorità, e rigare diritto.

E così, mentre ai venturosi sognatori della potenza l’ordigno per essi inconducibile degli atti prende la mano e solo un gran sogno fu loro possibile, ai raccolti ricercatori della giusta laboriosa tranquillità e della onesta polenta piovono sulla groppa dure legnate. Spagna! Lombardia!

Tra le due espressioni conduttrici vi è chi preferisce la seconda, chi piuttosto la prima. Don Chisciotte, Renzo.

Collalto Wallenstein conduce i suoi grandi cavalli e Lutero vive come un idolo di santo cattolico nell’anima dei riformati.

Così che nella casa del prete abbeverano i loro stalloni e disegnano porcherie e grotteschi sui muri. Le mucche devono fare dell’alpinismo, e insieme con esse possono anche andare le donne con il loro rosario, visto che la gita non costa nulla e dacché le soldatesche di passaggio rappresentano un certo pericolo anche per loro.

Don Ferrante seguita a raccogliere ordinatamente la sua biblioteca e a ragionare meglio degli altri. È una persona colta. Guida l’opinione. Se vivesse oggi molte redazioni di quotidiani se lo contenderebbero. C’è nello scaffale un posto per il «Principe» e un altro per il «Saggiatore» ma non sono proprio i suoi santi. Piante più grosse, nella bizzarra foresta, hanno avviluppato e soffocato.”

Gadda e il pastiche narrativo

Gadda davanti al romanzo ha un’ambivalenza narrativa non risolta: romanzo ottocentesco con forme chiuse e punto di vista oggettivo; romanzo di tradizione sterniana, io narrante soggettivo, ironico, metanarrativo.

A Roma nel ’31 pubblica La Madonna dei Filosofi nell’Edizioni di Solaria. In particolare sono interessanti per lo sviluppo della prosa gaddiana due racconti, Teatro e Cinema, il primo parodia di uno spettacolo d’opera lirica di serie B, emblema di un’arte fasulla, mal congegnata, il secondo, comico e abnorme nella descrizione della folla in attesa all’entrata del locale, una massa variegata e pullulante, vero scenario del caos del mondo.

L’Autore attraversò un periodo di difficoltà economiche per dei titoli azionari che nel ‘32 ebbero un tracollo.

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Nel ’35 riceve il premio letterario Bagutta per i racconti della raccolta Il castello di Udine, pubblicato per le Edizioni di Solaria. Nella prosa iniziale di questa raccolta fa una dichiarazione di poetica definendo l’artista come un poeta dell’alto e del basso, sempre caratterizzato da uno spirito ironico.Il critico Contini scrive un saggio su di lui, intitolato Carlo Emilio Gadda o del pastiche, collocando lo scrittore su una linea letteraria che parte da Rabelais e arriva a Joyce. Con il mescolare registri stilistici e linguaggi Gadda si propone di realizzare una prosa che sia una resa della vita nella sua accezione integra, totale, radicale.

Fra il ’31 e il ’34 lavora presso i servizi tecnici del Vaticano e scrive i due racconti più famosi: L’incendio di Via Keplero e San Giorgio in casa Brocchi. In quest’ultimo si narra l’iniziazione sessuale del quasi diciannovenne Luigi Brocchi ad opera della cameriera Jole. Personaggi in contrasto risultano la madre, contessa Giuseppina, guardiana timorosa dell’educazione del figlio e lo zio Agamennone, autore di un trattato pedagogico, il professor Frugoni, adoratore di Cicerone. Lo stile è caratterizzato dall’uso del discorso indiretto libero, in forma comico-caricaturale, con divagazioni ironiche che risultano la voce del narratore. Bersaglio è la saggezza moraleggiante dei milanesi di buona famiglia, parole sentenziose e frasi fatte che riflettono in realtà una falsa coscienza. Tre sono i livelli linguistici: l’indiretto libero, il dialogo e il commento del narratore.

Da un’idea di un romanzo Un fulmine sul 210 scaturisce il racconto L’Adalgisa. La protagonista, una ex cantante d’opera durante una passeggiata con la cognata nel parco di Milano si sfoga contro la famiglia del defunto marito, manifestando la sua tenacia e il suo spirito pratico nel tirar su i figli pur essendo rimasta vedova. In questo personaggio che alterna il dialetto milanese ad un italiano standard con inserimenti di termini scientifici non sempre esatti Gadda ha voluto sottolineare in senso positivo la vitalità e la naturalezza della donna di contro a un ambiente ipocrita e fossilizzato.

L’incendio di via Keplero è scritto a metà degli anni Trenta e pubblicato nel 1940. E’ un racconto breve, con cui si descrive un incendio vicino alla Stazione Centrale di Milano, in un caseggiato popolare: in tre minuti succede di tutto dentro la ululante topaia. Periodi lunghi da togliere il fiato, subordinate e coordinate che non si chiudono nella concatenazione, un evento è la risultante di cause e concause. Lo stile messo a punto farà da trampolino di lancio dei due romanzi più famosi La cognizione e Quer pasticciaccio. Il caos percepito sinteticamente e analiticamente frantumato.

Nel ’39 le critiche al Fascismo da parte del Nostro si fanno evidenti.

Nel ’37 dopo la morte della madre scrive La cognizione del dolore. (Terzo momento che coincide contestualmente con la critica rivolta al Fascismo). Un precedente del romanzo è la Novella seconda, meglio dire un abbozzo in quanto mai completato del ’28, in cui si narra l’uccisione di Dejanira Classis da parte del figlio doro; nella Cognizione Gonzalo è matricida per istinto, per desiderio anche se materialmente innocente. Nella Cognizione del dolore le coordinate spazio-

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temporali vengono messe in scena con una magistrale sapienza artistica, in cui ad aspetti consueti del genere romanzesco si combinano pratiche di scrittura straordinariamente originali. Da un lato il romanzo procede secondo strutture cronografiche e topografiche abbastanza convenzionali; nella prima metà, si parte da coordinate macroscopiche (la storia recente e l’orografia del Maradagàl ovvero l’Italia e Parapagàl, l’ Austria) per poi convergere a cerchi concentrici, con digressioni e anticipazioni, verso l’oggetto preciso della narrazione: la provincia di Lukones, il perimetro della villa, la casa stessa, la stanza da letto, e al centro di tutto, lui, il non-morto, il quasi-morto, l’usurpatore, il Figlio: Gonzalo Pirobutirro, Marchese d’Eltino. Gonzalo “è un personaggio solitario, egoista, bisbetico e reazionario”, secondo le stesse parole di Gadda rilasciate in un’intervista del ’62. In una pagina della seconda parte è descritto un incontro tra madre e figlio significativo dell’ambivalenza dei sentimenti provati da Gonzalo nei riguardi della madre. Altro tema è la malattia e si rileva fin dalla prima pagina quando il medico arriva alla villa di Ponzalo per visitare la madre. Nel dialogo tra il dottore e Gonzalo è quest’ultimo a manifestare le sue ossessioni. La seconda parte non si sposterà quasi più dal centro, la casa, di questo mondo imploso seguendo al suo interno i movimenti dei due personaggi principali, la Madre e il Figlio. L’avvicinamento al nucleo centrale dell’universo della Cognizione avviene seguendo lo spostamento fisico e le riflessioni mentali del dottore, che si sta recando a visitare il Figlio; per via il medico incontra la Battistina, che aggiunge nuovi e inquietanti dettagli al ritratto favoloso del Marchese. Finalmente il dottore arriva alla villa e Gonzalo entra in scena; quello che segue – il lungo dialogo fra i due – è l’arco di volta dell’intero romanzo, e contiene la chiave del rapporto fra Gadda e la sua scrittura, ma anche di quello fra ogni scrittore e ogni scrittura. In superficie, il protagonista, Gonzalo, tenta vanamente di comunicare al dottore la propria sofferenza morale. Da parte sua il dottore presta alle chiacchiere del suo paziente un orecchio attento (perché interessato: il Marchese è scapolo e, nonostante le sue bizze, potrebbe candidarsi al ruolo di genero), ma in fin dei conti sordo. In realtà è al lettore che Gadda, attraverso Gonzalo, enigmaticamente rivela l’essenza dell’atto narrativo; ma Gadda va oltre e, in quel dialogo centrale (apparentemente fra Gonzalo e il dottore, in realtà fra scrittore e lettore) descrive metaforicamente anche il vuoto su cui si erge ogni sforzo narrativo e interpretativo (quindi dentro e fuori il testo letterario): lo fa punteggiando il racconto di riferimenti ossessivi alle categorie di spazio e tempo, ora rivelate nella loro verità nuda e abissale. I veicoli di questa rivelazione metaforica sono sensoriali e sinestetici, e principalmente sonori e visivi: il tarlo, le cicale e le campane dicono con voci diverse l’inane procedere di un tempo svuotato di ogni progetto (in senso esistenziale); la campagna schiacciata e immobilizzata dalla luce accecante rivela uno spazio privato di ragione, in cui i movimenti dei personaggi (Gonzalo e la Madre soprattutto) somigliano al moto insensato di animali intrappolati. L’individualismo, l’arroganza sono i vizi che Gadda vuole maggiormente colpire sia dei ricchi che dei poveri. Entra in campo il motivo del zoomorfismo dei personaggi con effetto degradante e satirico: i ricchi sono tacchini che fanno la ruota con i loro diplomi ingegnereschi, i poveri sono cavalli, muli zoccolanti.

