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Appendice

Il suicidio nei tempi

255E. Giampieri, M. Clerici, Il suicidio oggi,DOI: 10.1007/978-88-470-2715-2_27, © Springer-Verlag Italia 2013

Suicidio e letteratura

La ricerca di uno spazio di autodeterminazione e di una risposta a quella amarezzache “intossica”, opprime, seduce l’animo umano e gli toglie il desiderio di vivere, hacaratterizzato da sempre l’umanità. Pertanto, numerosi scrittori si sono spinti ad af-frontare il tema del suicidio quale forma di espressione di una soggettività letta, divolta in volta, come fragile, incapace di affrontare il reale o, piuttosto, coraggiosa ar-tefice del proprio destino e fiera sostenitrice di ideali che vanno ben oltre l’individua-lismo. La tematica del suicidio, allora, risulta essere così trasversale alla vitadell’uomo e longitudinale rispetto alle diverse epoche da diventare, inevitabilmente,specchio della lettura che la storia ne fa in relazione al clima culturale ad esso con-nesso.

Tracce di questa annosa risposta ai più profondi drammi dell’anima e del viveresi trovano fin dai tempi più remoti dell’umanità: nell’antico Egitto il tema si ritrovain un papiro intitolato Dialogo di un suicida con la propria anima (Donadoni, 1970).Il suo traduttore – Erman (che intitolava lo scritto tGespräch eines Lebensmüden mitseiner Seele) – tratteggia l’immagine di un uomo che vive, deluso dalla realtà poli-tico-sociale che lo circonda, un’amara solitudine che condivide con la propria anima,alla quale domanda se non abbia più senso abbandonare la vita terrena per congiun-gersi agli dei immortali. La conclusione è tragica nel suo esito positivo: l’inconosci-bilità dell’aldilà mitico, la diretta esperienza di miseria e morte, non possono portaread altro che a cercare di godere della vita così com’è, senza concedersi troppe specu-lazioni, nella rassegnata volontà di non pensare al male che ci aspetta oltre la morte.

Connotati diversi assume, nell’antica Grecia, il tema del suicidio che Aristotele(384-322 a.C.) descrive nell’Etica nicomachea come offesa nei confronti della so-cietà; il termine, per indicare il suicidio nell’Ellade, è autoktonia: dare morte a sestessi viene ricondotto all’assassinio dei parenti. In questa condanna aristotelica ri-cade anche l’eutanasia: pertanto, il medico giurerà: “non darò mai farmaci mortali,neppure se richiesto, né mai suggerirò di prenderne” (Ippocrate, 460-377 a.C.).

Appunti su letteratura, cinema, musica, pittura e sugli effetti della comunicazione di massa ai giorni nostriS. Ronzitti, A. Ornaghi, M. Chiesa, E. Paggi, E. Mason, V. Ranzenigo, E. Giampieri e M. Clerici

“L’11 novembre 1997, Veronika decise che era finalmente giunto il momentodi uccidersi. Riordinò accuratamente la camera che aveva affittato presso unconvento di suore, spense la stufa e si coricò”

Coelho, 1998

Quella stessa Grecia antica che, con le scuole pitagorica, platonica e peripatetica as-sume tale atteggiamento di ripulsa nei confronti dei suicidi, trova poi, nelle opere distoici e cinici, l’assunzione di un atteggiamento più conciliante: quello di chi lasciaalla ragione individuale, se motivata, il diritto di determinare il proprio destino. Com-pare così nell’opera di Sofocle (496-406 a.C.) la prima descrizione di un suicidadella tradizione letteraria occidentale: è la figura di Epicasta, madre e moglie diEdipo, la cui vita assume un peso intollerabile di fronte alla realtà di aver vissuto,pur inconsapevolmente, una relazione incestuosa con il figlio. Il suicidio diventacosì, in Sofocle, la conseguenza di quel supplizio che imporrà a Edipo il tormentodello spirito della madre per il resto della propria esistenza. Sceglie il suicidio ancheAiace che, nella sua estrema solitudine, rappresenta il vero eroe omerico, un uomofedele alle leggi arcaiche dell’onore e, per questo, superiore a ogni compromesso.Non gli è concesso di piegarsi e tale coerenza inderogabile lo conduce alla morte.

La letteratura romana, tra gli altri aspetti che la caratterizzano, riprende questoelemento della cultura greca relativa al darsi la morte, accarezzando l’idea del suicidiocome di un gesto di libertà interiore, di coraggio, di virtus latina: il modello del sui-cidio eroico, teorizzato anche dallo stoicismo, diviene terreno di racconti a partire dagesta eroiche. Dal suicidio delle vergini a quello di Catone l’Uticense, che si trafissecon la spada pur di non vendere la propria libertà a Giulio Cesare, fino a quello diTrasea Peto, morto per il taglio delle vene. Modello esemplare dei principi professatidallo stoicismo di età imperiale, è il suicidio di Seneca (4 a.C.-65 d.C.), uno dei mag-giori esponenti di tale corrente di pensiero, che professava come l’uomo saggio fossetenuto, inevitabilmente, a mettere al centro della propria vita lo stato – la res publicaminor – e, piuttosto che compromettere la propria integrità morale, dovesse tenersipronto all’extrema ratio del suicidio. Impostogli da Nerone dopo il fallimento dellacongiura dei Pisoni, Seneca lo visse con quell’apatheia, ovvero quell’imperturbabilitàdell’anima che professava presso i propri discepoli. Pur tagliandosi le vene (il sangue,lento per la vecchiaia e la denutrizione, non defluiva), Seneca dovette ricorrere allacicuta, che concorse, attraverso una lenta emorragia accelerata dall’immersione inuna vasca di acqua calda (per favorire la perdita di sangue), a raggiungere una mortelenta e straziante, che arrivò, infine, per soffocamento. Questa idea della morte è pre-sente anche in Socrate (469-399 a.C.) che, di fronte alla condanna a morte, dichiarava,secondo la narrazione di Platone (399-388 a.C.), come fosse “giunto, ormai, il tempodi andare, o giudici: io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada versouna sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al dio”.

Il tema del suicidio è presente anche in buona parte delle più diffuse opere lette-rarie di carattere religioso: nella Sacra Bibbia si trova il racconto del suicidio di Saulche, dopo essere stato offuscato dal delirio di potere, identifica nel suicidio un attopurificatore, di catarsi; o il suicidio di Sansone che libera, in questo modo, gli ebreidai nemici filistei; o quello di Abimelech, re di Sichem, che si fa uccidere per la ver-gogna di essere stato gravemente ferito da una donna o, ancora, di Achitofel, dapprimaconsigliere di Re Davide, poi di Assalonne, che si strangola, non volendo assisterealla disfatta di quest’ultimo. La prospettiva relativa al suicidio e la sua connotazionecambiano, però, nel corso del Medioevo: l’ottica cristiana, che emerge nelle operedei grandi filosofi del tempo, come il padre della chiesa Sant’Agostino (354-430),

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vede nel suicidio un “misfatto detestabile e un delitto condannabile”. Agostino so-stiene che il rifiuto del suicidio sia implicitamente presente nel quinto comandamentoalle parole “non è lecito uccidersi, giacché nel precetto non uccidere, senza alcunaaggiunta, nessuno, neanche l’individuo cui si dà il comandamento, si deve intendereescluso [...]. Non uccidere, quindi, né un altro né te. Chi uccide sé stesso infatti uccideun uomo”. Anche nell’opera di Tommaso D’Aquino (1225-1274) si ritrova tale pro-spettiva: l’“omnino illicitum, la radicale illiceità” del suicidio è sostenuta nell’affer-mazione che il suicidio “costituisce, [...] da parte dell’uomo, il rifiuto della sovranitàdi Dio e del suo disegno d’amore. Il suicidio, inoltre, è spesso anche rifiuto dell’amoreverso sé stessi, negazione della naturale aspirazione alla vita, rinuncia ai doveri digiustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità e verso la società intera”.

Nell’opera massima del medioevo italiano, la Divina Commedia, Dante (1304) de-dica il XIII canto dell’Inferno ai suicidi, uomini trasformati in piante perché non degnidi possedere il corpo che, in vita, hanno rifiutato: “Uomini fummo, e or siam fattisterpi”. Dante condanna il suicidio secondo l’insegnamento aquiniano, anche se il poetafa trasparire la sua pietà nei confronti di quel groviglio di rami sofferenti. In particolare,traspare la sua compassione nei confronti di Pier delle Vigne, ministro di Federico IIdi Svevia, di cui tratteggia l’immagine di uomo che ha cercato, in modo ingiusto e cor-rotto, di dimostrare una innocenza di cui l’autore è convinto sostenitore.

Parallelamente alla crescita di tali espressioni culturali del suicidio, nel nord Eu-ropa prolificano i Berserker, guerrieri suicidi in nome di Odino, nei quali l’idea delsuicidio si impone, appunto, come strumento di elevazione religiosa. Tali guerrieriispireranno poi, tra i personaggi tolkieniani (1989), Beorn, un’entità che ha la capa-cità di diventare orso a proprio piacimento per combattere. Anche in altre culture trale più eterogenee – gli indiani d’America, prima, i giapponesi, poi – di fronte allasconfitta, il suicidio si afferma come modello comportamentale: i giapponesi codi-ficano il seppuku come una delle pene cui potevano incorrere i samurai per gravi in-frazioni a partire dall’epoca Tokugawa. Una forma di suicidio rituale nel corso delquale il suicida doveva provocarsi un lungo e profondo taglio orizzontale dell’ad-dome che, rappresentando secondo la tradizione il luogo delle forze vitali dell’uomo,doveva essere seguito, in crescendo, dalla decapitazione. Proprio uno degli scrittorigiapponesi più nazionalisti, Mishima Yukio, arrivò a infliggersi il suicidio secondotali modalità, effettuandolo nel rispetto dei canoni più rituali.

Il legame tra la scrittura narrativa, che lambisce l’idea del suicidio, e la scelta disuicidarsi incorrerà spesso tra le pagine della letteratura contemporanea. Nel mondocristiano occidentale, numerosi autori enfatizzano il dramma umano della tristezza,dell’incapacità di vivere: in particolare, le opere di William Shakespeare (1564-1616)narrano la grande solitudine di chi non riesce a trovare il senso della propria esistenza.Si suicidano così, nelle sue tragedie, i grandi solitari, come Cleopatra e Macbeth. Siinfliggono la morte, suicidandosi direttamente o indirettamente, Re Lear, Cesare eOtello, che hanno raggiunto il massimo potere, così come Bruto e Marco Antonio,appena lo hanno conseguito. Il motivo del suicidio investe, però, anche gli esclusi egli emarginati: Giulietta, Romeo e Ofelia. In tali opere è la solitudine a definirsi comela causa determinante della soppressione di sé, il motivo dell’incapacità a sopravvivereal dolore dell’assenza di capacità di condividere il senso della realtà e dell’impossi-

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bilità di rispondere alla ben nota domanda del to be or not to be.A partire dal XVII secolo, il suicidio viene esaltato nel contesto dell’illuminismo,

periodo in cui si ricolloca come “chiave della libertà” nell’argomentazione del filo-sofo francese Montaigne (1580): libertà che diviene, negli scritti di questo periodo,espressione di rifiuto dell’autorità e della fede religiosa. Il suicidio sarà allora iden-tificato come strumento potenzialmente liberatorio per Hume, Rousseau, Monte-squieu e, in seguito, Schopenhauer, Nietzsche e diversi altri autori. In tale frangentestorico, il termine “eutanasia” viene ripreso e introdotto nel linguaggio medico ad

ropera del filosofo inglese Francesco Bacone: l’eutanasia si lega al suicidio perl’espressione di autonomia e di autodeterminazione che vengono lette, concettual-mente, in entrambe queste modalità di risposta alla situazione di dolore. Le operefilosofiche trovano, come sempre, uno specchio nella letteratura loro contemporanea:Goethe (1774) traspone ne I dolori del giovane Werther la sua visione della vita, lasua sensibilità e il suo turbamento nei confronti del tema del suicidio (peraltro, col-legato alla morte autoinflittasi da Jerusalem, suo conoscente). Chiuso, scontroso, tri-ste, crucciato, Jerusalem diverrà strumento di analisi delle caratteristiche dell’animoumano da parte di Goethe, autore dotato di profonda capacità di introspezione e te-stimone di una profonda ricerca sulle radici umane della sofferenza. Tematiche ana-loghe a quelle affrontate da Goethe verranno riprese anche da Ugo Foscolo(1802-1803) nella sua opera Ultime lettere di Jacopo Ortis, dove si giunge a leggerenel suicidio l’unica risposta alla delusione d’amore e a quella politica, approccio to-talmente assente in Goethe: ciò contraddistingue, infatti, l’impegno e la partecipa-zione foscoliana alla realtà del tempo, dove anche l’impegno sociale diviene motivodi sofferenza e di contrasto nei confronti del proprio ideale di umanità. Sempre nel-l’ambito della letteratura italiana, sono le esperienze di vita e di sofferenza di Gia-como Leopardi che divengono motivo di una lettura del suicidio come di unostrumento in grado di porre fine a un’esistenza travagliata: tale soluzione alle soffe-renze personali viene sublimata in un’opera sofferente, disillusa, che non rinunciamai, però, a un’apertura a quell’infinito che sta oltre la condizione umana.

