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La crisi è giova ne c o p i a g r a t u i t a settembre/ottobre 2009 12 | copertina mtv is not cool 4 | inchiesta universitopoli 8 | università contro l’università liquida poLITICO MENSILE DI POLITICA CULTURA SOCIETA’

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settembre/ottobre 2009

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4 | inchiestauniversitopoli

8 | universitàcontro l’università liquida

poLITICO

MENSILE

DI POLITICA

CULTURA

SOCIETA’

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editoriale

SOMMARIO FONDATO DALeonard berberi

Flavio BiniAntonio Bisignano

DIRETTO DAAna Victoria Arruabarrena

Filippo BasileFrancesco Russo

REDAZIONE.Bee , Matteo Brambilla,

Luca Ceriani, Armando Dito, Matteo Forciniti, Chiara Galbersanini,

Stefano Gasparri, Randa Ghazi, Matteo Manara, Donatella Paola Martorelli, Dario Luciano Merlo,

Dario Nepoti, Veronica Nisco, Giulia Oldani, Neliana Pollari, Chiara

Ranieri, Gabriele Villa

COLLABORATORIArianna Baroni, Giorgio Corradi, Angelica Vasile, Filippo Marchetti,

Rulin Jesuthasan, Richard R. Ramirez

CONTRIBUTO SPECIALE DICristiana Fiamingo

VIGNETTEFlaminia Sparacino

FOTO Mirko Rizza

IMPAGINAZIONE GRAFICAElisa Malvoni

COPERTINAPaolo Carrozzani

CORRETTORI DI BOZZEGiulia Laura Ferrari, Giulia Oldani

SITO WEBwww.acidopolitico.com

[email protected]

WEB MASTERAlessandro Leozappa

STAMPAMediaprint S.r.l.

via Mecenate, 76/32 - MIilanoStampato con il contributo derivante dai fondi previsti dalla Legge n. 429 del 3

Agosto 1985

Registrato al Tribunale di Milano, n. 713 del 21 Novembre 2006

DIRETTORE RESPONSABILERoberto Escobar

3 | editorialeke elli saraveno bonidi Ana Victoria Arruabarrena

4 | inchiestauniversitopolidi Ana Victoria Arruabarrena

6 | universitàDecleva’s Cup, una partita vinta a tavolinodi Filippo Basile

contro l’università liquidadi Cristiana Flamingo

le proposte del gruppo di lavoro Unimidi Cristiana Flamingo

Susp, un’università a misura di studentedi Gabriele Villa

12 | copertinamtv is not cooldi Filippo Basile

l’analisidi Veronica Nisco

16 | internazionalemuro di sicurezza o d’apartheid?di Neliana Pollari

la scuola impossibiledi Randa Ghazi

Amin Wahidi regista afgano rifugiato in Italiadi Francesco Russo

20 | viaggiodagli hutong ai grattacielidi Armando Dito

23 | culturala crisi dello spettacolodi Donatella Paola Martorelli

24 | ambientetermovalorizzatore Silla dalla stufa allo stufonedi Giorgio Corradi

26 | Italiala realtà capovolta vista da suddi Matteo Forciniti

caso “Fondi”: quando la mafia non è un problemadi Giulia Oldani

28 | musicada Moby a Cicciolina in pochi, semplici, passidi Richard R. Ramirez

fast food albumdi Luca Ceriani

28 | speciale MFFMilano Film Festival, feed your mind!di Chiara Ranieri

l’Italia non è l’Americadi Chiara Ranieri

Mary e Maxdi Arianna Baroni

32 | la vignettale peregrinazioni terrene del giovane precariodi Flaminia Sparacino

COMITATO di GARANZIA Su richiesta della Direzione e della Redazione di Acido Politico, un comitato costituito da docenti della Facoltà di Scienze Politiche si assume il compito di garantire la libertà e la correttezza sul piano legale del contenuto del periodico, senza tuttavia interferire sui suoi orientamenti e contenuti. Il comitato è composto dai prof. Gabriele Ballarino, Antonella Besussi, Francesco Camilletti, Ada Gigli Marchetti, Piero Graglia, Marco Leonardi, Lucia Musselli, Michele Salvati, e Roberto Escobar, il quale assume, ai fini della legge sulla stampa, la funzione di direttore responsabile.

ke elli saraveno boni

Autunno 2009. Teatro dal Verme.Il silenzio inizia a calare, la luce è soffusa. In sottofondo, il bisbiglìo del pubblico e il suono disordinato degli strumenti che si preparano. Di fianco al direttore, l’unico interprete, il Sindaco. Lo spettacolo ha inizio. La musica e i versi si susseguono nel Lincoln Portrait con una cadenza quasi religiosa: “Fellow citizens, we cannot escape history”, reci-tano. Improvvisamente però l’aria viene spezzata. Un grido, più grida. La musica si interrompe ma l’attore non si arresta, i versi continuano con la stessa inflessione, con la stessa calma. Quelle urla fanno accapponare la pelle ma l’Istituzione è inamovibile. Impenetrabile. Incommovi-bile. “Perché non possiamo studiare?”, “perché chiudete la nostra scuola?”. Sono le voci disperate dei ragazzi del Gandhi, ultimo e unico liceo serale di tutta Italia. Uno ad uno vengono scortati via, resiste per poco una ragazza prima di essere strappata dalla sala come la Ida Valser di Bellocchio. Il pubblico li ap-plaude e il Sindaco riprende a recitare. Imperturbata.

Nel numero di ottobre del 2008 Aci-dopolitico allertava con una copertina provocatoria la comunità dell’ateneo sulla finanziaria 133/2008. Un enorme cartello VENDESI UNIVERSITA’ sintetizza-va parte del senso di quel testo. Ad un anno di distanza la situazione permane grave non solo per l’università ma anche per la scuola e la cultura destinatarie di quei e di nuovi tagli.Particolarmente a cuore ci sta il Gan-dhi a cui dedichiamo quest’editoriale. Scuola civica serale, l’unica nel paese a garantire un’istruzione liceale agli studenti lavoratori è oggetto di chiusura

di Ana Victoria Arruabarrena

da parte dell’Amministrazione comunale. Una struttura unica nel suo genere che dovrebbe essere potenziata e difesa perché permette “ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi di raggiungere i gradi più alti degli studi” (ndr art 34 Costituzione).A tutti dunque l’invito di difendere quest’istituto e a sorvegliare, discutere ed influenzare il destino della nostra Univer-sità. Ognuno dalla propria posizione: dagli editoriali dei maggiori quotidiani nazionali, ai Consigli di Facoltà, ai gruppi di lavoro. Non ci sono scuse, l’istruzione e la cultura sono in pericolo. Come direbbe Bonvesin della Riva: “Molti homini in questa vita se dano excusatione ke elli seraveno boni, ma dixeno che non pono. Non pono perché non voleno”.

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inchiesta

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universitopoli

Giornali stampati in poche copie e fatture gonfiate. Un’inchiesta del Master di Giornalismo svela un sistema di rimborsi di attività fantasma dal 2004 al 2007. I responsabili? Oggi fuori dall’università. Direttamente sui banchi della politica.

“Tre giornali: Tru(e)man, Tiger e The Glo-be. Un triennio: 2004-2007. Una lista: Obiettivo Studenti, vicina a Comunione e Liberazione. Ventimila copie stam-pate, per un totale di 25.000 euro”. Comincia così la lunga inchiesta pubblicata da due studenti del Master in Giornali-smo dell’Università Statale (il link all’articolo su www.acidopoliti-co.com). L’accusa è pesantissi-ma: attraverso i fondi mille lire, sarebbero state rimborsati per tre anni giornali universitari mai diffusi nei corridoi dell’ateneo. Come? Accordandosi con le tipografie, facendo emettere fatture molto più corpose di quanto in realtà prodotto, e incassando i rimborsi. I giornali sarebbero stati stampati in un numero molto inferiore di copie e consegnati nei sei esemplari richiesti dall’Ateneo a prova dell’effettiva rea-lizzazione. I soldi, incassati per attività terze alla stampa. “Nessuno – o quasi nessuno – li ha mai letti. Al Tribunale, dove dovrebbero essere registrati, non risultano. No-nostante, in fase di stampa, abbiano goduto dell’Iva agevolata, applicabile soltanto alle testate registrate”, si legge nell’inchiesta. Qualsiasi giornale, anche di diffusione contenuta, per essere distribuito dev’essere registrato in un ap-posito registro del tribunale di Milano. Nessuna di queste tre pubblicazioni, se-condo quando riportato, risulta in quegli

di Ana Victoria Arruabarrena elenchi. Eppure tutti e tre riportano nelle fatture presentate all’ateneo, e di cui i due autori dell’inchiesta (ex direttori di Acido Politico ndr) sono entrati in posses-so pubblicandole in corredo all’articolo, agevolazioni fiscali previste per le testate registrate. Pubblicazioni molto rudimen-tali, a dispetto degli alti costi di stampa

dichiarati dalle fatture. Un esempio. Il quarto numero di Trueman, anno 2006. Costo dichiarato: 3 euro. “Per avere un’idea del suo costo effettivo – si legge nell’inchiesta- abbiamo fatto stampare la stessa pubblicazione sullo stesso tipo di carta in una delle copisterie di fronte alla Statale. Prezzo? 48 centesimi. Sei volte di meno”.Facciamo un passo indietro. “Chi decide quanti fondi assegnare a ogni progetto culturale studentesco – 170mila euro all’anno –, è proprio una commissione del Cda in cui siedono anche tre rap-presentanti studenti. Uno di questi – nel triennio in questione – è Marco Martino.

Ex di Obiettivo Studenti, ex consigliere comunale di Cinisello Balsamo. Ora, neoeletto consigliere provinciale nelle file del Popolo della Libertà”. Proprio su Marco Martino emergono i particolari più interessanti. “Nel 2006/2007, quando i tre giornali risultano finanziati e stampati insieme,

ANNO ACCADEMICO

TRU(E)MAN TIGER THE GLOBE

2004/2005 7.175 euro

(9.000 copie)

2005/2006 6.975 euro 1.500 euro

(3.000) (2.000)

2006/2007 4.000 euro 3.000 euro 2.000 euro

(n.d.) (n.d.) (n.d.)

18.150 euro 4.500 euro 2.000 euro

(>9.000 copie) (>2.000) (n.d.)

TOTALE 24.650 euro

a fronte di preventivi targati Ce.se.d, a stampare è la Edint, associazione neo-costituita e la cui partita Iva è registrata all’Agenzia delle Entrate dal 1 ottobre 2006. Tra i soci fondatori c’è proprio Marco Martino, membro uscente del consiglio di amministrazione (nel 2006 ndr). Nell’intestazione dell’associazione c’è un numero di telefono cellulare: il suo. Anche l’indirizzo coincide con quel-la che, all’epoca, era la sua residenza”.Capitolo a parte il problema fiscale. Nel 2005 i giornali godono dell’Iva agevolata al 4% anche se non ne avrebbero diritto, nel 2006 succede l’incredibile. L’Iva risale oltre il 20% che

la legge prescrive e arriva al 25. L’errore, anche osservando le fatture che vengono pubblicate con l’inchiesta, è macroscopico, ma nessuno erogando i rimborsi sembra accorgersene. Difficile che qualcuno scelga di pagare più tasse del necessario, ma se fatture più alte significa ottenere rimborsi più corposi allora tutto sembra trovare una spiegazione.Sentiti anche i responsabili dei progetti. ”Chiara Orteca, titolare di The Globe, non ricorda neanche le caratteristiche del suo giornale. Lo stesso realizzato soltanto due anni fa”.

guarda l’inchiesta originale su:

www.acidopolitico.com

Pochi dubbi anche sul fatto che i tre progetti “sospetti” non abbiano nulla a che fare tra loro. Non solo i responsabili sono tutti ricondu-cibili ad Obiettivo Studenti, ma le fatture delle stampe, effettuate sempre dalle stesse società ”sono state emesse una dopo l’altra. Anche se a distanza di un giorno. Circostanza che si ripete cinque

“Solo le dittature mantengo-no l’idiozia di perseguitare la scrittura solo perché scrittura, il pensiero in quanto pensiero. Nelle democrazie si censura ignorando.”(Roberto Saviano)

mesi dopo, quando i documenti sono contabilizzati ancora uno dopo l’altro. Questa volta, nella stessa giornata”.Interpellata dagli autori dell’arti-colo, l’Università fa sapere che le regole dal 2006 sono cambiate. Allora, una mozione di Sinistra Universitaria aveva per la prima volta evidenziato il problema delle attività fantasma finanziate dall’ateneo. Regole nuove quindi. Ma prima?Ciò che è accaduto prima del 2006 non si può sapere. Tutti i rappresentanti di allora oggi sono fuori dall’università e nessuno di

loro sembra ricordare con esattez-za le caratteristiche dei giornali che essi stessi realizzavano. Tutto sembra sepolto nel passato, e con l’intenzione di volerci rimanere a lungo. Nessuna smentita è an-cora arrivata dai responsabili dei progetti. Nessun indagine interna è stata avviata all’interno dell’ateneo. Niente di cui stupirsi.

