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2 Prefazione Introduzione CAPITOLO 1 Negoziazione: Processes International Negotiation (PIN) e Harvard CAPITOLO 2 Negoziazione: le tipologie La negoziazione competitiva (ripartitiva) La negoziazione collaborativa (generativa) La negoziazione multi-fase La negoziazione multi-parte La negoziazione operativa CAPITOLO 3 Nascita della negoziazione operativa Monaco 1972 FBI Hostage Rescue Team (HRT) Alcuni corpi speciali CAPITOLO 4 Le figure nel sequestro Gli ostaggi L’offender Il negoziatore La liberazione

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Prefazione

Introduzione

CAPITOLO 1

Negoziazione: Processes International Negotiation (PIN) e Harvard

CAPITOLO 2

Negoziazione: le tipologie

La negoziazione competitiva (ripartitiva)

La negoziazione collaborativa (generativa)

La negoziazione multi-fase

La negoziazione multi-parte

La negoziazione operativa

CAPITOLO 3

Nascita della negoziazione operativa Monaco 1972

FBI Hostage Rescue Team (HRT)

Alcuni corpi speciali

CAPITOLO 4

Le figure nel sequestro

Gli ostaggi

L’offender

Il negoziatore

La liberazione

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CAPITOLO 5

Vittimologia:

Modelli di comportamento di base

L'identificazione della vittima con gli aggressori

Le patologie indotte sugli ostaggi

Patologie a cui va incontro il negoziatore

CAPITOLO 6

Breve storia italiana

CAPITOLO 7

Scenario e contesto

CAPITOLO 8

Sequestro a scopo di estorsione

Dinamica e struttura del sequestro estorsivo

Sequestro ad opera individui con disturbi mentali

Sequestro a causa di conflitto bellico

Emergenza e crisi

CAPITOLO 9

Terrorismo

Comportamento terrorista

Sfruttamento dei media

Preparazione e supporto

La jihad globale

Più comuni attacchi terroristici

Tendenze future del terrorismo

Il piano d’azione della NATO

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CAPITOLO 10

Sequestro terroristico

Conosci il tuo terrorista

Al Qaida manuale per il sequestro

CAPITOLO 11

Il compito della negoziazione

Il team di negoziazione e le sue caratteristiche

CAPITOLO 12

Comunicazione umana : l’uso strategico

L'impossibilità di non comunicare

I livelli comunicativi di contenuto e relazione

La punteggiatura della sequenza di eventi

Comunicazione numerica e analogica

L'interazione complementare e simmetrica

Il concetto di sistema

Il paradosso e il doppio legame

Il problem solving strategico

CAPITOLO 13

Tecniche di comunicazione persuasoria

CAPITOLO 14

Negoziazione operativa: l’arte della creatività flessibile

I principi del negoziato

Il decalogo del FBI

Cross-culturale

Bibliografia

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INTRODUZIONE La negoziazione non è un'opzione. Non è fermarsi ad aspettare e vedere quello che

accade, e se magari le cose si sistemino da sole.

Si tratta di una vera strategia che offre la miglior opzione per la salvaguardia

dell'ostaggio , dei vari soggetti coinvolti, del sequestratore e delle forze dell’ordine.

La negoziazione offre il migliore mezzo attraverso il quale la vita di tutti, può essere

salvata con un rischio ridotto.

Il negoziatore deve innanzitutto pensare che la vita umana è la cosa più importante, sia

che si tratti di quella dell’ostaggio, del sequestratore o delle forze dell’ordine.

La negoziazione fornisce dati aggiornati sulla situazione, cercando di valutarne le varie

implicazioni; consente di raccogliere informazioni sul perché ci si trovi in quella

situazione, chi sono i sequestratori, chi è o chi sono gli ostaggi; per mezzo di essa si

assumono tutte le informazioni necessarie al negoziatore per svolgere il suo lavoro di

salvare vite umane.

In un sequestro con ostaggi la situazione è particolarmente a rischio, non solo per il

malcapitato. Anche lo stesso sequestratore può tentare il suicidio ed il negoziatore

deve prevenirlo ed evitarlo. La motivazione fondamentale che sta alla base di

tantissimi sequestri – sicuramente la grande maggioranza – è la volontà di accumulare

denaro in grande quantità e in tempi più rapidi rispetto alle altre attività criminali. La

motivazione economica, tuttavia, non copre l’intera gamma delle ragioni che inducono

i sequestratori a tenere segregata una persona. Ci sono anche altri obiettivi che si

intende realizzare. Avere visibilità per propagandare i propri ideali, punire una

controparte ritenuta colpevole di qualche situazione negativa che ha colpito persone o

gruppi a cui i sequestratori appartengono o altri ancora come vedremo in seguito. Il

negoziatore deve avere ben chiare le motivazioni del sequestro, che a volte possono

non essere esattamente quelle enunciate dal sequestratore. Deve quindi scoprirle per

poter condurre una efficace trattativa.

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La negoziazione è fatta di molteplici sfumature e strategie; è pertanto indispensabile

partire dai punti fondamentali per imparare come gestire situazioni fuori dal comune.

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CAPITOLO 1

Negoziazione: Processes of International Negotiation (PIN) e Harvard Negoziazione è il termine con cui si indica la conduzione di un negozio, ovvero un

affare, una trattativa (non solo in senso economico). Più in generale significa avere

un'interazione con un altro soggetto al fine di conseguire i reciproci obiettivi. Uno

degli scopi della negoziazione può essere di massimizzare il proprio beneficio (o

profitto) indipendentemente da quello della controparte, ma in generale il concetto di

negoziazione indica l'attività che coinvolge due o più individui o gruppi di persone che

comunicano interattivamente gli uni con gli altri con lo scopo di raggiungere un

accordo in merito a qualcosa.

Le teorie e tecniche di negoziazione della Harvard Law School costituiscono uno dei

riferimenti della materia.

Da questa dottrina discende la moderna “mediation”, riconosciuta a livello

internazionale quale strumento tecnico di grande interesse per la risoluzione alternativa

delle controversie civili e commerciali.

La negoziazione è una tecnica finalizzata alla ricerca di soluzioni relativamente a

processi decisionali, controversie sociali, familiari, commerciali, professionali,

imprenditoriali. Autorevoli pensatori hanno cercato di individuare l’essenza della

negoziazione giungendo ad una serie di definizioni: la negoziazione è nel processo di

relazione ove due o più parti cercano di trovare un accordo su un risultato

reciprocamente accettabile; dove due o più parti si parlano nel tentativo di comporre i

loro opposti interessi; la negoziazione viene considerata come l’azione che nasce dal

confronto di interessi, di risorse e di valori attorno a uno o più oggetti; “processo di

interazione con il quale due o più parti in conflitto cercano di massimizzare i propri

interessi con un’azione congiunta”.

Nel contesto delle dottrine di riferimento le due scuole di maggiore rilevanza

internazionale sono quella di Harvard e quella europea del Processes of International

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Negotiation (PIN).

La prima, evidentemente, si identifica con l’Università di Harvard, la seconda si regge

sugli studi e le ricerche di studiosi provenienti soprattutto dall’ Europa nord-

occidentale (Olanda, Germania, Francia).

La dottrina della Harvard Law School ha sviluppato l’Harvard Negotiation Project,

ossia un centro di ricerche in materia di teorie e tecniche di negoziazione. L’HNP è un

consorzio universitario dedicato allo sviluppo della teoria e della pratica della

negoziazione e della risoluzione delle controversie. Al centro delle ricerche dell’ HNP

vi è la teoria e la tecnica della “negoziazione di principi” finalizzata alla ricerca del

vantaggio reciproco anche sulla base di criteri di equità indipendenti dalla volontà

delle parti.

In Europa dicevamo la scuola di maggior rilevanza è il Processes of International

Negotiation (PIN). Si tratta di un'organizzazione non-profit costituita da un gruppo di

studiosi e professionisti che incoraggia e organizza la ricerca su un ampio spettro di

temi legati alla negoziazione internazionale visto come un processo di risoluzione dei

conflitti. I suoi obiettivi sono la diffusione di nuove conoscenze circa la negoziazione

nel modo più ampio possibile, e sviluppo di reti di studiosi e professionisti interessati

alla materia, al fine di migliorare l'analisi e la pratica della negoziazione in tutto il

mondo.

La rete PIN comprende più di 4000 studiosi e professionisti di negoziazione

internazionale. L'organizzazione è presieduta da un comitato direttivo, che organizza le

numerose attività. La segreteria del PIN ha sede presso l'Istituto olandese per le

relazioni internazionali "Clingendael" a l'Aia.

Ci sono attualmente otto membri del comitato scientifico del PIN e di due membri

associati. I membri sono: Mark Anstey, del Michigan State University di Dubai,

Rudolf Avenhaus del tedesco Defense University (che sarà sostituito da Rudolf

Schüssler Università di Bayreuth), Guy Olivier Faure della Sorbona, Fen Hampson

Osler della Carleton University, Paul Meerts di Clingendael, Valerie Rosoux

dell'Università cattolica di Lovanio, Gunnar Sjöstedt dell'Istituto Svedese di Relazioni

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Internazionali, I. William Zartman della Johns Hopkins University-SAIS. I membri

associati per progetti specifici sono Mordechai Melamud e Mikhail Troitskiy per

Caspilog. Coordinatore del PIN è Wilbur Perlot di Clingendael.

Ogni anno il Comitato direttivo conduce 1-2 workshop dedicato all'analisi e al

miglioramento della pratica della negoziazione, coinvolgendo studiosi provenienti da

numerosi Paesi, al fine di toccare una vasta gamma di competenze internazionali. Di

solito gli autori sono invitati a redigere i documenti per questi seminari. Dopo il

workshop queste documenti vengo pubblicati. Alcuni lavori pubblicati sono stati:

Power and Negotiation (2000), Escalation and International Negotiation (2005),

Negotiated Risks (2009) and Diplomacy Games (2009) (on formal modeling) are

examples of the first; Negotiating the Comprehensive Test Ban (2010), Negotiating

European Union (2003), and Climate Change Negotiations (2010).

Il comitato direttivo propone anche mini-conferenze sui negoziati internazionali al fine

di diffondere e incoraggiare la ricerca sul tema. Tali "Road Show" si sono tenute

presso il Consiglio argentino per le relazioni internazionali, Buenos Aires; Beida

University, Pechino, il Center for Conflict Resolution, Haifa, il Centro per lo Studio

della cultura giapponese contemporanea, Kyoto, la Scuola di Relazioni Internazionali,

Teheran, l'Istituto svedese di Affari Internazionali, Stoccolma, l'Università del Cairo,

l'Università Hassan II, Casablanca, l'Università di Helsinki e l'Università delle Nazioni

Unite per la Pace, San Jose, Costa Rica.

Dal 1988, il Programma di PIN è condotto da un Comitato direttivo internazionale di

studiosi, che si riunisce tre volte l'anno per sviluppare e diffondere nuove conoscenze

sui processi di negoziazione. Si tratta di una organizzazione molto attiva nella ricerca

di metodologie di negoziazione per la risoluzione dei conflitti. Riconosciuta a livello

internazionale come cardine di riferimento.

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Nella negoziazione vi sono alcuni punti ritenuti di base per affrontare la trattativa:

1. Non Contrattare sulle Posizioni

2. Separare la Persona dal Problema

Fare attenzione alla relazione

Mettersi nei panni degli altri

Discutere le percezioni

Coinvolgere la persona nel processo

Aiutare a salvare la faccia

Riconoscere le emozioni

Consentire alla persona di sfogarsi

Usare gesti simbolici

Ascoltare attivamente

Parlare di voi

Costruire una relazione che funziona

Affrontare il problema, non la persona

3. Focalizzarsi sugli Interessi, non sulle Posizioni

Chiedere perché? Perché no?

Riconoscere i diversi interessi/bisogni umani

Rendere vivi i propri interessi

Riconoscere gli interessi altrui

Mettere il problema davanti alla risposta

Guardare avanti, non indietro

Essere concreti

Essere duri sul problema, morbidi con le persone

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4. Inventare Alternative per un Mutuo Guadagno

Separare l’invenzione dalla decisione

Allargare le vostre opinioni

Guardare con gli occhi di diversi esperti

Inventare accordi di differente forza

Cambiare lo scopo

Identificare interessi comuni

Chiedere le preferenze personali

Rendere facili le decisioni personali. Chi? Cosa?

5. Usare Criteri Oggettivi

Giusti standard

Giuste procedure

Ricerca comune di criteri oggettivi

Negoziare standard appropriati

Non cedere mai alla pressione, solo ai principi

Nella negoziazione di ostaggi, come vedremo, spesso gli schemi non possono essere

applicati.

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CAPITOLO 2

Negoziazione: le tipologie

Sulla base delle dottrine internazionali e, in particolare, di quelle accennate nel

capitolo precedente, le negoziazioni possono essere classificate in diverse tipologie in

base al criterio di elaborazione delle stesse.

È d’uopo premettere, tuttavia, che tali tipologie si possono trovare congiuntamente

nella stessa trattativa in quanto nessuna negoziazione ha caratteristiche assolute, ferme,

immodificabili. Chiaramente gli aspetti prevalenti sono quelli che possono classificare

una negoziazione secondo una o l’altra tipologia.

Un primo criterio di distinzione è quello relativo all’atteggiamento delle parti “in

gioco”. Avremo, in tal caso, due tipologie: la negoziazione competitiva (ripartitiva) e

la negoziazione collaborativa (generativa).

La negoziazione competitiva (ripartitiva)

In tale tipologia le parti (o almeno una parte) trattano cercando di imporre la propria

posizione.

Tale impostazione crea una procedura negoziale ove il risultato è a “somma zero”: il

risultato positivo di una parte si contrappone al risultato negativo dell’altra. Si tratta

della negoziazione “win-lose” ove, evidentemente, ci sarà un vincitore ed un perdente.

Spesso la negoziazione competitiva ha come elemento centrale il denaro. Una parte

lavora per ricavare il massimo da una vendita, l’altra parte lavora per lasciare sul

tavolo il minimo possibile. Quindi le parti competono per raggiungere il risultato a

loro più favorevole, che si materializza nella “bottom line”(punto definitivo e

conclusivo dove le parti raggiungono l’accordo non modificabile).

In tale tipologia di negoziazione l’oggetto del contendere è uno solo e non risulta

possibile attivare azioni di “trade-off” che cerchino l’individuazione di plurime

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preferenze. La competizione è talmente prevalente che, tra l’altro, non assume alcun

valore l’aspetto relazionale tra le parti; né per il presente, né per il futuro.

La negoziazione collaborativa (generativa)

Tale negoziazione si pone in netta alternativa a quella competitiva, con l’obiettivo di

superare i suoi limiti endogeni. Si fonda sulla possibilità di trovare in una o entrambe

le parti aspetti collaborativi, aperti al ragionamento, volti alla ricerca dei reali interessi

e non fermi a posizioni spesso di sterile principio. Tale ricerca comune dei reali

interessi e, in particolare, di quelli compatibili apre la strada verso soluzioni che

massimizzano i benefici per entrambe le parti.

In questo caso si parla di negoziazione “win-win”, con parti parimenti vincitrici in

quanto in grado di individuare risultati comunemente soddisfacenti. La negoziazione

collaborativa lascia la strada della procedura a “somma zero” per quella a “somma

variabile” e, soprattutto, “accrescitiva”. Si va, insomma, prima alla creazione del

maggior valore possibile e, quindi, all’attribuzione dello stesso alle parti. Si lavora con

azioni di “trade-off” che le parti di volta in volta accettano secondo le specifiche

convenienze.

Un secondo criterio di distinzione è quello relativo alla strutturazione della

negoziazione. Anche in tal caso avremo due tipologie: la negoziazione multi-fase e la

negoziazione multi-parte.

La negoziazione multi-fase

Si parla di procedura multi-fase quando la trattativa si sviluppa attraverso diversi

momenti (sedute congiunte, sedute separate con le singole parti, sedute di riepilogo dei

punti di accordo raggiunti, sedute su specifiche tematiche complesse, ecc.). Tale prassi

presenta il vantaggio di consentire alle parti tempi e modalità per estrinsecare al

meglio i propri obiettivi ed interessi e individuare al meglio quelli altrui.

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La negoziazione multi-parte

La procedura multi-parte si attiva con più di due persone e con più di due parti. È il

caso principalmente delle negoziazioni commerciali e professionali ove gli interessi

economici in gioco richiedono l’intervento di più parti interessate. Presenta lo

svantaggio di dover trovare una difficile sintesi tra plurimi interessi spesso contrastanti

e inconciliabili.

Un’ulteriore tipologia di negoziazione riguarda i casi di emergenza e lo stato di crisi e

sarà affrontata in maniera più approfondita nei capitoli successivi inerenti alle

tipologie di sequestri di persona. In questi casi si parla di negoziazione operativa.

La negoziazione operativa

Per negoziazione operativa si intende un metodo di intervento nei casi di reati nei quali

siano presenti ostaggi mediante l'intervento di figure specializzate a trattare la

liberazione degli stessi.

La negoziazione operativa nasce pochi decenni fa ed è sempre in costante evoluzione,

poiché deve saper cambiare pur mantenendo saldi i principi, sapersi modificare come

si modifica nel tempo la tecnica dei sequestratori.

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CAPITOLO 3 Nascita della negoziazione operativa: Monaco 1972 Monaco (Germania), agosto 1972: tutto sembra pronto per dare inizio alla XX a

Olimpiade, definita Olimpiade della pace e della gioia.

La nazione tedesca con questo evento voleva far dimenticare l'immagine negativa

legata alla IIa guerra mondiale e per questo motivo sono state adottate misure di

sicurezza molto blande e controlli ridotti al minimo.

Sarà proprio questa linea tenuta dalla Germania a favorire, inconsapevolmente,

l'attacco terroristico palestinese contro la squadra israeliana, che per la prima volta

avrebbe preso parte ai Giochi Olimpici.

Per questo motivo molti studiosi datano l'inizio della negoziazione operativa ai fatti

accaduti durante le Olimpiadi di Monaco del 1972.

In quell'anno il Comitato Olimpico Internazionale (COI) aveva rifiutato la richiesta

della Federazione Giovanile Palestinese di partecipare ai Giochi: questo sarebbe stato

il pretesto preso a fondamento dell'operazione studiata e pianificata da “Settembre

Nero”, un gruppo terroristico fedayn palestinese, fondato pochi anni prima.

L'operazione prese il nome di Biraam e Ikrit.

L'azione fu preparata da alcune membri di Al Fatah ( partito per lo Stato di Israele)

chiamati Abu Daoud e Abu Iyad durante un incontro a Roma con Abu Mohammed,

dirigente di “Settembre Nero”, che pochi mesi prima mise in atto un altro attacco

terroristico con dirottamento di un aereo belga diretto a Tel Aviv, senza riuscirci.

Il commando terrorista che la notte del 5 Settembre 1972 fece irruzione nel villaggio

olimpico era formato da otto persone, preparate, istruite o meglio addestrate a

compiere, nel migliore dei modi, la loro missione.

Si suppone che i membri siano stati addestrati separatamente in Libia, poi si sono

recati separatamente in Germania e incontrati solo il giorno stesso per eseguire

l'operazione.

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Anche sul numero di persone partecipanti vi furono molti dubbi e molte furono le

informazioni date e ricevute in maniera non corretta; l'incertezza sul numero preciso

rimase fino alla conta finale dei morti.

I membri furono:

– Luttif Afif conosciuto come Isa, era il capo del gruppo; conosciuto grazie alle

immagini televisive nelle quali appare in volto, ricoperto di lucido per scarpe, con

cappello bianco e occhiali da sole.

– Yusuf Nazzal, detto Tony, aveva lavorato alla costruzione del villaggio,

ugualmente a Isa.

– Afif Ahmed Hamid, detto Paolo

– Khalid Jawad, detto Salah

– Ahmed Chic Thaa, detto Abu Alla

– Mohammed Safady, detto Badran

– Adnan Al-Gashey, detto Denawi

– Jamal Al-Gashey, detto Samir

I soggetti riuscirono ad entrate nel villaggio olimpico scavalcando un grande cancello,

aiutati da atleti americani, ignari di avere di fronte dei finti atleti, che come loro

rientravano tardi dopo aver bevuto un po'; i membri portavano con se grandi borsoni

pieni di armi.

I guerriglieri alle 4.30 entrarono nel primo appartamento dove Yossef Gutfreund -

arbitro di lotta greco romana - gli aprì la porta inconsapevolmente perché insospettito

da rumori che provenivano dall'esterno.

Moshe Weinberg - allenatore di lotta greco romana - tentò di colpire con un coltello

uno dei terroristi e venne colpito da una pallottola che gli perforò la guancia; egli

venne portato nell'appartamento tre, come monito, dove si ripeté quasi la stessa scena.

Gad Tsobari - pesista - dopo una colluttazione riuscì a scappare dando l'allarme,

mentre anche una donna delle pulizie diede l'allarme a sua volta dopo aver sentito

alcuni spari che probabilmente avano ucciso Yossef Romano, altro pesista, e Weinberg

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.

Dopo circa un'ora il corpo di quest'ultimo venne gettato in strada a dimostrazione delle

intenzioni dei terroristi e a seguire furono gettati due fogli che contenevano le richieste

dei sequestratori: liberazione di 234 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, e di

due terroristi detenuti in Germania.

Gli altri atleti presi in ostaggio erano: David Berger e Ze'ev Friedman entrambi pesisti,

Eliezer Halfin e Merk Slavin entrambi lottatori, Amitzur Shapira allenatore di atletica

leggera, Kehat Shorr allenatore di tiro a segno, Andrè Spitzer allenatore di scherma e

Yakov Sprinter arbitro di sollevamento pesi. Tutti perderanno la vita nella fase finale

dell'attacco.

Il commando attendeva il rilascio per le nove del mattino, in caso contrario avrebbe

ucciso tutti gli ostaggi, uno ogni ora; questa scadenza venne prorogata diverse volte

fino alle ventuno.

Nel frattempo i Giochi Olimpici continuarono regolarmente fino al pomeriggio e

venne istituita un'unità di crisi composta dal capo della Polizia tedesca, dal Ministro

federale degli Interni e dal Ministro degli Interni della Baviera. Fu immediatamente

informato anche il Primo Ministro israeliano Golda Meir che si rifiutò fermamente di

cedere alle richieste di “Settembre Nero”.

Dopo vari tentativi di trattare con i terroristi, l'unità di crisi acconsentì di trasferire il

gruppo a bordo di due elicotteri, per raggiungere l'aeroporto di Furstenfeldbruck dove

avrebbero trovato a disposizione un aereo con destinazione Il Cairo, in Egitto.

I cinque tiratori scelti posizionati a bordo pista, guidati dal vice-capo della polizia G.

Wolf, aprirono il fuoco nel momento in cui i sequestratori scesero dagli elicotteri.

