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CORERAS Consorzio Regionale per la Ricerca Applicata e la Sperimentazione Atti del Convegno SVILUPPO RURALE, “BUONE PRATICHE” E REVISIONE A MEDIO TERMINE Castiglione di Sicilia, 1 febbraio 2003

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CORERAS Consorzio Regionale per la Ricerca Applicata e la Sperimentazione

Atti del Convegno

SVILUPPO RURALE,

“BUONE PRATICHE” E REVISIONE A MEDIO TERMINE

Castiglione di Sicilia, 1 febbraio 2003

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INDICE

Introduzione

Antonino Bacarella

“Presentazione del Convegno” pag. 5

Relazioni

Mario Prestamburgo

“Origine ed evoluzione della politica di sviluppo rurale” 11

Paolo De Castro

“Lo sviluppo rurale nella “revisione” a medio termine della PAC 23

Alessandro Pacciani

“Lo sviluppo rurale nell’esperienza della Maremma” 29

Alessandro Hoffmann

“Lo sviluppo rurale nell’esperienza del Parco dei Nebrodi” 57

Giuseppina Carrà

“Impresa e territorio nello sviluppo dell’area dei Nebrodi” 69

Intervento

Marcello Fecarotti

Presidente del Parco dei Nebrodi 81

Conclusioni

Giuseppe Castiglione Assessore Regionale all’Agricoltura e alle Foreste 83

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Antonino Bacarella Presidente del CORERAS

INTRODUZIONE AL TEMA

Nell’introdurre il tema del Convegno, credo sia doveroso dare alcuni brevi cenni di presentazione sul CORERAS, che ne ha curato l’organizzazione ed effettuato una ricerca sullo sviluppo rurale in Sicilia. Il CORERAS è un Consorzio Regionale per la Ricerca Applicata e la Sperimentazione. Inizia ad operare a fine 1999 e persegue, nel quadro degli indirizzi determinati dall’Assessore Regionale per l’Agricoltura e le Foreste, senza fini di lucro, lo sviluppo e l’ammodernamento strutturale ed organizzativo dei sistemi agroalimentare, agroindustriale, agroambientale della Sicilia. I soci del CORERAS sono l’Assessorato Agricoltura e Foreste, l’Ente di Sviluppo Agricolo, le Università degli Studi di Palermo, Catania e Messina, gli Istituti sperimentali regionali: zootecnico, zooprofilattico, per la granicoltura, l’Istituto sperimentale per la cerealicoltura del MIPAF, le organizzazioni professionali CIA e Confagricoltura, l’Associazione Regionale Allevatori, i comuni di Comiso e Ragusa. Nei trascorsi tre anni di attività il CORERAS ha consolidato la sua organizzazione strutturale ed operativa, avendo molta attenzione a posizionarsi nella fascia di attività di servizio e di ricerca non coperta dalle istituzioni scientifiche esistenti ed a creare un rapporto sinergico con gli altri soggetti scientifici, con la pubblica amministrazione, soprattutto Assessorato Agricoltura e Foreste ed Ente di Sviluppo Agricolo, e con le imprese agricole ed agroalimentari. Dopo questi brevi cenni di informazioni sul CORERAS entro nel vivo del Convegno, illustrandone le motivazioni. Il CORERAS è impegnato nella analisi, nello studio e nel dibattito sullo sviluppo rurale, come appunto dimostra il report su “ La programmazione dello sviluppo rurale in Sicilia,” che è stato distribuito con la cartellina del Convegno, e seguendo gli indirizzi determinati dalla politica agricola dell’Assessore all’Agricoltura ha organizzato, in un importante momento per la politica agricola comunitaria e per la stessa istituzione Unione Europea, questo Convegno su “Sviluppo rurale, buone pratiche e revisione a medio termine,” sollecitato ed anche promosso dall’Assessore all’Agricoltura On. Giuseppe Castiglione, con il fine di avviare un’ampia riflessione sulle esperienze fatte e sui modelli da costruire in conformità alle realtà territoriali e produttive regionali per contribuire allo sviluppo dell’economia siciliana.

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Nei quindici anni trascorsi gli strumenti programmatori territoriali, comunitari, nazionali, regionali sono stati numerosi a cominciare dai Programmi Integrati

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Mediterranei ed a seguire con i Progetti Leader, i Patti territoriali, i Patti agricoli, ecc. per arrivare oggi anche ai Piani di Sviluppo Rurale. I risultati sono stati generalmente assai modesti o deludenti, perché quasi mai al centro dell’attività programmatoria è stata posta l’impresa, quale soggetto fondamentale nel processo di sviluppo. Questo fatto generalmente succede perché si dà per scontato che l’impresa esista, o meglio che esista l’imprenditore, inteso nella più moderna accezione concettuale ed operativa. Così invece non è! Perché l’imprenditore si costruisce o per meglio dire si forma con la cultura professionale e con la cultura dell’innovazione, prodotte queste ultime dalla formazione e dalla ricerca. Due aspetti istituzionali e strutturali fortemente carenti nelle regioni meridionali e la Sicilia con esse. Una svolta nell’agire operativo, istituzionale e politico può essere costituita dal Decreto legge 228/2001 sull’orientamento e modernizzazione del settore agricolo, che fra l’altro demanda alle Regioni l’individuazione dei distretti rurali e dei distretti agroalimentari e dalla revisione a medio termine della PAC, che nelle sue proposizioni prevede il rafforzamento dello sviluppo rurale, chiamandolo addirittura secondo pilastro della stessa PAC, essendo il primo la politica dei mercati ed i pagamenti diretti. Non mi inoltro nella discussione e nelle riflessioni sullo sviluppo rurale, sarà il dibattito di questo convegno ad affrontare le diverse questioni, vorrei solamente accennare ad alcune considerazioni di carattere generale che impongono la riforma della PAC e l’indirizzo verso lo sviluppo rurale. Cercherò pertanto di chiarire o evidenziare i fatti o i fenomeni che conducono la politica verso lo sviluppo rurale, o per meglio dire verso quel sistema di interventi pubblici che si comprendono nel concetto di sviluppo rurale. Innanzi tutto occorre osservare che la politica agricola è influenzata da fatti politici, economici, sociali di grande rilevanza sia all’interno della UE che internazionali. Inoltre occorre ancora osservare che il sistema alimentare, qualunque possa essere l’ambito territoriale di riferimento, è soggetto, determinato e modulato dagli effetti di grandi fenomeni, che solo apparentemente possono essere interpretati agenti in modo autonomo, mentre nella realtà sono strettamente interconnessi ed intercorrelati sia negli aspetti territoriali, che in quelli sociali ed ancora in quelli politici e certamente non ultimo in quelli economici. Richiamiamo alcuni fatti principali che definiscono il quadro di riferimento a cui dovrà, con elevata probabilità, rapportarsi la PAC ed a maggior ragione la politica agricola nazionale e regionale. Verifichiamo innanzi tutto quali siano i fatti interni alla Unione Europea; credo siano i seguenti: - le elezioni francesi e tedesche della scorsa primavera hanno già dimostrato quale

influenza abbia la politica di alcuni grandi paesi sulla politica agricola; la

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presentazione della proposta della Commissione europea sulla revisione a medio termine della PAC, è avvenuta il 10 Luglio 2002 in ritardo rispetto al mese precedente. Ciò dimostra che le politiche interne dei più forti paesi membri dell’Unione Europea pesano anche sulla struttura della PAC;

- il Consiglio europeo di Copenhagen del dicembre scorso ha adottato la decisione definitiva dell’allargamento dal maggio 2004, in tempo per far partecipare alle prossime elezioni del Parlamento europeo i nuovi 10 paesi aderenti (Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Polonia, Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Lituania, Cipro e Malta). Ma altresì ha deciso che l’allargamento avviene a costo zero per il bilancio agricolo, stabilizzando la rubrica 1A riguardante la politica dei mercati ed i pagamenti diretti: fino al 2006 valgono gli stanziamenti fissati dal Consiglio Europeo di Berlino nel 1999 (approvazione di Agenda 2000), dal 2007 al 2013 la spesa agricola non potrà superare il livello del 2006. Tutto ciò significa, meno risorse finanziarie per gli agricoltori dei 15 paesi membri;

- è stato presentato dalla Commissione Europea il Rapporto sulla coesione economica e sociale della UE; questo Rapporto rappresenta il preludio alla riforma dei fondi strutturali per il periodo 2007-2013, che sarà certamente complicata dall’allargamento della UE ai 10 nuovi paesi e dal 2004 quasi certamente a Romania e Bulgaria. Qualunque possa essere l’incastellatura di questa riforma ed indipendentemente dal fatto che la Sicilia permanga o no fra le regioni dell’obiettivo 1, che ricevono i 2/3 dei fondi strutturali, è facile previsione che la Sicilia non potrà più fruire dell’ammontare di risorse destinatele da Agenda 2000;

- nel marzo 2002 si è aperta la Convenzione per preparare entro marzo 2003 la Carta per l’Europa, ossia la bozza di Costituzione della UE. Qualunque possa essere l’assetto istituzionale europeo è assai probabile che la PAC, che assorbe una buona parte delle risorse finanziarie europee (oggi circa il 45% del bilancio), ne subirà gli effetti. Sapremo meglio a fine anno, quando ci sarà il Consiglio europeo dedicato alla nuova Costituzione, che potrebbe essere firmata nel 2004.

Passiamo adesso ad indicare i fatti internazionali: - nel novembre 2001 a Doha in Qatar è iniziato un nuovo round negoziale per la

modifica degli accordi in sede Omc (Organizzazione mondiale del commercio). Nel settembre 2003 si avrà a Cancun in Messico un altro appuntamento negoziale, mentre l’accordo definitivo è previsto per la fine del 2004. A Doha è stato stabilito che si dovrà migliorare l’accesso ai mercati (diminuzione delle tariffe all’import e dei sostegni all’export), ridurre in modo sostanziale le misure di politica agricola che falsano la libera concorrenza (interventi inseriti nella scatola gialla e nella scatola blu), fare riferimento alla multifunzionalità, negoziare l’istituzione di una procedura multilaterale per la difesa delle denominazioni territoriali e delle indicazioni geografiche.

Nel trascorso dicembre 2002 la Commissione europea ha presentao ai ministri agricoli la proposta che avanzerà per l’UE nel marzo 2003 all’Omc e cioè: la riduzione del 55% in 6 anni dei sostegni interni che possono provocare

distorsioni negli scambi commerciali,

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la diminuzione del 45% delle spese di restituzione alla esportazione, la riduzione del 36% dei dazi all’importazione e dazi zero per i paesi in via di

sviluppo, la conferma della scatola blu per i pagamenti diretti della PAC legate a rese

storiche (seminativi) o a massimali (premi alla zootecnia), la proposizione di un registro per le denominazioni d’origine, la esclusione da riduzioni delle spese relative allo sviluppo rurale, alla protezione

dell’ambiente, al benessere degli animali, perché non hanno impatto sul commercio internazionale;

- l’andamento delle quotazioni del dollaro. La quotazione del dollaro in euro, in yen, in franchi svizzeri ed altre monete, si è indebolita per effetto della crisi dell’economia americana (che ha avuto esplicita visibilità dopo ed a seguito dell’attacco terroristico internazionale dell’11 settembre 2001) e della preparazione della guerra con l’Iraq, dopo la parziale conclusione della guerra in Afghanistan. Il dollaro meno forte rispetto alle altre monete crea problemi pesanti negli scambi internazionali di area dollaro (la grande prevalenza nei commerci mondiali) anche se dà slancio all’economia americana. All’Europa crea problemi enormi perché rende i prezzi istituzionali superiori ai prezzi mondiali e per conseguenza comporta la ricomparsa delle restituzioni alla esportazione e dà consistenza ai dazi alla importazione, che prima con l’euro debole erano quasi azzerati;

- la guerra, preventiva o guerreggiata, USA/Iraq ha effetto sui prezzi del petrolio (rincari) ed ha ripercussione sulle economie dei paesi importatori, e quindi direttamente anche sui costi dell’agricoltura, in special modo per le produzioni di massa, le commodities, e dei trasporti;

- in tutta l’Europa l’economia ristagna: la rivalutazione dell’euro e l’aumento del prezzo del petrolio creano ulteriori difficoltà alla ripresa economica;

- il 13 maggio 2002 è varato il nuovo Farm Bill negli USA (la legge: Farm Security and Rural Investment Act of 2002) valido per 6 anni (2002-2007), che con una inversione di tendenza rispetto al precedente Fair Act, dà più aiuti al settore agricolo e aumenti delle sovvenzioni a sostegno dei prezzi agricoli (si è calcolato un ammontare complessivo di 180 miliardi di dollari in 10 anni). Gli interventi riguardano i programmi di miglioramento della qualità ambientale, la ricerca agricola, lo sviluppo rurale, la bioenergia, la definizione di un sistema di etichettatura per carni, ortofrutta, pesce ed altro, ma anche il rafforzamento dei prezzi, l’aumento dei rendimenti e dei prezzi di base dei cereali ai fini dei pagamenti diretti, la promozione delle esportazioni. Una parte di questi interventi sono conformi all’accordo di Marrakech (1994) rientrando nella scatola verde, ma un’altra parte rientra nella scatola gialla, cioè le misure da iniziare o da cancellare, come peraltro ribadito a Doha in sede Wto;

- seppure avvenimento più lontano, ma in essere, occorre infine rammentare, per il coinvolgimento diretto dei prodotti mediterranei, che entro il 2010 dovrà essere realizzata l’area di libero scambio con i Paesi Terzi Mediterranei.

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Nel quadro descritto sulla situazione europea ed internazionale si possono evidenziare profonde contraddizioni; cosa emergerà dipenderà dalla condizione o dal paese più forte o dalla lobby più forte. Ma è dentro questo quadro che saranno e sono prese le decisioni sulla revisione della politica agricola comunitaria ed è dalle condizioni che emergeranno che dipenderà il peso e la profondità della revisione ed in quest’ambito anche dello sviluppo rurale. Questo convegno si svolge all’indomani del summit dei ministri agricoli sulle proposte del commissario Fischler, cioè in un momento tempestivo per esprimere considerazioni e riflessioni sulla politica perseguita dalla UE per lo sviluppo rurale con la relazione del Prof. Mario Prestamburgo, per commentare la svolta che lo sviluppo rurale assume nella revisione della PAC con la relazione del Prof. Paolo De Castro, per conoscere direttamente dall’ideatore e realizzatore, Prof. Alessandro Pacciani, la prima esperienza di distretto rurale in Europa, quella della provincia di Grosseto in Toscana, per avere conoscenza di esperienze siciliane con la relazione del Prof. Alessandro Hoffmann, per commentare il ruolo svolto dall’impresa nello sviluppo territoriale con la relazione della Prof.ssa Giuseppina Carrà. I relatori, carissimi amici e colleghi, oltre ad essere valenti studiosi di economia e politica agraria, hanno avuto ed hanno responsabilità politiche di rilievo. Piace ricordare che il Prof. De Castro è stato ministro dell’agricoltura, il Prof. Prestamburgo sottosegretario alla agricoltura, il Prof. Pacciani è assessore provinciale all’agricoltura nella provincia di Grosseto, i Proff. Carrà ed Hoffmann, pur non avendo cariche istituzionali, sono protagonisti con i loro studi nella politica regionale. Avevo già detto che questo convegno è stato sollecitato e promosso dall’On. Giuseppe Castiglione, perché aveva manifestato la necessità di un’ampia riflessione sullo sviluppo rurale al fine di meglio indirizzare le sue scelte politiche e di governo. Mi si consenta di dare pubblicamente atto all’On. Giuseppe Castiglione, Assessore Regionale all’Agricoltura ed alle Foreste e Vice Presidente della Regione Siciliana, di questo suo non usuale metodo di far politica, cioè di far precedere le azioni di governo da un confronto fra politica e scienza, perchè per l’argomento che trattiamo dovrà dare indicazioni se, per le condizioni produttive, strutturali organizzative dell’agricoltura della Sicilia, lo sviluppo rurale può essere strumento e strategia della evoluzione economica ed occupazionale del territorio e se sì, com’è convinzione di chi vi parla, come prepararsi ed agire per evitare errori e ritardi che hanno compromesso fortemente i risultati della numerosa famiglia di atti programmatori che sono stati operanti almeno dal trascorso decennio. Dalle conclusioni che trarrà l’On. Castiglione, alla fine della giornata di lavori, avremo indicazioni sulle possibili azioni di governo e sollecitazioni agli operatori economici, d’impresa e territoriali, ad essere pronti ad agire in termini di efficienza, dato che il contesto politico europeo ed internazionale non presenta situazioni facili ed

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è in continuo e veloce divenire, con ripercussioni pesanti sui mercati dei prodotti agricoli ed alimentari nazionali europei internazionali.

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Mario Prestamburgo Università degli Studi di Trieste

ORIGINE ED EVOLUZIONE DELLA POLITICA

SULLO SVILUPPO RURALE

Si è soliti far risalire l’origine delle politiche di sviluppo rurale dell’Unione Europea ai primi anni ’90, quando la Politica Agricola Comunitaria (PAC) accanto alle sue tradizionali politiche dei mercati e delle strutture, inizia a considerare una politica di sviluppo del territorio, che non interessa esclusivamente il settore agricolo e le aziende che vi operano, ma è una politica multisettoriale.

Come è noto, il quadro normativo di riferimento delle politiche di sviluppo rurale è dato dal Regolamento 1257/99 che unifica, in un unico testo giuridico, tutti gli strumenti di intervento in precedenza utilizzati con le politiche strutturali, non tanto per semplificare la complessa normativa comunitaria in materia, ma anche per porre le politiche di sviluppo rurale al centro della PAC e dare così un segnale forte sul progressivo ridimensionamento della tradizionale politica dei mercati da sempre carente sotto il profilo della “logica economica”, tanto da risultare, nel tempo, vieppiù difficilmente compatibile con le risorse finanziarie del bilancio comunitario.

Gli obiettivi delle politiche si sviluppo rurale sono molto ampi ed in verità alquanto ambiziosi e vanno da quelli “tradizionali” del miglioramento delle strutture produttive; della riconversione della produzione; dell’introduzione di nuove tecnologie; della ricerca di una più elevata qualità dei prodotti, fino a quelli presenti nella PAC già dai primi anni novanta1, quando si è deciso di intervenire sulla diversificazione delle attività; la promozione di un’agricoltura sostenibile; i sistemi di coltivazione a basso impatto ambientale; l’incentivazione di produzioni non alimentari, la promozione di pari opportunità per uomini e donne ed altro ancora.

Il perseguimento di questi obiettivi, oltre alle risorse finanziarie assegnate specificatamente allo sviluppo rurale, nelle zone dell’obiettivo 1 e 2 può contare anche sulle disponibilità finanziarie degli altri Fondi Strutturali previste per le politiche di sviluppo regionale.

Se dalla lunga lista degli obiettivi della politica di sviluppo rurale si passa a quella degli strumenti, la situazione certamente non migliora. Una possibile semplificazione è quella di accorpare gli strumenti in “categorie” sulla base delle loro finalità. Si ha così un insieme di misure atte a promuovere: l’ammodernamento delle strutture; le 1 In realtà, questa evoluzione della PAC ha inizio nel 1988 con la riforma dei Fondi Strutturali, quando si decide un diverso approccio alle politiche di sviluppo sia di tipo globale che intersettoriale, tendenza questa che si consolida con la riforma dei Fondi Strutturali del 1994 e in particolare con Agenda 2000 del 1999.

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finalità ambientali; il sostegno diretto dei redditi; la diversificazione aziendale ed economica nonchè la realizzazione di infrastrutture e servizi. Questa classificazione consente anche una più agevole analisi economica delle diverse misure, analisi che non può che basarsi sulla stretta correlazione (e coerenza) che deve sempre esistere tra “Teoria economica” e decisioni di “Politica agraria”, intesa quest’ultima come un segmento della più generale Politica economica 2. Infatti se viene a mancare questo legame, si finisce per far sostenere alla collettività costi finanziari molto elevati con risultati oggettivamente alquanto modesti, situazione questa di cui è costellata tutta la storia quarantennale della PAC. Sulla base di questa impostazione, le misure di ammodernamento delle strutture che comprendono: gli investimenti nelle aziende agricole (artt. 4-7 Reg. 1257/99); l’insediamento dei giovani agricoltori (art.8), la formazione (art.9); il miglioramento e la razionalizzazione della trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli (artt.25-27) non possono non destare alcune perplessità. Infatti se da una parte le nuove norme ricercano una semplificazione, abrogando i criteri di imprenditore a titolo principale; del reddito di riferimento; del piano di miglioramento aziendale; della tenuta obbligatoria della contabilità semplificata, dall’altra vengono introdotti nuovi criteri che alla luce della Teoria economica sembrano alquanto “originali”. Si fa riferimento ai cosiddetti “requisiti” che le aziende agricole e le imprese di trasformazione e commercializzazione devono possedere per poter accedere al sostegno finanziario dell’Unione Europea per gli investimenti progettati e segnatamente: a) l’esistenza di condizioni di redditività aziendale per effetto degli investimenti previsti; b) le conoscenze e le competenze imprenditoriali devono essere adeguate; c) il rispetto di standard minimi in materia di ambiente, igiene e benessere degli animali; d) l’esistenza di “sbocchi normali sui mercati per i prodotti interessati”.

Sulla condizione della redditività aziendale ( punto a), questo concetto va ricondotto a quello di “vitalità economica” dell’azienda. Ne consegue che per la Teoria economica un’azienda è redditizia se permette all’imprenditore di conseguire un profitto positivo o nullo3. Pertanto ogni altro indicatore di redditività (RLS, RN, RA) 2 La politica agraria “è una parte della politica economica e precisamente quella finalizzata a raggiungere nell’agricoltura e nel mondo rurale in genere quegli obiettivi di carattere generale che la politica economica si propone” ( O. Ferro, Istituzioni di politica agraria. Edagricole Bologna, 1988 pag. V). Quindi la politica agraria non va intesa come una politica per l’agricoltura e per gli agricoltori o una politica dell’agricoltura e degli agricoltori. Questa impostazione scientifica di fatto rende oltremodo limitata la possibilità che nell’analisi degli effetti per il settore agricolo delle decisioni di politica agraria si possano applicare dei modelli econometrici che non tengano conto delle interrelazioni esistenti tra le principali variabili macroeconomiche che caratterizzano l’evoluzione di un sistema nella sua globalità. Come è noto, sui modelli econometrici, sia di equilibrio economico parziale che di equilibrio generale, esiste un’ampia letteratura, in prevalenza straniera, alla quale si rinvia ( INEA, Valutare gli effetti della Politica Agricola Comune, Roma 2001). 3 Va da sé che il concetto di “vitalità economica” indicato nel testo riguarda l’azienda che opera in un mercato di concorrenza perfetta ( cfr. M. Prestamburgo, L’azienda agraria “vitale”: problemi di definizione e di metodo. Rivista di Economia Agraria, Fasc. 3-4, Roma 1973; L’analisi economica dell’azienda agraria “vitale”, Rivista di Economia Agraria, Fasc. 4, Roma 1976). Ne segue che nella realtà agricola italiana l’analisi della “redditività aziendale” può fare riferimento ad indicatori diversi dal profitto con il fine di ampliare l’universo dei beneficiari. Ma è evidente che così operando può risultare che a due aziende identiche, sia per caratteristiche strutturali che per risultati economici, ma situate in due Regioni diverse e quindi in due diversi PRS, possono essere riservati due diversi trattamenti. Infatti, dalla

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può introdurre elementi “distorsivi” del concetto di redditività aziendale. Ed ancora, posso assicurare che nella mia lunga attività di ricerca in agricoltura non ho mai incontrato imprenditori agricoli tanto sprovveduti da progettare degli investimenti nelle proprie aziende che “a priori” ad una verifica dell’Operatore pubblico, possano risultare non redditizi. Infatti con la nuova politica di sviluppo rurale l’imprenditore è chiamato ad una partecipazione finanziaria non simbolica sul costo degli investimenti progettati ( dal 50% al 60% del costo dell’investimento) e questa condizione è sicuramente la migliore garanzia che gli investimenti abbiano un’alta probabilità di risultare, a posteriori, redditizi4.

Va da sé che il concetto di redditività degli investimenti è cosa molto diversa da quello di redditività aziendale in quanto un’azienda può essere redditizia, ma l’investimento proposto si può dimostrare un insuccesso “a posteriori”. Viceversa possono esistere investimenti che, una volta realizzati, risultano altamente redditizi e tali da determinare una duratura vitalità economica per l’azienda5.