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università

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L’autunno è cominciato e nei corridoi dell’università già si prepara la mobilitazione di ottobre. Collettivi e liste studentesche sono al lavoro per mettere a punto nuove forme di protesta. Acido Politico le

svela in anteprima.

1) Delegazione di studenti sul tetto dell’edificio. Sulla scia della Insse, un gruppo di studenti salirà in cima all’edificio di Via Conservatorio. Le condizioni sono durissime. L’idea è di non scendere fino a quando un decreto regio della Gelmini avrà abolito tutti gli esami di statistica. Da definire la composizione della delegazione. Per soddisfare tutte le esigenze di rappresentanza, è probabile la presenza di un membro del collettivo, un rappresentante degli studenti, un marxista leninista, un marxista non leninista e un leninista non marxista. In dubbio il Pd.

2) Blocco della Tangenziale. In divisa antisommossa per fronteggiare il disappunto garbato degli automobilisti pendolari che vedranno ostacolato il proprio ritorno a casa, un gruppo di studenti bloccherà ogni giorno alle 17 la tangenziale ovest di Milano. Qualora la protesta non incontrasse il favore dei cittadini, per soddisfare anche le loro necessità, è previsto uno spostamento della mobilitazione sulla Milano-Meda alle ore 20. Casomai neanche questa soluzione trovasse il favore della cittadinanza, è possibile uno spostamento del corteo sulla bretella Rho-Busto Arsizio alle ore 22.30. Se nemmeno così si riusicisse a saldare la protesta con i cittadini è comunque previsto un sit-in alle 3.40 del mattino allo svincolo Corsico-Gaggiano della tangenziale ovest. Adesioni alla protesta sono già arrivate da collettivi studenteschi, indipendenti di sinistra e marxisti Leninisti. In dubbio il Pd per la paura di perdere il sostegno della lobby di pendolari notturni di Corisco-Gaggiano.

3) Sequestro del preside. L’atto è estremo, tanto che il Pd si è già detto in dubbio sull’adesione alla protesta prima ancora della discussione. Non contro l’atto in sé ma sull’utilizzo della parola sequestro a dispetto di dei più prudenti “trattenimento”, “chiacchierata tra amici”, “colloquio chiarificatore”. Definita già la composizione del commando. Un marxista leninista, un membro del collettivo studentesco, un esperto di esplosivi, un volontario della protezione civile, due biologi marini e un cane da compagnia. Sospetto depistaggio circa la fuga delle notizie.

.Bee

free the beesChi L’11 giugno 2009 era presente nel chiostro centrale dell’università di via Festa del Perdono si ricorderà certo della protesta andata in scena contro il rettore dell’università. Un torneo di calcio (Decle-va’s Cup) improvvisato sul prato a ritmo di musica. Una di quelle iniziative che si potrebbero definire “protesta creativa”: un gesto non violento ma rumoroso che attiri l’attenzione degli studenti, dei pas-santi e dei professori al fine di contestare la gestione dell’università. Contestazione in questo caso non digerita dal Rettore Decleva che per l’occasione ha rispolve-rato la commissione disciplinare, organo che non vedeva la luce dal lontano ‘68. Ad essere chiamati in causa sono 5 ragazzi, gli unici identificati, ai quali viene contestato il comportamento di tutti

Decleva’s Cup, una partita vinta a tavolino

Di Filippo Basile

La commissione disciplinare, al suo esordio, discute il caso di cinque studenti presenti alla contestazione contro il Magnifico rettore dell’Università Statale di Milano e ne sanziona due.

Il 15 luglio, il presidente della regione Lombardia Formigoni ha rinno-vato l’assetto politico sanitario del Policlinico - Mangiagalli, dell’istituto dei Tumori, del neurologico BESTA e del San Matteo di Pavia. Un rinnovo che porta 6 nuovi nomi su 14. Tra questi vi è anche quello di Enrico Decleva (68). Il quale, oltre ad essere già Rettore dell’Uni-versità statale di Milano (eccezionalmente al suo terzo mandato) e presidente della Crui, dove porta avanti la mediazione sulla riforma dell’università, ora deve anche sedere nel consiglio di amministra-zione del Policlinico.

Decleva al Policlinico

Un comma inserito nell’articolo 72 della legge 133 del 2008 offre la possibilità agli Atenei di pensionare professori ordinari e associati a settant’anni (non più a 72) e i ricercatori a sessantacin-que. Questo porterebbe ad un ri-sparmio in un biennio di 31 milioni e 300mila euro in stipendi. I Docenti raggiunto il limite di età hanno fatto ricorso, vincendolo, al Tar. Questo gli permetterà di rimanere in carica fino a 72 anni vanificando il comma che secondo il ministro avrebbe dovuto assestare il colpo definitivo ai “vecchi e cari” Baroni.

Gerontocrazia

teva la sua presenza) e un altro sospeso per tre mesi. Quest’ultimo, riconosciuto da un professore che quel giorno pas-sava per il chiostro centrale, secondo le nostre fonti risulterebbe essere l’orga-nizzatore della protesta. Un volto noto, che compare anche sulle foto scattate dalla DIGOS, materiale, però, che la

commissione ha preferito non prendere in considerazione, evitando così una piog-gia di sanzioni che avrebbero ottenuto un effetto a dir poco controproducente per l’immagine dell’università. Parlando con i rappresentanti degli stu-denti presenti in commissione scopriamo che tutto ciò che viene deciso e discusso non può essere comunicato al di fuori, almeno fino a quando il senato acca-demico non avrà votato la sanzione. (le indiscrezioni fin qui citate sono prese da fonti non ufficiali, ndr). Contenuti segretati al fine di non far parlare delle sanzioni. Una decisione alquanto ambigua dal momento che non si trattava certo di comportamenti singoli, ma bensì di una protesta collettiva che se pur non condivisa dall’unanimità degli studenti ne

i protestanti, in particolare l’introduzione di un furgoncino e l’interruzione delle lezioni con musica ad alto volume. La commissione dopo la prima convoca-zione, ha rinviato la seconda seduta a data da destinarsi. Data che non è mai stata resa pubblica se non a giochi già fatti. L’obbiettivo di sfuggire ad un’ulte-riore protesta è quindi riuscito, così il 29 settembre si è presa la decisione finale: 3 ragazzi “prosciolti” per insufficienza di prove, un ragazzo sospeso per un mese (a quanto pare per via una lettera mandata alla commissione in cui ammet-

rappresentava la voce di una parte.Le azioni dei collettivi sono spesso seguite da una risonanza mediatica non indifferente, infatti le loro proteste arrivano in alcuni casi fino alle pagine di testate nazionali. Così questa volta si è deciso di dare una punizione esem-plare, per mettere in guardia le future mobilitazioni, cercando di dissuadere i possibili partecipanti ponendoli di fronte all’eventualità di poter incappare in una sanzione disciplinare che mini il proprio percorso di studi.Sebbene le motivazioni della protesta spesso possono anche non essere condivise, il modus operandi del Rettore Decleva sembra essere forse eccesivo.

Sia per il tentativo di celare i contenuti del dibattito all’interno della commissio-ne sia perché si è scelto di punire con strumento disciplinare un comportamento che fino a prova contraria può essere definito politico.Creando questo precedente il Rettore alza il muro contro i movimenti studente-schi legati agli ambienti di sinistra, dan-do il là ad uno scontro che di certo non si concluderà così facilmente. Per quanto ci riguarda non ci resta che aspettare e stare a guardare la prossima mossa dei collettivi.

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università

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contro l’università liquida

di Cristiana Fiamingo

Ricercatrice in Storia e Istituzioni dell’Africa presso l’Università degli Studi di Milano.

Sulla scorta della riforma universitaria in corso, si sono aperti due stimolanti momenti di dibattito durante gli ultimi Consigli di Facoltà di SP: a seguito di una mozione studentesca che s’oppone-va alla modifica di statuto per prorogare il mandato del Rettore, e circa i criteri di redistribuzione del fondo ordinario ai docenti. Pur a fronte di provocazioni reali o percepite tali, emerge di tanto in tanto una volontà di ripensarsi e di trascinare nei consessi collettivi tematiche essenziali per la proiezione futura della nostra istituzione di cui solitamente si discute e si decide altrove. Si tratta però d’episodi sporadici. Eppure, le riforme politiche e vieppiù quelle dell’intero settore formativo pubblico dovrebbero essere argomento di dibattito cogente in una Facoltà come la nostra: innanzitutto, perchè attraverso queste si esprime il vero programma per lo sviluppo futuro di un Paese e, poi, per-chè il declino degli altri livelli di forma-zione lo misuriamo sensibilmente anche qui, al punto d’arrivo: forse conseguenza della mancata integrazione con essi, a dispetto d’un Ministero che accoglie ogni grado d’istruzione. Infine, specie qui, alla Statale, SP raccoglie le competenze necessarie per analizzare e prevedere l’effettivo impatto di tali riforme sulla so-cietà: non è forse questo il momento da cogliere, creando tavoli di dibattito per

per saperne di più

Leggi il documento completo redatto dai ricercatori dell’ateneo su: diversamentestrutturati.noblogs.org/gallery/5026/GdL_unimi.pdf

addivenire ad un quadro condiviso di certezze, che coinvolgano tutti, studenti inclusi? Troppo spesso, infatti, anche dal-le loro istanze emerge preoccupazione per il mero servizio didattico, trascuran-do la complessità del quadro. L’università va difesa quale sistema integrato: un servizio didattico garante d’un buon livello di preparazione agli studenti, non può che incastonarsi sulle effettive possibilità di studio e ricerca riconosciute ai loro docenti, le cui risultanze in termini di produzione scientifica devono essere valutabili quanto la didattica. Questa mancata sensibilità è un ulteriore effetto negativo del sistema 3+2, in cui corsi ridotti nella durata, accresciuti di numero, per crediti negoziati in proporzione han originato l’effetto esamificio e trasformato il triennio in un liceo di livello superiore e possiamo ben dirlo all’indomani del

IX Rapporto del Cnvsu, che dichiara il fallimento di questo sistema. Specie a fronte di ristrettezze finanziarie, le forze vive dell’Accademia dovrebbero riflettere su se stesse in pro-spettiva, nella coscienza di mai ritrat-tati tagli o ipotesi di conversione degli atenei pubblici in fondazioni di diritto privato della L.133/2008 e a 10 mesi dall’approvazione di quella L.1/2009, che, mirando ufficialmente alla fine delle baronie, assegna agli ordinari il ruolo di gate-keepers del sistema, esasperando gli effetti della gerarchizzazione sulla struttura ed esautorando competenze riconosciute ad associati e ricercatori, al momento del reclutamento, e promet-tendo premi agli atenei virtuosi, condan-nando gli altri alla bancarotta. Non c’è nemmeno più l’eco delle manifestazioni di dissenso dell’inverno scorso, quando

studenti, accademici, insegnanti d’ogni grado d’istruzione e genitori si erano opposti ai severi tagli previsti al settore dell’istruzione e molte voci denunciavano gli attacchi indiscriminati al sistema uni-versitario, definito corrotto per giustificare un pesante intervento governativo. Se è ipocrita negare che la cultura egemone nel nostro Paese, articolata lungo appar-tenenze strutturate in reti d’interdipenden-za debitoria, permei pure l’Accademia, proprio dall’istituzione che raccoglie una comunità intellettuale cosciente del pri-vilegio d’essere pagata per applicare il cervello a ciò che l’appassiona bisogna aspettarsi che, a partire da se stessa, rompa una passività che avalla una scontatezza che riproduce quella cultura per autopoiesi. Che si opponga con vigore a un sistema basato su selezioni arbitrarie e non sempre legate al merito e che, nell’incertezza del diritto, si regge su promesse di futuro riscatto se si obbe-disce o si tace di fronte alle sperequazio-

ni. Continuando a cercare scappatoie per sottrarsi ad una profonda revisione del sistema, di cui questa riforma universi-taria era ed è occasione, pur laddove il ricatto non si espliciti, sarà sempre dato per scontato, avallato e garantito nel silenzio da una serie di comportamenti legittimanti: come la gratuità del lavoro e la sua ammissibilità. Gli interventi di governance non siano di facciata, ma un rinnovamento del settore pubblico, nel recupero d’una cultura del senso delle istituzioni, in cui, chi ne fa parte rivaluti la responsabilità di discernere le priorità rispetto alla preservazione di privilegi, dibattendone apertamente, sacrificando il tempo necessario a ridare assetto al sistema pubblico cui dovremmo sentirci onorati d’appartenere, sanandolo integralmente. Ci lasciamo distrarre da troppe cose, ancora, sulla scia d’una riforma cui non contribuiamo negozian-dola, come l’assurdo concorso a fondi minimali dall’ambizioso titolo: “Program-

A un anno dalla L133 che ha sottratto consistenti fondi all’università e inserito il fantasma della privatizzazione nella figura delle fondazioni proviate, ecco cosa succede oggi.

ma dell’Università per la Ricerca”. Investi-remo molte energie tra progetti inclusivi e farraginose compilazioni informatiche, a fronte di una quota individuale che non permetterà ai più di far seriamente ricerca, ma, forse, di comprarci i toner, partecipare a un convegno, invitare un ospite italiano per i corsisti. Nei corridoi ci diciamo l’un l’altro che meglio sarebbe stato se l’Ateneo avesse operata per il PUR una selezione individuale per produttività scientifica e valutazione didattica; tuttavia, rinunciando a una ricerca indipendente, vi concorriamo per garantirci sopravvivenza, in attesa d’una declinazione al peggio.