Altrove, il fascino del suicidio incontra, nell’animo fragile di Virginia Woolf,un altro terreno fertile: la scrittrice, vinta dalla depressione causata dagli abusi subitida parte dei fratellastri e dalla morte della madre e della sorellastra, morirà suicida.Tematica, questa, che rappresenta anche il destino di diversi protagonisti di operecontemporanee: Madame Bovary di Flaubert (1857), Anna Karenina di Tolstoj(1877) o, in Italia, Una vita di Italo Svevo (1892) dove il suicidio, insieme allamorte, diviene per l’autore fonte di liberazione dalle sofferenze del mondo e delquotidiano. Pirandello, nelle sue opere, sostiene che le modalità di espressione piùtipiche dell’uomo passino esclusivamente attraverso il delitto, il suicidio o il fingersipazzo: ne Il dovere del medico (1913), lo scrittore arriva addirittura ad affermarecome il medico debba assecondare la volontà del paziente di morire. Altri grandiautori, tuttavia, sceglieranno la via del suicidio come risposta a profonde sofferenzeindividuali, spesso legate alle realtà di guerra vissute negli anni della giovinezza:Cesare Pavese, che si ritrova a convivere con una depressione legata agli anni diesilio e ad un amore non corrisposto, arriverà a togliersi la vita; Primo Levi (1947),che nella sua opera Se questo è un uomo, prova a raccontare un’esperienza di an-

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goscia e di dolore che non gli concede di tornare a rivivere la serenità della propriaesperienza; o Ernest Hemingway, autore visionario, condotto a togliersi la vita dallamorte del padre, anch’esso suicida e affetto da gravi disturbi mentali. Solo vaneg-giata, o fatta propria da storie di personalità sensibili e introspettive, la tematica delsuicidio è dunque costantemente parte integrante della cultura letteraria che appar-tiene all’umanità.

Suicidio e cinema

“Il cinema e la moderna psichiatria psicodinamica sono cresciuti insieme: entrambi,ancora in giovane età, si trasferirono dall’Europa agli Stati Uniti all’inizio del secoloscorso e vi si stabilirono saldamente nel giro di pochi decenni” (Gabbard e Gabbard,2000). “In questi ultimi anni il tema del rapporto tra cinema, psichiatria e psicoa-nalisi, tra immagini filmiche e sofferenza mentale, si è arricchito di contributi in-novativi e significativi e l’interesse per questo campo è in continua evoluzione”(Marchiori et al., 2008). “Il cinema, in maniera ormai del tutto naturale, divulga,sintetizza, esemplifica e spezza il pane della sua scienza come nessun altro mezzocomunicativo” (Brunetta, 2006). “Come in un tentativo di collaborazione, la psi-chiatria e il cinema hanno cercato di penetrare il contenuto apparentemente casualedella vita di ogni giorno e di rivelare i segreti del carattere umano; dal momentopoi che, nella nostra cultura, la cura e l’intrattenimento sono spesso collegati traloro, sia i film sia la psichiatria sono stati considerati terapeutici” (Gabbard e Gab-bard, 2000). “Superata la tendenza a interpretare i film o la personalità dei registiattraverso teorie psicoanalitiche, si è assistito a una trasformazione in senso inter-disciplinare tra le due culture” (Sabbadini, 2006). “I film sono divenuti il grandemagazzino delle immagini che popolano l’inconscio, il territorio scelto dalla psi-chiatria psicanalitica” (Gabbard e Gabbard, 2000). “Le immagini e le storie che ifilm raccontano ci permettono di esplorare territori della mente e degli affetti doveè molto difficile addentrarsi se non attraverso una mediazione. L’ampio utilizzo difilm in diversi ambiti culturali e dialettici dimostra le straordinarie capacità cono-scitive e divulgative di questo strumento di rappresentazione cui, tuttavia, nel casodei comportamenti suicidari, si affianca la possibilità di proporre modelli stereotipatie fuorvianti, con il rischio, soprattutto nei giovani, di far emergere tendenze imita-tive” (Marchiori et al., 2008). Molto nota, ad esempio, è un’indagine condotta inGermania (Schmidtke e Häfner, 1988) sugli effetti provocati dal serial televisivoMMorte di uno studente, serie televisiva in 6 puntate, ciascuna delle quali inizia conla ripetizione del suicidio compiuto da un giovane di 19 anni, che si toglie la vitagettandosi sotto un treno. Un’equipe di ricercatori, in seguito alla programmazionedel serial in Germania, ha cercato di misurare gli effetti sull’incidenza dei suiciditra i giovani. I risultati di questa ricerca hanno dimostrato come le puntate fosseroseguite da una crescita statisticamente significativa di suicidi compiuti da coetaneidel protagonista: infatti, tra i giovani tedeschi dai 18 ai 27 anni, l’aumento registratoè stato del 175% tra i maschi e del 167% tra le femmine.

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Suicidio e patologia psichiatrica

“Il suicidio è frequentemente associato a disturbi mentali gravi, quali i disturbi del-l’umore (depressione e disturbo bipolare), la schizofrenia, alcuni disturbi di persona-lità e le condizioni di abuso/dipendenza da sostanze” (Marchiori et al., 2008). Idisturbi dell’umore (in particolare la depressione maggiore) sono la patologia a rischiosuicidario più elevato (De Leo e Pavan, 1999) e, all’incirca, il 50-70% dei suicidi av-viene durante un episodio di depressione maggiore (Coryell e Young, 2005).

Il film The Hours (S. Daldry, 2002), tratto dall’omonimo romanzo di M. Cun-ningham, premio Pulitzer nel 1999, e dal romanzo Mrs Dalloway (Salvi, 2009), co-glie tutti gli aspetti più importanti della depressione maggiore. È una storia che siintreccia su diversi piani narrativi, unendo le vite di tre donne di epoche distanti,tutte accomunate, però, dalla voglia di vivere la loro esistenza in modo differente daquello che la società ha scelto per loro. Nell’Inghilterra del 1941, Virginia Woolf (N.Kidman) decide inaspettatamente di togliersi la vita una mattina di marzo. In duelettere, al marito Leonard e alla sorella Vanessa, spiega le ragioni del gesto, dettatoda un’incontrollabile paura di ammalarsi di nuovo, di ricadere in quella depressioneche già l’aveva oppressa per tutta la vita. Dopo questo episodio, che funge da pro-logo, il film trascina lo spettatore indietro nel tempo, per seguire le tormentate vi-cende della scrittrice alle prese con il difficile processo della creazione letteraria. Èil 1923 e Virginia Woolf, che si è trasferita a Richmond in cerca di pace e di serenità,lontana dai fragori di Londra, che le avevano causato una nuova crisi nervosa, è in-tenta a sviluppare l’intreccio di quello che sarà uno dei suoi romanzi di maggior suc-cesso, Mrs Dalloway. La seconda donna è Laura Brown (J. Moore), insoddisfatta erepressa casalinga americana in una Los Angeles del dopoguerra (1949), che, incintadel secondo figlio, non riesce a uniformarsi al ruolo di moglie ligia e di madre pre-murosa che la società degli anni Cinquanta tenta con affanno di imporle. La prota-gonista vive una situazione di tale distacco emotivo, rispetto alla vita apparentementesenza problemi che conduce, tanto da trasfigurare la propria esistenza nel romanzoche sta leggendo, appunto Mrs Dalloway. Si rinchiude in una stanza d’albergo conlo scopo di suicidarsi con un flacone di pillole, senza riuscire, però, nel suo intento:deciderà, così, di abbandonare il marito e il figlio per vivere il resto della propria vitain solitudine. Il figlio Richard (E. Harris), abbandonato da Laura, diventerà uno scrit-tore di successo, afflitto da un grave senso di fallimento e tormentato da una malattiainguaribile, che spesso lo porterà a perdere il contatto con la realtà: morirà gettandosidalla finestra. “Cunningham affida a questo personaggio il ruolo di poeta squilibratoe visionario, che sceglie il suicidio come possibilità di ogni essere umano di porrefine alle proprie sofferenze e che in Mrs Dalloway era incarnato dal reduce di guerraSeptimus Warren Smith. Proprio il suicidio, tuttavia, nel film come nel libro, acquistail significato di un profondo atto d’amore, perché la morte di qualcuno dona sempreagli altri la possibilità di apprezzare in modo più completo la propria vita. È la forzadel contrasto. Così Clarissa Vaughan, che per anni aveva accudito l’amato Richard,evitando di occuparsi di se stessa, ritrova, dopo la scomparsa dell’amico, una consa-pevolezza e una voglia di vivere prima dimenticate” (Andreoli, 2009). Nella contem-poraneità di New York (2001) è ambientata la terza storia, in cui Clarissa Vaughan

(Meryl Streep), affascinante editor newyorkese, è occupata a organizzare una festain onore dell’amico Richard, vincitore di un prestigioso premio letterario, ammalatodi AIDS e prossimo alla pazzia e alla morte. L’intreccio di questo episodio richiamachiaramente l’intreccio di Mrs Dalloway (la festa da organizzare, i fiori da comprare)e proprio Signora Dalloway è il soprannome con il quale Richard chiama Clarissa.Il film mette in gioco diverse problematiche associate al suicidio, come la presenzadi una malattia grave e l’isolamento sociale, la gravidanza, la trasmissione interge-nerazionale del suicidio, connessa a fattori familiari e genetici (De Leo e Pavan,1999). Il regista propone il suicidio di Virginia Woolf con immagini immediate, cheriflettono fedelmente il quadro di una sintomatologia depressiva grave, la stessa dicui soffrono anche Laura e il figlio. “Clarissa è la sola che, apparentemente, sembraessere stata in grado di dirigere la vita lontano dai binari del conformismo (Salvi,2009) ed “è la sola a riuscire ad affrontare le vicissitudini della vita attraverso unamodalità difensiva di tipo ipomaniacale” (Marchiori et al., 2008).