Sul requisito delle conoscenze e competenze imprenditoriali (punto b) c’è da chiedersi se è sufficiente un titolo di studio per sancire che si tratta di un “bravo imprenditore”. Non di rado mi è capitato di incontrare imprenditori con laurea in Scienze Agrarie o in Scienze Economiche che gestivano aziende con bilanci economici a dir poco dissestati, tanto che hanno finito poi per cedere le loro aziende. E’ evidente che il requisito in questione non può che essere inteso non sulle capacità imprenditoriali ma soltanto sulle conoscenze tecniche di coloro che assumono, per la prima volta, la gestione di imprese agrarie o quelle di trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli. Ma la normativa in questione raggiunge il massimo di illogicità economica quando fissa il requisito, per finanziare gli investimenti aziendali, degli “sbocchi normali sui mercati per i prodotti”. Questa dizione non è solo “vaga e generica” ( INEA, Le politiche comunitarie per lo sviluppo Rurale, Roma 2001) ma semplicemente assurda se si considera che i mercati agricoli sono per loro natura riconducibili allo schema dei mercati di concorrenza perfetta, dove è la “domanda” che genera la “offerta” e non viceversa. Inoltre, a mio avviso, la norma in questione non è riconducibile ai cosiddetti prodotti “sensibili” e cioè latte bovino, vino, carne bovina e suina, alcuni ortofrutticoli ( ad es. pomodoro) ed i cereali in genere, prodotti per i quali esistono già restrizioni o limitazioni quantitative. Quindi tutto lascia intendere che la norma non possa che interessare le sole innovazioni di

lettura dei PRS regionali emerge, con evidenza, che nel caso in precedenza ricordato una azienda risulta ammessa al contributo finanziario pubblico in conformità al PRS della propria Regione, mentre la seconda ne viene esclusa, in quanto il PRS della seconda Regione fa riferimento ad un diverso indicatore di redditività ( INEA, 2001, pagg. 95-96). 4 Se, in passato, alcuni investimenti agricoli sono risultati privi di redditività, la causa prima va ricercata proprio nella mancanza di una significativa partecipazione finanziaria da parte degli imprenditori agricoli. Infatti si è trattato di talune iniziative, permeate di una falsa socialità ( stalle sociali, caseifici sociali, cantine sociali etc…) per le quali è stato fatto credere agli agricoltori che per loro fossero investimenti “ a costo zero”, determinando così tra gli stessi un “consenso” entusiasta che molto rapidamente si è poi trasformato in delusione con conseguenze a tutti ben note sulla finanza pubblica. 5 Sui criteri seguiti in Italia dalle Regioni per stabilire se un’azienda è redditizia si veda INEA, Le Politiche comunitarie per lo sviluppo rurale. Rapporto 2001-2002. Roma 2002.

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prodotto, per le quali, peraltro, il “normale sbocco di mercato” è difficilmente prevedibile, “a priori”, specie dall’Operatore pubblico, senza poi dimenticare che il requisito degli “sbocchi normali sui mercati” per i prodotti finisce per penalizzare i prodotti di qualità e le produzioni tipiche e/o quelle di nicchia, come peraltro è già emerso nel negoziato sui Piani di Sviluppo Rurale (PRS) e sui Programmi Operativi Regionali (POR).

Da quanto sopra, segue che i requisiti richiesti per assegnare il sostegno finanziario da parte dell’Unione Europea rischiano di imbrigliare in “lacci e lacciuoli” la funzione imprenditoriale che, come è noto, è uno dei pilastri dell’economia di mercato, introducendo, tra l’altro, alcuni germi propri del “dirigismo economico” un tempo presenti nelle economie collettivistiche, di cui tutti ormai conosciamo le nefaste conseguenze.

Passando alle misure di ammodernamento delle strutture, queste dovrebbero favorire la mobilità dei fattori produttivi attraverso gli aiuti al prepensionamento ( artt. 10-12 Reg. CE no 1257/99) e gli incentivi alla ricomposizione fondiaria ( art. 33, 2° trattino). Si tratta di misure già presenti in precedenti norme comunitarie che, nel caso dell’Italia, non hanno prodotto gli effetti attesi. Infatti nel caso dell’aiuto al prepensionamento, già previsto dal Reg. 2079/92, anche se ora il periodo di godimento viene prolungato da 10 a 15 anni, tuttavia nel nostro Paese il divieto di cumulo dell’aiuto comunitario con ogni altra forma di indennità pensionistica scoraggia gli agricoltori ad utilizzare questa misura comunitaria. Del pari, in Italia, gli incentivi alla ricomposizione fondiaria, non avranno una sorte migliore della misura precedente per tutta una serie di note cause che vanno dalle norme del diritto successorio fino a quelle della mancanza nel nostro Paese di un’adeguata legislazione in materia di affitto dei fondi rustici. Ne è prova che tutti i piani di riordino fondiario, realizzati in alcune regioni italiane e soprattutto nel Friuli-Venezia Giulia, si sono dimostrati un autentico fallimento.

Decisamente migliori delle precedenti appaiono le norme del Reg. 1257/99 aventi finalità agro-ambientali, quali le misure di incentivazione alla silvicoltura e quelle di tutela ambientale. Tra queste misure, particolare importanza assumono quelle correlate agli obiettivi della gestione e del mantenimento dei sistemi di pascolo a bassa intensità, della conservazione delle caratteristiche tradizionali dei terreni agricoli e del sostegno dei costi aziendali correlati alla pianificazione ambientale.

Su queste misure grava il vincolo della dimostrazione da parte dell’agricoltore che il suo impegno produttivo va oltre l’adozione della “buona pratica agricola (BPA)”, concetto questo non facilmente definibile nella variegata realtà agricola italiana. Ne è testimonianza l’ampio dibattito, a livello comunitario, sulla BPA in particolare sulla variabilità della definizione in condizioni ambientali, strutturali e pedologiche assai diverse anche all’interno delle singole regioni e dei vincoli tecnico-produttivi imposti dalle disposizioni comunitarie nazionali e regionali in materia ambientale (ad. es. gli

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standards della direttiva UE sui nitrati nelle zone considerate sensibili). Vi è poi da considerare la verificabilità degli standards usati nell’attività di controllo per la definizione della BPA, aspetto questo che già da solo rende quanto mai problematica la reale applicazione di queste misure di sostegno.

Un’importante categoria di misure previste dal Reg. 1257/99 è quella del sostegno diretto al reddito che si concretizza essenzialmente nell’indennità compensativa, erogata per le zone svantaggiate, tra le quali il Regolamento in esame introduce anche quelle soggette a vincoli ambientali, mentre la legislazione comunitaria precedente si limitava a considerare come zone “svantaggiate” le zone montane, le altre zone svantaggiate e quelle in cui sono presenti degli svantaggi specifici.

Questo allargamento delle zone svantaggiate interessa soprattutto i Siti di Interesse Comunitario (SIC, direttiva 92/43/CEE) e le zone di protezione speciale (ZPS), di cui alla direttiva 79/409/CEE concernente la conservazione degli uccelli selvatici e le zone speciali di conservazione previste dalla direttiva 92/43/CEE in merito alla conservazione degli habitat naturali e della flora e fauna selvatica. Come è noto si tratta di zone che rientrano nell’ambito della rete ecologica europea (Natura 2000).

Le ultime due categorie di misure relative alle politiche di sviluppo rurale riguardano la diversificazione aziendale ed economica e le infrastrutture e servizi. Le misure di diversificazione interessano: la commercializzazione dei prodotti di qualità; lo sviluppo di attività plurime e di fonti alternative di reddito; l’incentivazione di attività turistiche o artigianali; il rinnovamento di villaggi e la protezione a tutela del patrimonio rurale. Le misure a favore di infrastrutture e servizi prevedono: la gestione delle risorse idriche in agricoltura; il miglioramento delle infrastrutture rurali; i servizi di sostituzione e di assistenza alla gestione; i servizi essenziali per l’economia e la popolazione rurale; l’ingegneria finanziaria.

Ho voluto ricordare, in dettaglio, queste misure per due ordini di considerazioni. La prima relativa alle novità introdotte dalla nuova politica di sviluppo rurale che consistono essenzialmente nell’allargamento della copertura territoriale non più limitata alle ex zone Obiettivo 1 e 5b (ora incluse nelle zone Obiettivo 1 e 2) ma l’intero territorio dell’Unione Europea e nell’ampliamento della platea dei potenziali beneficiari che comprende non solo gli imprenditori agricoli ma anche chi opera in “attività affini” all’agricoltura.6

6L’emanazione di questa misura, nei termini limitativi indicati, è stata voluta dalla Francia, la quale, temendo la riduzione di ingenti risorse finanziarie del FEOGA-Garanzia per gli interventi sui mercati agricoli, ha ottenuto che l’intervento fosse limitato alle sole attività affini all’agricoltura e per taluni interventi ( infrastrutture agricole, borghi rurali e patrimonio rurale, attività plurime e fonti alternative di reddito) il finanziamento del FEOGA fosse attivato solo in assenza di finanziamenti da parte del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR).

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La seconda considerazione è che, a mio avviso, le misure previste possono portare ad investimenti socialmente utili, soltanto se le attività agricole e quelli affini all’agricoltura sono inseriti in un tessuto “vitale” sotto l’aspetto economico o che tale tessuto possa, per effetto degli interventi in agricoltura e negli altri settori produttivi, raggiungere un livello di vitalità economica. A questa conclusione si giunge agevolmente considerando i tanti interventi finanziari pubblici nelle zone montane italiane dove le attività agricole da sole non sono state in grado di determinare uno sviluppo economico. Ed ancora, la limitazione delle risorse finanziarie messe a disposizione per le misure di diversificazione (10% della spesa complessiva) e l’interpretazione restrittiva della potenzialità dell’intervento limitata ai soli strumenti “tradizionali” con scarsa o nulla rilevanza per gli interventi innovativi, quali i servizi alla popolazione, lasciano prevedere che queste misure avranno, di norma, una portata molto limitata, come peraltro già emerge dai documenti di programmazione approvati (Piani di Sviluppo Rurale -PRS e Piani Operativi Regionali -POR).

L’analisi economica fin qui svolta consente anche di poter valutare la compatibilità e la coerenza delle politiche di sviluppo rurale con le altre politiche comunitarie ( artt. 37-39 Reg. 1257/99).

A questo proposito sono state sollevate alcune perplessità, che personalmente condivido. (INEA 2000, op.cit.) dato che il Reg. 1257/99 esclude: 1) dai Piani di Sviluppo Rurale (PRS) e dai Piani Operativi Regionali (POR) importanti strumenti quali la ricerca in agricoltura, la promozione dei prodotti agricoli e l’eradicazione delle malattie animali; 2) dal sostegno del FEOGA di tutte le misure a carattere strutturale che rientrano nel campo di applicazione delle varie Organizzazioni Comune di Mercato (OCM).

Per quanto riguarda la ricerca scientifica, è stato previsto che questa confluisca nei programmi quadro per la ricerca europea (gestiti dalla DG XII), determinando così da una parte l’impossibilità di integrare la ricerca con gli interventi per lo sviluppo rurale a livello territoriale e quindi facendo mancare i collegamenti tra produzione e trasferimento della ricerca scientifica nelle specifiche situazioni locali, e dall’altra il rischio di vedere le risorse finanziarie da destinare alla ricerca agricola ridursi nel prossimo futuro, rischio tutt’altro che remoto, come è agevole osservare nei programmi quadro già finanziati dalla DG XII. L’esclusione dai PRS e dai POR degli interventi finalizzati alla promozione dei prodotti è stata motivata dal fatto che tali interventi sono previsti dalle diverse Organizzazioni Comuni di Mercato (OCM). In realtà questo avviene solo nel caso dell’OCM ortofrutta, mentre poco o nulla è previsto in materia dalle altre OCM7.

7 In proposito va sottolineato che questa esclusione colpisce in modo particolare i prodotti mediterranei. Infatti nel caso dell’OCM ortofrutta sono esclusi tutti gli interventi strutturali che interessano i programmi operativi delle Organizzazioni dei Produttori ( riconversione e ristrutturazione della produzione a livello aziendale; interventi strutturali in materia di commercializzazione e promozione commerciale). Viceversa sono ammessi gli interventi che riguardano i territori e le imprese che operano al di fuori delle organizzazioni dei Produttori (OP) e le azioni di trasformazione della

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Nel complesso l’aspetto negativo di queste limitazioni e di questi vincoli va ricercato nel fatto che viene interessata sia la cosiddetta agricoltura competitiva, cioè quella orientata al mercato che quella che svolge prevalentemente una funzione di riequilibrio ambientale e che mira a soddisfare i bisogni espressi da una domanda relativa al tempo libero, cioè proprio le funzioni che i programmi strutturali tendono a privilegiare nelle strategie definite a livello regionale. E’ noto come per l’applicazione delle politiche di sviluppo rurale sia stato emanato un apposito regolamento (Reg.1750/99, sostituito dal Reg. 445/2002) che avrebbe dovuto chiarire le tante questioni insolute lasciate dal Reg. 1257/99 sulla definizione dei Piani di Sviluppo Rurale. Tuttavia questo regolamento di applicazione ha lasciato irrisolte alcune controverse ed ambigue interpretazioni, come quella sugli sbocchi “normali” di mercato o quella della compatibilità tra misure per lo sviluppo rurale e OCM. Infine è da ricordare il Regolamento concernente le norme transitorie per lo sviluppo rurale (Reg. 2603/99) che assume grande rilevanza soprattutto in materia di pianificazione finanziaria del Piano di sviluppo rurale. Infatti il Reg. 2603/99 mantiene in vigore, anche nella nuove fase, gli impegni agro-ambientali assunti con il Reg. 2078/92 che viene abrogato purchè tali impegni siano stati assunti prima del 30 luglio 1999 e siano resi conformi a quanto in materia sancito dal Reg. 1257/99). Va da sé che tale norma riduce sensibilmente le dotazioni finanziarie dei nuovi PRS, in quanto in molte Regioni europee gli interventi agro-ambientali (o presunti tali) hanno avuto larga diffusione. A questo punto sorge legittimo un interrogativo: le politiche di sviluppo rurale subiranno significative modificazioni con la revisione di medio termine di Agenda 2000? A questo interrogativo darà una risposta il prof. De Castro nella sua relazione. Da parte mia osservo che la Commissione ha deciso di recente ( proposta del 22 gennaio 2003 – fonte sito Internet http: //europa.eu.int/com/agriculture/index_it.htm) le modifiche di medio – termine di Agenda 2000, modifiche certamente non prive di “originalità” economica. 8 produzione. Tuttavia sono previste alcune deroghe a questa norma in quanto il fondo di esercizio con il quale le OP possono finanziare i loro programmi operativi rappresenta solo il 4,5% della produzione commercializzata, ma deve trattarsi sempre di interventi non in contrasto con le strategie degli OCM. Nel caso del comparto vitivinicolo, le azioni escluse dai programmi strutturali riguardano la riconversione varietale, il reimpianto ed il miglioramento delle tecniche di gestione dei vigneti in quanto si tratta di azioni che rientrano nell’OCM ed hanno un tasso di cofinanziamento comunitario più elevato: il 75% del costo dell’investimento nelle regioni dell’Obiettivo 1 contro il 50% dei programmi strutturali nelle stesse regioni. Nel comparto vitivinicolo, contrariamente a quanto ricordato per l’ortofrutta, non sono ammesse eccezioni. Nel caso dell’Italia questa preclusione è motivata dal fatto che il nostro Paese gode, per la ristrutturazione della viticoltura da vino, di apposite risorse messe a disposizione del FEOGA – Garanzia e quindi non sono previste delle deroghe, mentre le azioni per la trasformazione e commercializzazione non sono escluse dai programmi strutturali. Come nel caso della vitivinicoltura, anche per l’olivocoltura da olio le azioni strutturali di riconversione produttiva della produzione di base o di reimpianto sono vincolate al rispetto del potenziale produttivo esistente escludendo così ogni possibilità di incremento della capacità di produzione di base. 8 Le proposte della Commissione, come già è avvenuto in passato, sono precedute da una declaratoria tanto ricca di enfasi quanto scarsamente correlata agli effetti attesi dalle decisioni prese. La declaratoria in questione dal titolo “La riforma della PAC: una prospettiva a lungo temine per un’agricoltura sostenibile “ così recita: “ La proposta della Commissione offre agli agricoltori europei una prospettiva chiara, che accompagna il quadro finanziario per la spesa

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Si fa riferimento soprattutto al cosiddetto “pagamento unico per azienda” slegato dalla produzione (il cosiddetto “disaccoppiamento”). Secondo la proposta della Commissione gli imprenditori agricoli percepiranno un pagamento unico basato su un importo di riferimento comprendente il maggiore numero possibile di comparti produttivi e precisamente: i pagamenti per i seminativi, le carni bovine, il latte ed i prodotti lattiero-caseari, le carni ovine e caprine, la fecola di patata, i legumi da granella, il riso, le sementi e i foraggi essiccati. Il pagamento unico per azienda sarà ripartito in diritti di pagamento in modo da facilitare il trasferimento. Ogni diritto sarà calcolato dividendo l’importo di riferimento per il numero di ettari (incluse le superfici investite a foraggio) che nel corso del periodo di riferimento (anni 2000-2002) hanno dato origine a tale importo. I diritti possono essere trasferiti con o senza trasferimento di terra, tra gli imprenditori agricoli dello stesso Stato membro. Gli Stati membri hanno la facoltà di definire le Regioni all’interno delle quali i trasferimenti dei diritti di pagamento sono limitati. Inoltre, gli Stati membri avranno la possibilità di adattare i diritti in funzione di medie regionali. Dato che questa proposta potrebbe portare all’abbandono dei terreni agricoli per effetto del disaccoppiamento, la Commissione ha chiarito che gli imprenditori agricoli saranno tenuti a rispettare obblighi rigorosi in materia di manutenzione dei terreni nel quadro della “condizionabilità ecologica”, cioè del rispetto di norme vincolanti nel campo dell’ambiente, della sicurezza alimentare, della salute e del benessere degli animali e della sicurezza sul lavoro a livello di azienda. Gli imprenditori che non rispetteranno queste norme, saranno sanzionati con una penale pari ad una riduzione dal 10 al 100% dei pagamenti diretti ( in funzione della gravità dell’infrazione). Se si pensa a cosa è accaduto in Italia con il trasferimento delle quote latte senza la terra, non è difficile ipotizzare che il mercato dei diritti di pagamento genererà una situazione difficilmente governabile da parte dei cosiddetti soggetti pagatori italiani ( AGEA e Sportelli regionali). Ed ancora, è molto probabile che per effetto del decoupling e del mercato dei diritti di pagamento, nascerà una nuova figura di imprenditore aziendale che non produce ma che può “vivere” delle rendite finanziarie ottenute gestendo il proprio “portafoglio” di pagamenti unici. Senza entrare nel merito di altre originalità contenute nella proposta della Commissione, non strettamente correlate al tema in discussione, si ricorda che la proposta contiene delle misure per il rafforzamento dello sviluppo rurale con le quali viene ampliata la portata del sostegno agli interventi comunitari anche se è stata agricola deciso fino al 2013 dai Capi di Stato e di Governo al vertice di Bruxelles nell’ottobre 2002. Gli obiettivi sono quello rendere l’agricoltura europea più competitiva e maggiormente orientata al mercato, di portare avanti una semplificazione sostanziale della PAC, di facilitare il processo di allargamento e di difendere meglio la politica agricola in ambito OMC. Gli adattamenti proposti lasciano agli agricoltori la massima flessibilità circa le scelte di produzione da compiere e garantisce loro la stabilità dei redditi. L’attuazione della riforma della Commissione permetterà di eliminare gli attuali incentivi che hanno un impatto ambientale negativo e incoraggerà maggiormente pratiche agricole più sostenibili. Si tratta di adattamenti necessari per permettere all’Unione Europea di proporre un quadro strategico sostenibile e prevedibile per il modello agricolo europeo degli anni a venire. Le nuove prospettive finanziarie rendono ancora più urgenti queste modifiche, che dovranno permettere all’Unione Europea di garantire una distribuzione trasparente e più equa del sostegno al reddito degli agricoltori e di rispondere maggiormente alle aspettative dei consumatori e dei contribuenti europei. Le proposte odierne fanno seguito alle misure contenute nella revisione intermedia della politica agricola presentata dalla Commissione nel luglio 2002.”

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decisa una riduzione delle risorse finanziarie ( dal + 20% al + 6%) rispetto a quelle previste dalla Commissione nel luglio 2002. Le risorse supplementari saranno destinate alle misure già disponibili senza cambiare il quadro generale di attuazione del sostegno allo sviluppo rurale, cambiamento che secondo la Commissione sarebbe controproducente proprio a metà dell’attuale periodo di programmazione 2000-2006. I beneficiari prioritari di queste misure saranno in primis gli imprenditori agricoli . Spetterà agli Stati membri e alle Regioni di decidere se inserire o meno tali misure nei rispettivi programmi di sviluppo rurale9. Le risorse finanziarie per lo sviluppo rurale saranno ottenute dalla riduzione progressiva degli aiuti diretti ( la cosiddetta modulazione dinamica) e si prevede di poter disporre di 228 milioni di euro nel 2007 che negli anni successivi le risorse aumenteranno fino a raggiungere 1,48 miliardi di euro nel 2012. E’ tempo di concludere. E’ mia ferma convinzione che la Politica di Sviluppo Rurale, programmata per il periodo 2000-2006 (ed ora fino al 2013), non produrrà i miracolosi effetti “attesi”, così come è già avvenuto per il periodo 1994-1999, perché la PAC continua sempre ad essere caratterizzata da gravi carenze di logica economica. A questa conclusione sono giunto considerando i seguenti aspetti: 1) le politiche comunitarie dello sviluppo rurale soffrono della contraddizione di

fondo tra interventi nell’ambito dell’attività propriamente agricola ( anche se in un’ottica diversa da quella del passato per i nuovi bisogni e per il mutato ruolo dell’agricoltore nella moderna società) e quelli più propriamente “territoriali” secondo un approccio di sviluppo locale;

2) le risorse finanziarie disponibili per le politiche di sviluppo rurale appaiono adeguate, ma è questa soltanto una condizione necessaria ma non certo sufficiente. Infatti come è ampiamente dimostrato dall’esperienza della passata fase di programmazione 1994-1999, il successo delle politiche comunitarie dipende da

9Le misure comprendono: a) nuovi incentivi alla produzione di qualità. Si tratta di incentivi per gli imprenditori agricoli che partecipano a

programmi di miglioramento della qualità dei prodotti e dei processi di produzione e che forniscono ai consumatori garanzie in materia. Tali incentivi saranno versati annualmente per un periodo massimo di cinque anni e per un importo massimo di 1.500€ per azienda all’anno. Sono, inoltre, previsti incentivi per le associazioni di produttori per attività che interessano l’informazione dei consumatori e la promozione dei prodotti ottenuti nell’ambito dei progetti di miglioramento della qualità che beneficiano della misura precedente. Le sovvenzioni pubbliche autorizzate potranno raggiungere al massimo il 70% dei costi ammissibili.

b) nuovo sostegno per l’adeguamento degli agricoltori alle nuove norme. E’ previsto un aiuto temporaneo e decrescente destinato ad aiutare gli agricoltori ad adeguarsi alle norme rigorose previste dalla normativa comunitaria nei settori dell’ambiente, della sanità pubblica, nel settore fitosanitario, della salute e del benessere degli animali e della sicurezza sul lavoro. Per tutto questo potrà essere erogato un aiuto forfettario decrescente per un periodo massimo di cinque anni. L’aiuto sarà limitato a un importo massimo di 10.000 € per azienda in un dato anno e non sarà in nessun caso erogato qualora la mancata applicazione delle norme sia dovuta al non rispetto di norme già in vigore nella normativa nazionale. Sono previsti inoltre aiuti per contribuire alle spese sostenute dagli agricoltori per i servizi di consulenza aziendale. Le sovvenzioni pubbliche previste non potranno superare il 95% delle spese sostenute per tale consulenza, con un tetto massimo di 1.500€.

c) copertura delle spese sostenute per il benessere degli animali. E’ prevista la concessione di sovvenzioni a favore degli agricoltori che si impegnano, per un periodo di almeno cinque anni, a migliorare il benessere degli animali che allevano nella maniera più incisiva, rispetto alle buone pratiche zootecniche che già applicano. Quest’aiuto annuale sarà commisurato alle spese supplementari sostenute e alla perdita di reddito derivante dal rispetto di tali impegni; il tetto massimo annuo per unità di bestiame è fissato a 500€.

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numerose variabili tra le quali quelle che assumono particolare rilevanza si è soliti individuarle: I) nell’andamento congiunturale dei sistemi economici; II) nelle caratteristiche specifiche e nel grado di integrazione tra gli interventi previsti in fase di programmazione; III) nei settori interessati; IV) nella capacità di risposta degli agenti locali e quindi il livello di imprenditorialità esistente; V) nella competenza nella gestione a livello centrale e locale; VI) nell’allocazione delle risorse tra i diversi strumenti (INEA,2000 e 2002). A queste “variabili” ne aggiungerei un’altra che ritengo fondamentale per l’agricoltura italiana e precisamente la nota “ bassa mobilità del capitale fondiario” che il decoupling ha reso ancora più accentuata e che ostacola il processo di ammodernamento aziendale;

a) la zonizzazione nelle diverse “aree obiettivo” soprattutto in Italia appare non correlata all’esigenza di una concentrazione degli interventi sia di sviluppo rurale che quelle strutturali. Infatti se in Italia con la programmazione 200-2006 la popolazione elegibile passa rispetto al periodo precedente 1994-1999 da 11 a 7,4 milioni di abitanti, si osserva che su 71 provincie solo 6 non hanno aree ammissibili agli interventi finanziari.