I Gruppi di Lavoro-UniMi, ricercatori di diversi settori del nostro Ateneo, hanno dibattuto l’AA scorso, fino a realizzare il documento inviato il 30 marzo a Ministro, Presidente della CRUI e Sen. Valditara [per intero in diversamente-strutturati.noblogs.org/gallery/5026/GdL_unimi.pdf] in cui ci si è espressi tra l’altro su temi fondamentali per rendere le carriere degli accademici in minimo grado dipendenti da arbitrio o

da incontri fortuiti, e garantire eccel-lenza nella qualità della ricerca, della docenza e dei servizi offerti all’utenza studentesca. Li ripropongo in sintesi, sperando stimolino la ripresa di un dibattito scevro da ipocrisie e inerzie. I GdL sostengono una separazione netta tra conferimento d’idoneità e reclutamento/avanzamenti di carriera, propugnando concorsi nazionali d’abili-tazione, a cadenza regolare e valutati secondo criteri rigorosi da una commis-sione di almeno 6 membri, sorteggiati tra ricercatori e professori dalle mede-sime competenze dei candidati e i cui

giudizi individuali siano resi pubblici. Auspicano che reclutamento e avanza-mento di carriera siano affidati a “strut-ture organizzative primarie” (SOP) a ciò deputate, di pochi membri e scientifi-camente omogenee, per permettere una valutazione comparativa. In base a un criterio di retroazione premiale, si propone che scelte qualitativamente migliori nella didattica e nella ricerca, valutate periodicamente, permettano alle SOP di disporre in trasparenza ma liberamente di finanziamenti tali da incentivare scelte responsabili. La valutazione della didattica richiede

le proposte dei gruppi di lavoro Unimi

di Cristiana Fiamingo

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l’intervista

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università

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che si rivedano i questionari sottoposti agli studenti: maggior cura e forma unitaria su tutto il territorio nazionale faciliterebbero giudizi comparativi dell’offerta formativa. La valutazione della ricerca deve basarsi su quantità e qualità della produttività scientifica, valutate secondo sistemi di referee e peer review coordinati dall’ANVUR, confrontando strutture affini nazionali e non. Ferma la necessità che lo Stato prevalga rispetto al settore privato nel finanziare una ricerca universitaria competitiva a livello internazionale, oltre all’aumento del fondo PRIN, si auspica la costituzione di fondi per l’incentivazione di didattica e ricerca con contratti individuali, supplementari rispetto alla retroazione premiale alle SOP. A fronte d’una attività didattica dei ricercatori, non contemplata dal

vigente DPR 382/1980, e di criteri d’avanzamento di carriera basati esclu-sivamente sulla produzione scientifica, per cui la competitività concorsuale di chi non si sottragga a compiti didattici si riduce, si son proposti: l’adozione di una tabella nazionale di retribuzione contrattuale dedicata e il tenure track: sistema che considera l’affidamento reiterato a un ricercatore di incarichi didattici (ufficiali e non, ove accerta-bili) quale parte di un percorso per la progressione in carriera. Particolare cura deve essere dedicata al ruolo dei valutatori: siano parte dell’ANVUR o commissari dei progetti PRIN, reclutabili anche fra stranieri, non dovrebbero essere cointeressenti del sistema acca-demico. A fronte del previsto aumento delle tasse, si raccomanda un capillare sistema di borse di studio, attribuite per

merito, per far fronte a tasse universi-tarie e spese di mantenimento: misura ed efficacia di programmi di sostegno al diritto allo studio, eventualmente promossi dagli Atenei, dovrebbero costituirne elemento di valutazione. Discutiamone: ‘democrazia partecipa-tiva’, ‘governance’, ‘merito’ resteranno vuoti slogan delle maggioranze del momento finché non diverranno catego-rie valoriali guadagnate, costantemente rinegoziate attraverso il confronto e la condivisione delle idee da parte della Cittadinanza in ogni settore della vita pubblica, non sospendendo il giudizio e adeguandosi a politiche della convenienza contingente di pochi, ma mettendo in gioco la propria imma-ginazione al servizio dei mondi che vorremmo.

Sul finire del 2007, dall’iniziativa di alcuni ragazzi della Facoltà di Scienze Politiche di Milano nasce la Students’ Union Scienze Politiche.Questa associazione no-profit si propone di smuovere il terreno sterile di una facol-tà importante come Scienze Politiche e di creare un ambiente aperto e centro di ini-ziative culturali, sportive, ludiche ideate e portate avanti dagli stessi studenti.Punto di forza dell’associazione, oltre

alla grande volontà di coloro che con essa collaborano, è il carattere comple-tamente apartitico della stessa, operan-do in modo imparziale e al di fuori di qualsiasi meccanismo politico/elettorale interno o esterno alla facoltà.Attualità, arte, musica, università e la ricerca di nuovi metodi di gestione dei fondi e degli spazi universitari stessi sono gli ambiti in cui si muovono i ragazzi che collaborano con Susp, creando in facol-tà un ambiente dinamico e multidiscipli-nare che promuova la socializzazione, l’aggregazione e la Cultura in tutte le sue forme e sfaccettature.

SUSP, un’università a misura di studente

Sul finire del 2007, dall’iniziativa di alcuni ragazzi della Facoltà di Scienze Politiche di Milano nasce la Students’ Union Scienze Politiche.

di Gabriele Villa Oggi la Students’ Union è sempre più proiettata verso l’esterno, con l’intento di creare una fitta rete con le altre associazioni culturali che operano sul territorio Milanese per ambire a progetti di sempre più ampio respiro. Ma il fulcro di gestione, di sperimentazione e di elaborazione di nuove idee resta sempre la facoltà e i suoi studenti.Si è dunque di fronte ad un duplice obbiettivo: inserire la facoltà nel tessuto cittadino Milanese ed allo stesso tempo portare Milano dentro la facoltà.

I cantieri per l’anno accademico 2009/2010 sono ad oggi apertissimi con un primo programma che prevede:

- mafia, Stato, società nella storia della Repubblica Italiana: un laboratorio con la possibilità di riconoscimento crediti formativi universitari (è la prima volta che un gruppo di studenti riesce a portare avanti un progetto di tale portata)- ciclo di conferenze su cui presto sarà presentato il programma in facoltà (ricordiamo l’ultima grande conferenza con Marco Travaglio) - presentazione libri – incontri con gli autori: verranno invitati in facoltà autori di libri per permettere loro di presentare di fronte agli studenti le proprie opere- Tandem Linguistico / Linguistic Exchange: apprendimento della lingua grazie all’accoppiamento con uno studente straniero- uni-ON: il mensile con le notizie d’ultimo grido dalla facoltà- Supporto Erasmus-incoming- Torneo di calcetto: torneo sportivo giunto ormai alla sua terza edizione- Viaggi organizzati: partire insieme ad altri studenti della facoltà per un viaggio alla scoperta di mostre, concerti, eventi- SusParty: la grande festa di chiusura anno accademico di Scienze Politiche

E tutte le proposte che perverranno nel corso dei mesi dagli studenti!

Questo è quello che l’associazione Students’ Union Scienze Politiche ha intenzione di offrire.Se questo grande esperimento, costituirà

un esempio per un nuovo modo di vivere l’università e potrà rincorrere progetti an-cora più grandi e ambiziosi, lo diranno i fatti……. e gli studenti!

Se vuoi collaborare con SUSP, o per informazioni di carattere

generale e iscrizioni

[email protected]

Perché ti sei avvicinato alla realtà di Susp?Ho riconosciuto nell’Associazione il tenta-tivo di creare del pensiero in una facoltà, quella di Scienze Politiche, che invece di spiccare per fervore culturale, mostrava fino a un paio di anni fa un vacuum di iniziative in totale controtendenza con la propria vocazione. Susp nasce con lo scopo di colmare il vuoto derivante dall’assenza di un sindacato studentesco in Italia, che sia in grado di sviluppare nuove e diverse forme di gestione dei fondi e degli spazi universitari. In poche parole vorremmo creare una diversa governance dell’Università. Come l’hai conosciuta?Due anni fa, quando mi sono iscritto alla laurea magistrale, ho conosciuto le persone che poi avrebbero fondato l’As-sociazione, nata soprattutto dallo spirito d’iniziativa di Gabriele Giovannini. SUSP non può che suscitare interesse negli studenti che desiderano elaborare in Uni-versità gli spunti che la società civile ci fornisce. E che non sono iscritti solo per seguire lezioni e sostenere esami. Tutto è venuto da sé: amicizia, coinvolgimento

nei progetti… e lentamente anche delle soddisfazioni.Pensi che collaborare con un’associa-zione culturale no-profit come Susp possa costituire una valida esperienza formativa personale? Perchè?Lavorare in SUSP è una costante esperienza di formazione. Le ragioni di crescita personale sono numerosissime, sia a livello umano sia nella gestione concreta dei progetti di un’Associazione legalmente riconosciuta. Per esempio ora stiamo organizzando il primo seminario/laboratorio di SUSP con conferimento di crediti formativi sul rapporto fra Stato e mafia nella Storia della Repubblica, un progetto di grande complessità e un banco di prova per misurare la nostra capacità di organizzare un evento. Oggi che sei dentro l’associazione come consigliere, dove pensi possa spingersi?Molto avanti. Lo affermo perché sono convinto del potenziale che l’Associa-zione può esprimere. Abbiamo persone in gamba e motivate, stiamo facendo esperienza nella creazione e gestione di eventi culturali e di aggregazione di livello sempre più elevato e lentamente ci

stiamo facendo conoscere. Se azzar-dassi a immaginarci in futuro come un interlocutore universitario qualificato per quanto riguarda gli eventi culturali a Mi-lano e, perché no, un giorno contribuire a migliorare le politiche universitarie del Governo, non mi sentirei di spararla grossa. Perchè uno studente appena arrivato a Scienze Politiche dovrebbe collaborare con Susp?Beh, per prima cosa perché incon-trerebbe delle persone interessanti e interessate. Inoltre perché chiunque ha idee innovative, difficilmente riesce a svilupparle da solo. La base istituzio-nale di Susp è un vantaggio per dare forma alle iniziative personali. Infine, e soprattutto, invito chiunque condivida il progetto di migliorare la nostra Facoltà e la nostra bistrattata Università pubblica ad avvicinarsi alle Associazioni come la nostra. E’ un modo per plasmare un po’ di più la società secondo le esigenze di noi giovani. E per scoprire che ogni impegno sociale è cultura.

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copertina

mtv is not coolLa rete televisiva, proprietà di Telecom, lascia a casa più di un quarto dei dipendenti.