Un film tenero, straziante e struggente è Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi(2002), dove vengono messi in evidenza, soprattutto, gli aspetti depressivi del di-sturbo bipolare. Film di montaggio che la giovane regista ha tratto da una sessantinadi bobine di film di famiglia, custodite nella casa del nonno, l’editore Ulrico Hoepli,cineamatore entusiasta sin dagli anni ‘20, sulle quali egli stesso ha documentato lavita della famiglia tra il 1926 e la metà degli anni settanta – dove si parla di feste,matrimoni, nascite e viaggi: un album di famiglia della borghesia settentrionale, maanche un romanzo che nasconde la tragedia. Perché quella bambina che nasce sottolo sguardo dello spettatore, poi cresce, va a scuola, si fidanza, si sposa, è la futuramadre della regista, la quale, frugando le immagini, riscopre una persona di cui nonha quasi ricordo per la morte avvenuta nel 1972. Da tempo sofferente di un gravedisturbo dell’umore di tipo bipolare, quando Alina aveva appena 7 anni (Ferzetti,2005), “Liseli, la madre della regista, è inseguita dai fotogrammi nel corso di tuttala sua breve esistenza. L’infanzia, i giochi con la nonna, le vacanze, la grande, bella

acasa di Milano. Un volto stupendo, uno sguardo incline alla malinconia, una bambinacome tante altre, forse solo un po’ più pensierosa. E poi ci sono le lettere e i diari,densi di riflessioni profonde e di dubbi ossessivi. Sopra tutti, a ogni riga, l’idea fissadi non essere all’altezza dei compiti che ogni giorno si trova davanti. II rapporto coni genitori, l’amore, la maternità. Una donna infelice. Una donna semplicemente ma-lata, ma la cui malattia la famiglia tende in un primo tempo a nascondere, quasi ver-gognandosene. La depressione? Si supera con una bella vacanza, un viaggio, unosvago qualsiasi. Non per lei, intenta a scrutare il suo animo fin nelle pieghe più ri-poste, perennemente alla ricerca degli sbagli commessi, con impietosa, agghiacciante

rcarica autodistruttiva. Finché anche il ricovero in clinica psichiatrica nulla può persanare una situazione già troppo compromessa” (Paini, 2005).

Nei disturbi schizofrenici, i momenti più a rischio di comportamenti suicidarisono quelli tipici della fase florida, quando il paziente può essere vittima di “voci”che gli ordinano di uccidersi o, paradossalmente, nelle delicate fasi del migliora-mento e della consapevolezza, in cui lo schizofrenico prende coscienza del propriostato, divenendo così più vulnerabile a sentimenti depressivi (Johansson, 1993). Laragazza di Trieste (Festa Campanile, 1982) racconta, appunto, del rapporto inquie-

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tante e violento che nasce tra Dino (B. Gazzarra), disegnatore di fumetti, e Nicole(O. Muti), una ragazza incontrata sulla spiaggia di Trieste. Molto bella e altrettantomisteriosa, la ragazza è, in realtà, ricoverata in un ospedale psichiatrico perché affettada disturbo schizofrenico, da dove scappa proprio per incontrare costui. Ma l’amorenon basta per guarirla e, infatti, Nicole, sotto gli occhi di Dino, deciderà di scompa-rire nel mare (Farinotti e Farinotti, 2010). La protagonista si suicida per sottrarsi allasolitudi ne e all’abbandono causati dalla grave malattia che la travolge (Pavan, 2006).Il film è ambientato a Trieste, proprio in omaggio alle teorie psichiatriche di FrancoBasaglia (Mereghetti, 2004).

I disturbi di personalità determinano una particolare fragilità nella gestione emo-tiva dei vissuti di perdita, separazione e cambiamento, con un aumentato rischio dicomportamenti suicidari rispetto alla popolazione generale, anche per la frequentecomorbidità con altri disturbi, quali quelli dell’umore e da abuso/dipendenza (DeLeo e Pavan, 1999). Tra i disturbi di personalità, il borderline sembra essere quellopiù associato al suicidio (il tasso di suicidio nei pazienti borderline è del 9% – 400volte superiore a quello della popolazione generale e 800 nelle giovani donne (Gun-derson e Ridolfi, 2001). Ragazze interrotte (J. Mangold, 1999), tratto dal libro auto-biografico di Susanna Kaisen, è uno dei film più significativi in questo senso. Èambientato nel biennio 1967-1969 e Susanna Kaysen (W. Ryder) è una diciassettennecon un pessimo rapporto con i genitori, piena di insicurezze e molto introversa. Dopoun tentativo di suicidio le viene diagnosticato un disturbo borderline di personalitàche giustifica il ricovero in un centro psichiatrico. Nell’ospedale il confronto conaltre pazienti coetanee e l’incontro con una terapeuta le permetteranno di fare chia-rezza nella propria vita. Del gruppo delle adolescenti ricoverate, è una giovane bu-limica, autolesionista e vittima di abusi da parte del padre a togliersi la vita,impiccandosi in casa dopo la dimissione dalla clinica; il rischio suicidario risulta,infatti, aumentato dopo la dimissione dall’ospedale e il 10% dei pazienti è a rischiodi commettere il gesto entro un anno. “I disturbi del comportamento alimentare ven-gono descritti come patologie caratterizzate da un’alta frequenza di pensieri e di attisuicidari, anche se caratterizzati da basso rischio di letalità” (Favaro e Santonastaso,2006). Brodski e colleghi (2001) hanno riportato come l’abuso infantile, l’aggressi-vità e l’impulsività siano associati con la presenza di condotte suicidarie in pazientidepressi, concludendo che il trauma infantile potrebbe essere un fattore di rischioambientale per l’insorgenza sia di condotte suicidarie, sia di impulsività e aggressi-vità. La dipendenza e, soprattutto, l’abuso di alcol e di sostanze stupefacenti aumen-tano il rischio di suicidio di 5 volte rispetto alla popolazione. L’incidenza di suicidionei soggetti dipendenti da alcol è, infatti, di circa 270 per 100000 all’anno: il 15%degli alcolisti si suicida e l’80% di questi sono uomini (Kaplan e Sadock, 2001).

Il film Fuoco fatuo (L. Malle, 1963, premio speciale Leone d’Argento della giuriaalla XXIII Mostra del Cinema di Venezia del 1963; premio critica italiana per mi-gliore film straniero, sempre per l’anno 1963, nomination all’Oscar per il migliorefilm straniero del 1964) è tratto dall’omonimo romanzo di Pierre Drieu La Rochellee racconta gli ultimi due giorni di vita di Alain (Maurice Ronet), un borghese dispe-rato e scoraggiato che, demolito dall’alcol e da una vita nella quale non riesce a in-serirsi, decide di suicidarsi dopo un’ultima visita a luoghi e persone della propria

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vita. “Il rapporto tra Alain e la realtà fa intravedere la riposta moralità di un’opera edel suo autore; in una visione disperata, ma non di un mondo senza valori, di unuomo che non riesce, per una malformazione, a scoprirli, pur sentendone la presenzae sapendo che quei valori rendono degna la vita dell’uomo” (Rossiello, 2009).

Suicidio e “crisi”

“Il concetto di crisi attraversa trasversalmente l’ambito della normalità e quello dellapsicopatologia. Nel corso dell’esistenza, ogni individuo si confronta continuamentecon esperienze di discontinuità, di cambiamento, di perdita. Esse, di norma, vengonosuperate attraverso assestamenti più o meno consapevoli tra individuo e ambiente, conla tendenza a mantenere conservata la percezione di un senso di continuità e di sviluppouniformi” (Marchiori et al., 2008). La clinica dello sviluppo ha ricondotto il concettodi crisi alla nozione di ciclo della vita per indicare i fenomeni fisiologici di disorga-nizzazione, caratteristici delle fasi di passaggio durante la crescita psicobiologica del-l’individuo, quali prima e seconda infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta,vecchiaia (Erikson, 1959). Questi sono bene rappresentati nei film Il sapore della ci-liegia (A. Kiarostami, 1997) e Il giardino delle vergini suicide (S. Coppola, 1999).

Nel film Il sapore della ciliegia (A. Kiarostami, 1997) – Palma d’Oro al Festivaldi Cannes 1997 – Badii (Homayoon Ershadi), uomo di mezza età a bordo di unajjeep bianca, si aggira per la solitaria periferia di Teheran, cercando qualcuno che loaiuti a suicidarsi: chi accetterà avrà il compito, trovandolo nella fossa, di chiamarloper nome; se risponderà, lo aiuterà a rialzarsi, porgendogli un braccio; altrimenti,lo ricoprirà con venti palate di terra. Le reazioni sono tutte differenti: un soldato eun seminarista afghano si tirano indietro; il vecchio addetto del museo di storia na-turale accetta il compito offertogli, ma gli racconta la propria esperienza personale,il desiderio provato un tempo di farla finita, le riscoperte gioie della vita, la luna, lestelle, la pioggia, il gusto dei gelsi, il sapore della ciliegia. “È il suicidio come di-sperata soluzione finale, o meglio i tormenti interiori e le contraddizioni di chi abbiadeciso di intraprendere questa via per liberarsi dal peso dell’esistenza, a essere alcentro del film: una concezione della vita come scelta, piuttosto che come obbligo”(Cimmino, 1997).

La fascia di età giovanile è ad alto rischio suicidario. La percentuale dei suiciditra adolescenti ha mostrato un aumento sostanziale rispetto a quarant’anni fa; gli ado-lescenti che commettono suicidio sono per lo più maschi (Posener et al., 1989) e sonoper lo più studenti che vivono con la famiglia di origine. La maggior parte dei giovanipresenta una storia di TS (Beautrais et al., 1998). Le adolescenti femmine, rispetto aimaschi, tentano più spesso il suicidio. Molto difficile risulta la classificazione dellecategorie a rischio di suicidio e non esistono risposte chiare sul perché alcuni adole-

rscenti siano più a rischio di altri: questo è probabilmente da imputare a una maggiorvulnerabilità dei primi (McGee et al., 2001) dove le pressioni quotidiane, le esperienzedi fallimento, i processi di esclusione da parte dei pari o qualunque tipo di abuso, pro-blematica familiare, malattie fisiche, eccessiva attesa di successo, possono arrivare acompromettere l’equilibrio emotivo e lo stato mentale del giovane. Nel film Il giardino

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delle vergini suicide (S. Coppola, 1999), le cinque sorelle Lisbon – tra i tredici e i di-ciassette anni, brillanti e bellissime – sono le protagoniste della drammatica storia,ispirata ad un romanzo di J. Eugenides, che evidenzia la complessità dei fattori chepossono indurre un gesto suicidario proprio nell’età dell’adolescenza. La madre (K.Turner) impone alle figlie un’esasperata inflessibilità moralistica, sessuofobica e bi-gotta; il padre (J. Woods) è una figura latitante, evanescente, priva di consistenza edautorità. Le ragazze sembrano assecondare i desideri della madre, fino a quando illoro disagio viene espresso in modo drammatico dall’atto estremo della più giovane,Cecilia (H. Hall), che si toglie la vita dopo un precedente TS, purtroppo incompresodai genitori e sminuito dallo psichiatra che, dopo aver visitato Cecilia, consiglia sol-tanto che le sorelle abbiano maggiori relazioni sociali. Alla morte di Cecilia, sorellee genitori rispondono chiudendosi nel silenzio, incapaci di esprimere e di condividerequalsiasi tipo di sentimento. I genitori, tuttavia, si sforzano di seguire le indicazionidello psichiatra e permettono alle figlie di recarsi al ballo della scuola. Quella seraLux (K. Dunst), la maggiore, perde la sua verginità in modo traumatico: il ragazzoche, sino a quel momento diceva di amarla, la abbandona. Quando le ragazze rien-trano, la madre le castiga duramente, fino al punto di rinchiuderle in casa. La conclu-sione del film è infausta: anche le quattro sorelle seguiranno il destino di Cecilia,organizzando uno struggente suicidio collettivo. La vita della famiglia dei coniugi Li-

asbon, veri modelli di perbenismo all’americana, sarà destinata a infrangersi in unacatastrofe in apparenza inaspettata, in realtà preceduta da una serie di messaggi d’aiutonascosti, inespressi e trascurati. “La giovane regista riesce a raccontare, in modo scon-volgente e inquietante, le vicissitudini di un’adolescenza, che non può esprimere lesue potenzialità evolutive di scoperta di sé e degli altri per l’incapacità dei genitori adaccoglierle ed a comprenderle. Il primo TS di Cecilia avviene attraverso il taglio su-perficiale dei polsi, indicatore di profonda ambivalenza rispetto all’intenzionalità au-tosoppressiva. Un atto di questo tipo, oltre ad una funzione catartica di liberazionedell’aggressività, può avere una funzione comunicativa, di messaggio/richiesta diaiuto. Nella storia tali funzioni non possono essere accolte e sfociano nel gesto defi-nitivo di Cecilia, seguito da quello delle sorelle” (Marchiori et al., 2008). Questa evo-luzione può essere frutto di fattori imitativi (il cosiddetto effetto Werther) e di estremarrribellione e vendetta contro la violenza delle reazioni materne: “se non c’è un luogopossibile di mediazione, vince una patologia distruttiva” e “le parti interne violenteschizzano ovunque” (Ravasi Bellocchio, 2003).

