Apprendisti neuroni. Formazione attiva degli insegnanti nella Scuola e nell'Università

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edizioni la meridiana p a r t e n z e Formazione attiva degli insegnanti nella Scuola e nell’Università APPRENDISTI NEURONI a cura di Susanna Barsotti – Enrico Euli

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I laboratori sono fondamentali nella prassi educativa? Spesso no. D’altra parte tra i manuali di didattica e quel che chiamiamo "scuola" la discrepanza è enorme. Sono i contesti a rappresentare i modelli dominanti, contesti che esprimono il conflitto con il nuovo, gli resistono. Il lavoro di gruppo e la cooperazione sono lasciati alla buona volontà di docenti e studenti. Una dimensione distante dall'accoglienza, dall’ascolto, con livelli alti di violenza strutturale e culturale. In tutto questo, un laboratorio che prova a rappresentare una contraddizione interna, una nicchia ecologica. Come rivela la spiazzante lettura di queste pagine, la visione ecologica dell’educazione è qualcosa di più complesso che "fare educazione ambientale", "insegnare una materia che si chiama ecologia", "creare un ambiente positivo per l'istruzione". Si propone come trasformazione degli atteggiamenti e si prefigge di modificare la cornice e i contesti della relazione di educativa e di apprendimento.

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ISBN 978-88-6153-195-6

9 788861 5 31 95 6

edizioni la meridianap a r t e n z e

Formazione attiva degli insegnanti nella Scuola e nell’Università

APPRENDISTINEURONI

a cura diSusanna Barsotti – Enrico Euli

Euro 16,50 (I.i.)

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

I laboratori sono fondamentali nella prassi educativa? Molto spesso, quasisempre, no. D’altra parte, tra i manuali di didattica e quel che chiamiamo“scuola”, soprattutto di questi tempi, la discrepanza è enorme. Sono i contestia manifestare, a rappresentare concretamente i modelli dominanti: e i contestiesprimono il conflitto con il nuovo, gli resistono, lo boicottano. Il lavoro digruppo e la cooperazione sono lasciati alla buona volontà di docenti e studenti,in una cornice costruita per andare proprio altrove: individualismo, compe-tizione, separatezza specialistica, dipendenze univoche e unilaterali, gerarchieimmobili e immotivate... Una dimensione distante dall’accoglienza,dall’ascolto, dalla cura, con livelli molto alti di violenza strutturale e culturale,e con situazioni evidenti di violenza diretta (sia a lezione sia, soprattutto,nel chiuso degli studi e durante gli esami...). In tutto questo, un laboratorioche prova a fare “altro”, l’opposto, tenta di rappresentare una contraddizioneinterna, una nicchia ecologica, uno spazio marginale. Come rivela la sorpren-dete e spiazzante lettura di queste pagine, la visione ecologica dell’educazioneè qualcosa di più complesso e di più ampio che “fare educazione ambientale”,“insegnare una materia che si chiama ecologia”, “creare un ambiente positivoper l’istruzione”. Si propone come trasformazione degli atteggiamenti e nonsolo dei comportamenti (attraverso accorgimenti o aggiunte di tecniche, dinuove materie o attività) e più in generale si prefigge di modificare la cornicee i contesti della relazione educativa e di apprendimento. Cioè una rivoluzionecopernicana.

Il volume, curato da Susanna Barsotti ed Enrico Euli, si avvale dei contributi diGrazia Dentoni, Maria Giovanna Floris, Andrea Mei ed Emanuele Ortu.

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a cura diSusanna Barsotti

Enrico Euli

APPRENDISTINEURONIFormazione attivadegli insegnantinella scuola e nell’Università

Con gli interventi di Grazia Dentoni,Maria Giovanna Floris, Andrea Mei,Emanuele Ortu

edizioni la meridianap a r t e n z e

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Indice Presentazione a cura del gruppo LibLab ................ 9

Introduzione di Susanna Barsotti ......................... 11

Introduzione di contrasto di Enrico Euli ............ 15

Parte PrimaLABORATORI: “GIOCO” ED“ESPRESSIVITÀ E ANIMAZIONE”con commento di Susanna Barsotti ed Enrico Euli

Giocare al circo nella catastrofedi Grazia Dentoni ................................................. 23

Un anno dopo… contrasto e differenza .............. 41

Profanazioni rituali (animate) di Andrea Mei ..... 45

Un anno dopo… contrasti schizofrenici ............. 69

Parte SecondaLABORATORI: “EDUCAZIONE ALLA LETTURA”con commento di Susanna Barsotti, Enrico Euli eAndrea Mei

Non è guerra tra cervellidi Maria Giovanna Floris ..................................... 77

Un anno dopo… i confini della libertà(Pennac effetto boomerang) .............................. 103

Inizi… di Emanuele Ortu ................................... 107

Un anno dopo… inferenti ................................. 133

Conclusioni ........................................................ 139

Bibliografia ......................................................... 141

Gli autori ............................................................ 147

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Presentazione

La storia è tutta qui: la vita è un sogno, è tutta una storiache ci raccontiamo... L’unica cosa che ci trattiene dal volare

via con il vento sono le nostre storie. Ci danno un nome eci mettono in un posto, ci permettono di continuare a toc-care. “Questo è il mio posto, questa è la mia storia. Qui la

conoscenza diventerà comprensione...”La conoscenza che diventa comprensione: quel che rimane

davanti a me sono io che guardo quel che ho di fronte. Enon posso fare altro che ridere...

Tom Spanbauer

Università di Cagliari, Facoltà di Scienze dellaFormazione, studio 34, fine 2010 d.C., internogiorno Il gruppo LibLab, come è ormai solito fare,segue il suo metodo: torna indietro per cono-scere e far riconoscere i membri del gruppo.Chi siamo (diventati)? Da dove veniamo? Com’èiniziata questa storia? Come eravamo prima diincontrarci tra noi in questa stanza?E qualcosa ritorna alla memoria...

Bordo piscina dell’Hotel Taloro, Festival “L’i-sola delle storie”, Gavoi, primi di luglio 2008d.C., esterno giorno Susanna, visti i bei risultati dei due laboratoricondotti dagli esperti di “Educazione alla let-tura”, Vanna e Emanuele (lei ipercinetica mae-stra elementare, lui esperto di letteratura perl’infanzia e ritardi ferroviari) aveva iniziato apensare: perché non scriverci su?Ai bordi della piscina decide di coinvolgereEnrico che risponde “Ben venga, ci sto!” e cosìcoinvolge gli esperti dei laboratori da lui coordi-nati: Andrea, “attore-economista” in fase diredenzione, Grazia, attrice e regista teatrale nonpentita, ed Elisabetta, maestra nella scuola del-

l’infanzia. Andrea aveva appena terminato illaboratorio di Espressività e Animazione, Graziaquello di Gioco ed Elisabetta si era dedicata aquello sull’Apprendimento Cooperativo.Il tutto all’interno del corso di laurea in Scienzedella Formazione Primaria, destinato alla for-mazione di futuri insegnanti della scuola del-l’infanzia e della scuola primaria.

Facoltà di Scienze della Formazione, studio 34,metà luglio 2008, interno giornoAlla prima riunione, nella calura estiva, la pro-posta viene formalizzata e condivisa da tutti. Sidecide di richiedere dei contributi all’Ateneoper avviare un progetto di ricerca proprio sulsignificato dei laboratori nella didattica univer-sitaria e, più in generale, sulle metodologie at -tive in educazione. Nasce così il gruppo LibLab(LIBro sui LABoratori? LIBeri LABoratori?LIBerali LABuristi?).

Gli interni e gli esterni giorno e notte si susse-guono: case, parchi, università, aeroporti, piz-zerie… dall’autunno 2008 all’autunno 2010Scritture, narrazioni, metariflessioni, conflitti,scontri, riscritture, tagli, bastonate, sfronda-menti e sfrontatezze, epurazioni, ostracismi, dee ri-costruzioni dell’Io e del Noi, Elisabetta cherinuncia...Le difficoltà di tempo aumentano e le energievanno su e giù, gli esperti lavorano (con passionee incoscienza) al progetto, cercando di infilarlotra i mille impegni lavorativi: il piccolo manipolosulla leggera imbarcazione supera però le tem-peste e prosegue la propria avventura. Il percorso intrapreso dal “gruppo LibLab”, apartire dall’elaborazione congiunta di un pro-getto di ricerca (finanziato, nel marzo 2009, confondi di Ateneo ex 5%), si è posto l’obiettivo diriflettere, scrivere individualmente e confron-tarsi, una o due volte al mese. Il testo chevedete è uno dei frutti di questo itinerariometodologico applicato a noi stessi, seguendogli intendimenti specifici del nostro corso dilaurea, ma – più in generale – di qualunque per-corso di vera formazione.

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Gli esperti di laboratorio presentano, autorifles-sivamente, le loro esperienze didattiche, ulte-riormente accompagnati – così come è avve-nuto nel corso della loro esecuzione – dal com-mento di Enrico e Susanna, in qualità di figuredocenti, responsabili della coordinazione edella supervisione dei laboratori stessi.

Aule della Facoltà di Scienze della Forma-zione, tra marzo e maggio del 2010, internogiornoInvitiamo altri docenti universitari ad un ciclodi laboratori e seminari che chiamiamo “In pra-tica”: Fulvio Manara e il suo gruppo, Pier-giorgio Reggio, Ivano Gamelli, danno a noi e adaltri un’ulteriore occasione/opportunità diriflessione/confronto con altre esperienze. Silavora sulla “P4C” (la “Philosophy for Chil-dren”), sulle metodologie (cosiddette) attive,sui laboratori del corpo...Nel frattempo si apre una nuova fase di scrit-tura del testo: inizia il commento sinottico deibrani da parte di Enrico e Susanna mentre glialtri, intanto, li integrano con quelli che ini-ziamo a chiamare “scritti di contrasto”: qualiriflessioni sono sorte nel confrontare il primoanno di laboratori con i due seguenti? Cosa ècambiato nel tempo, nella nostra visione dellavoro e nel nostro modo di guardarci (anchegrazie alle discussioni avvenute nel LibLab)?Ci interessa tagliare trasversalmente la nostralettura soprattutto su tre dimensioni: le teorie epratiche dell’apprendimento, la figura e gli stilidel docente, le metodologie attive.Ecco perché il volume, come vedrete, cercasempre di tenere aperte due strade:

• la presentazione e la narrazione delle espe-rienze di laboratorio;

• la meta-lettura sinottica, che cerca di dialo-gare con il racconto esperienziale, portandoin evidenza i modelli teorici e le implicazionimetodologiche sottostanti.

Una scelta strutturale come questa vorrebberappresentare anche su carta non solo quello

che è di fatto accaduto nei nostri incontri, maanche rispecchiare quel tentativo di integra-zione tra teoria e prassi che sta alla base delnostro intero percorso di ricerca.

Cagliari, fine 2010 d.C.

Il gruppo LibLab

Susanna BarsottiGrazia Dentoni

Enrico EuliMaria Giovanna Floris

Andrea MeiEmanuele Ortu

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Introduzionedi Susanna Barsotti

È ormai assodato per la didattica il ruolo fonda-mentale svolto dalle pratiche educative centratesu metodologie laboratoriali all’interno dell’at-tività di insegnamento, soprattutto se rivolte almondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Il corso di laurea in Scienze della FormazionePrimaria, per suo stesso fondamento, almenofino a questo momento, ha esplicitato l’obiet-tivo di rendere l’insegnante animatore e facilita-tore dei processi educativi e il fatto che si pro-pongano laboratori all’interno del percorso distudio mirato a formare proprio questa figuraprofessionale, nasce dal tentativo di iniziare arealizzare questa idea. Il D.M. del 26 maggio1998, infatti, stabilisce che, per il Corso diLaurea in Scienze della Formazione Primaria:

“Le attività didattiche comprendono il labora-torio ed il tirocinio. Alle attività di laboratorioè destinato non meno del 10 per cento dei cre-diti formativi relativi al corso di laurea […]”1

e definisce come laboratorio

“l’analisi, la progettazione e la simulazione diattività didattiche […], con intervento coordi-nato di docenti di entrambe le aree”2.“I requisiti fondamentali dell’insegnamento, il‘sapere’ e il ‘saper fare’, costituiscono i presup-posti indispensabili e inseparabili della forma-zione degli insegnanti, presupposti che devonoprendere vita nell’ambito stesso in cui il sapereviene costituito e trasmesso. Questa sinergia si èrealizzata nei corsi di laurea in Scienze della For-mazione Primaria, istituiti dal D.M. 26 maggio1998 [...]. L’offerta didattica del corso di laureaprevede un biennio propedeutico [...] e una for-mazione trasversale sulle metodologie e tecno-logie didattiche nel biennio di indirizzo. Le atti-

vità formative integrano insegnamenti teoricicon laboratori, nonché con esperienze di tiro-cinio guidato [...]. Il nucleo forte di questo corsodi laurea è rappresentato da un modello currico-lare centrato sulle competenze professionali esull’integrazione fra teorie e pratiche che si rea-lizza nei laboratori e nel tirocinio3.”