Il precariato è una condizione che colpisce larga parte della popolazione giovanile. I contratti a tempo determinato compaiono in quasi tutte le professioni. L’operaio, l’operatore del call-center, il commesso, l’impiegato e il regista. Spes-so ci si dimentica che anche gli ambienti considerati esclusivi come televisione e spettacolo non sono esclusi da tale tendenza. Il caso dei precari di Mtv è indicativo. Infatti l’azienda che per molti anni si è considerata l’isola felice dei ragazzi che lavorano con soddisfazione per la rete dei ggiovani. Ora si è trasformata in una trappola. Ad aprile già una ventina di contratti a tempo determinato non sono stati rinnovati e dopo solo due mesi, a giugno, l’azienda ha comunicato ai dipendenti che 55 di essi erano in esubero.Il parco contratti della rete musicale non è particolarmente glorioso. C’è infatti una netta prevalenza di contratti a tempo determinato e a progetto. Parlando con i ragazzi lasciati a casa, si scopre che alcuni di questi, in nove

di Filippo Basile anni di lavoro, non hanno mai visto una proposta di assunzione fissa. Ora, come dichiarato nella conference call sui conti del primo trimestre del gruppo, gli introiti per le pubblicità diminuiscono in linea con l’economia mondiale e le possibilità di ripresa sono così lontane da conside-rare la situazione di crisi come perma-nente. Ciò significa che l’impegno della dirigenza sarà quello tagliare i costi. I lavoro è un costo. Così, si vedono già rotolare fuori le prime teste tagliate. In realtà non si avviano neppure delle vere e proprie pratiche di licenziamento: la quantità di contratti a termine presenti permette di diminuire di un quarto i dipendenti senza licenziare nessuno. Basta attenderei termini di scadenza dei contratti.Mtv Italia è una controllata da Telecom. La quota maggioritaria è posseduta pro-prio dalla Telecom Italia Media S.p.a., chiamata comunemente Ti Media, che possiede anche la rete La 7. Tutte le scel-te sulla compagnia sono decise dagli uomini di Telecom. Fino al 2008 queste scelte spettavano a Campo dell’Orto, amministratore delegato di Ti Media. Ora invece, dopo le dimissioni del giovane manager (sempre impiegato nel gruppo con altre funzioni), salgono in

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cattedra Gian Paolo Tagliavia e Gianni Stella, il secondo dei quali mette subito in chiaro la sua posizione e intraprende la scelta di adattare la rete musicale dedicata ai giovani ai cliché della tivù generalista, che in tempo di crisi funzio-na sempre.Altra arma per tutelarsi dalla recessione è poi proprio l’abbattimento dei costi. In uno dei suoi primi interventi, parlando

per saperne di più

Nella classifica Ocse 2008, l’Italia si colloca al penultimo posto.Oggi la situazione è peggiorata: nell’ultimo anno il livello di disoccupa-zione giovanile, compresi tra i 15 e i 24 anni, è cresciuto di ben 5 punti percentuali, raggiungendo il 26,3%.

della necessità dei tagli, Stella ha affer-mato: “Il taglio sarà fatto in modo molto più forte e significativo. Sappiamo che il calo pubblicitario non è momentaneo”.Parole che incominciano a far tremare le sedie dei lavoratori, che improvvisa-mente ricordano le caratteristiche del contratto che hanno firmato. Che fare? In quella situazione, in cui si pensa di essere immersi fino al collo in chissà quale liquame, i giovani incominciano a vedere passare davanti agli occhi tutti gli artisti, i live e i piccoli momenti di gloria vissuti nel ventre di quella che fino a poco tempo fa veniva chiamata mamma Mtv. Così, tolte le vesti di impiegati cool, vestono i vecchi panni di simil-studenti che, con in mano i propri diritti (mal-conci) e senza più un posto di lavoro, scendono i piazza.Per la prima volta in più di dodici anni di storia, la folla sotto i balconi di Mtv non è composta da ragazzini in delirio di fronte i loro pop-idol, ma da lavoratori lasciati a piedi dall’azienda. Così accade che il 23 luglio, causa sciopero dei lavoratori, i programmi che trasmettono in diretta saltano. Hitlist Italia non va in onda, al suo posto solo videoclip. Le finestre di informazione, i tg flash, rimangono in produzione e tutto il palinsesto della giornata subisce modifiche. La protesta porta lo slogan MTV : Manda Tutti Via. I lavoratori rinfacciano al loro datore le campagne sociali che manda avanti da tempo a tutela dei giovani. Prima fra tutte tocca a noi, se le cose non vanno cambiamole ora. Iniziativa che ha il fine di portare una proposta di legge in Parlamento, raccogliendo firme in tutte le piazze d’Italia. Chi è stato messo da parte dall’azienda si sente preso in giro. Come può un’azienda impegnarsi nel sociale, se per prima non rispetta i precetti che vorrebbe insegnare agli altri?Ormai tagliato il cordone ombelicale, gli ex lavoratori di Mtv aprono un blog chiamato Mtv is not cool, luogo virtuale da cui parte una campagna di solida-rietà che ha visto aderire parecchi nomi importanti del cinema e dello spettacolo. Molti di loro sono proprio gli ex VJ che ora si sono affermati. Tra tutti, Fabio Volo e Victoria Cabello. Tutti ricordano l’espe-rienza nella rete musicale, come indimen-

ticabile e ricca di insegnamenti. Fabio Volo risponde liquidando la questione in qualche riga di circostanza, ringraziando tutti i lavoratori di Mtv, anche quelli che non ha conosciuto. La contestazione, tuttavia, appare incoerente. La protesta degli ex lavoratori non tocca nessuna delle star strapagate della rete. Sembra assurdo, ma al posto di far ricadere la responsabilità sui super stipendi ricevuti dalle facce note di Mtv (ad esempio, da Elisabetta Canalis, o da Elena Santarelli), cercano la solidarietà dei “divi”. Ciò di-mostra soprattutto che i disoccupati non riescono a non rimanere affascinati dallo star system che hanno servito e riverito. È proprio l’ambiente esclusivo che è difficile da lasciare, la possibilità di di-ventare protagonisti in azienda. Questo è il vero prezzo del licenziamento. Per molti di loro il contratto è infatti sempre stato scadente, soprattutto nella sua componente retributiva. Eppure non sono vi sono stati tentativi di protesta, non si è sentito nessuno lamentarsi delle condizio-ni contrattuali. Anzi, è anche grazie alla dedizione e alle ore di straordinario non pagate ai dipendenti che Mtv è riuscita a crescere fino a questo punto. Ma mentre per i ragazzi questo rappresenta-va un piccolo sogno, dall’altra parte la parola d’ordine è sempre stata massimo profitto, minimo costo.Dispiace vedere i giovani sfruttati dal mercato del lavoro, ma forse ancora peggio è vedere la disponibilità a farsi trattare senza tutele per il solo fine di lavorare in un ambiente cool.

di Flaminia Sparacino

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copertina

È un periodo non facile per i giovani in Italia che si affermano come la fascia di popolazione più colpita dalla crisi. Il tasso di disoccupazione giovanile nel mercato del lavoro italiano è piuttosto alto, sebbene sia diminuito nell’arco dell’ultimo decennio di circa 10 punti percentuali. Nella classifica Ocse 2008 sulla disoccupazione giovanile, l’Italia si collocava al penultimo posto persino dopo la Turchia e la Grecia, davanti solo alla Spagna. Oggi la situazione è persino peggiorata. Rispetto alle altre economie avanzate, che hanno anch’esse conosciuto gravi perdite occu-pazionali, la condizione dei giovani sul mercato del lavoro italiano è particolar-mente fragile: nell’ultimo anno il livello di disoccupazione giovanile, compresi tra i 15 e i 24 anni, è cresciuto di ben 5 punti percentuali, raggiungen-do il 26,3%.Questo dato è impressionante soprattutto se confrontato con il livello totale di disoccupa-zione che ha raggiunto, nel Marzo del 2009, il 7,4%. La percentuale di giovani senza lavoro, pur escludendo coloro che proseguono gli studi, è una delle più alte e persistenti tra i paesi Ocse.La parte più stabile e più protetta del mercato del lavoro italiano è quella che comprende i lavoratori tra i 25 e i 54 anni. Nei periodi

di recessione è soprattutto la fascia di lavoratori più giovani che risente della crisi e che garantisce quella flessibilità esterna necessaria al sistema per rima-nere relativamente stabile. In altre paro-le, sono gli outsiders che garantiscono la sicurezza degli insiders. Nonostante le recenti politiche di “flessibilizzazione” del mercato del lavoro, la linea di confi-ne tra out e in rimane rigida, la volatilità bassa e la flessibilità è confinata alle fasce marginali del mercato del lavoro (flexibility at the margin). Di conseguenza, coloro che risentono dell’aggiustamento occupazionale sono i lavoratori con contratti temporanei e atipici, proprio quelle forme contrattuali riservate per la maggior parte alla popolazione più giovane. Il Rapporto Ocse sull’occupazione testimonia che nel Marzo del 2009, rispetto all’anno precedente, sono andati persi 261.000 posti di lavoro temporanei o con con-tratti atipici. Alla spiegazione del preoccupante fe-

nomeno della disoccupazione giovanile concorrono altre differenti variabili: la discrepanza territoriale, i differenziali di genere e l’esclusione di coloro che cercano il primo impiego. Nord-Sud. In Italia le diversità regionali sono decisamente marcate: la disoccupazione giovanile è molto più alta al sud Italia (anche fino al 50%) che al nord (sotto il 20% e nelle regioni del nord-est fin sotto al 10%). Inoltre c’è una forte discrepanza tra la domanda e l’offerta di lavoro nelle diverse regioni, che è parzialmente determinata dalla scarsa mobilità della forza lavoro. Non ultimo lo spostamento per ragioni lavorative è a sua volta disin-centivato dalla riduzione dei differenziali salariali (il salario non è aggiustato in base alla disoccupazione locale).Genere. Una grave discriminante nelle chances dei giovani, soprattutto nel trovare un lavoro permanente, è il genere. Gli uomini hanno probabilità più alte rispetto alle donne di trovare

un posto di lavoro; il gap tra l’altro aumenta al variare dell’area geografica, spostan-dosi da nord a sud. Questo fenomeno è diffuso non solo tra le occupazioni di bassa qualificazione, ma anche tra le professioni più qualificate. È stato osservato come le neo-laureate, benché siano più preparate dei loro colleghi, trovino più difficilmente lavoro. Scuola-lavoro. In Italia la transizione scuola-lavoro è più lunga rispetto alla maggior parte dei paesi Ocse ed è

focus: disoccupazione giovanile in Italia

di Veronica Nisco

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Nella classifica Ocse 2008 l’Italia si colloca al penultimo posto. Oggi la situazione è peggiorata: il livello di disoccupazione giovanile è aumentato raggiungendo il 26,3%

di Flaminia Spara-

spesso molto instabile, con l’alternanza di periodi di disoccupazione ad impie-ghi temporanei.La causa di questa difficoltà è riscontrata nella mancata corrispondenza tra il siste-ma educativo e le esigenze del mondo del lavoro. In particolare, è il caso dei corsi di orientamento professionale che spesso forniscono una bassa prepara-zione senza rispondere adeguatamente alla domanda di specifiche abilità. In altri paesi europei, come la Germania, il sistema di formazione professionale (vocational training) è invece costruito efficacemente su misura del mercato del lavoro. Inoltre, la carenza di politiche at-tive del lavoro, che supportino i giovani nella ricerca di un’occupazione dopo la fine degli studi, è un’altra ragione della difficile transizione scuola-lavoro.Aumentare la flessibilità del mercato del lavoro - l’unica strada apparentemente attuata dal governo italiano negli ultimi anni - non è la sola soluzione: una maggiore flessibilità dovrebbe andare di pari passo con delle politiche attive del lavoro. La riforma del sistema educativo, la promozione della transizione scuola-lavoro, nonché lo stimolo della mobilità regionale e il superamento delle discri-minazioni di genere potrebbero essere i giusti antidoti contro il problema della disoccupazione giovanile.

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internazionale

muro di sicurezza o d’apartheid?

Berlin 1989 - Palestina?

PALESTINA. Una delle tante scritte che è possibile notare subito dopo aver passato uno dei numerosi Checkpoint che affollano tutto il territorio palestinese e parte di Gerusalemme, scolpita pro-prio davanti agli occhi di chi oltrepassa quella “Linea verde”, che un tempo doveva tracciare il confine del territorio palestinese. Ormai è diventato il simbolo della vergogna, oltraggio alla dignità di ogni uomo e di ciascuna “Carta Fonda-mentale dei Diritti dell’uomo” stipulata negli ultimi secoli. Per gli israeliani è uno “strumento di sicurezza”, grazie al quale negli ultimi anni sono diminuiti gli atten-tati, per i palestinesi invece quel muro simboleggia la loro presunta “inferiorità” rispetto ad un’altra razza; uno di loro mi ha confidato che vorrebbe svegliarsi un giorno, aprire la finestra e non vedere più quello scempio che impedisce l’accesso per i palestinesi a qualsiasi città israeliana se non si è muniti di uno speciale permesso, e solo dopo un’opportuna registrazione delle impronte digitali. Un’altra palestinese cristiana di Bayt Sahur si commuoveva raccontan-domi di quanta invidia prova vedendo i pellegrini di tutto il mondo che vanno a pregare in Terra Santa e per lei, che ci vive, è assolutamente impossibile visitare o pregare a Gerusalemme. La storia e la geografia tutte ci insegnano che dove si affermano squilibri economici, come nel caso palestinese la cui economia è tuttora ancorata a quella israeliana, si attivano una serie di tensioni politiche e sociali; il muro, infatti, impedisce una libera circolazione e alimenta per contro il consenso verso le frange dell’estremi-smo più intransigente ed è di questo che Hamas si nutre, almeno nella striscia di Gaza. Al mio arrivo a Betlemme l’impatto è stato forte, ritrovandomi davanti agli occhi una città circondata da militari, uomini armati e soldati; mi è stato spiegato che la forte presenza della polizia palestinese era dovuta al Congresso di Al Fatah per decretare il nuovo leader. Tra i favoriti figuravano: Mohammed Dahlan, ex “ras” di Gaza, avversario di Arafat con molti legami con

dalla nostra inviata Neliana Pollari

corridoio checkpoint che divide il territorio palestinese da quello israeliano.