Suicidio e società

“Com’è noto, già nel 1897, Durkheim, in ottica sociologica, ha descritto quattro formedi suicidio a coppie antitetiche: altruistico-egoistico e fatalistico-anomico. Nella primacoppia, a un polo, l’atto suicidario è condizionato, in maniera decisiva, da pressioniideologiche e culturali che sembrano negare l’individualità della persona, mentre, alpolo opposto, lo stesso atto è determinato da un eccesso di individualismo, che fa sfu-mare il senso di appartenenza alla comunità. Nella seconda coppia, a un estremo, siassiste a un’esagerata pressione di regole e norme che il singolo non è in grado di so-

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stenere; dall’altro, il suicidio è frutto di una difficoltà del soggetto a tollerare momentidi transizione socioculturale, che comportino un cambiamento dei sistemi di valore euna perdita dei punti di riferimento” (Marchiori et al., 2008).

Nel film Paradise Now (H. Abu-Assad, 2005) vengono descritti i comportamentiindotti dall’adesione a specifiche ideologie, in particolare, il fenomeno dei kamikaze.La pellicola racconta le ultime ore di due giovani amici palestinesi, Said e Khaled,impegnati nella loro missione santa in Israele verso la morte. I preparativi, la video-testimonianza del martire, la vera e propria “ultima cena” e il pericoloso passaggiodel confine: qualcosa va storto, i due si disperdono. Inizieranno così a riflettere suquello che stava per accadere e su quello che dovranno fare. “Qui i kamikaze nonsono dipinti come fondamentalisti invasati, quanto piuttosto come due bravi ragazziche si preparano a fare la cosa, per loro, più normale al mondo, suicidarsi uccidendo”(Armocida, 2009). Le cause che spingono i due protagonisti al martirio rinviano aquelle descritte nel “suicidio altruistico”: la fede in Allah, continuamente ricordatadalla ridondanza di espressioni del genere “se dio vuole”, la situazione socioecono-mica, la necessità di salvaguardare l’onore personale e della propria famiglia (Mar-chiori et al., 2008).

Il film Mishima (P. Schrader, 1985) illustra i comportamenti indotti da norme im-poste da valori superiori. È la biografia del grande scrittore giapponese Yukio Mi-shima, che si suicidò con il seppuku, ovvero il suicidio rituale tipico dei samurai (sisquarciò l’addome e si fece mozzare il capo dal suo giovane discepolo, Morita Ma-sakatsu, il 25 novembre del 1970, quando aveva solo 45 anni), diventando “un’iconadel mondo tradizionale, che non si voleva arrendere a un dopoguerra dove la sconfittadel Giappone ne aveva condizionato gli usi e costumi” (Ferrario, 2009). Poco primadi morire Mishima aveva scritto: “Noi ci consideriamo gli ultimi rappresentanti dellacultura, della storia e delle tradizioni giapponesi. La battaglia deve essere combattutauna sola volta e fino alla morte” (Ciccarella, 2007). Il film si compone di sequenzeche raccontano la vita di Mishima, alternate a episodi tratti da tre suoi romanzi: Il pa-diglione d’oro, dove un giovane monaco buddista appicca il fuoco al proprio tempio,LLa casa di Kyoko, in cui un giovane ossessionato dalla bellezza e una donna più an-ziana si tagliano le vene insieme, e Cavalli in fuga, dove un cadetto cospira per salvareil Giappone dal demone capitalista e si suicida. Viene lasciata all’ultimo capitolo ladescrizione del gesto finale dell’autore (Mereghetti, 2004).

Nel film La ballata di Narayama (S. Imamura, 1983), Palma d’oro al Festival diCannes del 1983, viene focalizzata l’attenzione sui comportamenti suicidari di tipoaltruistico, condizionati da situazioni socioeconomiche quali la povertà. Tratto dalromanzo di Shichiro Fukazawa Le canzoni di Narayama (1956) e già portato sulloschermo nel 1958 con La leggenda di Narayama (K. Kinoschita), vede, come pro-tagonisti, la vecchia Orin e il figlio Tatshuei. Vedovo da tempo e con due figli (di cuiil maggiore porta a vivere in casa la fidanzata incinta), costui si risposa con unadonna di un villaggio vicino. Orin, che ha settant’anni, in previsione di un invernoduro per la famiglia (ci sono due bocche in più da sfamare, ora), decide che, per lei,è giunto il momento di salire al Narayama, la montagna sacra che domina il Paese,sulla quale, giunti alla fine della vita, gli anziani vengono portati a morire. Pur di

rconvincere il figlio, riluttante, arriva a rompersi i denti da sola in modo da non poter

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più mangiare. Nel frattempo, trae in trappola con un inganno la fidanzata del nipote,che viene uccisa con tutta la sua famiglia sotto l’accusa di furto ai danni della co-

rmunità. Il giorno precedente la salita, Orin, conscia di aver fatto tutto il possibile peril bene superiore dei suoi, non trascura di seminare l’orto. Chiude il film la lunga,dolente ascesa al Narayama, sulle spalle del figlio, in un paesaggio spettrale, su cuidi nuovo cade la neve (Paini,1986).

I comportamenti suicidari collegati alla necessità di salvaguardare l’onore per-sonale, della famiglia o del gruppo di appartenenza, sono ben rappresentati in Lettereda Iwo Jima (C. Eastwood, 2006). “In Flags of Our Fathers, Clint Eastwood avevaraccontato la celebre battaglia di Iwo Jima nel ‘45 dalla parte degli americani. Oggi,con invenzione geniale, ce la racconta dalla parte dei giapponesi. Con intenzioniidentiche, dar spazio all’umanità tra le pieghe dell’orrore, senza distogliersi, però,questa volta, dalla cornice insanguinata della guerra. Qui, invece, tutto è visto congli occhi dei nemici: parlato in giapponese (in tutto il mondo uscirà solo sottotito-lato), basato sulle lettere che i soldati nipponici inviarono a casa, è la cronaca di unasconfitta annunciata (l’ordine era di ritardare il più possibile l’avanzata americana;per farlo morirono oltre 20 mila soldati), ma anche una disperata riflessione sull’ in-sensatezza della guerra” (Mereghetti, 2007). “Salvo in alcuni momenti ricordati, nonci si allontana mai dall’isola e vi si descrive quel sistema difensivo ideato dal co-mandante delle forze giapponesi, il celebre generale Tadamichi Kuribayashi (KenWatanabe), che, con grotte, cunicoli, caverne fatti scavare nel sottosuolo vulcanico,gli permise di resistere ad oltranza alle soverchianti forze americane di terra, di mare,di aria. Una resistenza che, data la situazione insostenibile, aveva per tutti i giappo-nesi due sole soluzioni: o la morte in combattimento o il suicidio secondo il codiced’onore dei sudditi del Tenno” (Rondi, 2007).

Meno frequenti risultano essere i film che alludono a comportamenti suicidaridi tipo anomico o di tipo fatalistico. Per quanto riguarda questi ultimi, l’atto suici-dario comunica, anche in senso figurato, una volontà estrema di ribellione nei con-fronti delle imposizioni, delle limitazioni e delle convenzioni da parte della societàdi appartenenza. In questo filone risulta significativo il film Thelma & Louise (R.Scott, 1991), storia di due amiche con situazioni familiari frustranti e senza sbocchi.Thelma (G. Davis) è una casalinga sposata con un uomo maschilista, violento e pre-varicatore, che la considera al pari di una serva; Louise (S. Sarandon) lavora comecameriera in un bar, ha un marito che la ama, ma per il quale non ricambia il senti-mento, sentendosi, in tal modo, insoddisfatta. Decidono così di “fuggire” dalla quo-tidianità per un weekend all’insegna della libertà e del divertimento, ma una serie didrammatiche circostanze determineranno un’impossibile fuga per la sopravvivenza,sino al tragico epilogo che, pur di non finire in prigione o, peggio ancora, tornarealla vita di prima, le porterà a scegliere l’estrema soluzione: con il sorriso sulle lab-bra, tenendosi per mano, si suicidano, lanciandosi con la macchina nel vuoto. “Èstraordinario il tono generale delle due interpreti che, minuto dopo minuto, scopronouna nuova libertà, senza condizionamenti e, addirittura, assaporano il potere. Il fattoche si gettino nel Canyon, luogo d’azione squisitamente maschile, rappresenta l’ul-tima presa di possesso, l’ultima libertà” (Farinotti e Farinotti, 2010). “Thelma & Lo-uise è un manifesto di libertà al femminile con un’anima anarchica: meglio tre giorni

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da leonesse e un salto nel vuoto, che sessant’anni da pecore, al servizio dei mariti edei clienti” (Bignardi, 1996).

“Dalle antiche storie tramandate e raccontate oralmente, alle storie scritte neilibri, fino alle antiche rappresentazioni teatrali e alle più moderne arti cinematogra-fiche, l’uomo ha sempre cercato di rivivere storie di altri, immedesimandosi nei pro-tagonisti delle narrazioni. Così, il rapporto fra cinema e suicidio si può esplorare indue sensi: quello che va dalla scrittura della sceneggiatura al film fino allo spettatoreattraverso lo schermo della proiezione, basato sulla creazione artistica con aspettiautobiografici e sull’identificazione dello spettatore con i personaggi, che possiedeuna valenza catartica, per cui la messa in scena di un suicidio ha un effetto di sollievopassando per il dolore della morte; ma anche, nel verso opposto, quello che dalloschermo va alla mente della persona e determina le emozioni e talora perfino com-portamenti di imitazione o di evitamento” (Balestrieri et al., 2009). “Il cinema, sindai suoi albori, ha messo in scena la sofferenza psichica nei modi più diversi con-sentendo di affrontare temi complessi, quale quello del suicidio, facilitandone lacomprensione e fornendo spunti di analisi ad un pubblico vasto ed eterogeneo. Il ci-nema è uno strumento in grado, non solo di rappresentare in modo efficace il feno-meno in questione nelle sue diverse sfumature, ma anche di rapportarsi con la psichedello spettatore esercitando su di essa effetti diversi, facendo emergere e risuonareaffetti profondi” (Marchiori et al., 2008). Il cinema continua a essere, quindi, unaforma d’arte e di comunicazione preziosa, poiché le immagini e le storie rappresen-tate sullo schermo non solo comunicano con il singolo spettatore, a livello conscioe inconscio, ma mettono in contatto le persone tra loro grazie alla possibilità di con-dividere la visione di un film. Quest’ultima è un’esperienza comune, raccontabile e,pertanto, foriera di pensabilità a diversi livelli (Marchiori, 2006).

Suicidio e musica

Il fenomeno del suicidio, nella sua trasversalità, riguarda ogni ambito della vita del-l’uomo: particolare risalto è sempre stato dato a questa tematica attraverso un mezzodi comunicazione di massa molto penetrante, la musica. Il rapporto tra suicidio emusica non ha caratteri ben definiti e in questa breve panoramica verranno presentatisolo alcuni degli esempi più noti di musicisti che hanno trattato il suicidio o che, nelsuicidio, hanno trovato una risposta personale alle contraddizioni della vita.