Mossa tattica che condannò a morte tutti gli atleti, alcuni a causa di una bomba lanciata

nel loro elicottero, altri uccisi proprio per mano dei terroristi.

Al termine della sparatoria – durata circa un'ora – si contò che persero la vita cinque

fedayn e anche un poliziotto.

I corpi dei terroristi morti furono trasferiti in Libia e i tre sopravvissuti arrestati.

Si conclude con un tragico bilancio l'episodio, conosciuto in tutto il mondo, che segnò

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la svolta nelle modalità operative e di gestione delle situazioni di crisi, da parte di

quasi tutti i corpi di Polizia del mondo.

Il primo errore su cui soffermarsi è la mancata negoziazione; al tempo dell'attentato

non esistevano squadre di negoziazione o team preparati; per questo le più alte cariche

dello Stato hanno cercato di trattare con i terroristi, purtroppo senza successo.

Altro errore da non sottovalutare è la raccolta delle informazioni, anche le più

insignificanti (Il foglio lanciato dalla finestra riportava proprio la firma di “Settembre

nero”). Esse possono provenire sia dall'ambiente sia da parte delle persone presenti,

fuggite, liberate ecc..

Lo sbaglio più eclatante, di cui lo Stato tedesco si è accorto dopo pochi minuti da

quando ha avuto inizio l'operazione, è stata la mancata sospensione dei media. Una

telecamera posizionata su una torre di fronte agli appartamenti ha permesso ai terroristi

di seguire le azioni esterne e le operazioni che la polizia stava pianificando, scoprendo

e quindi annullando un tentativo di irruzione per liberare gli ostaggi.

Il piano di attacco all'aeroporto è fallito proprio per la mancanza di informazioni, che

ha portato a mal pianificare l'azione di salvataggio.

In generale la mancata preparazione per questo tipo di eventi ha creato una catena di

negligenze che gli Stati si sono promessi di non ripetere.

Di conseguenza emerge il bisogno di creare e istruire corpi specializzati capaci di

affrontare le diverse situazioni ( barricamento, sequestro, presa di ostaggi,

dirottamenti) e di collaborare con le tradizionali forze di Polizia.

Sulla base di queste considerazioni un anno dopo la strage, la Germania, per mano del

generale Wegener, dà vita al Grenzschutzgruppe 9, meglio conosciuto come Gsg9, per

rispondere alla minaccia terroristica.

Prima esisteva, soltanto negli Usa, un gruppo specializzato gli Swat, Spacial Weapon

and Tactics.

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La strage di Monaco non si conclude solo con la morte di tutti gli atleti, ma essa è la

base che da vita ad altre conseguenze. E' il pretesto per un altro attentato che ha avuto

luogo il 29 ottobre dello stesso anno.

Un aereo Lufthansa viene dirottato in cambio dei tre membri di “Settembre nero”,

sopravvissuti al massacro, e detenuti in Germania.

In un secondo momento si scoprirà che l'attacco era una finzione inventata proprio

dallo Stato tedesco per liberarsi dai terroristi, nella speranza di non essere più ricordati

per quel tragico evento.

Samir, Badran e Denawi saranno così trasferiti in Libia.

La seconda conseguenza, la più grave e duratura nel tempo, è il contro attacco

pianificato dal primo ministro israeliano Golda Meir prima del termine dello stesso

anno.

L' operazione Ira di Dio, concretizzata dal servizio segreto israeliano – Mossad – ha

come obiettivo l'eliminazione dei terroristi sopravvissuti a Monaco e di tutti i

cospiratori di Israele.

La segretissima “lista di Golda” contiene un elenco di nomi che i suoi fedelissimi

hanno il compito di uccidere, facendo in modo che tutti i bersagli sappiano che a

rivendicare la loro morte è proprio la mano di Israele.

Lo Stato decide di vendicarsi anche perché indignato dai comportamenti tenuti dai

terroristi sopravvissuti e dagli esponenti dei gruppi.

Essi saltuariamente venivano intervistati o erano ospiti di programmi televisivi,

parlavano con orgoglio e senza pentirsi delle varie stragi commesse o degli attentati

programmati.

Il piano del Mossad, anch'esso non esente da errori, avrà una durata di circa vent'anni.

Dei personaggi di spicco oggi si presume siano ancora in vita, nel continuo tentativo di

nascondersi, Al Gashey e Abu Daoud.

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Dopo Monaco la creazione delle squadre speciali

HRT Hostage Rescue Team

Si tratta di un gruppo di professionisti esperti nella gestione di situazioni con ostaggi,

pronto ad intervenire in ogni parte degli Stati Uniti in un tempo massimo di quattro ore

dalla sua attivazione.

L’HRT ha sede in un piccolo complesso all'interno della US Marine Corps Base, a

Quantico in Virginia, all'ombra dell'Accademia FBI. L'FBI Rescue Team Hostage è

l'unità principale responsabile delle operazioni antit-terrorismo negli Stati Uniti.

SAS Special air service

Nato durante la seconda guerra mondiale, anche il Sas britannico è stato rifondato,

come molti altri corpi speciali, all’indomani della strage di Monaco.

Il suo motto è “Who dares wins” (Chi osa vince).

RAID Recherche assistance intervention dissuasion

team composto da 4-6 esperti. Lo stato francese predilige la comunicazione e la

mediazione invece dell’aspetto tattico.

GEO Grupo Especial De Operaciones

E’ il team spagnolo specializzato nei casi di dirottamenti e barricamenti con ostaggi.

FSB-OSNAZ Federalnaja sluzba bezopasnosti rossijskoj federazii che si è succeduto

al famigerato Kgb

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CAPITOLO 4

Le figure del sequestro

Gli ostaggi

Gli ostaggi rappresentano una delle variabili più delicate nelle situazioni di crisi dal

momento che al valore rappresentato dalle loro stesse vite se ne possono aggiungere

altri determinati, di volta in volta, dalle specifiche caratteristiche (età, sesso, status

sociale, religione). Per questo agli occhi di un criminale asserragliato in una banca sul

piano delle trattative un ostaggio non sarà mai uguale ad un altro. Senza contare poi

che dietro alle persone prese in ostaggio ci sono quasi sempre altre persone (nuclei

familiari, istituzioni) che diventano a loro volta vittime del ricatto e delle richieste del

sequestratore. Sulla scorta delle esperienze operative possiamo individuare alcune

categorie principali di ostaggi: civili il cui valore è inversamente proporzionato all’età

(più giovane è l’ostaggio, maggiore è il suo valore aggiunto); civili con valenze

mediatiche come reporter o volontari di associazioni umanitarie in zone di guerra;

militari; politici (che, in quanto rappresentanti dello Stato, hanno il massimo del

valore); religiosi (hanno un altissimo valore solo per quella parte di popolazione che ne

condivide la confessione o l’appartenenza etnica). Chi effettua il sequestro, escluso

l’occasionale, calcola molto bene il “peso” delle persone che sta per prendere in

ostaggio.

L’offender

Strettamente legata alla tipologia degli ostaggi è ovviamente quella dell’offender, sul

cui profilo hanno fatto scuola le analisi condotte dall’Fbi a partire dalla prima metà

degli anni ’70, quando il fenomeno dei dirottamenti aerei comincia a colpire con

frequenza allarmante le linee della statunitense Twa e della El Al, compagnia di

bandiera israeliana. Secondo la polizia federale il primo approccio con i sequestratori

deve puntare a individuarne il numero e l’eventuale leader, comprendere la natura

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delle richieste e le motivazioni del gesto criminale, accertare l’esistenza di precedenti

analoghi e di eventuali rapporti con gli ostaggi. In generale i diversi profili psicologici

dei sequestratori possono essere tutti ricondotti a situazioni di crisi ben definite, quali i

falliti tentativi di evasione da prigioni con presa di ostaggi, i dirottamenti aerei, i

rapimenti di uomini d’affari, politici e diplomatici, le rapine in cui gli ostaggi servono

essenzialmente a coprire la fuga e i sequestri di persona da parte di squilibrati in cerca

di popolarità.

Il negoziatore

Una volta messo bene a fuoco lo scenario della crisi è tempo di lasciare spazio ai

tentativi di mediazione per la liberazione degli ostaggi. Il primo passo delle forze

dell’ordine, dopo aver circondato la zona e interrotto l’erogazione dei servizi essenziali

come acqua, gas, luce e aria condizionata per mettere sotto pressione psicologica i

sequestratori, sarà quello di costituire un team incaricato di portare avanti le trattative,

con ruoli definiti e un leader che faccia da portavoce. Anche in questo caso il modello

di riferimento è quello elaborato dall’Fbi, con un negoziatore principale (cui spetta il

compito di parlare con il sequestratore), uno secondario (fondamentale nel condividere

lo stress, altrimenti insostenibile per il negoziatore principale), un team leader (che

prende le decisioni) e un coordinatore, più diverse figure di tecnici e di esperti. In Italia

un’ipotesi di costruzione di un team negoziale, la cui novità rispetto al modello

statunitense è rappresentata dall’introduzione della figura dello psicologo, è stata

avanzata da alcuni funzionari della Polizia di Stato. In entrambi gli schemi il compito

più arduo spetta al negoziatore principale: conquistare, cioè, la fiducia del

sequestratore e spingerlo a rilasciare gli ostaggi senza dover ricorrere a blitz armati.

Per il negoziatore si tratta di dare inizio a una delicata partita fatta di mosse e

contromosse, giocata quasi sempre sul filo delle proprie capacità comunicative, la cui

efficacia può essere comunque aumentata grazie all’uso della tecnica del cosiddetto

“ascolto attivo”, riassumibile in sette punti: incoraggiamenti minimi (risposte e

commenti brevi, dati al momento giusto); parafrasi (ripetere con parole proprie il

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messaggio dei sequestratori); definizione delle emozioni (comprendere i sentimenti

che possono nascondersi dietro le richieste); tecnica del rispecchiare (ripetizione delle

ultime parole dei rapitori come dimostrazione di interesse e partecipazione); domande

aperte (spingere i sequestratori a parlare più diffusamente, facendo guadagnare tempo

alla trattativa); messaggi in prima persona (aiutano a rendere più “umano” il poliziotto

incaricato della negoziazione); pause efficaci (l’uso strategico di intervalli di silenzio

abbassa il livello di rabbia e di violenza delle reazioni della controparte).

Un buon negoziatore deve dunque saper ascoltare e comprendere i bisogni dei

sequestratori, ma soprattutto deve essere bravo a bilanciare rifiuti e concessioni. Poche

le regole d’oro da seguire: cercare di ottenere sempre qualcosa in cambio per ciascuna

concessione fatta, fare in modo che i malviventi fatichino ad ottenere le cose richieste;

dilatare i tempi della negoziazione (con il trascorrere delle ore si riduce la tensione e si

affievolisce la forza delle richieste dei sequestratori). Il negoziatore principale dovrà

inoltre avere sempre ben chiaro in mente tutto quello che può essere oggetto di

negoziazione: il cibo, le bevande, gli spostamenti dei sequestratori (facendo attenzione

che ciò non avvenga liberamente), il denaro, le armi, la gestione dei mezzi di

comunicazione, ma soprattutto il rilascio degli ostaggi.

La liberazione

Nel corso della trattativa il rilascio pacifico degli ostaggi è in genere preannunciato da

alcuni segnali che il negoziatore deve essere in grado di interpretare: il linguaggio

diventa mano a mano meno violento e minaccioso, il tono della voce si abbassa così

come diminuisce la velocità degli scambi verbali, gli ultimatum scadono senza che

succeda nulla, la conversazione non è più fatta solo di frasi telegrafiche ma si fa strada

la disponibilità dei sequestratori a parlare di sé o di argomenti estranei alla crisi, fino al

rilascio di alcuni ostaggi, gesto che quasi sempre prelude a una svolta positiva della

crisi. Se la strada sembra ormai in discesa, il negoziatore non deve commettere l’errore

di bruciare i tempi abbassando il livello di guardia, perché quello del rilascio è,

insieme all’approccio, uno dei momenti più delicati dell’intero processo di

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negoziazione. Le modalità della resa devono essere stabilite nei minimi particolari,

dalla via di uscita alla posizione delle mani e del corpo del sequestratore, fino alle frasi

da scambiare con il poliziotto a cui consegnare le armi. A questo punto potrebbero

bastare un gesto, un movimento improvviso per compromettere tutto: solo quando gli

ostaggi saranno stati liberati e tutti i sequestratori disarmati e presi in consegna dagli

uomini della squadra tattica, soltanto allora il negoziatore potrà finalmente pensare che

la partita è davvero finita.

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CAPITOLO 5

Vittimologia:

Modelli di comportamento di base

Una definizione di vittimologia. La vittimologia studia la sfera bio-psico-sociale della

vittima, ma non solamente: essa studia il rapporto che la vittima ha avuto con il

proprio aggressore (quindi anche il suo ruolo agito all’interno di quella particolare

circostanza), studia il contesto ambientale (fisico e psicologico) di quello che è la

realtà, la fenomenologia della vittima entro il quale è stata compiuta un’azione

criminale e, nel caso di vittima sopravvissuta, studia le conseguenze fisiche (danni

biologici), psicologiche (traumi a breve-medio-lungo termine), e sociali (reazioni del

gruppo primario, come la famiglia, del gruppo secondario, come ad esempio gli amici,

e delle agenzie di controllo, come le forze di polizia o i tribunali). Gli scopi della

vittimologia. La vittimologia nasce come scienza autonoma all’interno di quello che

può essere l’ambito della criminologia in generale: fino agli anni ’50 la criminologia

aveva considerato la vittima, ma in modo marginale ovvero in funzione dello studio

del criminale; solo dagli anni ’50 la vittimologia ha raggiunto una sua autonomia. Gli

scopi della vittimologia sono quelli diagnostici (lo studio della vittima può essere

importante per la diagnosi della situazione e delle problematiche che emergono),

preventivi rispetto al reato e riparativi perché si prende in considerazione la parte lesa

in modo riparativo. Questo cambiamento negli anni ’50 è avvenuto perché con la

nascita della criminologia, quindi il centrare lo studio del fenomeno sull’autore di reato

e sulle sue motivazioni, si era un po’ trascurata quella che in passato era vissuta come

riparazione oppure come vendetta (nel codice arabo la pena di morte può essere

sospesa dalla grazia dei familiari della persona o delle persone uccise; negli Stati Uniti

possono partecipare all’esecuzione i familiari). Per quanto riguarda la storia attuale,

solamente nel 1985 a livello internazionale si è affrontato il problema della vittima con

la dichiarazione dell’ONU sui diritti della vittima. Dobbiamo partire quindi,

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dall'esistenza dei modelli di comportamento di base, i quali categorizzano l'essere

umano, così che lo stesso si riconosce come singolo appartenente alla stessa specie, e

ciò non nel senso morale, ma quale condizione preliminare biopsichica, di cui però fa

parte anche la capacità umana di moralizzare. Nel caso di crimine violento come il

sequestro, la paralisi causata dallo spavento dimostra l'esistenza di riflessi dell'istinto

di conservazione, i quali, in crisi estreme, entrano automaticamente in funzione. La

priorità della conservazione è evidente Si tratta di funzioni primitive, le quali sono

legate all'istinto che tende alla salvaguardia delle funzioni elementari e condizionanti

della vita stessa. Il sequestrato fà appello alla compassione, diventa inattivo e ripone la

propria fiducia unicamente in un atteggiamento che provoca reazioni di protezione e di

cura. L'inattività mentale può regredire in tale situazione fino alla fase perorale.

Quando la regressione dell'auto responsabilità, fino al punto di un appello alla

solidarietà che dovrebbe attivare la protezione, resta senza risposta valida, si risveglia

il sentimento di vendetta. Ne conseguono delusioni, sfiducia e depressioni fino ad una

situazione estrema di letargia. Heinrich von Kleist nella sua novella a sfondo storico

«Michael Kohlhaas», già nel 1810 ha descritto minuziosamente ed in modo

psicologico, come, in seguito alla vittimizzazione, una vendetta possa svilupparsi

quando l'ordine pubblico è troppo debole per poter garantire una giustizia

riconoscibile. La situazione del diritto nella nostra società, non contempla le reazioni

emotive quali le vendette, specialmente quando le stesse implicano una pianificazione

relativamente a lunga scadenza. Ne risulta il sentimento dell'impotenza, e proprio

questo sentimento crea quella situazione patologica che conosciamo, sotto il nome di

choc a distanza. Essa è dominata della disperazione di chi si sente isolato. Questa può

anche rivelarsi sotto forma di reazione paradossale, nella quale viene, cambiato il

bersaglio all'odio, quando la vittima si identifica cioè con gli aggressori.

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L 'identificazione della vittima con gli aggressori

Di questo fenomeno conosciamo parecchi esempi. Il caso più noto è forse quello di

Patricia Hearst, figlia del ricchissimo editore statunitense Hearst. Altri esempi sono

riscontrabili nel dramma dei sequestri aerei di Zerqa nel 1970 e nell'affare dei

Molucchesi in Olanda nel 1977. Inoltre il materiale statistico della "divisione ricerche

sul terrorismo" della Rand Corporation di Santa Monica, che contiene i risultati delle

ricerche su 47 uomini sequestrati e sopravvissuti (fine aprile 1978), conferma questo

fenomeno chiamandolo "sindrome di Stoccolma" per il fatto che le ragazze tenute in

ostaggio durante una rapina in banca a Stoccolma avevano stabilito ottime relazioni

con i loro aggressori (in seguito svilupperemo la sindrome). Analogo può essere pure

considerato il fenomeno dei prigionieri russi nella seconda guerra mondiale i quali

combatterono -dopo essere stati fatti prigionieri – con le truppe hitleriane. Quando gli

aggressori offrono alle vittime da loro sequestrate la possibilità di solidarizzare con

loro, trovandosi queste in una situazione di costrizione, esse ne fanno abitualmente

uso. Si tratta di esempi tipici del funzionamento degli istinti di conservazione. La

ragione per la quale la vittima s'identifica con la volontà dell'aggressore è da cercare

unicamente nel rapporto di potere che si è venuto creando. Nei casi qui menzionati è

evidente che gli aggressori si sono dimostrati più potenti dell'ambiente protettivo

abitualmente garantito dall'ordine pubblico In tali situazioni la sequenza psichica segue

evidentemente le motivazioni contenute nella legge sul funzionamento dei gruppi

tripolari, quali sono state descritte da T .M. Mills nel 1954 e da A.F. Henry nel 1956,

sulla base della sociologia di Georg Simmel.

L'azione dell'istinto di conservazione può indirizzarsi in due diverse direzioni:

1 quella della vendetta;

2 quella della conversione, cioè dell'identificazione con l'aggressore contro l'ordine

della società, la quale non ha saputo garantire la protezione richiesta al momento del

primo riflesso provocato dalla paralisi dello spavento.

La situazione di terrore ha così un effetto di ri-orientamento, il quale può essere anche

definito “rieducazione per mezzo della costrizione”.

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La sindrome di Stoccolma promuove inverosimili rapporti affettivi tra le vittime di

sequestro di persona ed i loro rapitori; sembra essere una risposta emotiva automatica,

spesso inconscia, al trauma del diventare ostaggio e coinvolge sia i sequestrati che i

sequestratori. Infatti consiste, generalmente, di tre fasi: sentimenti positivi degli

ostaggi verso i loro sequestratori, sentimenti negativi degli ostaggi contro la polizia o

altre autorità governative, reciprocità di sentimenti positivi da parte dei sequestratori.

Il termine “sindrome di Stoccolma” è stato utilizzato per la prima volta da Conrad

Hassel, agente speciale dell’FBI, in seguito ad un famoso episodio accaduto in Svezia

tra il 25 ed il 28 agosto del 1973: due rapinatori tennero in ostaggio per 131 ore quattro

impiegati (tre donne ed un uomo) nella “camera di sicurezza” della Sveriges

Kreditbank di Stoccolma. Nonostante la loro vita fosse continuamente messa in

pericolo durante il periodo di prigionia, che fu seguito con particolare attenzione dai

mezzi di comunicazione, risultò che le vittime temevano più la polizia di quanto non

temessero i rapitori, che una delle vittime sviluppò un forte legame sentimentale con

uno dei rapitori (che durò anche dopo l’episodio) e che, dopo il rilascio, venne chiesta

dai sequestrati la clemenza per i sequestratori e durante il processo alcuni degli ostaggi

testimoniarono in loro favore.

Situazioni affettive simili a quelle descritte nel “caso originario” hanno trovato

riscontro in numerosi altri episodi di rapimento, suscitando il medesimo clamore.

Questa sindrome può interessare ostaggi e rapitori di ogni età, di ambo i sessi, di ogni

nazionalità e senza distinzione di background socio-culturale. Alcuni fattori ne

faciliterebbero l’insorgere: la durata e l’intensità dell’esperienza, la dipendenza

dell’ostaggio dal delinquente per la sua sopravvivenza e la distanza psicologica

dell’ostaggio dalle autorità.

Sembrerebbe che i legami positivi tra rapitore e rapito non si formino subito, ma si

rivelino già abbastanza solidi entro il terzo giorno di prigionia. Questo potrebbe essere

giustificato dal fatto che nei primi momenti dopo il sequestro il rapito sperimenta un

totale stato di confusione, riscontrabile anche in alcune risposte tipiche al trauma:

diniego, illusione di ottenere la liberazione, attività frenetica ed esame di coscienza.

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Una volta superato il trauma iniziale, la vittima torna consapevole della situazione che

sta vivendo e deve trovare un modo per sopportarla; tutto ciò, unitamente

all’aumentare del tempo trascorso insieme da vittima e rapitore ed all’isolamento dal

resto del mondo, agevola l’alleanza col sequestratore. La mancanza di forti esperienze

negative, quali percosse, violenza carnale o abuso fisico, facilita la genesi della

sindrome; abusi meno intensi, deprivazioni ed umiliazioni tendono ad essere

razionalizzati e le vittime si convincono che la dimostrazione di forza del sequestratore

sia necessaria per controllare la situazione o giustificata da un loro comportamento

scorretto.

Spesso il legame fra sequestratore e rapito comincia sulla base di un comune

risentimento nei confronti della polizia, che il più delle volte è percepita dall’ostaggio

come minacciosa: l’insistenza per la resa del criminale e l’eventualità di un’incursione

pongono la vittima in un continuo stato d’ansia e di paura per la propria incolumità.

Inoltre, le forze dell’ordine vengono considerate meno potenti del delinquente stesso

perché, come accennato prima, hanno fallito il loro ruolo protettivo e di garanti

dell’ordine pubblico dal momento che il sequestro è avvenuto.

Una volta sviluppatasi non si conosce ancora con precisione la possibile durata di

questa sindrome, ma pare possa sussistere anche per parecchi anni. È comunque

opportuno sottolineare che anche in chi ha sviluppato la sindrome di Stoccolma si sono

riscontrati a distanza di tempo: disturbi del sonno, incubi, fobie, trasalimenti

improvvisi, flashback e depressione.