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strumento per registrare gli ingressi palestinesi nel checkpoint tramite impronte digitali.

Israele poi posto come possibile succes-sore del riconfermato Mahmud Abbas; l’altro concorrente, l’ex premier Ahmed Qureia, è stato sconfessato a causa del suo sfacciato arricchimento con la

vendita di cemento usato da Israele nella costruzione degli insediamenti, mentre Marwan Barghuti incarcerato da Israele, eletto al Comitato centrale, resta il più popolare leader di Al Fatah. Quando

chiedi ai palestinesi cosa ne pensano di Al Fatah, rimani perplesso per la divisio-ne netta fra gli oppositori, che lamentano il fatto che Al Fatah in realtà continua ad arricchirsi senza far nulla, e i fiancheg-giatori a cui piace il riconfermato leader, che credono che in questi ultimi decenni tanto è cambiato, sia a Betlemme che a Jenin, due città famose per la incredi-bile resistenza durante le due “intifada” contro i soldati israeliani. Ciò che si percepisce palesemente tuttavia, è la paura degli israeliani, basta vivere almeno una volta l’avventura di prendere un aereo da Tel Aviv, e i controlli/interrogatori paradossali che si è costretti ad assistere, che ricordano alcune scene dei film che racconta-no l’Olocausto. Ciò che realmente è sconvolgente ai controlli aeroportuali, è quel numero (da 1 a 6) che ti affibbiano dopo un interrogatorio, che decreta il tuo grado di pericolosità stabilito dall’umore più o meno storto di chi ti giudica in quel momento; questo adesivo viene appeso ovunque, te lo ritrovi pure addosso come uno dei tanti segni distintivi che contrad-distingueva ciascun ebreo nei campi di concentramento. I palestinesi tuttavia sono ormai avvezzi a questo tipo di trattamento di sfavore, basta osservare come guardano i turisti ai checkpoint, quando loro sono costretti ad attendere file estenuanti per uscire da Betlemme e invece i turisti, per il semplice fatto che sono “turisti” hanno un passaggio dedicato. Fintanto che ci sarà un filo di speranza, si continueranno a fare summit di Al Fatath per cercare di creare uno Stato palestinese e uno israeliano; uno stato unico sarebbe la scelta logica, lo pensano anche i palestinesi, ma sono altrettanto consapevoli che gli israeliani, una soluzione del genere non la accet-teranno mai, dato che per come stanno le cose adesso scaturirebbe una vera e propria guerra civile e quel territorio non è più in grado di sostenere una nuova Intifada.Ringrazio l’Associazione Amal per la preziosa opportunità che mi ha offerto.

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internazionale

Forza di volontà e fatica. Nei territori occupati nel pieno della polveriera mediorientale chi vuole una scuola se la deve costruire.

di Randa Ghazi

La scuola di gomme. Questo è il nome dell’evento organizzato dalla onlus Vento di Terra nel suggestivo castello Rocca Brivio, per parlarci di una scuola – fatta di gomme, per l’appunto – costruita per la comunità beduina degli Jahalin. Per presentare il progetto a supporto di questa comunità di Anata-Gerusalemme Est, nei Territori occupati Palestinesi, Ivan e Simone ci offrono un “reading poetico visuale”. Ivan è un writer, un poeta, un attivista, Simone il regista del documen-tario a cui assistiamo. Come ci spiega Ivan, il video talvolta mostra troppo di quello che è la realtà, mentre le parole a volte da sole non bastano: ecco perché hanno scelto di proiettare le immagini della costruzione della scuola mentre Ivan legge con voce ferma e piena di passione i suoi versi, molti dei quali de-dicati al muro costruito da Israele attorno alla Cisgiordania e a Gerusalemme.Vento di Terra nasce da un gruppo di lavoro unitosi nel 2003 grazie ad un’esperienza maturata nei campi profughi palestinesi, e, come ci spiega-no, “rappresenta il punto di incontro di diverse competenze e professionalità in ambito educativo, formativo e di cooperazione internazionale”. Hanno lavorato in Italia, Camerun, Mozambico e Palestina promuovendo sempre un modello di cooperazione orizzontale, che coinvolge attivamente i beneficiari dei loro progetti. Vento di Terra decide infatti di aiutare la comunità beduina dei Jahalin di Al Akhmar, stanziata all’interno dei territori occupati da Israele in Cisgiordania, in una cosiddetta “Zona C”, a dotarsi di una scuola, bene raro in quelle zone.

Chiama perciò l’architetto Valerio Marazzi e l’ingegnere Diego Torriani, che saranno i responsabili principali del cantiere, partecipa anche il Labora-torio di Costruzione del Paesaggio e dell’Architettura dell’Università degli Studi di Pavia, e il progetto parte. Con un budget improbabile (15.000 euro), senza cemento, in un periodo di tempo limitato, ma con una grande idea. Valerio infatti, dopo un esperienza di bio-costruzione acquisita in Spagna, propone le gomme come materiale alternativo. Riempite di terra e ricoperte da un into-naco di argilla, diventano i muri della scuola. Il tetto, un pannello sandwich di lamiera e polistirolo, ne potrà completa-re l’isolamento, mentre il posizionamento di finestre in luoghi strategici dell’edificio ne garantiranno una continua ventila-zione.Preparato un workshop per verificare la fattibilità e scritto il libretto di montaggio della scuola per la comunità beduina. A fine maggio il gruppo parte per Gerusalemme.Il 10 settembre 2009 i bambini Jahalin della comunità Al Akhmar sono potuti entrare nella loro scuola.La vittoria dell’impossibile, come loro stessi l’hanno definita.L’aspetto migliore, come ci raccontano Valerio e Fabio, è legato al fatto che la comunità ha imparato un metodo, di cui ora è padrona. È stata protagonista del progetto e lo ha reso possibile, ed ora ha nelle proprie mani uno strumento in più per la propria rivendicazione. I Jahalin sono una comunità originaria-mente semi nomade, espulsa dai militari israeliani dalla regione del Naqab tra il 1948 e il 1950. Si occupavano di agricoltura e pasto-rizia, praticando un’economia di auto-

consumo. Prima tappa della loro odissea furono i dintorni di Betlemme e Hebron, dove furono iscritti nei registri dei rifugiati dell’UNWA. Dopo il 1953, i Jahalin spostarono i loro accampamenti verso la Valle del Giordano, stabilendosi tra la cintura di Gerusalemme est e Gerico.Dopo l’occupazione della West Bank da parte dell’esercito israeliano nel 1967, I Jahalin furono tra le prime vittime delle operazioni di requisizioni di terre realizzate dall’esercito. I loro accam-pamenti furono distrutti nell’area a sud di Gerusalemme est e la maggioranza dei pascoli venne rapidamente cintata e requisita. Era in programma la massiccia opera di colonizzazione che avrebbe sconvolto l’assetto territoriale dell’area, e a cui sarebbe drammaticamente seguita, nei giorni nostri, la costruzione del muro della vergogna, lo stesso che isola la comunità, totalmente separata dai territori di amministrazione palestinese. Al punto che la cultura beduina Jahalin rischia seriamente l’estinzione.Le autorità israeliane hanno anche dispo-sto un ordine di demolizione della scuola costruita grazie a Vento di Terra, ma la comunità beduina ha fatto ricorso alla Corte Suprema di Israele. Ora attende con serenità la sentenza della Corte.Perché queste persone, come ci dice Valerio, sono “lucenti”. Resistono.

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la scuola impossibile

Quando si parla dei problemi che afflig-gono l’Afghanistan non è difficile cadere nella più classica delle litanie: terrorismo, corruzione, commercio illegale di oppio. E ancora: analfabetismo, persecuzioni contro le donne, povertà dilagante e violenza. Tutto vero. Per più di trent’an-ni Kabul è stata teatro di interminabili guerre e tensioni ed è stata sottoposta al controllo di potenze straniere e di capi integralisti. Raramente, però, giornalisti e reporter hanno lasciato le postazioni pro-tette della capitale o i sedili delle jeep blindate per descrivere fino in fondo la storia e le tradizioni del popolo afgano, lasciandolo pressoché sconosciuto al mondo o vittima dei luoghi comuni.Quale allora l’antidoto al virus dell’igno-ranza e dell’oblio? Un giovane afgano ha deciso di seguire la sua passione per il cinema e di raccontare un’altra storia, quella della cultura, dell’arte e della musica del suo paese. In una sola parola, della vita del suo popolo. Si chiama Amin Wahidi, ha ventisette anni, viene da Kabul e di professione fa il regista. Figlio di un medico, ricercatore sui diritti delle donne e delle minoranze e di una maestra, ha studiato per due anni Teatro e Cinema alla facoltà di Belle Arti dell’Università di Kabul. Insieme alla sua famiglia è fuggito in Pakistan durante la guerra civile scoppiata all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica che aveva occupato il Paese a partire dal 1979, e che aveva portato al potere i talebani nel 1992.

Nel 2002, dopo i bombardamenti della coalizione capeggiata dagli Stati Uniti, Amin ritorna a Kabul per ricominciare una nuova vita. Riprende gli studi e comincia a lavorare per ATN (Ariana Television Network) e Farda Radio e nel 2006 fonda, insieme ad altri giovani film-maker e attivisti nel campo dei media, una casa di produzione indipen-dente, la Deedenow Cinema Production grazie alla quale realizza il suo primo cortometraggio, “Treasure in the ruins”. Nel 2007 partecipa alla Mostra del Cinema di Venezia e al Milano Film Festival con “Treasure in the Ruins”, storia di una bambina alla ricerca di un tesoro tre le rovine di Kabul. Pochi giorni prima di ripartire, però, i talebani lanciano una fatwa contro di lui minacciandolo di morte. Non era certo la prima volta che riceveva dei messaggi minatori per il contenuto dei suoi servizi, ma in quella occasione la sua famiglia aveva ricevuto un ordine di uccisione direttamente a casa. «Ti accoglieremo a Kabul con un kamikaze carico di esplosivo». Quello che ha scatenato la furia fondamentalista contro di lui è stato il progetto di un film che il regista non aveva ancora iniziato a girare. Si tratta di “Keys to paradise”, una pellicola che denuncia la follia dei suicidi talebani in nome della religione islamica e l’ignoranza grazie alla quale si è sviluppato l’estremismo religioso in Afghanistan.Da qui comincia la nuova vita di Amin. Rifugiato a Milano dal 2007, vive la triste esperienza dell’integrazione nella metropoli: «Milano è una città frenetica, ci sono molti stranieri e per alcune per-sone è difficile sopportare la presenza

di facce poco familiari. La società non è molto aperta e flessibile e per questo il livello di accettazione degli stranieri è molto basso. Le persone come me rimangono anche per questo isolate». Nonostante le cose in Italia vadano sem-pre «molto piano piano» Amin è convinto di voler continuare i suoi studi e di fare film. «Penso che il cinema sia il mezzo di comunicazione più efficace ed ha un grande impatto sulla società. In un Paese come l’Afghanistan dove il livello di istru-zione è molto basso, attraverso il cinema posso far conoscere la storia e la cultura del mio paese non solo alle persone di oggi ma anche alle generazioni future». «Vorrei usare il cinema come un terzo occhio, far cadere lo sguardo sulle vite di quelle persone che esistono ma che in realtà sono ignorate o dimenticate. Vorrei mostrare quello spettro di differenze che corre tra le persone di diverse classi sociali». Ma non solo. «Il cinema può svolgere un ruolo fondamentale nel creare ponti con l’Afghanistan. L’arte e la tecnica del mio Paese potrebbero essere conosciute e apprezzate in tutto il mondo». Che sia davvero così? Per il momento l’Afganistan di cui parla Amin sembra lontano ma come dice lui« ci vado ogni notte, nei miei sogni». E’ il momento che qualcosa cominci a cam-biare. E PER Davvero.

Amin Wahidiregista afgano rifugiato in ItaliaVentisette anni, di Kabul, con una passione per il cinema. Dal 2007 vive in Italia dopo una fatwa lanciata dai Talebani. Sogni e difficoltà di un giovane afgano.

di Francesco Russo

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viaggio

dagli hutong ai grattacieli

dal nostro inviato Armando Dito

Il paese più frenetico, in trasformazione e popolato della terra ha festeggiato il sessantesimo anniversario dall’inizio del regime moderno, quando il partito nazio-nalista sconfitto e il suo capo Chiang Kai Shek furono costretti a fuggire sull’isola di Taiwan e lasciarono il paese in mano al potere comunista di Mao Zhedong.