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Questa è la cognizione del dolore: la certezza del nulla che soggiace tanto alla vita vera quanto alla creazione letteraria, e che rende vano ogni tentativo di comunicare. Il discorso di Gonzalo, difatti, è sistematicamente lacerato da pause e sospensioni: da un non-detto che indica la prossimità del baratro in cui si perde ogni volontà e possibilità di dire. Ma simultaneamente, nell’atto stesso di svelare questa verità impietosa, l’atto narrativo la contraddice, ristabilendo a un altro livello tanto un mondo pieno (il mondo del romanzo, come anche i moti dei personaggi – contrariamente a quelli della vita – sono sempre sensati, perché contemplati dallo sguardo comprendente dell’autore e del lettore), quanto un canale di comunicazione universale: un altro spazio e un altro tempo, non più vuoti, ma popolati di anime in ascolto.

La vicenda si svolge tra il 1925 e il 1933 in un immaginario paese sudamericano, il Maradagal, dopo una guerra con il paese Parapagal. La casa del protagonista si trova a Lukones(Longone- Brianza) vicino ail monte Serruchon(Resegone) e alla città di Pastrufazio (Milano). C’è un’Associazione di Vigilanza privata, la Nistituos provinciales de vigilancia para la noche, che vorrebbe prendere sotto loro protezione la villa di Ponzalo che non vuole firmare alcun contratto. Sono in realtà squadre di reduci di guerra che minacciano la popolazione. a capo delle quali c’è Pedro Manganones, manganello richiama alla memoria uno strumento di persuasione delle suadre fasciste.. Si notano le prime avvisaglie di critica al regime in Gadda già dal ’34. Pubblicata sulla rivista fiorentina “Letteratura” dal ’38 al ‘41 sotto la direzione di Bonsanti. Nel ’63 uscirà in volume e sette anni dopo una riedizione. Il romanzo si conclude con la descrizione del ritrovamento del corpo della madre moribonda perché aggredita probabilmente da qualcuno dei vigilantes e con la scena dell’alba. Anche il romanzo di un altro autore controverso del Novecento e pure apprezzato da Gadda, Louis Ferdinand Celine, Viaggio al termine della notte, si conclude con l’arrivo dell’alba. Nella Cognizione la caratteristica evidente è il mistilinguismo come la ricchezza lessicale, ma è la sintassi con un andamento franto, spezzato da incisi, pause, eppure con una struttura complessa che contribuisce a dare densità semantica al testo. Si può definire metonimia infinita (così il critico Emilio Manzotti), lo scorrere da un’analogia ad un’altra, collegando tutte le variabili possibili di significato.

Dal 1940 si trasferisce a Firenze decidendo di lasciare la professione di Ingegnere e dedicarsi così alla scrittura. Dopo la morte della madre Gadda cambia la sua vita. Frequenta il caffè delle Giubbe Rosse, instaura amicizia con Montale, Baccelli, Bilenchi, Landolfi, Vittorini, ma specialmente con Bonsanti e Carlo Bo; per i poeti ermetici prova rispetto e al contempo un certo distacco. Su Montale ci sono arrivati tra i suoi appunti e note di critica alcuni scritti interessanti pubblicati ne I viaggi la morte e altri saggi,da cui traspare una grande stima per il poeta ligure: “L'attimo iridato di dolore sfocia spinozianamente nell'Uno universo. E lo sguardo che il Montale getta sopra le cose assimila a sua volta lo sguardo dello Spinoza: il suo animo, immobilmente intento, ci ricorda l'animo spinoziano e per analogie il noto passo del Trattato Politico: «... humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere» . Ma allora il suo «cupio dissolvi» è ricondotto a una fissità tragica, il rombo del mare disparisce in un'afa stagnante,[…]”. Più oltre dirà: “ Ermetico sembra Montale non voler essere, ma dover essere. Quale abisso separa la sua verità dolorante dalla «posa» dei finti ermetici, dalle complicazioni gratuite di chi non ha nulla da dire, o soltanto delle brutte

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bugìe! E infine la chiave d'un commento che prepari il lettore alla comunione lirica non è poi onta sì grave da inorridirne: gli uomini non hanno commentato Mallarmé solo, sì anche il Petrarca. Poesia non è lungo discorso, non è cronaca e narrativa del perché e del come e del prima e del poi: è,[…]” . Gadda si mostra acuto critico di Montale e ne coglie le novità stilistiche: “Ho detto della musicalità leopardiana: delibata per brevi cenni, qua e là, viene tenuemente trasfusa allora e incorporata nel corpus montaliano, come in segno d'un dolce e religioso rispetto. La maniera è rivissuta, quasi ironizzata, in alcune riprese gnostiche che arieggiano quelle tipiche del Leopardi: («Sì dolce sì gradita» del Sereno; «Garzoncello scherzoso» del Sabato; «Ohimè quanto somiglia» del Passero solitario.) Così Montale: «Vanno e non lasciano segno» di Vasca; «Mia/ vita è questo secco pendìo», di Mediterraneo; oppure il tocco improvviso «Ciò intendi e non paventi», di Falsetto. Ma sono fugacissimi tocchi. Montale perviene alla sua originalità per il valore del simbolo e per la potenza icastica della descrizione. Talora si dilunga o vacilla, come chi ammini sbandato in una stranita sonnolenza, tal'altra ràpido e lùcido ci dà il guizzo del ramarro dantesco.” “Alla fine del '38 il Comune di Firenze ritiene di privarsi dei di lui uffici: e Montale a tradurre, a scrivere, vivendo dei non lauti guiderdoni editoriali. La sua immagine di allora procede verso di noi, come uscita dalle quinte d'un tempo enigmatico. Né triste, né lieta, in un atteggiamento di attesa e di fermezza, quasi di chi preveda un nuovo sberleffo del destino o l'opinione contraria d'un interlocutore clamoroso. Quasi di chi sia stato estratto da un suo disperato rimuginare, e muova, ancora tutto infarinato di angoscia, verso le occorrenze minute, anzi minutissime, di questo «piccino fermento» del suo vivere Con la sigaretta dalla lunga e pericolante cènere nel bocchino di ciliegio, egli si avanza a passetti esatti salutandoci sottovoce, con una formula secca, di timbro un po' genovese.”

In questi anni traduce dallo spagnolo “Il mondo com’è” di F. Quevedo, scrittore di epoca barocca. Su sollecitazione di Bonsanti di scrivere un racconto poliziesco Gadda comincerà a lavorare al romanzo Quer pasticciaccio. Nel ’43 pubblica per le Edizioni di Letteratura Gli anni, dieci prose accompagnati da disegni di De Pisis. Un brano, Dalle specchiere dei laghi è uno scritto con un tono elegiaco di rimpianto per ciò che poteva e che non è stato, per il paesaggio della Brianza visto con occhi malinconici e con affetto verso una terra che però per l’attrito con la madre non ha potuto amare.. Nel ’43 pubblica L’Adalgisa nelle edizioni Le Monnier composta da scritti di genere diverso, articoli, due brani della Cognizione, e poi dei racconti, disegni milanesi, diversi tra loro ma con personaggi comuni. I personaggi borghesi di questi racconti vengono derisi per la rispettabilità , la morale dell’apparenza. In questi racconti l’accumulo dei nomi, degli oggetti si propone di rivelarne l’intima essenza che è il caos. Il personaggio femminile all’incrocio tra il borghese e il popolare è Adalgisa, orfana, cantante di opera che il rag. Carlo Biandronni sposa nonostante il parere contrario della sua famiglia. Rimasta vedova tira su due figli mantenendo vivo il ricordo del marito, idealizzandolo. Nell’incontro con la cognata Elsa ai giardini ricorda il disprezzo che la famiglia del marito ha sempre mostrato nei suoi riguardi e sottolinea la forza dell’amore per il marito superiore a tutto : Il loro romanzo era stato una cosa incredibile, così davvero credeva.” In quel “così credeva” non c’è derisione ma compassione e tenerezza, fatto molto raro in Gadda. Per la lingua Gadda utilizza un parlato mimetico, una sintassi e un lessico propri del dialetto. Il registro erudito è un elemento ironico e il corredo delle note costituisce un secondo testo con spunti autobiografici. Il dialogato è un monologo teatrale, Adalgisa parla a un interlocutore che non la