Considerando la musica italiana, ad esempio, questo tema è stato celebrato nelsuo aspetto più drammatico ed insieme sublime nell’opera. Celebre è la Gioconda(1876) di Arrigo Boito e musicata da Amilcare Ponchielli, nella quale l’omonima pro-

/tagonista, nell’ultimo atto, medita il suicidio (“Suicidio!... in questi / Fieri momenti /Tu sol mi resti ...”). Nella musica contemporanea è forse più famosa, oggi, la canzonedi Roberto Vecchioni intitolata “Tommy”. Anche Fabrizio De Andrè dedicò alcunidei suoi brani più commoventi al suicidio: tra questi, “Preghiera in gennaio” (1967),rivolta implicitamente a Luigi Tenco, ma che rappresenta un vero e proprio atto dipietà e di comprensione nei confronti di coloro che: “...all’odio e all’ignoranza pre-

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ferirono la morte”, o La ballata del Michè, canzone che tratta del suicidio di un uomoche non reggeva il carcere dopo essere stato condannato per aver ucciso un rivale inamore. In Guardati indietro – di Umberto Tozzi – l’aspirante suicida ascolta la suacoscienza e decide di rinunciare a compiere l’estremo gesto. In un altro brano di que-sto autore, Luci ed ombre, il protagonista si toglie la vita perché non può sopportarela perdita della propria ragazza; lo stesso avviene in Preghiera dei Cugini di Campa-gna. Da citare anche Breve invito a rinviare il suicidio di Franco Battiato e Vestita dibianco di Michele Pecora, che parla di un uomo che decide di togliersi la vita con di-screzione, lontano dagli altri, per separarsi da un mondo che non gli ha mai volutobene. Nella storia della musica italiana bisogna infine ricordare, soprattutto, LuigiTenco forse l’artista più famoso che ha incarnato per la gente, grazie al suo suicidio,le strette connessioni tra creatività, sofferenza e scelta di morte.

Rivedendo episodi famosi che riguardano la musica di altri Paesi, possiamo no-tare la differenza tra suicidio ed equivalenti suicidari, in cui la persona non si uccideesplicitamente, ma compie atti che la portano alla morte o al degrado completo: ènoto il legame che si instaura – secondo alcuni quasi “naturalmente” – tra musica esostanze d’abuso; tra le morti da accreditare alle sostanze si possono ricordare JamesMarshall alias “Jimi” Hendrix, Janis Joplin e Sid Vicious, o le morti meno chiare,ma sempre legate all’abuso, come quella di Jim Morrison, Elvis Presley, fino a quellarecentissima di Emy Whinehouse, morta in circostanze ancora non chiarite, ma si-curamente legate all’abuso multiplo di sostanze e farmaci. Non possiamo non men-zionare poi, a questo livello, Kurt Cobain, esponente della musica rock, morto suicidaa soli 27 anni.

Sempre tra gli artisti più noti a livello internazionale, i Queen hanno scritto duecanzoni, entrambe con testo di Freddie Mercury, che affrontano il tema del suicidio:DDon’t try suicide (dall’album The Game) e Keep passing the open windows (dall’al-bum The Works). Lo stesso tema è stato affrontato più volte nei generi Rock, Grungeed Emo statunitensi ma, in particolar modo nella musica Metal (ad esempio nellacanzone Fade to black dei Metallica) con le varianti chiamate Funeral Doom e De-ppressive Black Metal: il suicidio è visto qui sia come la fonte di liberazione dallesofferenze, sia come qualcosa di estremamente romantico e sublime.

Ma esistono generi musicali che predispongono o invitano al suicidio?

Uno studio americano (Rentfrow e Gosling, 2003) indica come personalità e intelli-genza possano, almeno potenzialmente, influenzare i nostri gusti musicali. Umore eautostima possono far variare le preferenze personali e il potenziale impatto ma, piùimportanti, i possibili pericoli derivanti dall’ascolto di un particolare genere musicalehanno attirato l’attenzione dei media e dei ricercatori. Nel mare magnum dei generimusicali, alcuni sembrano, più di altri, collegati al fenomeno del suicidio. Sempre inuno studio condotto negli USA (Stack e Gundlach, 1992), viene analizzata la relazionetra suicidio e musica country: nella ricerca si sottolinea come la musica country trattitematiche riguardanti strettamente i pazienti con tendenze suicidarie, quali problemimatrimoniali, abuso di alcol o sensazione di alienazione dal lavoro. Risulta evidente

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una relazione tra ascolto di musica country e aumentato tasso di suicidio all’internodella popolazione bianca: viene addirittura evidenziato come si possano ricondurrealla sottocultura country il 51% dei suicidi che si verificano tra i maschi bianchi. Ciòrisulta indipendente da fattori quali il divorzio, la povertà o la disponibilità di armi.

Un genere musicale sicuramente più “estremo” e indagato in questi ultimi anni è,come già accennato, quello dell’heavy metal. Artisti quali Marilyn Manson, Metallicao Slayer (solo per citarne alcuni) sono spesso tirati in causa quali capri espiatori neltentativo di motivare una maggiore frequenza o tipologia suicidaria. Diversi genitoridi ragazzi che hanno commesso suicidio hanno citato in giudizio questi artisti, soste-nendo che messaggi “nascosti” o testi sfacciatamente aggressivi erano alla base degliatteggiamenti violenti o del suicidio dei propri figli. L’indimostrabilità di un nesso dicausa e la libertà di espressione hanno sempre indirizzato queste cause verso un nulladi fatto. Il vivo interesse per l’argomento ha comunque attivato ricerche che segnalanointeressanti dati preliminari. Pirkis e Blood (2001), ad esempio, hanno stilato un reso-conto di più di 30 studi che sottolineano le differenze più spiccate tra gli appassionatidell’heavy metal e i fan degli altri generi musicali. Per quanto queste ricerche abbianomostrato una effettiva relazione tra l’ascolto di heavy metal e l’aumentato tasso di sui-cidi, tale relazione non è da considerarsi come causa-effetto: l’heavy metal non sembraessere ritenuto responsabile per i suicidi degli adolescenti (soprattutto maschi) che loascoltano. A questo punto, una domanda ancora aperta che gli autori della ricerca sipongono riguarda il fatto che l’heavy metal incoraggi o possa invece scoraggiare pen-sieri e atti suicidari in chi è “succube” di questo genere di musica. Nonostante alcunistudi abbiano dimostrato correlazioni dirette tra l’ascolto di musica con testi aggressivie comportamenti di tipo violento, altre ricerche sono necessarie per ritenere esaustivae/o dimostrata questa ipotesi (Anderson et al., 2003).

Quale che sia il genere preferito, rock, punk, rap o classica, il legame tra gustiamusicali e personalità sembra comunque abbastanza stretto. Gli effetti che la musica

può avere sulla personalità o sui comportamenti del singolo sono ancora tutti da di-mostrare ma, in maniera non differente dai gusti in fatto di cibo, di scelte nel vestireo di persone da frequentare, le scelte musicali concorrono a formare la nostra perso-nalità e i nostri comportamenti. Parafrasando la rock band canadese Triumph, “lamusica stessa è il segreto: padroneggiarla ti rende completo. Non è un semplice giocodi note, è il suono della tua anima” (1979).

Suicidio e pittura

“La relazione tra creatività artistica e follia, intesa come malattia mentale e disagiopsichico, è un rapporto che affascina e inquieta l’uomo da millenni. Solo negli ultimianni, l’evidenza scientifica ha dimostrato come le professioni più creative, sia nelcampo dell’arte sia in quello della ricerca scientifica, siano gravate da un maggiorerischio di patologia mentale e di mortalità per suicidio” (Preti e Miotto 1999, 2000).Già Cesare Lombroso affermava, alla fine del 19° secolo, che genialità e follia siconfiguravano come devianze da una preconcetta normalità. Lombroso formulò

Appunti su letteratura, cinema, musica, pittura e sugli effetti della comunicazione di massa ai giorni nostri 269

l’ipotesi di un’ereditarietà familiare sia del potenziale creativo sia della tendenza adalcune malattie mentali, ipotesi che sembrò via via confermata da studi che dimo-stravano la relazione tra le attività più creative, quelle artistiche, e il rischio sia diincorrere in malattie mentali sia di tendenze suicidarie. In particolare, tutto ciò parveconfermato dagli studi condotti dal sociologo americano Steven Stack (1996, 2000,2003) che, utilizzando i dati di mortalità per suicidio, osservò come, negli Stati Uniti,il rischio fosse quasi tre volte superiore fra coloro che erano registrati come artistirispetto a coloro che svolgevano professioni manuali o impiegatizie. Le ricerche diPreti mostrarono, poi, come il rischio di mortalità per suicidio – nella stragrandemaggioranza dei casi associato a malattia mentale – risultasse distribuito in maniera

aineguale a seconda dell’attività creativa: esisteva, infatti, un rischio maggiore frapoeti e letterati, rispetto a pittori e scultori, e, ancora più basso, si profilava per gliarchitetti.

Studi successivi alle teorie lombrosiane miravano a dimostrare l’esistenza di unfattore biologico e, pertanto, trasmissibile per via ereditaria, cui attribuire lo sviluppodello spirito artistico, unito, però, all’instaurarsi di malattie mentali. L’ipotesi fu con-

tfermata, successivamente, dagli studi di eminenti psichiatri tra cui Joseph Schildkraute colleghi (1994) che – come, peraltro, anche Arnold Ludwig e Felix Post – nel sof-fermare l’attenzione sui pittori dell’Espressionismo astratto americano, osservava,tra costoro, un’elevata frequenza di casi di disturbo dell’umore. Al di là di ciò, èormai assodato che un’alta percentuale di artisti hanno sofferto e soffrono di disturbidell’umore, in particolare di disturbo bipolare: alcuni, come Gauguin, Pollock, Mi-chelangelo e O’Keeffe, soffrivano di depressione, altri come Gorky e Rothko mori-rono suicidi; è, ormai, un dato di fatto, inoltre, l’assimilazione tra la follia di VanGogh, di Ligabue e di Munch e la loro genialità artistica.

Van Gogh vive nell’immaginario popolare circondato da un’aura di follia e digenio creativo che ne fanno l’artista pazzo per eccellenza come, d’altronde, eglistesso si definì, parlando di “follia dell’artista”. Albert Aurier (1890), primo criticofrancese a considerare questo aspetto positivamente, delineò alcuni degli elementipreponderanti della personalità che caratterizzavano l’artista: in “Les Isoles” descriveVan Gogh “in preda al delirio… di una genialità terribile e impazzita, sovente su-blime, talora grottesca, sempre sul filo di un’attrazione patologica…”. Come benspiega Giulio Carlo Argan (Argan e Ammiraglio, 2005), “con Van Gogh comincia ildramma dell’artista che si sente escluso da una società che non utilizza il suo lavoroe ne fa un disadattato, candidato alla follia e al suicidio. Non è pittore per vocazione,ma per disperazione: aveva tentato di inserirsi nell’ordine sociale, ma era stato re-spinto; si era dato all’apostolato religioso facendosi pastore e missionario tra i mi-natori del Borinage, ma la Chiesa ufficiale l’aveva espulso. A trent’anni si rivolta ela sua rivolta è la pittura: la pagherà con il manicomio e il suicidio”. Vincent VanGogh nasce nel 1853 in una piccola cittadina olandese, esattamente un anno dopoche la madre aveva dato alla luce il primo figlio, anch’egli battezzato Vincent, emorto poco dopo la nascita. Questa tragica fatalità condizionò la vita dell’artista,che crebbe oppresso da un fatale senso di colpa e nell’ombra del fratello morto. Versoi sedici anni, trova lavoro presso un mercante d’arte e si cimenta poi negli studi teo-logici, ma in entrambi i casi senza successo. Viene mandato in seguito nel Borinage