A questa diluizione dell’intervento si è giunti attraverso il massiccio ricorso all’inserimento nelle aree ammissibili di parti dei territori comunali.

b) il sistema di programmazione posto in essere nei diversi ambiti territoriali ( QCS, PRS, CDP, DOCUP) è decisamente complesso, specie se si considerano i criteri e le procedure di intervento del FEOGA-garanzia che sono diversi da quelli FEOGA- orientamento. Si ha così che in Italia i documenti di programmazione regionali sono ben trentacinque (compresi i CDP redatti dalle regioni dell’Obiettivo1) con tutto ciò che comporta in termini di difficoltà di gestione. Se poi si considera la mancanza nel nostro Paese di adeguati meccanismi di coordinamento, a livello nazionale appare quanto mai realistico prevedere azioni tra loro incoerenti e quindi un insuccesso delle varie iniziative;

c) la PAC si colloca in un contesto economico generale caratterizzato dalla mancanza di un processo di convergenza tra le diverse Regioni, tanto che nel periodo 1986-1996 i divari in termini di PIL per abitante sono rimasti sostanzialmente invariati: le 25 regioni più povere dell’Unione hanno visto crescere il loro reddito pro-capite dal 52% al 59% della media comunitaria, mentre nelle regioni più ricche tale incremento è stato del 138% fino al 149%, crescendo così il loro vantaggio competitivo. Ancora più rilevanti sono i divari interregionali in termini sociali. Infatti tra il 1970 ed il 1987 la disoccupazione è cresciuta rapidamente10 tanto da determinare un allargamento della forbice: nelle Regioni più prospere il tasso di disoccupazione non supera il 3-4%, mentre nelle Regioni più povere si attesta sul 20-35% e colpisce soprattutto le donne ed i giovani. Per questa “forza lavoro” i tassi di disoccupazione, specie quelli di lunga durata, sono addirittura raddoppiati producendo di fatto l’esclusione dal mondo del lavoro delle donne e dei giovani. Tutto questo mostra chiaramente come l’eccessiva enfasi

10 Da questa tendenza si discosta il periodo 1985-1991, anni in cui si registra un netto calo del tasso di disoccupazione.

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posta sul concetto di coesione economica dall’Atto Unico Europeo ( 1986) e dall’adozione del Trattato sull’Unione (1992) si dimostri sempre più un’autentica “chimera”.

Se l’analisi economica delle politiche di sviluppo rurale, così come sono state finora attuate, induce allo scetticismo sui possibili risultati attesi, ovviamente confrontati con i relativi costi, non è così per una loro valutazione meramente “politica”. Infatti è ben noto che la “nuova” PAC, così come la “vecchia,” continuerà a dare il suo importante contributo alla costruzione dell’Unione Europea, specie con l’allargamento all’Europa dell’Est. E’ questa una verità che rende accettabili ai cittadini europei ed in particolare agli italiani, tutte le distorsioni economiche della PAC anche le più macroscopiche, perché la partecipazione all’Unione Europea è per tutti gli europei l’unica speranza per un futuro migliore. Per l’Italia la UE costituisce un’opportunità, unica ed irripetibile, per cercare di guarire dei tanti mali di cui soffre da lungo tempo, mali da molti ritenuti inguaribili ma che in realtà, in un contesto europeo, è probabile che potranno ridursi per poi sparire quasi per incanto.

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Paolo De Castro Presidente di Nomisma

IL FUTURO DELLA POLITICA RURALE

IL RUOLO DELLO SVILUPPO RURALE NELLA POLITICA AGRICOLA COMUNITARIA

Il ruolo dello Sviluppo Rurale nella PAC

Parlare di sviluppo rurale significa parlare di uno degli aspetti più innovativi e recenti della politica agricola, in particolare di quella comunitaria. Occorre infatti considerare che è proprio nell'ultimo decennio che sono stati compiuti alcuni dei passi più importanti in questa direzione, e cioè: • sono stati definiti regolamenti specifici per le denominazioni di origine; • è stato varato l'impianto regolamentare per le produzioni biologiche; • sono state poste le basi di una politica comunitaria per la sicurezza alimentare con

il Libro bianco prima e la cosiddetta "Food Law" del 2001 poi; • con Agenda 2000 è stato dato corpo al Regolamento per lo sviluppo rurale, il così

detto "secondo pilastro" della Pac. Fino ad oggi, quest'ultimo strumento è stato forse poco efficace e dotato di scarse risorse ma, di fatto, è il principale elemento che oggi offre una prospettiva di governare - anche a livello locale e regionale - politiche mirate alla qualità ed all'ambiente. I cambiamenti non hanno riguardato solo gli strumenti ma anche i contributi ed il bilancio finanziario. Con la riforma del 1991 della Pac, la riforma "Mac Sharry", il 91% del bilancio era destinato a misure di sostegno di mercato come sussidi alle esportazioni, mentre gli aiuti diretti rappresentavano il restante 9%. In questa fase, misure di sviluppo rurale erano previste solamente nella parte "Orientamento" del bilancio Feoga. Con Agenda 2000, anche in considerazione dei necessari adattamenti ai vincoli Wto, le misure di mercato sono state ridotte al 21%. Gli aiuti diretti sono passati al 68% dei fondi di Feoga-Garanzia, mentre i programmi dello sviluppo rurale coperti dalla sezione di Garanzia del Feoga rappresentano il restante 11%, per un ammontare annuo di circa 4,3 miliardi di euro. Una scelta importante e per certi aspetti ovvia, se si considera che il territorio rurale costituisce l'80% dell'intera superficie europea. Al di là degli aspetti finanziari, è bene sottolineare come la nuova politica di sviluppo rurale tende ad offrire risposte concrete ai problemi ed alle aspettative della società odierna assicurando lo sviluppo armonico di tutte le zone rurali d'Europa e la creazione di posti di lavoro. Tale sviluppo si articola su alcuni grandi assi di riferimento, dal potenziamento del settore agricolo e forestale, al miglioramento della competitività delle zone rurali, per arrivare - infine - alla salvaguardia dell'ambiente e del patrimonio rurale. Tale politica risulta imperniata su 4 principi di base.

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• La plurifunzíonalità de11agricoltura, ossia il suo ruolo polivalente oltre la semplice produzione di beni agroalimentari.

• L'approccio plurísettoríale e integrata dell'economia rurale al fine di diversificare le attività, creare nuove fonti di reddito e occupazione e proteggere il patrimonio rurale.

• La flessibilità degli aiuti allo sviluppo rurale, basata sulla sussidiarietà e favorevole al decentramento, alla concertazione a livello regionale e locale e al partenariato.

• La trasparenza nell'elaborazione e nella gestione dei programmi, a partire da una normativa semplificata e più facilmente accessibile.

La Pac oggi: nuovi scenari e nuovi obiettivi

Nella sua storia, ormai lunga, la Pac è stata testimone di un continuo processo di adattamento e cambiamento, culminato nelle riforme del 1991 e del 1999. Nello scenario attuale, tuttavia, pur essendo ad appena 3 anni dai negoziati di Agenda 2000, molti elementi si propongono con forza e inducono a ritenere che sia necessario attuare una nuova fase definizione. I prossimi negoziati sul commercio internazionale in sede Omc (Organizzazione Mondiale del Commercio) daranno luogo ad un ulteriore avanzamento nel processo di liberalizzazione degli scambi, toccando ovviamente anche il settore agricolo ed alimentare. Al tempo stesso la politica commerciale dell'Unione rispetto ai paesi terzi darà luogo ad ulteriori aperture, sia nei confronti dei Paesi meno avanzati, sia nei riguardi di importanti partners, come il Mercosur, il Nord-Africa, i Balcani. A tale riguardo assumono un rilievo particolare le aperture manifestate dalla Commissione Europea nei primi mesi del 2002 per l'estensione dell'accordo Eba (Evrithing But Arm) riferito alla liberalizzazione degli scambi con i 49 paesi più poveri del mondo, a tutti i paesi dell'accordo ACP (Africa, Caraibi e Pacifico). L'allargamento dell'Unione comporterà a sua volta rilevanti nodi da sciogliere per la Pac, a partire dall'estensione degli aiuti diretti agli agricoltori dei nuovi paesi membri, in un contesto in cui i limiti di bilancio renderanno difficile la ricerca di soluzioni equilibrate. Ma va anche sottolineato, al di là dei fattori economici, che il consenso dell'opinione pubblica nei confronti della Pac si é progressivamente affievolito: in una società in cui le regole del mercato si applicano ormai in tutti i settori (e sono entrate a far parte di una cultura generalmente condivisa) ci si chiede se sia giustificato proteggere e sostenere economicamente le imprese agricole. La perdita di consenso da parte dell'opinione pubblica é accresciuta dalle difficoltà evidenziate nel prevenire gravi patologie del sistema alimentare (casi diossina, BSE, ecc), nonché da episodi di malversazione degli aiuti, che periodicamente affiorano nella cronaca. Più in generale, si deve rammentare che negli ultimi venti anni la sensibilità dell'opinione pubblica europea é profondamente mutata, ed il cittadino-consumatore rivolge oggi un'estrema attenzione alle tematiche dell'ambiente, della sicurezza alimentare, della produzione

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biologica, del benessere degli animali, e su questi temi attende dall'Unione Europea risposte sempre più avanzate. Tale attenzione è stata alimentata dalla specifica azione dei media, che non ha precedenti nel passato. Quale effetto finale, da qualche anno la Pac è messa sempre più spesso sotto "osservazione" dall'opinione pubblica. La principale accusa che viene mossa è quella di una politica che da un lato assorbe una quota rilevante del budget comunitario, quasi il 50% con una spesa annua di oltre 40 miliardi di Euro, ma dall'altro non è riuscita ad evitare "shock" quali le epidemie della Bse e della peste suina, e più in generale non è stata in grado di garantire la sicurezza dei consumatori e dei cittadini. Si pone quindi il tema della qualità delle regole e degli strumenti di politica agricola, ma anche quello dell'accettabilità delle stesse all'opinione pubblica nella prospettiva futura. A questo riguardo sono estremamente interessanti i dati dell'indagine Eurobarometro condotta nel 2001 e rivolta allo studio degli obiettivi che i cittadini europei chiedono di porre alla base della Pac.

Cosa si attendono i cittadini europei dalla Politica agricola comunitaria Obiettivo Quota prima scelta

Prodotti sicuri e sani 90% Rispetto dell'ambiente 89% Proteggere le piccole imprese 82% Adattare l'agricolrura alle esigenze dei

i81%

Migliorare le condizioni di vita nel modo l

80% Aumentare la competitività dell'agricoltura UE 78%

Fonte: Indagine Eurobarometro 2001. Dalla tabella emerge con evidenza la presenza di nuovi bisogni rispetto agli obiettivi assegnati alla Pac nel passato. La sicurezza, la sanità dei prodotti, il rispetto dell'ambiente, così come l'attenzione agli assetti sociali nelle aree rurali, sono le priorità richieste alla Pac. In altri termini, c'è una chiara ed univoca domanda di sviluppo rurale. Allo stesso tempo i temi legati all'impresa sono meno sentiti. Se viene percepita una certa preoccupazione per le sorti delle piccole e medie imprese, la difesa dei redditi degli agricoltori (77%) e la tutela degli interessi degli agricoltori rispetto agli interlocutori della filiera (71%) hanno una priorità molto bassa. C'é quindi l'esigenza di un ripensamento radicale della PAC. Ma occorre porsi di fronte a questo problema con la consapevolezza che l'Europa ha bisogno di una politica agricola, così come tutti i paesi al mondo - anche i più liberisti (USA e Nuova Zelanda, Australia, ecc) - hanno una loro politica agricola. Le ragioni della diversità del settore agricolo rispetto agli altri settori dell'economia tali da giustificare una politica d'intervento specifica, sono diverse: economiche, politiche e sociali Il

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problema non pare essere il costo della politica agricola in quanto tale. Si pensi che il costo complessivo della Pac incide per appena lo 0,51% sul prodotto interno lordo dell'Unione Europea. Il tema si pone invece nella relazione causa-effetto tra la Pac, il suo costo, e gli obiettivi che si intende perseguire. Se la definizione degli obiettivi, a partire dalla revisione di Agenda 2000 prevista entro il 2003, sarà coerente alle "nuove" richieste dei cittadini, molto probabilmente sarà possibile impostare un percorso di sviluppo della filiera agroalimentare e delle sue imprese realmente sostenibile nel tempo. Le nuove prospettive per lo sviluppo rurale

E in questo nuovo scenario, occorre ripensare in altri termini sia al ruolo dell'impresa agricola quale strumento necessario per raggiungere gli obiettivi della Politica Agricola Comunitaria, ma anche agli obiettivi medesimi che lo sviluppo rurale deve perseguire. Un'analisi che può essere sviluppata a 3 differenti livelli: • quello degli obiettivi, • quello delle risorse, • quello degli strumenti. In merito al primo livello, occorre quindi: • dotare l'azienda di nuovi strumenti e modalità di intervento capaci di esprimere un

maggiore orientamento e selezione dei modelli d'impresa, superando le logiche di "sostegno trasversale" ai singoli comparti e sistemi nazionali;

• concedere aiuti in funzione dei comportamenti dell'impresa e dell'imprenditore; • considerare l'impresa e l'imprenditore agricolo quali primi attori dello sviluppo

rurale. Parallelamente e in base alle indicazioni emerse in precedenza, lo sviluppo rurale deve essere inteso quale modello di sviluppo sostenibile nel tempo e sintesi di bisogni trasversali tra ambiente, salute, territorio, paesaggio e altro, in coerenza a quelle che sono le esigenze complessive della nuova Pac. Dal punto di vista delle imprese, si tratta di orientare quindi l'attività agricola verso un approccio multifunzionale. La presenza di un'attività agricola sul territorio può, infatti, avere enormi effetti ambientali, sociali, culturali, in un intreccio di elementi che interagiscono sulla identità ed i valori della collettività, sugli assetti del territorio, sulle attività produttive. L'esperienza, tuttavia, dimostra che la mera presenza dell'agricoltura sul territorio non é sempre portatrice di effetti positivi, perché in alcuni casi l'esasperazione di modelli produttivistici può arrecare anche gravi problemi ambientali. Solo integrando un forte orientamento ambientale nella politica agricola, il ruolo multifunzionale dell'agricoltura potrà dispiegare tutta la propria valenza positiva dando un contributo efficace allo sviluppo rurale "sostenibile". La qualità e la multifunzionalità sono dunque i due basamenti dello sviluppo rurale su cui lavorare. Un sistema agroalimentare fondato sulla qualità, che svolga in pieno il suo ruolo multifunzionale sul territorio, risponde alle aspettative dei cittadini e dei consumatori e può costituire, al tempo stesso, una risposta economicamente valida nel contesto della globalizzazione. Allo stesso tempo, però, occorre ricordare come il "nuovo

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sviluppo rurale" dovrà essere coerente e compatibile con i vincoli legati allo scenario futuro, e precisamente:

in merito all'allargamento dell'Unione Europea. I Paesi candidati ad entrare nell'Ue hanno 60 milioni di ettari coltivati e quasi 10 milioni di lavoratori agricoli: cambieranno quindi i "pesi" nella ripartizione delle quote finanziarie, ma soprattutto occorrerà dare maggiore flessibilità allo sviluppo rurale (aspetti sociali rispetto ad ambiente e benessere animale);

in relazione al commercio internazionale. Lo sviluppo rurale dovrà comunque essere sviluppato secondo modalità "compatibili" agli accordi OMC. I servizi e le attività multifunzionali dovranno fare riferimento ad uno specifico mercato, con una domanda (anche pubblica) ed un'offerta (quella delle imprese agricole multifunzionali). Relativamente alle risorse da dedicare allo Sviluppo Rurale, dovrebbe essere avviato un incremento di risorse finanziarie dalle misure di mercato alla politica di sviluppo rurale con la revisione di medio termine di Agenda 2000; incremento che dovrebbe portare la quota di spesa agricola dedicata allo sviluppo rurale dall'11% - come stabilito in Agenda 2000 - fino al 20-25%. Tuttavia, assegnare semplicemente nuove risorse al Regolamento dello sviluppo rurale così come lo conosciamo oggi, non darebbe i risultati attesi ed auspicati. La qualità dei risultati non dipende solo da aspetti amministrativi o regolamentari, ma passa anche da una più attenta riconsiderazione delle modalità operative dello sviluppo rurale. Un importante passo in tale direzione è stato compiuto nella proposta di revisione di medio termine di Agenda 2000, dove sono state identificate nuove misure di accompagnamento per il rafforzamento dello sviluppo rurale, riguardanti la qualità e la sicurezza alimentare (in tal senso risultano interessanti i capitoli relativi alla promozione della partecipazione degli agricoltori a regimi di certificazione e di garanzia della qualità - Dop, Igp, Biologico, ecc.- e il sostegno alle stesse associazioni di produttori per le attività promozionali), nonché la salute ed il benessere degli animali. In conclusione, se riusciremo a governare in seno all'UE l'affermazione di una politica rurale coerente ai vincoli del sistema economico generale, dello scenario agroalimentare ed ai bisogni della società civile, allora sarà possibile avviare un confronto per definire basi comuni di politica rurale valide anche oltre i confini comunitari.

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Alessandro Pacciani Università degli Studi di Firenze e Assessore allo Sviluppo Rurale

della Provincia di Grosseto

DISTRETTO RURALE DELLA MAREMMA: DALLA PROPOSTA ALLA REALIZZAZIONE

1. I PERCHÉ DEL DISTRETTO RURALE

1.1. L’EMERGERE DELLA «NUOVA RURALITÀ»

I CAMBIAMENTI DELL'AGRICOLTURA E DEL MONDO RURALE

L'attenzione degli studiosi e della politica verso il mondo rurale rappresenta una novità che si iscrive nella più generale tendenza al ripensamento dei modelli di sviluppo dominanti e delle dinamiche di cambiamento della campagna e dei suoi ruoli nell'economia e nella società. I fenomeni di maggiore evidenza sono: - le nuove tendenze dei consumi e la più generale evoluzione della sensibilità sociale,

con una crescente importanza alla qualità dei prodotti, all'impatto ambientale, alla dimensione culturale del consumo e, più in generale, alla qualità della vita di cui il rapporto equilibrato tra uomo e ambiente è un elemento fondante;

- la terziarizzazione dell'economia, con la crescita dei servizi rivolti alle persone (turismo, tempo libero, abitazione) e dei servizi alle imprese (intermediazione commerciale e finanziaria, logistica, trasporti);

- la differenziazione produttiva dell'agricoltura: aumento dei legami con l'industria di trasformazione alimentare, prodotti “nuovi” caratterizzati per la specificità della loro qualità.

L'economia rurale è dunque rappresentata dalla contemporanea presenza nel medesimo territorio di attività economiche appartenenti a diversi settori produttivi, che ha portato alla creazione di un tessuto sociale fertile per la crescita economica e sociale. Il processo di sviluppo che caratterizza un'area rurale è costituito dall'attuazione di un progetto comune che consente di diffondere all'interno della comunità che vi partecipa gli effetti positivi conseguenti dalla vendita di beni e servizi all’interno e verso l'esterno dell'area stessa.

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GLI ORIENTAMENTI DELLA POLITICA AGRICOLA COMUNITARIA, NAZIONALE E REGIONALE

La politica di sviluppo rurale deve pertanto affrontare i problemi del mondo rurale con un progetto comune e condiviso, e allo stesso tempo richiede che tutti gli interventi di politica economica che agiscono sul mondo rurale siano funzionali alla caratterizzazione rurale del territorio e alle scelte locali, o quantomeno non contrastino con essa. Anche la Politica Agricola Comunitaria ha subito importanti cambiamenti di approccio e di contenuti negli ultimi dieci anni, e oggi è suscettibile di essere considerata come uno degli elementi centrali della politica di sviluppo delle aree rurali. Il concetto di sviluppo rurale che può consentire una rivitalizzazione delle aree rurali, e che emerge dai documenti ufficiali dell'Unione Europea, può essere sintetizzato con tre concetti essenziali: - Endogeno: lo sviluppo rurale si basa principalmente sulle risorse locali (prodotti,

abilità e conoscenza locale) e sulla capacità degli attori locali di concepire e gestire progetti sul territorio; la partecipazione della comunità locale alla definizione e nella condivisione degli obiettivi assume un ruolo centrale (bottom-up);

- Integrato: lo sviluppo rurale non è solo sviluppo agricolo ma, riconoscendo il carattere multifunzionale delle attività agricole, promuove l’integrazione di tutte le attività economiche e sociali a livello locale (turismo, artigianato e industria, servizi, attività sociali e culturali);

- Sostenibile: lo sviluppo rurale garantisce la gestione consapevole e la riproduzione delle risorse usate nel processo produttivo, con particolare riferimento alle risorse ambientali e socio-culturali.

Fondamentale, in questo nuovo scenario, è anche il mutamento nelle procedure di definizione degli interventi, sempre più chiamando alla fase di progettazione, attuazione e controllo gli operatori locali pubblici e privati e restringendo l'azione dei livelli superiori al coordinamento e indirizzo. Nell’ottica dello sviluppo rurale i principali passaggi della politica nazionale di settore sono rappresentati da: - il Decreto Legislativo n.173/1998, frutto della “concertazione” con le

Organizzazioni agricole di categoria, rappresenta un Piano per il rilancio del settore incentrato su tre obiettivi fondamentali: riduzione dei costi di produzione, valorizzazione delle produzioni agroalimentari, e rilancio dell’intero sistema produttivo;

- la Legge 97/1994 “Nuove disposizioni per le zone montane”, dove si prevedono interventi speciali per le aree montane diretti allo sviluppo globale della montagna;

- la recente Legge di orientamento che apre un nuovo importante capitolo delle politiche agricole nazionale e regionale. In particolare la possibilità da parte delle Regioni di individuare distretti rurali e distretti agro-alimentari di qualità all’interno del territorio di competenza.

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Le scelte della Regione Toscana si sono indirizzate in particolare verso un arricchimento delle iniziative per lo sviluppo rurale, con una articolata normativa che tocca diversi aspetti, quali il potenziamento dei circuiti di integrazione tra le produzioni agricole e l’ambiente, il turismo, l’industria agro-alimentare, la ricerca e il trasferimento tecnologico.

I NUOVI RUOLI DELL’AGRICOLTURA NELLO SVILUPPO RURALE: QUALITÀ, AMBIENTE E INTEGRAZIONE NEL TERRITORIO

La peculiarità del modello europeo risiede nel carattere “multifunzionale” dell’agricoltura, cioè riconosce il ruolo che essa svolge nell’ambito dell’economia, della società, del territorio; da quest’ottica discende la necessità di preservare l’attività agricola ovunque in Europa, e di salvaguardare il reddito degli agricoltori. Il concetto stesso di multifunzionalità si basa sul riconoscimento sociale all’agricoltura di una molteplicità di ruoli che si affiancano a quello di realizzazione di prodotti e di servizi, ed appare dunque in sintonia con l’evoluzione del sentire dei consumatori e dei cittadini. Allo stesso tempo il ruolo attribuito al settore agricolo nello sviluppo rurale risulta ridimensionato, nella misura in cui l’agricoltura viene riconosciuta come una tra le molte attività economiche delle aree rurali, ma non per questo risulta sminuito. L'impresa agricola quindi, a fronte dell'aumento del numero e della qualità delle funzioni richieste per operare nel nuovo panorama competitivo, è sempre meno una entità autosufficiente, e deve anzi ricercare i fattori del proprio successo non più solamente al proprio interno (efficienza produttiva, innovazione tecnica, standard di qualità) ma in via crescente anche al proprio esterno, a livello cioè del complesso di relazioni che l'impresa intesse con un insieme di altre entità (altre imprese, istituzioni, fattori immateriali). L'importanza del territorio per l'attività agricola può essere colta in primo luogo in una chiave più strettamente produttiva e assume anche una forte valenza rispetto alla valorizzazione dei prodotti in una chiave di tipicità, legata all'immagine, ai caratteri naturali e/o alla cultura del territorio stesso. Un ulteriore elemento di rilevanza del territorio risiede nelle molteplici interazioni tra l'agricoltura e il mondo rurale extra-agricolo.

1.2 LA MAREMMA E LA NUOVA RURALITÀ

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LA PECULIARITÀ DEL PROCESSO DI SVILUPPO STORICO E DEL TERRITORIO DELLA MAREMMA

La provincia di Grosseto presenta importanti peculiarità rispetto al resto della Toscana, che mentre per alcuni profili la collocano in posizione di debolezza, per altri offrono interessanti opportunità di sviluppo alla luce della interpretazione dello sviluppo rurale definita dall’Unione Europea e in linea con le nuove richieste dei consumatori e della collettività. La presenza di sistemi ambientali e paesaggistici molto differenziati tra loro definisce una ricchezza ed una varietà di ambienti di eccezionale complessità. A questa varietà di ambienti fisici e antropici corrisponde una altrettanto forte complessità sotto il profilo socio-economico, che si traduce in una policentricità e polisettorialità dell’economia grossetana. Il capoluogo costituisce un significativo polo di attrazione, ma non si registrano nella provincia di Grosseto gli stessi fenomeni di “concentrazione territoriale” che sono generalmente presenti invece nelle altre province toscane. Allo stesso tempo non vi è una “dominanza” di alcune attività economiche rispetto alle altre. La provincia di Grosseto si contraddistingue per l’ancora rilevante peso ma soprattutto per la notevole vitalità dell’agricoltura, caratterizzata da un elevato livello professionale, e da una presenza di giovani e di imprenditrici agricole molto al di sopra della media regionale e nazionale. E’ inoltre opportuno sottolineare alcune altre peculiarità dell’agricoltura grossetana e delle attività ad esse collegate, che possono costituire importanti elementi in una logica di sviluppo rurale: - la rilevanza delle cosiddette produzioni “minori” (ad esempio piante officinali,

tartufo, apicoltura e castanicoltura), che rappresentano una interessante opportunità per lo sviluppo di alcune aree meno favorite;

- l’importanza delle produzioni agro-alimentari legate al territorio, tra cui i numerosi prodotti tradizionali e tipici;

- la persistenza di numerose specie animali e vegetali a rischio di estinzione, che costituiscono un importante patrimonio da salvaguardare in funzione del mantenimento della biodiversità;

- la naturale vocazione della Maremma per le produzioni “rispettose” dell’ambiente; - la rilevanza dei boschi; - il forte aumento delle aziende agrituristiche; - l’interesse storico ed emblematico per l’allevamento del cavallo; - una forte concentrazione di moderne imprese di acquacoltura e di una attività di

pesca a mare; - la diffusione delle Aziende Faunistico Venatorie e delle Aziende Agri-Turistiche

Venatorie;

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- la presenza di un’industria alimentare che presenta delle significative esperienze nell’ambito dei comparti vitivinicolo, olivioleicolo, lattiero-caseario e degli ortofrutticoli freschi e trasformati.