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capisce come Gonzalo con il dottore. Nel ’44 Gadda viene ospitato nella tenuta del Chiocchio nel Chianti, ospite del banchiere mecenate Mattioli e ivi conosce il critico Russo. Finita la guerra torna nella sua casa di Firenze ma sono anni difficili di povertà. Bonsanti aiuta economicamente l’amico spingendolo a scrivere Quer pasticciaccio e a partire dal ’46 escono a puntate i cinque capitoli. Nello stesso periodo di stesura del romanzo compone il saggio sul Fascismo analizzato in chiave psicoanalitica, Eros e Priapo. Da furore a cenere, che sarà pubblicato nel 1967. Tra il ’47 e il ’48 redige un trattamento del romanzo per la riduzione cinematografica per la Lux Film che indica più chiaramente l’assassino. La storia è ambientata a Roma nel 1927. Nell’appartamento della vedova Menegazzzi in Via Merulana nella zona di san Giovanni in Laterano a Roma avviene un furto di gioielli. Tre giorni dopo nello stesso pianerottolo viene uccisa Liliana calducci, una donna ricca, non più giovane ma ancora bella, sposata senza figli, con la mania di circondarsi di ragazze di campagna che sono un po’ serve un po’ figlie. Anche nel caso dell’omicidio Calducci si riscontra il furto di alcuni gioielli.. indaga sui due casi il Commissario Ingravola, poi diventato Ingravallo, molisano, solitario e filosofo, conoscente. I sospetti cadono sul cugino di Liliana il giovane Giuliano Valdarena che ha scoperto per primo il cadavere della donna, poi vengono interrogati il marito Remo Balducci e don Corpi, il padre spirituale di Liliana. Le indagini si spostano in un secondo momento in periferia sulle tracce del ladro dei gioielli della vedova Menegazzi e nella campagna in una tintoria equivoca tenuta da Zamira Pacori un ex prostituta. L’ultima puntata esce su “Letteratura” nel ’47 e dieci anni edito da Garzanti uscirà il romanzo definitivo. Il giallo ha sempre affascinato Gadda, dietro ad ogni omicidio c’è un conflitto irrisolto e irrisolvibile mediante la ragione. Il giallo è un genere letterario che si presta a far emergere il groviglio del mondo. Il commissario alter ego dello scrittore sente la missione di portare ordine nel disordine in cui trova spazio come causa motrice fondamentale la pulsione erotica. Anche il romanzo Quer pasticciaccio contiene un riferimento autobiografico: Clara, la sorella di Gadda nel 1930 aveva partorito una bimba morta pochi mese dopo, aveva dunque cercato di adottare una parente lontana offrendole gioielli di sua madre ma senza successo. Anche Liliana regala al cugino soldi e gioielli in cambio della promessa di poter aver lei il primo figlio che gli nascesse. Per Gadda le donne sono manifestazione delle pulsioni, degli istinti. Nel romanzo molte sono le invettive antimussoliniane (Testa di Morto in feluca). Segno del clima repressivo del periodo fascista prende corpo il personaggio di un inquilino del Palazzo di Via Merulana, il commendator Angeloni, che vivendo da solo in quanto scapolo suscita sospetti di omosessualità e viene sospettato in qualche modo del furto in casa Menegazzi. Gli espedienti narrativi del romanzo sono: la duplicazione e l’espansione dei personaggi e delle vicende. Il furto viene preceduto da una cena di Ingravallo in casa Balducci e l’omicidio è annunciato dal furto; due sono le scale di via Merulana 219 e due gli elenchi dei gioielli rubati; le serve di Liliana si moltiplicano; gli investigatori si alternano Ingravallo, il dottor Fumi, il brigadiere Pestalozzi, il maresciallo Santarella come non ci fosse un centro nelle indagini. Altro espediente già messo in atto nell’Incendio di Via Keplero è la massima concentrazione di caos in un luogo e in un tempo delimitati. La scena dell’arrivo della polizia dopo il furto della Menegazzi

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ha la capacità di simultanare voci, movimenti in una concitazione globale esplosiva. Le sequenze dialogate sono molto più fitte e il parlato è fatto di voci romanesche, una lingua ripassata sulla scorta della lettura del Belli ma oltre al romanesco figurano il molisano del commissario, il napoletano del dottor Fumi, il veneto della Menegazzi L’effetto polifonico è avvalorato dalla narrazione in terza persona. Ai dialetti si aggiunge il toscano arcaico, le lingue straniere, . Lo stile del,indiretto libero ma il coro dei parlanti non è un coro che rappresenta un gruppo unitario(la gente di Aci Trezza nei Malavoglia di Verga) è un coro di gente diversa dalle voci dissonanti. L’indiretto libero è contaminato poi dal discorso diretto con un effetto ulteriore di interferenze ad aggrovigliare il discorso.

Roma

Nel 1950 Gadda si trasferisce a Roma, in quanto, grazie alla mediazione di Angioletti, intellettuale e

suo amico, viene assunto alla Rai come giornalista praticante al servizio letterario del Giornale

Radio poi passa al Terzo programma. Redige un opuscolo come vademecum di scrittura le Norme

per la redazione di un testo radiofonico. Frequenta scrittori, coltiva nuove amicizie e pubblica Il

primo libro delle Favole nel ’52 con illustrazioni di Mirko Vucetich. Si tratta di aforismi,

epigrammi, apologhi morali, giochi di parole. Il trono è satirico a volte sarcastico. Gli argomenti

riguardano la sfera privata e vizi di varie categorie umane come le donne, i letterati, il duce, ecc.

Nel ’53 Gadda vince il Premio Viareggio con la raccolta delle Novelle del Ducato in fiamme. Per

completare il romanzo Quer pasticciaccio nel ’55 lascia il lavoro in Rai. Nel ’57 viene pubblicato

finalmente il romanzo che sarà subito un successo editoriale e alla fine dello stesso anno riceve il

Premio degli Editori. C’è stato un enorme lavoro di revisione della scrittura soprattutto per il

dialetto romanesco. Nel ’55 esce il romanzo di P.P.Pasolini, Ragazzi di vita, in cui i personaggi,

ragazzini borgatari di Roma, parlano in romanesco e in gergo della malavita ma tra i due vi sono

delle differenze. Dietro c’è il riemergere della nuova questione della lingua, che per Pasolini non

può essere risolta solo in termini stilistici. Benché il progetto concordato con i primi amici romani

postulasse il rifiuto di asservire la letteratura alla politica (considerato come l’errore dei neorealisti),

il discorso stilistico di Pasolini investe la sfera ideologica. Nel 1954, recensendo le Novelle dal

Ducato in fiamme, esalta la figura di Gadda («Non ci sembra sproporzionato tenere presente dietro

il primo piano di questo grandissimo scrittore che è Gadda, l’intero paesaggio storico della

letteratura italiana»), individuando quattro confluenze che si coagulano in Gadda: una lombardo-

manzoniana, una dialettale alla Porta, una scapigliata e una veristica. Loda il pastiche e i

mirabilissimi esempi di excursus ma pur ammirando il grande artefice attacca i residui neo-borghesi

della sua impostazione di fondo: “Spesso un periodone enorme (mai però simmetrico!) è seguito da

un periodetto cortissimo […]. Occorrerebbe istituire un nuovo termine, per Gadda, per la sua

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perciò mostruosa macchina sintattica: e chiamiamola pure ipertassi. L’urto dell’io contro il mondo

avviene intanto, concretamente, contro mille dati particolari: dall’esame stilistico della

componente dialettale ci risulta infatti come l’Italia, e nella fattispecie Roma, si presentino a

Gadda come una Babele, un coacervo di tre strati linguistici, che rappresentano tre culture a tre

diversi livelli: il linguaggio letterario (cultura europea della poesia d’avanguardia), la koinè

(cultura della piccola borghesia prima fascista, poi democristiana), dialetto (cultura delle classi

operaie, che qui sono meridionali, quindi di tipo sottoproletario) […] in Gadda sussiste la certezza

di una realtà oggettiva che può essere mimetizzata e rappresentata (secondo la formula, per

intenderci, verghiana): ma è una certezza sopravvivente dalla cultura positivistica e laica al cui

lembo estremo Gadda (ch’è ingegnere) si è formato […]. […] in Gadda esiste una accettazione

della realtà sociale italiana come è stata codificata e istituita dalla borghesia post-risorgimentale,

accettazione ch’è addirittura reazionaria […]. Gadda dunque ci si presenta nel Pasticciaccio come

esagitato e schiacciato tra due errori: il sopravvivente positivismo naturalistico di un liberale

prefascista di destra, e il coatto lirismo deformante di un antifascista limato e disgregato

dall’impari lotta con lo Stato”.