Varie sono state le spiegazioni date a questo fenomeno.

Alcuni autori ritengono che questo legame tra ostaggi e sequestratori derivi dallo stato

di dipendenza concreta che si sviluppa fra il rapito ed i suoi rapitori; questi ultimi

controllano cibo, aria e acqua, elementi essenziali alla sopravvivenza, rinforzi che da

un punto di vista comportamentale, quando vengono concessi, giustificherebbero la

gratitudine e la riconoscenza che gli ostaggi manifestano nei confronti dei loro

carcerieri. Altri autori, la maggioranza a dire il vero, affrontano invece il fenomeno da

un punto di vista più tipicamente psicoanalitico; in generale, affermano che l’Io nel

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tentativo di trovare un equilibrio fra le richieste istintive dell’Es ed una realtà

angosciosa non può far altro che mettere in atto meccanismi difensivi (Secondo Freud

esistono tre istanze della personalità. l'es ,l'io, il Super-io. L'es è ciò da cui ha origine

ogni relazione istintuale, ma anche le pulsioni di morte. Possiamo definirlo come la

sede di tutto ciò che è irrazionale, impulso, istinto. Il Super-io, al contrario,

rappresenta la regola, la razionalità. E' ciò che gli altri credono giuso che tu faccia. Per

cui è dettato dall'interazione con la società. Il Super-io agisce secondo una logica

convenzionalmente riconosciuta come "giusta" dagli altri, e non da ciò che l'individuo

realmente desidera. L'io è il mediatore tra queste due istanze).

I due meccanismi di difesa ai quali viene più spesso fatto riferimento sono la

regressione e l’identificazione con l’aggressore. Per quanto riguarda la regressione, la

priorità della conservazione mette in atto funzioni istintive, di carattere infantile, così il

sentimento reattivo della vittima si concretizza in un atteggiamento teso a provocare

protezione e cura; l’ostaggio è simile al neonato: deve piangere affinché gli venga dato

da mangiare, non può parlare, è costretto all’immobilità, è in uno stato di totale

dipendenza da un adulto onnipotente e ha paura di un mondo esterno vissuto come

minaccioso. L’identificazione con l’aggressore, invece, fa sì che il dato di realtà

relativo alla natura ostile del persecutore venga distorto; la paradossale condivisione

del punto di vista del persecutore permette al soggetto di superare il conflitto psichico,

dato da un lato dalla dipendenza da un aggressore minaccioso e dall’altro

dall’impossibilità di “liberarsene” o sfuggirgli proprio perché subordinato a lui, col

vantaggio secondario del ritenere giustificate, e quindi meno intollerabili, le angherie

che da lui provengono.

L’autore del sequestro, a sua volta, “subisce” un’identificazione inversa. Quanto più

un ostaggio riesce a farsi riconoscere nella sua identità, tanto più diventa difficile per il

sequestratore fargli del male. È infatti provato che la maggior parte delle persone non

riesce a fare del male ad altri individui, a meno che la vittima non resti anonima.

Inoltre, pare che i sequestratori provino un certo affetto nei confronti dei rapiti anche

come segno di gratitudine per la collaborazione ricevuta, forse mossi da un desiderio

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inconscio di essere amati e rispettati. A fronte di queste considerazioni, sempre più i

rapitori, escludendo quelli occasionali, si organizzano in modo da non creare rapporti

che implichino affetto con i rapiti evitando il più possibile contatti.

Le patologie indotte sugli ostaggi

Lo studio della risposta allo stress in condizioni estreme assume una fondamentale

importanza, in ambito diverso da quello militare (o in teatro bellico) , proprio perché

essa viene colta in soggetti impreparati e per assurdo già sottoposti a forti

sollecitazioni nel corso della loro vita ordinaria.

Innanzitutto va chiarito che essere presi in ostaggio è un trauma. Contrariamente ad

altre situazioni traumatiche, però, in questa condizione generalmente non viene meno

la possibilità di trasformare la sofferenza in svariate maniere, in tempo sufficiente per

adattarvisi ed elaborarla con un’azione volontaria, generalmente utilitaristica.

Peter McIntyre suggerisce delle linee di condotta estremamente chiare rispetto a questo

ma che presuppongono un’informazione preventiva ed un addestramento specifico:

- avete perso il fisico ma il controllo non mentale;

- dovete prepararvi per resistere a un periodo di sforzo mentale e fisico e sopravvivere

questo avrete bisogno di un atteggiamento mentale positivo;

- per quanto possibile, provate a non mostrare le emozioni;

- usate positivamente la sensibilità per progettare come vi comporterete.

Come in quasi tutte le azioni umane la nostra psiche sceglie quella che, a minore

sforzo, offre garanzie di maggiore economicità e minore sofferenza.

In accordo con la propria predisposizione si possono avere due opposte risposte: una

rivolta verso l’esterno dei soggetti , che esprima la propria situazione in maniera da

essere colta dagli altri, ed una interiorizzata di tipo psicosomatico, della quale sono

visibili solo gli effetti involontari.

Nel primo caso si parla di sindromi vere e proprie. La più famosa e comune (per

quanto riguarda la nutrita casistica) è la cosiddetta “sindrome di Stoccolma”, descritta

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nel paragrafo precedente. La sindrome di Stoccolma è una risposta emotiva

automatica, spesso inconscia, ed è legata al trauma di essere un ostaggio; non è una

scelta razionale dell’ostaggio che, consapevole di quello che gli sta accadendo, ricorre

istintivamente o per calcolo al comportamento più conveniente per cercare di farsi

amico il sequestratore. E’ stata anche definita “sindrome del buon senso o

dell’identificazione della vittima”, proprio per il meccanismo di difesa che sta alla base

di una disperata difesa della propria esistenza (e sopravvivenza psichica) che

l’ostaggio compie durante il sequestro. Per l’instaurarsi della sindrome di Stoccolma vi

sono delle condizioni che abbiamo già analizzato.

I meccanismi di difesa degli ostaggi sono, generalmente:

- l’identificazione con l’aggressore, che viene operata inconsciamente dall’ostaggio

che si identifica con l’aggressore al fine di non essere punito o condannato;

- l’introiezione, in quanto l’ostaggio, non potendo far valere le sue richieste esistenziali

e vitali, cerca di pensare come il sequestratore per difendere i propri bisogni;

- la regressione, ossia il tornare ad uno stato di esperienza e comportamento meno

maturo e irreale. Per la vittima il sequestratore appare onnipotente, è colui che

controlla il rapporto tra l’esterno e l’interno dell’ambiente nel quale si trova l’ostaggio;

vittima e carnefice, per motivi diversi, vivono l’esterno (polizia, autorità giudiziarie,

ecc.) come una minaccia. Le armi che la polizia si appresta ad usare contro il

delinquente sono, alla fine, nella mente dell’ostaggio rivolte anche contro di lui;

- il diniego: una reazione di rifiuto che subentra nel momento in cui la mente non è più

in grado di sostenere l’alterata condizione ambientale. Per sopravvivere la mente

reagisce come se non fosse accaduto nulla.

Un esempio classico di come la sindrome di Stoccolma possa proseguire anche dopo

che la condizione di stretta sudditanza e di minaccia diretta sia tecnicamente terminata

è il già citato caso di Patricia Campbell Hearst, ricca ereditiera californiana rapita il 4

febbraio 1974 dall’esercito di liberazione simbionese. Iniziato come sequestro di

persona a scopo di estorsione, appena dieci settimane dopo la vittima, divenuta amante

di uno dei suoi rapitori, ne diventa complice in una rapina in banca.

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Un altro esempio di reazione che può colpire l’ostaggio in condizioni di particolare

tensione è quello che è stato definito sindrome di Londra, in cui uno o più ostaggi

manifestano un atteggiamento di non cooperazione o belligeranza nei confronti dei

sequestratori. Tale comportamento è emerso durante l’assedio dell’Ambasciata

iraniana di Londra nel 1980. In quell’occasione l’ostaggio Abbas Lavamani reagì allo

stress con un atteggiamento particolarmente polemico e litigioso proprio nei confronti

dei sequestratori e in aperto disaccordo con gli altri sequestrati. Dopo alcuni giorni di

assedio, al momento della scelta di chi uccidere a scopo dimostrativo venne scelto

proprio lui, in quanto (probabilmente) elemento di pericolo e di disaccordo all’interno

della comunità omogenea creatasi tra rapitori ed ostaggi “collaborativi”.

Un altro caso si ebbe nel giugno 1986 a Beverly Hills, durante una rapina degenerata

in asserragliamento, quando fu uccisa una guardia giurata (stesa e con la faccia a terra).

Il sequestratore poi spiegò la sua scelta affermando che <<lui gli stava parlando alle

spalle>>.

Altra reazione emotiva estrema identifica una ulteriore sindrome, definita “sindrome

del brontolone isterico”, che consiste nell’incapacità della vittima di non attrarre

l’attenzione su di sé con pianti e implorazioni di grazia e autocommiserazione.

Esempio di tale situazione è la crisi avvenuta a Rochester, New York, nel 1985. Un

asserragliamento di un uomo di colore con ostaggi bianchi e neri, iniziato per una

rivendicazione anti-razziale, terminò con l’uccisione di un ostaggio (donna)

afroamericano perché aveva sottolineato continuamente la diversità della propria razza,

implorando pietà e piangendo insistentemente e continuamente.

Esistono contemporaneamente delle sintomatologie psicosomatiche indotte dallo stress

della condizione di ostaggio. La letteratura medica le associa, in genere, alla generica

condizione del recluso, e sulla loro sussistenza e diretta dipendenza da quella

condizione pare ci sia universale consenso. Nelle circostanze sopra descritte tuttavia

vanno prese in considerazione e valutate attentamente dal negoziatore non per la

gravità della malattia in sé, quanto per l’influenza che queste possono esercitare sul

comportamento del sequestratore.

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Patologie a cui va incontro il negoziatore

La situazione che si trova a fronteggiare il negoziatore, soprattutto se protratta nel

tempo con sequestri che possono durare diversi giorni e più, può creare in lui uno stato

d’ansia permanente. Lo stato d'ansia può trasformarsi in una sorta di circolo vizioso

che conduce all'isolamento ed all'esaurimento. La cattiva percezione dello stress può

portare ad eccessi di euforia e/o stati di profonda depressione. Nel lungo periodo la

situazione può trasformarsi nella cosiddetta “sindrome di burn-out”. La sindrome di

burn-out (o più semplicemente burn-out) è l'esito patologico di un processo

stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni d'aiuto, qualora queste

non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li

porta ad assumere. Il burn-out interessa educatori, medici, insegnanti, poliziotti,

guardie penitenziarie, vigili del fuoco, carabinieri, sacerdoti e religiosi (in particolare

se in missione), infermieri, operatori assistenziali, tecnici di radiologia medica,

psicologi, psichiatri, educatori professionali in case psichiatriche protette, tecnici della

riabilitazione psichiatrica, avvocati, assistenti sociali, fisioterapisti, anestesisti, medici

ospedalieri, ostetriche, studenti di medicina e infermieristica, responsabili e addetti a

servizi di prevenzione e protezione, personale della protezione civile, operatori del

volontariato, ricercatori, ecc. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress:

il loro stress personale e quello della persona aiutata. Ne consegue che, se non

opportunamente trattati, questi soggetti cominciano a sviluppare un lento processo di

"logoramento" o "decadenza" psicofisica, dovuto alla mancanza di energie e di

capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato; in una sola parola si

“bruciano”.

In tali condizioni può anche succedere che queste persone si facciano un carico

eccessivo delle problematiche delle persone a cui badano, non riuscendo così più a

discernere tra la propria vita e la loro. Il burn-out comporta esaurimento emotivo,

depersonalizzazione, un atteggiamento spesso improntato al cinismo e un sentimento

di ridotta realizzazione personale. Il soggetto tende a sfuggire l'ambiente lavorativo

assentandosi sempre più spesso e lavorando con entusiasmo ed interesse sempre

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minori, a provare frustrazione e insoddisfazione, nonché una ridotta empatia nei

confronti delle persone delle quali dovrebbe occuparsi. Il burn-out si accompagna

spesso ad un deterioramento del benessere fisico, a sintomi psicosomatici come

l'insonnia e psicologici come la depressione. I disagi si avvertono dapprima nel campo

professionale, ma poi vengono con facilità trasportati sul piano personale: l'abuso di

alcol, di sostanze psicoattive ed il rischio di suicidio sono elevati nei soggetti affetti da

burn-out.

Le conseguenze del burn-out

Livello individuale:

-atteggiamenti negativi verso i clienti/utenti;

-atteggiamenti negativi verso se stessi;

-atteggiamenti negativi verso il lavoro;

-atteggiamenti negativi verso la vita;

-calo della soddisfazione lavorativa;

-calo dell'impegno verso l'organizzazione;

-riduzione della qualità della vita personale;

-peggioramento dello stato di salute.

Livello organizzativo:

-aumento dell'assenteismo;

-aumento del turnover;

-calo della performance;

-calo della qualità del servizio;

-calo della soddisfazione lavorativa.

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Tra i disturbi che il negoziatore potrebbe avvertire a causa del permanere della

condizione di stress cui è sottoposto non si può omettere la "compassion fatigue". Si

tratta di una fenomenologia che si genera come meccanismo difensivo verso le

difficoltà e lo stress causati dal sentimento di partecipazione profonda verso di

qualcuno che sta soffrendo. La stanchezza della compassione (nota anche come un

disturbo secondario traumatico da stress) è una condizione caratterizzata da una

diminuzione graduale della compassione nel tempo. E' comune tra le vittime di traumi

e degli individui che collaborano direttamente con le vittime di traumi. E’ stata

diagnosticata per la prima volta a degli infermieri nel 1950. I malati possono

presentare diversi sintomi tra cui disperazione, diminuzione delle esperienze di

piacere, stress e ansia costante e un atteggiamento negativo diffuso.

Questo può avere effetti negativi sugli individui, sia professionalmente che

personalmente, e può comportare anche una diminuzione della produttività,

l'incapacità di mettere a fuoco le situazioni, lo sviluppo di nuovi sentimenti di

incompetenza e il dubitare delle proprie capacità.

La sindrome di burn-out o può essere curata solo con cambiamenti radicali nella vita

professionale. Spesso necessita di adeguata psicoterapia. Si devono effettuare

interventi drastici, ma oggettivamente non sempre è possibile metterli in atto. Molto

più realistica appare l'ottica di prevenzione. Ma, poiché molti avvenimenti sui quali

non si ha alcun controllo possono portare al burn-out, vi sono dei punti da focalizzare

per cercare di prevenire la sindrome; secondo gli studi effettuati essi sono:

- responsabilità verso se stessi, conoscere le proprie motivazioni, il perché si è scelta

questa professione;

- riconoscere i propri limiti. Adeguare le proprie aspettative alla realtà;

- pensare positivo senza farsi sopraffare da pensieri irrazionali controproducenti.

Curare la salute fisica;

- tenere sotto controllo lo stress. Stabilire obiettivi chiari e precisi. Programmare

strategie per il raggiungimento di tali obiettivi. Il controllo dello stress non può essere

improvvisato, va pianificato per tempo.

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Va tenuto ben presente che queste strategie prolungate nel tempo rischiano di perdere

efficacia, perché cambia lo stress e di conseguenza devono cambiare le modalità con

cui lo si controlla.

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CAPITOLO 6

Breve storia italiana In Italia, fino alla seconda metà dello scorso secolo, il sequestro estorsivo e quello

politico tutto sommato erano stati affrontati con il vantaggio/svantaggio di non avere

un rapporto diretto con i sequestratori e tanto meno con gli ostaggi. Così l’indagine

poteva trarre spunto solo dagli elementi che restavano sulla scena del crimine o da

quelli che giungevano (quando giungevano) per via investigativa ovvero venivano

diffusi strategicamente dai sequestratori per dirigere la trattativa.

Foto dell’ostaggio col quotidiano, lembi di tessuto inviati alla famiglia del

sequestrato, istruzioni per il pagamento del riscatto fatte rimbalzare tra più soggetti

erano la consuetudine di un qualsiasi sequestro, tutte prassi nelle quali in un primo

momento non venivano coinvolte direttamente le Forze di Polizia e la magistratura.

Parallelamente e in maniera del tutto inaspettata era sorta però un’ulteriore tipologia

di sequestro e, per forza di cose, di mediazione. L’Italia, dalla metà degli anni ’60 si

era dovuta confrontare con un fenomeno, quello del dirottamento aereo, che negli

Usa e nell’Europa centrale aveva già una lunga tradizione.

Siamo ancora però in un contesto che vede l’Italia alle prese con la delinquenza

comune e il terrorismo politico domestico, immune e impermeabile a quanto sta

succedendo nel resto dello scenario extraeuropeo. Peraltro, in Germania Ovest si

ritiene di essere alle prese principalmente solo col terrorismo politico, come pure in

Spagna e nel Regno Unito alle prese con quello politico indipendentista. Tutti eventi

localizzati e apparentemente sconnessi; la storia poi chiarirà varie contaminazioni tra

questi fenomeni.

Sino al sequestro e dirottamento della nave da crociera italiana “Achille Lauro” da

parte del fronte per la liberazione della Palestina (FLP) avvenuto al largo delle coste

egiziane nell’ottobre del 1985, in Italia non vi è una reale coscienza politica e

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investigativa dell’evoluzione che l’Hostage keeping (sequestro di persona) sta

compiendo.

Nel 1975, quindi all’indomani della strage di Monaco, il sequestro di persona era

considerato, definito e studiato principalmente come di tipo estorsivo ed endemico di

alcune ristrette zone “provincia di Nuoro in Sardegna”, quindi con metodologie

investigative classiche e limitate.

Nel concreto quotidiano e con meno miopia invece alcuni operatori si trovano ad

affrontare delle condizioni del tutto inaspettate, che oggi si chiamerebbero di “ crisi

con ostaggi” e di “asserragliamento”. Nel 1975 a Milano, in pizza Insubria , un

giovane funzionario di Polizia, il dott. Achille Serra , si trova ad affrontare una

situazione in cui due banditi restano barricati in una banca circondata dalla polizia

stessa. Ha poche certezze: si tratta di delinquenti comuni, sa anche che pochi mesi

prima, in altra circostanza, una mediazione era stata tentata con un insuccesso totale

sia per l’incolumità degli ostaggi che per quella dei banditi, proprio perché essa aveva

portato all’accoglimento delle richieste dei banditi. Egli inventa una strategia, che se

pur definibile istintiva e spontanea rispetta tutti i canoni della mediazione classica

con soggetti non distruttivi.

Il successo della mediazione si ripete dopo poco e ancora per molte altre volte.

Questo è il primo esempio di “mediatore istituzionale” in Italia , cioè quel poliziotto

che si assume l’onere di svolgere il proprio lavoro di investigatore-rappresentante

dello Stato salvaguardando contemporaneamente e con pari dignità sia il perpetratore

che l’ostaggio.

In maniera del tutto indipendente vi erano stati senz’altro altri che avevano tentato

delle mediazioni in simili condizioni.

Uno per tutti Giovanni Bonzio (detto “Gibo”), giornalista del Gazzettino di Venezia,

cui fu chiesto di fare da mediatore nell’agosto 1975 a Marghera in un

asserragliamento di due banditi catanesi con quattro ostaggi al bar la Triestina dopo

un fallito assalto ad una banca. Non era bastata la mediazione di un sacerdote , né

aveva avuto alcun esito l’intervento di un altrettanto famoso poliziotto italiano:

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Arnaldo La Barbera. Bonzio adotta una strategia che vista con gli occhi di oggi

sarebbe un madornale errore: si offre in cambio degli ostaggi. Bonzio e La Barbera

risolvono la crisi trattando la resa di persona e face-to-face (ulteriore errore alla luce

delle tecniche attuali) ma con il merito indubbio di salvare gli ostaggi e far arrestare i

rapinatori.

Qui, però, ancora non si intravede alcuna strategia negoziale; resta il limite di Bonzio

di essere semplicemente un “civile”, non possiede altro prestigio che la propria

specchiata fama di giornalista, il proprio nome e la forza della testata per la quale sta

“ lavorando”, acquisisce una certa autorevolezza dalla presenza del Funzionario di

Polizia ma ciascuno di loro, da solo, non è riconosciuto come mediatore.

Va detto che in quegli anni la scelta di un intervento tattico (l’esistenza stessa di

squadre tattiche deve attendere fino al 1977) non era attuabile se non con risorse e

mezzi che potevano solo accrescere il rischio di un esito disastroso.

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CAPITOLO 7

SCENARIO E CONTESTO

Burrhus Frederik Skinner (Susquehanna, Pennsylvania 1904 - Cambridge,

Massachusetts 1990) sostiene che il comportamento degli individui deve essere

oggetto di un’indagine scientifica che ne identifichi le cause. Dare una spiegazione

del comportamento umano presupponendo che a provocarlo siano sentimenti,

sensazioni, stati d’animo e, in genere, “eventi mentali”, non soddisfa criteri scientifici

e oggettivi di ricerca perché questi fattori non sono osservabili e non possono essere

oggetto di verifica sperimentale. È necessario allora evitare il “mentalismo” e

considerare solo i dati osservabili, dirigendo l’attenzione sul ruolo dell’ambiente. È

questo il piano del “behaviorismo metodologico”(comportamentismo metodologico),

il quale però ha lasciato aperto il problema della effettiva esistenza di processi

mentali, che non possono essere studiati oggettivamente ma che non per questo

possono essere ignorati. A ragione di ciò il “behaviorismo radicale”

(comportamentismo radicale) di Skinner cerca di dare anche a questi eventi una

spiegazione alternativa a quella mentalistica , riconducendo anch’essi a

“comportamenti” da porre in relazione con l’ambiente. Diverrà così possibile

estendere anche a tali aspetti l’indagine sperimentale, il controllo e la previsione che

sono propri della scienza.

Scenario e contesto hanno una importanza decisiva nell’approccio alla materia in

argomento; pur avendo in italiano significati contigui, in questa materia si

distinguono per una sostanziale differenza.