Poiché il regolamento attuale impone l’obbligodi frequenza per i laboratori (fatto che, almenoformalmente, non vale per le lezioni) si generaspes so un effetto paradosso: gli stu den ti ri -schiano di perdere motivazione per un’attivitàobbligatoria e talvolta partecipano ai laboratorisoltanto perché la sola frequenza produce auto-maticamente l’idoneità e l’elargizione di crediti.

Infatti,

“l’attivazione dei laboratori introduce nei cur-ricoli di formazione universitaria elementididattico-metodologici di revisione delle moda-lità e del processo di insegnamento-apprendi-mento e dell’organizzazione didattica che nonlasciano inalterati i ruoli dei principali co-attoridella relazione e del contesto entro cui essi sirealizzano [...]. Si può osservare come, sul ver-sante dei docenti universitari, la realizzazionedei laboratori esiga una preparazione profes-sionale che, accanto alle competenze teoretico-culturali di natura scientifico-disciplinare, facciaproprie anche quelle di ordine metodologico-didattico e relazionali necessarie ad orientarel’esercizio della funzione docente in direzionedelle differenti richieste che la supervisione e latutorialità esercitate nel nuovo setting d’a-zione implicano, rispetto alla tradizionalelezione frontale [...]. Gli studenti hanno modo,d’altro lato, di interagire con dimensioni plu-rime della realtà [...] e, con atteggiamentoinvestigativo, euristico ed interpretativo, digiungere [...] a vagliare, de-costruire e ri-costruire, talvolta anche in modo del tutto ori-ginale, conoscenze, percorsi di studio e pro-getti di intervento4.”

Dunque il laboratorio occupa un posto impor-tante nella formazione dell’insegnante, anchenella nuova bozza di riforma per il corso dilaurea è ribadita la sua centralità:

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“In coerenza con gli obiettivi indicati il corso dilaurea magistrale prevede accanto alla maggio-ranza delle discipline uno o più laboratoripedagogico-didattici volti a far sperimentareagli studenti in prima persona la trasposizionepratica di quanto appreso in aula […]”5

Il rapporto laboratorio-scuola, si sa, arriva dalontano, nasce con John Dewey e si sviluppa conil diffondersi delle idee dell’attivismo. Tale inno-vazione ha saputo connettere tra loro le dimen-sioni dello sviluppo, ovvero gli aspetti socioaffettivi e cognitivi delle singole età evolutive,con gli oggetti simbolico-culturali, ovvero lestrutture della conoscenza umanistica e scienti-fica, all’interno di una scuola intesa come luogoprivilegiato della mediazione formativa tra la“natura” dell’allievo e la “cultura” della società;come ricorda Franco Frabboni la scuola attiva

“Può essere archiviata come un modello scola-stico ‘tutto laboratori’. In questa modellistica illaboratorio indossa prevalentemente la vestedidattica dell’atelier delle attività espressivo-creative, proprio per l’esigenza di soddisfare lemotivazioni alla fantasia, all’avventura, almovimento, all’esplorazione, alla costruzione,al fare da sé fortemente declassate e mutilatedai modelli scolastici tradizionali: nozionistici,mnemonici, astratti.”6

Dalla sua origine ad oggi, il laboratorio con-serva alcune specificità che lo rendono fonda-mentale nel processo di formazione: innanzi-tutto esso presenta un congegno scientifico suoproprio. Il laboratorio, infatti, ha la capacità diregistrare, nel processo di apprendimento, queifatti formativi che, per i loro coefficienti di ripe-titività, possono portare alla formulazione diuna “generalizzazione”, di una “categorizza-zione” formale; da qui permette di costituire unmodello teorico per tornare poi ai fatti dell’e-sperienza educativa. La logica formale dei labo-ratori, quindi, si fonda sull’interazione dialet-tica tra azione e pensiero

“nel senso che la tensione al cambiamento (l’a-zione) assicura alla teoria pedagogica (il pen-siero) di essere rivolta permanentemente verso

gli orizzonti ‘limite’ dell’innovazione trasfor-mazione dei processi formativi”7

I “fatti” precedono la teoria visto che la genera-lizzazione-categorizzazione teoretica è possibile apartire da questi; posto questo, allora, non è piùpossibile relegare i laboratori a mera prassi, asemplice esperienza pratico-operativa estempo-ranea, lasciando, come spesso accade, alla lezionefrontale il primato del palinsesto educativo.L’altro aspetto di valore che caratterizza i labo-ratori sta nel fatto che essi pongono al centro ibisogni e gli interessi del soggetto che appren -de; costituiscono una sorta di termometro deilivelli cognitivi di partenza come anche delleesigenze e delle motivazioni di cui gli allievistessi sono portatori e che tendono invece adessere marginalizzati e deprivati nella contem-poranea società dei consumi. Ma non si limi-tano a registrare i bisogni, diciamo così, inentrata. I laboratori, infatti, permettono anchedi generare bisogni nuovi facendosi sede di pro-duzione di cultura in quanto contesto didatticodi informazione-ricerca-creatività. Infine, comerileva ancora Frabboni, il laboratorio presentauna specifica “marca sperimentale”:

“lo stile sperimentale apre le porte a unduplice principio metodologico: il criterio ditrasferibilità e la pratica plurale. Il criterio ditrasferibilità risponde a questo interrogativo.In quali condizioni e con quali procedure è pos-sibile trasferire e riprodurre (con modalità noncalligrafiche, di mera fotocopia) un modellodidattico (teoreticamente fondato) in una sedediversa da quella che l’ha partorito? Qualisegni distintivi deve esporre un’esperienzadidattica perché possa presentare la dote (laqualità) della trasferibilità? A partire da questaposizione, il criterio di trasferibilità fa tutt’unocon la cifra della plurilateralità. Nel senso chel’attività laboratoriale si ricopre di cifre plurali(quindi di elevati coefficienti di trasferibilità)proprio perché dice risolutamente no a modellioperativi (strategie, procedure, pratiche)mutuati da univoche teorie dell’apprendi-mento […]. Soltanto la didattica plurilateraleche popola i laboratori è in grado di tenereconto della ‘vitalità’ e della ‘generatività’ edu-cative presenti nelle diverse teorie dell’appren-

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dimento che postulano il sistemico ricorso auna metodologia ‘plurale’”8

nel fare didattica. I laboratori consentono didisporre di più strategie logico-costruttive equesto, per gli “educandi”, siano essi bambini oadulti in formazione, significa permettere lorodi padroneggiare più punti di vista nel percorsodi decostruzione e reinvenzione delle cono-scenze. D’altra parte non può essere altrimentise obiettivo del laboratorio è principalmente lametacognizione, il saper riflettere sulla cono-scenza, il saper imparare ad imparare autono-mamente. La riflessone metacognitiva “pensa ipensieri”9, permette di risalire a quell’insiemedi idee, teorie, convinzioni che guidano l’azionee le esamina per verificare il valore conoscitivoe le possibili implicazioni performative. Inquesta prospettiva, teoria e prassi non stannopiù in un ordine gerarchico e anche la figura delformatore/educatore e quindi anche dell’inse-gnante, si modifica, acquista nuove connota-zioni.Se per prassi intendiamo “un agire pratico illu-minato da una teoria che si costruisce nel con-testo dell’azione”10, occorre ripensarne il rap-porto con il teorico. È necessario riconcettualiz-zare la pratica riconoscendone il valore episte-mologico in quanto luogo di possibile elabora-zione di un sapere dotato di senso. Il praticodunque è colui capace di costruire sapere a par-tire dall’esperienza; la formazione tende adessere delineata prevalentemente nei terminidell’acquisizione di un sapere teorico da appli-care poi all’esperienza, ma una formazione cheabbia lo scopo di preparare degli educatori (equesto vale dunque anche per i laboratori delcorso di laurea in Scienze della Formazione Pri-maria), educatori

“che si situino nel mondo dell’educazionecome ricercatori-in-azione, deve invece pro-muovere la capacità di costruire sapere a par-tire dalla loro esperienza, e dunque non puònon prevedere percorsi mirati a mettere i par-tecipanti nelle condizioni di acquisire l’artedella riflessione”11

Lo “stile didattico” con cui tutto questo vienepromesso non è però secondario, e qui veniamoalla figura del formatore. Come ricorda MarcoDallari:

“il compito deontologico di affinare e perfe-zionare il proprio stile è importante almenoquanto rimanere aggiornati rispetto alle nuoveproposte metodologiche e alle più recenti pro-poste didattiche. La relazione didattica avvieneinfatti fra soggetti […]. La riconoscibilità della‘cifra stilistica’ dell’insegnante, dell’educatore,dell’animatore consente di trasformare ilmetodo e le metodologie in vissuti all’internodei quali siano capaci di ‘scorgere modelli’ etratti di persone”12

I responsabili della trasmissione del sapere,dunque, non devono avere soltanto l’ineludibilerequisito della conoscenza della cosa da tra-smettere, ma anche la capacità di mettere ingioco la loro persona in maniera il più possibileautentica ed efficace così da creare i contestiattraverso cui avvengono lo scambio intersog-gettivo delle conoscenze e la costruzione deinuovi saperi e dei nuovi vissuti generati daquesto scambio. È in questo contesto cheentrano in gioco le emozioni quali elementocentrale nel permettere apprendimenti signifi-cativi; in ambito educativo, tradizionalmente, ladimensione emozionale viene confinata altroverispetto ai “luoghi” dell’apprendimento in cuivengono potenziati soltanto i processi cognitividifendendoli proprio dai possibili attacchi delleemozioni. Eppure Jerome Bruner ci ricorda chel’interesse per la cognizione non dovrebbe pre-cludere quello per i sentimenti e le emozioni eche questi ultimi sono presenti nei processi delfare significato e delle nostre interpretazionidella realtà, esse costituiscono una parte inte-grante dell’educazione13. La nostra culturatende a disconoscere il valore del sentire e arivolgere l’attenzione solo alla parte razionaleattribuendole una sorta di primato; la culturadell’utile, del massimo profitto lascia pocospazio ad una direzione del processo educativocome se nascessimo già con la capacità di colti-vare la nostra sfera emotiva:

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“La vita umana è fatta di relazioni e la qualitàdelle relazioni è codipendente con la qualitàdella propria vita emotiva. L’educazione emo-tiva è necessaria non solo perché ogni processodi apprendimento è emotivamente connotato,ma anche perché la capacità di sentire è com-ponente essenziale della vita etica”14

Note

1. Cfr. D.M. 26 maggio 1998, pubblicato sulla Gazzetta Uffi-ciale 3 luglio 1998 n. 153, “Criteri generali per la disciplina daparte delle università degli ordinamenti dei Corsi di laurea inScienze della Formazione Primaria e delle Scuole di specializza-zione all’insegnamento secondario”, in www.miur.it/0006Menu_C/0012Docume/0015Atti_M/ 1011_Crite.htm,art. 2 comma 5. Consultato in data 18 agosto 2010.2. Ivi, art. 1, comma 1, lettera e).3. Leone, 2007, pp. 25-26.4. Mura, 2007, pp. 231-2.5. Cfr. Camera dei Deputati, Atto del governo sottoposto aparere parlamentare. Schema di decreto del Ministero dell’i-struzione, dell’università e della ricerca recante regolamentoconcernente la definizione della disciplina dei requisiti e dellemodalità della formazione iniziale degli insegnanti della scuoladell’infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria diprimo e secondo grado n. 205, art. 2 comma 1, in www.came -ra.it/_dati/leg16/lavori/AttiDelGoverno/pdf/0205.pdf. Consul-tato il 18 agosto 2010.6. Frabboni, 2004, p. 78.7. Ivi, p. 84.8. Ivi, p. 89.9. Cfr. Mortari, 2003.10. Ivi, p. 13.11. Ivi, p. 48.12. Dallari, 2000, p. 149.13. Cfr. Bruner, 2001.14. Mortari, op. cit., p. 77.