Nella seconda versione del romanzo la periferia acquista uno spazio maggiore, i paesaggi sono

descritti liricamente a marcare le bassezze degli uomini che ci vivono. Il narratore in terza persona

svolge la funzione di rivelare il caos del mondo. La comicità si basa su invenzioni linguistiche e su

associazioni imprevedibili. Nel ’58 viene realizzato un film Un maledetto imbroglio di e con Pietro

Germi, la sceneggiatura è di Ennio de Concini e dello stesso germi; inoltre verrà portato in teatro e

in televisione, nel 1983 in televisione uno sceneggiato in quattro puntate, nel 1996 al teatro

argentina di Roma con la regia di Ronconi.

Nel ’58 viene pubblicata la raccolta di saggi I viaggi la morte e comprendono scritti che vanno dal 1927 al 1957 e si apre con uno scritto Come lavoro con cui si può meglio comprendere il legame dello scrittore con le parole e il valore dato al linguaggio come chiave di accesso alla conoscenza del mondo.

Nel ’63 esce la raccolta Accoppiamenti giudiziosi che comprende dei racconti alcuni dei quali nuovi e altri facenti parte della raccolta precedente Novelle del Ducato in fiamme e in volume per la prima volta qualche mese dopo La cognizione del dolore. A chiusura del romanzo Gadda aggiunge una poesia Autunno e un testo scritto appositamente per l’edizione: L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore in cui afferma che non è Gadda barocco ma è il mondo ad essere barocco. Nella introduzione il critico Contini assegna a Gadda la categoria di scrittore espressionista e definisce l’arte di Gadda “ arte macaronica esercitatasi una materia, sia detto per più rapida

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intelligenza, freudiana”. Per questo libro Gadda viene insignito del Premio Internazionale di Letteratura assegnato dagli editori di tutto il mondo. Nel ’64 e nel ‘67 vengono pubblicati due testi scritti per trasmissioni radiofoniche, I Luigi di Francia e Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo ( una conversazione a tre voci con chiaro intento satirico nei confronti del poeta Ugo Foscolo, visto come esponente di una poesia retorica e narcisistica).Negli ultimi dieci anni si ritira in una solitudine ostinata: ultima tappa della cognizione del dolore. Amava ri-leggere I Promessi Sposi, che prima di morire pochi amici (Arbasino, Citati, Roscioni) leggevano a turno al suo capezzale, specialmente il Capitolo VIII, in particolare la scena del guazzabuglio notturno con le campane che suonavano nel paese di Renzo e Lucia.

Giacomo Leopardi Alessandro Manzoni

Autori di riferimento per approfondire alcuni temi comuni all’opera gaddiana

tema del dolore e dell’infelicità; la critica alle convinzioni progressiste e

antropocentriche

la parola come LOGOS, istanza etica e ricerca del vero

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Italo Svevo Luigi Pirandello

F. Dostoevskij

Gadda e gli Scapigliati

Secondo alcuni critici, come Contini, Gadda è accostato per il suo pastiche linguistico agli scrittori della corrente della Scapigliatura, in particolare a Carlo Dossi, secondo altri, come Donnarumma, Gadda non ha niente a che vedere con questo movimento e con lo scrittore Carlo Dossi. In effetti lo stesso Gadda ha letto molto tardi le opere di questo scrittore e inoltre lo stile di Gadda risponde a un’esigenza etica e gnoseologica che non è riscontrabile in Carlo Dossi. Si riporta quanto afferma a tal proposito in un articolo il critico Donnarumma: “Così, mentre Gadda popola la sua pagina di voci che non sono la sua, perché appartengono alla tradizione o agli altri, non c’è parola in Dossi

lo scavo psicoanalitico dell’io-l’ironia- il tema del sogno e della

malattia

la visione umoristica della vita- il genere tragico e quello comico abbinati come disvelamento del

caos

il tema della colpa - il sottosuolo della coscienza- il

romanzo polifonico

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che non sia di Dossi. La sintassi, spesso parlata, l’accentazione e il sistema di interpunzione testimoniano lo sforzo di imporre anche alla pagina scritta il proprio tono e la propria pronuncia. Se Dossi è un umorista perché il suo fondo è lirico, Gadda è umorista perché il suo fondo è tragico: l’uno ripudia il romanzo, l’altro parte da quello e a quello tende. L’orizzonte di Dossi è la letteratura lombarda (la storia recente si riassume in un avvicendarsi di «primavera pariniana», «manzoniana state», «rovaniano autunno»; e dossiano «inverno»); Gadda sta, carduccianamente, nella letteratura nazionale («Il Regno d’Italia, per i miei, era una cosa viva e verace; che valeva la pena di servirlo e tenerlo su»).

Al rifiuto di un mandato sociale, compiuto da chi era orgoglioso di scrivere e stampare per pochi, si contrappone la volontà gaddiana di arrivare al «pubblico grosso», cercando in ogni modo una legittimazione. Per Dossi la letteratura esaurisce ogni sua ragione d’essere nel dare voce all’io; per Gadda essa deve giustificarsi di fronte alla società e alla storia. Se l’uno è un narcisista compiaciuto, che coltiva la scrittura nell’ozio e, da bravo borghese, si dà alla serietà della carriera diplomatica, l’altro è un nevrotico masochista, che prende con tanta serietà la letteratura, da anteporla alla tranquillità borghese dell’ingegneria. Dossi ha in fondo un’idea avvilente della letteratura; Gadda ha idea che i tempi abbiano avvilito la letteratura, ma che bisogna, comunque, testimoniare per la verità.(in “Nevrosi di un letterato nel Ventennio” di Raffaele Donnarumma, “The Edinburgh Journal of Gadda Studies”

La formazione classica ( fonte di riferimento: Emanuele Narducci, La gallina Cicerone. Carlo Emilio Gadda e gli scrittori antichi, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2003).

Negli anni del liceo nacque la vera e propria passione di Gadda per l’architettura logica e sintattica del periodo latino, che egli diceva avere contribuito anche alla formazione della sua mentalità di ingegnere. Lo studio del latino proseguì poi negli anni in cui Gadda, già laureato in ingegneria, aveva in progetto di prendere una seconda laurea in filosofia; a Milano egli poté seguire i corsi di un filologo insigne come Remigio Sabbadini (del programma faceva parte il De officiis di Cicerone, che diverrà oggetto della satira del racconto San Giorgio in casa Brocchi). Ciò che maggiormente colpisce, per i singoli diversi autori, è la presenza ripetuta, e quasi ossessiva, di alcuni determinati passi. I versi di Virgilio che più profondamente si sono impressi nella memoria e nella personalità di Gadda sono quelli del finale della IV bucolica («colui al quale i genitori non hanno sorriso, né un dio mai lo ha degnato della sua mensa, né una dea del suo letto»): di essi lo scrittore si è servito più di una volta (sia in scritti saggistici, sia, per esempio, nella Cognizione del dolore) come di una sorta di epigrafe apposta alle

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rievocazioni dell’infelicità della propria infanzia, segnata dal «diniego oltraggioso» che egli sentiva essergli stato opposto dai genitori, dalla madre in particolare.