Lo scenario di una situazione di crisi fa riferimento a quanto avviene all’interno delle

interazioni tra gli elementi di base, cioè all’insieme di persone, luoghi ed interazioni

tra di essi che compongono ormai in maniera quasi definita la crisi. Lo scenario fa

riferimento, per esempio, alla sostanziale differenza che contrappone le metodologie

di approccio delle crisi nel caso di barricamento rispetto a quelle di sequestro di

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persona a scopo di estorsione (quindi con allocazione di ostaggi ignota), e ancora alla

sostanziale e antitetica differenza nel caso di perpetratore sano di mente (anche se

spinto da motivazioni ideologiche o pseudo-religiose) rispetto a colui che agisce

viziato da disturbi neuropsichiatrici. Lo scenario in definitiva è una variabile,

dipendente e prevedibile, si può affrontare con vari tagli (sociologico, psicologico,

criminologico, strettamente operativo e tattico) tutti interagenti e finalizzati alla

determinazione di punti fermi all’interno dei quali le possibilità di opzione sono state

ridotte al minimo, ma che per la loro imponderabile mutevolezza sono tuttavia

diverse da episodio ad episodio. Compongono lo scenario tanti fattori: la storia degli

atteggiamenti delle vittime primarie (gli ostaggi) in analoghe e pregresse situazioni,

l’insieme delle motivazioni alla base della crisi, o ancora la linea politica di ciascuna

delle componenti, o i vincoli giuridici imposti dalle norme (ovvero politico-giuridico-

religiosi, nel caso non raro in cui politica, religione e prassi giuridica siano tutt’uno),

o ancora le condizioni climatiche, orografiche e logistiche, o il grado di preparazione

militare della vittima primaria, la religione del perpetratore e quella attribuita

all’ostaggio, la stessa forma di governo dello stato a cui appartiene l’interlocutore

(dittatura, monarchia, democrazia parlamentare o democrazia presidenziale).

Il contesto fa riferimento, invece, a quanto è esterno e fondamentalmente preesistente

alla formazione della crisi stessa . Il contesto si può agevolmente definire una

costante. In una crisi con ostaggi che ha, per esempio, come scenario le mura di un

carcere o di un luogo di permanenza coatta, il contesto della crisi impone delle scelte

obbligate dettate dalla forma della struttura, dalla popolazione carceraria e dalla sua

composizione (detenuti in attesa di giudizio, definitivi, detenuti politici, per reati

contro la persona, piuttosto che appartenenti a organizzazioni criminali o mafiose).

Allo stesso modo il ruolo, l’esposizione e l’indipendenza dei media, in una crisi,

determinano il maggior o minor peso di uno dei fattori maggiormente significativi

nelle rivendicazioni politico-religiose: la visibilità dell’azione sino a determinarne

l’esistenza stessa. In altri termini, minore è il canale mediatico attivabile (ossia la sua

affidabilità) minore è la motivazione all’apertura di una crisi con ostaggi. Se si arriva

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a canalizzare l’operatività dei media, come avviene nei regimi ove le libertà civili

sono fortemente sottoposte all’autorità politica, ovvero nei contesti ove la censura

preventiva della stampa ha una tradizione di particolare ossequio alle esigenze

politico-operative delle autorità, si elimina da ogni schema l’unica variabile

veramente indipendente e terza rispetto allo scenario che sia il perpetratore sia gli

altri protagonisti possono influenzare direttamente.

Del contesto fanno parte anche tutte quelle scelte alternative o integrate che hanno

attinenza con la risoluzione della crisi: le scelte negoziali e le scelte tattiche, o meglio

l’integrazione delle stesse in un’unica scelta tattico-negoziale, la presenza o la

disponibilità in tempo e spazio di squadre tattiche operative e il loro maggiore o

minore addestramento.

Ogni episodio, da qualunque parte si veda, deve comunque trovare una soluzione, sia

essa di maggiore o minore gradibilità (dipende dalla aspettativa iniziale) ma

comunque non può prescindere dalla soluzione dell’empasse che, necessariamente,

anche se per breve tempo, si ha tra la fase iniziale e l’epilogo della crisi. Il tempo è

una costante determinante del contesto in cui si opera, così come le attività di

mediazione e di intervento tattico. Sia il tempo che la tattica (negoziale e operativa)

hanno acquisito regole precise e hanno ridotto quella parte di stasi o di azioni

contraddittorie che hanno stimolato lo studio di questo argomento. Il contesto, in

definitiva, è predeterminabile (e, almeno nel mondo occidentale, predeterminato) con

sufficiente approssimazione.

Le patologie mentali e il rapporto che queste hanno con l’aggressività hanno diretto

riscontro sul contesto della crisi, così come la presenza (o meno) di specifiche figure

professionali di negoziatori.

Tutti questi fattori combinati tra loro determinano il prevedibile successo o il margine

di probabile insuccesso di una situazione di crisi. Studiare lo scenario e prefigurare il

contesto, ossia determinarne una tipologia ha tale influenza sullo scenario al punto da

legare i fattori in gioco in un rapporto di causa-effetto.

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CAPITOLO 8 SEQUESTRO: LE TIPOLOGIE Sequestro a scopo di estorsione

Il sequestro a scopo di estorsione (tipologia frequente nel nostro Paese) è

particolarmente difficile da gestire, soprattutto perché le famiglie delle persone che lo

subiscono vengono costrette normalmente a non rivolgersi alle forze dell’ordine e di

conseguenza a rinunciare all’utilizzo di un negoziatore.

Generalmente i rapitori tendono a voler gestire la scelta di chi e come debba

mantenere i contatti ed eventualmente trattare. Solitamente prediligono persone della

famiglia, a volte un avvocato. Certo non preparate alla negoziazione ed emotivamente

coinvolte, e questo è uno dei punti cardine. Per negoziare non si deve essere coinvolti

nella situazione, serve ad avere maggiore lucidità.

L’utilizzo di un negoziatore professionista potrebbe riuscire a risolvere la situazione

in maniera magari più rapida e con meno problematiche per l'ostaggio. In questo

senso sarebbe utile che gli avvocati eventualmente coinvolti chiedessero aiuto se non

proprio alle forze di polizia (opzione più giusta) perlomeno a persone esperte nella

negoziazione.

Diciamo inoltre che il rapimento a scopo estorsivo, e qui vanno aperte delle parentesi,

si classifica secondo due tipologie principali, (non affrontiamo i tipi di rapimento nei

quali non è implicata la presenza anche solo eventuale di un negoziatore, come ad

esempio i rapimenti di bambini che svaniscono nel nulla): il sequestro in cui una

persona viene presa in ostaggio e tenuta segregata per diversi giorni, a volte mesi o

anni, e i sequestri lampo.

Nel primo caso lo scopo è quello di tenere il più possibile in ostaggio il sequestrato in

modo da costringere la famiglia ad assecondare le proprie richieste. I sequestrati,

almeno per quanto riguarda le esperienze del passato, venivano lasciati soli anche per

lunghi periodi, nascosti in anfratti della vegetazione, cantine, ecc.

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Per quanto riguarda la seconda tipologia, di questi si è registrato un aumento

nell'ultimo periodo; si tratta di rapimenti di persone in cui sono implicati in qualità di

ostaggi generalmente familiari di direttori di banca o di uffici postali. Vengono

sequestrati uno o più familiari, a volte tenuti in ostaggio dentro l’abitazione della

vittima dell’estorsione, con lo scopo di costringere quest’ultima ad andare nella

propria filiale, prelevare tutto il denaro possibile e consegnarlo ai sequestratori, il

tutto nell’arco di poche ore e con rischio limitato per i criminali. In questo caso

diventa impossibile realizzare una trattativa a meno che non vi sia il coinvolgimento

delle forze dell’ordine (intervenute per un qualsiasi motivo) che costringano i rapitori

ad asserragliarsi nel luogo dove si trovano con l’ostaggio, determinando in tal modo

una situazione di “sequestro in caso di emergenza”, altamente rischiosa per tutte le

parti implicate in quanto spesso questa tipologia di sequestratori è incapace di gestire

un ostaggio per lunghi periodi, cosa che richiede l’accordo e collaborazione tra più

soggetti e una preventiva dettagliata pianificazione dell’operazione; (affronteremo

più avanti i sequestri di tipo terroristico che hanno in sé molte di queste

caratteristiche).

Banche, poste ed altri soggetti a rischio potrebbero fornire ai propri dirigenti

un’adeguata formazione per affrontare e gestire nel miglior modo possibile situazioni

di questo genere, anche in considerazione del fatto che spesso chi si trova

all’improvviso coinvolto in tali sfortunate circostanze, pressato dalla tempistica

imposta dai rapitori, difficilmente riesce a mantenere la lucidità mentale necessaria ad

evitare grossolani errori di comportamento che potrebbero compromettere

l’incolumità di tutte le persone coinvolte. In ogni caso, la soluzione migliore sarebbe

riuscire ad informare le forze dell’ordine di ciò che sta accadendo.

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Dinamica e struttura del sequestro estorsivo

La crisi economica globale rischia di creare una recrudescenza dei sequestri di

persona a scopo di estorsione; per quanto concerne l’Italia negli ultimi anni era

notevolmente diminuita questa tipologia di crimine. Vasta è l’esperienza accumulata

nel nostro Paese che, senza voler scendere nei dettagli, aveva tutta una sua casistica

inerente i sequestri svolti da sardi, camorra, `ndrangheta, criminalità comune, ecc. Il

negoziatore deve pertanto conoscere le varie fasi in cui si realizzano questi tipi di

sequestro.

Il sequestro di persona a fini estorsivi può svolgersi, come meglio vedremo, secondo

diverse modalità ma, sotto qualunque forma si presenti, esso mantiene sempre alcune

costanti strutturali e dinamiche.

Esso si propone essenzialmente come una negoziazione che ha per oggetto lo

scambio di una persona, equiparata a bene economico, contro il pagamento di un

riscatto in denaro.

La somma estorta tende ad essere la più alta possibile, in quanto dimensionata alle

massime potenzialità economiche di chi la deve sborsare in rapporto all’elevatissimo

valore della posta in gioco (vita dell’ostaggio).

Elementi della negoziazione sono:

- l’asimmetria;

- l’obbligatorietà;

- il rendere oggetto l’ostaggio;

- la minaccia di omicidio con clausola sospensiva.

In effetti, benché anche nelle comuni negoziazioni non si riscontri una perfetta

pariteticità nel potere contrattuale delle parti (perché molte condizioni possono

intervenire, motivando o posizionando in maniera differenziata i contraenti), nel

sequestro di persona questa “asimmetria” diviene drammaticamente evidente, poiché

il potere contrattuale di una parte (famiglia dell’ostaggio) verso un punto zero. In

questo senso il sequestro di persona può essere definito una “negoziazione

asimmetrica”. I protagonisti di questa negoziazione sono noti: da una parte la

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famiglia, costretta a trattare pena la perdita del proprio congiunto; dall’altra i

sequestratori che, forti del possesso dell’ostaggio, impongono le condizioni e le

modalità dello scambio.

La “obbligatorietà” della negoziazione pesa soprattutto sulla parte ricattata costretta

suo malgrado, ad accettarne i termini. È peraltro vero che per i sequestratori

l’ostaggio non è un comune bene economico che abbia un valore commerciale

generale e possa essere liberamente offerto e acquistato da una potenziale pluralità di

compratori. Nel sequestro l’ostaggio ha un valore specifico solo per la sua famiglia,

che ne è l’unico acquirente possibile. La particolare negoziazione prevede un solo

offerente e un solo richiedente in posizione di monopolio bilaterale. Anche la stessa

parte ricattante è, infatti, “obbligata” ad una negoziazione unidirezionale, sebbene

scelga anticipatamente e predetermini tale unidirezionalità. Il prezzo del bene

economico in gioco non è però determinato dal mercato, ma dalla forza contrattuale

delle parti (del tutto a vantaggio dei sequestratori). Esso tuttavia trova un limite nella

effettiva capacità economica della famiglia a pagare il riscatto dell’ostaggio e nel

valore ad esso attribuito. L’impossibilità o il rifiuto di pagare la somma pretesa

svuota di significato l’operazione sequestro e svaluta totalmente la “merce”

dell’unico valore che il sequestratore le riconosce: quello appunto di scambio.

La negoziazione risulta non soltanto asimmetrica e obbligatoria, ma peculiare in

quanto la materia dello scambio non è rappresentata da beni o da servizi materiali, ma

da un soggetto che viene ridotto ad oggetto di scambio. In effetti nel sequestro

l’ostaggio è totalmente mercificato; questo comporta un uso strumentale

dell’individuo e il disconoscimento del suo valore come persona.

Dallo sfruttamento della prostituzione all’omicidio, per citare solo due esempi, molti

reati presuppongono la non attribuzione di valore della vittima. Tuttavia, nel

sequestro la resa oggetto (reificazione) dell’ostaggio e la sua brutale riduzione a bene

economico non solo assumono dimensioni radicali, ma sono elementi strutturali

dell’operazione. Nel differenziato valore che le parti attribuiscono all’ostaggio risiede

appunto una caratteristica essenziale del sequestro.

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Questa relazione oppositiva (ricattati-ricattatori), avente per posta l’ostaggio, che si

rovescia in termini innaturali in una negoziazione (ostaggio = merce contro riscatto),

ha una sua dialettica che si dipana tra due poli estremi: rilascio-vita /segregazione-

morte. Il sequestratore per ottenere il riscatto (punto chiave e fine ultimo del negozio)

deve generalmente mantenere in vita il sequestrato, pena lo scadimento della

possibilità di scambio, ma è necessitato a minacciare la segregazione-morte. Questa

minaccia è indirizzata sia al sequestrato allo scopo di spingerlo a richiedere il riscatto

preteso, sia soprattutto ai familiari a cui viene costantemente paventato il rischio della

minaccia all’integrità e alla vita della vittima. In questo senso il sequestro si

configura come una particolare forma di minaccia di morte, che potrebbe definirsi

“minaccia di omicidio con clausola sospensiva”. La controprestazione è rappresentata

dal riscatto. Non essendo tuttavia l’omicidio strettamente necessario all’operazione,

esso è di norma solo minacciato: il sequestratore, per ottenere il massimo dei

guadagni, deve minacciare una morte che, in genere, non è conveniente infliggere.

L’uccisione dell’ostaggio, oltre a costituire una notevole aggravante (e quindi un

aumento obiettivo del rischio dell’operazione), rappresenta anche un fattore

determinante negativo, rafforzando la tesi secondo la quale il versamento del riscatto

non sempre garantisce la restituzione del sequestrato. Il ricattatore, che antepone il

valore del denaro a quello della vita, minacciando la vita dell’ostaggio, opera

un’inversione dei valori essenziali compartecipati da tutti i sistemi sociali. Il ricattato,

invece, mira alla liberazione del proprio congiunto e continua a mantenere la propria

scala di valori in sintonia con quella della collettività che condanna l’omicidio come

il reato più grave. Non potendo di solito rispondere totalmente alle richieste dei

ricattatori, che sono in genere sovradimensionate, la famiglia è costretta ad

impegnarsi in una trattativa commerciale imposta dalla richiesta dei sequestratori, in

cui essa stessa tende ad ottenere il massimo (ostaggio vivo e libero) al minimo prezzo

consentito nelle condizioni date. La minaccia di omicidio gioca un ruolo centrale

nella dinamica del sequestro ed è comprensibilmente vissuta dalla vittima come

estremamente pressante ed angosciosa.

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Così descritta, la negoziazione parrebbe porsi in maniera rigida e priva di margini.

Ma il frequente protrarsi nel tempo delle trattative e il loro lungo e spesso complesso

iter sembrano contraddire tale assunto. In realtà la durata e l’esito dell’operazione

sono la risultante dell’interazione dei fattori in gioco nella negoziazione stessa. Nel

sequestro di persona possono essere di norma individuate, oltre alla progettazione, le

seguenti fasi:

a) esecuzione del sequestro;

b) occultamento e prigionia dell’ostaggio;

c) contatti e trattative con i familiari dell’ostaggio;

d) pagamento del riscatto ed esito del sequestro;

e) riciclaggio delle somme estorte.

Dopo un’attenta preparazione progettata dai capi dell’organizzazione, che fa perno

anche sull’elemento locale (basista) incaricato di raccogliere e valutare informazioni

sulle potenzialità economiche del sequestrato e della sua famiglia, nonché sulle sue

abitudini di vita e di lavoro, sui mezzi di trasporto, ecc., il sequestro passa alla fase

esecutiva. L’attuazione del crimine varia a seconda delle circostanze e del luogo di

accadimento. Nel sequestro solitamente la vittima è catturata di sera, quando si

appresta a tornare a casa. Nel sequestro urbano (all’interno dei centri abitati) al

sequestrando viene in genere teso l’agguato davanti all’azienda, alla fabbrica,

all’ufficio o davanti alla propria abitazione. Nel primo caso la sua auto viene bloccata

e il prigioniero viene trasportato su quella dei rapitori, che si avvia al primo (e a volte

unico) rifugio. Nel secondo caso, l’agguato si svolge davanti (più raramente

all’interno) a ville o case relativamente isolate. Queste, scelte per assicurare la

privacy dei proprietari, divengono così luoghi ad alto rischio di sequestro.

Il sequestro tradizionale sardo aveva per teatro la campagna solitaria e deserta, dove

la vittima, sorpresa nel suo ovile o in luoghi legati alla sua attività pastorale, veniva

prelevata e trasportata in luogo un sicuro. Modalità analoghe erano eseguite in

Calabria e nella Sicilia nord-occidentale.

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In qualsiasi luogo il sequestro si verifichi, nella sua dinamica sono riscontrabili

elementi costanti che attengono a decisione, rapidità e violenza dell’azione da parte di

una banda di soggetti armati che catturano e trasportano rapidamente la vittima nel

luogo di custodia. Un elemento che gioca a favore dei sequestratori è il fattore

“sorpresa”. La violenza è una componente della cattura, ma essa non è di solito spinta

ai suoi termini estremi, poiché l’azione ha l’ovvio scopo di prelevare l’ostaggio

integro, in quanto pre-condizione per l’avviamento della trattativa. “Incidenti” sono

tuttavia possibili nel corso del rapimento, per l’opposizione dell’ostaggio o dei suoi

familiari. In casi documentati i rapitori, nell’impossibilità di piegare la resistenza del

sequestrando e/o dei soggetti minacciati, sono giunti all’uccisione del sequestrando

stesso o di membri della sua famiglia.

Una volta catturato, l’ostaggio viene trasportato nel luogo prestabilito; il suo

occultamento e la sua prigionia si diversificano a seconda delle variabili ambientali e

nei vari tipi di sequestro. In quello urbano, l’ostaggio è nascosto in stanze predisposte

di appartamenti anonimi o di ville insospettabili. In altri casi sono state utilizzate

celle in cascine o in altre costruzioni rurali, in genere non lontane dalla città, adattate

per la custodia del prigioniero. Nel sequestro pastorale che poggia sul polo rurale e

sulla latitanza, l’ostaggio viene di norma custodito in caverne, anfratti o luoghi

naturali isolati, impervi e di difficile accessibilità. Le modalità della prigionia sono

comunque tese al non riconoscimento dei luoghi e della identità dei rapitori.

L’ostaggio viene messo in condizione di non vedere (benda, cappuccio, buio), di non

sentire (tappi alle orecchie, musica, ecc.) e di non muoversi(incatenamento, spazi

ristretti, ecc.). Il trattamento durante la prigionia, nonostante le sofferenze imposte è

in generale finalizzato alla sopravvivenza del prigioniero e alla sua integrità.

Assicurata la custodia in luogo idoneo, hanno inizio le trattative. La presa di contatto

con i familiari segna una fase delicata del sequestro. I banditi possono far seguire, ad

un primo messaggio che conferma l’esecuzione del crimine, un ben calcolato periodo

di silenzio, che ha lo scopo di aumentare l’effetto dello shock provocato dalla cattura

dell’ostaggio, incrementare l’ansia dell’attesa e predisporre i familiari ad una

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trattativa il più possibile onerosa. Il mezzo ordinario di contatto, almeno nella prima

fase, è il telefono. Le comunicazioni possono essere destinate direttamente alla

famiglia, oppure a parenti, amici, legali, sacerdoti o ad estranei specificatamente

incaricati di recapitare messaggi. Anche i negoziatori per conto della famiglia

vengono normalmente scelti tra parenti, persone di fiducia o designate dagli stessi

sequestratori allo scopo di rendere più difficile l’interferenza della polizia. Nel

sequestro pastorale sardo le trattative si inseriscono nel quadro di un sistema

complesso di intermediazione che prevede diversi anelli di congiunzione tra le parti,

in un gioco più o meno scoperto di omertà che collega i due poli della negoziazione.

Risalendo questa ambigua catena si potrebbe teoricamente giungere

all’identificazione dei sequestratori, ma ciò è impedito dall’esigenza di tutelare la vita

del rapito. Nel corso dei negoziati vengono normalmente prodotte prove della

permanenza in vita del sequestrato (la più comune è l’invio di una copia di un

quotidiano firmata dall’ostaggio in calce alla data di pubblicazione). Nella maggior

parte dei casi la durata delle trattative è pari o inferiore a un mese, anche se risultano

frequenti casi di trattative durate per un periodo assai più lungo (un anno e oltre).

Chiusa la trattativa con la definizione dell’entità del riscatto, questo viene pagato

secondo modalità che seguono una procedura ormai “collaudata”. Essa consiste

essenzialmente nella prescrizione di un complesso itinerario da percorrersi nei tempi

concordati a bordo di un mezzo riconoscibile a distanza, in modo da consentire il

deposito del denaro o il contatto diretto con gli emissari dei banditi in condizioni di

sicurezza. Pagato il riscatto di norma l’ostaggio viene liberato dopo uno o due giorni.

Esistono casi di pagamento contestuali al rilascio. L’entità delle somme estorte è di

difficile quantificazione per via del numero oscuro dei sequestri lampo mai

denunciati e per la comprensibile reticenza delle famiglie a fornire informazioni

precise sull’entità dei riscatti pagati.

Il sequestro di persona, benché comporti un certo rischio di morte, si conclude

generalmente con il rilascio dell’ostaggio, anche se va sottolineato che solo il 78,13%

dei sequestrati ha fatto ritorno a casa. L’esito statisticamente più frequente è il

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rilascio dell’ostaggio dietro pagamento del riscatto (68,48%), meno frequentemente

l’ostaggio viene liberato dalle forze dell’ordine o riesce a fuggire (1,9 %). Se di

norma l’adesione alle pretese dei rapitori produce il rilascio della vittima, non sempre

il pagamento della somma pattuita copre il sequestro dai rischi di morte relativi alla

dinamica del reato: in alcuni casi l’ostaggio è stato sicuramente ucciso e in altri casi è

stato probabilmente ucciso. A questo proposito è da rilevare che, oltre alla deliberata

volontà soppressiva nei confronti dell’ostaggio da parte dei rapitori, la morte del

rapito può talvolta attribuirsi ad “incidenti”, come nel caso di ostaggi anziani o malati

che non sopravvivono alle condizioni di prigionia. L’assassinio intenzionale del

sequestrato sembra per lo più attribuibile al mancato pagamento del riscatto. Per i

motivi già esposti, l’uccisione del rapito non è strutturalmente necessaria

all’operazione del sequestro. Di norma l’eliminazione dell’ostaggio, oltre ad essere

un elemento di rischio, costituisce un fattore deterrente negativo in quanto incide

sulla fiducia che al pagamento del riscatto segua la restituzione dell’ostaggio. È

evidente che, sul piano della prevenzione tecnica del reato, impedire il pagamento del

riscatto ne costituisce il principale elemento di dissuasione; tuttavia un’ interferenza

di questo tipo tra famiglia e rapitori è considerata estremamente pericolosa per la vita

dell’ostaggio. Esiste in questo caso un reale aumento delle probabilità che il rapito

venga eliminato, anche perché, nel caso che la medesima organizzazione criminale

progetti dei sequestri futuri (o, come è accaduto, ne esegua diversi

contemporaneamente), l’uccisione dell’ostaggio può rivelarsi un elemento aggiuntivo

di persuasione sui familiari delle vittime, conferendo verosimiglianza alle minacce

dei rapitori. Analogo aumento del rischio di morte dell’ostaggio è ravvisabile qualora

le forze dell’ordine intervengano nel corso della trattativa fra rapitori e familiari

tentando, ad esempio, di catturare gli emissari dei primi ed indurli a rivelare il luogo

di custodia dell’ostaggio.