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Profanazioni rituali(animate)di Andrea Mei

La profanazione dell’improfanabileè il compito politico della generazione che viene.

Giorgio Agamben

Il rituale definisce la qualificazione che devono possederegli individui che parlano (e che, nel gioco di un dialogo,

dell’interrogazione, della recitazione, devono occupareuna certa posizione e formulare un certo tipo di enunciati);

esso definisce i gesti, i comportamenti, le circostanze,e tutto l’insieme dei segni che devono accompagnare il

discorso;esso fissa infine l’efficacia supposta o imposta delle parole,

il loro effetto su coloro che sono rivolte,i limiti del loro valore costrittivo.

Michel Foucault

Cos’è, dopo tutto, un sistema di insegnamento [...]se non una qualificazione e una assegnazione di ruoli

per i soggetti parlanti;se non la costituzione di un gruppo dottrinale almeno dif-

fuso;se non una distribuzione e un’appropriazione del discorso

coi suoi poteri e i suoi saperi?Michel Foucault

Sosterrò la tesi che il problema della graziaè fondamentalmente un problema d’integrazione,

e che ciò che si deve integrare sono le diverse parti dellamente [...]

Perché si possa conseguire la grazia,le ragioni del cuore debbono essere integrate

con le ragioni della ragione.Gregory Bateson

Laboratorio parte I: test di…frontalità

Diciassette polliciRecupero da un garage polveroso la grigiauniforme fumo di Londra del giorno dellalaurea con tanto di cravatta giallo-oro e camiciabotton-down a quadretti. Corredo il mio trave-stimento da laboratorio di espressività e anima-zione di occhiali, orologio dal cinturino in pellee lucide scarpe nere dalla fragorosa suola incuoio. Si parte.Percorro l’atrio dell’università con malcelatadisinvoltura, a testa bassa per il timore di incro-ciare qualche sguardo familiare che possa sma-scherare la messa in scena. Il diciassette pollicisulla spalla destra rende la mia andatura ancorapiù impacciata.Trovo un gruppo di quattro o cinque ragazzeche confabulano stancamente davanti alla portadell’aula 1 ancora sbarrata. La mia rapida com-parsa le coglie di sorpresa, così come il mio“Buongiorno” monotóno, recitato in modofugace e disinteressato. Provvedo per l’aper-tura, respiro profondo e via in classe. Gestimolto lenti e controllati, per offrire un’idea dipadronanza, mi concentro con precisionemaniacale su prese scart e di corrente per pre-parare il portatile all’azione. Non offro alcunospunto di contatto. Le studentesse seguono constupore appena accennato le mie mosse.Intanto il gruppo si infoltisce. Esco nuova-mente con passo deciso per richiedere l’accen-sione del videoproiettore. Quando riappaio sisono già incasellate, sparse tra le file frontali disedie. Ormai è tutto predisposto. Possosprofondare dietro la cattedra e rintanarmidietro la sicurezza che offrono le convenzioniarchitettoniche. Apro il Power Point e proiettole mie intenzioni con la schermata introduttiva:“Università degli studi di… Laboratorio di…condotto dal dott...”, che farà da sfondo alla

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prima parte dell’incontro. Attendo che si esau-risca il quarto d’ora accademico. Frattantoentrano le ultime ignare vittime. “Buongiorno”loro, “Buongiorno” io, senza scintille. Per ilresto silenzio. Ogni tanto uno sguardo panora-mico, senza cercare occhi. Per questo la ten-sione sale. Nove e quattordici: sfilo dalla borsaun plico di fogli. Nove e quindici in puntorompo gli indugi: che la lezione abbia inizio!

AndreaSiamo proprio sicuri che la lezione inizi con laparola? Cosa c’è prima della parola? Cosa pre-cede il linguaggio?Secondo Humberto Maturana1 ciò che rendepossibile il linguaggio è una coordinazione dicoordinazioni comportamentali. Per poter ma -neggiare i simboli linguistici dobbiamo inqualche modo essere già all’interno del lin-guaggio, che però è possibile solo con l’aper-tura di uno spazio relazionale. In altri termini,la comunicazione non è soltanto qualcosa che siproduce, ma qualcosa cui si partecipa2. Siamodentro forme di comunicazione che noi certa-mente contribuiamo a creare, ma questo nostropersonale contributo al processo comunicativoperò, da un lato, non è sempre intenzionale enon è mai totalmente controllabile e, dall’altro,non è riducibile a semplici meccanismi diazione e reazione tra i partecipanti. Per com-prendere un sistema di comunicazione in ter-mini complessi sarebbe più pertinente riferirsi aun piano sistemico-relazionale, in cui la comu-nicazione è un contesto, è un tessuto di rela-zioni che contiene al suo interno il momentodel passaggio informazionale (che comunqueretroattivamente la influenza3). Non c’è parolasenza contesto di comunicazione.Pertanto, se nell’urgenza di trasmettere e infor-mare sul piano dei contenuti, il contesto educa-tivo si trasforma nel territorio unico e incontra-stato della parola, rischiamo di perdere di vista leforme che orientano in senso metacomunicativol’attività educativa e che incorniciano contestual-mente e relazionalmente ciò che noi ci diciamo.Un pericolo che non è sempre facile scorgere, se

non si riconosce che la parola non ha origine conla produzione delle parole, con l’atto dell’enun-ciazione, ma è preceduta da un “ordine che anti-cipa il discorso”4. Come nella visione di uno ste-reogramma, senza un cambio di messa a fuocorimarremo destinati a inebetirci su punti sparsi,individuando al più qualche macchia colorata,senza che lo sfondo sottostante si componganella sua totalità.

“Desidero proporre in via preventiva un test divalutazione diagnostica per verificare le vostreattuali conoscenze sui temi del laboratorio.”Per lo più banali domande a risposta multipla –molto/abbastanza/poco/per niente –, domandeaperte – che cosa è per te…? – e, a fini allusiva-mente investigativi, quesiti sul loro andamentoaccademico (voti, numeri di esami sostenuti,ecc.).Diligentemente iniziano la compilazione. Dalfondo una studentessa (sono tutte studentesse!)alza la mano per chiedere chiarimenti. Secca-mente la blocco, la invito a zigzagare tra le fileper avvicinarsi alla cattedra e chiarire privata-mente i punti oscuri. In questa fase evito qua-lunque condivisione di gruppo. Le vedo impe-gnate nella scrittura. Talvolta cercano perplesseil soccorso da parte delle colleghe ma è suffi-ciente un mio sguardo perché desistano dal lorointento. Scadono i dieci minuti. Invitate allaconsegna, attivano con fatica i loro corpi edepositano i fogli davanti a me. Riprendonoposizione. Attendo il silenzio che puntualmentesi crea senza necessità di richiamarlo e partocon la fase Power Point. Fornitura di “brevestoria dell’animazione”.

AndreaHeinz Von Foerster sostiene che:

“non c’è da meravigliarsi che un sistema diistruzione il quale confonda il processo dicreare nuovi processi con l’elargizione di unbene chiamato ‘sapere’ o ‘conoscenza’ possacausare qualche delusione negli ipoteticidestinatari, in quanto, semplicemente, nonviene loro trasmesso alcun bene: di beni non

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ce ne sono. Storicamente, credo, l’equivocoper il quale si attribuisce alla conoscenza unarealtà sostanziale nasce con un volantinoumoristico stampato a Norimberga nel sedi-cesimo secolo. Esso mostra uno studenteseduto; in testa ha un buco, nel quale è inse-rito un imbuto. Accanto a lui è ritto in piedi ilmaestro, che versa nell’imbuto un secchiopieno di ‘conoscenza’, ossia di lettere dell’al-fabeto, numeri e semplici equazioni. Misembra che l’Imbuto di Norimberga abbiafatto per la pedagogia ciò che la ruota hafatto per l’umanità: adesso possiamo scen-dere la china molto più in fretta”5

Ribaltando Morin si potrebbe dire una testaben piena piuttosto che una testa ben fatta6.Studente come vaso vuoto da riempire, inse-gnante come somministratore di informazioni.Se l’educazione è intesa e realizzata esclusiva-mente come istruzione trasmissiva, l’apprendi-mento si traduce in semplice immagazzina-mento di informazioni, strumentale e agevol-mente verificabile in sede valutativa. Nozio-nismo da salotto. O da quiz televisivo, per ade-guarlo ai nostri tempi.

Per riflesso condizionato compare l’immanca-bile kit dello studente, si materializzano rassicu-ranti penne e taccuini. Avanzo spedito e inco-lore, incurante dei loro tempi. Le biro scorronovelocemente, i loro sguardi passano pronta-mente dallo schermo agli appunti. Il mio ritmoaumenta e le slide si susseguono sempre piùrapide senza lasciare loro il tempo di ultimare latrascrizione. Durante la nenia mi infosso lenta-mente nella sedia. Chi mi sta di fronte non è piùin grado di vedere il mio volto, completamentenascosto dal 17 pollici. Venticinque diapositivein dieci minuti. Fine. “Continueremo il pros-simo incontro. Qualche domanda?”. La prima,tecnica, rapidamente liquidata. La seconda,finalmente – è quasi passata un’ora –, è un sus-sulto di protesta; voce insicura su corpo impet-tito che tradisce il risentimento: “Ma il labora-torio… sarà tutto così?”. Non posso ancora sve-lare la manipolazione e allora sbrigativo“Certo”. Brusio. “C’è altro?”. Rumoroso silen -

zio. Lascio il tempo per far fermentare il vociointeriore. Rapida ricognizione mentale. Misembra di non aver dimenticato niente: forma-lismo relazionale, trasmissione di contenuti,prossemica gerarchica, standardizzazione del-l’attività valutativa… Niente di nuovo, non sitratta forse di rituali educativi consolidati all’in-terno delle aule accademiche? Dovremo per-tanto ritenerli esclusivi? Non si scorge il rischiodi un automatismo pedagogico, così siamo statiformati, così formeremo?

AndreaL’introduzione del concetto di rituale, ci con-sente di attuare un cambio di messa a fuoco,allargando lo sguardo dalla parola/figura alcontesto/sfondo laddove si pensa per configu-razioni piuttosto che per parti. Il rituale è ilmomento della “lezione”, un “sistema” formatoda un insieme eterogeneo di elementi: le condi-zioni spaziali dell’“aula”, la ripartizione deitempi, le strategie didattiche messe in atto, leproposte di natura relazionale, i linguaggi utiliz-zati, le forme di costruzione della conoscenza, imetodi di valutazione… Il compito dell’educa-tore diventa allora quello di pensare e imple-mentare strategicamente il reticolo connettivotra gli elementi che compongono il rituale,un’opera registica di attenta tessitura delletrame che connettono, lasciando nel contempospazio tra le maglie per l’accadere dell’evento,nella consapevolezza che la rete connettiva nonè controllabile unidirezionalmente. Questi ele-menti, però, per quanto siano il risultato dellescelte con cui un educatore prepara e prefigurala sua attività, configurano e connotano l’attoeducativo esclusivamente nel momento del suoaccadere. Il rituale è il momento del “fare” edu-cazione, lo spazio/tempo in cui pianificazione,programmi e strategie retrocedono aprendo lospazio alla presenza e prendono corpo all’in-terno del qui-e-ora della relazione educativa.Perché “non preesiste nessun senso all’azioneeducativa, è la relazione educativa che istituisceil senso, altrimenti si cade nel dogmatismo enell’intellettualismo, nel nozionismo”7. Detto in

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altri termini, il rituale educativo è la forma deicontesti di insegnamento/apprendimento. Agiresui rituali significa agire sulle forme dell’inse-gnamento e dell’apprendimento.

A questo punto spengo il portatile e finalmenteabbandono lo scranno. Che liberazione!Ma prima un passo indietro.

Questo è un ordine!Al momento del nostro ingresso nell’aula 1notiamo un semplice A4 affisso sulla porta cherecita nero su bianco: “si pregano i docenti diverificare che le sedie vengano lasciate nellaposizione corretta. Se ciò non verrà fatto nonverranno rimesse al loro posto”.