Altro autore oltre a Cesare, Livio, Orazio,, molto importante è Tacito. In un’ intervista del ’63 Gadda lo associa talora a Svetonio, citato nella Cognizione, in quanto pittore dei costumi e dei vizi della Roma imperiale. Nel ’57 Gadda si servirà di un testo famosissimo di Tacito per rendere ragione dell’atmosfera plumbea del periodo che vide la gestazione del giallo Quer pasticciaccio; rivolgendosi ai lettori e ai critici del suo romanzo, ne presenta la prima pubblicazione, nel ’46, come l’opera di uno scrittore pervenuto alla vecchiaia nel silenzio («per silentium ad senectutem pervenere»), attraverso i precedenti vent’anni del dominio fascista, mentre altri, i «sacrificati», erano invece giunti alla morte. Gadda rimanda esplicitamente (anche se con un’imprecisa citazione a memoria del testo latino) al proemio della Vita di Agricola, in cui Tacito, dopo che Roma è finalmente fuoriuscita dalla tirannide di Domiziano, rivendica la dignità del silenzio che per moltissimi anni ha saputo mantenere sotto il dispotismo, ammettendo al contempo che la sua scelta è stata diversa da quella di coloro che avevano accettato di pagare con la vita il rischio di un’opposizione aperta, e denunciando con parole sofferte l’umiliante senso di frustrazione provato per buona parte della propria esistenza. È evidente che Gadda, non senza qualche senso di colpa nei confronti dei sacrificati, sta cercando, tramite lo storico latino, una sorta di giustificazione del proprio atteggiamento nei confronti del fascismo

Pensieri in Appendice

Dal suo scritto filosofico Meditazione milanese e dal dialogo L’egoista si possono trarre delle riflessioni che possono sintetizzare il pensiero gaddiano:

“ Non è possibile pensare un grumo di relazioni come finito, come un gnocco distaccato da altri nella pentola. I filamenti di questo grumo ci portano ad altro, ad altro, infinitamente ad altro: ma ciò dico non nel senso, dibattuto e noto del regresso delle cause finite e progresso degli effetti finiti […]. Ma dico invece ciò nel senso di una coestensione logica…”( da Meditazione milanese)

“La nostra individualità è il punto di incontro, è il nodo o groppo di innumerevoli rapporti con innumerevoli situazioni (fatti o esseri) a noi apparentemente esterne. […] Se una libellula vola a Tokio, innesca una catena di reazioni che raggiungono me.”(da L’Egoista)

Alcuni testi di collegamento intertestuale

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A. Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. I (il tema della disarmonia nella storia, scenario di violenza):

“All'udir parole d'un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d'un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell'anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell'anno 1598, informato, con non poco dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali(bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d'essere aiutati dai capi e fautori loro... prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s'usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l'ira sua... essendo risoluta e determinata che questa sia l'ultima e perentoria monizione. Non fu però di questo parere l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch'essa di severissime comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite. Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell'ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d'una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de' bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22 settembre dell'anno 1612.” A. Manzoni, I Promessi Sposi, Capitolo VIII (la notte degli imbrogli – il tema del caos): “[…]E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell'altra mano, s'aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n'aveva in canna: - Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto! - Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l'artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tastoni l'uscio che metteva a una stanza più interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: - Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa! - Nell'altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato, e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all'uscio, e picchiava, gridando: - apra, apra; non faccia schiamazzo -. Lucia chiamava Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: - andiamo, andiamo, per l'amor di Dio -. Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava, cercando l'uscio di scala, per uscire a salvamento. In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s'era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una

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stanza, ha tutta l'apparenza d'un oppressore; eppure, alla fin de' fatti, era l'oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a' fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo. L'assediato, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: - aiuto! aiuto! - Era il più bel chiaro di luna; l'ombra della chiesa, e più in fuori l'ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva il sagrestano. Fu questo riscosso da quel disordinato grido, fece un salto, scese il letto in furia, aprì l'impannata d'una sua finestrina, mise fuori la testa, con gli occhi tra' peli, e disse: - cosa c'è? - Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa, - gridò verso lui don Abbondio. - Vengo subito, - rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e, quantunque mezzo tra 'l sonno, e più che mezzo sbigottito, trovò su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiedeva, senza mettersi lui nel tafferuglio, quale si fosse. Dà di piglio alle brache, che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di gala, e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che c'erano, e suona a martello. Ton, ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fenile, tendon l'orecchio, si rizzano. - Cos'è? Cos'è? Campana a martello! fuoco? ladri? banditi? - Molte donne consigliano, pregano i mariti, di non moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s'alzano, e vanno alla finestra: i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, ritornan sotto: i più curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi, per correre al rumore: altri stanno a vedere. Ma, prima che quelli fossero all'ordine, prima anzi che fosser ben desti, il rumore era giunto agli orecchi d'altre persone che vegliavano, non lontano, ritte e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro.” Capitolo XXVII (la Biblioteca di Don Ferrante- il tema della cultura): “Della filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n'andava di continuo imparando di più, dalla lettura di Diogene Laerzio. Siccome però que' sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto Aristotile, il quale, come diceva lui, non è né antico né moderno; è il filosofo. Aveva anche varie opere de' più savi e sottili seguaci di lui, tra i moderni: quelle de' suoi impugnatori non aveva mai voluto leggerle, per non buttar via il tempo, diceva; né comprarle, per non buttar via i danari. Per eccezione però, dava luogo nella sua libreria a que' celebri ventidue libri De subtilitate, e a qualche altr'opera antiperipatetica del Cardano, in grazia del suo valore in astrologia; dicendo che chi aveva potuto scrivere il trattato De restitutione temporum et motuum coelestium, e il libro Duodecim geniturarum, meritava d'essere ascoltato, anche quando spropositava; e che il gran difetto di quell'uomo era stato d'aver troppo ingegno; e che nessuno si può immaginare dove sarebbe arrivato, anche in filosofia, se fosse stato sempre nella strada retta. Del rimanente, quantunque, nel giudizio de' dotti, don Ferrante passasse per un peripatetico consumato, non ostante a lui non pareva di saperne abbastanza; e più d'una volta disse, con gran modestia, che l'essenza, gli universali, l'anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose tanto chiare, quanto si potrebbe credere. “[…]Della filosofia naturale s'era fatto più un passatempo che uno studio; l'opere stesse d'Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno, con questa lettura, con le notizie raccolte incidentemente da' trattati di filosofia generale, con qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum, del Cardano, al Trattato dell'erbe, delle piante, degli animali, d'Alberto Magno, a qualche altr'opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l'abitudini delle sirene e dell'unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare: come la remora, quel pesciolino, abbia

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la forza e l'abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si cibi d'aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l'andar de' secoli, si formi il cristallo; e altri de' più maravigliosi segreti della natura. In quelli della magia e della stregoneria s'era internato di più, trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più necessaria, e nella quale i fatti sono di molto maggiore importanza, e più a mano, da poterli verificare. Non c'è bisogno di dire che, in un tale studio, non aveva mai avuta altra mira che d'istruirsi e di conoscere a fondo le pessime arti de' maliardi, per potersene guardare, e difendere. E, con la scorta principalmente del gran Martino Delrio (l'uomo della scienza), era in grado di discorrere ex professo del maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e dell'infinite specie che, pur troppo, dice ancora l'anonimo, si vedono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malìe, con effetti così dolorosi. Ugualmente vaste e fondate eran le cognizioni di don Ferrante in fatto di storia, specialmente universale:[…]” Capitolo XXXIII (La vigna di Renzo- il tema del male): “S'affacciò all'apertura (del cancello non c'eran più neppure i gangheri); diede un'occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna - nel luogo di quel poverino -, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d'ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell'antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de' filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l'aiuto della man dell'uomo. Era una marmaglia d'ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d'avene salvatiche, d'amaranti verdi, di radicchielle, d'acetoselle, di panicastrelle e d'altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d'ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l'uno con l'altro nell'aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n'era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l'uva turca, più alta di tutte, co' suoi rami allargati, rosseggianti, co' suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co' suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all'aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne' rami, nelle foglie, ne' calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a' nuovi rampolli d'un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co' suoi chicchi vermigli, s'era avviticchiata ai nuovi tralci d'una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l'uno con l'altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all'altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.” Temi: La letteratura come ricerca del vero; il destino di solitudine e senso di estraneità del poeta: G. Leopardi, da Operette morali, Dialogo di Tristano e di un amico: “Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha

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creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l'una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d'animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l'arme, come dice il Petrarca alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d'ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l'Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre degl'inganni non dell'immaginazione, ma dell'intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn'inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. Leopardi, Operette morali, Dialogo di Timandro e di Eleandro: Ma io che non mi posso adattare alle cerimonie, non mi adatto anche a quell'uso; e scrivo in lingua moderna, e non dei tempi troiani. In secondo luogo; non tanto io cerco mordere ne' miei scritti la nostra specie, quanto dolermi del fato. Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile, che l'infelicità necessaria di tutti i viventi. Se questa infelicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo e qualunque altro discorso. […] In ultimo mi resta a dire, che io desiderio quanto voi, e quanto qualunque altro, il bene della mia specie in universale; ma non lo spero in nessun modo; non mi so dilettare e pascere di certe buone aspettative, come veggo fare a molti filosofi in questo secolo; e la mia disperazione, per essere intera, e continua, e fondata in un giudizio fermo e in una certezza, non mi lascia luogo a sogni e immaginazioni liete circa il futuro, né animo d'intraprendere cosa alcuna per vedere di ridurle ad effetto. Temi: La ricerca vana di una vita autentica in un mondo segnato dall’ipocrisia e dallo schermo delle forme: L. Pirandello, Canta l’ Epistola da Novelle per un anno: “Quando però cagione della perdita non sia la violenza di appetiti terreni, ma sete d'anima che non riesca piú a saziarsi nel calice dell'altare e nel fonte dell'acqua benedetta, difficilmente chi perde la fede è convinto d'aver guadagnato in cambio qualche cosa. Tutt'al piú, lí per lí, non si lagna della perdita, in quanto riconosce d'aver perduto in fine una cosa che non aveva piú per lui alcun valore. Tommasino Unzio, con la fede, aveva poi perduto tutto, anche l'unico stato che il padre gli potesse dare, mercé un lascito condizionato d'un vecchio zio sacerdote. Il padre, inoltre, non s'era tenuto di prenderlo a schiaffi, a calci, e di lasciarlo parecchi giorni a pane e acqua, e di scagliargli in faccia ogni sorta di ingiurie e di vituperii. Ma Tommasino aveva sopportato tutto con dura e pallida fermezza, e aspettato che il padre si convincesse non esser quelli propriamente i mezzi piú acconci per fargli ritornar la fede e la vocazione. Non gli aveva fatto tanto male la violenza, quanto la volgarità dell'atto cosí contrario alla ragione per cui s'era spogliato dell'abito sacerdotale. Ma d'altra parte aveva compreso che le sue guance, le sue spalle, il suo stomaco dovevano offrire uno sfogo al padre per il dolore che sentiva anche lui, cocentissimo, della sua vita irreparabilmente crollata e rimasta come un ingombro lí per casa. Volle però dimostrare a tutti che non s'era spretato per voglia