Così Hu Jintao mette da parte giacca e cravatta per rispolverare la divisa di Mao, davanti a lui scorre una parata organizzata con precisione svizzera. Una gigantesca sfilata per mettere in evidenza i muscoli dell’ormai grande potenza mondiale.In scena a Piazza Tienanmen anche i volti dello sport e i volontari del terremo-to di Sichuan. Ma il volto reale del gigante, che tanto sta intimorendo le economie occidentali

per i suoi bassi costi di produzione e la continua, incessante crescita economica, è sorprendentemente diverso da quanto si potrebbe aspettare l’osservatore europeo.Innanzitutto partiamo da valutazioni politiche, il comunismo esiste solo come forma di controllo dello stato e di limitazione della libertà degli individui: la rete è sottoposta a notevoli censure, specialmente i Social Network (facebo-ok su tutti) non sono accessibili e spesso

Hutong a Shangai

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Repubblica Popolare Cinese 1949-2009. Tra passato e futuro, un’occhiata alla Cina di oggi.

anche i servizi di posta elettronica non funzionano. Alcune aree e alcuni luoghi del paese sono inaccessibili o iper-controllati, ad esempio la celeberrima piazza Tiananmen a Beijing è separata dalle strade che la circondando da tre cancellate protettive e l’unico modo per accedervi è attraverso tunnel sotterranei provvisti di controlli di sicurezza, del tutto simili a quelli che si subiscono negli aeroporti. La stampa è apparantemente “libera” anche se spesso la libertà dei

giornalisti viene pagata con la perdita del lavoro; accade però talvolta che il regime diffonde volontariamente notizie false, come nel caso della mancata par-tecipazione al G-14 di L’Aquila, dovuta alle rivolte della minoranza musulmana Uiguri nello Xinjiang, ma che secondo le istituzioni cinesi sarebbe dovuta a un terremoto negli stessi territori. Quello che più colpisce il visitatore è la profonda diseguaglianza sociale, caratteristica non certo propria di un regime sociali-

sta: grandi aeree costellate da moderni e fastosi grattacieli, auto di grossa cilindrata e locali alla moda con prezzi “occidentali” si scontrano con le aree contigue (Hutong) in cui le case basse sono collegate da vicoletti intricati e minuscoli, in cui l’elettricità è un privilegio e i sanitari non esistono. Certo gli hutong rappresentano il volto affascinante della Cina pre-industriale e pare che il loro destino sia segnato nel prossimo futuro, sono infatti previsti abbattimenti e ricostruzioni di intere aree “antiche”, che verranno sacrificate sull’altare della bruciante modernizzazione. L’esempio di Guangzhou nel sud del paese, è impressionante: 3,6 ml di abitanti nel 2007, 12 ml nel 2009; intere parti di città che prima non esistevano, oggi sono sfavillanti grattacieli di vetro-acciaio e grandi centri commerciali. La Cina ha anche saputo mantenere de-gli aspetti tradizionali come i caratteristici commerci che rendono tutte le città dei grandi mercati a cielo aperto. Fioriscono le micro-imprese commerciali: si tratta molto spesso di nuclei familiari che gestiscono un negozio o un ristorante; camminando per le strade se ne trovano milioni. Si tratta proprio dei luoghi dove gli occidentali che si occupano di Import vengono ad acquistare le merci “con-traffatte” che inondano i nostri mercati: orologi, vestiti, scarpe, prodotti di elettro-nica, giocattoli, animali. Quasi sempre queste micro-imprese si appoggiano su imprese più grandi di cui non è chiara la gestione: le riforniscono a prezzi irrisori (in genere ulteriormente ridotti al 10% dopo una lunga trattativa) che vengo-no centuplicati di fronte al potenziale acquirente.In Cina chi non contratta è considerato un incapace e le trattative possono du-rare ore e ore, in genere seduti di fronte a numerose tazze di tè verde offerte dalla casa. Può anche capitare di essere invitati a cena, esperienza che si potreb-be rivelare alquanto affascinante. Per i

World Financial Center (492 m)

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viaggio

cinesi infatti non viene concepita l’idea di pranzare da soli, il desco è un rito collettivo, di fatto non esistono portate individuali, ma diverse porzioni abbon-danti poste nel centro del tavolo che poi verranno condivise con i commensali. In quelle occasioni non si parla mai di af-fari, ma di aneddoti, che i cinesi amano raccontare, anche se spesso si tratta di storie gonfiate o palesemente inverosimi-li. Un altro fattore inaspettato da parte del visitatore è il grado di emancipazio-ne femminile; il regime ha fatto grandi sforzi in passato per scardinare l’idea di famiglia tradizionale, con annessa sottomissione della donna e pare esservi riuscito. Impressiona inoltre il nazionali-smo della popolazione: tutti difendono il regime (non perché ne sono costretti), le rivendicazioni dei Tibetani sono viste come pretese ingiustificate, anzi molti cinesi ritengono che il Tibet si avvantaggi degli aiuti statali e se fosse abbandonato a sé stesso sarebbe un vantaggio per il resto del paese, cosa che non accade

grazie al buon cuore del governo che si preoccupa dei destini di quei poveretti lassù sui monti. In effetti il governo ha fatto molte cose buone, sicuramente la Cina di oggi non si può più considerare un paese del terzo mondo, anzi nel giro di un decennio non sarà nemmeno pos-sibile parlarne come secondo mondo. Sempre minore è la popolazione in stato di povertà, sempre più nutrita è la classe media, gli stipendi non sono altissimi, ma il costo della vita è altrettanto basso, non c’è dubbio che il percorso di sviluppo scelto sia il modello Euro-americano. Certo ci sono ancora grandi sfide da vin-cere. Il controllo demografico che per il paese rappresenta una grande battaglia contro la povertà della popolazione, la costruzione di una vera rete fognaria, oggi quasi inesistente, vincere la sfida di Kyoto cercando di ridurre sensibilmente le emissioni. Respirare l’aria di una delle grandi città cinesi è come fumare 70 sigarette al giorno. Infine il problema de-mocratico, specie relativo alle libertà de-

tempio di Confucio, Nanjing

gli individui che oggi è ancora parziale per la star-grande maggioranza di classe medio-bassa, poi ovviamente esistono i più-uguali.. Certo però, che un regime democratico in Cina rappresenterebbe due grossi rischi per la scalata colossale che il paese sta compiendo: da un lato il rischio di una corruzione dilagante, che già esiste, ma che senza controlli ferrei rischierebbe di affossare la crescita del paese e di aumentare ulteriormente il sol-co tra ricchi e poveri; in secondo luogo il rischio di non riuscire a tenere insieme un continente così vasto, che potrebbe sfaldarsi in decine di “piccoli” stati, facili prede potenziali delle multinazionali. La Cina rappresenta il prossimo futuro dell’umanità in quanto mercato sia di produzione che di consumo; confrontarsi con questa civiltà e capirne le esigenze e le rivendicazioni rappresenta forse una delle sfide più affascinanti per la nostra capacità di essere innovatori e leader della produzione mondiale.

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cultura

la crisi dello spettacolo

Fra consistenti tagli alla cultura e le proteste del mondo dello spettacolo, il CRT lascia Via Alemagna.

Il 31 dicembre il CRT(Centro di Ricerca Teatrale), lascerà il Teatro dell’arte di via Alemagna. Il Comune, proprietario dell’immobile, riconsegna la sala alla Triennale. L’accordo a cui si è giunti prevede che il CRT continui ad avere in appalto 70 alzate di sipario all’anno, oltre a gestire la sua sede storica, il Salone di via Dini. Il teatro resta comunque in attesa che il Comune gli dia un nuovo spazio. La situazione è complessa: c’è un calo di pubblico, dato che non è semplicissimo portare la gente a vedere teatro di ricerca quando ormai in molta parte dei teatri milanesi troviamo spettacoli ad alto gradimento popolare. Inoltre la sede di Via Dini conta 100 posti e questo significa perdere la maggior parte delle sovven-zioni ministeriali e comunali basate sul numero di posti che la sala contiene. Di qui, oltre che senza stipendio da mesi, alcuni lavoratori del CRT dopo metà dicembre potranno per-dere il posto di lavoro.Tutto ciò è coronato da ingenti tagli ministeriali al FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo), ac-compagnati dalle dichiarazio-ne rilasciate a Rtl 102.5 il 13 settembre scorso dal Ministro Brunetta secondo il quale lo spettacolo non è cultura, e se qualcuno ha delle idee

di Donatella Paola Martorelli sue proprie deve finanziarsele da solo, non con i soldi degli italiani. Anche i “parassiti della lirica” devono confrontarsi col mercato, dunque. Non esiste però la possibilità, come il Ministro afferma, che un teatro si regga sulle sole entrate del pubblico. Per il suo carattere di evento dal vivo e quindi irripetibile, non può ba-sarsi su regole economiche standard che si fondano sulla ripetibilità del prodotto che crea guadagno. Per questo i teatri vanno sovvenzionati.Inoltre non si può obbedire soltanto a logiche commerciali o spettacolari. “Il teatro vero - afferma il direttore del CRT Sisto Dalla Palma - non può assecondare queste perversioni che minacciano la sua natura più vera. Il teatro non può confron-tarsi che con le esigenze dell’assoluto, del vero, coi mondi vitali, con la ricerca di senso, con la crisi della persona”.

“Cinema e teatro si arrangino, i soldi al massimo devono esse-re impiegati per restaurare ciò che va conservato. Per il resto, morte alla cultura viva, alle voci alternative.”

Secondo il ministro Brunetta “ lo Stato ha il dovere di finanziare la cultura che vuol dire varie cose, dalle biblioteche ai restauri e ogni paese civile ha questo dovere[...]ma mescolare cultura e spetta-colo è un grande imbroglio”.Il concetto di cultura del Ministro per la pubblica amministrazione e innovazione è alquanto desolante. Cinema e teatro si arrangino, i soldi al massimo devono essere impiegati per restaurare ciò che va conservato. Per il resto, morte alla cultura viva, alle voci alternative. Un’ovvietà sembra però sfuggire al nostro Ministro: non sono stati richiesti finanziamenti ad ogni spettacolo, senza alcun criterio selettivo. Con la scusa che alcuni film non sono “buoni” non si può tagliare tutto. È un modo di operare già visto: ci sono università non virtuose, allora tagliamo i fondi a tutte. Ci sono

ricerche non buone, allora tagliamo i fondi a tutta la ricerca.In un Paese dove di sprechi ce ne sono in abbondanza, a partire forse dal mondo politico, non si può puntare il dito subito sulla cultura, arrivando a definire parassiti i registi e gli artisti italiani. Teatro e cinema sono sempre stati punti di intrattenimento, di incontro, dove la persona può esulare dalla realtà, imparare qualcosa, e trovare spunti di riflessione. Fanno perciò parte della cultura, la arricchiscono e la trasmettono.