Benché l’assassinio dell’ostaggio resti non essenziale nel sequestro di persona

classico, esso può rivelarsi necessario qualora l’usuale dinamica del crimine risulti

alterata. Ciò sembra verificarsi almeno nelle seguenti situazioni: errori materiali nel

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corso del rapimento o della custodia, che portino al riconoscimento o alla possibile

individuazione degli esecutori; impossibilità tecnica della custodia quando le

condizioni che la consentono non sussistano o cessino per un qualsiasi motivo.

La morte dell’ostaggio si verifica inoltre, ovviamente, nel caso di pseudo-sequestro,

ossia di omicidio motivato da vendetta o altro, nel caso in cui si utilizza la forma del

rapimento estorsivo per ottenere un beneficio economico aggiuntivo. È ancora il caso

di evidenziare, quindi, come anche nel caso di sequestri di questo tipo divenga

estremamente importante la presenza di negoziatori di esperienza (meglio se delle

forze dell’ordine).

Una volta rilasciato o liberato l’ostaggio, o comunque chiusa la fase delle trattative,

inizia un’ ulteriore fase dell’operazione sequestro. Mentre nelle fasi precedenti i

sequestratori giocavano la partita da una posizione di forza, in quest’ultima essi sono

costretti ad operare da una posizione di relativa debolezza. Perduto il possesso

dell’ostaggio ed il controllo dei suoi familiari vengono meno infatti tutti i vantaggi

detenuti dai sequestratori. Mentre i vari nodi della negoziazione si sciolgono, poiché

la negoziazione stessa si è conclusa, i rapitori si trovano più esposti all’indagine e

all’azione degli organi di polizia, che può liberamente agire anche in base agli

elementi e alle informazioni fornite dall’ostaggio e dai suoi familiari.

In queste condizioni i sequestratori devono inoltre risolvere il problema di poter

fruire del riscatto, fine ultimo dell’intera operazione. Questa fase, che dovrebbe

rivelarsi per essi la più pericolosa, risulta in pratica sufficientemente agevole, sia per i

canali e i collegamenti di cui attualmente l’organizzazione del sequestro dispone, sia

per la carenza di strumenti legislativi e di strutture operative istituzionali in grado di

contrastare il fenomeno. Il principale canale attraverso cui il denaro “sporco” è

convertito in denaro “pulito” è costituito dalle banche. Le operazioni bancarie più

usuali sono:

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- versamento del denaro in conto corrente bancario o deposito di denaro su libretto

che lo abilita ad ulteriori operazioni; entrambe queste modalità sono spesso seguite da

richieste di assegni circolari;

- acquisto di titoli o azioni;

- cambio di valuta estera, ecc.

Altri canali sono rappresentati dagli uffici postali con depositi sui conti correnti,

trasferimento di denaro mediante vaglia, acquisto di buoni postali, ecc. Una gran

parte del riscatto normalmente è trasferita all’estero. Tramite l’esportazione

clandestina, la valuta viene spesso destinata all’acquisto di partite di droga. Nel primo

caso vengono interessati, oltre alle banche, uffici cambi in paesi esteri europei o extra

comunitari, agenzie d’affari, società finanziarie fittizie, ecc. Quando il denaro viene

immesso sul mercato mondiale della droga viene depositato in banche straniere

specie nell’area orientale, dalle quali ritorna in Italia attraverso molteplici passaggi

che ne cancellano la provenienza originaria. Le partite di droga così acquistate

trovano collocazione nella rete distributiva italiana, producendo un notevole reddito

aggiuntivo. Altre forme di riciclaggio di denaro “sporco” sono state effettuate

attraverso le case da gioco, così come risulta da diverse inchieste effettuate. La

redditività del reato, lo scarso potere dissuasivo dell’azione degli organismi preposti

che giungono generalmente all’identificazione, per di più tardiva, degli autori

materiali, ma spesso non dei loro organizzatori a più alto livello e dei loro mandanti,

rendevano il sequestro un’impresa assai fiorente.

Al termine di questa lunga analisi, torniamo ad una conclusione precedentemente

espressa: anche in questi casi sarebbe opportuno che a seguire ed effettuare la

negoziazione dell’ostaggio fosse un negoziatore preparato ed esperto, anche contro

l’iniziale diniego dei rapitori. La situazione potrebbe trovare più rapida e concreta

soluzione dimezzando i rischi per l’ostaggio, rischi che aumentano con l’aumentare

della durata del sequestro, poiché il passaggio dell’ostaggio da un gruppo di rapitori

all’altro, la segregazione in luoghi insalubri, la mal nutrizione sono tutti fattori che

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mettono in serio pericolo la vita del rapito, oltre che il vantaggio per le forze

dell’ordine di avere dati raccolti da un negoziatore professionista.

Sequestro ad opera di individui con disturbi mentali

Un’altra tipologia di sequestro è quella ad opera di individui con disturbi mentali.

Non sono facili da gestire a causa dei problemi della persona coinvolta, ma è

comunque raggiungibile una negoziazione che nella maggior parte della casistica

porta a risultati positivi (quando avviene).

Anche in questo caso sono fondamentali dialogo e ascolto: colui che commette gesti

estremi si sente in un vicolo cieco, senza più legami e futuro. Chi negozia invece

deve riportarlo coi piedi per terra, infondergli la speranza reale di potere un giorno

tornare a casa ed ancorare la sua mente all'immagine che dalle sue azioni dipendono

lo stato d’animo e le sorti delle persone a cui egli è legato. Dialogare col soggetto si

traduce soprattutto nel prendere tempo per acquisire informazioni da chi lo conosce o

lo ha in cura. Inoltre, sia per stemperare la tensione, sia per creare un immediato

rapporto con un sequestratore di questo tipo, considerato il suo stato mentale

particolarmente imprevedibile, può essere utile fornirgli del cibo. Un sequestratore di

norma riversa in uno stato di grande agitazione, sottoposto a forte stress. Mangiando,

il suo organismo stimola la produzione di endorfine che riducono la tensione. Questa

tecnica può essere usata anche in altre situazioni, sebbene sia preferibile attendere che

la richiesta di cibo e bevande arrivi dai sequestratori stessi, così da poterla mettere sul

tavolo della trattative.

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Sequestro a causa di conflitto bellico

In questa situazione, di norma, è già implicita l’intenzione di negoziare tra le parti.

Chi opera il sequestro utilizza l’ostaggio come merce di scambio, per ottenere

qualche vantaggio dal belligerante. Il diritto internazionale indica due punti

riguardante gli ostaggi:

1) Prigionieri di guerra. I prigionieri di guerra sono combattenti che in un conflitto

armato internazionale sono finiti in mano all’avversario. Anche i membri

dell’equipaggio della marina mercantile e dell’aviazione civile e altre persone che

seguono le forze armate senza appartenervi direttamente possono avere lo statuto di

prigionieri di guerra. Le condizioni di detenzione e di lavoro si basano sulla terza

Convenzione di Ginevra. I prigionieri di guerra hanno diritto alle visite di delegati del

Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR). Non possono essere perseguiti

penalmente per atti commessi nell’ambito di combattimenti ammessi dal diritto

internazionale umanitario. I prigionieri di guerra non possono rinunciare al loro

statuto. Il personale sanitario e religioso che assiste i prigionieri non è considerato

alla stregua dei prigionieri di guerra ma ha diritto a un trattamento adeguato. I

mercenari e le spie non hanno invece di regola diritto allo statuto di prigionieri di

guerra.

2)Presa d’ostaggi. La presa d’ostaggi è generalmente definita come la cattura seguita

dalla detenzione di una persona senza motivi legali, allo scopo di costringere una

terza parte a un determinato comportamento come condizione per liberare l’ostaggio

e non minacciare la sua vita e la sua integrità fisica. La presa d’ostaggi è

assolutamente vietata ed è considerata come un crimine di guerra. In questi casi, sono

esplicitamente i Governi degli stati interessati a scegliere le linee da seguire.

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Emergenza e crisi

Vi sono infine il sequestro in caso di emergenza e quello in stato di crisi.

Nel "caso di emergenza" il sequestro di persona è solo occasionale in quanto tale

azione delinquenziale nasce in un contesto che ha finalità diverse. Ci troviamo, ad

esempio, nella circostanza in cui i rapinatori non possono uscire dal luogo in cui

stanno commettendo la rapina per il tempestivo intervento delle forze dell'ordine e si

trovano, quindi, trasformati da rapinatori in sequestratori. Potrebbe essere anche

assimilato a questo il caso della rivolta in carcere. In queste situazioni il delinquente

non ha come obiettivo primario dell'azione il prendere l'ostaggio e, addirittura, questo

può talvolta rappresentare un impiccio. Il rapinatore non è pronto emotivamente e

fisicamente ad affrontare il ruolo di sequestratore, anzi si trova a gestire una

situazione che gli è sfuggita dalle mani, in un ambiente ostile nel quale deve

contrattare la propria libertà. La presenza casuale e non premeditata degli ostaggi si

riflette non poco sulle necessità ma anche sulle opportunità del sequestratore. Infatti,

se gli ostaggi rappresentano necessità che devono essere gestite, è anche vero che

sono il mezzo attraverso il quale il sequestratore può ottenere il raggiungimento dei

suoi scopi. Ugualmente, dal punto di vista del negoziatore, l’ostaggio rappresenta la

possibilità di fare concessioni al sequestratore e quest’ultimo deve sapere di non poter

chiedere nulla senza concedere qualcosa in cambio.

Nella negoziazione in stato di crisi è delineata una situazione sociale diversa, agitata

da forti tensioni politico-religioso-economiche, con stati di agitazione dell’ordine

pubblico. In questo contesto possono prendere vigore l’idea e l’applicazione di

effettuare il sequestro di persona con lo scopo di ottenere la liberazione di compagni

di lotta, fare rivendicazioni politiche, ottenere pubblicità per il movimento a cui

appartengono gli eventuali terroristi. Il sequestratore gioca un ruolo per il quale si è

preparato e non da solo, sa di avere alle spalle un'organizzazione che gli dà la forza

del senso di appartenenza e che lo appoggia nell'azione che ha intrapreso. Qui egli, o

il gruppo che ha alle spalle, ha scelto il luogo, il momento e probabilmente anche

l'ostaggio e principalmente, a differenza di quanto accade nel caso di emergenza, non

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ha necessità di negoziare per se stesso. Allo stato di crisi appartiene il sequestro

effettuato a scopi terroristici.

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CAPITOLO 9 Terrorismo - Atti criminali diretti contro lo Stato con la calcolata intenzione di creare

uno stato di panico e di terrore che avvengono fra particolari persone o

gruppi o la popolazione in generale;

-un metodo che si prefigge di creare stati di terrore per mezzo della

violenza, usata da gruppi semi-clandestini o agenti segreti di particolari

Stati e con particolari fini politici o semplicemente criminali. L'atto

criminale non è diretto verso singole persone come negli assassinii politici,

ma ha come bersaglio vittime prese a caso, vittime di opportunità, o a volte

vittime simboliche, con il precipuo intento di inviare un messaggio;

- uno stato di guerra, la drammatizzazione del peggior tipo di violenza,

inaspettata, verso vittime innocenti, con l'intenzione di creare uno stato di

paura che si estenda al di là delle vittime coinvolte.

definizione del terrorismo di G.B. Palermo, V.M. Mastronardi

Il profilo criminologico. Dalla scena del crimine ai profili socio-psicologici

Giuffrè editore,Milano, 2005

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Nell’aprile 1999 la NATO ha identificato il terrorismo come uno dei rischi per la

sicurezza dei suoi Stati membri tra quelli elencati nel Concetto Strategico (SC), e ha

approvato un concetto militare per la difesa contro il terrorismo nel vertice di Praga

del 21 novembre 2002. Molte delle sfide alla sicurezza che ha di fronte l'Alleanza,

comunque, continuano ancora a manifestarsi e rappresentano forti rischi.

Prima di addentrarci specificatamente nella negoziazione è corretto presentare un

quadro di quello che è il terrorismo. Poiché la maggior parte delle azioni di

negoziazione nel mondo si muovono in questa sfera, è primario avere una conoscenza

del fenomeno

Comportamento terrorista

C'è chiaramente una vasta scelta di definizioni di terrorismo. Nonostante questo, ci

sono elementi in comune tra la maggior parte delle definizioni utili. Essi permettono

di identificare il terrorismo come

• politico;

• psicologico

• coercitivo;

• dinamico;

• intenzionale.

Politico

Un atto terroristico è un atto politico o è commesso con l'intenzione di provocare un

effetto politico. La dichiarazione di Carl Von Clausewitz che <<la guerra è la

continuazione della politica con altri mezzi>> (dal trattato “Della guerra”, 1832) è

presa come una verità lapalissiana dai terroristi. Essi si limitano a eliminare il

passaggio intermedio degli eserciti e della guerra. La violenza è da applicare

direttamente al concorso politico.

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Psicologico

I risultati attesi di atti terroristici causano un effetto psicologico ("terrore"). Il target

previsto dell’atto terroristico potrebbe essere la popolazione nel suo complesso, una

porzione specifica di una società (una minoranza etnica per esempio) o il processo

decisionale o l’élite politico, sociale, militare o della società stessa.

Coercitivo

La violenza e la distruzione sono utilizzate nella commissione dell'atto per produrre

l'effetto desiderato. Anche se feriti o distruzione non sono il risultato di un'operazione

terroristica, la minaccia o il potenziale di violenza è ciò che produce l'effetto voluto.

Per esempio, prendendo degli ostaggi, indipendentemente dalle richieste formulate, la

merce di scambio dei terroristi è niente di meno che la minaccia, prima di applicare la

violenza per mutilare o uccidere alcuni o tutti gli ostaggi. Quando la minaccia della

violenza non è credibile, oppure i terroristi non sono in grado di concretizzare in

modo efficace la violenza, il terrorismo non riesce.

Dinamico

I gruppi terroristici chiedono un cambiamento o una rivoluzione. Una trasformazione

radicale del mondo è quella che i terroristi usano per giustificare un'azione drastica

con lo scopo di distruggere o alterare lo status quo. Questo, anche se gli obiettivi di

un movimento reazionario richiedono un "tornare indietro" o ripristinare un qualche

sistema caro, un valore estinto, i terroristi giustificano le azioni compiute o da

compiere con motivazioni, spesso vacue.

Nessuno commette attacchi violenti nei confronti di estranei o innocenti per

mantenere le cose ", proprio come sono."

Intenzionale

Il terrorismo è un'attività pianificata e destinata a raggiungere obiettivi particolari. Si

tratta di una tattica razionalmente impiegata su obiettivi specificamente selezionati, e

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non è un atto casuale. Le vittime per il terrorista spesso non contano nulla, una ha lo

stesso valore di un’altra, sono solamente utili per il raggiungimento dei loro scopi. La

selezione della vittima può essere casuale o provocata, ciò che conta è il contenuto

simbolico e le reazioni emotive che l’atto terroristico suscita sugli obiettivi prefissati.

Il target reale del terrorismo non è la vittima della violenza, ma minare l'equilibrio

psicologico della società.

Sfruttamento dei media

Nel terrorismo gli effetti non riguardano necessariamente solo le vittime della

violenza. Quest’ultime sono di solito semplicemente oggetti da sfruttare per il loro

effetto su un terzo soggetto. Per amplificare questo effetto l’organizzazione

terroristica pianifica in modo certosino lo sfruttamento dei mezzi di comunicazione

disponibili per ottenere che il messaggio ed informazioni mirate arrivino al pubblico

prescelto. Le vittime sono quindi il primo mezzo per trasmettere le informazioni e

creare l'impatto psicologico sul target più ampio possibile. Il passo successivo, sulla

base di ciò che è disponibile, è lo sfruttamento dei media, attività preventivamente

prevista ed affidata alla responsabilità di uno specifico team all’interno del gruppo

terroristico. Il team gestisce e controlla il ciclo di notizie per strutturarle a vantaggio

dei terroristi.

Alcune organizzazioni possono contare su agenzie di stampa amiche o simpatizzanti,

ma questo non è sempre necessario. I mezzi di informazione possono essere

comunque manipolati attraverso la pianificazione giocando sulla “fame” di notizie

dei media. I terroristi sfruttano le pressioni delle redazioni per segnalare rapidamente

lo "scoop" battendo sul tempo le testate concorrenti, per presentare proclami o

rilasciare dichiarazioni che potrebbero essere contestualmente confutate o

commentate criticamente se solo vi fosse stato il tempo disponibile per farlo.

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I terroristi spesso forniscono nomi e dettagli delle singole vittime allo scopo di

controllare i mezzi di informazione attraverso il loro desiderio di umanizzare e

personalizzare una storia.

Preparazione e supporto

È importante capire che le operazioni terroristiche sono il risultato di una

preparazione approfondita e di gruppi di sostegno. Mezzi di segnalazione come

accademie di ricerca, centri studi strategici ecc, si sono concentrati principalmente

sugli obiettivi dei terroristi e sulle loro azioni, che è esattamente ciò che vuole il

terrorista. Ma questo trascura il tema vitale, anche se meno emozionante, della

preparazione delle operazioni e del supporto.

Uno sforzo significativo e di coordinamento è necessario per finanziare le operazioni

del gruppo, procurare o fabbricare armi, realizzare la sorveglianza del target

dell’operazione e l’analisi, nonché per fornire terroristi addestrati per l'area operativa.

Alla luce di ciò è evidente che ogni operazione terroristica è ben poca cosa se

rapportata alla mole di denaro e di risorse spesa per realizzarla. La necessità di

attività di supporto dedicato e le risorse su semplici operazioni sono significative, e

diventano più grandi maggiore è la complessità del piano e la complessità del target.

La ricerca e l’analisi di questi fattori possono essere utili a scongiurare attacchi

terroristici.

La jihad globale

La risala ("messaggio") di Osama Bin Laden dell’aprile 2006 rivolto a tutti i fratelli

mussulmani ha confermato la volontà di attuare una jihad (comunemente intesa come

guerra santa) globale facendo appello a tutti gli uomini, donne e giovani perché si

offrissero volontariamente per attacchi suicidi. Va sottolineato che la jihad armata si

distingue in due tipi: jihad offensiva e jihad difensiva. La maggioranza dei

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mussulmani considera la lotta armata contro l’occupazione straniera o l’oppressione

da parte di un governo interno degne di una jihad difensiva. La jihad offensiva è

l’insieme di attacchi che i mussulmani perpetrano al di fuori dei loro territori. Una

jihad contro il governo afghano e le truppe della NATO presenti nel territorio non

può più essere impedita per vari motivi. I signori della guerra e i capi tribali

continuano ad essere influenti e la loro lealtà verso il regime di Kabul non è garantita.

Inoltre, l'incapacità del governo afghano nell’impedire che l’oppio riacquistasse

importanza quale merce di scambio ha avuto come conseguenza quella di migliorare

le risorse finanziarie dei terroristi, dato che nel 2006 la produzione di oppio ha

raggiunto le 6.000 tonnellate secondo le stime dell'Ufficio sulla droga e il crimine

delle Nazioni Unite.

I media occidentali ritengono che il servizio d’intelligence pakistano (ISI) fornisca

sostegno logistico ai talebani, incluso l’addestramento al terrorismo suicida. Si ritiene

infine che molti membri di al-Qaeda siano ancora alla macchia nelle terre di nessuno

lungo il confine tra l’Afghanistan e il Pakistan, dove non vige alcuna legge. Nel

frattempo, in Iraq, per la prima volta nella storia degli arabi, il potere è passato dai

sunniti agli sciiti. Nel suo Radicalization of the Sunni-Shiá Divide, Ely Karmon ha

documentato come gli sciiti iraniani sostenessero il programma degli sciiti iracheni in

tutta la regione attraverso gruppi politici locali come al-Da`waa al-Islamiya in Iraq,

Amal in Libano, Hizb-I Wahdat in Afghanistan e Tahrik-I Jafaria in Pakistan. Con la

risala del 2006 Osama Bin Laden chiama ufficialmente a sé tutti i fratelli mussulmani

per portare la jihad anche fuori dai confini afgano-iraqueni.

Il terrorismo suicida

Gli attacchi terroristici suicidi sono la forma più micidiale di terrorismo:

rappresentano appena il 3% di tutti gli atti terroristici, ma nel periodo tra il 1980 e il

2003 hanno causato il 48% di tutte le vittime del terrorismo. Tali attacchi sono passati

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da una media di tre per anno negli anni `80 a quasi cinquanta nel solo 2005. Oltre 300

attacchi suicidi in 16 paesi ― Afghanistan, Cecenia/Russia,

Cina, Indonesia, Iraq, Kashmir/Jammu, Kenya, Marocco, Pakistan, Palestina/Israele,

Arabia Saudita, Sri Lanka, Tunisia, Turchia, Stati Uniti, e Yemen ― hanno causato

oltre 5.300 morti ed oltre 10.000 feriti. Il 75% di tutti gli attentati suicidi con

esplosivo conosciuti nel mondo sono stati effettuati dopo gli attacchi terroristici

dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti.

Dobbiamo ricordare inoltre che tali attacchi possono avere notevoli conseguenze

economiche ed ambientali anche se avvengono fuori dall’Europa. Nell’ottobre 2002

una piccola imbarcazione con a bordo degli assalitori suicidi speronò con successo

una super-petroliera, il Limburg, al largo della costa dello Yemen, facendo

fuoriuscire 90.000 barili di petrolio nel golfo di Aden e causando una breve

impennata nel prezzo del petrolio.