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come predicatore presso una comunità di minatori con i quali simpatizza a tal puntoda dar loro il suo cibo e i suoi vestiti, in una sorta di ascetismo fanatico, fortementedisapprovato dalla Chiesa locale che, in seguito, lo rimuove dall’incarico. Si mani-festano, a seguito di queste delusioni, comportamenti bizzarri, quali la famosa posadella mano sopra la fiamma di una candela, dopo il rifiuto della cugina Kee, di cuiera follemente innamorato. A ventotto anni Van Gogh decide di dedicarsi al disegno,studiando con ardore e intensità soprattutto i ritratti della tradizione olandese. Glianni 1886-1887 sono quelli dell’esperienza parigina, dove Van Gogh si avvicina al-l’impressionismo: conosce i maggiori pittori di quel periodo storico e impara lenuove idee sulla luce e sul colore. Di tale fase sono le abbondanti libagioni di assen-zio, una bibita alcolica con proprietà convulsive, molto amata dai pittori francesi,che sembra aver avuto un ruolo cruciale nel precipitare la malattia dell’artista. Nel1888 si trasferisce ad Arles, dove produce alcuni dei suoi quadri più intensi ma, allostesso tempo, comincia a manifestare i primi sintomi psicotici, con deliri e allucina-zioni persecutorie. Dipinge molti quadri e invita Gauguin a stabilirsi da lui: la lorogrande diversità di carattere li farà spesso discutere in modo acceso. Nella notte diNatale del 1888 ha luogo un drammatico litigio in cui Van Gogh minaccia l’amicocon un coltello e, immediatamente dopo, travolto da un attacco d’ira, si taglia il lobodell’orecchio sinistro e lo offre a una prostituta che frequenta. Curato in ospedale siristabilisce. È poi internato, per un certo periodo, in seguito a petizione popolare.Nel maggio del 1889 l’annuncio del matrimonio del fratello lo riempie di sentimentid’angoscia e di solitudine, al punto da fargli pensare al suicidio: preferirà, allora,farsi ricoverare in ospedale spontaneamente. Le crisi si succedono periodicamente,accompagnate da gesti autolesivi, come l’ingestione di tempere o di olio da lampada.Ritornato in sé, chiede di lasciare l’ospizio. I quadri dipinti in questo periodo di crisiacute mostrano un Van Gogh ossessionato da “forme convulse e contorte, [...] ununiverso di tumulto e di tempesta nel quale si proiettano i suoi tormenti, come se leforze motrici del suo essere, inibite dalla malattia e dall’internamento, scoppiasserobruscamente in liberazioni angosciate” (Jean Leymarie, 1956). Vincent raggiungeAuvers-sur-Oise nel maggio 1890: in quel periodo i rapporti col fratello si fanno tesie, quando Theo decide di condurre suo figlio convalescente e la moglie in Olanda,al posto di fargli visita, egli si sente abbandonato ed esprime tristezza e la sua estremasolitudine nell’ultima tela “Campo di grano con corvi”. Domenica 27 luglio 1880,si avvia nei campi per dipingere e si spara un colpo di pistola al petto senza peròriuscire ad uccidersi: trascinandosi fino al Café Revoux, troverà il dottor Gachet che,dopo averlo visitato, si rende conto dell’impossibilità di estrargli la pallottola dal

tcuore e manda a chiamare il fratello, che giunge nel paese il giorno dopo. Vincenttrascorre la giornata tranquillo, fumando la pipa e parlando con il fratello: la seraTheo si stende di fianco al fratello e, all’una e mezzo del mattino, Vincent muore.Nelle sue tasche è trovata l’ultima, incompiuta, lettera al fratello: “l’ho fatto per ilbene di tutti; ho mancato il colpo ancora una volta”. Tante teorie sono state scritteper motivare il suicidio di Van Gogh: alcune meritano un’attenzione particolare. Se-condo F. Javier González Luque (2004), l’ereditarietà, il genere maschile, la man-canza di supporto sociale e, soprattutto, la disperazione sono i fattori decisivi nelsuicidio di Van Gogh. La tristezza e la paura di nuove crisi sono evidenti nelle lettere

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scritte alla fine del ricovero a St. Rémy; gli stessi dottori menzionano pensieri sui-cidari e di morte, associati a comportamenti come l’ingestione di tempera: tutti segniimportanti che non furono colti. Poco invece si conosce delle ultime settimane dellasua vita e, nella sua ultima lettera, lui stesso non sembra propenso a spiegarsi: “…vorrei scriverti a proposito di tante cose, ma ne sento l’inutilità…”. rSecondo Blumer(2002), invece, il suicidio potrebbe essere stato un evento non prevedibile e la re-missione degli attacchi potrebbe aver favorito l’evento depressivo finale. Infine, Me-hlum (1996) spiega come il suicidio sia solo il risultato di un lungo processo iniziatocon un trauma infantile; le sue difficoltà ad avvicinarsi e a staccarsi dalla famiglia,la sua instabilità emotiva, l’intensità e la diminuita tolleranza alle frustrazioni sem-brano identificarlo come una personalità borderline. Sembrano riconoscersi tre prin-cipali cause del suicidio: la prima è il dolore insopportabile che segue alle perditepersonali che riattivano il suo trauma; la seconda è la rabbia omicida che si evidenzianei suoi conflitti con gli altri, la terza è il bisogno di liberare la sua energia e le sueemozioni. Interessante anche la teoria di Antonin Artaud (1988), secondo cui VanGogh sarebbe stato “suicidato” dalla società. All’esordio del suo saggio, infatti, que-sto autore afferma come la presunta anormalità di Van Gogh – e certi episodi scon-certanti della sua vita (cuocersi la mano, amputarsi l’orecchio) – siano poca cosarispetto ad alcune orrende pratiche, per esempio in ambito culinario, comunementeaccettate dalla società. Di fatto, Van Gogh è considerato dalla società come minacciaper le sue istituzioni “perché un pazzo è anche un uomo che la società non ha volutoascoltare e a cui ha voluto impedire di pronunciare delle insopportabili verità”. Ar-taud sostiene inoltre che “… non ci si suicida da soli… in caso di suicidio, è neces-sario un esercito di cattivi soggetti per far sì che il corpo si decida al gesto contronatura di privarsi della propria vita. Ed io credo che vi sia sempre qualcun altro nel-l’attimo estremo della morte a spogliarci della nostra esistenza”. In particolare, Ar-taud vede nel comportamento del fratello la causa diretta del suicidio: “Van Gogh èstato liquidato dal fratello, innanzitutto, annunciandogli la nascita del nipote…” cheavrebbe dato all’artista “la sensazione di essere una bocca di troppo da sfamare”. Lacolpa sarebbe anche del dottore : “Non è a causa sua, del male della propria follia,che Van Gogh è morto. È su sollecitazione del suo cattivo genio che, a due giornidalla morte, fu chiamato il dottor Gachet, improvvisato psichiatra, il quale sì fu causadiretta, efficace e sufficiente della sua morte”. La colpa è soprattutto della società,che tende a eliminare tutte le categorie dei “diversi”, fra cui i pazzi, tanto più se de-tentori di una sensibilità e lucidità come quelle di Van Gogh. “È ciò che la societàgli ha sottratto per realizzare la cultura… del perbenismo di facciata che ha il criminea suo fondamento e sostegno. Ed è così – conclude Artaud – che Van Gogh è mortosuicida, perché è tutta la coscienza, nel suo insieme, a non averlo più potuto soppor-tare”. Si è molto discusso anche sulla malattia psichica di Van Gogh. Al momentoattuale, la teoria più accreditata è quella di Gastault, secondo cui i disturbi della per-sonalità e la depressione sono elementi correlabili a un’epilessia temporale, aggravatadall’uso di assenzio. Molti autori, invece, sono portati a considerare il disturbo psi-chiatrico come malattia mentale indipendente. Van Gogh, infatti, ha manifestato dueprolungati episodi di depressione reattiva, entrambi seguiti da prolungati episodi dicomportamento maniacale: l’evangelizzazione dei poveri miniatori belgi e il periodo

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parigino; la malattia degli ultimi anni, invece, era accompagnata da attacchi epilettici,la cui natura rimane ancora imprecisata e controversa. Resta comunque accertatauna massiccia presenza psicopatologica nella famiglia di origine: Theo, affetto dapsicosi, morì sei mesi dopo il suicidio del fratello, mentre Cornelius, il fratello piùpiccolo, si uccise; la sorella minore, Wilhelmina, fu internata in manicomio per schi-zofrenia.

Nel 1994 Schildkraut e colleghi documentavano l’alta prevalenza di disturbi del-l’umore in un campione di quindici artisti aderenti alla corrente dell’espressionismoastratto americano: più del 50% soffriva di qualche forma di patologia psichica, prin-cipalmente disturbi dell’umore e angoscia della morte, spesso associate ad abuso dialcolici. Almeno il 40% si fece curare e il 20% fu ricoverato in ospedale per problemipsichiatrici. Due si tolsero la vita, due morirono in incidenti stradali e altri due avevanoavuto padri che si erano uccisi. L’Espressionismo astratto è stato il primo movimentoculturale propriamente americano capace di influenzare il resto del mondo. Nascedopo la seconda guerra mondiale, in un periodo di crisi spirituale per la società, in unmomento caratterizzato da disperazione e da un “grande vuoto” in tutti i campi, com-preso quello artistico che, come ebbe a osservare Adolph Gottlieb, andava colmato.L’artista Barnett Newman e colleghi (1994) scrivevano che “…nel 1940 alcuni di noisi destarono per accorgersi che eravamo senza speranza; che in realtà non esistevanessuna pittura…”. Con l’Espressionismo nasce l’action painting (pittura d’azione),una nuova concezione gestuale, dove l’artista è coinvolto con tutto il suo corpo allarealizzazione dell’opera. “Per ogni pittore americano – scrive Rosenberg (2004) – ar-riva un momento in cui la tela appare come un’arena offerta al suo intervento, piuttostoche uno spazio dove riprodurre, ricreare, analizzare o esprimere un oggetto reale oimmaginario. Allora, ciò che deve essere trasmesso alla tela non è più un’immagine,ma un fatto, un’azione”. Alla base di questa concezione serpeggiano le idee di Freudsul subconscio che si stanno diffondendo proprio in questo periodo. La pittura diventaspontanea, libera, immediata, non vuole emozionare o ritrarre la realtà, quanto piut-tosto toccare e stimolare il subconscio degli osservatori. Tutto ciò viene realizzato“inconsciamente” dall’artista con la tecnica del dripping, che consiste nel lasciar sgoc-ciolare il colore sulle tele, facendolo cadere semplicemente dove vuole il subconscio,di modo che si esprima “solo la parte inconscia della mente”. Si creano, allora, im-magini vivide, intrecci di colori con linee irrazionali che vogliono rappresentare l’au-tentico io dell’artista, riportato in superficie insieme alle sue tonalità emotive e allesue angosce. La tela diventa, così, un mezzo tra l’inconscio dell’artista e la materia,tanto da far arrivare Pollock a scrivere che “quando dipingo non ho l’esatta percezionedi ciò che sta avvenendo, solo dopo mi rendo conto di ciò che ho fatto...”, “… la miaè una pittura diretta. Il metodo di questa pittura è la crescita naturale di un bisogno.Quello che mi preme è esprimere le mie sensazioni piuttosto che descriverle. La tec-nica non è che un mezzo per arrivare a questa espressione”.

L’action painting non mostra, quindi, realtà oggettive o soggettive: è piuttosto ilmezzo con cui si liberano le tensioni e le preoccupazioni accumulate dall’artista inun esplosivo effetto finale che non è progettato ma, piuttosto, lasciato all’azionespontanea dell’inconscio. È un’espressione del malessere dell’artista in una societàdel benessere, moderna e razionale, dove tutto è pianificato. È, infatti, il disagio nella

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società – insieme all’interesse politico e, soprattutto, all’impegno a creare uno stilee un linguaggio nuovi e rivoluzionari – a unire personalità forti, ma con stili moltodiversi, che rientrano nell’avanguardia dell’Espressionismo astratto americano.Vilma Torselli (2007) lo spiega in questo modo: corrente culturale che “…raduna inrealtà personalità artistiche anche molto diverse tra loro, accomunate da un diffusosenso di angoscia e disagio per gli orrori della guerra, manifestazione della degene-razione del mito della modernità razionale, unite in un generale atteggiamento direazione che le porta a ripiegarsi nell’inconscio, alla ricerca di se stessi, delle loroangosce e delle profondità insondate della loro psiche: il risultato di questa discesainteriore produrrà, secondo le personalità degli artisti, opere cariche di violenta di-sperazione o anche d’inquietudine e meditazione”. Scrive inoltre Rosenberg (2004):“la nuova pittura ha abolito ogni distinzione tra arte e vita”; una vita, e quindi un’arte,che è un susseguirsi di confusione, miseria e abbandono fino all’autodistruzione.Tutto ciò troverà espressione nelle morti di parecchi artisti: Pollock e il suo semi-suicidio del 1956, Gorky che si impicca nel 1948, Kline che muore alcolizzato nel1962, David Smith, scultore, che muore in un incidente stradale nel 1965, e, infine,Rothko che si taglia le vene nel 1970.