Raschiando un po’ di ottimismo, dovremmo sentirci pri-vilegiati nella possibilità di spostare le sedie e scombi-nare la geografia dell’aula, dato il rischio frequente diimbatterci in spazi accademici con sedili imbullonati alpavimento. Riemergiamo dalla parte mezza piena delbicchiere. “Le sedie vengano lasciate nella posizionecorretta”, lo tradurrei liberamente con l’invito/minaccia“rimettete le sedie in ordine!”. L’aula, lo spazio dedicatoalla pratica educativa, ha già un suo ordine (deldiscorso), ancor prima che la “lezione” inizi. Presentatoin questo modo, l’ordine – parola che richiama una(presunta) disposizione “naturale” ma anche un obbligo,comando, precetto – potrebbe essere visto come unordine uni-versale, un ordine che ha un suo uni-verso(nel senso più fedele all’etimo latino, “volto verso unasola parte”). Ha infatti un suo verso privilegiato, unadirezione su cui si apre. Ritornando all’A4 direi che, tro-vandosi in posizione “non corretta”, nella maggior partedei casi (inguaribile ottimismo) le sedie sarebbero più omeno ridisposte schierate in allineamento verso ununico punto di convergenza. Le sedie guarderebberofrontalmente verso la cattedra, il punto “da cui”, come silegge nella formula “lezione ex-cathedra”. La cattedraha assunto un valore simbolico legato all’identificazionee al riconoscimento del ruolo di insegnante al punto cheoggi si dice “assegnare la cattedra di…” per indicare lapresa in carico dell’insegnamento disciplinare. Ma cat-tedra rimanda anche a cattedratico, a qualcosa dipedantesco, saccente, di predicatorio (diremmo vesco-vile ricordando la cattedrale). Cattedra quindi come pul-pito, come punto dal quale si somministra e si vigila. Lacattedra, simbolo del rituale frontale.

Ci serviamo della “frontalità” come metafora, in primoluogo, dal punto di vista cognitivo per indicare unamodalità istruzionista che assume la forma di un vet-tore unidirezionale lungo cui passa il sapere da chi neè “in possesso” di una maggiore “quantità” (formal-mente certificata) a chi ne è sprovvisto (o menodotato). Un modello trasmissivo tout court. Informa-zioni pronte per essere recapitate. Istruzioni per l’uso.Semplice, lineare, sicuro.In secondo luogo, “frontalità” come metafora relazio-nale, come modo di intendere e vivere i rapportiall’interno dei contesti educativi: la conformazionestrutturalmente asimmetrica dei contesti educativiviene giocata in modo da rafforzare la complementa-rità dei ruoli, tracciare rigide linee di confine e accre-scere la distanza, la separazione e l’inavvicinabilità.Siamo in grado di scegliere come agire i rituali educa-tivi cui partecipiamo in qualità di educatori?

Torniamo al laboratorio.

Andrea“[…] La partecipazione ai rituali sociali è in granparte istintiva. La gente fa quello che fa, con-tinua a farlo, senza pensare a quello che stafacendo, a come farlo e a cosa significa. I ritualisono il risultato di soluzioni stabili e riuscite aproblemi provocati da circostanze sociali ripeti-tive.”8

Questa partecipazione automatica, ancorchécomprensibile nella vita quotidiana, non èaccettabile se ci proponiamo come professio-nisti (auto)riflessivi9 che operano in campo edu-cativo. Gli educatori non possono agiresecondo riflesso condizionato, non possonoporsi come inconsapevoli topi di laboratorio(altro che scienziati!), soltanto perché quell’e-sperimento ha raggiunto un grado istituziona-lizzato di consolidamento, ancorché tali ritualici forniscano protezione e rassicurazione. Irituali possono produrre gabbie e trappole, dicui noi stessi siamo corresponsabili se nonabbiamo

“la capacità di sospendere una ritualizza-zione inconsapevole […]. L’educazionesembra essere quella funzione che non siaccontenta dell’efficacia educativa dei rituali,i quali hanno certamente una loro efficaciaeducativa sul piano del condizionamento,

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dell’abitudine, ma che invece li utilizza facen-done momenti di consapevolezza”10

Il rituale educativo si compone di elementi chesi presentano in modo stabile e durevole indi-pendentemente dai soggetti che andranno adoccupare quei ruoli, e al di là delle specificitàindividuali (e le loro migliori intenzioni), le loroforme presentano delle regolarità che ne per-mettono la riproduzione stabile e condivisa;esiste un certo grado di accordo tacito nellapercezione degli elementi coinvolti e quindi uncerto grado di prevedibilità nella sua struttura.Il rituale quindi crea aspettative e codificaregole di comportamento. Dietro l’apparenzadei saperi, il rituale agisce in modo insidioso einsinuante sulla metacognizione. Queste raffi-nate tecniche creano, secondo la nota formulafoucaultiana, una nuova “microfisica delpotere”11 che riesce nell’intento di addestrarealle forme di relazione. Il rituale educativo è undispositivo che ha la capacità di “catturare,orientare, determinare, intercettare, modellare,controllare e assicurare i gesti, le condotte, leopinioni e i discorsi degli esseri viventi”12. Ildispositivo ha quindi una “funzione eminente-mente strategica”, che implica una “certa mani-polazione dei rapporti di forza, di un interventorazionale e concertato nei rapporti di forza, siaper orientarli in una certa direzione, sia perbloccarli o per fissarli e utilizzarli”13. Per questoè richiesta una accurata riflessione sulle pre-messe che agiscono dietro il fare quotidianodegli insegnanti, soprattutto in tempo di “com-plessità”, in un momento storico in cui scuola euniversità sono minacciati da agenzie formativepiù potenti e persuasive, e l’autonomia di questidue sistemi è minata da obiettivi e finalitàestranee al mondo dell’educazione. È perciòpossibile proporre dei rituali che consentano ditener conto di questi elementi di distorsione? Èpossibile agire consapevolmente dei rituali chesmascherino le logiche sottostanti e propon-gano nel contempo processi di conoscenza eapprendimento alternativi?

TransizioniMi lascio la cattedra alle spalle e, su di essa,come obsoleti utensili in esposizione museale,gli occhiali, l’orologio, il computer, i test.In piedi davanti a loro, fuori dalla fortezza,provo una sensazione di nudità. Riprendo fiatoallentando l’ultimo bottone della camicia e ilnodo della cravatta. Mi guardo divertito, devoapparire come un giovane yuppie all’happy hour.I segnali di cambiamento sono visibili, ma cercodi conservare una qualità gestuale ancora com-passata. Una lenta epifania senza coniglio dalcilindro ma con il gusto del lento fruscio di unvelo che lentamente si sfila; dare il tempo delladomanda, stare nell’incertezza e nello strania-mento. Ma basta questo perché le distanze ini-zino ad accorciarsi. I loro sguardi spauriti e inter-rogativi sembrano rasserenarsi al mio nuovorespiro. Sembra che la profanazione rituale abbiaavuto degli effetti.Procedo per gradi. Le invito a lavorare incoppia, a raccontarsi le opinioni depositatesulla carta. Propongo che sciolgano i legamiconsueti, perciò qualcuna è costretta ad abban-donare il proprio fortino. Chi sceglie la propriavicina, invece, se la cava con il minimo sforzo,una piccola torsione del capo, il corpo è altrove,rivolto sempre verso occhiali, orologio, com-puter, test… loro sono ancora lì. Più sospettoche curiosità. Il salto è pericoloso, richiedetempo. Le invito a orientarsi totalmente verso lerispettive compagne. L’aula si anima dello stri-dore delle prime sedie trascinate sul pavimento.Scomposti segnali di vita. Si intuisce dalle rea-zioni di stupore (seppur contenute) come qua-lunque piccola variazione dell’ingranaggio pre-visto possa portare a dei sussulti, come unimprovviso singhiozzo in un momento inoppor-tuno. Una piccola reazione all’incertezza e allosconosciuto. Sono costrette all’uscita dal-l’ombra. La formazione delle coppie consentealle studentesse di impossessarsi della parola,aprendo un momento di confronto tra paridove io sono inizialmente escluso.La proposta si articola: le coppie diventano

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prima quartetti e poi gruppi di otto; allora lageografia dell’aula si ridisegna, file e colonne sidisallineano, spezzate da cerchi più o menoregolari. Il fragore delle sedie compone unasinfonia di inesperti musicanti. La nuova confi-gurazione dà loro forza. Cercano contatto e tro-vano complicità. Brusio crescente. È il mo -mento delle prime timide confessioni. I gradi dipartecipazione, ascolto e accoglienza sonomolto differenti a seconda dei gruppi, ciascunodei quali compone autonomamente la propriadinamica interna, più o meno partecipata, più omeno accentrata. Al crescere del numero deicomponenti aumenta anche la complessitàinterna, forse diminuisce il grado di confiden-zialità ma non mi pare che il grado di reciprocacomplicità ne risenta.Qualcuna mentre parla mi rivolge uno sguardoindagatore, assicurandosi di non incorrere inritorsioni sanzionatorie. Lascio fare, mostrandodisinteresse e allora le loro perplessità possanoessere manifestate senza timore. Un clima dacarboneria: “che sta accadendo?”. Ilarità conte-nuta a stento. Intanto anche la giacca è allespalle e le maniche della mia camicia sono arro-tolate fino al gomito. Siamo entrati in unanuova fase. La percepiscono, ma attendono unatto, o meglio una dichiarazione “ufficiale” chedefinitivamente la sancisca.Quando il momento dei piccoli gruppi finisce,si forma un unico grande cerchio che scombinadefinitivamente lo schieramento iniziale; aquesto punto la cravatta con gesto platealescompare. I miei ritmi sono ormai decompressi,fluidi, il corpo liberato, il linguaggio sciolto. C’èun’aria strana, come di liberazione. Anche lamia. Non manca un residuo di diffidenza. Dovesta il trucco? Io sono una parte di questagrande circonferenza, senza più un centro privi-legiato, una direzione preferenziale. I sorrisitagliano il cerchio, in cerca di conferme. E con-traccambio. Si crea una tacita intesa.

Si delinea la forma spaziale del nuovo rituale. Alla fron-talità sostituiamo perciò la circolarità. Le bolle sparseprendono la forma di un cerchio comprendente e com-prensivo. Il cerchio come rotondità, come spazio non

gerarchico, senza direzione né verso, senza frontiopposti, dove le linee della comunicazione circolano,non si propagano frontalmente ma si incrociano a rete,tagliando uno spazio interno che tutti possono abitare eattraversare. Il luogo dell’equidistanza da un centro nonpreventivamente occupato. Cerchio come contenitoredi apertura, accoglienza, ascolto e co-creazione. Unospazio dove tutti possono essere guardati da tutti, spaziodemocratico dove giocare il gioco della reciprocità. Ilgioco della profanazione del rituale frontale ha apertouno spazio vuoto dove qualcosa di nuovo può acca-dere, ha attivato una dinamica trasformativa per nuovepossibilità didattiche ed esistenziali da esplorare.

Andrea

“Emile Benveniste ha mostrato che il gioconon solo proviene dalla sfera del sacro, mane rappresenta in qualche modo il capovol-gimento. La potenza dell’atto sacro – egliscrive – risiede nella congiunzione del mitoche racconta la storia e del rito che la ripro-duce e la mette in scena. Il gioco spezzaquesta unità: come ludus, o gioco di azione,esso lascia cadere il mito e conserva il rito;come jocus, o gioco di parole, esso cancellail rito e lascia sopravvivere il mito. ‘Se ilsacro si può definire attraverso l’unità con-sustanziale del mito e del rito, potremo direche si ha gioco quando soltanto una metàdell’operazione sacra viene compiuta, tra-ducendo solo il mito in parole o il rito inazioni’.”14

Il nostro gioco profanatorio ha operato nelladirezione della separazione, conservando intattala struttura del rituale, ma privandola dell’aurasacrale che emana il mito istruzionista; non spez-zare il rituale ma fletterlo verso un suo usonuovo, paradossale e neutralizzante. Il ribalta-mento, di per sé, costituisce l’apertura verso unuso nuovo del rituale stesso perché liberato dallastretta connessione col fine istruttivo.Ci siamo serviti proprio della stessa “microfi-sica del potere” offerta della frontalità per sma-scherare le sue forme sottostanti, disattivan-done così i meccanismi impliciti e facendonemomento di esperienza e di riflessione.L’intento profanatorio ci ha consentito di staredentro la frontalità, sfruttando in senso formativol’estremizzazione di alcuni suoi elementi consue-

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tudinari, modulandoli elasticamente, in una ten-sione progressiva, assumendoci il rischio di rag-giungere il punto di rottura. Momento che non siè poi verificato. Se lo spazio-tempo dell’educa-zione è tale da essere sospeso rispetto alle formedel quotidiano, allora il gioco del “fare finta” èstato un artificio educativo. La “drammatizza-zione” invisibile come espediente pedagogico. Un controparadosso: la frontalità in un con-testo laboratoriale, laddove ci si attende che ildispositivo frontale venga accantonato dallepratiche attive e sperimentali, ma proprio permostrare le opportunità creative che un con-testo laboratoriale ci offre. E nonostantequesto, man mano che l’esperimento proce-deva, risultava sempre più chiaro quanto ilmodello frontale avesse affondato le sue radici:il grado di assuefazione delle studentesseavrebbe permesso un’ulteriore progressionecomportamentale in senso autoritario. Del resto

“la configurazione degli organismi viventimanifesta ostensivamente i rapporti di rela-zione, e gli apprendimenti codificati, ritua-lizzati, divenuti stabili in virtù del continuoritornare sugli stessi contesti, creano formerese evidenti non soltanto dal codice ver-bale ma anche dall’assenza di parole, sipensi alle arti marziali, fondate sulla ripeti-zione meccanica delle figure, mai spiegatedalle parole del maestro, e dalle quali sor-tisce, dopo anni di esercizio, la configura-zione intera in forma di danza. Le forme, irituali, le metafore, tutti i linguaggi allusiviincontrano la nostra predisposizione acogliere messaggi – nella loro “ridondanza”– non del tutto spiegati.”15

Il rituale così profanato, lasciava uno spaziolibero e aperto da abitare con cura.