Il terrorismo di matrice interna

In Europa il terrorismo di matrice interna continua ad essere una minaccia per la

sicurezza dei Paesi membri della NATO. Sfortunatamente il terrorismo suicida è

tollerato, e anche ammirato, dai gruppi più poveri e meno integrati di alcune

comunità mussulmane in Europa. Erano cittadini britannici quelli che hanno

compiuto nel 2005 gli attacchi suicidi contro il sistema del trasporto pubblico di

Londra. Nel frattempo le forze di sicurezza inglesi hanno sventato dei piani criminali

che prevedevano l’utilizzo di armi tossiche, come pure attacchi terroristici su aerei

civili. In Germania, negli anni passati, la polizia ha impedito dei piani che miravano a

collocare e far esplodere delle bombe su diversi treni.

È prevedibile che nel futuro, il terrorismo globale rimarrà la principale minaccia.

Fino ad ora, gli individui desiderosi di partecipare ad azioni terroristiche nel loro

stesso paese si sono dovuti recare nella regione montuosa lungo il confine tra il

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Pakistan e l’Afghanistan per il necessario addestramento. In futuro avranno a

disposizione una più ampia scelta di campi di addestramento.

I terroristi possono apprendere in Iraq i rudimenti per collocare una bomba sul ciglio

della strada, per utilizzare un’autobomba e per la guerriglia urbana, e quindi ritornare

a casa ed utilizzare tali esperienze per attaccare diversi obiettivi nei vari Paesi.

Attacchi radioattivi

Nelle “Conclusioni preliminari e raccomandazioni” del gruppo di lavoro NATO-

Russia per la ricerca avanzata del dicembre 2006 si è ipotizzato che un attacco

terroristico potrebbe utilizzare materiale radioattivo per causare un'esposizione

incontrollata alle radiazioni ionizzanti. L’utilizzo di un ordigno per la dispersione

radioattiva (RDD) avrebbe l'obiettivo di contaminare esseri umani e l’ambiente

circostante, causando il panico di massa piuttosto che la distruzione di massa.

Migliaia di elementi radioattivi potenzialmente idonei vengono utilizzati negli

stabilimenti per la ricerca, nelle istituzioni mediche, nelle strutture industriali e nei

depositi militari. La loro possibilità di utilizzo per un attacco terroristico radioattivo

differisce in modo significativo a seconda del tipo di elemento e del radioisotopo

usato. Ci sono centinaia di casi di elementi radioattivi che in campo sanitario e in

campo industriale vengono rubati, abbandonati, o perduti ogni anno in tutto il mondo.

Dato che è relativamente facile assemblare un RDD, ciò aumenta la probabilità che i

terroristi possano cercare di attuare un attacco di tal genere.

Armi di distruzione di massa

I terroristi hanno più volte dimostrato sia di avere l’intenzione sia di possedere una

parziale capacità circa l’utilizzo di armi di distruzione di massa (WMD). In Giappone

ci sono stati due episodi di diffusione del sarin nel 1994 e nel 1995; negli Stati Uniti

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più volte è stato utilizzato l'antrace nel 2001; al-Qaeda ha dichiarato la propria

intenzione di utilizzare una WMD nucleare.

Nel periodo tra il 1990 e il 2004 sono stati rilevati almeno 27 casi in cui materiale

considerato arma nucleare è stato con successo trafugato. Ancora più importante è

proteggere circa 450 tonnellate di plutonio separato militare e civile. Se i terroristi

scegliessero il percorso tecnicamente più semplice per utilizzare uranio fortemente

arricchito (HEU) per un rudimentale ordigno nucleare, avrebbero bisogno di soli 25

chilogrammi circa delle oltre 1.700 tonnellate di HEU che costituiscono le riserve

mondiali. L'individuazione della rete di mercato nero nucleare creata dal dott. Abdul

Qadeer Khan ha mostrato la debolezza dei programmi internazionali di controllo. La

possibilità, perciò, di un catastrofico attacco terroristico con WMD contro un Paese

membro della NATO non si può più escludere.

Più comuni tipi di attacchi terroristici

Bombardamenti

Gli attentati sono il tipo più comune di atto terroristico. Tipicamente, ordigni

esplosivi improvvisati sono poco costosi e facili da costruire. I dispositivi moderni

sono più piccoli e più difficili da rilevare. Essi contengono funzionalità molto

distruttive, ad esempio, il 7 agosto 1998 due ambasciate americane in Africa sono

state bombardate, gli attentati hanno causato la morte di oltre 200 persone, tra cui 12

cittadini americani innocenti, e il ferimento di oltre 5.000 civili.

I terroristi possono anche usare i materiali che sono facilmente disponibili per il

consumatore medio per costruire una bomba.

Sequestri di persona e cattura di ostaggi

I terroristi usano il rapimento e la presa di ostaggi per stabilire una posizione

contrattuale e per crearsi visibilità pubblica. Il rapimento è uno degli atti più difficili

da compiere per un gruppo terroristico, ma se un sequestro di persona ha successo

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può far guadagnare denaro al gruppo per supportare la sua causa; le altre motivazioni

che spingono al rapimento di persone sono la richiesta per il rilascio di compagni

arrestati e la pubblicità per un periodo prolungato.

La presa di ostaggi comporta normalmente, il sequestro di un impianto o di un luogo

(casa, ufficio, ambasciata, ecc.) dove effettuare l’operazione. A differenza di un

rapimento, la presa di ostaggi provoca un confronto con le autorità e le costringe

prendere decisioni a volte drammatiche.

Incendi dolosi e bombardamenti incendiari

Gli ordigni incendiari sono economici e facili da nascondere. Incendi dolosi e

bombardamenti incendiari sono facilmente condotti anche da parte di piccoli gruppi

terroristici che potrebbero non essere così ben organizzati, attrezzati o addestrati

come una grande organizzazione terroristica. Un incendio doloso o il bombardamento

contro alberghi, palazzi del governo o industrie serve per infondere l'immagine che il

governo al potere non è in grado di mantenere l'ordine. Serve a creare

destabilizzazione

Dirottamenti e skyjackings

Il dirottamento è la presa con la forza di un veicolo di superficie, dei passeggeri, e/o

del suo carico. Skyjackings è la presa di un aereo, che crea una situazione di

barricamento con ostaggio. Esso fornisce ai terroristi ostaggi di molte nazioni e attira

l'attenzione dei media in modo massiccio. Il dirottamento prevede anche la possibilità

per i terroristi di spostare il mezzo in un Paese che sostiene la loro causa. Inoltre

l’utilizzo dello scudo umano rende difficile rappresaglie.

Altri tipi di attacchi terroristici

Oltre agli atti di violenza di cui sopra, ci sono anche numerosi altri tipi di violenza

che possono esistere nel quadro del terrorismo.

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I gruppi terroristici conducono mutilazioni contro il proprio popolo come una forma

di punizione per violazioni della sicurezza, defezioni o fuga di informazioni.

Le organizzazioni terroristiche compiono rapine ed estorsioni quando hanno bisogno

di finanziare i loro atti e non hanno la sponsorizzazione da parte delle nazioni

“canaglia”.

Il cyber-terrorismo è una nuova forma di terrorismo che è in forte crescita, dovuta al

fatto che nel mondo globale e frenetico di oggi ci affidiamo a reti di computer per

trasmettere informazioni e fornire connettività. Il Cyber-terrorismo permette ai

terroristi di svolgere le loro operazioni con poco o nessun rischio. Esso fornisce ai

terroristi l'opportunità di sospendere o distruggere le reti e i computer. Il risultato è

l'interruzione delle connessioni chiave per imprese o attività. Questo tipo di

terrorismo non è di così alto profilo come altri tipi di attacchi terroristici, ma il suo

impatto è altrettanto distruttivo.

Storicamente gli attacchi terroristici con armi nucleari, biologiche e chimiche (NBC)

sono stati rari a causa del numero estremamente elevato di vittime che queste armi

producono. Tuttavia, un certo numero di nazioni coinvolte nella corsa agli armamenti

vedono lo sviluppo delle WMD come chiave deterrente ad attacchi di vicini ostili. Lo

sviluppo maggiore delle WMD aumenta anche il potenziale dei gruppi terroristici per

accedere a queste armi. Si ritiene che in futuro i terroristi avranno più possibilità di

recuperare le WMD perché le nazioni instabili possono non riuscire a salvaguardare i

loro arsenali di distruzione di massa da perdite accidentali, vendite illegali o veri e

propri furti o sequestri. Determinati gruppi terroristici possono anche entrare in

possesso di questo tipo di armamenti mediante sforzi di ricerca indipendenti o

noleggiando professionisti tecnicamente qualificati per costruirli.

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Tendenze future del terrorismo

Come metodo di conflitto che è sopravvissuto e si è evoluto attraverso vari millenni e

prospera nell'era dell'informazione moderna, il terrorismo continua ad adattarsi per

affrontare le sfide delle nuove forme di conflitto e sfruttare gli sviluppi della

tecnologia e della società; ha dimostrato inoltre di sapere stare al passo con le

crescenti misure anti-terrorismo. I terroristi stanno sviluppando nuove capacità di

attacco per migliorare l'efficienza dei metodi esistenti. Hanno altresì mostrato

progressi significativi nel passaggio da un ruolo minoritario ai conflitti stato-nazione.

Essi sono sempre più integrati con altre entità, come le organizzazioni criminali e le

società legittimamente costituite, fino ad assumere, in certi casi, una misura di

controllo e di identità con i governi nazionali.

Capacità di adattamento dei gruppi terroristici

I terroristi hanno dimostrato la capacità di adattarsi alle tecniche e ai metodi di anti-

terrorismo adottati da agenzie e organizzazioni di intelligence. Il decentramento della

forma di organizzazione della rete è un esempio di questo. Adottata per ridurre i

disagi causati dalla perdita di anelli fondamentali di una catena di comando, una

organizzazione a rete complica anche i compiti delle forze di sicurezza e riduce la

prevedibilità delle operazioni.

I terroristi si sono preparati ad utilizzare le nuove tecnologie e hanno adattato quelle

esistenti per i loro usi. Il dibattito sulla privacy dei dati informatici è stato in gran

parte spinto dallo spettro che i terroristi possano pianificare le loro azioni e la

comunicazione con i dati criptati oltre che intercettare le forze dell'ordine. Per lo

scambio di informazioni i terroristi hanno sfruttato i telefoni cellulari usa e getta,

carte telefoniche, internet cafè e altri mezzi di comunicazione anonima.

Inoltre hanno incorporato le informazioni in immagini digitali e utilizzato grafica

impiegata per permettere la comunicazione globale clandestina. Per questo i terroristi

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moderni richiedono l’utilizzo di personale ancor più preparato per consentire di

circoscrivere e debellare il fenomeno.

I terroristi hanno anche dimostrato notevoli capacità di recupero dopo l’intervento di

azioni anti-terroristiche. Alcuni gruppi si sono ricostituiti dopo essere stati sconfitti o

essere stati costretti a

dormienza. Sendero Luminoso in Perù , ha perso i suoi quadri e il suo leader

fondatore a causa della lotta al terrorismo attuata dal governo peruviano nel 1993. Il

risultato immediato fu un grave degrado nella capacità operativa del gruppo. Tuttavia,

Sendero Luminoso è torna ad operazioni rurali e organizzative al fine di ricostituirsi.

Anche se non costituisce più la minaccia che è stato, il gruppo continua ad esistere e

potrebbe sfruttare ulteriori disordini o debolezze governative in Perù per accrescere il

suo rinnovamento. In Italia, le Brigate Rosse a poco a poco sono cadute in inattività a

causa dell’azione governativa e del cambiamento della situazione politica. Tuttavia

un decennio dopo la loro presunta scomparsa, un nuovo gruppo chiamato Nuclei Anti

Capitalista è emerso presentando una continuità di simboli, stili di comunicati e

potenzialmente parte del personale dell'organizzazione originale delle Brigate Rosse.

Questa capacità di perpetuare l'ideologia e la simbologia in un periodo significativo

di dormienza, per riemergere in condizioni favorevoli dimostra la durata del

terrorismo come minaccia alla società moderna.

Capacità crescente di terroristi

I terroristi stanno migliorando la loro raffinatezza e le capacità in quasi tutti gli

aspetti delle loro operazioni. L'uso aggressivo di moderne tecnologie per la gestione

delle informazioni, della comunicazione e dell’intelligence ha aumentato l'efficienza

di queste attività. La tecnologia delle armi è diventata sempre più disponibile e il

potere d'acquisto delle organizzazioni terroristiche è in aumento. La pronta

disponibilità di tecnologia e di personale qualificato per utilizzarla per qualsiasi

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cliente con contanti sufficienti, permette ai terroristi di eguagliare o superare le

contromisure governative.

Allo stesso modo, a causa dell'aumento dei mezzi di informazione/comunicazione e

della concorrenza con un numero sempre crescente di messaggi terroristici

provenienti da ogni parte del mondo, ora queste organizzazioni criminali devono

attuare una più ampia ed incisiva attività per attirare l’attenzione dell’opinione

pubblica su sé stesse. La tendenza dei grandi media a voler aumentare lo share con

conseguente incremento delle entrate, induce i terroristi ad aumentare l’impatto e la

violenza delle loro azioni approfittando del fattore “sensazionalismo”.

Ancora una volta gli atti con sequestro di ostaggi sono quelli che consentono di avere

per maggior tempo ed efficacia le attenzioni dei media. Questo rischia di essere un

fattore importante in una recrudescenza del fenomeno. Oggi la maggior parte degli

esperti ritengono che alcune parti del Medio Oriente, Pakistan e Afghanistan siano i

centri di alimentazione principale per il terrorismo. Decenni di illegalità e la

corruzione hanno visto gruppi terroristici islamici riempire il vuoto di potere in

questa regione e continuano a rivelarsi un allarmante numero di terroristi di matrice

religiosa.

Il piano d’azione della NATO

L'Alleanza ha dimostrato in più modi la propria ferma volontà di rispondere a queste

minacce. Per esempio, in seguito all’attacco dell’11 settembre, a meno di 24 ore dalla

strage, gli alleati della NATO hanno fatto ricorso all’articolo 5, la clausola di difesa

collettiva del Trattato di Washington.

La NATO ha dispiegato aerei del sistema aviotrasportato di avvistamento a distanza e

controllo nell’operazione Eagle Assist negli Stati Uniti il 9 ottobre 2001 e forze

navali nel Mediterraneo orientale il 6 ottobre 2001 (formalmente chiamata operazione

Active Endeavour il 26 ottobre 2001). Nel vertice di Praga del 2002 gli alleati hanno

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poi approvato un comune concetto militare per la difesa contro il terrorismo.

Rimangono, comunque, molti progressi da fare.

Nei prossimi 10-15 anni i Paesi membri della NATO fronteggeranno probabilmente

le seguenti minacce: reti terroristiche sul modello di al-Qaeda che operano in modo

sempre più globale e letale; un crescente numero di Stati “falliti” o in dissoluzione in

Africa e in Medio Oriente; la crescente disponibilità di sofisticati armamenti

convenzionali, come missili terra-aria; l’uso improprio come armi di tecnologie

emergenti, come per esempio le nanotecnologie; l’interruzione dei flussi di risorse

vitali mediante attacchi contro le fonti energetiche; la proliferazione di armi

radioattive e di armi di distruzione di massa, di natura sia nucleare che biologica o

chimica. In breve, la sicurezza degli Alleati può essere messa a repentaglio da crisi

che si manifestano rapidamente in Paesi lontani, dato che gli Stati in dissoluzione

hanno dimostrato di essere un ambiente ideale per i terroristi che minacciano i nostri

territori. Le soluzioni militari tradizionali e pre-pianificate della Guerra Fredda,

tuttavia, non sono più valide. Fortunatamente, i recenti vertici della NATO hanno

adottato crescenti misure per rafforzare le capacità alleate di combattere il terrorismo.

Dal 2004 una specifica iniziativa nota come il "Programma di lavoro (PoW) sul DAT

(Difesa contro il terrorismo)", avviato sotto l’egida della Conferenza dei Direttori

nazionali degli armamenti, ha come obiettivo lo sviluppo coordinato di tecnologie

d’avanguardia per contrastare le minacce terroristiche. Le misure eventuali, fra

l’altro, includono come far fronte alle autobomba e alle bombe sul ciglio della strada;

come ridurre la vulnerabilità degli aerei dagli attacchi effettuati con missili portatili

terra-aria e quella degli elicotteri dai lanciagranate; come proteggere porti e navi da

motoscafi ed altri mezzi subacquei imbottiti di esplosivo. Inoltre, gli alleati hanno ora

a disposizione una forza di risposta rapida della NATO, (Nato response force, NRF),

costituita a Praga nel 2002 ed oggi pienamente operativa, in grado di intervenire in

qualsiasi parte del mondo entro cinque giorni dall’insorgere di un evento. La NRF

funge da catalizzatore e, di conseguenza, migliora la qualità delle forze armate alleate

sia che vengano usate per operazioni NATO, UE, ONU che nazionali.

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I paesi membri si sono detti favorevoli a meccanismi che garantiscano la creazione

delle forze a lungo termine e che consentano un approccio più sostenibile e

trasparente per garantire le future capacità della forza. Se né la NRF né l’iniziativa

per la trasformazione delle forze speciali, di recente approvata, sono state concepite

per un esclusivo uso anti-terrorismo, rafforzano però la capacità dell’Alleanza

nell’organizzare le operazioni di protezione. Questa capacità, a sua volta, si

dimostrerà senza dubbio utile nel fronteggiare le minacce che trovano origine negli

Stati in dissoluzione.

I Paesi della NATO hanno anche reagito sul piano diplomatico. Il piano d’azione del

partenariato contro il terrorismo del Consiglio di partenariato euro-atlantico, avviato a

Praga, viene annualmente aggiornato. L’Alleanza ha compiuto un altro importante

passo avanti, stabilendo una direttiva politica generale che, fra l’altro, si focalizza

sulle minacce poste dal terrorismo e dal diffondersi

delle armi di distruzione di massa.

I futuri attacchi terroristici possono essere perpetrati all’interno dei confini dei Paesi

membri della NATO sia da terroristi locali che da altri provenienti da fuori l’area

euro-atlantica. Tali attacchi possono verificarsi con breve o nessun preavviso,

utilizzando forme non convenzionali di assalti armati e facendo uso di mezzi

asimmetrici. La preparazione alla negoziazione con i terroristi diviene quindi una

priorità strategica.

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CAPITOLO 10

Sequestro terroristico La presa di ostaggi, i rapimenti e i sequestri di persona in stati di barricamento sono

situazioni che richiedono per definizione la negoziazione.

La negoziazione è un processo complicato e incerto. L'obiezione principale a quella

con i terroristi è che li incoraggia a ripetere le loro tattiche. Ma non è la negoziazione

di per sé che incoraggia il terrorismo, il problema è piuttosto il come i terroristi siano

in grado di raggiungere le loro richieste per via negoziale.

Ci sono diversi tipi di terroristi, a seconda delle loro ragioni e obiettivi potenziali

terroristi, come i rapitori e i sequestratori, cercano i negoziati; infatti negoziare per

loro è cercare di raggiungere il proprio scopo. Poi vi sono i terroristi assoluti, come

gli attentatori suicidi. In questo caso la negoziazione, come qualsiasi altra trattativa,

viene vista come un tradimento della loro stessa ragion d'essere. Alcuni terroristi

assoluti possono però essere ricondotti alla discussione e infine alla moderazione, e al

termine della negoziazione portati anche all’estremo, vale a dire la resa. La sfida del

negoziatore è quella di portare i terroristi assoluti a tale condizione, in modo da

riuscire a ridurre o modificare i loro termini iniziali.

Negoziati efficaci possono trovare inizio quando le parti percepiscono di essere

reciprocamente in una fase di stallo. Quando non si vede una via d’uscita il

negoziatore deve mantenere la pressione.

A questo punto egli può alleggerire (solo momentaneamente) la tensione offrendo

una via d'uscita, mostrando così ai terroristi che c’è qualcosa da guadagnare dalla

trattativa. Il negoziatore dovrebbe infondere ai terroristi modalità alternative rispetto

ai loro comportamenti e agli scopi che si erano prefissi; tuttavia, considerato che chi

si ritrova in quella situazione ha come unico scopo di vita riuscire a rivendicare le

proprie idee, l’operazione può essere affrontata solo in un secondo momento e con

più tempo a disposizione.

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La trattativa con i terroristi potenziali è sostanzialmente a breve termine; la

negoziazione con terroristi assoluti è prevede una strategia a lungo termine. Pazienza

e perseveranza si riveleranno fondamentali. Il negoziatore deve poter offrire a

seconda delle condizioni e dei tempi della trattativa delle concessioni ai terroristi,

sempre con lo scopo finale di smuovere la situazione e portarla a beneficio degli

ostaggi e delle forze dell’ordine. La sua bravura sta nel riuscire a far credere al

terrorista che la concessione porti vantaggio solo a lui e non fargli intuire che se

qualcosa viene concesso è perché deve portare al risultato finale positivo per la

polizia. Se il negoziatore fa concessioni al terrorista durante il processo di

negoziazione, vuole che anche il terrorista faccia delle concessioni. La linea ufficiale

dei governi è di non negoziare con i terroristi, tuttavia di frequente alla fine

negoziano sia con i rapitori, sia con gruppi politici classificati come terroristi.

Chiaramente ci sono negoziati e negoziati, così come ci sono terroristi e terroristi.

Noi non ci soffermeremo sulle questioni tecnico-legali che vi sono sulla possibilità di

negoziare con i terroristi ma cercheremo di delineare gli aspetti pratici di tali

negoziati, fornendo una guida per decidere come, quando e con chi negoziare.

Come già detto, non è la negoziazione in sé che incoraggia il terrorismo, quanto

piuttosto il grado di raggiungimento delle loro richieste. Se la negoziazione porta ad

un risultato puramente simbolico ― come ad esempio la concessione di spazio in una

trasmissione radiofonica ― i terroristi probabilmente decideranno che il risultato non

è commisurato all’azione intrapresa, non ne vale la pena. Viceversa, se la

negoziazione porta al pagamento di un riscatto, si stabilisce un precedente per i futuri

negoziati e materialmente si alimenta l’organizzazione terroristica. Così

l'incoraggiamento viene dai risultati, non dall'atto di negoziare stesso.

L’importante è chiedersi, prima di decidere se sia il caso o meno di trattare, se e con

chi valga la pena di trattare, tenendo bene in mente l’obbiettivo che si vuole e deve

raggiungere

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Conosci il tuo terrorista

Ci sono diversi tipi di terroristi, a seconda dei loro obiettivi e delle loro finalità. Da

un lato alcuni terroristi, spesso dirottatori e rapitori, vogliono negoziare usando gli

ostaggi in qualità di "merce", un po’ come accade nei sequestri di tipo estorsivo di cui

abbiamo analizzato nei capitoli precedenti la tipologia ed il comportamento.

Dall’altro, vi sono terroristi che visualizzano qualsiasi trattativa come un tradimento

delle motivazioni che li hanno portati a compiere il gesto. Essi credono che il loro

adempimento finale alla missione venga raggiunto con la morte, e vedono la propria

come un apprezzato obiettivo e quella degli altri come non importante.