Pollock è il rappresentante più emblematico di questa corrente. La sua è unapersonalità inquieta, ribelle, sregolata, incline a eccessi di violenza, vittima di de-pressione e alcolismo: tutti elementi che lo etichettano come genio maledetto. Aventisei anni comincia una terapia analitica junghiana per liberarsi da alcol e de-pressione. Coglie l’occasione per approfondire la conoscenza delle teorie di Jung,soprattutto quelle relative al concetto di archetipo, ovvero i “modelli inconsci pre-senti nella mente dell’uomo che non si sviluppano individualmente, ma sono sedi-mentati in un inconscio collettivo che tutta l’umanità condivide”. Per Jung questisono la chiave d’accesso all’inconscio. Pollock si avvicina anche alle tecniche au-tomatiche, in quanto sembrano in grado di rivelare proprio tali archetipi. Segue un

aperiodo tormentato dall’ansia e da dubbi esistenziali in cui si dibatte alla ricercadel significato e del valore dell’azione creativa. Nel 1947, con la tecnica del drip-pping, s’impone come maestro dell’action painting. Grazie a questa tecnica riesce ascavare nelle profondità del suo inconscio fino a portare in superficie dubbi e tor-menti, eludendo il filtro inibitorio della ragione. Si creano, così, composizioni af-fidate al caso e all’automatismo e vengono esternate, in modo incontrollato, tuttele angosce dell’artista. Riguardo alla nuova tecnica dice: “gli artisti moderni hannotrovato nuovi modi e nuovi mezzi per affermare le loro idee. Mi sembra che un pit-tore moderno non possa esprimere la nostra epoca, l’aviazione, l’atomica, la radionelle forme del Rinascimento o di un’altra cultura passata”. Il riferimento allabomba atomica non è casuale: emergono, in ogni suo lavoro, un’ansia profonda,un’angoscia per il tempo in cui vive che non riesce a rappresentare con mezzi tra-dizionali e razionali. È questa incapacità a riprodurre quello che sta succedendo nelmondo, con cui l’artista lotta e si confronta, che diventa il vero soggetto delle sueopere. Dopo aver lottato con l’alcol per tutta la vita, l’11 agosto 1956 Pollock perdela vita in un incidente stradale causato dal suo stato di ubriachezza. Aveva quaran-taquattro anni. Questa tragedia non sembra tanto fortuita, quanto piuttosto unaforma di equivalente suicidario. Pollock, infatti, non riusciva più a lottare contro la

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realtà vuota che lo circondava, quell’helplessness before the void, l’essere indifesidavanti al vuoto, coniato da John W. Whitehead (2001), che riassume bene tutto lostile di quel periodo.

Un capitolo interessante, nell’ambito della riflessione sul suicidio nella pittura, èproprio rappresentato dai quadri che lo raffigurano. I personaggi mitologici e storiciche si sono tolti la vita hanno, da sempre, esercitato un grande fascino tra gli artisti;è attraverso le loro tele che si rivelano i cambiamenti di pensiero che accompagnanoil gesto del suicidio nel corso della storia: dall’idea di morte eroica e nobile presentenell’antichità (Aiace che si getta sulla spada) fino alla percezione moderna del ma-lessere e dei disturbi mentali che stanno dietro e alimentano gli atti autolesivi. Tra lemolte tele che raffigurano suicidi, ricordiamo: il suicidio del poeta Rheiner del 1923.L’uomo è raffigurato con, in mano, una siringa proprio nell’attimo in cui sta per get-tarsi nel vuoto: è una rappresentazione non solo dell’atto suicida, ma anche della so-cietà dissoluta di quel tempo. Un altro esempio è Ofelia, che viene rappresentatamorta, con gli occhi aperti, galleggiante nelle acque gelide e ricoperta di fiori con ri-ferimento alla tragedia shakespeariana Amleto, in particolare, a quanto la regina Ger-trude afferma, nel IV atto, a proposito del suicidio della giovane donna: “E mentreella s’arrampicava lì sopra per agganciare ai penduli ramoscelli le sue coroncined’erba, un maligno ramo si schiantò ed i suoi erbosi trofei ed ella medesima cadderonel piangente ruscello. Le sue vesti si sparsero larghe e, come fosse una sirena, la so-stennero alquanto. Ed ella veniva cantando frammenti di vecchie arie, come colei chefosse inconsapevole della sua propria sventura, o come una creatura che avesse avutaorigine in quell’elemento e che quasi vi si sentisse adattata e disposta dalla natura.Ma a lungo non poté durare, ché in breve le sue vesti, fatte pesanti dall’acqua di cuis’erano imbevute, trassero la meschina dal suo canto melodioso ad una fangosamorte”. (Amleto(( , atto IV, scena VII). La figura di Ofelia, personaggio marginale nellatragedia, diviene centrale nella tradizione figurativa del dramma e la sua tragica fineesercitò un fascino talmente grande negli artisti da interessare tutto l’Ottocento e ilNovecento. Il motivo principale del loro interesse era, da un lato, la sua figura vergi-nale, esile e dolce e, dall’altro, l’associazione decorativa della fitta cornice di piantee fiori in cui riaffiora ormai morta. Altro caso è, ancora, la morte di Catone l’Uticensenell’opera di Guillaume Guillon Lethière, 1795, che è un esempio di suicidio dimo-strativo, utilizzato come strumento di protesta già all’epoca romana. Marco PorcioCatone Uticense, persona incorruttibile e retta, decise, infatti, di uccidersi proprio perprotestare contro Cesare e il suo accentramento del potere a scapito della repubblica.Così, egli trascorse le sue ultime ore pranzando tranquillamente e discutendo di filo-sofia; al termine del simposio si trafisse con la spada il ventre, continuando, poi, a in-fierire nervosamente contro i suoi stessi visceri. Già negli anni successivi la morte, lasua figura divenne simbolo d’integrità morale e di fedeltà verso la libertà politicaspinta fino al martirio, al punto che Dante, nella sua Divina Commedia, lo pone comeguardiano del Purgatorio. Da ultimo, il suicidio di Cleopatra: la storia di quest’ultimaha affascinato nei secoli scrittori e artisti, che hanno contribuito alla nascita della leg-genda di una bellissima seduttrice, che ammaliò due dei più potenti uomini del suotempo. La sua morte, a causa del morso di un aspide, ha ispirato appunto centinaia diartisti, dal Rinascimento a oggi: tra questi il Guercino, Tiepolo e Delacroix.

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Suicidio e imitazione nella comunicazione di massa

I mezzi di comunicazione di massa sono strumenti così potenti da essere in grado dicreare, modificare e orientare i più diversi atteggiamenti sociali. È indiscutibile chela rivelazione e la descrizione di un suicidio da parte di un mezzo di comunicazionedi massa possa portare a un incremento del medesimo gesto da parte di altre persone,

tsoprattutto giovani, nei giorni successivi (Stack, 2003; Tousignant et al., 2005; Yip etal., 2006). Tuttavia, quello che è ancora oggetto di discussione è in che misura questainfluenza si esplichi e, di conseguenza, quali tipi di misure preventive possano essereprese per ridurre il fenomeno. A questo proposito, Brigham – padre fondatore del-l’American Journal of Psychiatry – già nel 1844 scrive: “che i suicidi siano pericolo-samente frequenti nel nostro Paese è evidente a tutti. Come misura di prevenzionenoi suggeriamo alle testate giornalistiche di non pubblicare i dettagli di tali avveni-menti. Non c’è nulla di scientificamente meglio dimostrato del fatto che il suicidio èspesso portato a compimento per effetto dell’imitazione. Un semplice paragrafo dicronaca giornalistica può suggerire il suicidio a venti persone. Alcuni particolari delladescrizione sono in grado di accendere l’immaginazione dei lettori fino al punto chela disposizione a ripetere quel comportamento può diventare irresistibile”.

Una delle più grosse epidemie di suicidi si ebbe in Germania nel 1774, dopo lapubblicazione del romanzo di Johann Wolfgang Goethe I dolori del giovane Werther,in cui si narra il suicidio del giovane protagonista in seguito a una delusione senti-mentale. Il testo riscosse un enorme successo e la sua divulgazione fu seguita da unaumento dei suicidi in tutta Europa al punto tale che, in alcuni Paesi, si arrivò allacensura del libro stesso allo scopo di arginare il fenomeno. Un effetto analogo lo siosservò in Italia dopo la pubblicazione, nel 1802, del romanzo di Ugo Foscolo Leultime lettere di Jacopo Ortis. L’effetto Werther, termine coniato dal sociologo DavidPhillips nel 1977, presuppone che l’imitazione e la suggestionabilità possano avereun ruolo importante nella dinamica del suicidio. Anche É. Durkheim (1897), ne lIlsuicidio: studio di sociologia, affronta questo tema: “vi è imitazione quando un attoha per antecedente immediato la rappresentazione di un atto simile, precedentementecompiuto da altri, senza che fra questa rappresentazione e l’esecuzione s’inseriscaalcuna operazione intellettuale, esplicita o implicita, che verta sui caratteri intrinsecidell’atto riprodotto”. Il suicidio, in quest’ottica, si può trasmettere per “contagio imi-tativo”. In ogni caso, secondo il sociologo francese, l’imitazione non può spiegare egiustificare una crescita in assoluto del fenomeno; costui sottolinea, infatti, che“tranne rarissime eccezioni, l’imitazione non è un fattore originario del suicidio;essa non fa che rendere apparente uno stato che è la vera causa generatrice dell’attoe che, con tutta probabilità, avrebbe trovato il modo di produrre il suo effetto quan-d’anche essa non fosse intervenuta: fortissima deve essere la predisposizione, se cosìpoca cosa è sufficiente a farla passare all’atto”.

In Germania, nel 1981, venne mandato in onda un serial televisivo, dal titoloDDeath of a student, che trattava la morte di un giovane studente morto suicida but-tandosi sotto un treno. Ogni puntata si apriva con una scena del suicidio ripresa daangolazioni diverse. Nel periodo seguente la trasmissione del telefilm ci fu un in-

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cremento inequivocabile di suicidi commessi con la medesima modalità. L’aumentoè stato del 175% nella popolazione maschile al di sotto dei 30 anni e del 167% frale femmine. Per le donne al di sopra dei 30 anni e per gli uomini al di sopra dei 40non si registrò nessun incremento significativo (Schmidtke e Häfner, 1986). Da no-tare come il fenomeno abbia riguardato principalmente telespettatori coetanei delprotagonista, a conferma del ruolo importante assunto dalla minore o maggiore iden-tificazione che una persona sente nei confronti del defunto. Stesso effetto si è riscon-trato in Gran Bretagna, a seguito della trasmissione di un episodio del telefilmCasualty, in cui una ragazza di 15 anni tentava il suicidio ingoiando 50 compressedi paracetamolo. Nel mese successivo si ebbe un incremento sia di suicidi sia di TSeffettuati con la stessa modalità. Molte delle vittime sopravvissute confermarono lastretta associazione tra il loro atto e l’episodio del telefilm (Merskey, 1996). In unepisodio successivo, un pilota dell’aviazione britannica tentò il suicidio, sempre conparacetamolo. Con lo scopo di analizzare le conseguenze di questa puntata sul tassodei suicidi, Hawton ha confrontato le 3 settimane prima delle messa in onda del-l’episodio con le 3 settimane successive e ha trovato un incremento del 17% dei ten-tati suicidi con la medesima modalità durante la prima settimana e del 9% durantela seconda settimana. Circa il 20% dei soggetti ha ammesso di avere visto il pro-gramma e un altro 20% ha ammesso l’influenza del programma nella scelta del me-todo (Hawton et al., 1999). Il fenomeno dell’imitazione si verifica anche – osoprattutto – quando chi si suicida è una persona reale e non un personaggio di untelefilm, film o romanzo. Numerosi esempi confermano il dato: a seguito della morteper suicidio di Leslie Cheung, un cantante e attore divenuto famoso a Hong Kongnegli anni 80, avvenuta il 1 Aprile 2003, si ebbe un incremento dei suicidi consumaticon la medesima modalità (precipitazione) nelle settimane successive (Yip et al.,2006). Un altro esempio si è avuto nel sud-est della Corea dove, a seguito della mortedi una persona che si è tolta la vita bruciandosi viva, si sono verificati altri casi ana-loghi, soprattutto in soggetti tra i 24-35 anni (Huh et al., 2009).