LA RURALITÀ DEL TERRITORIO COME COLLANTE DELLE DIVERSITÀ E COME PROPULSORE DELLO SVILUPPO

L’attenzione crescente accordata al mondo rurale anche dagli indirizzi e dagli strumenti della politica agraria e rurale dell’Unione Europea deve far riflettere sul ruolo dell’agricoltura, ma soprattutto sul ruolo delle attività non agricole. Tra gli ulteriori elementi dell’economia grossetana suscettibili di una positiva integrazione in una logica di sviluppo rurale possono essere individuati: - la grande diffusione dei demani civici e degli usi civici; - la presenza di un articolato sistema di parchi e di riserve; - la diffusa presenza sul territorio di attività non agricole ma ben collegate allo

sviluppo rurale, quali il piccolo artigianato e l’attività turistica, che oggi costituisce il tratto emergente dell’economia provinciale, rispetto alla quale va messo in evidenza il legame sempre più stretto tra i flussi turistici e l’agricoltura, il paesaggio, la cultura del luogo, la gastronomia;

- la persistenza e vitalità di numerose tradizioni culturali locali, e di una memoria storica radicata nelle diverse comunità locali.

1.3. PERCHÉ IL DISTRETTO RURALE DELLA MAREMMA

L’ESIGENZA DI NUOVI STRUMENTI DI PROGRAMMAZIONE E DI INTERVENTO

Le politiche comunitarie in agricoltura stanno vivendo una fase di "rilocalizzazione", con il passaggio di competenze sempre più importanti dalle istituzioni dell'Unione Europea ai soggetti istituzionali locali - riconoscendo agli Stati membri una più ampia autonomia nella definizione degli obiettivi, nella gestione degli interventi e nel finanziamento di questi ultimi. Sempre più considerevole diventa il ruolo delle Regioni e degli Enti Locali nella "personalizzazione" degli obiettivi e della gestione delle risorse. L’economia e l’agricoltura grossetane presentano elementi e indicatori che assumono significative valenze positive se collocati in una logica di sviluppo rurale allo scopo di rafforzare a livello territoriale un insieme di economie “da contatto” tra le diverse attività economiche, il turismo, le risorse naturali, culturali e paesaggistiche. Una politica di sviluppo rurale compatibile con un'azione di governo delle trasformazioni in atto deve perciò avere le seguenti caratteristiche:

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- sollecitare la differenziazione produttiva in modo da mantenere e rafforzare le interconnessioni fra le imprese e i settori produttivi, fino al sostegno di ogni iniziativa che appaia integrata nel tessuto economico e sociale;

- indirizzare l'agricoltura verso quelle strutture e quelle produzioni che rappresentano il perno attorno al quale ruota la compresenza delle diverse attività produttive;

- coordinare il sistema di regolamentazione pubblica nel perseguire obiettivi compatibili con la crescita di un sistema produttivo differenziato nel quale la componente ambientale giuochi un ruolo preminente;

- definire un progetto unificante in modo da garantire il concorso di tutte le componenti della società e del tessuto produttivo per la sua realizzazione.

L’INDIVIDUAZIONE DELL’INTERA PROVINCIA DI GROSSETO COME AREA DI RIFERIMENTO DEL DISTRETTO RURALE

Il carattere rurale che prevale in ognuno dei comuni del grossetano consente oggi di affermare che l'intera provincia di Grosseto deve essere considerata come un territorio sostanzialmente omogeneo. I cambiamenti avvenuti a partire dall'ultimo dopoguerra (in primo luogo la Riforma Agraria) hanno attenuato le differenze interne al territorio. Il risultato dei processi sociali ed economici che si accompagnano al declino dell’industria estrattiva è il diffondersi sull'intero territorio rurale di una domanda di beni e servizi offerti dall'agricoltura di qualità e dal sistema produttivo legato al tempo libero. L’ultima generazione degli interventi comunitari di tipo strutturale prevista da Agenda 2000 ha compreso tutta la provincia di Grosseto, confermando la ruralità come elemento di coesione economica e sociale. Tutta la provincia è infatti oggi inserita nell’obiettivo 2 e nel Leader Plus. È per queste ragioni che l'intero territorio della provincia di Grosseto è stato considerato unitariamente nell’elaborazione del Distretto Rurale, essendo proprio la sua natura rurale che ne definisce il carattere. Infatti la sostanziale omogeneità del tessuto produttivo, la stabilità delle relazioni fra le imprese dei diversi comparti e nelle diverse localizzazioni e, infine, il crescere della consapevolezza della forza delle relazioni (economiche e culturali) fra le diverse e più lontane componenti del tessuto economico e sociale della provincia, rappresentano gli elementi costitutivi di un nuovo approccio di politica agricola e rurale.

IL PERCORSO SEGUITO

I caratteri dell’economia e del territorio della provincia di Grosseto ha portato la Provincia ad orientare decisamente la propria azione nella direzione dello “Sviluppo Rurale”.

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Ciò ha richiesto di individuare un sistematico confronto con le altre istituzioni locali e con la società locale nel suo complesso, al fine di maturare un orientamento condiviso tale da consentire un approccio dal basso alle dinamiche di sviluppo rurale della provincia. La maturazione di tale orientamento è stata favorita da alcune esperienze della seconda metà degli anni ’90 quali l’iniziativa comunitaria LEADER II (1994), il Piano territoriale di coordinamento (PTC) del 1998 e il Patto Territoriale generalista dello stesso anno. L’attività di concertazione a livello locale ha dato origine a linee progettuali condivise e recepite all’interno del documento di programmazione presentato in occasione della Conferenza Provinciale dell’agricoltura (1996), in cui si individuava nello sviluppo rurale una delle condizioni di crescita dell'economia grossetana, e si proponeva, anche come provocazione culturale, la provincia di Grosseto come “Distretto rurale d'Europa”, caratterizzato dalla realizzazione del “Sistema di qualità Maremma”. Le linee progettuali del Distretto Rurale venivano accolte anche nel corso della Conferenza Regionale dell’Agricoltura (Agricola ’96) dall'Assessore Regionale Moreno Periccioli quando, nella relazione introduttiva, letteralmente dice ... nella Conferenza provinciale di Grosseto è stata lanciata l'idea di candidare quella realtà a "Distretto rurale d'Europa". Ci sono le caratteristiche per assumere quella realtà a modello sperimentale. Proporremo alla Commissione dell'Unione Europea di assecondare insieme alla Regione ed agli Enti locali questa iniziativa ...., e, continua Periccioli .... l'idea è confortata da una forte condivisione della scelta strategica della via della qualità e della tipicizzazione dei prodotti. Successivamente, nella prolusione all'inaugurazione dell'Anno Accademico dell'Accademia dei Georgofili del 1997, anche il Commissario dell'Unione Europea Franz Fischler, nel tratteggiare le linee future della PAC, ha indirettamente convalidato l'idea di Grosseto “Distretto rurale d'Europa”, idea peraltro illustrata al Commissario stesso nella sua visita all'Azienda Agricola di Alberese. L’idea progettuale è stata sviluppata e affinata nell’ambito della seconda Conferenza sull’agricoltura della Provincia di Grosseto (1998), e presentata anche in occasione della Conferenza Internazionale ECOVAST tenutasi a Grosseto nel maggio 1999, e del Convegno del Consiglio Oleicolo Internazionale tenutosi a Grosseto nell’ottobre 1999. L’impostazione programmatica della Provincia di Grosseto sullo sviluppo rurale e sull’obiettivo del riconoscimento del Distretto Rurale è stata poi convalidata dalla Giunta Regionale Toscana nel protocollo siglato con la Giunta Provinciale l’11 febbraio 2000. Successivamente la Giunta regionale della Toscana con la Decisione n.49 del 5.6.2000 ha inserito il sostegno alla costituzione della Maremma Distretto Rurale nel proprio Programma di governo 2000-2005. Il riferimento agli obiettivi e agli assi di intervento del Distretto Rurale è divenuto una costante in tutti gli atti di programmazione adottati dalla Provincia: il Piano locale di

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sviluppo rurale, il Patto territoriale per l’agricoltura e la pesca, il Contratto di programma per l’agro-alimentare, il Piano provinciale per i servizi di sviluppo agricolo, il programma attuativo del Leader Plus, i piani di settore. Tanto per richiamare i più importanti. Con la Conferenza dell’1-2 marzo 2002 si è arrivati alla presentazione del Distretto rurale con la sottoscrizione delle parti sociali e degli Enti locali. Il cammino percorso dalle Istituzioni locali, dal mondo delle imprese e dalla società grossetana nel suo complesso consentono oggi di affermare come la concertazione abbia portato alla individuazione degli obiettivi e di un metodo di lavoro per il Distretto Rurale della Maremma. A Grosseto dunque il Distretto Rurale si è consolidato come realtà ben prima della definizione normativa avvenuta nel 2001 con la Legge di orientamento agricola. Il riconoscimento della Regione Toscana del 2002 non è altro che una presa d’atto di una realtà che può essere considerata esempio per altre esperienze.

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2. GLI OBIETTIVI E I PRINCIPI ISPIRATORI

2.1. GLI OBIETTIVI

L’obiettivo cardine del “Distretto Rurale della Maremma” è quello di realizzare un Sistema Territoriale di Qualità in modo da concorrere alla crescita dell’occupazione e allo sviluppo economico e sociale del territorio, assumendo la sostenibilità e l’innovazione come principi fondamentali. Il Sistema Territoriale di Qualità si pone dunque come obiettivo primario il miglioramento della qualità delle relazioni tra impresa, territorio e società locale.

IMPRESA • Incremento del reddito e miglioramento della competitività aziendale

• Miglioramento della qualità dei prodotti e dei servizi offerti dal sistema Maremma

• Supporto alla multifunzionalità delle aziende agricole • Aumento della capacità di dialogo e di collaborazione

tra imprese

TERRITORIO • Miglioramento della qualità ambientale in un contesto di sviluppo sostenibile

• Riequilibrio e integrazione territoriale

SOCIETA' • Identità territoriale e senso di appartenenza, coesione sociale

• Miglioramento dell'accesso alla fruizione delle opportunità offerte dalle aree rurali

• Crescita e qualificazione dell’occupazione e del ruolo delle donne e dei giovani nell’impresa

2.2. I PRINCIPI ISPIRATORI DEL DISTRETTO

Il Distretto Rurale della Maremma rappresenta un momento di raccordo tra le esigenze della Comunità locale (imprese, istituzioni, cittadini) e gli strumenti di programmazione e di intervento suscettibili di essere impiegati a livello locale. Il Distretto Rurale della Maremma mira al coordinamento delle iniziative di programmazione e di spesa in campo agricolo e rurale, ma consente a sua volta di creare nuove opportunità di investimento, attivando specifiche risorse (sia pubbliche che private) o permettendo di attingere a risorse aggiuntive disponibili a livello regionale, nazionale e comunitario. In tale direzione è significativa ad esempio la realizzazione del Patto Territoriale per l’Agricoltura e la pesca e la proposta di Contratto di programma per l’agro-alimentare.

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L’approccio alla programmazione introdotto con il Distretto Rurale si ispira ai seguenti principi e criteri innovativi che ne guidano i contenuti: - la concertazione, con la quale si concordano le regole dei rapporti pubblico/privato,

assicurando il massimo rispetto del ruolo delle parti interessate; - la concentrazione e la convergenza delle risorse, intendendo la finalizzazione delle

stesse, provenienti da fonti diverse, su assi prioritari di intervento individuati in sede di concertazione;

- la trasferibilità delle esperienze acquisite da progetti di successo e di progetti pilota; la trasferibilità non è solo riferita a specifici interventi, ma è soprattutto l’intera filosofia del progetto che sarà trasferibile in altre aree rurali;

- la transnazionalità delle iniziative, in particolare per quelle relative ad investimenti immateriali rivolti alla promozione e al rafforzamento dell’immagine del territorio.

La portata del Distretto Rurale della Maremma va dunque al di là degli effetti immediati sul contesto locale, in quanto esso si propone come modello per il coordinamento e l’implementazione delle politiche di sviluppo socio-economico in ambito rurale. Ne è un esempio la proposta di un Master su “Economia e gestione dello sviluppo rurale di qualità” avanzata dal Polo Universitario Grossetano in corso di realizzazione con il concorso delle tre Università toscane.

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3. GLI ASSI STRATEGICI DI INTERVENTO

Con riferimento particolare alle politiche più inerenti alle componenti del mondo rurale sono stati individuati in Maremma i seguenti assi strategici di intervento:

Sviluppo delle attività agricole, agro-industriali e rurali • • •

Rafforzamento della qualità

Fare della Maremma un Sistema

3.1. SVILUPPO DELLE ATTIVITA' AGRICOLE, AGRO-INDUSTRIALI E RURALI

Il primo asse consiste nel consolidamento della struttura e delle relazioni intra ed inter-settoriali delle filiere della Maremma, da realizzarsi in particolare nella logica del rafforzamento delle peculiarità dei vari elementi che compongono il sistema Maremma e che sono in linea con la logica dello sviluppo rurale. Si tratta di perseguire azioni volte ad accrescere l’orientamento competitivo e le capacità concorrenziali del sistema, tra cui: - l’integrazione economica e il consolidamento delle filiere; - una efficace organizzazione dell’offerta agricola e della pesca, per rispondere alle

nuove esigenze dei mercati; - una caratterizzazione degli elementi del sistema in linea con gli obiettivi dello

sviluppo rurale, in particolare mediante azioni di: - identificazione, tutela e valorizzazione dei prodotti tradizionali e tipici, anche

mediante il supporto ai percorsi di riconoscimento di Dop e Igp; - tutela e valorizzazione della biodiversità; - salvaguardia e tutela delle attività rurali in via di cessazione; - valorizzazione del patrimonio gastronomico locale; - tutela e valorizzazione delle risorse ambientali, storiche e culturali;

- il superamento del deficit delle infrastrutture rurali (con particolare riferimento a viabilità, acquedotti, sistemi di irrigazione e bonifica) favorendo un’armonizzazione delle stesse con l’ambiente.

LE FILIERE AGRICOLE E AGROINDUSTRIALI DELLA MAREMMA

La ragione per cui si è scelto di dare impulso allo sviluppo rurale sta anche nella esigenza di conciliare le molteplici vocazioni territoriali dal punto di vista agricolo con le altre attività economiche presenti. Per ciascuna delle filiere agricole e agroindustriali della Maremma sono stati redatti o sono in corso di preparazione Piani di comparto che consentono di apprezzare i punti di forza e di debolezza delle filiere stesse, che in breve possono essere richiamati.

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I prodotti degli

allevamenti Rappresentano ancora un terzo della produzione vendibile provinciale e, per alcuni prodotti, la metà di quella regionale. Latte alimentare, formaggi, carne e trasformati concorrono alla sopravvivenza di tipologie di imprese molto diversificate e costituiscono la garanzia di presenza dell’uomo in talune aree deboli. E’ un comparto che necessita di alcuni interventi strutturali e di valorizzazione

L’olio d’oliva La metà dell’olio IGP Toscano proviene dalla provincia di Grosseto. L’ulteriore qualificazione con due DOP andrà a rafforzare il successo già ottenuto

Il vino E’ il comparto che ha dato il maggior contributo alla riconversione di vaste aree collinari in declino e che ha richiamato investitori importanti che si sono aggiunti agli imprenditori locali ai quali va comunque il merito del rilancio di una vocazione rimasta per molto tempo in ombra

L’ortofrutta per il consumo

fresco

Poteva essere il comparto più dinamico nella fascia litoranea qualora realizzati alcuni invasi strategici, la cui utilità avrebbe avuto effetti ancor più significativi per l’ambiente e per il turismo. E’ un comparto che va rilanciato anche in chiave organizzativa

L’ortofrutta per la

trasformazione

Oggi è una filiera consolidata dopo molti anni di incertezze. Vi è un equilibrio tra produzione e trasformazione e vi sono i presupposti per una qualificazione ulteriore

Il frumento A fronte di prospettive sfavorevoli in tema di sostegno comunitario è necessario qualificare il prodotto e chiudere la filiera con strutture di trasformazione e di valorizzazione. E’ ancora una produzione diffusa con un peso che è circa il 30% della produzione regionale

Il riso Un prodotto in grado di garantire grande qualità e rispetto ambientale in un contesto difficile

Le oleaginose In particolare il seme di girasole sta riducendosi per effetto della forte contrazione del sostegno comunitario

La barbabietola

risente della delocalizzazione degli impianti di trasformazione e del costo eccessivo di trasporto

Il tartufo Da una raccolta amatoriale al riconoscimento sul mercato in presenza di una importante impresa di trasformazione

L’apicoltura La professionalità di alcune aziende produttrici sta caratterizzando la produzione locale

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L’acquacoltura significativa su scala nazionale e di pregio, sta superando il conflitto ambientale con grande impegno dei produttori e della pubblica amministrazione

La pesca una piccola flotta, ma radicata alla tradizione si va qualificando e rafforzando

La castagna Attraverso il recupero dei castagneti, un prodotto che da’ immagine e reddito per la montagna

I prodotti del sottobosco

E’ avviato un percorso di regolamentazione e di valorizzazione, in presenza peraltro di interessanti imprese di trasformazione e commercializzazione

Foresta-legno Continua la tradizione del “taglio del bosco” con interessanti prospettive per il legno da essenze di pregio per l’artigianato locale

Il florovivaismo Poche imprese, ma competitive e orientate verso le essenze mediterranee ed il vivaismo olivicolo. Possibilità di espansione legate alla nuova gestione di un’azienda leader anche nella ricerca e sperimentazione

L’agriturismo Una crescita esponenziale dell’attività agrituristica presente in tutto il territorio provinciale, fortemente integrata con le risorse ambientali e culturali e quindi con l’attività turistica

Il cavallo E’ stato definito, a ragione, il “messaggero della Maremma”. Selezione delle razze autoctone, allevamento e molteplici utilizzazioni, conferiscono al cavallo un ruolo che non è solo di immagine

Artigianato alimentare e

industria dolciaria

Alcune imprese di successo e tantissime specialità legate alle tradizioni locali rappresentano uno spaccato interessante dell’agro-alimentare che sta emergendo e affermandosi

Nel complesso occorre anche ricordare che in provincia di Grosseto sono stati censiti dalla Regione oltre 100 prodotti “tradizionali”, e che si è riscontrata una crescita consistente delle produzioni biologiche e a basso impatto ambientale.

ALTRE ATTIVITÀ DEL SISTEMA RURALE

Oltre alle filiere agricole e agro-industriali, il Distretto Rurale ricomprende un vasto insieme di attività. Tra queste appaiono particolarmente suscettibili di integrazione con l’agricoltura le seguenti:

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I turismi tematici

La variegata articolazione e bellezza delle risorse naturali e la capillare diffusione di beni storico-culturali offrono infinite opportunità di fruizione turistica del territorio in tutte le stagioni dell’anno. Il menu dell’offerta turistica in provincia di Grosseto è inesauribile

La caccia Non solo pratica sportiva, ma soprattutto difesa estrema e gelosa delle tradizioni venatorie, in sintonia con una ferrea volontà di tutela ambientale e di difesa delle produzioni agricole.

I parchi e le aree protette

L’organizzazione razionale del complesso insieme dei parchi e delle aree protette e della loro fruizione sta diventando una delle principali attrattive turistiche e un’occasione utile di pratica agricola rispettosa dell’ambiente

L’artigianato tradizionale e

tipico

Poche imprese, radicate alla cultura del luogo ed elevata qualità dei manufatti del cuoio, dell’abbigliamento, della ceramica, del ferro, del legno e dell’oro e dei materiali per l’edilizia

Le tradizioni e la cultura popolare

Rappresentano il riferimento vincente per l’immagine del territorio e si articolano in una serie infinita di manifestazioni che sono un ulteriore elemento di successo

La gastronomia e la ristorazione

La cultura del luogo si traduce in piatti caratteristici e tutti supportati dalla semplicità dell’elaborazione e dalla genuinità degli ingredienti. Da parte dei ristoratori qualche sforzo maggiore per valorizzare la gastronomia e le produzioni tipiche locali è auspicabile

3.2. RAFFORZAMENTO DELLA QUALITÀ

Il Distretto Rurale della Maremma sostiene le azioni volte a promuovere il livello qualitativo delle risorse, delle produzioni, dei servizi, dei processi produttivi e del territorio nel suo complesso, in un’ottica di compatibilità e sostenibilità ambientale, con l’obiettivo di far assurgere la qualità a caratteristica distintiva della Maremma. Qualità dei processi e dei prodotti

Certificazione di qualità di processo e di prodotto •

• Adozione dei sistemi di tracciabilità degli alimenti - Il Piano provinciale zootecnico prevede anche la realizzazione di un sistema di

tracciabilità delle produzioni e l’adozione di un sistema di etichettatura delle carni bovine ai sensi del Reg.CE 1760/2000 sulla base di un disciplinare di

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produzione che prevede, tra l’altro, che i capi siano nati, allevati e macellati all’interno del territorio provinciale. Analogo sistema di etichettatura è stato predisposto anche per le produzioni ittiche tipiche del territorio.

Specificità, tradizione e tipicità

Conoscenza dei prodotti tradizionali e tipici e sostenerne le iniziative di tutela e valorizzazione.

- Prodotti “tradizionali” - Realizzazione del censimento dei Prodotti tradizionali in collaborazione con ARSIA (110 prodotti della Maremma nell’elenco regionale) e attivazione di progetti di valorizzazione;

- DOP e IGP – Oltre alle DOP e IGP regionali che interessano anche il territorio provinciale (DOP Pecorino Toscano, IGP Olio toscano), è stata ottenuta l’IGP della Castagna dell’Amiata, e sono in corso quelle dell’Olio di olivastra seggianese, dell’olio delle Colline di Maremma, della Carne della razza bovina Maremmana, della Bottarga di Orbetello, dell’Orata, del Carciofo di Pian di Rocca, dell’Agnellone pesante appenninico, del Miele di Marruca, del Fungo dell’Amiata, del Tartufo marzuolo, del Riso di Maremma, del Fagiolo di Sorano);

- Vini DOC e DOCG – riconoscimento di nuove DOC e proposta di riconoscimento della DOC Maremma Toscana e attivazione dei Consorzi di Tutela.

Adozione di marchi collettivi di prodotto - Realizzazione di un Consorzio per la valorizzazione dei prodotti

agroalimentari tipici più significativi e realizzazione di un marchio collettivo.

Tutela e valorizzazione delle biodiversità - Attività sperimentale per la valorizzazione delle produzioni locali (anche a

supporto delle procedure di riconoscimento di nuove denominazioni): con convenzioni Provincia-soggetti scientifici (Università, CNR, ARSIA, ecc.) per la valorizzazione del germoplasma (vitigni autoctoni, germoplasma olivicolo, prodotti ortofrutticoli, cerealicoli, zootecnici, ecc.).

- Sostegno delle biodiversità animali e vegetali: Miccio Amiatino, la Vacca, il Cavallo, il Cinghiale, il Pastore e il Segugio della Maremma, le cultivar di olivo Olivastra Seggianese e Scarlinese, i vitigni Ansonica e Vermentino, il Riso della Maremma, il Carciofo di Pian di Rocca e il Fagiolo di Sorano

Valorizzazione del patrimonio gastronomico locale assieme al sistema delle risorse naturali e storico-culturali

- Progetto “Ciclo delle stagioni” che collega i prodotti tipici locali al territorio (alla sua storia, alle sue tradizioni ecc.). In questo ambito l’Agenda “Un

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anno in Maremma”, prodotto editoriale realizzato congiuntamente con l’ASL, la Camera di Commercio e le APT di Grosseto e dell’Amiata;

- Progetto “Laboratorio alimentare”, costruito secondo i criteri della bioarchitettura, con funzione di centro di educazione nutrizionale e al gusto, in collaborazione con SlowFood.

Crescita e sviluppo dell’artigianato tipico - Il Consorzio CONARTE persegue la finalità di valorizzare le attività

artigianali tipiche della tradizione della Maremma nel rispetto di standard qualitativi previsti da appositi disciplinari. Le aziende aderenti sono interessate alle attività del ferro battuto, artigianato artistico, ceramica, cuoio, vetro, abbigliamento, oggetti in oro.

- Antichi mestieri. Recupero delle attività artigianali tradizionali del territorio.

Ambiente - Attività ecocompatibili e consolidamento dei metodi produttivi a basso impatto

ambientale - Realizzazione del Piano provinciale biologico con realizzazione di uno

Sportello informativo. - Certificazione ambientale ISO 14000 delle imprese e delle pubbliche

amministrazioni - Utilizzo delle produzioni agricole a fini energetici.

3.3. FARE DELLA MAREMMA UN SISTEMA Il Distretto Rurale sostiene le iniziative volte a rafforzare e a comunicare l’immagine e l’identità unitaria della Maremma, attraverso un rafforzamento dell’integrazione tra aree territoriali, settori di attività economica, filiere agro-industriali e imprese. In particolare assumono particolare rilevanza le seguenti linee di azione: Il sistema della produzione

Incremento dei redditi agricoli attraverso la diversificazione delle attività aziendali, in primo luogo attraverso le attività agrituristiche, che hanno conosciuto una fortissima espansione.