I potenziali terroristi sono tipicamente rapitori e sequestratori. Mentre il terrorista

contingente cerca i negoziati al fine di scambiare le vittime del sequestro in cambio di

pubblicità, riscatto, e/o di rilascio di compagni detenuti in carcere, il terrorista

assoluto, come già detto, è totalmente coinvolto nella strategia/politica terroristica.

Normalmente esprime una frustrazione suicida, data dalla sua debole posizione e

dalla sua incapacità di cambiare le situazioni con qualsiasi altro mezzo. Il suo senso

di ingiustizia può venire dalla rivelazione (fondamentalisti), dalla rivoluzione

(rivoluzionari sociali) o dalla repulsione nei confronti di un mondo discriminatorio o

corrotto. Sente che deve qualcosa, fino all’atto estremo. Non è solo la tattica suicida

(come mezzo), ma la causa senza limiti (estremismo) che fa del terrorismo assoluto il

più pericoloso. Ma tra assoluti ci sono delle differenze. Alcuni sono totali, non

vedono alcuna possibilità di negoziazione e ogni tentativo di trattativa è complicato

dalla fermezza della loro posizione, da cui tendono a non volersi smuovere sia per

timore inconscio di perdere le loro certezze, sia perché, in caso di cedimento,

sarebbero considerati degli ignobili traditori all’interno del gruppo al quale

appartengono. A mettere ancora più a rischio la questione può intervenire l’uso di

droghe, che vengono assunte o somministrate ai terroristi per far perdere loro lo stato

di paura nella situazione che stanno affrontando.

Non tutti gli assoluti sono totali. Il punto sta nell’identificare eventuali aperture che

consentono di insinuare in loro il senso di disperazione per la condizione nella quale

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versano e nel contempo di offrire loro una speranza di soluzione mediante l’avvio di

una trattativa.

Vi sono poi gli assoluti condizionali, ossia suicidi le cui tattiche sono finalizzate al

solo scopo di raggiungere l’obiettivo, che normalmente si porta a compimento a unica

condizione della loro morte non avendo contemplato, per loro stessi, altra via

d’uscita. Gli assoluti condizionali hanno qualcosa da negoziare ― come il territorio o

l’indipendenza ― ma il loro obiettivo di solito è talmente ambizioso da non poter

essere negoziabile.

Punto chiave:

Le categorie del terrorista contingente e assoluto possono sovrapporsi e, soprattutto,

sono mobili.

La sfida di negoziazione è quella di trasformare l’assoluto totale in “non totale” per

poter avviare una trattativa.

Affrontare la situazione spostando la messa a fuoco dall’atto terroristico in sé ad altre

questioni si presenta come una buona strada per aprire al dialogo. Il terrorismo è in

ultima analisi, per loro, la ricerca di risolvere questioni strutturali come ad esempio

l’indipendenza, la povertà, la disuguaglianza o la liberazione di territori occupati, che

sono molto al di là di qualsiasi rimedio immediato. Si tratta di far comprendere al

terrorista che vi sono altre vie più concrete per cercare di raggiungere il proprio

scopo. Queste tecniche servono a creare un rapporto di scambio relazionale con il

terrorista, che trova nel negoziatore una persona che in parte capisce la sua

situazione. Questo permetterà al negoziatore di essere l’unica via d’uscita dalla

situazione e conseguentemente sarà più disponibile ad ascoltare e magari ad

assecondare le richieste del negoziatore.

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Al-Qaeda manuale per il sequestro Per capire come si muove, come ragiona e quindi poter essere in grado di negoziare

con un terrorista, come si diceva poco fa, è importante conoscerlo. Di seguito riporto

il manuale di sequestro di persona di Al Qaeda. Documento particolarmente

importante per capire le dinamiche dal punto di vista del sequestratore. (il documento

è stato tradotto cercando di rispettare totalmente la traduzione arabo-italiano, a volte

sembra non essere grammaticamente corretto nella lingua italiana ma la scelta è

voluta, il lettore riuscirà comunque a capire e comprenderne il significato).

Al-Qaeda, manuale per il sequestro di Abdel Aziz Al Moqrin Sequestro di persona a) Motivi per la detenzione di uno o più individui nemici:

1) La forza costringe il governo o il nemico a cedere alle richieste.

2) Mettere il governo nemico in una situazione difficile, che creerà imbarazzo

politico tra le forze del governo dei Paesi dei rapiti.

3) Ottenere informazioni importanti dai detenuti.

4) Ottenere riscatti. Tale fu il caso con i fratelli nelle Filippine, in Cecenia e ad

Algeri. I nostri fratelli dell'Esercito di Maometto nel Kashmir hanno ricevuto un

riscatto di 2 milioni di dollari che ha fornito buon sostegno finanziario per

l'organizzazione.

5) Portare un caso specifico alla luce. Questo è accaduto all'inizio dei casi in Cecenia

e Algeria, con il dirottamento dell'aereo francese e le con le operazioni di sequestro

eseguite dai fratelli in Cecenia e nelle Filippine.

b) Requisiti. Si deve formare un gruppo per il sequestro di persona che abbia:

1) Capacità di sopportare pressioni psicologiche e circostanze difficili. In caso di

sequestro di persona la squadra sarà molto sotto pressione.

2) Intelligenza e riflessi pronti per affrontare un'emergenza.

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3) Possibilità di prendere il controllo dell'avversario. Il fratello è tenuto a possedere

abilità di combattimento che gli permettono di neutralizzare l'avversario e prendere il

controllo del nemico.

4) Buona forma fisica e abilità di combattimento.

5) La consapevolezza dei requisiti di sicurezza prima, durante e dopo l'operazione.

6) Possibilità di usare tutti i tipi di armi leggere per sequestro di persona.

Tipi di sequestro:

- Rapimento segreto: il bersaglio viene rapito e portato in un luogo sicuro che è

sconosciuto alle autorità. Il rapimento segreto è il meno pericoloso. Tale fu il caso del

giornalista ebraico Daniel Pearl, rapito da un luogo pubblico, poi trasferito in un'altra

posizione. È anche il caso dei nostri fratelli in Cecenia che rapirono gli ebrei a

Mosca, e delle operazioni di sequestro di persona in Yemen.

- Rapimento pubblico: questo avviene quando gli ostaggi sono pubblicamente

detenuti in un luogo noto. Il governo circonda la posizione e conduce i negoziati. Le

autorità spesso tentano di creare diversivi e attaccare i rapitori. Questo è stato il caso

del teatro di Mosca, della detenzione degli ufficiali russi da parte di Shamil Basayev e

dei fratelli mujaheddin.

Un ufficiale anti-terrorismo una volta disse: <<un'operazione di rapimento non è mai

stata un successo in nessun luogo del mondo>>. Questa affermazione era destinata a

scoraggiare la chiamata dei terroristi. La storia è piena di fatti che dimostrano il

contrario. Molte operazioni della mafia, o il Jahideen Mu, hanno avuto successo. Ci

sono esempi di molte operazioni di successo, come quelle dell’Esercito di Maometto

e di Shamil a Mosca. Anche se non tutti gli obiettivi sono stati raggiunti, alcuni erano

previsti inizialmente. Ha funzionato nel caso del leader Shamil Basayev che è stato

un successo al 100%, perché ha portato la causa all'attenzione della scena

internazionale, quindi i mujaheddin hanno ottenuto la loro ricompensa, grazie a Dio.

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Le fasi del rapimento pubblico:

- Determinare il bersaglio: un obiettivo deve essere opportunamente scelto per

costringere il governo e ottenere il suo raggiungimento. Pertanto è obbligatorio

assicurarsi che le persone rapite siano importanti e influenti.

- Raccolta di informazioni sufficienti sul luogo dove si svolgerà il rapimento, e delle

persone presenti al suo interno.

Per esempio:

a) se le persone sono all'interno di un edificio: fare uno studio approfondito delle

recinzioni attorno all'edificio delle squadre di sicurezza e protezione e dei sistemi di

sorveglianza ed allarme. Fare la mappa dell’edificio con tutte le informazioni. I

rapitori potrebbero usare le auto che entrano nell'edificio senza controllo per

contrabbandare le loro attrezzature. Essi dovrebbero cercare persone che sono esenti

da controllo quando entrano nell’edificio. Il conducente o le persone importanti

potrebbero essere rapiti quando entrano nelle loro auto o quando le auto sono

parcheggiate all’esterno dell’edificio. Luoghi che sovrastano l'edificio, possono

essere usati per appostare cecchini, e per impedire al nemico di sfruttare quei punti

strategici.

b) Se le persone si trovano su un autobus: è essenziale conoscere la nazionalità delle

persone sul bus, i legami nazionali possono determinare l'effetto dell'operazione.

Tutte le informazioni relative al percorso degli autobus, dove si ferma per fare

carburante o punti di sosta o di riposo, le procedure di protezione, il programma

impostato per i turisti, ed altre devono essere ottenute al fine di determinare i punti

deboli, e consentire un facile controllo del gruppo.

c) Se il bersaglio è su un aereo: è importante determinare la destinazione del volo. Un

volo di collegamento è una scelta migliore. Le aree di transito sono le più vulnerabili

in cui le ispezioni sono scarse. I nostri fratelli in Nepal hanno approfittato di tale

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situazione per mettere le armi sul volo indiano. L’attentatore deve essere creativo nel

portare armi o esplosivi su un aereo. Deve inoltre avere familiarità con i processi di

controllo negli aeroporti.

d) Se il bersaglio è in un convoglio: le stesse regole per l'assassinio in un convoglio si

applicano per il sequestro di persona.

- Oltre a specificare i bersagli e a raccogliere informazioni su essi, i leader devono

mettere insieme un adeguato piano, effettuare verifiche del membro più debole del

gruppo. E 'stato detto: <<Una catena è tanto forte come il suo anello più debole>>.

- Esecuzione del rapimento: i ruoli dei rapitori saranno stabiliti in base alla posizione

del rapimento

Essi sono raggruppati in tre categorie:

a) un gruppo di protezione, il cui ruolo è quello di proteggere i rapitori.

b) il gruppo di guardia e di controllo, il cui ruolo è quello di prendere il controllo

degli ostaggi e sbarazzarsi di loro nel caso in cui l'operazione fallisca.

c) Il gruppo di negoziazione, il cui ruolo è estremamente importante e sensibile. In

generale il leader di questo gruppo è il negoziatore. Egli trasmette ai mujaheidin le

richieste, e deve essere intelligente, deciso e determinato.

- Trattative: il nemico utilizza il migliore negoziatore che ha, che normalmente è

molto furbo ed esperto in psicologia umana. Egli è capace di insinuare la paura nel

cuore dei rapitori, oltre a scoraggiarli. I sequestratori devono mantenere la calma in

ogni momento, quando il negoziatore nemico ricorrere allo stallo è al fine di dare alle

forze di sicurezza la possibilità di elaborare un piano per assaltare la posizione degli

ostaggi.

La durata della detenzione dovrebbe essere ridotta al minimo per ridurre la tensione

nella squadra dei rapitori. Più la detenzione è lunga, più diventa debole la forza di

volontà della squadra e più difficile è il controllo degli ostaggi. Uno degli errori che

l'Armata Rossa ha compiuto nell’ Ambasciata giapponese a Lima, in Perù, dove sono

stati detenuti un gran numero di diplomatici, è stato quello di permettere che la

detenzione degli ostaggi proseguisse per più di un mese. Nel frattempo il team di

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negoziazione nemico scavò un tunnel sotto l'ambasciata, e fu in grado di liberare gli

ostaggi e porre fine al sequestro di persona. In caso di stallo, è necessario infliggere

pene agli ostaggi. Le autorità devono rendersi conto della determinazione dei rapitori.

Questo darà credibilità a future operazioni.

- Processo di scambio degli ostaggi: questa è una fase molto delicata. Se il nemico

accetta le richieste, e lo scopo dell'operazione è quello di liberare i nostri fratelli

imprigionati, è fondamentale assicurarsi che i fratelli siano in buone condizioni e in

buona salute. Se lo scopo del rapimento è quello di ottenere denaro, bisogna fare in

modo che tutti i soldi richiesti ci siano, che non siano falsi, né rintracciabili. Bisogna

essere sicuri che non ci siano microspie o dispositivi homing nascosti tra i soldi.

I fratelli devono essere costantemente in allerta per possibili imboscate. In Bosnia le

Nazioni Unite istituirono un agguato per i fratelli durante lo scambio; tuttavia, i

fratelli saranno preparati per questo, e preparati a un contro-agguato. Le nostre

operazioni hanno dimostrato che le forze di sicurezza non sono in grado di realizzare

completamente il controllo interno delle città. Pertanto i fratelli devono trovare il

modo di trasportare i loro fratelli liberati anche sotto strette misure di

sicurezza.

- Rilascio degli ostaggi: i fratelli devono essere attenti a non rilasciare alcun ostaggio

fino a quando non avranno ricevuto la loro stessa gente. È essenziale per i fratelli

rispettare la nostra religione e mantenere la parola, in quanto non è permesso loro di

uccidere tutti gli ostaggi dopo che le nostre richieste e le condizioni sono state

raggiunte.

- Processo di ritiro: per il ritiro, alcuni ostaggi ― preferibilmente il più importante ―

devono essere trattenuti fino a quando i fratelli non si sono ritirati in tutta sicurezza.

Le misure di sicurezza per il rapimento pubblico:

a) la detenzione non deve essere prolungata;

b) in caso di stallo, le esecuzioni degli ostaggi devono essere eseguite gradualmente,

in modo che il nemico sappia che siamo seri;

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c) quando si rilasciano degli ostaggi, come donne e bambini, fare attenzione perché

potrebbero trasferire informazioni che potrebbero essere utili al nemico;

d) è necessario verificare che il cibo dato agli ostaggi e ai rapitori sia sicuro. Siccome

questo viene consegnato, obbligate la persona che lo porta a gustare il cibo prima di

voi. È preferibile che sia un anziano o un bambino a portare il cibo, perché la

consegna potrebbe essere fatta da persone delle forze speciali;

e) attenzione al negoziatore;

f) lo stallo fatto dal nemico indica la sua intenzione di fare irruzione;

g) attenzione agli attacchi improvvisi, i nemici possono tentare di creare diversivi per

consentirsi di prendere il controllo della situazione;

h) la squadra di comando utilizzerà due attacchi: uno secondario solo per attirare

l'attenzione e un attacco principale altrove.

i) nel caso in cui le vostre richieste siano state soddisfatte, il rilascio degli ostaggi

dovrebbe essere fatto solo in un luogo sicuro per i rapitori;

l) attenzione agli impianti di ventilazione o altre aperture che potrebbero essere usate

per mettere dispositivi di sorveglianza attraverso i quale potrebbero essere contati il

numero dei rapitori e/o del gas potrebbe essere inalato;

m) non essere emotivamente colpiti dal dolore dei tuoi prigionieri;

n) rispettare le leggi musulmane perché dall’esempio delle vostre azioni altri possono

diventare Da'wa [invito ad aderire all'Islam];

o) evitare di guardare le donne.

Le fasi del rapimento segreto:

Esse sono molto simili alle fasi per sequestro pubblico.

- Indicazione della destinazione.

- Raccolta di informazioni sufficienti sul target

- Impostazione del piano e adeguata formazione.

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- La squadra di esecuzione deve essere formata da 5 gruppi: il gruppo informativo

che riporta i movimenti dell'obiettivo; il gruppo di protezione che protegge i rapitori

da qualsiasi intervento esterno; il gruppo che rapisce il bersaglio e lo consegna a un

gruppo di rifugio; il gruppo di riparo, il cui ruolo è quello di tenere d'occhio l'ostaggio

fino a quando è giunto il momento per lo scambio o la soppressione;

- Trasportare l'obiettivo in un luogo sicuro;

- Eliminare il luogo della segregazione dopo che le richieste sono state soddisfatte

mentre si trasporta l’ostaggio in un posto sicuro dove può essere rilasciato. L'ostaggio

non dovrebbe essere in grado di identificare il luogo della sua detenzione.

Le misure di sicurezza per il rapimento segreto:

- La posizione in cui è trasferito l’ ostaggio deve essere sicura.

- Mentre l'ostaggio viene trasportato è necessario fare attenzione alle pattuglie di

polizia, individuando preventivamente le loro mosse per evitare ispezioni improvvise.

- Cercare dispositivi di ascolto o dispositivi di homing vip che spesso si trovano nei

loro orologi o con i loro soldi. Il rapito potrebbe avere un microfono auricolare che lo

tiene in contatto con la sua protezione.

- Tutto ciò che si prende dal nemico deve essere messo in una copertura metallica e

deve essere gettato in un luogo remoto, lontano al riparo dal gruppo.

- Non stabilire un contatto dalla posizione in cui sono detenuti gli ostaggi e non fare

mai menzione durante le telefonate di dove si trovi l’ostaggio.

- Utilizzare una copertura, per trasportare l‘ostaggio da e verso un luogo. Ad un certo

punto in una operazione si è drogato l’ostaggio e lo si è trasportato in ambulanza.

- È indispensabile non permettere all'ostaggio di sapere dove si trova.

-In questo caso è preferibile anestetizzare.

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Come trattare gli ostaggi in entrambi i casi di sequestro di persona:

- È necessario controllare gli ostaggi e prendere possesso di qualsiasi arma o

dispositivo di ascolto.

- Separare i giovani dai vecchi, le donne e i bambini. I giovani hanno più forza,

quindi la loro capacità di resistere è alta. Le forze di sicurezza devono essere uccise

all'istante. Questo impedisce agli altri di opporre resistenza.

- Trattare con gli ostaggi dentro regole precise.

- Non avvicinarsi agli ostaggi. Nel caso si debba, è necessario avere delle protezioni,

e mantenere un minimo di un metro e mezzo di distanza da loro.

- Parlare in una lingua o nel dialetto diverso dal proprio, al fine di confondere la

vostra identità.

- Coprire gli occhi dell'ostaggio in modo che non riesca a identificare te o qualsiasi

altro dei tuoi fratelli.

- Creare il perimetro del luogo dove l’ostaggio deve stare e negare l'accesso al

nemico

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CAPITOLO 11 Il compito della negoziazione Il compito del negoziatore ufficiale è difficile. Il suo obiettivo è quello di dare poco al

terrorista e di fare molto per risolvere la situazione. Come si può raggiungere il

risultato? In sostanza ci sono due strategie appropriate: ridurre i termini dei terroristi

o modificarli.

Il negoziatore deve costruire un accordo. Indipendentemente dalle aspettative dei

terroristi, deve riuscire a pensare nei termini per abbassare le richieste sino ad

annullarle o comunque portare la controparte ad accettare le proprie proposte con la

convinzione che sia l’unica cosa saggia da fare.

Si può anche mostrare ai terroristi che la loro futura situazione personale è aperta per

una discussione, per cercare soluzioni positive e a volte anche diverse rispetto a

quelle dei compagni, anche se le loro richieste non possono essere assecondate.

Quindi si deve cercare di scindere il concetto di persona da quello di terrorista: si

aiuta la persona che sta compiendo l’azione ma si condanna il terrorismo. Lasciando

al terrorista una via di fuga, in senso letterale, dalla situazione in cui si è messo in un

modo non troppo negativo e che gli consenta di ottenere qualche vantaggio personale.

Questi due messaggi devono essere consegnati simultaneamente, indicando che

mentre uno è chiuso per la discussione, l'altro è ancora aperto. L’approccio risulta

ancor più convincente dando al terrorista la prospettiva di qualcosa di reale e

realizzabile.

Ricerca della soluzione: pensiero creativo Come in ogni negoziato, quando i terroristi si convincono che qualcuno è alla ricerca

di una soluzione legittima e accettabile per entrambe le parti anche loro si uniscono

alla ricerca di una soluzione. Ovviamente, il rispetto è la condizione base di qualsiasi

trattativa, quindi "One-down," ossia gli approcci che cercano di conferire un senso di

inferiorità, sono improduttivi.

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Nella ricerca di una soluzione c'è spazio per una vasta gamma di tattiche. In alcuni

punti si possono solo accettare le richieste, in altri punti il pensiero creativo è

appropriato. Con pensiero creativo mi riferisco a tutta quella serie di soluzioni che

servono a prendere tempo, ragionare, per analizzare il contesto a tutto tondo prima di

formulare dei veri e propri punti di negoziazione. Anche se ogni singola concessione

(cibo, luce, gas, ecc.) deve essere contrattata, il pensiero creativo che il negoziatore

elabora a volte può essere risolutivo nella trattativa. Ricordiamoci che stiamo

affrontando delle situazioni che corrono sul filo tra razionalità ed irrazionalità, dove

l’imprevisto è sempre in agguato e ci sono in gioco vite umane. In alcuni punti la

fermezza è un ordine, in altri punti le parti possono concordare qualche alternativa.

Strutturalmente il tempo è dalla parte del negoziatore.

Naturalmente i vari punti cambiano da sequestro a sequestro e la valutazione deve

essere fatta caso per caso, non ha senso redigere dei diktat, tra le doti del negoziatore

vi è l’elasticità di pensiero. Il terrorista può cercare di invertire i punti delle trattative

minacciando di uccidere o liberare alcuni dei suoi ostaggi (a volte si può giungere ad

atti estremi, dove realmente il terrorista uccide uno o più dei suoi ostaggi); in questa

situazione il negoziatore non deve cedere ma fermarsi, ragionare su quali mosse

possono essere state sbagliate senza arrendersi altrimenti dall’altra parte potrebbe

esserci la replica di esecuzioni ogni qualvolta non vengono ottenute le cose chieste.

Ovviamente quando avviene l’uccisione di un ostaggio, il sequestratore sa dentro sé

di aver compiuto un atto che non consente di tornare indietro. Sarà sua abilità, anche

con il ricorso a qualche bugia, far credere al terrorista che in realtà tutto è

recuperabile; ad esempio nel caso di uccisione o ferimento di persone far credere che

le condizioni di queste siano meno gravi del reale.

I negoziatori hanno una serie di tattiche a disposizione, ma questo non significa che le

richieste dei terroristi debbano essere considerate legittime o che le concessioni non

possano incoraggiare il terrorismo. Dipende tutto dalla valutazione sull’accettabilità

delle richieste e dal tipo di accordo che il negoziatore è in grado di raggiungere.

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In corso di svolgimento l'esito di una trattativa potrebbe anche essere messo in dubbio

dal tentativo da parte dei terroristi di motivare le proprie convinzioni e azioni, occorre

quindi cercare di ricondurre la trattativa sui giusti binari, concentrandosi su punti

specifici. I negoziati efficaci infatti possono iniziare quando le parti percepiscono di

essere in una situazione di stallo, reciprocamente ad un impasse senza apparente via

d’uscita. È necessario mantenere la pressione durante lo stallo, bisogna mostrare ai

terroristi che c’è qualcosa da guadagnare dalla negoziazione.