Negli ultimi anni si è assistito anche a una crescita della modalità di suicidio in-dotta via web: un esempio si ha in Giappone dove, dal 2003, si sono verificati mol-teplici suicidi, commessi principalmente con il monossido di carbonio, di gruppi digiovani ragazzi conosciutisi via internet (Hagihara et al., 2007). Lo stesso accadeanche in Italia, per quanto riguarda – molto recentemente – l’annuncio del suicidiovia Facebook o altri social network frequentati dalle giovani generazioni. Una pos-sibile spiegazione dell’impatto dei media sulla comunicazione di massa dell’atto au-tolesivo è data dalla social learning theory che afferma, sostanzialmente: se unapersona impara che altre persone in difficoltà risolvono il problema suicidandosi,questa potrebbe identificarsi con loro e, di conseguenza, copiarne il comportamentotramite un meccanismo psicologico chiamato acquisizione (Stack, 2003). Inoltre, lastoria raccontata ha un diverso impatto in base al grado di identificazione che il sog-getto ha sviluppato nei confronti del protagonista. Infatti, dai dati anagrafici e anam-nestici, appare spesso un’impressionante similarità tra la condizione del suicida equella dell’imitatore: se il suicida era anziano, aumentano i suicidi di anziani, se ilsuicida appartiene ad un certo ceto sociale o professione, aumentano i suicidi in queideterminati ambienti. In ogni caso, sembra che siano i giovani ad essere più vulne-

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rabili al fenomeno dell’imitazione (Hawton e Williams, 2005; Zahl e Hawton, 2004).Un altro aspetto importante riguarda la tipologia dell’audience: se la società mostra,in quel momento, un’alta condizione “suicidogena”, la storia raccontata dai mediaavrà maggiori probabilità di provocare un comportamento imitativo nelle persone.Si tratterebbe di persone che, molto probabilmente, si sarebbero suicidate lo stesso:il ruolo dei media sarebbe piuttosto quello di “acceleratore”. È probabile, quindi,che la comunicazione sia in grado di influenzare solo parzialmente una persona, ma-gari portandola dal pensare al commettere l’atto.

In una review sistematica sull’argomento, Stack (2003) ha tentato di delinearealcuni elementi generali su cui verte la relazione media-suicidi. Occorre sottolineareche, se risulta certamente facile ipotizzare la possibilità di un effetto imitativo in-dotto dall’esposizione ai mass media, ciò deve essere correttamente valutato e in-terpretato nei termini di un’interazione tra fattori diversi, quali le caratteristichedella persona, del mezzo e del messaggio e le condizioni ambientali in cui l’infor-mazione è stata proposta. Inoltre, affinché i mezzi di comunicazione possano gio-care un ruolo non irrilevante nell’incrementare i tassi di suicidio in determinatiluoghi, non è solo sufficiente che questi diano la notizia del suicidio, ma risulta fon-damentale che la diano in una certa maniera. Da questa revisione emergono alcunipunti interessanti:• il rilievo dato a un suicidio o a un TS da parte dei media incide direttamente sul

loro incremento nel giro di una o due settimane (Hawton et al., 2000; Yip et al.,2006). In generale, un’ampia pubblicità può incrementare il tasso nazionale disuicidio al massimo di 2,5% nel mese seguente (Stack, 2000) e l’aumento si ve-rifica nelle zone dove il suicidio ha avuto grande risonanza;

• sembra accertato che offrire notizie dettagliate su casi di suicidio, soprattutto perquanto riguarda la modalità, abbia un effetto induttore nei riguardi della popola-zione. Le notizie date dalla televisione, in genere, durano meno di 20 secondi e,quindi, possono essere dimenticabili; al contrario quelle date dal giornale ven-gono raccontate in maniera più dettagliata e, soprattutto, possono essere conser-vate, rilette e studiate. Tutto ciò si riflette nella maggiore influenza, sulcomportamento suicidario, che possiedono i secondi rispetto ai primi (Stack,2003). A Vienna, nel 1978, dopo la costruzione della metropolitana, si ebbe unampio numero di morti suicidi che si buttavano sotto il mezzo di trasporto. I gior-nali riportarono i fatti in maniera meticolosa e particolareggiata. L’AssociazioneAustriaca per la Prevenzione del Suicidio ha giudicato i media responsabili diquesta “epidemia” di suicidi; quando le notizie di suicidio hanno incominciato aessere riportate in modo approssimativo, in particolare senza descrivere il metodoe senza dedicarvi ampi spazi. La percentuale di suicidi in metropolitana diminuìdell’80% nei 6 mesi successivi (Etzersdorfer e Sonneck, 1998);

• vi è differenza a seconda che il suicidio, rappresentato dai mezzi di comunica-zione, sia una storia vera o meno: da una metanalisi risulta che i veri suicidi pos-siedono un impatto maggiore – di 4,03 volte – rispetto ai suicidi raccontati neilibri, film e telefilm (Stack, 2003). Nella revisione di Gould emerge come, su 42studi relativi a suicidi veri riportati dai media, in ben 29 (69%) si possa eviden-ziare il fenomeno dell’imitazione, in 8 (19%) no e in 5 (11%) i risultati siano

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dubbi: questo autore ha dimostrato che lo stesso si verifica in caso di suicidi finti,ma in misura statisticamente minore (Gould, 2001);

• molto importante risulta essere il livello di celebrità della persona morta suicida.Vari studi hanno misurato che, se la storia riguarda una persona celebre, vi è unrischio maggiore di 14,3 volte di andare incontro a un fenomeno di imitazione(Stack, 2000). Un esempio classico è quello della morte di Marilyn Monroe, de-ceduta a causa di un’overdose di barbiturici il 4 Agosto 1962: durante il mesesuccessivo ci fu un incremento dei suicidi del 12%. Una giustificazione a taledato viene dal maggior grado d’identificazione che si ha con una persona celebrerispetto a una persona “non famosa”;

• elementi sia quantitativi sia qualitativi (Gould, 2001) inerenti la presentazionedell’articolo possono influenzare la propensione o meno dell’articolo stesso a in-durre un comportamento suicidario nei lettori. Tra i primi rientrano la lunghezzae la posizione dell’articolo, la presenza o l’assenza di foto, la grandezza dei titolie la frequenza nel riportare la notizia. Nei secondi rientrano il privilegiare notiziesu personaggi celebri, presentare il suicidio non come un atto negativo, quantopiuttosto come un atto nobile, e spiegare il dolore della vittima in modo da tra-smettere empatia al lettore. Secondo alcuni autori, uno dei motivi per cui l’Un-gheria ha un più alto tasso di suicidi rispetto ad altri Paesi è dovuto, almeno inparte, alla tendenza della stampa a connotare il suicidio con aspetti positivi, po-nendo in secondo piano il lato “patologico” e “negativo” del gesto stesso.L’influenza che la stampa può avere sul fenomeno può essere anche di tipo in-

verso. Infatti, se il suicidio viene trattato come un fatto negativo, questo può portare,se non a una diminuzione, almeno a un non incremento dei tassi di suicidio. Tuttociò si è verificato, per esempio, a seguito della morte di Kurt Cobain, leader delgruppo musicale Nirvana, morto suicida nel 1994. Il cantante lasciò un messaggioscritto ai suoi amici e ai suo fan in cui disse: “Ho perso la gioia di vivere. Meglioandarsene con una vampata, che morire giorno dopo giorno. A volte mi sembra ditimbrare il cartellino, quando sto per salire sul palco. Da anni ho perso il gusto dellavita e non posso continuare a ingannare tutti. Il peggiore crimine è l’inganno. Ho bi-sogno di staccarmi dalla realtà per ritrovare l’entusiasmo che avevo da bambino.Sono anni che non provo niente. Ho perso tutto l’entusiasmo. Anche la musica nonè più sincera”. La vedova del cantante, Courtney Love, presentò l’atto del maritoalla stampa, alla televisione e alla radio come un atto negativo e così si riuscironoad arginare eventuali comportamenti suicidari che si sarebbero potuti verificare inseguito all’accaduto. Questo concetto era già stato analizzato anche da E. Durkheim(1897): il sociologo francese, nel suo libro, scriveva: “In realtà, ciò che può contri-buire allo sviluppo del suicidio o dell’assassinio non è il fatto di parlarne, ma la ma-niera in cui se ne parla”. L’autore aveva osservato come, ove le pratiche del suicidiovenivano giudicate in maniera riprovevole, si suscitassero nei soggetti predisposti acompiere tale atto sentimenti in grado di neutralizzare gli impulsi suicidi. Al contra-rio, quando la società è moralmente sconvolta, “lo stato di incertezza in cui si trova,le ispira per gli atti immorali una specie di indulgenza espressa involontariamenteogni volta che se ne parla, la quale ne rende meno sensibile l’immoralità”. In que-st’ultimo caso, il suicidio diventa allarmante perché l’indifferenza sociale diminuisce

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la repulsione che esso dovrebbe ispirare.Da ultimo, sembra poi necessario osservare come la stampa e la televisione ab-

biano un’influenza non solo sui suicidi propriamente detti ma anche su altri tipi dimorti violente, soprattutto incidenti stradali e abuso di sostanze stupefacenti o alcol,i cosiddetti “suicidi equivalenti” (Phillips, 1977). Diverse e rigorose procedure dicontrollo, applicate dallo studio, portano a concludere come, anche nel caso degli

àincidenti, la pubblicità attraverso i giornali probabilmente provochi una certa quantitàdi morti ambigue. Molti incidenti, infatti, altro non sono che suicidi camuffati. Sene deduce l’importanza di indirizzare eventuali progetti di prevenzione primariaanche in questo senso.

Concetti chiave

• La rivelazione e la descrizione di un suicidio da parte di un mezzo di co-municazione può portare a un incremento del medesimo gesto da parte dialtre persone.

• Il fenomeno dell’imitazione interessa principalmente i giovani e/o i soggettiche si identificano con la vittima.

• Una possibile spiegazione dell’impatto dei media è data dalla social le-arning theory.

• Un ruolo rilevante nell’aumentare il tasso di suicidi è come viene rivelatala notizia da parte dei media.

• L’influenza che la stampa può avere sul fenomeno può essere anche ditipo inverso (diminuzione del fenomeno dell’imitazione).

• La stampa e la televisione hanno influenza anche sui cosiddetti “suicidiequivalenti”.

Parole chiave

• Effetto Werther: termine coniato dal sociologo David Phillips nel 1974.Presuppone che l’imitazione e la suggestionabilità possano avere un ruoloimportante nella dinamica del suicidio.

• Social learning theory: afferma che, se una persona impara che altri sog-getti, in difficoltà, risolvono il problema suicidandosi, questa potrebbeidentificarsi con loro e, di conseguenza, copiarne il comportamento tramiteun meccanismo psicologico chiamato acquisizione.

Appunti su letteratura, cinema, musica, pittura e sugli effetti della comunicazione di massa ai giorni nostri 281

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