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di mettersi «a fare il porco» come il padre pulitamente era andato sbandendo per tutto il paese. Si chiuse in sé, e non uscí piú dalla sua cameretta, se non per qualche passeggiata solitaria o sú per i boschi di castagni, fino al Pian della Britta, o giú per la carraja a valle, tra i campi, fino alla chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto, sempre assorto in meditazioni e senza mai alzar gli occhi in volto a nessuno. È vero intanto che il corpo, anche quando lo spirito si fissi in un dolore profondo o in una tenace ostinazione ambiziosa, spesso lascia lo spirito cosí fissato e, zitto zitto, senza dirgliene nulla, si mette a vivere per conto suo, a godere della buon'aria e dei cibi sani. Avvenne cosí a Tommasino di ritrovarsi in breve e quasi per ischerno, mentre lo spirito gli s'immalinconiva e s'assottigliava sempre piú nelle disperate meditazioni, con un corpo ben pasciuto e florido, da padre abate. Altro che Tommasino, adesso! Tommasone Canta l'Epistola. Ciascuno, a guardarlo, avrebbe dato ragione al padre. Ma si sapeva in paese come il povero giovine vivesse; e nessuna donna poteva dire d'essere stata guardata da lui, fosse pur di sfuggita. Non aver piú coscienza d'essere, come una pietra, come una pianta; non ricordarsi piú neanche del proprio nome; vivere per vivere, senza saper di vivere, come le bestie, come le piante; senza piú affetti, né desiderii, né memorie, né pensieri; senza piú nulla che desse senso e valore alla propria vita. Ecco: sdrajato lí su l'erba, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti, gonfie di sole; udire il vento che faceva nei castagni del bosco come un fragor di mare, e nella voce di quel vento e in quel fragore sentire, come da un'infinita lontananza,la vanità d'ogni cosa e il tedio angoscioso della vita. Nuvole e vento. Eh, ma era già tutto avvertire e riconoscere che quelle che veleggiavano luminose per la sterminata azzurra vacuità erano nuvole. Sa forse d'essere la nuvola? Né sapevan di lei l'albero e le pietre, che ignoravano anche se stessi. E lui, avvertendo e riconoscendo le nuvole, poteva anche - perché no? - pensare alla vicenda dell'acqua, che divien nuvola per ridivenir poi acqua di nuovo. E a spiegar questa vicenda bastava un povero professoruccio di fisica; ma a spiegare il perché del perché?” Tema: L’identità dell’uomo moderno; l’incomunicabilità; la critica ad una società falsa che fonda i valori sulla retorica del linguaggio: (da Pirandello, Il Fu Mattia Pascal, Cap. IX, Un po’ di nebbia) “Già nella trattoria che frequentavo in quei giorni, un signore, mio vicino di tavola, s'era mostrato inchinevole a far amicizia con me. Poteva avere da quarant'anni : calvo sì e no, bruno, con occhiali d'oro, che non gli si reggevano bene sul naso, forse per il peso de la catenella pur d'oro. Ah, per questo un ometto tanto carino! Figurarsi che, quando si levava da sedere e si poneva il cappello in capo, pareva subito un altro: un ragazzino pareva. Il difetto era nelle gambe, così piccole, che non gli rrivavano neanche a terra, se stava seduto: egli non si alzava propriamente da sedere, ma scendeva piuttosto dalla sedia. Cercava di rimediare a questo difetto, portando i tacchi alti. Che c'è di male? Sì, facevan troppo rumore quei tacchi; ma gli rendevano intanto così graziosamente imperiosi i passettini da pernice. Era molto bravo poi, ingegnoso - forse un pochino bisbetico e volubile - ma con vedute sue, originali; ed era anche cavaliere. Mi aveva dato il suo biglietto da visita: - Cavalier Tito Lenzi. Che bei discorsi sapeva fare il cavalier Tito Lenzi! Anche il latino sapeva; citava come niente Cicerone. - La coscienza? Ma la coscienza non serve, caro signore! La coscienza, come guida, non può bastare. Basterebbe forse, ma se essa fosse castello e non piazza, per così dire; se noi cioè potessimo riuscire a concepirci isolatamente, ed essa non fosse per sua natura aperta agli altri. Nella coscienza, secondo me, insomma, esiste una relazione essenziale... sicuro, essenziale, tra me che penso e gli altri esseri che io penso. E dunque non è un assoluto che basti a se stesso, mi spiego? Quando i sentimenti, le inclinazioni, i gusti di questi altri che io penso o che lei pensa non si riflettono in me o in lei, noi non possiamo essere né paghi, né tranquilli, né lieti; tanto vero che tutti lottiamo perché i

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nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre inclinazioni, i nostri gusti si riflettano nella coscienza degli altri. E se questo non avviene, perché... diciamo cosi, l'aria del momento non si presta a trasportare e a far fiorire, caro signore, i germi... i germi della sua idea nella mente altrui, lei non può dire che la sua coscienza le basta. A che le basta? Le basta per viver solo? per isterilire nell'ombra? Eh via! Eh via! Senta; io odio la retorica, vecchia bugiarda fanfarona, civetta con gli occhiali. La retorica, sicuro, ha foggiato questa bella frase con tanto di petto in fuori: « Ho la mia coscienza e mi basta ». Già! Cicerone prima aveva detto: Mea mihi conscientia pluris est quam hominum sermo. Cicerone però, diciamo la verità, eloquenza, eloquenza, ma... Dio ne scampi e liberi, caro signore! Nojoso più d'un principiante di violino! Me lo sarei baciato. Se non che, questo mio caro ometto non volle perseverare negli arguti e concettosi discorsi, di cui ho voluto dare un saggio; cominciò a entrare in confidenza; e allora io, che già credevo facile e bene avviata la nostra amicizia, provai subito un certo impaccio, sentii dentro me quasi una forza che mi obbligava a scostarmi, a ritrarmi. Finché parlò lui e la conversazione s'aggirò su argomenti vaghi, tutto andò bene; ma ora il cavalier Tito Lenzi voleva che parlassi io.”

Tema: Letteratura e psicoanalisi; il tema della famiglia; il conflitto padre- figlio

Italo Svevo, La coscienza di Zeno, cap. La morte di mio padre:

Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere? Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò: – Muoio! E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli poté sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto! Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell’orecchio: – Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato! Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più: – Ti lascerò movere come vorrai. L’infermiere disse: – È morto. Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza! Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia. Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era

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impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre! Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l’infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: – Il padre alzò alto alto la mano e con l’ultimo suo atto picchiò il figliuolo. – Egli lo sapeva e perciò Coprosich l’avrebbe risaputo. Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere. L’infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma. La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più rivederlo. Tema: Letteratura e psicoanalisi- il sogno come segno-metafora dell’io I. Svevo, da La coscienza di Zeno, Cap. La moglie e l’amante: ”Ebbi un sogno bizzarro: non solo baciavo il collo di Carla, ma lo mangiavo. Era però un collo fatto in modo che le ferite ch’io le infliggevo con rabbiosa voluttà non sanguinavano, e il collo restava perciò sempre coperto dalla sua bianca pelle e inalterato nella sua forma lievemente arcuata. Carla, abbandonata fra le mie braccia, non pareva soffrisse dei miei morsi. Chi invece ne soffriva era Augusta che improvvisamente era accorsa. Per tranquillarla le dicevo: «Non lo mangerò tutto: ne lascerò un pezzo anche a te». Il sogno ebbe l’aspetto di un incubo soltanto quando in mezzo alla notte mi destai e la mia mente snebbiata poté ricordarlo, ma non prima, perché finché durò, neppure la presenza di Augusta m’aveva levato il sentimento di soddisfazione ch’esso mi procurava. Non appena desto, ebbi la piena coscienza della forza del mio desiderio e del pericolo ch’esso rappresentava per Augusta e anche per me.”