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Adeguamento e sviluppo delle infrastrutture del territorio rurale (viabilità e acquedotti), previsto anche come Patto d’area nell’ambito del Piano Locale di Sviluppo Rurale.

Sviluppo del sistema dei servizi alle imprese, in particolare rafforzando l’assistenza specialistica nelle filiere agro-industriali più importanti.

Il sistema dell’offerta

Rafforzamento delle sinergie tra agricoltura e altre attività produttive del territorio (intersettorialità), in funzione del raggiungimento di una maggiore interdipendenza tra agricoltura, turismo, artigianato e ambiente:

- Creazione di tre Strade del vino che interessano tutte le Doc presenti in provincia di Grosseto, con il coinvolgimento di oltre 400 operatori tra produttori vitivinicoli, agriturismi, enoteche, ristoratori, artigiani e soggetti pubblici, con la realizzazione di strutture quali centri informativi, musei, cartellonistica.

- Creazione della Strada della castagna dell’Amiata, percorso tematico per promuovere le specifiche attività e risorse della “montagna”.

- Realizzazione di una rete di oltre 1.000 Km di sentieri e strade (dal mare alla montagna) indicate da segnaletica che evidenzia la natura del percorso con relative difficoltà, e la fruibilità dei siti storici ed ambientali di maggior rilievo;

- Progettazione del sistema di ippovie su tutto il territorio della provincia in stretto collegamento con i centri di turismo equestre e con le attività agrituristiche.

Promuovere l’immagine del Sistema Maremma con il concorso delle Istituzioni locali e delle Società di servizio locali attraverso la partecipazione a manifestazioni e fiere nazionali e internazionali (Vinitaly, Vinexpo Bordeaux, Prowein Dusseldorf, Salone del gusto di Torino, SANA di Bologna, Salon Saveurs Parigi, Norimberga, ecc.), l’organizzazione di eventi sul territorio e la predisposizione di strumenti editoriali informativi (guide, stampa specialistica, internet).

Il sistema pubblico-privato

Iniziative volte a favorire la conoscenza della cultura, della storia e delle tradizioni locali

- progetto “Salute al cibo della Maremma toscana”: innovativa forma di collaborazione tra Enti Locali, l’ASL e la Provincia tesa alla valorizzazione del patrimonio enogastronomico locale evidenziandone gli aspetti nutrizionali e le caratteristiche qualitative, tramite approfondimenti scientifici, dibattiti pubblici, produzione di materiale informativi, coinvolgimento delle scuole e dei consumatori;

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- progetto per la valorizzazione dei prodotti tipici e biologici per le scuole ed i consumatori: la Provincia ha predisposto un progetto in collaborazione con i 28 comuni che ha previsto un monitoraggio delle mense scolastiche per conoscere i prodotti utilizzati e la realizzazione di materiale informativo.

- animazione territoriale e divulgazione legate alle attività inerenti le produzioni ed i servizi del mondo rurale, con la realizzazione da parte della Provincia di un sito internet per la divulgazione delle opportunità locali legate allo sviluppo rurale;

Attività di cooperazione tra gli attori istituzionali economici e sociali, anche a livello transnazionale

- Vini delle piccole isole del Mediterraneo, Strade del vino e strade dell’olio europee

Collegamento tra mondo della ricerca e imprese, anche con riferimento al Polo Universitario Grossetano

- Master in "Economia e Gestione dello sviluppo rurale di qualità" in collaborazione con le tre Università della Toscana

Servizi collettivi nelle aree rurali, come previsto anche dal Piano Locale di Sviluppo Rurale: scuole, ludoteche, centri di aggregazione e di integrazione, servizi sanitari, ecc.

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4. IL COORDINAMENTO DEGLI STRUMENTI PUBBLICI DI PROGRAMMAZIONE E DI SOSTEGNO

Il Distretto Rurale della Maremma assume come aspetto centrale il coordinamento e la concertazione degli strumenti di programmazione e di intervento sul territorio e la loro finalizzazione verso i tre Assi strategici per consolidare il percorso di sviluppo rurale della provincia di Grosseto. Ciò nell’ambito dei gradi di libertà consentiti dalla struttura istituzionale, ma allo stesso tempo rivendicando maggiori spazi di autonomia locale nell’elaborazione e nell’attuazione delle politiche. Gli obiettivi e le azioni del Distretto Rurale della Maremma si collocano nell’ambito degli atti di programmazione territoriale della Regione Toscana (Piano Regionale di Sviluppo) e della Provincia (Piano Territoriale di Coordinamento). In particolare quest’ultimo strumento assume una grande rilevanza per l’orientamento delle attività di pianificazione territoriale in quanto definisce per la prima volta una politica di gestione del territorio rurale e delle sue risorse. I concetti espressi nel PTC della provincia di Grosseto sulla definizione di “territorio rurale” sono in linea con una visione integrata dello sviluppo rurale. Infatti il PTC definisce tout court “territorio rurale” l’insieme delle aree esterne alle aree urbanizzate, e “a tale insieme è riservato un ruolo fondamentale nell’attribuzione dell’identità provinciale grossetana, in termini di storia, cultura, struttura territoriale ed economica, qualità paesistica e attrattiva turistica”. Il Distretto Rurale, quale progetto complessivo di sviluppo rurale della provincia, comporta l’impiego congiunto e coordinato di tutti gli strumenti di programmazione locale disponibili, ma intende anche attivare ulteriori strumenti ad hoc. Tra gli strumenti di programmazione locale coordinati nell’ambito del Distretto Rurale (vedi schema) assumono una particolare importanza per il metodo che ne ha caratterizzato la definizione:

– Piano locale di sviluppo rurale: Nella definizione del PLSR della provincia di Grosseto è stato applicato il principio della concertazione con i rappresentanti delle categorie del mondo rurale, in linea dunque con i principi ispiratori del Distretto rurale. La concertazione con i rappresentanti delle singole categorie che appartengono al mondo rurale è stata realizzata a livello di “tavolo verde provinciale”, ove si è proceduto alla definizione del Piano finanziario legato al PLSR e delle priorità nell’ambito delle singole Misure.

– Strumenti della programmazione negoziata: – Patto territoriale per la Maremma Grossetana (Patto generalista),

incentrato sul turismo e sulla valorizzazione di prodotti locali nei settori artigianale e agro-alimentare, con la presenza di progetti di investimento sia di imprese private che di Istituzioni pubbliche locali;

– Patto Territoriale per l’agricoltura, l’agro-alimentare, la pesca e l’acquacoltura, che ha l'obiettivo di migliorare le opportunità di lavoro e di

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occupazione (con particolare riferimento alla qualificazione professionale e al ricambio generazionale) nei comparti agro-alimentare, della pesca, dell’acquacoltura e dei servizi, e di favorire lo sviluppo rurale anche nella sua dimensione di salvaguardia del territorio, dell’ambiente e della biodiversità, attraverso il perseguimento di una politica di qualità. Particolare attenzione è stata dunque dedicata alle attività in grado di collegare le attività agricole al sistema dei beni culturali, architettonici, storici ed ambientali dei territori rurali, nonché alla valorizzazione e riqualificazione del paesaggio e dell’architettura rurale.

– Contratto di Programma per il settore agroindustriale, che ha l'obiettivo di rafforzare le produzioni di alta qualità che abbiano un forte legame con i territori di produzione (vino, olio, ortofrutta, pesca e acquacoltura) favorendo nel contempo un processo di “integrazione verticale” fra le piccole e medie imprese che rappresentano la realtà economica più concreta.

– Leader Plus: l'iniziativa comunitaria Leader Plus coinvolge l'intero territorio provinciale (ad eccezione del comune di Follonica e dei centri urbani). In sintonia con le vocazioni del territorio e con gli assi del Distretto Rurale, il programma Leader Plus a Grosseto ha per tema centrale la “valorizzazione dei prodotti locali in particolare agevolando, mediante un’azione collettiva, l’accesso ai mercati per le piccole strutture produttive”. Gli altri due temi previsti riguardano il “miglioramento della qualità della vita nei territori rurali e valorizzazione delle risorse naturali e culturali, compresa la valorizzazione dei siti di interesse comunitario” e la “utilizzazione di nuove conoscenze e nuove tecnologie per aumentare la competitività dei prodotti e dei servizi dei territori interessati dal leader”.

– Piano dei servizi di sviluppo agricolo e rurale della provincia di Grosseto (LR 34/2001 modificata dalla LR 35/2001): il piano dei servizi di sviluppo agricolo definisce le azioni e gli obiettivi e le finalità che si intendono perseguire con il programma di assistenza tecnica. Oltre alle azioni di assistenza tecnica di base e tradizionali, la Provincia si è riservata di attivare direttamente, anche mediante ricorso a risorse proprie, azioni maggiormente funzionali agli assi del Distretto Rurale, quali quelle di animazione dello sviluppo agricolo-rurale di significativa valenza territoriale, e azioni di comunicazione integrata tra i diversi soggetti operanti nel sistema dei servizi di sviluppo agricolo.

– Piani di settore e di filiera: i Piani provinciali di settore e di filiera sono atti di programmazione territoriale degli Enti Delegati che, sulla base di analisi specifiche e degli atti normativi e di programmazione comunitari, nazionali e regionali, definiscono le strategie e le priorità di intervento relativamente a settori e a filiere agro-alimentari. I Piani di settore e di filiera rappresentano dunque un supporto e un indirizzo per l’impiego degli strumenti di programmazione e finanziari disponibili, in modo da creare le condizioni per lo sviluppo delle filiere produttive che si ritengano qualificanti per il territorio

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provinciale. Negli ultimi anni nella provincia di Grosseto i Piani di settore e di filiera sono stati oggetto di discussione, di concertazione e di verifica tra la Provincia, gli altri Enti delegati e le Organizzazioni professionali, al fine di orientare tutte le attività economiche agli obiettivi e agli assi del Distretto.

Oltre agli interventi che derivano direttamente dall’implementazione degli strumenti di programmazione locale, l’aver accolto gli obiettivi e l’approccio del Distretto rurale della Maremma ha fatto sì che anche un ampio insieme di iniziative e di strumenti di intervento di competenza propria delle varie istituzioni locali operanti sul territorio della provincia di Grosseto – Provincia, Comunità montane, Camera di Commercio, Amministrazioni comunali – siano state indirizzate agli Assi del Distretto, spesso attivando forme di coordinamento e di collaborazione tra istituzioni diverse. Ne costituiscono esempi i Piani di Sviluppo della Montagna (tavolo di coordinamento provinciale per verificare la coerenza dei piani delle Comunità Montane); l'attuazione dello SFOP (progetti pesca e acquacoltura, qualità e tracciabilità-marchio), Agenda 21 (progetti di certificazione ambientale), programma PRUSST (Programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio). (Schema 1)

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5. LA METODOLOGIA DI FUNZIONAMENTO

Definiti e confermati gli assi prioritari di intervento e i principi che ispirano l'azione, le attività di coordinamento e di concertazione degli strumenti di programmazione del Distretto Rurale sono svolte dal Tavolo di concertazione, che si avvale della consulenza del Comitato Tecnico-Scientifico. Questi due organi formano la “Cabina di regia” per il funzionamento del Distretto Rurale.

IL TAVOLO DI CONCERTAZIONE Il compito del Tavolo di concertazione, coordinato dalla Provincia, è quello di modulare gli obiettivi di intervento, e sviluppare le attività relative al coordinamento, sperimentazione, formazione e informazione, animazione e assistenza. Più precisamente, le attività del Tavolo di concertazione riguardano tre principali aree: a) il coordinamento, b) le risorse, c) l’animazione, l’informazione e la comunicazione. a) Il coordinamento La prima area interessa il coordinamento degli strumenti di intervento. In particolare il Tavolo di concertazione provvede a: - ri-definire gli obiettivi strategici e gli assi di intervento del Distretto Rurale della

Maremma in base all’evoluzione socio-economica dell’area e alle tendenze in atto a livello più globale;

- concertare gli interventi specifici coerentemente con gli obiettivi strategici e gli assi di intervento, stabilendo le relative griglie di priorità;

- progettare e attivare nuovi strumenti di intervento concepiti specificamente per rafforzare l’effetto “Distretto Rurale”, ivi compresi quelli prefigurati dalla Legge di Orientamento (quali i contratti di collaborazione e i contratti di promozione con gli imprenditori agricoli, e le convenzioni con le pubbliche amministrazioni);

- fungere da promotore di norme e regole condivise relative al Sistema di qualità territoriale.

b) Le risorse Il Tavolo ha il compito anche di coordinare e finalizzare le risorse necessarie per il funzionamento delle attività sul territorio del Distretto Rurale, aumentando in questo modo le ricadute sul sistema locale, ma anche di far confluire risorse aggiuntive. A questo proposito possono essere ipotizzati: - una azione di stimolo alla attivazione di risorse suppletive derivanti da auspicabili

provvedimenti di spesa specifici per i Distretti Rurali; - il supporto all’accesso agli strumenti di programmazione negoziata e ad altri simili

che dovessero presentarsi, agevolando il coordinamento e la modulazione degli obiettivi, come già accaduto con i Patti territoriali e come sta accadendo con il Contratto di programma;

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- la creazione di altri meccanismi tali da agevolare gli investimenti delle imprese coerenti con gli assi del Distretto, anche attivando strumenti di finanziamento specifici mediante la collaborazione con gli Istituti di credito.

c) L’animazione, l’informazione e la comunicazione L’attività del Tavolo di concertazione riguarda anche la capacità: - di acquisire informazioni per una più calibrata ed efficace opera di

programmazione degli interventi e finalizzazione in base alle esigenze espresse dalla collettività locale;

- di attivare idonei meccanismi di comunicazione sia all’interno dell’area che all’esterno.

Diventa pertanto importante: - la promozione di studi e ricerche sulle dinamiche delle aree rurali, con particolare

riferimento al territorio della provincia di Grosseto; - l’animazione nelle aree rurali, volta a rafforzare il coinvolgimento della collettività

locale e all’emersione delle progettualità latenti; - la realizzazione di attività di formazione e di assistenza ai vari livelli (pubblico-

privato) per gli operatori delle aree rurali; - l’informazione continua sullo stato di attuazione dei provvedimenti di intervento

del Distretto Rurale della Maremma; - la trasmissione a consumatori, cittadini, investitori interni ed esterni, operatore

pubblico regionale, nazionale e comunitario, delle informazioni riguardanti lo sviluppo socio-economico delle aree rurali della Maremma, e delle opportunità offerte dal territorio e dall’evoluzione del quadro degli interventi pubblici.

IL COMITATO TECNICO-SCIENTIFICO A fianco del Tavolo di concertazione opera il Comitato Tecnico-Scientifico, struttura di consultazione e di verifica costante della rispondenza delle azioni intraprese alle linee progettuali e alle regole condivise dai soggetti coinvolti. Il Comitato tecnico-scientifico stimola l’aggiornamento delle politiche di indirizzo, la riprogrammazione degli interventi e l’attivazione di nuove azioni. In conclusione, affinché il Distretto Rurale della Maremma possa efficacemente svolgere il proprio ruolo di impulso per le aree rurali, è necessaria la disponibilità di maggiori leve e spazi di manovra per meglio calibrare gli strumenti operativi e gli interventi sul territorio coerentemente con gli obiettivi e le necessità espresse dalla collettività locale. (schema 2)

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6. IL RICONOSCIMENTO DELLA REGIONE TOSCANA

Il Decreto legislativo in materia di orientamento e modernizzazione del settore agricolo, del 6 aprile 2001, in attuazione della legge di delega del 5 marzo 2001, n. 57, all’art.12 stabilisce a proposito dei Distretti rurali: “Si definiscono distretti rurali i sistemi produttivi locali (…) caratterizzati da un’identità storica e territoriale omogenea derivante dall’integrazione fra attività agricole o di pesca e altre attività locali, nonché dalla produzione di beni o servizi di particolare specificità, coerenti con le tradizioni e le vocazioni naturali e territoriali”. La provincia di Grosseto vede così convalidato il percorso già da tempo avviato, che consiste nella valorizzazione delle peculiarità dei prodotti tipici e nello sviluppo delle proprie potenzialità produttive endogene. Alla luce della definizione normativa risulta altresì pienamente legittimato il riconoscimento dell’intera provincia di Grosseto quale “Distretto rurale”. Infatti è l’intera provincia di Grosseto che risponde pienamente al dettato normativo, come riteniamo di avere ampiamente dimostrato in precedenza: - presenza di una identità storica e territoriale omogenea: come si è evidenziato, le

vicende storiche e le caratteristiche del territorio hanno contribuito a plasmare nel tempo un sistema sociale ed economico omogeneo, e hanno permesso il raggiungimento di una maggiore complementarietà e la formazione di un forte senso identitario comune nelle popolazioni locali;

- integrazione fra attività agricole e di pesca e altre attività locali: l’attività agricola rappresenta una parte molto più importante dell’economia rurale rispetto a quanto accade nel resto della Toscana, ma essa è fortemente legata ad un insieme di altre attività locali, sia svolte nell’ambito dello stesso settore agricolo (servizi agrituristici, gestione del territorio, risorse ambientali, ecc.) che in altri settori dell’economia locale, e in particolare le attività turistiche e dei pubblici esercizi e le attività artigianali; lo stesso sta accadendo nel settore della pesca e dell’acquacoltura;

- produzione di beni o servizi di particolare specificità, coerenti con le tradizioni e le vocazioni naturali e territoriali: la presenza di un elevato numero di vini a denominazione di origine controllata e di altri prodotti agroalimentari a denominazione di origine protetta e a indicazione geografica protetta, l’elevato numero di prodotti agro-alimentari tradizionali, le specificità dei prodotti dell’artigianato locale, unitamente alla elevata diffusione dei metodi di coltivazione biologico e a lotta integrata che appaiono pienamente coerenti con le vocazioni naturali della provincia, non sono che le punte di eccellenza di un sistema fortemente orientato alla qualità complessiva dei prodotti e dei servizi offerti e saldamente ancorato alle tradizioni culturali, che il consumatore associa con l’immagine positiva del territorio della Maremma.

Non è solo la rispondenza dell’intero territorio della provincia di Grosseto ai criteri di identificazione stabiliti dall’art.13 del Decreto legislativo n. 57 del 6 aprile 2001 a 52

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confermare la provincia di Grosseto come “Distretto rurale della Maremma”, ma anche e soprattutto la validità degli obiettivi e del metodo di lavoro che hanno orientato l’azione pubblica e delle imprese negli ultimi anni. In altri termini il riconoscimento riguarda non solo le caratteristiche rurali del territorio, ma anche la validità e la legittimità di un progetto i cui obiettivi e metodi sono già stati condivisi e approvati dalla collettività locale. Il riconoscimento si basa cioè anche sulla validità delle linee guida individuate fin dal 1996 per lo sviluppo rurale della provincia di Grosseto e sulla capacità di governo dell’economia rurale orami sperimentata largamente e con efficacia. Riteniamo di poter affermare che i risultati conseguiti e le dinamiche di sviluppo rurale in atto nell’ambito della provincia di Grosseto confermino pienamente la validità del progetto “Distretto rurale della Maremma” e ne legittimino dunque il riconoscimento sulla base del dettato normativo. In tal senso è da interpretarsi favorevolmente la recente delibera della Giunta regionale della Toscana che intende sperimentare sul territorio della provincia di Grosseto l’operatività del “Distretto rurale”.

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PROVINCIA DI GROSSETO PIANO TERRITORIALE DI

COORDINAMENTO

REGIONE TOSCANAPIANO REGIONALE DI SVILUPPO

SCHEMA 1

PIANO LOCALE DI SVILUPPO RURALE PROVINCIA DI GROSSETO E

COMUNITA’ MONTANE

QualitàPATTI Risorse idriche

D’AREA Viabilità rurale

LEADER PLUS

DISTRETTO RURALE DELLA

MAREMMA

STRUMENTI DI PROGRAMMAZIONE LOCALE

AMBIENTE E SOSTENIBILITA’

PRUSST AGENDA 21

Programmi locali di sviluppo

sostenibile

Foreste Zootecnico Olivicolo

Vigneti Pesca

PIANI DI SETTORE E DI FILIERA

AREE SPECIFICHE

LN 236/93 art.1 ter

Piani di sviluppo

montagna

SFOP OBIETTIVO 2 OBIETTIVO 3

FONDI STRUTTURALI Piano provinciale biologico

Piano Provinciale dei servizi di sviluppo agricolo

Patto territoriale per lo sviluppo della Maremma

grossetana

PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA

Patto territoriale per l’agricoltura, la pesca,

l’acquacoltura, le foreste,

l’agroalimentare e il turismo rurale

Contratto di programma per l’agro-alimentare

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SCHEMA 2 Nuovi spazi di

autogoverno locale

DISTRETTO RURALE DELLA MAREMMA

TAVOLO DI CONCERTAZIONE

COMITATO TECNICO-SCIENTIFICO

Già disponibili

Aggiuntive

Operatori

RISORSE

PROGETTI / INTERVENTI

Coordinamento e finalizzazione

interventi

Proposta di norme e regole

Nuovi progetti

ASSI

ANIMAZIONE, INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE

CABINA DI REGIA

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Alessandro Hoffmann Università degli Studi di Palermo

LO SVILUPPO RURALE NELL’ESPERIENZA DEL PARCO DEI NEBRODI

1. L’europeizzazione della politica di sviluppo locale

La progettazione dello sviluppo locale di tipo integrato di cui oggi parliamo e, al suo interno, quella della famiglia dello sviluppo rurale nasce nella seconda metà degli anni ottanta a seguito di una vasta operazione di redistribuzione dei poteri e di messa a punto di politiche che, dall’Atto Unico (1987) in poi, dà luogo alla seconda fase dell’integrazione europea. Elementi essenziali del nuovo ciclo sono il mercato unico, l’unione monetaria e l’avvio di un processo di convergenza reale dell’economia in grado di accelerare le capacità di aggiustamento delle regioni e zone meno favorite e di “rompere” rispetto al passato: quest’ultimo fattore fa capo al concetto di coesione economica e sociale, estraneo al nostro linguaggio giuridico ed organizzativo, che diviene così uno dei tre obiettivi fondamentali dell’Unione (gli altri due sono il MIE e l’ UEM). Dal punto di vista del metodo l’UE, con due aggiustamenti al Trattato (oltre all’AUE c’è anche Maastricht nel 1993) e con l’approvazione di tre “pacchetti” di regolamenti nel 1988, 1993 e 1999 identifica un modello di intervento fortemente innovativo – la metafora è di P. Bianchi (1999) - in grado di permettere anche ai più deboli di partecipare effettivamente al gioco: rinascono in tal modo, rivedute e corrette e rilanciate alla grande, le politiche strutturali ( altrimenti dette regionali o di coesione) che, come dice l’aggettivo, si propongono di rimuovere le cause (per l’appunto strutturali) della relativa arretratezza delle aree e dei settori meno favoriti e quindi di creare posti di lavoro in grado di funzionare da catalizzatori per un ulteriore sviluppo di quell’area e di quei settori. Le politiche locali tuttavia, anche quando l’obiettivo è quello dell’occupazione, sono politiche dell’offerta e proprio per questo non è un caso che la dottrina di coesione pone una grande attenzione per il miglioramento delle condizioni ambientali del territorio e della competitività delle imprese e, di conseguenza, delle condizioni di base dello sviluppo. Va sottolineato al proposito che, se è vero che nessun sistema locale si riduce alla sua struttura economica (basti riflettere sull’esigenza, sempre presente, di innalzare gli standard civili di vita), è difficilmente pensabile senza un riferimento forte ad essa anche perché il confronto fra territori avviene prevalentemente, se non esclusivamente, sulla scorta della loro capacità economica. Ne consegue (Garofoli, 2002) che “le politiche di sostegno allo sviluppo locale devono perseguire il miglioramento delle condizioni di contesto e la costruzione delle

Un ringraziamento particolare, per il contributo di idee fornito, a Marcello Fecarotti, Salvatore Giarratana, Massimo Geraci ed ai funzionari del Parco dei Nebrodi

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“economie esterne”: il target dell’intervento deve essere dunque il territorio (e il sistema delle imprese) e non l’impresa individuale”. Le politiche, a loro volta, si realizzano attraverso “azioni locali” ossia programmi di intervento che insistono su un’area specifica, spesso dimidiata, ma sono soprattutto operazioni che (nell’ottica sopra accennata) valorizzano beni e risorse che non sarebbero percepiti come tali - o non apparirebbero del tutto - alla scala “globale” (Cremaschi, 2001). Questi temi e problemi non nascono certo ieri e non hanno neppure il copyright dell’UE – basti pensare che l’articolo più esportato nel campo delle politiche locali è stato probabilmente il distretto industriale (Pichierri, 2002) - ma alcuni di questi sviluppi sarebbero difficilmente comprensibili senza fare riferimento all’azione della Comunità: si può parlare pertanto di europeizzazione, intesa come processo di costruzione di un modello europeo caratterizzato tra l’altro dalla rilevanza di sistemi produttivi territoriali e da un tipo particolare di loro regolazione (Pichierri, 2002) la cui specificità si mostra nella sua capacità di attrazione, nella sua capacità cioè di funzionare da fonte di “buone pratiche” da imitare. Il discorso, a questo punto, va ricondotto alla politica di coesione e alla riforma dei fondi strutturali, l’una e l’altra basate in atto (è in corso di svolgimento, come è noto, la 3a generazione di programmi) sulla concentrazione territoriale di interventi integrati gestiti da differenti attori: in particolare la programmazione del 1999 (Agenda 2000) ha ancora di più enfatizzato i caratteri di azione integrata esplicitando come il territorio non possa essere inteso come un semplice fatto amministrativo, ma debba essere valorizzato in tutta la sua complessità di valori e specificità. La differenza rispetto al passato è decisiva perché avantieri (1989-94) ed ieri (1994-99) l’approccio, “ordinario”, era rigidamente settoriale con una impostazione “plurifondo” (che accosta l’azione del FESR a quella del FSE e a quello del FEOGA/O senza ricercare collegamenti) ed una logica di intervento “tipologica” (ogni misura, cioè, descrive un tipo di azione ammissibile che non si relaziona, anzi si esclude, ad altri possibili progetti). Oggi invece (2000-2006) l’approccio è integrato che vuol dire in buona sostanza territoriale ossia cercare di fare “sistema” in un’area orientando le ricadute in relazione ai bisogni e alle opportunità, privilegiando le intenzioni tra progetti e azioni, partendo dallo specifico della realtà locale (i bisogni, le potenzialità, il valore proprio dell’iniziativa in quel contesto e non altrove), non cercando progetti ma programmi di intervento (per lo più a livello subregionale), infine interagendo con una pluralità di attori o “soggetti complessi” cui possono intestarsi le diverse sezioni del programma (Morale, 1999).