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ambiente

Voglio raccontarvi una storia, una di quelle storie strane, all’italiana.Voglio raccontarvi di un fatto, come avviene spesso, a cui la risposta imme-diata è: “assurdo”, la risposta a freddo è: “che ci dobbiamo fare” e che, infine, verrà dimenticato.Voglio parlarvi di un inceneritore, il Silla2, alle porte di Milano, e per farlo occorre dobbiamo partire da una domanda. inte-ressante: Perché a Milano non c’è la raccolta differenziata per l’umido? Sappiamo tutti che la raccolta differenziata in città è una realtà, e sappiamo anche che, grazie a processi diversi, il così detto umido si può trasformare in fonte di risparmio o energia come fertilizzanti e biomasse. Allora a Milano dove va a finire l’umido, che utilizzo ne viene fatto?E’ il 1997 e viene inaugurato il Silla 2, progetto all’avanguardia in grado di garantire il riscaldamento termico annuo a 15.000 famiglie ed elettricità per circa 100.000 abitazioni. Ma qual è il ruolo di un inceneritore? L’inceneritore, in un sistema razionale di raccolta dei rifiuti, è l’ultimo anello della ca-tena, finalizzato a distruggere tutto ciò che non è possibile riciclare, garantendo almeno un recupero energetico (vedi Box1). Da princi-pio il Silla2 era stato autorizzato a bruciare 900 t/giorno di rifiuti ma presto si è passati a 1250 e infine a 1450t/g. Questo aumento di

materiale bruciato è facilmente spiegabi-le: i costi di costruzione e manutenzione sono alti, più si brucia più si produce energia, l’energia prodotta è a basso costo e in un mercato avido di energia si vende facilmente. L’aumento di materiale bruciato apre però uno scenario inquie-tante: dove viene trovato il combustibile

termovalorizzatore Silla dalla stufa allo stufone

Perché a Milano non c’è la raccolta differenziata per l’umido? Una volta si buttava tutto nella stufa per riscaldarsi. Oggi, continuiamo a farlo.

di Giorgio Corradi

“Nel Silla2 avviene qualcosa di inspiegabile: si bruciano dei rifiuti potenzialmente riciclabili al solo fine di mantenere alta la produzione energetica e di conseguenza i guadagni”. (Carlo Monguzzi, Capo Grup-po Verdi Regione Lombardia)

in più per il Silla2? E qui si inizia a sen-tire puzza di bruciato. Guardando i dati sui rifiuti meneghini ci si accorge che la raccolta differenziata oggi raggiunge il 30% circa, un ottimo risultato, peccato però che sia una percentuale invariata da anni. Da una comparazione con i dati dei

comuni della provincia emerge infatti che nel resto della provin-cia la raccolta dell’umido e della differenziata sono aumentate di anno in anno, con punte del 54%.A Milano dunque la percentuale di riciclo è stranamente ferma. Da quando è in funzione l’in-ceneritore non raccogliamo più l’umido e negli anni la quantità di rifiuti inceneriti è aumentata sempre più. Secondo Carlo Monguzzi, Capogruppo dei Verdi regionali

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Silla2: impianto di termovalorizzazione dei rifiuti urbani di Milano, sorge nella zona nord-ovest della città, nei pressi di Figino, ed ha sostituito il preesistente forno di incenerimento denominato Silla1. Sua funzione è quella di ottenere la migliore valorizzazione energetica dei rifiuti residui a valle della raccolta differenziata, generando energia elettrica e calore per il teleriscaldamento, che diventano così una fonte preziosa di energia. A pieno regime, la centrale è in grado di produrre calore sufficiente a riscaldare circa 15.000 famiglie producendo acqua calda che viene convogliata in pressione, attraverso tubature sotterranee, alle abitazioni del quartiere Gallaratese e al nuovo polo della Fiera di Rho-Pero nonché ad utenze di Comuni limitrofi allacciati alla rete di teleriscaldamento. L’energia elettrica prodotta dall’impianto può far fronte invece al consumo energetico annuo di oltre 100.000 famiglie. I dati delle emissioni sono visualizzati, oltre che sul sito web di Amsa, anche sul display posto all’esterno dell’impianto. L’impianto è stato premiato nel 2003 dalla Triennale di Milano con la Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana per la committenza privata. (Fonte: www.amsa.it)

Silla 2. Dati di funzionamento relativi al 2008:

RSU termovalorizzati 455.000 tonEnergia Elettrica prodotta 351.000.000 kWhEnergia Termica ceduta per Teleriscaldamento 76.000.000 kWh

da sapere/2

Inceneritori: sono impianti utilizzati per lo smaltimento di rifiuti, mediante un processo di combustione ad alta temperatura (incenerimento) che dà come prodotti finali un effluente gasso-so, ceneri e polveri. Negli impianti più moderni, il calore sviluppato durante la combustione viene recuperato e utilizzato per la produzione di energia elettrica o come vettore di calore (ad esempio per il teleriscaldamento). Questi impianti con tecnologie per il recupero vengono indicati col nome di inceneritori con recupero energetico, o più comunemente termovalorizza-tori. Secondo le normative europee il procedimento da preferire è il riciclo, mentre l’incenerimento (anche se con recupero energetico) costituisce semplice smaltimento ed è dunque da preferirsi alla sola discarica di rifiuti indifferenziata.

da sapere/1

“nel Silla 2 avviene qualcosa di poco chiaro: si bruciano dei rifiuti potenzial-mente riciclabili al solo fine di mantenere alta la produzione energetica e di conse-guenza i guadagni”. Da non dimenticare è poi l’effetto diretto che sta avendo il Silla2 sul quartiere in cui si trova e sulla città. Nessuno sembra aver pensato agli effetti collaterali di aumentare, quasi del doppio, l’incenerimento e soprattutto di quanto ciò sia dannoso. Il Silla2, come tutti gli inceneritori, produce gas e polveri sottili dannosi e cancerogeni. Do-vrebbe essere fine dei nostri governanti ridurre sempre più il loro utilizzo, incen-tivando altri sistemi. Invece qui da noi si aumenta il loro uso, seguendo sempre la strada più rapida e meno costosa, e non solo, si utilizza l’umido come combustibi-le, che è ancora più inquinante.Cari italiani, facciamo bene, è meglio dimenticare tutta questa immondizia.

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italia

la realtà capovolta vista da sud Storia tragicomica di una normale

truffa “istituzionale”

di Matteo Forciniti

Che ci siano delle truffe in Calabria è ormai una triste verità confermata dalle numerose indagini che negli ultimi anni hanno cercato di fare chiarezza sulla questione spinosa dei finanziamenti pubblici e tutta l’illegalità intrecciata ad essa.L’ultima vicenda in ordine di tempo ha un lato drammatico che si incrocia con la vita personale di una donna, Maria Giovanna Cassiano, diventata un’eroina semplicemente per aver fatto il suo dove-re, ossia quello che qualsiasi funzionario pubblico dovrebbe fare quando scopre un atto illegale, una truffa: denunciarla. Nel mese di agosto alcune proteste dei braccianti agricoli hanno infiammato le strade della Piana di Sibari, una vasta area nell’alto jonio cosentino che ha in Corigliano e Rossano i suoi due centri principali. A scatenare la rivolta è stata la decisione dell’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) di Rossano di non concedere i contributi ai lavoratori. Fin qui tutto normale, sembrerebbe una normalissima rivendicazione di un diritto, ma nel profondo Sud la realtà viene costantemente capovolta. Regna una sconcertante ambiguità dei ruoli, la verità è una mina vagante pronta ad emerge-re nei momenti finali, quando ormai è troppo tardi.Secondo le indagini della magistratura tre cooperative (la San Francesco, la Eurosibaris e la Meridionale) avrebbero sottratto all’INPS circa 15 milioni di euro, denaro che veniva intascato da mogli, cognati, parenti e amici di uomini di rispetto legati alla ‘Ndrangheta che per anni si spacciavano, senza esserlo, per “braccianti agricoli”.Questi falsi braccianti avrebbero ottenuto

nell’arco di un anno “circa 100mila certificati medici” (Il Quotidiano), grazie ai quali fioccavano false indennità per disoccupazione, malattia o maternità. Emergono storie anomale, come quella di una cooperativa che nel giro di un solo anno avrebbe accumulato un monte salari di un milione e ottocentomila euro circa senza essere in grado di esibire un solo documento contabile. “ho sempre fatto tutto con i contanti” ha dichiarato il presidente.Ma l’aspetto più incredibile è un altro: quando c’era da lavorare sul serio le cooperative non mandavano i brac-cianti agricoli, bensì immigrati pagati in nero, sfruttati (d’altronde non è difficile riscontrare da queste parti il fenomeno del caporalato). Storia pressochè analoga a quella di Gioia Tauro, dove alcuni anni fa venne scoperta una super truffa con nove lavo-ratori (raccoglitori di olive) su dieci falsi.Dopo la decisione dell’INPS di non concedere i contributi sono iniziate le

proteste e sono arrivate anche pesanti minacce alla signora Cassiano che adesso vive sotto scorta.Come scrive Gian Antonio Stella sul Cor-riere della Sera, “la rivolta è cavalcata da un pezzo del mondo politico”, è infatti un modo molto efficace per porta-re voti. A manifestare in prima fila c’era Antonio Caravetta, consigliere comunale dell’UDC a Corigliano e recordman di preferenze alle ultime elezioni provinciali. E in tutta questa storia come si sono mosse le istituzioni? Il comune di Corigliano Calabro, per mezzo del sindaco Pasqualina Straface, ha espresso solidarietà al consigliere Ca-ravetta, ossia ha manifestato consenso verso coloro che hanno truffato l’INPS, come molti altri politici locali che hanno preferito sostenere i falsi lavoratori piutto-sto che la signora Cassiano, lasciata in-civilmente sola dalla popolazione locale.Ma quando comandano i fuorilegge è così, la legalità è un’utopia.

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caso “Fondi”: quando la mafia non è un problema

Il Governo non scioglie il Comune, nonostante le accertate infiltrazioni di ‘ndrangheta e camorra.

di Giulia Oldani

«Se c’è un uomo che più di ogni altro può vantare straordinari risultati nella lotta alla mafia, questo è Berlusconi, che lo ha fatto non con parole straordinarie, ma con fatti», Angelino Alfano, settembre 2009.Una sola vicenda è sufficiente a smen-tire questa tesi. E’ quella del mancato scioglimento del comune di Fondi, basso Lazio, dove nel luglio 2008 le indagini dell’operazione Damasco della Dda han-no rivelato infiltrazioni mafiose di ‘ndran-gheta e camorra nell’amministrazione comunale, e hanno portato all’arresto di 17 persone tra ex assessori, funzionari e dirigenti comunali, vertici della polizia municipale, scoperchiando un sistema di collusione e conti-guità con la criminalità organizzata. Quanto bastava per ottene-re lo sciogli-mento.Le indagini degli inquirenti hanno infatti portato alla luce un intero “sistema”. Il sindaco Pdl, Luigi Parisella, è legato alla famiglia Tripodo, che opera nell’orbita della ‘ndrina calabrese dei Bellocco. La ‘ndrangheta è infiltrata in tutti i gangli della gestione economica e del potere e ha una “joint venture” con la camorra - per la precisione, con il clan dei Casalesi - che gestisce il mercato dell’ortofrutta di Fondi, uno dei più impor-tanti del Centro-sud. I dirigenti pub-blici sono completamente proni alle direttive di sindaco e assessori, i quali hanno legami con i fratelli Venanzio e Carmelo Tripodo, che garantiscono i voti. I Tripo-do sono specializzati in speculazioni edilizie, riciclaggio di denaro, condizio-namenti nell’affidamento degli appalti, raccomandazioni e perfino pensioni “pilotate”, e il mercato ortofrutticolo è la

base dei traffici illeciti.La mafia non trova ostacoli grazie al legame col po-tente senatore Pdl Claudio Fazzone, il ràs di Fondi. Fazzone ha costruito un sistema clientelare ed è una macchina che produce voti (nel 2000 candidato ad assessore regionale, è il più votato d’Italia), grazie al favoreggiamento concesso ai Tripodo nei loro affari. Questi infatti ricambiano, finanziando campagne elettorali e assicurando preferenze. Difficile mettere da parte uno così.Nel settembre 2008 il pre-fetto di Fondi Bruno Frattasi chiede al Ministro dell’In-terno, con una relazione di 500 pagine che rivela la rete mafia-politica, di procedere allo scioglimento “con urgenza” del comune. Immediatamente, Fazzone si reca da Maroni. Il Ministro richie-de che venga presentata una nuova relazione che attesti le infiltrazioni, non ritenendo sufficiente quella appena consegnatagli da Frattasi. La nuova conferma la vecchia, e il 19 dicembre 2008 Maroni propone finalmente lo scioglimento del Comune al Consiglio dei Ministri (scioglimento in genere disposto nel giro di 15 giorni). Ma la proposta rimane lettera morta. Nel febbraio 2009, stessa scena, stesso esito. Così, di rinvio in rinvio, si arriva a luglio, quando l’ennesima dilazione è motivata con le modifiche introdotte dal “pacchetto sicurezza” relativamente allo scioglimento di Comuni per infiltrazioni

mafiose, che imporrebbero, laddove possibile, la rimozione individuale del politico colluso. La giustificazione è vi-ziata: non solo perché le indagini hanno rivelato un sistema tale da rendere im-praticabile la “rimozione individuale”, ma anche perché, sulla base delle vecchie norme, il CdM scioglie a luglio i comuni di Fabrizia e Vallelunga. Fondi, invece, deve rimanere com’è. Poche settimane fa, Frattasi ha consegnato una nuova relazione e il governo ha ora qualche settimana per decidere.E’ passato più di un anno: Fondi aspetta e la ‘ndrangheta impera. Nonostante sia in carica il governo che più di tutti ha combattuto la mafia.