Non è ancora il tempo della rivelazione. Nuovasfida: invito le studentesse a salire in piedi sullesedie. E allora, dopo aver attivato la parola,mettiamo alla prova il corpo, l’ultimo baluardodifensivo, trovando, come è lecito, forti resi-stenze. Tutte in piedi sulle sedie e le sedie ordi-nate secondo un ipotetico continuum che va daun più ad un meno che indica il grado di espe-

rienza già maturata sul tema “espressività e ani-mazione”. Senza mai mettere i piedi per terra esenza comunicare verbalmente, trovare lavostra posizione in relazione alle altre. Perchémuoversi? E poi perché camminare sulle sedie?Proponiamo un momento di spiazzamento nonper il gusto del coup de theatre ma nella convin-zione che rappresenti un’opportunità di uscitadagli schemi di azione e di apprendimento abi-tuali, che nell’esperienza destabilizzante risie-dano i semi per una ristrutturazione cognitiva.Quella sensazione di sollievo faticosamenteconquistata inizia a vacillare. Ma l’irrequietezzaha preso una forma diversa, non è più costrettaal silenzio della frontalità, si manifesta in risa-tine incontrollate, voci in falsetto, commentiespliciti. Le parole non si possono più fermare.La mia proposta le invita ad una comunicazionesilenziosa, le costringe ad uno sgradevole stru-sciamento di corpi in parziale equilibrio, a fare iconti coi loro pesi, i loro impacci. Disattendonoil silenzio. Sappiamo anche che la perturba-zione deve essere opportunamente dosata.Offro lo spazio per la via di fuga; dichiarando lavolontarietà dell’adesione dò la possibilità dellasottrazione all’ingrata consegna. Eppure tutte siprestano al gioco, pur nell’impaccio del movi-mento e nell’imbarazzo del contatto forzato. Unlento riavvicinarsi alla loro animalità (nonrisuona qualcosa dell’anima?). Per questo lascioche le regole siano flessibilmente interpretate oanche infrante.L’imbarazzo prevale, scivolano via sulla pro-posta con il desiderio di chiudere quanto primaquel momento scomodo e inatteso. Cosa c’è discomodo? E cosa c’è nella scomodità? Final-mente di nuovo tutti nel grande cerchio. È arri-vato il momento di raccontarci e, a partire danoi, senza fretta, di ricostruire la nostra gior-nata, distillando emozioni e riflessioni.

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Riflessioni in circoloCi sediamo riprendendo fiato. Arriva il momen -to di confrontarci, di riportare alla luce l’espe-rienza, riflettere e riflettersi nell’esperienzadelle altre. Sento che lo desiderano, che hannomolto da dire. C’è fermento. Vivo già questacome una conquista. Anch’io ho tante parolepronte, ma lascio che siano loro ad esprimersi,senza trarre conclusioni affrettate. Mi ripeto “leconclusioni sono la parte più effimera dellaricerca”16. Facilito i loro interventi, invito allaparola senza interrogativi stringenti, propongoil rispetto della reciprocità e della uguaglianzadella partecipazione, oriento il meno possibilela discussione anche se il tempo stringe e sentodi non riuscire del tutto nel mio intento.Gli interventi17 ripercorrono la giornata. Silasciano liberamente andare al racconto delleprime impressioni sulla figura e il comporta-mento dell’animatore nella fase “giacca-cra-vatta”.“Entro in aula e trovo dietro la cattedra un pro-fessore dall’aria austera e inflessibile, il quale,allo sguardo perplesso delle studentesse che,varcando la soglia, domandavano se fosseroentrate nell’aula giusta, rispondeva con tantasufficienza quanto bastava per capire che forsedi espressività e animazione quel docente nonne ispirava poi tanto.”Mi definiscono un “‘manichino’… in tenuta dainsegnante di Scienze della formazione per inten-derci”, o un “‘ingegnere precisino’ (senza offesaper gli ingegneri)”. Passano alla descrizione delloro comportamento: “noi a scrivere, a prendereappunti: tradizionale lezione modello scienzedella formazione...”; poi alle loro delusioni, “miha fatto pensare alla possibilità che quel labora-torio sarebbe potuto essere [...] esattamentecome altri laboratori risultati essere praticamenteinutili”. Nel momento della compilazione deltest “tra colleghe ci si scambiava sguardi semprepiù sbigottiti e incerti e nell’aula si diffondevanoi bisbigli che rivelavano tutti i dubbi sulla sceltadi partecipare a quel laboratorio”. E alloraperché non dire niente? Perché isolare la “pio-

niera”18 e la sua domanda “impertinente”: “masarà tutto così questo laboratorio? Mi sareiaspettata qualcosa di più pratico!”? Dicono pro-prio “impertinente”, considerano “imperti-nente” una domanda su una loro legittima esi-genza didattica. Un’altra voce: “non era questociò che mi aspettavo, ma una laurea in scienzedella formazione mi ha insegnato a subirlequeste lezioni. Insomma niente di nuovo rispettoalla norma”. Non molto confortante, sia per l’u-niversità che per le studentesse. E continua, “maallora perché mi brucia così tanto?”. Ma soprat-tutto, perché lasciarsi bruciare? Ancora una vocenuova descrive le sue sensazioni in “un’alter-nanza tra decidere di vedere o non vedere”.Abbiamo ancora qualche dubbio sul fatto che isegnali relazionali non vengano colti? Abbiamoancora qualche dubbio su quale tipo di educa-zione stiamo proponendo?

AndreaÈ illusorio sostenere la neutralità del ritualerispetto alla proposta valoriale di un impiantoformativo. Infatti

“le pratiche d’insegnamento e d’apprendi-mento non sono fatte di innocue tecnichestrumentali, con neutre funzioni ancillaririspetto ai fatidici ‘contenuti’ scientifici, lette-rari, storici o morali. Configurano modalitàstoriche di strutturazione dei contesti diapprendimento. Attraverso tali pratiche – erelative tecniche – si esprimono e si riprodu-cono consolidate abitudini di pensiero, formedel pensare largamente inconsapevoli. Siesprimono e si riproducono sofisticate episte-mologie, [...] ovvero, insiemi di idee ben pre-cise intorno alla natura del mondo in cuiviviamo e intorno al modo in cui viviamo inesso. Intorno, anche, alla natura dei contestieducativi. Idee che per essere affidate aforme largamente inconsapevoli del pensare– abiti percettivi, credenze condivise, rappre-sentazioni sociali di natura simbolica,metaforica, estetica – possiedono un’efficaciaformativa prodigiosa. Nel bene come nelmale, s’intende”19

Il rituale/dispositivo frontale determina i pro-cessi di soggettivizzazione, ossia (pre)scrive icopioni comportamentali cui i soggetti parte-

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cipanti devono attenersi. Un insegnanteentra in classe e sa già dove dirigersi. Cosìcome gli studenti che entrano in aula nonavranno da scegliere altro che su quali sediecementarsi. Gli spazi sono già architettonica-mente e funzionalmente organizzati. Atte -sa… la parola alla cattedra. Monologo. I sog-getti autorizzati alla parola, i contenuti, lemetodologie sono già definiti. Attenersi rigo-rosamente all’istruzione. Non solo dalla cat-tedra, ma anche dalle sedie. Più che di sog-gettivazione è più opportuno parlare didesoggettivazione, ossia di “ricomposizionedi un soggetto in forma larvata e, per cosìdire spettrale […], corpi inerti attraversati dagiganteschi processi di desoggettivazione cuinon fa riscontro alcuna soggettivazionereale”20. Tutti complici di un meccanismo chescorre inerzialmente.

Altri interventi si concentrano sulla fase di tran-sizione tra i rituali: “Che fatica parlare e con-frontarmi con persone che non ho mai visto invita mia!”. Quanta mancanza di allenamento aicontatti, ai confronti, alle relazioni per studen-tesse al quarto anno del loro percorso universi-tario… E le osservazioni sulla trasformazionedell’animatore e sull’effetto della profanazione,con “quella erre21 che non suona più cosìodiosa”, “l’atteggiamento stava diventando piùreale e più adatto al contesto o forse solo piùvicino alle mie aspettative”, “pian piano, èemerso che tutto questo fosse un espediente persmuoverci, farci reagire…”. Il primo incontro èandato, a domani.

Laboratorio parte II:(ri)animazioneLe abitudini sono abitudini. Mi ero illuso diessere in un cerchio, ma neanche la circonfe-renza era stata ancora tracciata. Al secondoincontro l’accoglienza mi dice che l’atmosfera èsenza dubbio meno compassata oltre che caricadi aspettative. La configurazione frontale peròresiste e senza una mia provocazione nessuna si

assume la responsabilità di un gesto autonomoper rimodellare l’aula. Da quel momento in poiio non sarò più necessario. Così riperimetriamolo spazio, arrotondando gli spigoli fisici, dopoquelli relazionali. Adesso non agisco più sottocopertura, lo svelamento della profanazione haalzato la posta in gioco e da lì si riparte. Ab -biamo uno spazio vuoto che chiama per essereabitato insieme, per essere co-abitato.

“Per prima cosa dipingere una gabbia / cheabbia la porta aperta / [...] / mettere poi la telacontro un albero / in un giardino / in un bosco /o in una foresta / nascondersi dietro quell’al-bero / senza dir niente / e senza muoversi…”22

Ci sediamo. Chiunque può scegliere di entrareall’interno del cerchio e proporre un gesto, un’a-zione. Chiunque può unirsi, proponendo ungesto/azione che abbia una qualsiasi relazionecon il/i precedente/i. Teatro muto. “Che tipo digesto?”, “Qualunque”, “Che tipo di relazione?”,“Quella che volete”. Formulazione ampia, un’a-riosa voliera senza sbarre. La sfida non è sem-plice. Adesso spetta a loro uscire dalla copertura,rischiare il coinvolgimento personale. Ci guar-diamo, in attesa gli uni degli altri. Io resisto allatentazione di toglierle dal disagio e mi facciocarico del mio, in qualità di formatore davanti aduna proposta che fa fatica a suscitare entusiasmo.

“Talvolta l’uccello arriva svelto / ma può met-terci anni e anni / prima che si decida / Non sco-raggiarsi / aspettare / aspettare / aspettare seoccorre anche per anni / la rapidità o la len-tezza d’arrivo dell’uccello / non ha nulla a chefare / con la riuscita del quadro.”23

Attendiamo, sdrammatizziamo e arriva unmomento in cui sostenere il silenzio diventa perqualcuna più insopportabile dell’esposizionepersonale. Jogging uno, jogging due, un albero,una lettrice su un panchina. Qualcosa come“timide scene da parco”, dove i gesti stentanoancora a trovare un aggancio reciproco. Pocheimpavide su più di venti. Riproviamo. Compareun grande pentolone. Mi appare una fattuc-chiera intenta a preparare una pozione magica.

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Il mito della circolarità: ogni fineè un inizio

Un uomo che viveva presso uno stagno, una notte fu sve-gliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse

verso lo stagno e nell’oscurità, correndo in su e in giù, adestra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e

inciampò più volte. Finché trovò una falla da cui uscivanoacqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e soloquando ebbe finito se ne tornò a letto. La mattina dopo,

affacciandosi alla finestra vide con sorpresa che le improntedei suoi piedi avevano disegnato sul terreno la figura di

una cicogna. “Quando il disegno della mia vita sarà com-pleto, vedrò o altri vedranno una cicogna?”