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2. La progettazione integrata territoriale

Abbiamo visto come la “macchina” della coesione (che è il terzo pilastro dell’integrazione europea, quello che più degli altri rende possibile, almeno nelle intenzioni, il riequilibrio tra i Nord ed i Sud) tenti di disegnare una politica che abbia come destinatari i sistemi locali e, per farlo, si affida al metodo della progettazione integrata cioè “ad un approccio allo sviluppo economico basato, per l’appunto, sul concetto di sistema locale” e ad uno strumento nuovo (questa parola, ricordiamolo, non è gradita), il Progetto Integrato Territoriale, qualche volta chiamato anche Programma (PIT): la definizione ufficiale al proposito è quella di “complesso di azioni intersettoriali, strettamente coerenti e collegate tra loro, che convergono verso il conseguimento di un comune obiettivo di sviluppo del territorio” (CIPE, 1999). Il PIT trova il proprio brodo di coltura nella maggiore enfasi data, a partire dalla programmazione 2000-2006, al principio dell’integrazione tra gli interventi quale chiave per aumentare l’efficienza delle politiche strutturali e non si pone come uno strumento aggiuntivo che si affianca ad assi e misure: si pone invece come una “modalità operativa di attuazione” (che si sceglie di adottare) la quale fa sì “che una serie di azioni, che fanno capo ad assi e misure diverse, siano esplicitamente collegate tra loro e finalizzate a un comune obiettivo; questa modalità però non è ordinaria ma è privilegiata nel senso che ha una ragione di esistere soltanto nei luoghi dove presenta vantaggi comparati rispetto alla gestione tradizionale. “Le principali ragioni della scelta strategica in funzione di progetti integrati con forte valenza territoriale (è il QCS che parla) sono due:

- più i progetti di investimento saranno concentrati su luoghi ritenuti cruciali per lo sviluppo, maggiore sarà la probabilità di ottenere effetti incisivi degli investimenti programmati, ossia un maggior livello di efficacia;

- più i progetti saranno assimilabili a pacchetti di azioni aventi una loro specifica identità, più facile sarà mantenere la coerenza interna, la concentrazione e quindi anche la verificabilità (in termini di risultati ottenuti) dell’azione di sviluppo promossa e realizzata sul territorio”.

Quanto alla genesi della progettazione integrata territoriale per lo sviluppo locale, essa – nonostante gli sforzi effettuati in tal senso - è piuttosto confusa e trova l’atto di nascita negli Orientamenti per il Programma di Sviluppo del Mezzogiorno 2000-2006 e nella deliberazione del CIPE del 1999 che li ha fatto propri; in particolare nel costruire la matrice risorse/territorio ai fini di una connessione delle azioni settoriali con le aree di concentrazione (città e sistemi locali) e con quelle diffuse (regionali e sovraregionali), gli Orientamenti fanno emergere una mappatura che profila progetti integrati territoriali concentrati e progetti integrati diffusi: i primi configurano i PIT che incominciamo a conoscere, i secondi configurano invece i programmi regionali o quelli nazionali regionalizzati (si tratta, in ogni caso, di una categoria che in sede di attuazione della programmazione avrà scarsa fortuna). Non è chiaro peraltro al proposito (o almeno non lo era) se è auspicato che i POR si identifichino con il modello dei PIT diffusi

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o se, come è più probabile, debbano incorporare genericamente la forma e i contenuti dell’integrazione. Un passo indietro nella descrizione degli schemi di progettazione, sicuramente, viene fatto dal PSM 2000-2006 che si limita a sostituire il disegno appena descritto con elementi di confusione e ad auspicare, all’interno dei POR, la programmazione di progetti integrati di sviluppo. Un passo avanti invece viene fatto dalle indicazioni formulate dal ministro dell’Economia alle Regioni (PIT-Orientamenti, 2000) che ricostruiscono il percorso metodologico e contenutistico che dovrà portare alla “costruzione” di PIT e alla loro collocazione nell’ambito della più vasta programmazione dello sviluppo locale. In ogni caso, la scelta è quella di disegnare schemi a maglia larga e di demandare alle Regioni il compito di definire le tipologie e le caratteristiche dei PIT all’interno del POR e del CdP, ivi comprese le modalità di delimitazione: in particolare la Sicilia con una operazione coraggiosa anche se non priva di rischi ha rinunciato a pensare ai “confini” di questi sistemi territoriali come univocamente tracciati, tendenzialmente immutabili e per i quali è precisamente distinguibile un “dentro” e un “fuori” ed ha lasciato al mondo delle istituzioni e a quello delle imprese il compito di definire da soli un certo numero di “geometrie variabili” (che alla fine si ritroveranno in oltre 30). Sempre ed in ogni caso, i PIT dovranno: - basarsi su un’idea-forza di sviluppo esplicitata e condivisa da diversi attori (si

parla di priorità del tema, dell’oggetto e delle risorse individuate); - prevedere modalità di funzionamento unitarie e organiche.

Tanto l’una (idea-forza) quanto l’altro (funzionamento) vanno tessuti con la tela della concertazione e della condivisione cioè attraverso una politica di accordi tra le parti pubbliche e le parti private da preporre, per linee orizzontali, al “governo” del processo in una combinazione progetti/territorio e progetti/azioni di contesto che, se ben fatta, dà luogo ad una “massa critica” adeguata e produce un impatto economico a valore aggiunto. In particolare il tessuto connettivo deve legare i partecipanti in una rete di obblighi reciproci, in parte resi espliciti dagli impegni formali. La condizione di successo è che anche sulle relazioni informali si attivi un gioco cooperativo. Per ciò, come abbiamo già visto, molta attenzione deve essere riservata alle condizioni di contesto (Cremaschi, 2001). Questo punto del discorso è cruciale perché porta innovazione e competitività e quindi un insieme di vantaggi comparati relativi e qualche volta, si spera, anche assoluti a quel territorio e a quei comparti. Qui arrivati emerge con chiarezza come il PIT rappresenti una novità “pesante” e complessa (e per questo rischiosa) che nel dare alle Regioni carta bianca, si pone anche come uno strumento del futuro per il ruolo, possibile, di collegamento con le esperienze di programmazione già maturate (basti pensare al gioco incrociato patti territoriale/PIT sul quale peraltro insistono molto i documenti della programmazione generale) e con quelle ipotizzabili nel medio periodo con effetti benefici tanto nell’ambito economico quanto in quello socio-istituzionale. Una sede che potrebbe fare da fertilizzante alla progettazione integrata è l’Accordo di Programma Quadro (APQ) “Sviluppo Locale” (2002), figlio di quell’Intesa

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Istituzionale di Programma stipulata tra la Regione e il governo nazionale nel 1999 che, secondo la legge nazionale sulle procedure della programmazione, è un po’ la madre di tutte le battaglie: in particolare l’APQ è, almeno in nuce, il punto di snodo del processo ed il luogo dove tutti i protagonisti tirano fuori le proprie carte e decidono, assieme, come giocarle. In particolare la politica che il “documento di indirizzo” (tale è oggi l’APQ) intende perseguire si propone soprattutto di rafforzare e integrare gli interventi e le altre politiche settoriali con l’intento di favorire sinergie, valorizzare le risorse endogene, individuare percorsi autonomi di crescita. Si porrebbe quindi, almeno così pare, sul solco dei vecchi modelli di “programmazione dei completamenti”. Tra obiettivi, azioni e tipologie di interventi, l’APQ prevede la messa a punto di un Programma Integrato Regionale (PIR) destinato alla costruzione di “reti per lo sviluppo locale” con un doppio fine, quello (tipico della programmazione all’incontrario) di recuperare alcuni PIT che ieri, nella fase di selezione preliminare, erano stati dichiarati inadeguati (ed oggi evidentemente, e chissà perché, non lo sono più!) e quello di valorizzare le esperienze positive emerse a conclusione della fasedi selezione definitiva. All’interno dell’obiettivo valorizzazione, il PIR intende (ma l’azione è ancora da riempire di contenuti) “garantire l’effettiva realizzabilità (attuazione) dei PIT ammessi a finanziamento e il conseguimento dei risultati attesi, anche attraverso progetti pilota e “azioni di ecellenza” sul versante dell’integrazione e della qualità progettuale”. Per quanto diremo più avanti, il PIT “Nebrodi” 33 ha tutte le carte in regola per proporsi come progetto pilota e “azione di eccellenza”.

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3. Sviluppo rurale e integrazione tra utopia e realtà Di politiche di sviluppo rurale ce ne sono due, quella ufficiale messa a punto in modo organico a partire dall’anno duemila e quella, ufficiosa, presente qui e li quasi per caso (ma ovviamente non è un caso) nel grande libro della produzione locale di piani, programmi e progetti. La prima di queste politiche, che pure presenta alcune ricadute sul contesto della sostenibilità, non ha ancora i caratteri dell’integrazione degli interventi e della gestione: le sue misure infatti sotto il profilo settoriale riguardano il campo di attività dell’agricoltura e, quando parlano di integrazione, usano il condizionale e prevedono in modo esplicito il legame con le attività di coltivazione e con la loro riconversione (che, di volta in volta, fungono da origine o da destinazione). È cosciente però che lo sviluppo rurale si basa in parte su attività e servizi extragricoli e che non esistono alternative per invertire la tendenza ad alcune forme di declino. Questa tipologia di sviluppo rurale, che abbiamo chiamato ufficiale per distinguerla dall’altra, trova la sua sede principale nel piano di sviluppo rurale che nelle regioni obiettivo, con la scusa che il FEOGA è diviso in due fette, la garanzia e l’orientamento, è un grande pasticciaio del tipo “un pezzo a me (il PSR piccolo piccolo) ed un pezzo a te (il POR, ben più grande)”. In particolare quattro misure (grosso modo quelle ambientali) fanno capo ad un atto di programmazione e tredici (12 + 1) ad un altro atto: di queste ultime, 12 hanno natura verticale mentre una sola, intestata alla “promozione dell’adeguamento e dello sviluppo delle zone rurali” – a sua volta suddivisa in tredici misurine (ci sia perdonato il tono!) – si dovrebbe fare carico del gran carro del rispetto dell’orizzontalità (Coreras, 2003). Certo, l’integrazione non è un principio rivelato e il suo “orizzonte” di impegno varia di caso in caso - può essere cioè di diverso grado -: non c’è motivo quindi di storcere la bocca ma l’intelaiatura possibile su cui costruire i due programmi – il PSR ed il POR rurale - appare debole (per non dire dell’iniziativa collegata Leader, di cui in questa sede non parliamo, ma che presenta altri problemi e in ogni caso si muove su linee orizzontali e soft). Ovviamente, niente e nessuno esclude che in astratto le Regioni e i contesti locali –nell’individuare obiettivi, strategie, azioni - mettano a punto PSR a risorse quasi tutte ben concentrate sul famoso art. 33 (quello, per l’appunto, della diversificazione) e, ancora di più (ma questo è un privilegio riservato soltanto alle regioni obiettivo), facciano dello sviluppo delle aree rurali la struttura portante del POR anche addizionandovi, nel rispetto del metodo, quattrini propri. La storia della programmazione in Sicilia è, al proposito, emblematica ed il POR dedica a questa tipologia di integrazione poco più del cinque per cento (82 Meuro) del costo totale delle tredici misure che in quella sede, come abbiamo accennato, fanno capo a ruralità. Con questi chiari di luna, l’intersettorialità resta un’utopia. Ma attenzione! La provvista non è tutto perché l’elevato costo totale (che pure nel nostro caso non c’è), se non è accompagnato da una gestione innovativa il cui ruolo è centrale “e possiede tanta forza perché tutela il DNA del progetto in conformità agli obiettivi iniziali” (Cremaschi, 2001), da solo serve a fare cassa ma non serve alla causa dell’integrazione (che, sia pure con i distinguo fatti, è più nobile).

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C’è quindi l’esigenza, giunti a questo punto, di battere altre strade – da PSR e POR rurale più di tanto non si può distillare! - e di guardare all’interno di tutte le altre famiglie di programmi purché rivolte a specifici territori cioè al di dentro di quelle che non portano come prénom la ruralità ma che fanno dello sviluppo rurale il proprio elemento costitutivo (basti pensare alla “batteria” prevista dalla programmazione negoziata o alla duttilità di alcune iniziative comunitarie vecchie e nuove): aiuta in questa ricerca – che fa pensare a Giona e alla balena (ma ne uscirà!) - la circostanza che, a dispetto della varietà di forme e modelli, “si rintracciano nell’ apparente varietà alcune questioni comuni” tra famiglie diverse che possono essere sintetizzate nella costruzione di un modello teorico e di uno reale. Il modello teorico di integrazione (mutuato da Formez-Cremaschi, 2001) consta di quattro aspetti che sono:

• il contenuto morfogenetico (ossia dell’insieme di processi che portano alla formazione di un organismo), cioè la capacità di consentire il cambiamento di un sistema pur mantenendone l’identità strutturale;

• il contenuto normativo, cioè l’interiorizzazione nel comportamento degli attori di un orizzonte condiviso che regoli l’azione;

• la forma contrattuale che progressivamente assume il rapporto tra autorità pubblica e soggetti privati;

• il percorso di inclusione che storicamente unifica mercati e settori di mercati diversi e che emerge in modo particolare nel dopo - MIE (1993).

“Su questi complessi presupposti – presi in prestito dalle teorie sociali - si è fondata la riflessione sull’integrazione (funzionale, fisica e finanziaria) di progetti settoriali che trova giustificazione sia nei modelli di sviluppo che in quelli di azione pubblica”. Passiamo ora al modello reale che consta pur esso di quattro elementi (mutuato da Orientamenti, 2000): 1o elemento, dove: identificazione di un ambito territoriale specifico che rappresenta il contesto di riferimento; 2o elemento, cosa: individuazione di un’idea-forza che si traduce nella definizione degli obiettivi specifici; 3o elemento, come: identificazione delle modalità gestionali più opportune a rendere effettive la realizzazione del programma; 4o elemento, perché: definizione di un sistema di monitoraggio e valutazione che consenta di effettuare aggiustamenti in itinere nonché di verificarne i risultati in coerenza con gli obiettivi che il programma si propone. A questi quattro elementi, che possono avere una dimensione autonoma (anche se è bene che non la abbiano), si affianca un fattore comune che tutti li attraversa e che incorpora, per il semplice fatto di esistere, una forte dose di innovazione “sia sul piano dell’apprendimento sociale che sul piano dell’individuazione delle risorse”: è quello che viene chiamato l’orientamento locale (Cremaschi, 2001) il cui contributo in termini, come abbiamo detto, di innovazione “è forse difficile da valutare ma è uno dei contributi più duraturi allo sviluppo” perché aiuta a fare sistema cioè un’entità (economica, sociale, organizzativa) in cui il tutto è qualcosa di più e di diverso delle singole parti che lo compongono.

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4. Come funziona il PIT “Nebrodi” 33

Fatto il modello con le sue forme, le sue procedure e i suoi contenuti bisognerà pure che qualcuno lo indossi e, per questo, il 15 maggio dell’anno 2001 la Regione avvia l’operazione – PIT: la strada scelta, a differenza di altre, non è quella di fissare in partenza i territori di riferimento (un progetto qui ed uno li) ma è quella, più coraggiosa, di far svolgere una gara con tanto di graduatoria di merito e di punteggio ( cosiddetta procedura concorsuale). È a questo punto che incomincia l’avventura del PIT “Nebrodi” (che, a dispetto del nome – i Monti Nebrodi - non si identifica con tutta l’area ma soltanto con metà di essa) cui, un giorno non lontano, sarà dato il numero, per la verità augurale, di 33. A muoversi, come promotore, è il Parco dei Nebrodi che, tra conservazione e fruizione, forte di una neutralità (non essere in concorrenza con i comuni!) e di una dimensione territoriale intermedia e consapevole altresì dei limiti della sola politica di riserva/protezione/controllo, avvia un processo di condivisione del da farsi e di costruzione di intense relazioni ( l’orientamento locale di Cremaschi): guarda caso detto processo, come l’esperienza insegna, da solo è in grado di produrre innovazione inizialmente sulla “cultura organizzativa” e successivamente anche sugli “esiti materiali”, quindi può funzionare. Qui pervenuti bisogna dire con onestà che il partenariato attivo (e la formazione locale dei programmi che ne discende) nella maggior parte dei casi è – per i limiti culturali incontrati lungo i percorsi - una finzione: pezzi di carta senza alcuna sostanza che rispettano soltanto la forma. Nel caso dei Nebrodi invece, con un uso massivo dello strumento dell’accordo, è stato messo a fuoco un complesso sistema di relazioni tra gli attori locali (“nuovo” perché mai sperimentato in passato in quella zona) che, con un ribaltamento del paradigma standard del tipo “redistribuzione – assistenzialismo”, ha spinto al massimo le relazioni con i soggetti privati e la messa a punto di reticoli di interessi. Nel senso così accennato, l’ottica PIT non è stata di “chiusura” al proprio interno (l’articolazione spaziale dei parchi, come è noto, è rigidissima) ma, nella convinzione che nozioni come quelle di valore aggiunto/massa critica/effetto moltiplicatore non hanno confini ristretti, di “apertura” al proprio esterno cioè ai corridoi di interconnessione e agli ambiti periurbani disponibili ad un effetto attrazione/avversione. È questo il significato del ritrovamento, nell’area di riferimento e tra i 21 confini comunali, ad Occidente della Valle dell’Halaesa e ad Oriente della Fiumara di Fitalia. Ma mettere al centro della politica di piano locale l’impresa, non significa trascurare le parti pubbliche bensì interpretare in modo corretto il principio di sussidiarietà (che tutti pongono al primo posto di tutte le liste, anche di quelle di nozze) nei suoi aspetti verticali (livelli di governo) e orizzontali (ruolo della società); significa altresì interrompere in tal modo il circuito PA-Impresa che finora ha dato luogo un po’ ovunque a “coalizioni territoriali opportunistiche” e soltanto di rado ha posto le

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premesse ad un processo di sviluppo fondato prevalentemente (anche se non esclusivamente) su attori e risorse interni all’area considerata. L’atto di nascita del nuovo modello è il 27 gennaio 2001, data della stipula, da parte di 54 soggetti, del Protocollo di Intesa per la costituzione del PIT “Nebrodi” ed è in quella sede che si avvia il processo per la messa a punto dell’idea-forza e della governance territoriale che rappresentano, dal QCS in poi, i due punti irrinunciabili (tutte le altre cose sono condizioni al contorno). Dal Protocollo di Intesa all’Accordo che farà propria la proposta di Documento finale trascorrerà esattamente un anno (30 gennaio 2002) e quei mesi, per il Parco dei Nebrodi, saranno tutti in salita ma senza soluzioni di continuità: al sistema di relazioni interne (partenariato attivo) che è complesso, si affianca infatti secondo meccanismi di complementarità quello, tutt’altro che perfetto, di relazioni esterne (con la Regione). Andiamo ora all’idea-forza che, bontà sua, dovrà puntare ad estrarre qualità dai progetti ed il cui titolo, metà donna e metà pesce, parla di una sirena (il distretto turistico) e pensa all’agricoltura (il distretto rurale). Ebbene, tra rivalutazione della cultura materiale del territorio, incentivazione ed uso sostenibile delle risorse e valorizzazione dell’area e delle sue iniziative, fuoriesce dall’idea-forza un modo di intendere il “capitale umano” che spinge sull’acceleratore del rafforzamento (nel senso anche della compatibilità) delle produzioni locali e su quello dell’aumento della pervasività della filiera economica (a sua volta da raggiungere con un sistema di incentivi per la produzione e la commercializzazione). Ma qual è la filiera economica e quali sono le produzioni locali se non, per lo più, gli ecotipi e le razze indigene, il biologico e l’allevamento da carne e da latte, la provola dei Nebrodi, il cavallo sanfratellano e il suino nero, il sistemino olivicolo e quelli, possibili, delle piante officinali e dei piccoli frutti e cosa bisogna produrre e commercializzare se non i prodotti tipici dell’agricoltura cui stampigliare “su” un marchio d’origine? Certo, la progettazione è integrata e bisogna costruire una catena di valori attraverso una combinazione di progetti e territorio che non dovrà vedere progetti senza territori e territori senza progetti: ciò andrà fatto ad esempio, ed entriamo nel vivo del discorso, con la rete delle botteghe artigianali della ceramica, con la “strada dei sapori”, con il miglioramento della ricettività, con il recupero dei mestieri tradizionali e, in parallelo anche se a scala diversa, con il Parco Archeologico della Valle dell’Halaesa - tanto per ricordare alcune iniziative complesse che danno corpo all’idea di intersettorialità. Quanto alle note per dare struttura ai pentagrammi dei diversi percorsi di sviluppo e far sì che l’integrazione sia una cosa vera (e non, secondo prassi, una dichiarazione di principio), lo schema messo a punto dal Documento finale del PIT approvato dalla Regione il 18 giugno del 2002 e, con oltre 43 Meuro, classificatosi primo nella provincia di Messina e quinto in Sicilia su circa trenta giunti al traguardo, ha ai suoi estremi due modalità, rispettivamente macro e micro. In particolare sotto il profilo macroeconomico è forte il richiamo del documento di piano (fatto proprio dal partenariato attivo con l’Accordo del 30 gennaio) all’uso sostenibile del patrimonio naturale, del capitale fisico e delle risorse umane e ad una organizzazione secondo le regole dell’Agenda 21 che, dalla Conferenza di Rio del

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1992 in poi, è il “programma di azione” del nuovo modello di sviluppo (nel nostro caso a livello locale) per il XXI secolo. Agenda 21, come è noto, è per lo più una modalità di programmazione e di attuazione e non piuttosto un tradizionale progetto di infrastrutture e investimenti. Sotto il profilo microeconomico invece l’impresa interessata al miglioramento dei processi e dei prodotti e più in generale al mercato partecipa alla predisposizione, intervento per intervento, di un “disciplinare di qualità” con il quale il PIT contestualmente costruisce un percorso di crescita, mette a punto una rete ed eroga aiuti. Ovviamente, tutti gli interessati si impegnano al rispetto delle regole del gioco, pena l’esclusione dal circuito. A tutt’oggi, attraverso Forum, sono stati già adottati alcuni disciplinari di qualità. Così il Parco dei Nebrodi pone un tema di carattere generale che è quello della regolazione dei sistemi locali (Regione, svegliati e sfoglia a questo proposito il bel libro di Pichierri pubblicato dal Mulino nel 2002) e viene incontro ad un problema non indifferente (una vera e propria criticità) che è la difficoltà di adattare in una logica evoluzionista gli schemi standard previsti dai bandi (di competenza della Regione) alle specificità dei luoghi e dei contesti produttivi territoriali. In tal senso, per la verità, si era già espressa la Regione attraverso la previsione, all’interno di ciascun bando e sistema di aiuti, di “criteri aggiuntivi” dettati dai PIT. Detti criteri si sarebbero rivelati utili ma insufficienti. Fin qui la struttura dell’idea-forza. Andiamo ora all’altro tema di fondo che è la governance del sistema–PIT. La scelta del modello di gestione effettuata dal Documento finale fatto proprio anche dalla Regione (che dopo la sottoscrizione di un Accordo specifico con il soggetto coordinatore Parco dei Nebrodi dell’11 luglio 2002 avrebbe rideterminato alcune linee finanziarie – una sorta di “decreto bis” – con un successivo provvedimento del 4 novembre) è quella di riunificare le competenze in un solo modulo organizzativo con un Ufficio Unico innestato nel Parco dei Nebrodi ed articolato in cinque aree funzionali. Anche l’Ufficio Unico è frutto di Accordi, per la precisione due, stipulati con il “partenariato attivo” rispettivamente per la costituzione, da un lato, e per l’attribuzione di funzioni pubbliche, dall’altro. In tal modo, è bene dirlo, viene fatto proprio uno specifico indirizzo del QCS che chiedeva esplicitamente “la presenza di modalità di attuazione e gestionali unitarie”. La definizione di poteri e responsabilità in una istituzione così concepita rappresenta quel valore aggiunto di novità e integrazione adeguato a valorizzare pienamente le potenzialità del PIT ma anche a gestirne le peculiarità: in particolare i due Accordi interni cui abbiamo fatto cenno parlano di un riferimento esplicito al governo della sostenibilità delle risorse del territorio e ad una gestione orientata al coinvolgimento di un numero crescente di portatori di interessi, sottolineando in tal modo due caratteristiche importanti fatte proprie ed avviate dall’intero processo. Finisce qui la descrizione, in pillole, del modello teorico, del modello reale e della progettazione integrata che abbiamo intestato al Parco dei Nebrodi. Ma è una “buona pratica” da imitare? La risposta, alla data odierna, è positiva. Le motivazioni di questa affermazione stanno tutte nelle cose che abbiamo detto prima e nella circostanza che al centro del

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processo di costruzione del progetto è stata posta l’impresa e non (i signori sindaci non ce ne vogliano) i comuni che però, e di questo bisogna dare atto con convinzione, hanno affidato la gestione del programma ad un coordinatore terzo, il Parco dei Nebrodi, e ad un solo ufficio, l’Ufficio Unico. Ai contenuti, che sono quelli dell’uso delle risorse interne all’area considerata, si affianca dunque una modalità di regolazione economica fondata sulla cooperazione che costituisce il tema centrale del discorso e, da sola, vale innovazione al punto che nel nostro caso la concertazione locale diventa il modo legittimo di governo del sistema PIT. Ma il PIT “Nebrodi” non può essere una buona pratica soltanto quando si porge all’esterno, dovrà esserlo anche al proprio interno: è da auspicare al proposito, e questo un giorno sarà portato ad esempio, che lo stile del patto sociale a base territoriale diventi metodo generale; sono state poste le premesse infatti per una integrazione di tutti gli organismi di gestione dei piani e programmi in un’unica società consortile cui, col tempo, dovrebbero far capo tutti i programmi di spesa a carattere collettivo e a dimensione di area. In qualche caso poi – ad esempio quello dello stesso PIT e di Leader plus – l’identità, per la natura del contendere, è un atto dovuto. Riflessioni particolari, e non tutte esportabili, merita infine la natura del soggetto coordinatore, il Parco dei Nebrodi, che tra spontaneismo ed opportunismo ha saputo fare della marginalità (essere un’area protetta) una opportunità (diventare un sistema produttivo territoriale) ed altresì ha saputo fare delle norme di tutela (da sempre considerate un vincolo) un vantaggio competitivo. Certo, i sentieri dello sviluppo camminano sulle gambe degli uomini e gli uomini, nel nostro caso, hanno condiviso il metodo e si sono rivelati all’altezza della situazione. A questo punto, il bicchiere di vino – il vino dei Nebrodi, se ne fa molto poco ma è buono – è mezzo pieno o mezzo vuoto? Il futuro, con riferimento all’esperienza di cui abbiamo detto, vive oggi di due atteggiamenti contrastanti: da un lato la presunzione di fare dei Parchi i soggetti titolari di proposte di sviluppo locale originali, dall’altro la scelta – qualche volta anche silenziosa – di smantellare la politica delle aree protette e di assottigliare le risorse da mettere a disposizione. Quale dei due prevarrà? La mano, a questo punto, passa al governo regionale ed il caso PIT “Nebrodi”, almeno per il momento e sicuramente per chi vi parla, può ritenersi chiuso.