Alcune questioni in breve:

1. la questione del male

Il romanzo come narrazione per arrivare a conoscere il proprio io si rivela come uno scacco ma Gadda scrive in una sfida continua con se stesso. La scrittura non è terapia psicoanalitica, autoironica e riflessiva come per Svevo, non è ricerca dell’autenticità per lo svelamento delle maschere nude come per Pirandello, nel conflitto tra Forma e Vita, quanto piuttosto una spinta etica impietosa scaturita dalla riflessione sul dolore esistenziale e universale, germe individuale riferito al suo forte e radicato senso di colpa (quella di essere il figlio sopravvissuto) e a quello universale di tutti gli uomini e non ascrivibile ad un determinato contesto storico ma sub specie aeternitatis, irredimibile: in uno dei suoi ultimi scritti, il dialogo, L’egoista, approfondisce la questione del male e dell’infelicità che risiede appunto nell’egoismo e nell’egotismo ovvero amor proprio. Echi leopardiani tratti dai Pensieri e dalle pagine dello Zibaldone che l’Autore conosceva bene fin dagli anni della sua prigionia a Rastatt nella prima guerra mondiale. L’egoismo risponde al desiderio onnivoro dell’uomo di possedere per sé e l’amor proprio corrisponde al desiderio di piacere agli altri, destinati entrambi a condannare l’uomo all’infelicità.

2. Ars scribendi gaddiana

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Gadda non appartiene a nessuna corrente, è semplicemente lo scrittore Gadda, nato a Milano nel 1893 e morto a Roma nel 1973. Uno scrittore e non artista, come lui stesso diceva, che, partito con la volontà di trovare un’ armonia nel disordine del mondo, arriva a constatarne l’ineliminabile disarmonia precostituita. Ammiratore di Manzoni per il valore epistemico dato alla parola caricandolo di un valore etico, e dell’opera pittorica di Caravaggio, il Nostro, arricchita e sostanziata la sua vena narrativa di filosofia e scienza (autori di riferimento: Leibniz, Spinoza, Pareto, Godel, Freud), scrive i suoi racconti e romanzi riferendosi sempre alla realtà colta dalla superficie al nucleo con occhio fotografico, con un linguaggio autopoietico, che si autoinventa di continuo, un linguaggio che è metafora e metonimia, somiglianza e contiguità, linguaggio che interpreta e quindi deforma il reale rappresentato. Gadda affronta la trama narrativa cercandone la causa prima e si accorge che invece esistono cause e concause che si intrecciano, lo scrittore vuole cogliere una totalità e il suo linguaggio “pastiche”, mescidato di termini dialettali, aulici, settoriali, mediante una combinazione di registro formale e informale, giunge a rappresentare la varietà del mondo, le molteplici varianti dell’esistenza umana, con l’intento etico di sgombrare il campo ad ogni vacua esaltazione antropocentrica, un intento che combina l’afflato lirico con il tono tragico e comico: a una situazione bassa corrisponde un linguaggio elevato e viceversa. Si può fare un collegamento con il romanzo “Il fu Mattia Pascal”in cui Pirandello fa dire a un personaggio, Anselmo Paleari nel capitolo XII, un’espressione che può essere accostata a quanto suddetto e riconducibile alla sua concezione poetica dell’umorismo come filo rosso della letteratura moderna che si realizza nella combinazione di tragico e comico:

“ La tragedia d'Oreste in un teatrino di marionette! - venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. - Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.

- La tragedia d'Oreste?

- Già! D'après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l'Elettra. Ora senta un po’, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.

- Non saprei, - risposi, stringendomi ne le spalle.

- Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.

- E perché?

- Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl'impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.”

3. Gadda, Dostoevskij e il romanzo polifonico

Il genere tragico e quello comico si fondono per accentuare gli aspetti paradossali e imprevedibili della realtà, per scavare nel sottosuolo della coscienza dei personaggi. Fondamentale a tal proposito è l’influenza su Gadda del romanziere russo Dostoevskij, da lui molto ammirato, in particolare per il tema del male, gli impulsi neri dell’uomo, il suo anelito a sublimare le passioni, i desideri segreti.

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Il finale del Libro V, quello in cui figura anche la narrazione da parte di Ivan del suo poema scritto da Ivan, Il grande inquisitore, al fratello Alioscia, “ Fa piacere parlare con un uomo intelligente” del romanzo “I fratelli Karamazov” può essere accostato per affinità con La Cognizione del dolore, per l’idea dell’omicidio di un genitore la cui responsabilità morale e l’esecuzione materiale finiscono per coinvolgere più personaggi. Se per Gadda l’impianto narrativo dei due romanzi ha un epilogo aperto, non è rilevante il compimento dell’intreccio, anche per Dostoevskij l’impianto narrativo è un pretesto per un’ulteriore trivellazione della psiche umana, non è importante chi ha ucciso il padre dei tre fratelli Karamazov, il viscido usuraio Fedor Pavlovic, perché la questione fondante ruota attorno alla riflessione sul tema della colpa, della presenza del male e della sua giustificazione e della libertà. Secondo S. Freud nel suo saggio,"Dostoevskij e il parricidio" “I fratelli Karamàzov sono il romanzo più grandioso che mai sia stato scritto, l’episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo di bellezza inestimabile. Purtroppo dinanzi al problema dello scrittore l’analisi deve deporre le armi.” Dostoevskij realizza secondo il critico Bachtin(1895-1975- sue opere: Estetica e romanzo, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Dostoevskij.) il romanzo polifonico in cui anche la coscienza del lettore è coinvolta e spinta ad interrogarsi, costretta a pronunziarsi. Romanzo "polifonico" è per Bachtin la narrazione in cui avviene la fusione e la mescolanza degli stili, dei generi, dei livelli (sacro e profano, sublime e infimo, forma-saggio e narrazione pura); è la forma in cui si attua il pluralismo e la mobilità dei punti di vista e dei linguaggi. Secondo Bachtin, infatti, la parola del romanzo può essere unidirezionale e omogenea - monologica - chiusa in un contesto gerarchico e organizzato (è la parola dell’epica e del romanzo realista, secondo lo stile di Balzac, Stendhal, privilegiato dal critico Lukacs), oppure più in aderenza alla visione moderna può essere dialogica e polifonica, aperta al discorso e alle voci altrui oltre che all’oggetto del discorso

4. Un giudizio di Italo Calvino su Gadda

Gadda, come molto chiaramente osserva Calvino, si inserisce tra i narratori che segnano il moderno romanzo del ‘900 ma occorre sottolineare che l’Autore non intende rompere con la lingua, né con la letteratura, né con la società del passato, verso le quali invece esprime per lo più ammirazione; rompe invece, e in modo esplosivo, con la realtà presente di un uso micidialmente limitativo (sia esso conservatore-moraleggiante-idealizzante, o eversivo-parolaio-estetizzante) del grande patrimonio linguistico di cui la tradizione, attraverso secoli di letteratura e di vita associata (le due concepite come indissolubilmente legate), ci ha dotato; Gadda usa l’aggettivo «spastico» (da «spasmo») per qualificare le deformazioni dell’espressione letteraria vista come «tensione (o spasmo) poetica», «tensione spastica dell’intelligenza dell’autore e del lettore». Scrive infatti Calvino in una lettera pubblicata sulla rivista “Il Caffè” del 1969: “ Scrivo questo forse anche sotto l’influenza della lettura recente del libro di Gian Carlo Roscioni, La disarmonia prestabilita, che ricostruisce sui testi editi e inediti il sistema del mondo di quest’ultimo «filosofo naturale» che è Carlo Emilio Gadda. Infatti, il nucleo della ricerca di Gadda (filosofo e scrittore, perché i due si confondono in ogni riga) risulta essere – tramite l’arte combinatoria di Leibniz – proprio quello dei nostri discorsi. L’oggetto dello scrivere di Gadda è il sistema di relazione tra le cose, che attraverso una genetica combinatoria mira a una mappa o catalogo o enciclopedia del possibile, e, risalendo una genealogia di cause e di concause, a collegare tutte le storie in una, nell’intento eroico di liberarsi dal groviglio dei fatti subiti passivamente contrapponendo loro la costruzione