Karen Blixen

Estendendo il concetto di vita a qualsiasi esperienzache ha un ciclo vitale, nascita, crescita, morte, michiedo se questo gruppo di studenti aspiranti inse-gnanti, che per 25 ore ha lavorato con libri letture estorie, lascerà un disegno.Il suo movimento, il movimento del gruppo, qualiimpronte lascerà sul terreno?Durante il percorso, spesso mi son affacciata alla fine-stra per guardare le impronte dei miei piedi, pensandoal mio disegno progettuale: devo far questo e quello,questo l’ho fatto, quello avrei voluto farlo meglio.Questa immagine mi ricorda il movimento delle onde,un vai e vieni non troppo regolare, un adattamentoalla morfologia del terreno, e la forma lasciata dal-l’acqua sulla sabbia assomiglia ad un serpente. Il per-corso è l’insieme di tutti i punti su cui è passato l’og-getto in movimento, recita la definizione geometricadella linea, curva o retta.

EnricoMi piace questa metafora del serpente, coerentecon l’ambiguità del lavoro, con la complesssità delgruppo, intesi come un’unità sfuggente e sinuosa,flessuosa e orientata, bella e pericolosa, come unpharmakon che sia insieme antidoto e veleno.Un’unità tessuta di ambivalenze e differenze nonsoppresse e non omologate forzosamente, matutte narrate e tutte aperte al cambiamento.Una “unitas multiplex”, dilemmatica e “arischio schizofrenico”:

“...Gli eruditi hanno esaminato i vari tipi disillogismo […] e a proposito del ‘sillogismoin erba’, come voglio chiamare questo

modo, sentenziarono: ‘questo non va, nonfunziona. Non può essere usato nelle dimo-strazioni. Non è logica corretta.’ […]Allora mi soffermai a lungo su questosecondo tipo di sillogismo, che tra parentesisi chiama ‘Affermazione del conseguente’. Emi parve che in effetti questo fosse il modoche ho seguito nel compiere gran partedelle mie riflessioni e mi parve anche ilmodo in cui pensano i poeti.Mi parve anche che avesse un altro nome equesto nome è metafora. Meta-fora. Ebenché non sia sempre corretto sotto il pro-filo logico, mi parve che forse potrebbeessere un contributo utilissimo ai principidella vita.Forse la vita non sempre ricerca ciò che ècorretto sotto il profilo logico. Sarei moltosorpreso se lo facesse.”44

SusannaUn metodo non esiste come cosa oggettiva-mente disponibile, in quanto codificato entroprocedure predefinibili, il metodo deve esseretracciato. La vita è irripetibile, le sue situazionisono uniche e di esse si può parlare solo peranalogie, per metafore. Il metodo prende formanel bel mezzo dell’esperienza, esso viene dall’e-sperienza facendo esperienza ed è prima ditutto apertura, passaggio ad altro, a ciò cheancora non si conosce e che quindi non puòessere anticipato prima che il cammino abbiaavuto inizio. Per trovarlo non ci sono regolepredefinite, rassicuranti piste già tracciate, masentieri stretti da trovare mentre si è in cam-mino.

“Proprio perché è un cammino, o meglio uncamminare accompagnato dal pensare ilcammino che si sta tracciando, dunque nonun semplice camminare ma un camminarepensando sui propri passi, occorre saperesmarrirsi nell’esperienza, naufragare nel ter-ritorio che si attraversa lasciando che il pen-siero si innamori delle cose che incontra”45

La metafora del serpente richiama questo trac-ciato, questo cammino che è un cammino chepensa sui propri passi.

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L’oggetto in movimento è il gruppo, il passaggio è ilpercorso da un punto iniziale A, prima ora del giornoX, ad un punto finale B, ultima ora del giorno Y. Ho definito il percorso di lavoro laboratoriale pen-sando a che cosa fare, non sapevo con chi sareiandata a fare, e avevo un’idea ottimistica sul dove. Ilprimo e il secondo punto hanno trovato graduale inte-grazione, sul terzo punto, riferibile sostanzialmente alconcetto spazi e aule, stenderei un velo pietoso. Mal’oggetto in movimento, il gruppo, ha definito prepo-tentemente la sua forma.Continuo con la metafora evocando immagini diforme sinuose, tanti punti (circa una trentina tra matri-cole, studenti in corso e fuori corso), si affiancano, siincontrano, si scontrano, si separano in onde chiuse,quasi cerchi, si allungano aprendosi in linee dolci col-linari.Ritorna la forma del serpente, il gruppo come un ser-pente che per muoversi ha bisogno di una base d’ap-poggio quale il terreno, ma può arrampicarsi suglialberi avvolgendosi ai rami, facendo del suo corpouna spirale.L’immagine del serpente è la forma che oso dare algruppo, è un’immagine soggettiva legata alla mia ten-sione verso la scoperta, la messa in gioco, la verificadelle mie possibilità di formatrice.Media il concetto di plasticità, di esperienza creativache si definisce nell’azione, si modella su questa e sulcontesto nel quale si svolge.Lavorare sull’immagine, sull’immaginario e sul legametra parole e immagini in questo gioco auto diretto, hafatto emergere la forma di un serpente, un’immaginenuova e poco attraente secondo stereotipi negativi.Ma il serpente è anche un archetipo fondamentalelegato alle origini, rimanda al ciclo continuo dellavita, suggerisce la conservazione dell’energia vitaleche trae nutrimento dalla propria sostanza.Il serpente cambia pelle, e questa immagine è unpotente motore di rinnovamento e rigenerazione.Questo nella mia immaginazione, nel mio desiderio diaccendere micce nel sacro cerchio del gruppo, mariprendo le misure su questo gruppo su questo con-testo.Più semplicemente, da maestra che si mette in giocogiocando, penso alla “danza del serpente”, sospesa trala mia infanzia ormai lontana, e quella dei miei alunniche, ancora e per fortuna si divertono, danzando, can-tando, formando cerchi salvifici dove si respira lapotenza del gruppo.

La rappresentazione di un gruppo come totalitàdinamica dovrebbe comprendere una definizionedel medesimo basata sull’interdipendenza deimembri. [...] Nella realtà quindi esistono gli indi-

vidui in relazione tra loro, e il gruppo che ne sca-turisce è un prodotto delle loro menti. [...]Il concetto di totalità dinamica è comunque giàimportante in sé perché ci dà una visione delgruppo come entità che possiede una sua realtàed unità specifica come qualcosa di diverso deisingoli individui che lo compongono”46

Enrico

“Per quello che abbiamo fin qui dettodovremmo essere ora in grado di trovare imodi per eliminare la repressione e favorire ilritorno della bellezza. Prima di cominciare,un avvertimento: l’eliminazione della repres-sione non può essere fatta direttamente,facendo soltanto una cosa bella, abbellendo,realizzando quella che crediamo essere labellezza direttamente con le nostre mani,con i nostri corpi, con la nostra voce. Questavia diretta non conduce alla bellezza, perchéla stessa funzione repressiva, quella chenega, che rifiuta, che ignora, sarebbe propriolo strumento che dovremmo usare. Per ese-guire il compito dovremmo ancora affidarcial potere della volontà razionale personale,quella che oggi la psicologia chiama “io”,mentre oggi è proprio questo “io” lo stru-mento della repressione. Per prima cosa l’iostesso dovrebbe diventare bello, cioè toccatoda bellezza.”47

Quanto è difficile uscire dalla cultura di cuisiamo parte!Nei decenni precedenti, varie esperienze didat-tiche hanno pensato, proposto e sperato chefosse sufficiente “aprire gli spazi espressivi perrivitalizzare la scuola”.Da qui, laboratori d’animazione, corsi di scrit-tura creativa, aperture al territorio, stage tea-trali, lavori di gruppo... Niente di male in tuttoquesto, sia chiaro. Certamente studenti ed inse-gnanti ne hanno guadagnato, perlomeno insalute. Ma l’integrazione estetica48 necessita d’altro.“Se gli americani fossero intelligenti, non avreb-bero avuto bisogno di inventarsi la ‘creatività’!”,pare dicesse talvolta il cattivissimo Piaget.Ma come aveva colto nel segno! Le nostresocietà potranno attraversare la loro catastrofe

98 a cura di Susanna Barsotti - Enrico Euli

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in corso solo se saranno capaci di rivedere leloro premesse profonde (io/non-io, ester -no/interno, individuo/gruppo, bianco/ne ro,bene/male, cooperazione/conflitto...), essenzial-mente dualistiche e dicotomiche, incapaci di“vedere la trama sottesa”.

E c’è una storia tra le storie che parla delgruppo, dello stare insieme per nuotare nelmare della vita, per difendersi dai grandi pescicattivi.La storia, una delle favole di Federico il topinosognatore, racconta e spiega quel difficile maimportante passaggio evolutivo, dall’aggregatoal gruppo: da un semplice insieme di personeche condividono lo stesso spazio, ad un piccolosistema sociale che, una volta formato, vive divita propria.

“Guizzino pensò, pensò a lungo. E improvvisa-mente disse: ‘Ho trovato: noi nuoteremo tuttiinsieme come il più grande pesce del mare’. Espiegò che dovevano nuotare tutti insiemevicini, ognuno al suo posto. E quando ebberoimparato a nuotare vicini, disse: “Io sono l’oc-chio’.E nuotarono nel grande freddo del mattino enel sole del mezzogiorno, ma uniti riuscirono acacciare i grandi pesci cattivi.”49

La focalizzazione sul gruppo e sull’importanzache ha rivestito nello svolgersi del laboratorio èemersa, quasi per caso, dai feedback finali com-pilati dagli studenti:Le mie aspettative iniziali erano… Rispetto aqueste mi sento… Quello che ho apprezzato dipiù rispetto: al contenuto… al docente… algruppo…Queste, e qualche altra semplice frase da com-pletare, in forma anonima naturalmente.Dicevo, quasi per caso, in quanto la mia verificaera sicuramente più indirizzata verso il che cosae il come. Anche io, come gli studenti ansiosiper il lavoro finale richiesto, rivelo, nel senso disvelo a me stessa, di essere fortemente orientataal compito. Il disegno del gruppo, il serpenteche si è messo in cammino e ha sinuosamentefatto il suo percorso, così si è autodefinito:

dotato di forte capacità di collaborazione e con-divisione, coeso, originale e creativo, coinvolto,altruista, disposto al confronto, interessato,motivato, simpatico, partecipativo, affiatato,divertente, ha percepito un clima disteso, fanta-sioso, complice, capace di mettersi in gioco,eterogeneo ma rispettoso, costruttivo. Questealcune delle definizioni, quasi il serpente nonavesse nessun veleno, ri-leggo e ri-fletto: la fraseda completare del feedback focalizza sugliaspetti positivi, gli studenti nel loro percorsohanno poche occasioni di lavoro di gruppo, dimodifica del setting cattedra-sedia-scrittoio-slide-appunti; le proposte di attività, a volteincalzanti, rendevano indispensabile la collabo-razione. A questa lettura, si aggiunga la miaforte convinzione che non si impara da soli, cheil sapere e il saper fare sono cuciti sul tessutodell’interazione e della relazione. Mi chiedoquanto questa, che definisco convinzione siastata un’imposizione, sicuramente è stata unascelta, proposta con determinazione. L’eufe-mismo impera. Flashback: mi rivedo mentreosservo gli studenti lavorare, mentre giro erigiro tra i gruppi raccolti intorno a banchi dilavoro improvvisati e improbabili, penso ai pen-sieri che mi frullavano per la mente: “fate aglialtri quello che vorreste fosse fatto a voi, fateusare le mani, non lasciate il corpo nascostosotto i banchi, fate usare la voce, date spazioalla mente anche in aule asfittiche”. Ripeto sot-tovoce la celebre frase di Goethe: “Chi può fa,chi non può insegna”. Questa non è una bella storia ma, indirizzandola telecamera dentro le aule di molte scuole, miverrebbe da raccontare: “C’era una volta laScuola Attiva…”. Storia senza finale, da inven-tare in questo futuro prossimo. Prossimo anchea questi aspiranti insegnanti, che dovranno (mavorranno?) costruire e ricostruire intorno allemacerie di un incalzante individualismo, quasifosse l’unica possibilità di cura, dolorosa maindispensabile.