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musica

Giro per Slussen, elegante quartiere nel centro di Stoccolma, con una bionda stretta nel palmo mentre mi avvicino al Rival hotel. Di proprietà del buon Benny Andersson, ex Hep Stars ma noto ai più come cervello degli ABBA, l’albergo extralusso comprende nella sua struttura un teatro per eventi esclusivi. Stasera ci suona Moby. Ho un invito e dopo una doppia pausa al bar mi siedo in balconata con in cuffia l’ultimo E.p degli Iori’s Eyes, duo milanese con batterista aggiunto che dovreste tenere d’occhio se non volete fare figuracce il prossimo autunno. Moby nella sua carriera non ha mai fatto un gran disco, solo una manciata di singoli che per coincidenza o per mancanza d’altro hanno rapito le orecchie di milioni di ascoltatori. Intorno a lui bravi turnisti che cerca di spacciare come la “sua” band, perché fa più figo e perché suonare con turnisti ormai in questi ambienti suona davvero uncool. Il live è piuttosto freddo, i brani nuovi pas-sano senza lasciare il segno e quando si arriva al finale con pezzi come “We’re all made of stars”(una porcheria elettro-pop con quello zarro di Dave Navarro a peggiorare il tutto) ci si chiede veramente come sia possibile che questo nanetto senza peli in testa sia uno dei best-seller musicali degli ultimi dieci anni. Abban-dono una lussuosa suite dal retrogusto softporn e in qualche decina di minuti mi trovo a Brick Lane, Londra. Ho il culo inchiodato al bancone di un bar dal vago gusto marocchino e gli occhi fissi su un libro comprato a Heatrow. “Things the grandchildren should know” di Mark Oliver Everett, ossia il cervello che sta dietro agli EELS, macchina sperimentale di culto nata oltreoceano. Autobiografia che manda a casa metà delle letture che ho fatto negli ultimi 2 anni, oltre che

incredibile susseguirsi di bizzarri avveni-menti, per la maggior parte tragici, che caratterizzano la vita di Mark, meglio noto come “Mr. E”, ormai rassegnato all’imprevedibilità e soprattutto all’infinita crudeltà di quello che la vita può riser-varti. Il libro, le sue opere, la sua storia, rifuggono dall’essere una rassegnata corsa verso un destino crudele, ma sono una intimissima celebrazione della vita e della sua totale imprevedibilità. Brucio le

oltre duecento pagine in cui ha riassunto la sua burrascosa vita alzando solo due volte gli occhi verso la strada colma del-la nuova generazione di freaks inglesi, che fra un po’ si trasferiranno altrove, quando anche questo quartiere verrà svenduto. Qualche over 16 si ricorda di Camden Town?! Il futuro di Brick Lane è lo stesso. Ed è già scritto. Sono troppo concentrato su Mr.E per schiodarmi dal bancone. Confuso dalla lettura d’un fiato di un libro forse troppo valido perché qualcuno abbia avuto l’idea di pubbli-

da Moby a Cicciolina in pochi, semplici, passi

di Richard R. Ramirez carlo anche nel belpaese. Finisco nel far-east lodninese a mangiare strana roba turca con i Rodeo Massacre, esordienti dalla capitale. Influenze sixties, qualche acido di troppo e una cantante che to-glie il fiato. Proseguo passeggiando per Hyde Park e decido di fare un giro alla Serpentine. Galleria in mezzo al verde che ospita una mostra di Jeff Koons, che oltre all’artista in passato faceva il marito di Cicciolina. Nelle orecchie ho il nuovo disco degli Editors intitolato “In this light and on this evening” che devo recensire in vista dell’uscita il 21 settembre. Lo sto ascoltando praticamente dalla fermata di Tottenham Court Road e dopo qualche miglio a piedi ancora non ho capito la direzione in cui sta andando il quartet-to di Birmingham. C’e’ sempre quella pesante influenza anni 80’ in primissimo piano e quel vocione Joy Division che forse non mi fa apprezzare il tentativo di distaccarsi da queste cose, relegato a mio parere a qualche inserto elettronico.Il disco sta finendo quando varco l’entrata della piccola ma graziosa “Serpentine” e davanti a me trovo delle grandi foto di donnacce seminude e qualche scultura costruita con materassini gonfiabili.E’ solo avvicinandosi che scopro che quelle gigantografie non sono foto ma dipinti e che le sculture giocano su un nonsense prettamente fisico che all’inizio, confuso, faticavo a notare. Materassini che sostengono tronchi d’albero. Braccio-li che attraversati da una rete metallica, restano intatti. Una burla dell’ex marito della nota pornostar che vuole fare riflettere su realtà contro finzione. Realtà contro fedele riproduzione di questa. Ancora un paio di lezioni da Mr. Koons e vedrete che anche i poveri Editors riusciranno sfornare una copia che valga almeno un quarto dell’originale a cui tanto mirano.

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seven tracks at mid-n ight

fast-food album

JOAKIM – MILKY WAYSIl futuro della musica electro-pop ,con questo pericoloso aggettivo il nuovo progetto di Joakim ,prodotto per la storica !k7, viene presentato alle masse. Probabilmente molti son rimasti colpiti dalla traccia “Spider”, fantastica e imbarazzante per i nanosecondi che ci mette a farti innamorare del suo groove retro-future e i vocals delle coriste che tanto ricordano gli 80s, ma il futuro non è mai stato cosi lontano.

BIBIO – AMBIVALANCE AVENUEMentre ascoltavo la produzione n°2 :” Jealous Of Roses”, le mani hanno cominciato a tremare, “ Ohhh che disco che ho trovato!” urlo in estasi, ma poi, in meno di 8 minuti, l’entusiasmo è svanito per far posto a un curioso interesse che non è durato a lungo. Non per questo il disco perde valore anche se ricorda un po’ Jazzanova o Blockhe-ad, la Warp difficilmente produce orripilanti dischi nemmeno degni di Emule o torrents vari.

PHOENIX - WOLFGANG AMADEUS PHOENIXUn buon disco, senza pretese e particolari eccessi, m’immagino già in quante cuffiette di indie teen-ager gireranno le loro tracce.

1| ’Round midnight(b-side) _ Amy Winehouse _ Frank _ Soul Jazz2| Midnight Ravers _ Bob Marley and the Wailers _ Catch a fire _ Reggae3| A modern midnight conversation _ Chemicals Brothers _ We are the night _ Dance4| Melbourne ‘round midnight _ Deadbeat _ Journeyman’s annual _ Dub5| One minute to midnight _ Justice _ Cross _ French touch Electro6| Midnight lovers _ Matthew dear _ Asa breed _ Indie7| Working After Midnight _ Who Made Who _ The Plot _ Indie

in web we trust

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di Luca Ceriani

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speciale MFF

Si, è stato complicato scegliere a quali degli oltre 400 appuntamenti in rasse-gna partecipare.Ma l’occasione non doveva assolu-tamente essere sprecata. I luoghi del Teatro Strehler, del Teatro dal Verme, del Teatro Studio, del parco Sempione e dell’Acquario civico dall’11 al 20 settembre hanno ospitato uno tra gli eventi più interessanti della stagione estiva della città di Milano.Gli appuntamenti e le giornate sono state dedicate a eventi molteplici: concorsi di corto e lungometraggi, rassegne di cinema italiano e asiatico, doc di politica, musica, animazione, ambiente, città in cambiamento e America. Insomma, il cinema non ha frontiere. A unire il tutto, un’atmosfera piacevole e rilassata: amache dove poter dondolarsi piacevolmente e notturni di musica in cuffia per danzare nel parco. Inoltre, anche Amiacque partecipa al festival: distributori per ribadire ancora una volta che l’acqua

Milano Film Festival, feed your mind!

di Chiara Ranieri

è un bene pubblico.Tra le rassegne più interessanti c’è Colpe di Stato al parco Sempione, una serie di documentari di registi e attori provenienti da diverse zone del mondo, che, attraverso il video, denunciano gli abusi di regimi democratici e non e le conseguenze del nuovo colonialismo.Una giornata particolare si è svolta il 15 settembre al Teatro dal Verme: l’Im-migration Day. Quattro film e una tavo-la rotonda sul tema dell’immigrazione. Un’opportunità per confrontarsi in modo intelligente su uno dei fenomeni più interessanti dell’epoca contemporanea. In programma tre film di storie di migra-zioni e un corto realizzato nella città di Milano da parte di giovani ragazzi migranti. Sicuramente due occasioni per riflettere sul nostro futuro. Ed ecco qui Milano Film Festival,

evento culturale che si caratterizza per un’atmosfera entusiasmante e per uno staff giovane e vivace. Per la prima volta ci si sente coinvolti in un progetto che valorizza la cultura e l’arte del racconto. A mio parere, sono state delle giornate che hanno realizzato pienamente una delle sfide del nostro tempo: fare della cultura un’arma contro l’appiattimento del pensiero e la medio-crità dei messaggi consumistici. Sì, delle ore che hanno spento la noia che spesso si sente nel vivere la quoti-dianità e le relazioni. Non si può vivere senza l’Arte e senza la Poesia. Chi cre-de che la cultura sia solo per fannulloni oppure una somma di informazioni impresse nella testa probabilmente non si è accorto che la sua mente è gia atrofizzata.

l’Italia non è l’AmericaAl Milano Film Festival partecipano con un lungometraggio giovani migranti di Milano.

Il 15 settembre al Teatro dal Verme si è svolta una giornata dedicata al tema dell’immigrazione: la seconda edizione dell’Immigration Day, organizzato in collaborazione con il Naga. L’evento, affermano quelli del Naga , si basa sull’idea di offrire ai cittadini stranieri che vivono e lavorano a Milano, un momento culturale di svago e divertimento che li renda protagonisti della giornata. Invitati a dare il loro contributo sono stati un gruppo di giovani ragazzi, dai sedici anni in su, che hanno vissuto parte della loro esperienza migratoria nel capoluogo lombardo. È così che, in mani ine-sperte, il cinema diventa un modo per esprimere e mostrare esperienze che sistematicamente rimangono invisibili. Il

lungometraggio inizia con riprese della Stazione Centrale, il primo luogo che si incontra quando si arriva a Milano. Qui seguiamo il racconto di un ragaz-zo arrivato da Lampedusa e che dopo un tentativo di fuga in Germania verrà trattenuto. I suoi primi giorni a Milano li passa senza poter né mangiare né dormire in un luogo caldo. Si passa poi alla storia di una ragazza rom, che conscia di dover sposarsi rimpiange di non potere essere come le ragazze italiane e di non frequentare la scuola. Lei dovrà ritornare in Romania. E poi altre storie giovani, che raccontano un’Italia contraddittoria e divisa, dove è possibile vivere ma a costo di sofferen-ze ed enormi limitazioni. Ma “nonostante tutto, l’Italia non è

l’America ”. Così vuole concludere i suoi ringraziamenti uno dei ragazzi protagonisti del lungo Storie migranti di Stephane Le Gall-Viliker. Parole dette da un ragazzo che ha vissuto per circa tre anni sulla strada perché irregolare e che riesce ad ottenere il permesso di soggiorno intorno al quinto anno. Non so se tutti gli altri la pensassero come lui, ma comunque stupisce che, nonostante l’enormità delle difficoltà intrinseche al migrare e le limitazioni incontrate, in Italia vi possa essere ancora della positività nei confronti del nostro Paese. Paese che proibisce qualsiasi tipo di assistenza a chi è irregolare e che punisce con carcere ed espulsione chi è clandestino.

di Chiara Ranieri

Mary ha otto anni, è australiana, il suo colore preferito è il marrone, i capelli glieli taglia, male, il suo papà. Adora il latte condensato, non è mai stata comu-nista, sa bene che i bambini si trovano in fondo ai bicchieri di birra e ha un gallo “che un giorno farà le uova”.

Max vive a New York, è ebreo ma laico, nella vita ha fatto molti lavori assur-di ed è stato in manicomio oltre ad aver avuto innumerevoli pesci rossi di nome Henry, tutti morti in condizioni misteriose. È alto ma grasso e per questo dovrebbe smettere di ingozzarsi di hot dog al

Mary e MaxAdam Elliot, Australia, 2008, 35mm, 92’

cioccolato, ricetta inventata da lui. Ha la sindrome di Asperger (che gli provoca frequenti e violenti attacchi d’ansia), ha vinto alla lotteria e sa di liquerizia e libri vecchi.

Ah dimenticavo, Max è in bianco e nero. Ed è il personaggio del più incredibile, entusiasmante, delicato e visionario film di animazione dell’ultimo decennio. Per questo nessuno ha accettato di distribuir-lo in Italia. E’ dissacrante e massacrante, ma in punta di piedi. Fa tanto ridere, ma nemmeno il tempo di pensarlo, fa subito piangere. In migliaia di chilometri di

distanza, attraverso la gioventù e la vec-chiaia, su centinaia di metri di fogli e litri d’inchiostro, si snoda la storia dell’ami-cizia tra Mary e Max. Antieroi che non sono cattivi ma non pensano in grande, hanno ambizioni più piccole dello spicchio di cielo che vedono dalle loro finestre, non sono belli perché sono soli e come va a finire potete scoprirlo da voi, ma niente happy end, non vissero felici e contenti, moriranno e verranno sotterrati sotto tonnellate di cartoni mediocri. Ma non verranno dimenticati, perché non sono l’elogio della banalità. Siamo pronti ad amarli davvero.

di Arianna Baroni

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di Flaminia Sparacino

le peregrinazioni terrene del giovane precario