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Giuseppina Carrà Università degli Studi di Catania

IMPRESE E TERRITORIO NELLO SVILUPPO

DELL’AREA DEI NEBRODI

1. Premessa Nel dibattito sviluppatosi attorno alla competitività dei sistemi locali emerge un

generale accordo sulla necessità di una azione concertata che leghi le imprese al territorio. Allo stesso tempo si sottolinea come nell’economia contemporanea, caratterizzata da rapidi cambiamenti, espressione della globalizzazione dei mercati, questo legame non vada inteso semplicemente come il prodotto di peculiarità socio-culturali radicate nel territorio a lenta o lentissima evoluzione, ma il risultato di comportamenti innovativi (Trabalzi, 2002).

L’innovazione in questo senso può essere considerata come un processo di apprendimento individuale e collettivo che si inscrive nelle relazioni di prossimità (Longhi e Queré, 1993), in quanto alimentato da competenze specifiche e da risorse localizzate che si sorreggono sul sistema di relazioni specifico di un dato luogo.

La nozione stessa di territorio si modifica da serbatoio di risorse generiche appropriabili su un mercato aperto, imitabili e trasferibili a struttura coinvolta nella costruzione permanente di risorse/competenze specifiche (Veltz, 1993).

L’ancoraggio delle imprese al territorio s’inserisce quindi in un processo di costruzione delle risorse; processo che non riguarda l’impresa isolata, ma l’impresa in relazione stretta con il suo ambiente (le altre imprese, le istituzioni pubbliche, ecc.).

In molte aree rurali, tuttavia, le imprese sembrano incapaci di creare un ambiente innovativo e quindi di guidare processi di competizione. L’aumento del grado di incertezza-complessità e la maggiore interdipendenza con l’ambiente esterno richiedono un orientamento strategico1. Perché si possa parlare di comportamento strategico (o gestione strategica dell’impresa) occorre che le imprese assumano un comportamento “adattativo-attivo”, cioè non solo devono fare uno sforzo di adattamento interno agli stimoli dell’ambiente esterno, ma devono intervenire anche nell’ambiente esterno in modo da trasformare in opportunità i fattori di minaccia o di vincolo, ma la ridotta dimensione economica, nonché le scarse risorse economiche, imprenditoriali ed organizzative non consentono alle imprese di adottare un tale comportamento (Rastoin J.L., Vissac-Charles V., 1999).

Su queste problematiche, sulle quali si confrontano diversi studiosi e sulle quali si è raccolta una nutrita letteratura, ho avuto modo di riflettere in occasione di una ricerca sulla valorizzazione dei prodotti lattiero-caseari tradizionali della Sicilia. Come area di studio è stata scelta l’area dei Nebrodi, per l’interesse che questa riveste in termini di risorse potenziali da mobilitare nel processo di valorizzazione, e come caso di studio, la Provola dei Nebrodi, che rappresenta il principale prodotto caseario 1 La strategia è un progetto che definisce alcune scelte coerenti in numero limitato e non necessariamente ottimizzanti e che garantisce la flessibilità di adattamento necessaria al verificarsi degli eventi (cfr. Sodano V. 1999).

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tradizionale in termini di quantità offerte e di reputazione goduta anche al di fuori dell’area di produzione.

La ricerca ha analizzato il rapporto impresa-territorio muovendosi su diversi piani di lettura. L’insieme delle conoscenze acquisite hanno consentito di mettere a fuoco il quadro dei vincoli e delle opportunità che per molti aspetti può essere traslato all’intero sistema agro-alimentare locale, le cui produzioni tradizionali sono legati soprattutto all’attività agro- zootecnica (Carrà, 2001).

2. La gestione delle risorse specifiche nella costruzione della tipicità e nelle politiche di valorizzazione La gestione delle risorse specifiche, per loro natura non sostituibili, rappresenta

in tutta evidenza un aspetto cruciale non solo nella fase di costruzione sociale della tipicità del prodotto, ma anche nelle politiche di valorizzazione. Tali risorse vanno attentamente individuate, con riferimento all’ambiente naturale (clima, terreno, flora, paesaggio, ecc.), al saper fare ed alle competenze che si sono tradotte nel tempo nei modi e nelle tecniche di coltivazione e di allevamento, nelle varietà selezionate, nelle razze allevate, come pure al patrimonio culturale su cui si é costruita la simbolizzazione del prodotto. Esse possono essersi mantenute come erano all’origine, oppure essersi alterate o parzialmente distrutte; ma, in tutti i casi occorre progettare forme di gestione rinnovate che consentano l’adattamento dell’insieme produttivo al suo ambiente, come pure l’appropriazione -alle condizioni specifiche locali- di regole, norme e procedure che operano ad un livello più generale.

L’ambiente e le risorse naturali rappresentano un patrimonio essenziale per le attività umane che si svolgono nel territorio dei Nebrodi, fortemente caratterizzato dalla presenza di sistemi boscati e pascoli naturali. I pascoli, in particolare, incidono per oltre il 40% della superficie agraria e forestale ed oltre il 50% di quella utilizzata.

L’interesse ambientale dell’area dei Nebrodi è connesso non solo al valore naturalistico del territorio delimitato dal Parco dei Nebrodi, ma anche alle caratteristiche del sistema produttivo dell’intero comprensorio rurale che presenta uno spiccata fisionomia agro-ambientale. L’ordinamento zootecnico caratterizza in modo rilevante l’economia agricola dell’area, dove, nelle zone più elevate coperte da boschi e pascoli, viene praticato l’allevamento brado. L’attività agro-zootecnica assolve, quindi, una serie di funzioni connesse sia con l’utilizzazione di fattori a basso costo opportunità, sia con la tutela dell’ambiente e la salvaguardia del territorio.

Trattasi di un sistema di produzione in cui la creazione di un rapporto sinergico fra agricoltura ed ambiente e la valorizzazione di quella che può essere definita “atmosfera agro-ambientale”, rappresenta un elemento fondamentale della competitività del sistema locale. Il tessuto agricolo si caratterizza allora come contesto e piattaforma della fruizione ambientale.

Poiché i pascoli rappresentano uno dei punti di forza dell’equilibrio ecologico di un ambiente di per sé fragile e a rischio di degrado, ma anche del processo di rivitalizzazione dell’economia rurale nella prospettiva della qualità del settore agroalimentare, il problema della gestione delle terre demaniali, per la gran parte costituite da pascoli, assume indubbiamente un ruolo decisivo in un’ottica integrata

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dello sviluppo locale, non limitato all’istituzione di aree di tutela, ma attento anche a quella parte del territorio non sottoposto a tutela specifica.

I pascoli demaniali rappresentano l’83,8% dei demani in totale, incidendo per il 56% circa sull’intera superficie a pascolo dell’area dei Nebrodi, con un'estensione complessiva di 33.166 ettari. La gestione di queste terre è affidata ad una pluralità di Enti: in prevalenza comuni, oltre che all’Azienda Forestale Demaniale e, per una limitata porzione, all’ESA.

La concessione del pascolo segue modalità molto diverse per numero e tipo di animali ammessi, rotazioni, riposi e forme contrattuali. Particolarmente per i demani gestiti dai comuni, si osserva una carenza di interventi e situazioni contrattuali non sempre chiaramente definite.

Per l’assenza di opportuni interventi agronomici e la mancata rotazione degli animali su superfici diverse di adeguata ampiezza, si verificano processi di sfruttamento del suolo causati da elevati carichi di bestiame e da tempi di permanenza prolungati che compromettono la capacità di autorinnovamento delle essenze erbacee, determinando fenomeni di degrado, fra i quali vanno evidenziati il diradamento della cotica erbosa che prelude al fenomeno della desertificazione; la modificazione della composizione floristica, con progressivo impoverimento delle specie pabulari a vantaggio di una vegetazione infestante di scarso valore nutritivo; l’accentuazione delle interrelazioni sanitarie, anche di natura epidemiologica, che si instaurano per l’eccessivo sovraffollamento di animali di diverse specie. Il sottopascolamento, per altri versi, altera la composizione floristica della cotica erbosa a vantaggio delle specie infestanti, portando agli stessi risultati: la concentrazione degli animali nelle zone in cui i foraggi sono migliori, con conseguenti fenomeni di sovrapascolamento.

E’ del tutto evidente che negli ecosistemi fragili come quello in esame, dove i pascoli, al tempo stesso prodotto e mezzo di produzione, assumono significato economico ed ecologico solo quando vengono utilizzati in modo idoneo, le strategie di valorizzazione dei prodotti non possono non tener conto delle molteplici funzioni che riveste l’attività agro-zootecnica e prima fra tutte quella di salvaguardia delle risorse naturali. La gestione dei pascoli in modo sostenibile, cui è interrelata la conservazione della biodiversità nel patrimonio zootecnico, dovrebbe costituire uno degli elementi di forza per la definizione del sistema di qualità del settore agroalimentare legato alla zootecnia estensiva, offrendo opportunità di innovazione dello specifico sistema produttivo orientato alla qualità e di valorizzazione dei prodotti agroalimentari tradizionali.

Il miglioramento e la razionale gestione dei pascoli demaniali costituiscono, pertanto, obiettivi primari di intervento sul territorio, per valorizzare un patrimonio collettivo in un quadro di azioni coordinate pubbliche e private, anche mediante l’individuazione di una mappa delle opportunità che può dare origine ad un programma di gestione coordinata ed integrata di dette terre.

Questo percorso assume maggiore rilevanza se concepito nei termini di una concertazione delle scelte di intervento e di gestione del territorio, in un’ottica che vede nei pascoli demaniali una risorsa collettiva e punto di forza per le politiche

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difesa e la salvaguardia della biodiversità e di valorizzazione dei prodotti tradizionali della zootecnia.

3. Risorse organizzative e valorizzazione dei prodotti Altra questione sulla quale occorre sviluppare qualche riflessione riguarda la

mobilitazione di risorse organizzative, da cui dipende la capacità di adattamento e di innovazione e quindi il rafforzamento del sistema produttivo locale. In particolare, nei processi di valorizzazione dei prodotti tipici e tradizionali si richiedono forme di coordinamento in grado di mobilitare le risorse collettive ed associative al fine di conseguire vantaggi di natura commerciale.

E’ facile osservare, d’altro canto, come i sistemi produttivi locali cui si riferiscono i prodotti agroalimentari tipici e tradizionali sono per lo più costituiti da piccole imprese che si trovano ad affrontare problemi di adattamento, ma anche problemi strategici che richiedono una elevata flessibilità sia sul piano individuale che collettivo (Carrà, 2002).

I problemi di adattamento si riferiscono alla capacità dei produttori di adattare le proprie strategie d’impresa a quelle richieste da una gestione collettiva del prodotto. La stabilità del sistema produttivo e l’affermazione del prodotto tipico sono legate in maniera determinante alla capacità delle imprese di gestire il prodotto in ambito collettivo. Tale capacità può essere limitata da fattori strutturali, quali, ad esempio, la diversa dimensione delle imprese o la differente dotazione di risorse, e da fattori tecnologici relativi alla disomogeneità delle tecnologie utilizzate, come pure alle esigenze di adeguamento a condizioni dettate da norme o regolamenti, ecc.. A ciò si aggiungono gli ostacoli informativi che rendono difficoltoso tale adattamento (le carenze informative sono tra i principali fattori di debolezza), richiedendosi per la gestione collettiva della qualità costi aggiuntivi, non sempre sostenibili da parte dei produttori.

Quanto ai problemi strategici, essi si riferiscono alla capacità delle imprese di mettere in evidenza il potenziale di differenziazione del prodotto. La loro capacità di differenziarsi, infatti, li rende più adatti ad affrontare il mercato. Si tratta, in primo luogo, di un processo di esplicitazione e formalizzazione di regole attraverso la definizione degli obiettivi comuni, così come dei processi decisionali ad essi relativi, concernenti soprattutto il disciplinare e le modalità di controllo. La realizzazione di un accordo e di una struttura di cooperazione rappresenta la base per realizzare un coordinamento per il mercato in direzione della creazione di una denominazione e del relativo marchio collettivo. Si tratta di un’innovazione organizzativa che é accompagnata dalla creazione di istituzioni che rappresentano a livello collettivo certe funzioni, quali la definizione del disciplinare, la valutazione ed i controlli, la promozione, la gestione del mercato, ecc.(Polidori e Romano, 1997). Essa implica in qualche misura il coinvolgimento delle autorità locali, che possono intervenire con azioni di supporto per ridurre i costi di coordinamento..

Quanto al sistema produttivo della Provola dei Nebrodi, esso è costituito prevalentemente da aziende agro-zootecniche, con allevamenti di tipo estensivo e semiestensivo e che attuano la trasformazione del latte in azienda, caratterizzate da

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strutture aziendali di piccole dimensioni e processi produttivi scarsamente specializzati, dove all’allevamento dei bovini ad indirizzo misto, da carne e da latte (il più diffuso), si associa frequentemente quello degli ovini e, in minore misura, dei caprini, suini ed equini. La produzione lattiero-casearia rappresenta una quota significativa di quella zootecnica, anche se negli ultimi anni il suo peso appare decrescente per le note vicende legate alle quote latte e per il progressivo orientamento degli allevamenti bovini verso la produzione di carne, anche in ragione dei sostegni comunitari previsti per questo settore. La compresenza negli allevamenti di vacche nutrici e da latte o a duplice attitudine è comunque largamente diffusa, concorrendo complessivamente ad una produzione di latte vaccino che si aggira, secondo stime attendibili, attorno ai 320 mila quintali.

Dal latte vaccino prodotto, quasi interamente trasformato in azienda (90% circa), è ottenuto un volume di produzione di provola che si aggira sui 30-32.000 quintali. Una tale offerta supera largamente la domanda locale, ma non dispone delle condizioni necessarie per sviluppare una competizione commerciale sui mercati esterni, per i limiti imposti dalle quote latte assegnate, che si collocano a livelli largamente inferiori ai volumi prodotti. Ciò rappresenta un vincolo per il miglioramento delle condizioni di produzione e per la gestione collettiva del prodotto, nonché fattore di debolezza dei produttori-allevatori nei confronti degli acquirenti, specialmente grossisti.

Le strutture e le dotazioni aziendali appaiono generalmente carenti, particolarmente quelle destinate alla trasformazione casearia, raramente a norma, ai sensi della Circolare ministeriale n.16/97 che fa riferimento al D.P.R. n.54/97. Il processo di adeguamento si sta lentamente avviando, ma indubbiamente la presenza di un’attività produttiva sommersa costituisce un freno ad effettuare i necessari investimenti.

Operano nell’area o in zone immediatamente adiacenti alcuni piccoli caseifici, i cui approvvigionamenti tuttavia solo in qualche caso sono costituiti da latte proveniente da allevamenti locali. Ciò, unitamente alla loro maggiore capacità di accesso ai mercati esterni all’area di produzione, espone le imprese agro-zootecniche a comportamenti “opportunistici”, che solo la definizione di disciplinari di produzione può sanare.

La forma sommersa di una parte dell’offerta induce gli allevatori a preferire la vendita diretta in azienda, che costituisce mediamente circa il 25% delle vendite del prodotto, ma per il carattere stagionale di questo tipo di vendita e in assenza di un’adeguata organizzazione commerciale, rimane essenziale il ruolo del grossista che provvede alla collocazione del prodotto sul mercato.

I grossisti detengono un elevato potere contrattuale nei confronti dei produttori. Essi acquistano il prodotto e lo commercializzano sul mercato regionale sia con marchio e packaging proprio, sia come prodotto sfuso e privo di denominazione.

L’assenza di elementi che ne consentono la riconoscibilità aumenta l’incertezza sulla qualità del prodotto rendendo il mercato opaco ed il solo criterio di decisione razionale del consumatore è il prezzo. I prodotti di qualità che non possono differenziarsi dagli altri tendono a sparire, essendo i loro costi di produzione in

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generale più elevati. La cattiva qualità uccide la buona qualità e distrugge il mercato (Akerlof, 1970).

Va evidenziato, inoltre, come i risultati del focus group con i produttori- allevatori insieme a quelli dell’analisi motivazionale svolta nell’ambito delle indagini aziendali abbiano messo in evidenza una debole propensione ad attivare forme di organizzazione collettiva, nella consapevolezza che i vincoli posti dalle condizioni di produzione attuali non consentono di sostenere gli obblighi e gli impegni derivanti dall’adesione ad un consorzio di produttori. Pur emergendo una complessiva disponibilità a sottostare alle regole derivanti dall’adozione di un disciplinare di produzione e ad accettare il sistema di controlli connessi, si sono manifestate forti riserve riguardo alla perdita di autonomia nella fase di commercializzazione, in ragione soprattutto dei problemi legati all’esistenza di forme sommerse di produzione.

In definitiva, il sistema produttivo in esame, benché operi in condizioni di marginalità, sembra mostrare una discreta capacità di adattamento al contesto esterno ed interno; capacità che, se da un lato ne assicura la sopravvivenza, può condurre, dall’altro, ad una banalizzazione del prodotto, cioè alla disattivazione della convenzione di qualificazione basata sulle caratteristiche qualitative specifiche ed all’emergere di una convenzione di mercato, nella quale la differenziazione del prodotto tende ad attenuarsi.

L’insieme dei problemi che limitano la capacità degli allevatori di adattare le proprie strategie di impresa a quelle richieste da una gestione collettiva del prodotto richiede pertanto un programma articolato di intervento che preveda azioni di orientamento ed assistenza degli allevatori, nonché azioni di sostegno finanziario per l’adeguamento delle strutture aziendali di trasformazione del latte, insieme ad interventi per la creazione di una rete di impianti di caseificazione, e per la stagionatura del prodotto. Sono importanti, infine, iniziative volte a favorire l’incremento delle quote latte disponibili per questa area o ad esonerare gli allevamenti situati nell’ambito dei Parchi e delle Riserve dall’obbligo delle quote.

4. Capacità strategiche e marketing dei prodotti La gestione del mercato costituisce, dunque, un aspetto critico per le imprese

agro-zootecniche che producono la Provola dei Nebrodi, sia perché la gestione commerciale è autonoma rispetto alla fase produttiva ed in larga parte esterna al sistema produttivo locale, dando luogo ad una “filiera spezzata”, sia in relazione ai profili normativi (quote latte, norme igienico-sanitarie) che condizionano la commercializzazione del prodotto.

Non può ignorarsi, tuttavia, che una relazione stretta fra la produzione e la commercializzazione è cruciale per attuare la valorizzazione del prodotto e consentire alle imprese produttrici di aumentare la loro quota nella catena del valore. Inoltre, occorre considerare come l’inserimento dei prodotti tipici e tradizionali nei mercati agroalimentari richieda una strategia fondata sulla costruzione di mercati adeguati alla

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realtà produttiva in cui operano gli agenti, nonché sulla individuazione di mercati pertinenti alle caratteristiche di tali prodotti (Barjolle e Sylvander, 1999).

In alcuni casi, i mercati regionali e locali costituiscono il principale orizzonte commerciale, ma, nell’ambito di questi, si possono conquistare nuovi segmenti di mercato diversificati a partire dalla valorizzazione degli attributi territoriali o dei vantaggi specifici (turismo rurale, prodotti di fattoria, ecc), oppure sviluppando la rete di relazioni multiple (commercio di prossimità, commercio all’ingrosso e, talvolta, Grande Distribuzione Organizzata).

In altri casi, possono svilupparsi dei circuiti commerciali fondati su strategie orientate verso mercati geograficamente lontani. Ciò é possibile allorché l’attività produttiva in questione risponde a condizioni di quantità e regolarità di offerta così come di qualità e certificazione di prodotto, tenuto conto che il rapporto cognitivo che lega il consumatore al prodotto sui mercati locali risulta debole o del tutto assente su quelli di dimensione geografica più ampia. La specificità e la stessa immagine di qualità del prodotto non costituiscono infatti condizioni sufficienti per stabilire un vantaggio competitivo e soprattutto per riconoscere un premium price (Antonelli, 2000).

Nel caso del mercato locale, la reputazione è fondata sulla conoscenza interpersonale. Il riconoscimento delle caratteristiche qualitative del prodotto può basarsi, infatti, su specifiche relazioni cognitive fra consumatore e prodotto e sull’esistenza di criteri condivisi fra gli agenti del sistema (Sylvander S., 1995), senza che sia necessario ricorrere a congegni istituzionali come i marchi (Belletti G., 2000).

Le scelte di acquisto dei consumatori sono infatti diverse e complesse. La tipicità non è percepita in maniera netta. La consapevolezza e la comprensione dei consumatori dei differenti tipi di prodotti è vaga e la loro conoscenza degli schemi identificativi e dei contrassegni di certificazione ufficiali è piuttosto imprecisa.

I consumatori di prodotti tipici non sono interessati solamente alle caratteristiche oggettive e sensoriali dei prodotti, ma soprattutto alle loro qualità intangibili e simboliche; essi cercano di acquistare una “esperienza totale”, specialmente nel caso di turisti o visitatori che si recano nell’area di produzione in quanto dotata di attrattive storico-culturali o naturalistiche e paesaggistiche.

Queste considerazioni risultano suffragate dai risultati dell’indagine sull’utenza turistica del Parco dei Nebrodi, svolta allo scopo di analizzare se e in che modo la presenza turistica si lega al consumo di prodotti agroalimentari tipici in generale e della Provola dei Nebrodi in particolare.

Va precisato che l’utenza turistica del Parco, cui è stato somministrato il questionario, è rappresentata quasi interamente da visitatori provenienti dalla stessa regione e per 2/3 circa dai centri urbani della Sicilia Orientale. Si tratta di una presenza che si protrae per un solo giorno (98,8%). Solo l’1,2% degli intervistati soggiorna presso le strutture turistico-ricettive presenti nel parco. In sostanza si tratta di un turismo legato alle attività ricreative e di svago del fine settimana.

Le motivazioni che giustificano la presenza turistica nell’area, rilevate secondo l’ordine di preferenza espressa dagli intervistati, sono costituite in primo luogo dalla ricerca di una ristorazione economica basata sulla degustazione di prodotti

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locali (77,2%), seguito dal desiderio di trascorrere un giorno a contatto con la natura (65,6%) e di effettuare attività escursionistiche (36,8%). La motivazione della visita legata specificamente all’acquisto di prodotti tipici assume un ruolo scarsamente rilevante (5,6%).