“La competenza non può dunque essere isolatae teorizzata separatamente dai fenomeni del-

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l’interazione sociale. Ogni conoscenza vieneprodotta da ed è per così dire ‘avvolta’ in unarelazione sociale; essa è in un senso molto pre-gnante, un fenomeno sociale.Apprendere una competenza significa alloradiventare un insider: l’attore deve imparare adagire come membro di una comunità di cono-scenza che è anche una comunità sociale”50

C’era una volta la Scuola Attiva, e se non c’è più, chele è accaduto? Se si è persa, avrà lasciato sassolini enon briciole? Se è stata invasa dai topi, si troverà unpifferaio magico? Favole. No fiabe, auspichiamo unlieto fine.

Enrico

“La didattica conferisce ordine logico esequenziale alle procedure volte a disaggre-gare l’apprendimento di un dato repertorioinformativo ed a far sì che esso venga acqui-sito nel modo più efficace, accattivante,coinvolgente, ma non solo: mira anche acostruire nel soggetto un sapere.L’insegnare mira ad un apprendimento chepossiamo così distinguere:• apprendimento cognitivo (conoscenzedichiarative, ossia nozioni, idee, concetti, inuna parola: il ‘know-what’); • apprendimento abilitativo (conoscenzeprocedurali, abilità, comportamenti: il‘know-how’); • apprendimento valoriale (valori, signifi-cato, senso: il ‘know-why’).”51

“L’insegnamento è un processo decisionalecontinuo in situazione d’interazione che tal-volta permette l’applicazione di soluzioni giàcollaudate a problemi chiaramente identifi-cati; talaltra richiede, ed invero non rara-mente, una disamina di strade nuove. Taleprocesso decisionale consiste, difatti, non sol-tanto in quei ‘gradini’ che portano alla deci-sione stessa (analisi della situazione, formula-zione del problema, elaborazione di soluzionipossibili, ecc.) ma anche nell’intraprendereun’azione (d’insegnamento), sovente caricad’imprevisti, e nel valutarne le conseguenze,per cui richiede un impegno di conoscenzapuntuale e continua.”52

I testi di didattica continuano ad insistere e adarricchirsi di nuovi contributi ed autori e tutti

convergono: la scuola o è attiva o non è (e –soprattutto – non sarà).Eppure... sembra che la scuola reale c’entrisempre meno con i manuali e con gli orienta-menti. Forse perché le condizioni contestualidell’educazione (strutture edilizie, modelligerarchici interni, esigenze del mercato, valorido minanti in società...) sono incoerenti edentrano in conflitto con le metodologie attive.Forse perché gli insegnanti non sanno essere“attivi” ed “attivanti” anche quando usano me -todologie “attive”. Forse perché non esistonometodologie di per sé “attive”, se non sonoinserite dentro cambiamenti più ampi e convin-centi (di stile, di ruolo, di relazione...). E non sono cose che si imparano leggendomanuali o ascoltando lezioni frontali, anzi...

All’esperienza, seppur condivisa, segue necessa-riamente la riflessione intima e personale, anzi inqualche modo la accompagna. Dal gruppo al sin-golo, in un laboratorio fatto di storie, lette, rac-contate, animate, inventate e trasformate, pensoche, per concludere, ogni pezzetto del serpentedebba raccontare la sua personale storiella. Questa è la storia del serpente, che viene giù dalmonte, per ritrovare la sua coda che aveva persoun dì.La coda del serpente, e tutti gli altri anelli, unoper uno, son chiamati a riflettere individual-mente sul loro percorso, sulla loro esperienza diapprendimento nel laboratorio che si avvia allachiusura. Lo strumento di autovalutazione cheutilizzo, è l’albero dei fantasmini53: una imma-gine in bianco e nero, che rappresenta ungrande albero che si allunga verso il cielo con isuoi rami. Sull’albero, e intorno ad esso, tantipiccoli fantasmini nelle più svariate posizioni:qualcuno è sdraiato o seduto alla base deltronco, c’è chi si arrampica sul tronco a maninude, chi utilizza una scala a pioli, chi si don-dola su un’altalena del ramo più in basso, chi silascia andare sospeso sulle braccia, chi procedeverso i rami più alti inseguendo una farfalla, chiimmobile, abbraccia il tronco, chi costruisceuna base di legno tra i rami, chi, arrampican-

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dosi, cade con le spalle rivolte al suolo, qual-cuno si trova sull’estremità di un ramo mentrequalcun altro ne sega la base, sulla cima c’è ilfantasmino fiero e sorridente con le mani aifianchi e quello con l’espressione preoccupata,seduto e tenuto al ramo.Fino all’ultimo minuto ad inventar storie, adessosi tratta di scegliere due fantasmini, uno che rap-presenti l’immagine di se stessi all’inizio del per-corso, e uno alla fine. I fantasmini devono poiessere colorati a piacere, dando al colore un pos-sibile significato simbolico. Infine, si racconta, siinventa, si costruisce la storia del fantasmino edel suo percorso, dall’inizio alla fine.

C’era una volta un piccolo fantasmino rosa, chesognava di raggiungere la cima dell’albero dellalettura. [...]C’era una volta un fantasmino giallo, che avevaun grande progetto costruire una casetta sull’al-bero [...] ma non sapeva esattamente come sipoteva fare. [...]C’era una volta un fantasmino ansioso di impa-rare cose nuove [...] partecipò ad un laboratorio,faticoso per gli orari e gli ambienti, ma cherisultò formativo e interessante nonostante idisagi.

Storie che fanno sorridere, tra l’esplicito e l’im-plicito: fantasmini rossi per la vergogna ognivolta che devono leggere, punti dalla mosca dellacuriosità e saliti sui rami più alti; fantasmini chesi slogano caviglie nella salita, aiutati da farfallinegentili; fantasmini che cadono ma poi trovanoscale a pioli facilitanti; fantasmini che imparanodi aver molto da imparare, e procedono sui ramiintuendo una fine inesistente; fantasmini che simimetizzano con il verde delle fronde; altri chetrovano il tesoro e lo conservano nuovamente;altri ancora, inizialmente si fanno sorreggere mapoi si aiutano aggrappandosi ai rami; altri si ripo-sano per poi ripartire; fantasmini grigi che ini-ziano con malcelata apatia, seduti a terra, e pro-cedono abbracciando il tronco. Mi son divertitae commossa a leggere le storie, ho immaginato evisto nelle semplici narrazioni, difficoltà, entu-

siasmi, blocchi e spinte: insomma qualcosa si èmosso! Tra le diverse scelte possibili, nessuno hacolorato il fantasmino che cade con le spallerivolte al suolo, per fortuna, non credo che glistudenti siano coperti da assicurazione percadute metaforiche. Accadrà molto peggio:saranno sparati fuori dall’università con o senzaparacadute.

Dunque ben venga ogni tipo di incidente, anche nel-l’accezione di “qualcosa che accade o avviene di pas-saggio, indirettamente, mentre si fanno altre cose”.Come nella favola dei tre principi di Serendippe,anche io in questo esperimento ho dovuto far ricorsoalle tre regole della serendipità: qualcosa è accadutoper caso, ho cercato di osservare i movimenti e i segnilasciati dal gruppo, ho attribuito un senso a ciò che hovisto. Ma un senso “unico” non esiste, la mia narra-zione mi riporta alla riflessione sull’importanza delnarrare, del raccontare e raccontarsi che, comeafferma Bruner, permette la negoziazione dei signifi-cati54.

Enrico

Un linguaggio è significativo ogniqualvolta siacapace di fornire un’interpretazione del testoe/o contesto di cui esso stesso è parte e da cui èesso stesso interpretato (circolo ermeneutico).Sarà tanto più significativo quanto più si confi-gurerà come orizzonte consensuale, luogo dellacomprensione-traduzione, processo di condivi-sione di senso tra i parlanti.Se individuiamo nelle inconciliabilità di inter-pretazioni/punteggiature un sintomo degliequivoci comunicativi che generano nefasteconseguenze relazionali, allora è importantericonoscere e far riconoscere che qualunquecomprensione poggia su premesse (valori, con-vinzioni, idee, ecc.) implicite che modellano ilpersonale modo di vedere il mondo. Essedanno, per ognuno di noi, un punto di vista dif-ferente da cui osservare, organizzare e interpre-tare gli eventi.Allenarci a fare continuamente questo tipo di“azione intelligente” è per me la formazione:essere disponibile a vedere e ri-vedere le pro-prie premesse, sfregarle con quelle degli altri e

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metterle in circolo, immetterle e sperimentarledentro esperienze condivise, valutarle e con-frontarle insieme.Se questo non avviene si sta facendo altro e la sipuò chiamare come si vuole (istruzione, infor-mazione, trasmissione televisiva, e-learning), sipossono utilizzare le strumentazioni ed i codicipiù evoluti e sofisticati, si possono far appren-dere le tecniche più sopraffine, ma... Ma la rela-zione educativa, per come la intendiamo qui,non è stata ancora neppure sfiorata.

Ciò che ho raccontato e ciò che ho fatto esistonoentrambi in spazi diversi, l’azione e la memoria dell’a-zione, che quasi più non rimanda alla prima, e il cuisignificato muta e si arricchisce nell’evocarla.

E ancora sto a cercare una conclusione, a spie-gare quanto è stato indispensabile far ricorsoall’adattamento creativo; nei momenti diimpasse mi ripetevo il titolo di un libro: Nelbuio ci vedo con le orecchie. Cerco e non trovo,perché una conclusione forse non c’è, ritorno alpunto di partenza, ma con un viaggio allespalle: ho incontrato il mio bisogno di ritrovaree creare integrità, il disordine di sedie e ideeche in qualche modo ha trovato una forma, mauna forma plastica.Come nel gioco “Uno, due, tre, stella” ti rigiri el’immagine è mutata, scatti una foto, ma lamemoria non la trattiene, il gruppo avanza, ealla fine si ricomincia. Ritorno all’inizio-inizio:non è guerra tra cervelli, o forse sì, ognuno tro-verà la sua posizione.Cerco e non trovo una conclusione “pura”,intuisco che non esiste nella realtà: ogni fine èin qualche modo un inizio, il serpente si mordela coda. Ma quello forse era un gatto, ed èun’altra storia.

Note

1. http://it.wikipedia.org/wiki/Laboratorio.2. Morin, 2000, pp. 5-8, passim.3. Tognolini, 1994, p. 3.4. Bruner, 2001, p. 167.5. Lanzara (1993), riprendendo una lettera del poeta inglese JohnKeats, descrive la capacità negativa come la capacità di essere nell’in-certezza, di farsi avvolgere dal mistero, di rendersi vulnerabili aldubbio, restando impassibili di fronte all’assenza o alla perdita disenso, senza volere a tutti i costi e rapidamente pervenire a fatti o amotivi certi, di accettare momenti di indeterminatezza e di assenza didirezione, e di cogliere le potenzialità di comprensione e d’azioneche possono rivelarsi in tali momenti.6. Pagliarani, 2002, p. 41.7. Morin, 2001, p. 88.8. Ivi, p. 94.9. Lumbelli, 1981, p. 28.10. Andreoli, 2007, p. 118.11. Pennac, 2008, p. 77.12. Dallari, 2001, p. 8.13. Demetrio, 2004, p. 25.14. Lionni, 2006, p. 9.15. Bateson, 1984, pp. 87-88.16. Borruso, 2005, pp. 64-66.17. Cfr. Ricoeur, 1993.18. Benasayag, Schmit, 2004, p. 40.19. Von Foerster in Ceruti, 1986, p. 111.20. Carta, 11-17 settembre 2009, p. 53.21. McEwan, 2002, p. 5.22. Hillman, 2005, pp. 154-55.23. Pennac, 1993, p. 27.24. Bellatalla, Bettini, 2010, pp. 106-107.25. Rodari, 2007, p. 139.26. Euli, 2007, pp. 147-48.27. Bettelheim in Lionni, 1992, p. 10.28. Winnicott, 2005, pp. 43-46, 101-06, passim.29. Bettelheim in Lionni, op. cit., p. 16.30. Cfr. Lyotard, 2008.31. Dallari, 2008, p. 173.32. Bateson, op. cit., pp. 30-31.33. Cfr. De Mari, 2007.34. Arslan, 2009, p. 188.35. Cfr. Pontecorvo, 2000.36. Mortari, 2006, pp. 116-17.37. Maturana, Davila, 2006, pp. 21-22.38. Baricco, 1991, p. 70.39. Pennac, 2008, p. 177.40. Hillman, 2003, pp. 3-4.41. Tognolini, 2008, p. 8.42. Ende, 1992, p. 3.43. Sepùlveda, 1998, p. 9.44. Bateson, 1997, p. 370.45. Mortari, op. cit., p. 24.46. Kaneklin, 1993, p. 11.47. Hillman, 2000, p. 96.48. Cfr. nota 44.49. Lionni, 1992, p. 99.50. Lanzara, 1993, p. 54.51. Laneve, 1998, pp. 16-17.52. Ivi, p. 98.53. Pellai, Rinaldin, Tamborini, 2002, allegato 3.54. Cfr. Bruner, 2001.