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d’un «groviglio conoscitivo» – o, noi diremmo, d’un «modello» – altrettanto articolato. Intento continuamente frustrato: la complessità dei vorticosi processi di trasformazione s’espande in labirinti concentrici e non tarda ad aver ragione del più ostinato ottimismo gnoseologico; la speculazione di Gadda è eroica perché tragica. Da tempo non leggevo esposizione di filosofia che m’appassionasse e «convincesse» quanto questa. […] (M’accorgo che in questo capoverso ho toccato la fondamentale differenza tra il nostro attuale orizzonte speculativo e quello di Gadda: il «modello» di storia unica cui Gadda tende non è quello riduttivo e semplificatore di Propp o Greimas ma è un modello inclusivo e totalizzante. Il procedimento di Gadda va dal complicato al complicato, dalla complicazione subita alla complicazione prestabilita e poi subito di nuovo soverchiante, di cui la formula algebrica è solo un fragile schermo). […] Rifacendomi all’uso spastico del linguaggio (e della ragione) nel Gadda di Roscioni definirei il «modello operativo (l’organon)» di Milanese: modello spastico. È questa macchina letteraria spastica che agisce attraverso l’autore, la vera responsabile dell’opera, ma essa non funzionerebbe senza gli spasmi d’un io immerso in un tempo storico, senza una sua reattività, una sua ilarità convulsa, una sua rabbia da dar la testa contro i muri.”

La villa di Longone La villa, la famiglia Gadda, lo scrittore è il primo a sinistra

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La madre e la sorella di Gadda

5. La casa, la madre, il dolore

L’origine prima del dolore ha le sue radici nella figura materna, amata e odiata al contempo, ammirata per la capacità di mantenere economicamente la famiglia, di guidarla anche senza il marito, odiata per le sue manie borghesi, l’attaccamento a certi formalismi sociali di classe. Cui non risere parentes si ricordano i versi dell’egloga IV di Virgilio: colui al quale non hanno sorriso i genitori; Gadda ha sofferto per una certa mancanza di affettività della madre che d’altra parte, laureata in Lettere, insegnante di Francese, esigente e severa, guidò e condizionò la sua formazione culturale e non solo. La madre è anche colei che obbliga la famiglia a vivere in ristrettezze e sacrifici pur di continuare la costruzione della villa di Longone. Gadda più volte fa un parallelo tra sua madre, Adele Lehr, e la madre dispotica di G. Leopardi, Adelaide Antici; significativo è il fatto che il nome della madre di Gonzalo nel romanzo La cognizione del dolore, fosse in un primo tempo Adelaide poi cambiato in Isabelle François come per una sorta di autocensura, di occultamento, di riserbo sofferto. Questa casa mai abitata e vissuta, odiata da Gadda, venduta subito dopo la morte della madre, viene vista come emblema di una concezione borghese della vita centrata sull’esteriorità, su uno stile di vita sfarzoso e vuoto di affetti, inoltre è il simbolo della sua ossessione, del suo risentimento che sfocerà nelle pagine del romanzo autobiografico La cognizione del dolore, scritto dopo la morte della madre.

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Quattro indicazioni di massima per orientarsi nel continente gaddiano

I fatti salienti biografici

L’educazione materna la costruzione della villa di famiglia a Longone in Brianza la partecipazione alla Prima Guerra mondiale e la prigionia gli studi imposti dalla madre di Ingegneria e i suoi viaggi per lavoro in diverse parti di Italia

e del mondo tra cui in America del Sud la scelta della vocazione letteraria e gli anni dedicati alla scrittura trascorsi a Firenze prima e

a Roma poi con la frequentazione di scrittori e altri intellettuali Il lavoro come giornalista alla Rai La scelta della solitudine degli ultimi anni trascorsi in compagnia di pochi amici.

Lo stile gaddiano

Il plurilinguismo- il pastiche (registro alto e basso, linguaggi diversi: aulici, dialetti, citazioni latine, linguaggi settoriali ( termini medici-tecnici-scientifici), neologismi)

l’uso della similitudine, della metafora, della metonimia, dell’analogia il discorso indiretto libero la sintassi della interferenza( le pause, le digressioni) il narratore extradiegetico la focalizzazione multipla il tragico e il comico con effetto straniante

I TEMI GADDIANI

La questione della lingua Il problema del male la visione problematica e critica della famiglia il rifiuto della visione trionfalistica dell’artista concepito come poeta-vate il personaggio antieroico la ricerca della parola come testimonianza della complessità del mondo la psicoanalisi nella letteratura ( i sogni)

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Gli autori di riferimento

gli autori amati

gli autori studiati come

maestri di stile e poi

sottoposti a critica

Gli amici scrittori coevi

stimati e/o affini

Gli scrittori di primo Novecento collegabili per

tematiche

Dante

Boccaccio

Shakespeare

Machiavelli

Molière

Parini

Porta

Belli

Manzoni

Leopardi

Balzac

Flaubert

Stendhal

Dickens

Dostoevskij

Baudelaire

Carducci

Verga

Pascoli

D’Annunzio

Tecchi

Bacchelli

Betti

Celine

Montale

Pasolini

Pirandello: parallelo tra forma e parvenza

Svevo: psicoanalisi e letteratura

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I pensatori di riferimento(filosofi, scienziati)

In particolare:

Spinoza (1632-1670)

Leibniz- (1646-1716) il quale sostiene nella Monadologia che ogni corpo risente di tutto ciò che accade nell’universo e ogni stato presente di una sostanza semplice è per sua natura una conseguenza dello stato precedente tanto che il presente è gravido di futuro. Da qui la teoria delle concause(si veda Quer pasticciaccio)

Henri Bergson (1859-1941) il filosofo autore del libro Materia e memoria (1896), che ha influenzato la cultura europea con la sua teoria dello slancio vitale, dell’evoluzione creatrice

Sigmund Freud (1859-1939) fondatore della psicoanalisi, ha studiato i meccanismi della mente umana scoprendo e teorizzando l’inconscio. Una via privilegiata per addentrarsi nell'inconscio é per Freud data dall' interpretazione dei sogni.

Godel- (1906 -1978) Matematico, filosofo- Il Teorema di Incompletezza di Godel afferma: "Per ogni sistema formale di regole ed assiomi è possibile arrivare a proposizioni indecidibili, usando gli assiomi dello stesso sistema formale" . Tale teorema unito al Principio di Indeterminazione di Heisenberg: "Non possiamo mai conoscere contemporaneamente e con precisione la posizione e la quantità di moto di una particella subatomica" postulano la inconoscibilità dell’universo, contribuiscono a demolire qualunque fede nell’assolutismo razionalistico; lo straordinario risultato di Godel dimostra addirittura che a dispetto di tutti gli sforzi possibili, qualsiasi sistema formale può produrre teoremi indecidibili (ovvero né veri, né falsi): l’uomo non è quindi in grado di produrre sistemi di rappresentazione, o modelli, “perfetti”.

La docente

Angela Pagnanelli

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Bibliografia

Libri citati e pubblicati in vita da Carlo Emilio Gadda

C. E. GADDA, La Madonna dei Filosofi, ed. Solaria, 1931

C. E. GADDA, L’Adalgisa, Le Monnier, 1944

C. E. GADDA, Il primo libro delle Favole, Neri Pozza, 1952

C. E. GADDA, Giornale di guerra e di prigionia, Sansoni, 1955

C. E. GADDA, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, Garzanti, 1957

C. E. GADDA, I viaggi la morte, Garzanti, 1958

C. E. GADDA, Accoppiamenti giudiziosi, Garzanti, 1963

C. E. GADDA, La cognizione del dolore, Einaudi, 1963

C. E. GADDA, Eros e Priapo, Garzanti, 1967

C. E. GADDA, Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale

del Foscolo, Garzanti, 1967

Libri pubblicati postumi:

C. E. GADDA, Meditazione milanese, a cura di Gian Carlo Roscioni, Einaudi, 1974

C. E. GADDA, Taccuino di Caporetto, a cura di Giulio Ungarelli Garzanti, 1991

Gadda al microfono: l’ingegnere e la Rai, a cura di Giulio Ungarelli, Eri, Roma,

2001

Alcuni testi critici:

G. C. Roscioni, La disarmonia prestabilita. Studio su Gadda, Einaudi, Torino, 1969

E. Ferrero, Invito alla lettura di C. E. Gadda, Mursia, Milano, 1972

G. Contini, Quarant’anni di amicizia, Einaudi, Torino, 1989

M. Bersani, Gadda, Einaudi, Torino, 2003

Sitografia:

The Edinburgh Journal of Gadda Studies

(http://www.arts.ed.ac.uk/italian/gadda/) Il responsabile del sito: Federica G. Pedriali (University of Edimburg)

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