Benché molti di loro, durante la visita, trovino occasione per acquistare i prodotti agroalimentari tradizionali dell’area ed in modo particolare la Provola dei Nebrodi, ciò non rappresenta il motivo della loro visita. Manca inoltre una conoscenza dei criteri di designazione dei prodotti tipici e la percezione del prodotto come tipico è generica (naturale, genuino, artigianale, ecc.) ed è soprattutto legata alla conoscenza dell’area e all’esperienza personale.

E’ interessante notare che l’analisi dei fattori critici che condizionano il comportamento di acquisto dei soggetti intervistati, effettuata attraverso l’applicazione di un modello di analisi denominato “albero decisionale”, ha evidenziato come la decisione di acquisto del prodotto sia fortemente influenzata dal rapporto cognitivo con l’area di produzione, che rappresenta il primo fattore discriminante nella scelta degli intervistati. Per consumatori caratterizzati da una conoscenza del contesto culturale, sostenuta da forti interrelazioni con il territorio, il valore attribuito al prodotto non deriva soltanto dalle sue qualità organolettiche, ma soprattutto dal fatto che esso è espressione di quel particolare territorio. Questa valutazione è confermata ulteriormente dal fatto che la soddisfazione nei confronti della qualità del prodotto non compare come fattore discriminante nella decisione di acquisto.

Il secondo fattore discriminante è rappresentato dalla preferenza di consumo espressa a favore di prodotti tradizionali e tipici rispetto a quelli industriali, evidenziandosi per tale tipo di preferenza una notevole forza di impatto sulla scelta di acquisto del prodotto, anche se inferiore alla precedente.

Il terzo fattore discriminante in ordine di importanza è costituto dal livello di coscienza ambientale espressa dagli intervistati. Infatti, in rapporto ad una maggiore sensibilità ambientale, misurata in termini di atteggiamento ecologicamente responsabile, anche in assenza dei due fattori precedentemente indicati, si registra un comportamento positivo nell’acquisto del prodotto considerato.

Appare evidente come il potenziamento del mercato locale sia legato al miglioramento dell’offerta turistica ed agli strumenti del marketing territoriale, in grado di sviluppare l’immagine dei punti di vendita e più in generale di strutturare un sistema di offerta, nella vendita diretta in azienda come nella ristorazione, che punti a mettere in evidenza i caratteri distintivi del prodotto offerto, il che non richiede necessariamente una forte caratterizzazione della tipicità attraverso un marchio DOP.

Nell’ambito del mercato regionale, dove il prodotto viene commercializzato attraverso il canale dei grossisti e collocato nei banchi sia del dettaglio tradizionale sia della moderna distribuzione, le strategie di valorizzazione vanno indirizzate in modo particolare al rafforzamento della percezione della qualità del prodotto. Questa è largamente determinata, oltre che dalle caratteristiche intrinseche del prodotto, da una efficace comunicazione in grado di migliorane il posizionamento rispetto ai prodotti concorrenti; ma la scarsa riconoscibilità e rintracciabilità del prodotto, in relazione all’

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assenza di un marchio, le modalità di vendita che non ne favoriscono una corretta identificazione (assenza di cartelli di identificazione, uso di denominazioni diverse) lo penalizzano rispetto a prodotti similari di tipo industriale con diversa provenienza, ingenerando nel consumatore incertezza rispetto alla capacità del prodotto in vendita di soddisfare le sue attese. Se il prodotto, invece, fosse commercializzato con un marchio in grado di fornire un messaggio chiaro sulla sua origine, opportunamente rafforzato da altre forme di comunicazione, la percezione di qualità sarebbe immediata venendo associata ad un’area che nel vissuto del consumatore richiama un’immagine di bellezza naturalistica, paesaggistica, ecc. e quindi di genuinità e naturalità.

Queste indicazioni trovano riscontro nei risultati del focus group con alcuni consumatori abituali della provola dei Nebrodi, residenti a Catania e a Messina, i quali hanno manifestato una disponibilità a pagare per un prodotto dotato di marchio d’origine fino al 30% in più rispetto a quello abitualmente pagato.

Quanto alla collocazione del prodotto sul canale della moderna distribuzione organizzata in mercati geograficamente lontani - dove si assiste ad un rapido adeguamento dell’offerta alla crescente domanda di prodotti agroalimentari che rappresentano le tipicità regionali - essa si rivela attualmente quella in grado di generare maggiore valore per il prodotto. Tuttavia, la moderna distribuzione nazionale ha bisogno di partner affidabili in grado di garantire la continuità della fornitura, l’assistenza e la logistica, per cui è difficilmente ipotizzabile un rapporto contrattuale tra questa e le piccole imprese produttrici, che non possono sostenere i costi di una rete distributiva autonoma (se non sui circuiti di nicchia), né hanno la possibilità tecnica ed economica di organizzare una logistica ponderata sulle esigenze del distributore.

In assenza di un’istituzione di coordinamento come il Consorzio, si è inserita di recente con funzione di intermediazione un’impresa industriale agroalimentare regionale, dotata di una struttura tecnico-organizzativa adeguata e che, attraverso contratti di sub-fornitura, ha assunto il ruolo di coordinatore e di logistic provider. Si tratta di una forma di privatizzazione della reputazione del prodotto da parte di una impresa dotata di una forte immagine aziendale e che fa uso del prodotto tipico anche in funzione degli effetti di ricaduta positiva sugli altri prodotti trattati (Belletti, 2000).

Per ciò che concerne l’allocazione dei benefici lungo la filiera, le piccole imprese locali conseguono probabilmente una riduzione dei rischi di mercato, mentre vedono ulteriormente ridimensionato il loro potere contrattuale a favore dell’impresa che sostiene i costi di coordinamento.

In definitiva, se vanno studiate strategie differenziate con riferimento ai diversi mercati, è bene tener presente che eventuali forme rigidamente organizzate nella gestione del prodotto e del mercato appaiono incompatibili con la situazione attuale delle quote latte e la scarsa propensione delle imprese a sopportare i costi connessi agli investimenti materiali ed immateriali relativi all’adesione ad un Consorzio per la gestione della DOP, che resta comunque uno strumento essenziale ove l’obiettivo da raggiungere sia quello di conquistare nuovi spazi nei mercati regionali e nazionali.

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Obiettivi più immediati risultano al momento la creazione di forme organizzate per la gestione di servizi comuni di promozione; il potenziamento del canale di vendita diretta legato ai flussi turistici, attraverso la creazione di percorsi gastronomici e manifestazioni gastronomico-culturali; la definizione di un disciplinare di produzione per garantire il rispetto delle caratteristiche qualitative tradizionali del prodotto; lo sviluppo di una comunicazione che pone l’accento sul territorio come segno di qualità del prodotto per aumentarne la capacità di attrazione, ecc..

5. Le politiche pubbliche di supporto ai processi di valorizzazione dei prodotti E’ stato autorevolmente affermato che “il terreno critico su cui si giocano il

successo o l’insuccesso delle strategie dispiegate sul territorio è dato da quelle forme che ordinano l’interazione tra gli attori cioè dalle istituzioni che danno corpo all’iniziativa soggettiva, rendendola efficiente, affidabile, produttiva di effetti macro a partire da proposte e comportamenti micro” (Rullani, 2002).

Sebbene l’iniziativa privata a livello delle imprese resti lo strumento essenziale per realizzare la mobilitazione delle risorse endogene, un ruolo di primo piano è giocato dalle politiche pubbliche, per le quali occorrono sforzi indirizzati ad individuare e quindi adottare le leve più appropriate per innescare processi di sviluppo autonomo.

La messa in atto di politiche di sviluppo richiede di chiarire le condizioni di adattamento delle imprese, la loro flessibilità strategica, nonché le conseguenze per lo sviluppo del territorio. In altre parole, la conoscenza delle relazioni biunivoche fra le imprese ed il loro contesto ambientale aiuta comprendere i problemi e ad usare un adeguato specifico pacchetto di politiche. Occorre, in definitiva, trovare gli strumenti più appropriati per sostenere gli imprenditori nei loro processi di innovazione.

L’organizzazione di dispositivi di sostegno a livello locale, basata su una governance territoriale, risponde certamente meglio alle esigenze dei sistemi produttivi locali meno competitivi e più deboli sotto il profilo della regolamentazione, contribuendo allo stesso tempo all’obiettivo di migliorare la coesione economica e sociale. Appaiono maggiormente appropriate per l’area in esame le azioni miranti a favorire la permanenza del carattere multifunzionale del sistema produttivo, cioè delle vere e proprie strategie di valorizzazione della multifunzionalità.

Altrettanto importanti appaiono le modalità di applicazione dei dispositivi d’intervento, per i quali possono individuarsi in prima approssimazione due diversi gruppi di azioni : a) un gruppo di azioni volte a favorire il rafforzamento delle risorse specifiche dei sistemi agroalimentari locali ed a migliorare l’accesso a tale risorse, attraverso l’apprestamento di infrastrutture territoriali, aiuti agli investimenti per l’adattamento tecnico delle imprese ed il miglioramento delle condizioni di commercializzazione e trasformazione nel quadro di un approccio collettivo, sostegni per l’attività di assistenza tecnica specialistica in funzione del miglioramento qualitativo dei prodotti, nonché per la formazione, ecc; b) un gruppo di azioni volte a favorire il coordinamento tra gli attori economici - a sua volta determinante per gestire la qualità del prodotto e per renderne obiettiva la tipicità - attraverso dispositivi istituzionali che sostengono l’organizzazione collettiva

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delle imprese (comitati di pilotaggio per la creazione di consorzi), la prestazione di servizi ed investimenti di supporto per l’attuazione di sistemi di gestione e/o per la certificazione di prodotto, sostegni alle attività di promozione, iniziative e dotazioni per lo sviluppo di sistemi innovativi e/o alternativi di vendita.

Occorre in buona sostanza dispiegare una strategia che ponga il territorio al centro di un sistema di alleanze in cui possano combinarsi gli interessi politico-gestionali con quelli delle imprese, in termini di risorse disponibili, e dei consumatori, in termini di qualità.

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Marcello Fecarotti Presidente del Parco dei Nebrodi

Agli interventi del prof. Alessandro Hoffmann e della prof.ssa Giuseppina Carrà, ci sarebbe poco da aggiungere, io però voglio cogliere due spunti, uno che mi viene dato dall’intervento della prof.ssa Carrà, a proposito di fruizione del territorio del Parco; intanto va precisato che quelli sono dati relativi ad un vecchio studio condotto sul POP 1994-1999, ma la tendenza è ancora la stessa. E proprio lo scopo e l’intendimento che noi ci siamo posti è il superamento di quella prospettiva e di quella situazione. Noi cerchiamo di muoverci lungo il superamento di quella logica. Tutto ciò mi riallaccia all’altra questione che invece ha posto alla fine della sua relazione il prof. Hoffmann. Il territorio si è mosso sulle gambe degli uomini, in primo luogo sulle gambe degli amministratori locali, in parte del Parco, perché il Parco ha camminato anche attraverso il contributo e la condivisione delle amministrazioni locali, noi però dobbiamo mettere in moto un sistema e un territorio che non si devono muovere esclusivamente sulle gambe degli uomini che vivono e passano in quel momento, dobbiamo creare condizioni strutturali e questo è lo sforzo che dobbiamo porre. Qui io credo che importante sia il rapporto, in qualche modo, emblematico e qualche volta contraddittorio, con l’Amministrazione regionale e questo voglio segnalare e porre all’attenzione dell’assessore Castiglione. Noi viviamo questo momento importante, abbiamo avuto l’opportunità di dimostrare, e lo abbiamo sempre sostenuto, che i parchi non sono perimetri da difendere, sono invece territori e comunità in cui vivono uomini. Abbiamo sempre detto che i parchi, e in particolare il Parco dei Nebrodi, è frutto di natura, però è anche opera di cultura. Però si assiste contraddittoriamente ad una politica e ad una strategia di smantellamento del sistema delle aree protette. Nella bozza del bilancio regionale, on. Assessore, trovo che per le aree di parco, per i quattro parchi regionali sono allocate come spese di funzionamento solamente sei miliardi di vecchie lire. Non bastano neanche per pagare il personale; come possiamo impostare strategie di concertazione, di condivisione, di animazione del territorio sulla base di questi numeri? La Regione ci ha, da una parte, assistito e accompagnato in questa politica di animazione nell’interpretazione del territorio, dall’altra però sembra che abbia un atteggiamento contraddittorio. Certamente noi dobbiamo rapidamente promuovere una strategia di rinnovamento delle norme sui parchi perché non è possibile che sui Nebrodi c’è una strategia territoriale, mentre sulle Madonie se ne imposta un’altra, mentre al parco dell’Etna se ne imposta un’altra ancora. Certamente noi per primi, operatori dei parchi, dobbiamo superare queste ambiguità e dobbiamo porre delle regole, dobbiamo mettere in moto modelli organizzativi che poi restano. Io credo che le aree interne, le aree marginali e in primo luogo i parchi possono essere l’offerta complessiva della regione, una gamba dello sviluppo e della prospettiva delle nostre future generazioni. Io vi ringrazio per l’attenzione che oggi avete dato al parco dei Nebrodi, credo che, come diceva il prof. Hoffmann, l’originalità non è tanto nelle

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cose che stiamo tentando di fare, perché sono state già fatte altrove (per esempio in provincia di Grosseto). Abbiamo bisogno però che queste strategie vengano condivise anche nella programmazione regionale, per esempio il prossimo appuntamento potrebbe essere, on. Assessore, l’accordo quadro sullo sviluppo locale.

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Giuseppe Castiglione Assessore Regionale

all’Agricoltura e alle Foreste Grazie a tutti i presenti per aver accettato il nostro invito, ma un grazie soprattutto al prof. Bacarella, al Coreras che, accogliendo una mia istanza, ha organizzato una giornata in maniera così magistrale, ben fatta e ben guidata, una giornata di cui avevamo certamente bisogno. Sono particolarmente contento e soddisfatto, così come un grazie va rivolto a tutti coloro che hanno accettato di far parte del Tavolo della Presidenza, a cominciare dal prof. Prestamburgo che ringrazio particolarmente, il prof. De Castro, il prof. Pacciani, la prof.ssa Carrà, il prof. Hoffmann ma soprattutto anche tutti coloro che con la loro presenza hanno fatto sì che questa diventasse una giornata di lavoro, una giornata di studio, di approfondimento su alcuni temi che noi riteniamo fondamentali. Perché questa è la mia esperienza concreta, ma anche la mia preoccupazione: stamattina abbiamo delineato uno scenario che è uno scenario interessantissimo, diceva il prof. De Castro, un 2003 denso di avvenimenti, denso di impegni, un 2003 che certamente disegna una strategia per la politica agricola comune, un 2003 che dovrà per forza di cose vederci attenti e impegnati, un 2003 che certamente delinea nell’ambito comunitario anche alcune scelte che incideranno profondamente sulla vita della Regione. Se poi noi a questo aggiungiamo il fatto che il 2003 sarà anche l’anno della Costituzione Europea, ringrazio il prof. Basile, che con la sua presenza fa sì che questa diventi anche una occasione importante; questo binario ci vede da un lato proiettati verso l’Europa, quindi verso la realizzazione di istituzioni più forti, verso una Costituzione Europea, dall’altro lato impegnati su un fronte interno in maniera intensa, che è quella dell’organizzazione, del ruolo delle Regioni o delle Regioni con le comunità locali, delle agenzie che nel tempo abbiamo messo su e quindi come queste devono rapportarsi con la Regione e soprattutto con la programmazione locale. Quindi è uno scenario interessantissimo, uno scenario importante e la mia preoccupazione deriva dal fatto che ci saranno paesi, diceva il prof. De Castro, come la Polonia, l’Ungheria, paesi con la nostra produzione agricola, con la nostra vocazione mediterranea, che avranno motivi di conflitto, avranno motivi quantomeno di interlocuzione più forte rispetto al passato. Allora l’occasione di stamattina è importante, una occasione di riflessione e la mia preoccupazione deriva soprattutto dal fatto che si è a guida di una macchina complessa, sia burocratica, sia in termini di risorse, perché io sono convinto, e la mia esperienza di amministratore regionale me lo fa sempre più dire, che non è più un problema di risorse finanziarie ma è un problema di mettere in fila le idee, mettere in fila una programmazione, mettere in riga quello che noi effettivamente vogliamo, perché se oggi noi ci attenessimo al dato che è quello del PSR, il dato del piano di sviluppo rurale, noi sappiamo che nei prossimi tre / quattro anni ci saranno in tutto altri 35 miliardi di vecchie lire. Questi 35 miliardi, se poi li mettiamo in rapporto ai

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prossimi quattro anni, sono circa nove miliardi per anno. Non è nemmeno ipotizzabile, e io mi sono opposto, a che si realizzasse un nuovo bando per il cosiddetto biologico, perché noi sappiamo che a fronte di 9 miliardi potrebbero piovere sulla Regione istanze per altre centinaia di miliardi creando aspettative che nel passato abbiamo dovuto fronteggiare in maniera molto forte; perché è vero che quest’anno dobbiamo mettere ulteriori 50 miliardi per coprire gli impegni dell’anno precedente e i 50 miliardi dell’anno scorso sono serviti a coprire una serie di istanze che erano state finanziate, non dico a pioggia, ma certamente senza nessuna selezione. Oggi noi possiamo vantare in ambito europeo di avere la prima produzione biologica, almeno sul piano cartaceo, ma sul piano della qualità, non so se in effetti siamo riusciti a trasmettere questo messaggio importante. Vedo una serie di azioni che sono frammentate sul territorio, ed è questa la mia preoccupazione principale: noi vorremmo fare analisi, monitoraggio, assistenza tecnica, formazione, però di interventi concreti, di interventi misurabili, di interventi che poi in realtà possano dare respiro alle aziende, oppure creare un modello di azienda inserito in un contesto eco-compatibile o in una ipotesi di sviluppo sostenibile, onestamente di interventi di questo tipo ne vedo assai pochi. Se a tutto questo, a tutti questi interventi poi aggiungiamo che siamo in fase di elaborazione di un nuovo programma Leader, come facciamo a far si che queste risorse, che per il solo Parco dei Nebrodi, io calcolo in vecchie lire, saranno intorno ai 250/300 miliardi, possano diventare effettivamente occasione di sviluppo? Se questo argomento lo spostiamo dal Parco dei Nebrodi e lo allarghiamo al territorio siciliano, diamo un solo dato: nell’ultima riprogrammazione, all’interno del PIR e dell’accordo di programma quadro sullo sviluppo locale, le somme non spese erano circa 2000 miliardi, allora qualche problema me lo pongo e l’occasione di oggi è per dire come ci mettiamo in relazione con queste risorse che non sono risorse di poco conto, che afferiscono in una regione importante come la Sicilia, soprattutto a fronte di un patrimonio che io ritengo straordinario, di una vocazione che è naturale, che è culturale, che è architettonica, di una vocazione che certamente, se voi pensate a quest’area, quest’area che presenta tre parchi: il Parco dell’Etna, il Parco dei Nebrodi, il Parco Fluviale dell’Alcantara, se pensiamo che in questo circuito ci sono il Castello di Adrano, il Castello Nelson di Bronte, le chiese di Randazzo e di Castiglione di Sicilia, un circuito, quindi, culturale di grandissima valenza. Se pensiamo che ci ritroviamo a ridosso dell’Etna, e quindi con una intrinseca possibilità di sviluppo, se noi pensiamo che ci sono una serie di produzioni agricole che fanno la differenza e che però, molto spesso, non sono conosciute, tranne grazie ad una azione più forte che è stata avviata nel tempo per il pistacchio di Bronte. Se pensiamo a tutta la frutticoltura o a tutto quello che ruota nella produzione agricola attorno all’Etna, oggi ad esempio c’è una forte sensibilità verso la viticoltura di montagna. Si può sviluppare una viticoltura di qualità, la viticoltura di montagna, la fragola di Maletto, il pistacchio di Bronte, le mele di Pedara. Perché non organizzare bene queste produzioni che hanno una grande vocazione, hanno una grande esplosione, certamente debbono conquistare quei canali della distribuzione a cui bisogna offrire un buon prodotto. Dobbiamo far sì che tutta questa

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viticoltura, tutta questa tipicità, tutta questa qualità possa essere espressa. Come diceva il prof. Prestamburgo stamattina, non ci può essere una iniziativa forte se non c’è l’imprenditore, se non c’è l’impresa, se non rafforziamo l’impresa, se non partiamo con quelle azioni strutturali che abbiamo avviato nei nostri territori e che si chiamano piano di ricomposizione fondiaria, investimenti aziendali, impianti di trasformazione, tipicizzazione della produzione. Questo contesto, partendo dal presupposto che è tipico, non è piccolo e quindi bisogna organizzarlo, io penso solo un esempio classico per tutti e tipico per tutti, la tipicità del Parmigiano Reggiano, certamente il Parmigiano Reggiano è tipico e certificato, ma non è sicuramente piccolo. Allora noi una dimensione diversa dobbiamo darcela, una organizzazione diversa dobbiamo darcela, un’assistenza maggiore dobbiamo darcela; il tema di oggi è come far sì che, a fronte di risorse, a fronte di straordinarie opportunità, a fronte di un patrimonio straordinario, noi ci ritroviamo molto spesso ad inseguire delle analisi con risultati, molto spesso assai modesti. Il prof. Prestamburgo, stamattina, diceva che la politica agricola è un grande pezzo della politica economica nazionale e della politica economica internazionale e che non si può fare solo una politica agricola perché fa parte di una politica economica; però oggi noi dobbiamo vedere come poter fare per migliorare tutto questo. Ci sono questi grandi temi, io veramente sono particolarmente contento, e mi pongo il problema da oggi in poi, dopo aver chiamato a raccolta, dopo questa giornata che è stata certamente una giornata interessante, cosa facciamo? Da dove partiamo? Mi rendo conto che è necessario costruire un Osservatorio, un Osservatorio che continui a dare informazioni, che elabori proposte, che ponga l’amministratore in condizione di poter fare scelte oculate, soprattutto pensare ad una riprogrammazione seria del Programma Operativo Regionale. Noi su questo tema, ritengo, dobbiamo confrontarci, da oggi bisogna ripartire, il tema della riprogrammazione del POR è un tema centrale, il tema della riprogrammazione del PSR all’interno del rapporto con il programma operativo è un tema centrale; noi dobbiamo far sì che tutti gli strumenti che attualmente sono in campo possano essere armonizzati e che gli strumenti possano fra di loro dialogare, perché allo stato attuale non c’è un dialogo fra i diversi strumenti e io ritengo che moltissime delle azioni che abbiamo fatto, e che stiamo conducendo, sono azioni che si ripetono. Allora, caro prof. Bacarella che ti sei assunto l’impegno, ti sei assunto quest’onere, che hai avuto la pazienza di organizzare pur in breve tempo, perché è stato un mandato affidato in brevissimo tempo, ma soprattutto, avendo messo in piedi questa straordinaria giornata di studio, io la ritengo una giornata importante per avere potuto ascoltare, per avere potuto metabolizzare, ed avere un quadro più ampio, ma, soprattutto, deve essere l’occasione per poter ripartire, per poter riprogrammare, per poter far sì che le risorse che ci sono, e a mio avviso sono sufficienti, possano essere ridestinate in maniera più efficace. Questo è l’obiettivo, l’impegno che tutti assieme, io qui faccio un appello ai presenti, un appello anche ai professori e ai docenti che sono in sala, ai nostri dirigenti regionali, alle organizzazione professionali a cui ho motivo di ringraziamento per l’ausilio e il confronto, che oggi vogliamo. Ogni giorno di più, a me non piace il

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termine “concertazione”, non piace perché mi sembra una fatica estenuante, c’è sempre un tavolo pieno di problemi e di analisi che poi alla fine non portano a soluzione, però devo dire, con le organizzazioni professionali siamo usciti dalla fase dell’analisi e siamo entrati nella fase della concretezza, quindi se questa sfida la raccogliamo tutti, io sono convinto che la Regione, il nostro territorio, gli impegni che oggi abbiamo avuto appena tempo di delineare, si tradurranno in fatti concreti e il territorio, la gente potrà non solo apprezzare la nostra opera di tutela e di preservazione del nostro territorio e del nostro ambiente, ma anche un occasione di valorizzazione. Questa, ritengo, sia la grande scommessa, e quindi dobbiamo far sì che questa azione di valorizzazione sia l’azione principale, forte, fermo restando che io, sul tema ambiente, sono più portato alla conservazione che ai tentativi che ci sono continuamente di devastare. C’è anche il tema importante che è quello del miglioramento della legge, perché la legge va migliorata, va adeguata, va aggiornata, c’è anche una azione che dobbiamo fare di ripianificazione, però se pensiamo come dovrà svilupparsi un azione concreta (mi riferisco al prof. Prestamburgo perché è estraneo ai nostri fatti) per portare avanti un’azione di sviluppo sul nostro territorio, in quest’area che presenta queste vocazioni molto belle, queste vocazioni naturali e culturali di cui abbiamo parlato, bisogna avere a che fare con il piano regolatore del comune, con il piano territoriale della provincia, con il piano di sviluppo economico della provincia, con il piano territoriale del Parco dell’Etna, con il piano territoriale del Parco dei Nebrodi, con il PRUSST, con il PIT, quindi con una serie di azioni infinite. E’ importante quindi che si possa arrivare ad una sintesi di pianificazione e soprattutto, poi, destinare le risorse; questo è il nostro impegno concreto, questa è la nostra azione che da oggi in poi svilupperemo e per questo vi ringrazio, vi ringrazio soprattutto per il contributo di grande livello scientifico che, stamattina, mi avete voluto regalare.

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