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Conclusioni

Alla fine di questa ricerca, che è stata più chescrivere un libro o assemblare dei contributi,ma un vero e proprio “lavoro comune ingruppo e di gruppo”, possiamo chiederci qualesia il senso di questo testo, almeno per noi.Sul piano della ricerca abbiamo probabilmentedimostrato – in corpore vivo – che teoria e pra-tica sono davvero indistinguibili, esse davvero siarricchiscono a vicenda nella riflessione e nellacondivisione di idee ed esperienze. Ciò che si ètentato di fare è contribuire ad una riflessione suquel sapere che, nell’esperienza educativa, sicostruisce giornalmente facendo fronte allesempre diverse situazioni problematiche e dicome essa riconduca alla riflessione teorica perpoi tornare di nuovo a quella pratica, in quelcontinuo gioco di rimandi che costituisce l’es-senza dell’agire educativo.Nel nostro percorso, attraverso il nostro agire,si è cercato di dimostrare anche che l’universitàpotrebbe e dovrebbe essere il luogo deputato alreale e costruttivo confronto e validazione deisaperi, in una libera circolazione di idee tra idiversi “attori” (docenti, esperti, studenti futuriinsegnanti, gruppo di ricerca, testimoni di espe-rienze diverse).

La riflessione metacognitiva è quel pensiero chepensa i pensieri. Essa si attualizza nella forma diun’archeologia cognitiva che porta alla luce losfondo opaco della vita della mente, cioè quel-l’insieme di idee, teorie, convinzioni che tacita-mente guidano l’azione, e le prende in esameper verificare il loro valore conoscitivo e leimplicazioni performative che esercitano.1

Questo è stato uno dei fili conduttori che ci haguidato, sul piano della ricerca, come si è detto,

ma anche su quello personale. Questo libro èdavvero frutto di un “lavoro comune in gruppo edi gruppo”, dunque, inevitabilmente, la metari-flessione ha riguardato anche il nostro ruolo dieducatori e ha attraversato il nostro essere per-sone. La ricerca sulle metodologie attive nellascuola e all’università ci ha coinvolto e ci ha por-tato ad interrogarci su di noi, su quanto stavamofacendo e su come lo stavamo facendo. Si è ten-tato un lavoro davvero “interculturale” tra lepremesse, le visioni, gli stili: da qui una valorizza-zione dell’autonomia e dell’originalità di noitutti, sia nella partecipazione agli incontri, sianell’operare con gli studenti, sia nello scrivere.È stato un “lavoro in gruppo e di gruppo” ecome tale pieno di difficoltà. L’aver lasciatoagire, emergere, entrare in conflitto le nostrediversità ha reso la nostra ricerca un percorso aostacoli in cui abbiamo accettato la sfida di “abi-tare le difficoltà”, lasciando che le specificità diognuno permanessero il più possibile anche nelpercorso comune. La passione, etica ed estetica,per il lavoro di ricerca che stavamo condivi-dendo e per quello con gli studenti, la convin-zione sui principi che ispirano questo testo cihanno permesso di metterci in gioco e di provarea saltare oltre alcuni ostacoli: i momenti inizialidi blocco della scrittura, per qualcuno anchecausato dal mettersi alla prova con nuove moda-lità e in un lavoro di gruppo; la continua etagliente richiesta di revisione ed elaborazionedel testo stesso proveniente dal gruppo ai singoliautori; la percezione di solitudine dell’unica inse-gnante di scuola primaria, che vive in diretta ilparadosso, la follia, lo sconvolgimento di questiultimi anni2.A proposito di paradossi, il testo cercava diapprofondire e consolidare terreni e pensierigià percorsi e avviati da tempo o comunque giàin parte battuti, anziché esplorare terreni nuovi,nell’auspicio di una prospettiva futura di svi-luppo e continuità delle pratiche di laboratorionella scuola e nell’università. Avevamo immagi-nato che nella nuova bozza di riforma per ilcorso di laurea in Scienze della Formazione Pri-maria, il laboratorio occupasse un posto impor-

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tante nella formazione degli insegnanti, quasicentrale:

In coerenza con gli obiettivi indicati il corso dilaurea magistrale prevede accanto alla maggio-ranza delle discipline uno o più laboratoripedagogico-didattici volti a far sperimentareagli studenti in prima persona la trasposizionepratica di quanto appreso in aula […]3

anzi esso sembrava forse acquisire uno spazio euna rilevanza ancora maggiori che in passatopoiché si recitava “nel CFU di ogni insegna-mento disciplinare deve essere compresa unaparte di didattica della disciplina stessa”4. Nonè stato così. Le scelte che si stanno facendo sul-l’università, sia in generale (legge 133/2008 e“cosiddetta riforma” Gelmini, legge 240/2010),sia nello specifico (i nuovi ordinamenti dei corsidi laurea in Scienze della Formazione Pri-maria), non appaiono coerenti con i nostriintendimenti e auspici, anzi… vanno altrove.Poche e sempre meno risorse, sempre menolaboratori, per altro sempre più indirizzativerso scienze dure e tecnologie didattiche, uncontesto che procede verso un allontanamentoulteriore dal vissuto e da apprendimenti espe-rienziali. Questo libro arriva troppo tardi. Oancora presto?

Università di Cagliari, Facoltà di Scienze dellaFormazione, studio 34, giugno 2011 d.C.,interno giorno

Il gruppo LIBLABSusanna BarsottiGrazia Dentoni

Enrico EuliVanna FlorisAndrea Mei

Emanuele Ortu

Note

1. Mortari, 2007, p. 37. Il corsivo è del testo.2. Ritorno al maestro unico, soppressione del tempo pieno, in -nalzamento del numero di alunni per classi, riduzione degliorganici.3. Cfr. Camera dei Deputati, Atto del governo sottoposto aparere parlamentare, schema di decreto del Ministero dell’istru-zione, dell’università e della ricerca recante regolamento con-cernente la definizione della disciplina dei requisiti e dellemodalità della formazione iniziale degli insegnanti della scuoladell’infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria diprimo e secondo grado n. 205, art. 2 comma 1, in www.came -ra.it/_dati/ leg16/lavori/AttiDelGoverno/pdf /0205.pdf. Con-sultato il 18 agosto 2010.4. Ivi, Tabella 1.

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Sul sito www.lameridiana.it sono disponibili lemappe ipertestuali da scaricare per favorire unalettura trasversale del testo.

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Gli autori

Susanna BarsottiÈ ricercatrice di Storia della Pedagogia pressol’Università degli Studi di Cagliari, doveinsegna Letteratura per l’infanzia. È stata impe-gnata in alcuni laboratori sulla narrazione e l’u-tilizzo delle fiabe e come docente presso le SSISe i corsi speciali (D.M. 85/2005). Ha tenutorelazioni su fiaba, letteratura per l’infanzia etemi legati all’educazione in seminari e con-vegni nazionali.

Grazia Dentoni Da vent’anni naviga nel mondo dell’arte, RIANIM ATTRICE senza timoni e senza remi...Cerca di tornare sulla terra camminando su unfilo e danzando sui trampoli, inciampa in unascuola di circo palestinese, poi si chiude in unnuraghe a contemplare le stelle che le impon-gono il ritorno nel fondo del mare della forma-zione e dei contesti educativi, dove s’imbattenel mostro tentacolare LibLab che l’accom-pagna nella perdizione del gioco e nella con-fusione dei “dottori sdottorati” capeggiati daEuli Bhà Bhà. Terrorizzata dall’esperienzadecide di diventare mamma di Elias e di dele-gare ai posteri lo svelamento dell’enigma...

Enrico EuliÈ ricercatore di Didattica all’Università diCagliari, dove ha insegnato Metodologie e tec-niche del gioco, del lavoro di gruppo e dell'ani-mazione e ha coordinato vari laboratori nelcorso di Scienze della Formazione primaria. Suquesti temi ha pubblicato numerosi articoli elibri, tra cui – con le edizioni la meridiana – Idilemmi (diletti) del gioco (2004) e Casca ilmondo! Giocare con la catastrofe (2007).

Maria Giovanna FlorisInsegnante di Scuola Primaria dal tempo in cuisi chiamava Elementare, sostenuta da un’e-nergia guizzante e mutevole attraversa e vivenell’universo della complessa infanzia. Tra ter-remoti e glaciazioni non perde l’entusiasmo, lesue particelle si aggregano intorno alla potenzadei mezzi espressivi: colore, forma, segno,parola.Ritorna al Caos e pensando di trovare sé stessatrova sé altra laureandosi in Psicologia e specia-lizzandosi in art-counseling.Ancora gravita intorno a pratiche laborato-riali di narrazione di sé, mettendosi e mettendoin gioco.

Andrea MeiDopo una laurea alla Bocconi di Milano inDiscipline Economiche e Sociali, ha iniziato ilsuo processo di redenzione sedotto irresistibil-mente dal teatro cui si è dedicato ciecamenteper molti anni. Lasciato il teatro, ha recuperatola vista e ha fatto ritorno in Sardegna dove si staoccupando di formazione sulla soglia dell’Uni-versità di Cagliari. Trae piacere dallo sperimen-tare e condividere in contesti formali e infor-mali percorsi formativi incerti, partecipativi edesperienziali tra gioco e nonviolenza.

Emanuele OrtuÈ nato a Cagliari, ma le origini (evidentementebarbaricine) stridono. Cresce giocando (oanche gioca crescendo) in un mondo fatto distorie di terra, di vento e di mare. Si immergeper un lungo periodo in una comunità educa-tiva bolognese, dove lascia un pezzo di cuore edi intestino, più svariate ore di insonnia. Incambio ottiene rabbie, sorrisi e scoperte (di sestesso e degli altri). Gravemente malato delBallo di San Vito, dopo pochi anni, riprende aviaggiare. Ad ora cerca di vivere di passionidedicandosi alla lettura per l’infanzia e perragazzi realizzando laboratori, formazioni, espettacoli in giro per l’Italia.

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ISBN 978-88-6153-195-6

9 788861 5 31 95 6

edizioni la meridianap a r t e n z e

Formazione attiva degli insegnanti nella Scuola e nell’Università

APPRENDISTINEURONI

a cura diSusanna Barsotti – Enrico Euli

Euro 16,50 (I.i.)

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

I laboratori sono fondamentali nella prassi educativa? Molto spesso, quasisempre, no. D’altra parte, tra i manuali di didattica e quel che chiamiamo“scuola”, soprattutto di questi tempi, la discrepanza è enorme. Sono i contestia manifestare, a rappresentare concretamente i modelli dominanti: e i contestiesprimono il conflitto con il nuovo, gli resistono, lo boicottano. Il lavoro digruppo e la cooperazione sono lasciati alla buona volontà di docenti e studenti,in una cornice costruita per andare proprio altrove: individualismo, compe-tizione, separatezza specialistica, dipendenze univoche e unilaterali, gerarchieimmobili e immotivate... Una dimensione distante dall’accoglienza,dall’ascolto, dalla cura, con livelli molto alti di violenza strutturale e culturale,e con situazioni evidenti di violenza diretta (sia a lezione sia, soprattutto,nel chiuso degli studi e durante gli esami...). In tutto questo, un laboratorioche prova a fare “altro”, l’opposto, tenta di rappresentare una contraddizioneinterna, una nicchia ecologica, uno spazio marginale. Come rivela la sorpren-dete e spiazzante lettura di queste pagine, la visione ecologica dell’educazioneè qualcosa di più complesso e di più ampio che “fare educazione ambientale”,“insegnare una materia che si chiama ecologia”, “creare un ambiente positivoper l’istruzione”. Si propone come trasformazione degli atteggiamenti e nonsolo dei comportamenti (attraverso accorgimenti o aggiunte di tecniche, dinuove materie o attività) e più in generale si prefigge di modificare la cornicee i contesti della relazione educativa e di apprendimento. Cioè una rivoluzionecopernicana.

Il volume, curato da Susanna Barsotti ed Enrico Euli, si avvale dei contributi diGrazia Dentoni, Maria Giovanna Floris, Andrea Mei ed Emanuele Ortu.

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