La mediazione è spesso necessaria: il mediatore può svolgere entrambe le parti: il

duro e allo stesso tempo la persona comprensiva che cerca la soluzione; le due figure

devono essere presenti nel negoziatore, in grado di dire no alle richieste dei

sequestratori ma nello stesso tempo capace di offrire qualche concessione per

agevolare le scelte in positivo dei terroristi. La base è formulare idee utilizzando le

informazioni acquisite a riguardo dell’evento stesso, di altri simili precedentemente

accaduti o a riguardo di qualche argomento apparentemente non attinente, ma che

può essere usato per stemperare l’attenzione, creare empatia e quindi mettere il

terrorista in una predisposizione mentale più favorevole al recepimento delle richieste

del negoziatore. Nessuna delle parti si fida dell’altra, ma entrambe devono credere

nella mediazione che stanno realizzando.

Criteri di negoziazione L'identificazione dei soggetti, la separazione dei compiti e responsabilità, e la

moderazione sono i canoni generali che caratterizzano la negoziazione con i terroristi.

Identificare coloro che sembrano fermi nelle proprie convinzioni ma che in realtà

possono avere dei cedimenti ideali, dovuti a più fattori, può consentire di trovare il

punto debole all’interno del gruppo terroristico. Vantaggio questo da usare con

moderazione, stando sempre molto attenti a non caricare di troppo peso questo anello

debole, perché in condizione di forte stress potrebbero verificarsi situazioni

impreviste con il rischio per la trattativa e gli ostaggi. Ad esempio, nel caso di

trattative avviate con terroristi assoluti, occorre avere ben presente che questi, nella

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loro preparazione, mettono in conto anche l’atto finale, vale a dire la propria

uccisione dopo aver soppresso gli ostaggi. Fondamentale è quindi cercare di dare

durante gli approcci e la trattativa motivazioni alla vita.

La prima ora del sequestro di solito è la più pericolosa per gli ostaggi, i terroristi sono

sia nervosi che aggressivi. Quando la situazione è diventata più stabile, il rischio di

affrontare eventi imprevisti si riduce sensibilmente. A questo punto la vera

negoziazione può iniziare.

Come già accennato, ogni notizia sui terroristi presenti nel gruppo è utile, quindi in

questa prima fase della trattativa il negoziatore deve cercare di guadagnare tempo al

fine di consentire al team di negoziazione che lo supporta la raccolta di quante più

informazioni possibili sui membri del gruppo.

È necessario scoprire il più possibile su di loro, i loro valori e gli obiettivi che si

prefiggono e quindi successivamente stabilire e mantenere un contatto. I contatti

costituiscono un altro punto cruciale nella trattativa. Coinvolgere i terroristi nella

negoziazione produce l’evolversi costante dello stato delle cose e può gradualmente

realizzare profondi cambiamenti, anche se questo

processo può richiedere un certo tempo. Indagini, contatto e comunicazione sono in

generale i mezzi che consentono al negoziatore di avere un quadro totale della

situazione (processo di moderazione). Comunicazione e mediazione costituiscono un

tutt’uno inscindibile. La negoziazione basa i suoi fondamenti e comunque ha il suo

effettivo inizio necessariamente dalla comunicazione.

Sia essa originata dall’interno della struttura o che provenga dal suo esterno non può

prescindere dalla tempestività e dalla congruenza. La sussistenza di una crisi con

ostaggi, immediatamente e in qualunque contesto si vada a impiantare, determina sia

spazi fisici che dinamiche psichiche in una contrapposizione antitetica :

– dentro/fuori

– compreso/ escluso

– noi/loro

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– amici/ nemici

– chiedere/ottenere

– vita/morte.

Questo stato di fatto viene rafforzato con la prima mossa che qualunque Forza

dell’ordine va a porre in una crisi: il contenimento e l’accerchiamento dello spazio:

contenere e isolare è l’abc di qualunque poliziotto del mondo. Contenere lo spazio

(isolarlo dal contesto) da non intendersi esclusivamente come spazio fisico ma anche

come canali di comunicazione, come l’isolamento di un canale unico di

comunicazione radio, telefonico ecc.. Il mediatore, diviene l’unico contatto dei

terroristi con il mondo esterno, in un microcosmo artificiale e isolato “ costruisce “

una comunicazione, creando una nuova verità: la verità. La mediazione, per come è

intesa in senso contemporaneo e soprattutto sino alla definizione completa dello

scenario, è una delle opzioni possibili della crisi, equivalente alla sua alternativa

naturale: l’intervento tattico. Quando le autorità hanno maturato la volontà di

effettuare un assalto ai terroristi, allora lo scopo della negoziazione cambia direzione;

non sarà più quello di raggiungere un accordo, ma piuttosto coadiuvare la

preparazione dell’intervento della squadra tattica raccogliendo informazioni, usando

il tempo come arma strategica in cui intrattenere con i rapitori estenuanti contatti al

fine di ridurre sensibilmente il loro livello di vigilanza.

Da tutto questo si evince quello che costituisce un altro criterio generale che riguarda

il processo di mediazione: il negoziatore generalmente non è responsabile delle

decisioni strategiche ed operative che non riguardano strettamente il processo di

mediazione. Nello specifico l’argomento sarà affrontato più avanti.

Generalmente ci sono un tempo e un luogo per il dispiegamento di truppe tattiche, ma

la decisione di farle intervenire deve essere sempre l'ultima opzione possibile e solo

nel caso si verifichi anche solo una delle tre seguenti situazioni:

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- gli ostaggi sono stati uccisi;

- Il pericolo è tale che la perdita di vite umane è certo;

- i terroristi stanno per avviare l’attacco armato contro ostaggi o soccorritori, per

esempio con un gesto suicida con uso di esplosivo, che è certo porterà alla perdita di

vite umane se non affrontato dalle forze tattiche.

Un altro punto importante per il negoziatore è di non tentare nulla se sente che non

può fare il suo lavoro, perché percepisce di non esserne in grado per qualche motivo;

fare il negoziatore, significa mettere se stessi in una posizione altamente sensibile,

rischiando anche di essere il primo responsabile di un’eventuale degenerazione di una

situazione. Ci sono sempre abbastanza esperti attorno a cui chiedere aiuto. Ed anche

rinunciare a negoziare e lasciare il campo ad altri è un’opzione.

La percezione degli eventi È fondamentale durante una crisi con ostaggi creare una percezione realistica

riguardo a ciò che sta accadendo. Il terroristi devono sapere che un assalto

immediato, anche se in realtà possibile, non è stato pianificato e che lo sforzo di

negoziazione non è un trucco o un inganno.

L'assalto o elemento tattico ha bisogno di un flusso costante di dati al fine di

prevedere la risposta dei terroristi. I principali "attori" non possono che ottenere una

corretta percezione attraverso un flusso costante e accurato delle informazioni, e

questo può essere raggiunto solo con un processo aperto di comunicazione. Se un

messaggio sbagliato- verbale o visivo- viene ricevuto da una delle parti, si genera una

visione distorta di ciò che può realmente accadere creando così i presupposti per far

degenerare repentinamente la situazione.

Un evento terroristico segnato da una presa di ostaggi è forse una delle situazioni di

crisi più confuse che un negoziatore possa incontrare. In queste situazioni pochissime

persone, anche gli esperti, sono in grado di prevedere come gli eventi si

svilupperanno. L'unica cosa prevedibile di una presa di ostaggi è che probabilmente

sarà imprevedibile.

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Una tipica sequenza di azioni, a sostegno di questo approccio, potrebbe essere:

- aprire le comunicazioni, guadagnare tempo;

- tentativo di negoziare una soluzione con l'assistenza di risorse disponibili;

- compromesso quando è necessario per evitare spargimenti di sangue, non lasciare

che denaro o orgoglio nazionale facciano uccidere ostaggi inutilmente;

- capitalizzare l'uso del tempo come mezzo per "logorare" il terrorista e minare la sua

capacità di continuare l'azione;

- tentativo di identificare il leader;

- enfatizzare le conseguenze di azioni particolari (ad esempio, i media avranno il

messaggio, ma in cambio non si possono uccidere gli ostaggi);

- garantire che tutti gli accordi, negoziati o concessioni siano reali. Questi possono

includere termini relativi alla liberazione degli ostaggi, agli interessi

nazionali/regionali, alla salvaguardia dei terroristi dopo il rilascio/consegna, al

riferimento ad un supporto legale ecc..

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IL TEAM DI NEGOZIAZIONE E LE SUE CARATTERISTICHE

Quali sono le caratteristiche e le finzioni dei principali soggetti del team?

Lo schema universalmente accettato di team di negoziazione è formato da alcuni

elementi essenziali e da altri di supporto.

- Negoziatore principale: parla con la controparte, acquisisce informazioni;

- negoziatore secondario: controlla lo svolgersi delle trattative, tiene un “ giornale di

bordo”, fornisce al negoziatore principale argomenti di discussione, fornisce al

negoziatore principale un supporto emotivo, è pronto a dare il cambio al negoziatore

principale in caso di necessità;

- capo del team di negoziazione: controlla lo svolgersi delle trattative, cura il

collegamento con il responsabile delle operazioni sul campo e con il capo delle

squadra tattica;

- responsabile del supporto informativo: cura l’aggiornamento delle informazioni

relative alla crisi, è un’ulteriore persona disponibile in caso di bisogno;

- responsabile del collegamento tattico: cura la trasmissione delle informazioni fra la

squadra tattica e i negoziatori soprattutto quando la scelta del tempo è determinante;

- specialista di igiene mentale (facoltativo): valuta lo stato del sequestratore,

raccomanda tecniche e approcci di negoziazione, non conduce le trattative, fornisce

supporto alla squadra di negoziatori, valuta l’accumulo di stress del negoziatore

Il mediatore ha una modalità di azione che segue alcune regole di comportamento

precise ma che hanno sostanzialmente come cardini due fattori: il tempo e il

comportamento del perpetratore (o risposta agli stimoli).

Il mediatore principale deve porsi nei confronti del sequestratore con allenamento

all’ascolto attivo, empatia, capacità comunicativa, attitudine a non esprimere giudizi

su quanto gli viene detto o su quello che vede, capacità di delimitare il pensiero e

l’azione, capacità di rimettere in giusto ordine pensieri distorti attraverso la loro

riformulazione e l’elaborazione di in una corretta strategia risolutiva, programmare

l’esito (resa) come una parte essenziale del proprio lavoro.

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Per definizione:

a) L’ascolto attivo è la interazione tra soggetti che comunicano tra loro e si pongono

in relazione reciproca.

Concetti chiave dell’ascolto attivo:

A. Simpatia/empatia.

- La simpatia implica la pietà ed un eccessivo coinvolgimento;

- l'empatia implica oggettività e comprensione e quindi costruisce la fiducia.

B. Comunanza di sensazioni.

- Tutti i sentimenti sono universali;

- le esperienze non sono universali;

- è possibile comprendere le sensazioni senza aver vissuto la stessa esperienza;

- i vari livelli delle sensazioni sono universali: depressione, tristezza, sconforto,

apprensione,

spavento, paura disperata, terrore.

C. Capacità comunicativa.

b) l’empatia è la capacità di dimostrare di comprendere il soggetto e la sua situazione

personale ed emozionale, essenziale per conseguire un’apertura nel suo

atteggiamento e impostare una base di comunicazione. Per fare proprie le emozioni

del soggetto è necessaria anche una propensione all’ascolto attivo. L’FBI annovera

alcune differenti tecniche, tra cui:

1.L’etichettamento delle emozioni.

2.Il parafrasare l’ultima frase dell’altro.

3.La riflessione/specchiamento delle emozioni comunicate.

4.I messaggi in cui il soggetto IO sia sempre in primo piano.

5.Il riassunto dell’ultima frase pronunciata.

6.Frasi e domande aperte.

c) L’attitudine a non esprimere giudizi, altra sfumatura dell’empatia, è la capacità di

entrare nella scala di valori del soggetto, riuscendo a leggere tra le righe del discorso

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che egli esprime direttamente o ritiene di dover esprimere con i gesti. Questo

atteggiamento di apparente neutralità e di accettazione acritica di quanto è importante

per l’altro instaura una relazione basata sul rispetto reciproco, per cui ogni scambio di

idee sull’atteggiamento del soggetto e sui suoi sentimenti viene visto non come una

critica ma come pura osservazione.

d) Il riposizionamento in limiti corretti e in senso attivo delle idee distruttive serve ad

ottenere due risultati: da un lato evitare di essere indicato dal soggetto come causa

delle azioni distruttive da lui poste in essere, con ciò giustificandole a se stesso

(magari prevaricando dei limiti che lui si era inizialmente posto); dall’altro per

evitare la manipolazione che presta il fianco alla riduzione delle possibilità

contrattuali del soggetto. In altri termini non prestare il fianco all’identificazione

proiettiva del soggetto perpetratore, meccanismo di difesa che si esprime

classicamente con le frasi: “ ho fatto questo perché tu non me lo hai impedito” e “ se

non fai questo che io voglio allora uccido gli ostaggi e sarà colpa tua che non mi hai

esaudito “.

e) Il rimettere in giusto ordine pensieri distorti attraverso la loro riformulazione. La

tecnica consiste nel confermare le intenzioni positive dietro il comportamento

negativo che si cerca di cambiare. Le alternative per soddisfare l'intenzione positiva

sono trovate, in seguito alle trattative con le parti di se per risolvere il conflitto, con

se stessi. Il mediatore svolge la funzione di annullare le tendenze alle posizioni

estreme (tutto/nulla o bianco/nero) che spesso sono create dalle irrealistiche ed

eccessivamente sopravvalutate aspettative su se stessi.

f) La strategia risolutiva collaborativa (problem solving) è la ricerca delle alternative

possibili. Lavorare per risolvere assieme un problema spezza la contrapposizione

noi/loro, dentro/fuori che è connaturata con la situazione di barricamento, pone il

perpetratore e il negoziatore sullo stesso piano, riequilibra i bracci della bilancia della

mediazione “ alleggerendo” il peso dei piatti . La finalità è la resa del perpetratore

(voluta dal mediatore) lo sforzo è congiunto (meditatore/sequestratore), gli oggetti di

scambio e di pressione sono rispettivamente gli ostaggi e la scelta tattica.

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g) Il programmare sin nei più minuti particolari. L’esito (o meglio la resa) è l’attività

finale del negoziatore. Questa fase va intesa come il vero e proprio lavoro di gruppo,

nel senso che deve risultare dalla sinergica unione degli sforzi del perpetratore, degli

ostaggi e del team di negoziazione.

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101

CAPITOLO 12 Comunicazione umana: l’uso strategico Il negoziatore è un comunicatore, senza la comunicazione non può esserci

negoziazione. Ma anche comunicare che ci sembra una delle cose più naturali al

mondo ha le sue regole. Saper comunicare può salvare delle vite umane. Il nostro

percorso trova avvio proprio dall’ uso della comunicazione e delle sue le regole, per

proseguire nei vari tipi di negoziazione esistenti trattando poi le varie fasi e

circostanze che portano alla nascita ed utilizzo della negoziazione operativa. Il

negoziatore può anche essere un affabulatore se serve, ma anche per essere

affabulatori si devono conoscere i principi della comunicazione umana. La

comunicazione ha dei suoi punti cardine: cinque. Essi sono gli assiomi da cui si deve

iniziare.

Non si può non comunicare

Il primo assioma sancisce l'impossibilità di non comunicare: qualsiasi

comportamento, in situazione di interazione tra persone, è ipso facto una forma di

comunicazione. Di conseguenza, quale che sia l'atteggiamento assunto da un

qualsivoglia individuo (poiché non esiste un non-comportamento), questo diventa

immediatamente portatore di significato per gli altri: ha dunque valore di messaggio.

Anche i silenzi, l'indifferenza, la passività e l'inattività sono forme di comunicazione

al pari delle altre, poiché portano con sé un significato e soprattutto un messaggio al

quale gli altri partecipanti all'interazione non possono non rispondere. Ad esempio,

non è difficile che due estranei che si trovino per caso dentro lo stesso ascensore si

ignorino totalmente e, apparentemente, non comunichino; in realtà tale indifferenza

reciproca costituisce uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui lo è

un'animata discussione. Non è necessario, inoltre, che all'interno di un'interazione tra

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persone si verifichi la comprensione reciproca perché possiamo definire

comunicazione i loro comportamenti reciproci; riguardo a questo aspetto si può

parlare di comunicazione intenzionale o non-intenzionale, consapevole o

inconsapevole, efficace o inefficace. Ogni assioma può venire distorto dalla presenza

di disturbi della comunicazione e portare allo sviluppo di patologie strettamente

correlate allo specifico principio. Per quanto riguarda l'impossibilità di non

comunicare, riteniamo che sia interessante esporre ciò che è stato definito "il dilemma

dello schizofrenico". Lo schizofrenico, almeno apparentemente, cerca di non

comunicare attraverso tutta una serie di messaggi come il silenzio, le assurdità,

l'immobilità, il ritrarsi; ma, poiché tutti questi comportamenti costituiscono

comunque atti comunicativi, egli è totalmente coinvolto in una situazione paradossale

nella quale cerca di negare di stare comunicando e al tempo stesso di negare che il

suo diniego sia comunicazione.

Parlando in termini più generali, si verifica la distorsione del primo assioma tutte le

volte che qualcuno cerca di evitare l'impegno inerente ad ogni comunicazione

attraverso tentativi di non comunicare (ad esempio il rifiuto o la squalificazione della

comunicazione), finendo per generare un'interazione paradossale, assurda o "folle".

In questa prospettiva un comportamento etichettato come patologico può essere

considerato come l'unica reazione possibile ad un contesto di comunicazione assurdo

e insostenibile. Il sintomo (che sia nevrotico o psicotico) assume perciò il valore di

messaggio non verbale; anche un sintomo è dunque comunicazione.

I livelli comunicativi di contenuto e relazione

Ogni comunicazione comporta di fatto un aspetto di metacomunicazione che

determina la relazione tra i comunicanti. Ad esempio un individuo che proferisce un

ordine esprime, oltre al contenuto (la volontà che l'ascoltatore compia una

determinata azione), anche la relazione che intercorre tra chi comunica e chi è

oggetto della comunicazione, nel caso particolare quella di superiore-subordinato.

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Bateson (antropologo, sociologo, psicologo, linguista britannico del XX secolo)

definisce due aspetti caratteristici di ogni comunicazione umana: uno di notizia e uno

di comando; in sostanza si parla di un aspetto di contenuto del messaggio e di un

aspetto di relazione dello stesso. In altre parole ogni comunicazione, oltre a

trasmettere informazioni, implica un impegno tra i comunicanti e definisce la natura

della loro relazione. Il ricevente accoglie un messaggio che possiamo considerare

oggettivo per quanto riguarda l'informazione trasmessa, ma che contiene anche un

aspetto metacomunicativo che definisce un modello che rientra in un'ampia gamma di

possibili relazioni differenti tra i due comunicanti. Pare che gli scambi comunicativi

"patologici" siano caratterizzati da una lotta costante per definire i rispettivi ruoli e la

natura della relazione, mentre l'informazione trasmessa dai comunicanti passa

nettamente in secondo piano (anche se questi ultimi sono inconsapevoli di ciò).

L'aspetto di relazione di una comunicazione è definito dai termini in cui si presenta la

comunicazione stessa, dal non-verbale che ad essa si accompagna e dal contesto in

cui questa si svolge.

In un contesto comunicativo patologico si può avere spesso a che fare con episodi di

confusione tra contenuto e relazione; questo accade quando, ad esempio, tra i

comunicanti c'è un oggettivo accordo a livello di contenuto, ma non a livello di

definizione della relazione, che porta ad una pseudo-mancanza di accordo in cui i

partecipanti cercano, inutilmente peraltro, di accordarsi sul contenuto dei messaggi

scambiati, ignorando che il disaccordo si situa in realtà su un piano di

metacomunicazione.

Perché l'aspetto di relazione della comunicazione umana è così importante? Perché,

con la definizione della relazione tra i due comunicanti, questi definiscono

implicitamente se stessi. Una delle funzioni della comunicazione consiste nel fornire

ai comunicanti una conferma o un rifiuto del proprio Sé; attraverso la

metacomunicazione si sviluppa dunque la consapevolezza del Sé, la coscienza degli

individui coinvolti nell'interazione. È essenziale che ognuno dei comunicanti sia

consapevole del punto di vista dell'altro e del fatto che anche quest'ultimo possieda

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questa consapevolezza (concetto di percezione interpersonale); la mancanza di

coscienza della percezione interpersonale è definita impenetrabilità da Lee. È stato

osservato che nelle famiglie con un membro schizofrenico si possono rilevare modelli

comunicativi caratterizzati da impenetrabilità e da disconferma del Sé, che

solitamente risultano devastanti per colui che si trova a ricevere messaggi che, sul

piano della relazione, trasmettono comunicazioni del tipo "tu non esisti".

La punteggiatura della sequenza di eventi

La natura di una relazione dipende anche dalla punteggiatura delle sequenze di

scambi comunicativi tra i comunicanti. Questa tende a differenziare la relazione tra

gli individui coinvolti nell'interazione e a definire i loro rispettivi ruoli: essi

punteggeranno gli scambi in maniera che questi risultino organizzati entro modelli di

interazione più o meno convenzionali. La punteggiatura di una sequenza di eventi, in

un certo senso, non è che una delle possibilità d'interpretazione degli eventi stessi, per

cui anche i ruoli dei comunicanti sono definiti dalla propensione degli individui stessi

ad accettare un certo sistema di punteggiatura oppure un altro. Watzlawick fa

l'esempio della cavia da laboratorio che dice:<<Ho addestrato bene il mio

sperimentatore. Ogni volta che io premo la leva lui mi dà da mangiare>>;

quest'ultimo non accetta la punteggiatura che lo sperimentatore cerca di imporgli

secondo la quale è lo sperimentatore stesso che ha addestrato la cavia e non il

contrario.

Il terzo assioma decreta dunque la connessione tra la punteggiatura della sequenza

degli scambi che articolano una comunicazione e la relazione che intercorre tra i

comunicanti: il modo di interpretare la punteggiatura è funzione della relazione tra i

comunicanti. Infatti, poiché la comunicazione è un continuo alternarsi di flussi

comunicativi da una direzione all'altra e le variazioni di direzione del flusso

comunicativo sono scandite dalla punteggiatura, il modo di leggerla sarà determinato

dal tipo di relazione che lega i comunicanti.

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Per quanto riguarda le manifestazioni patologiche collegate alla distorsione di questo

concetto, i problemi insorgono quando si presentano delle discrepanze relative alla

punteggiatura (in sostanza delle visioni diverse della realtà) determinate dal fatto che

i comunicanti non possiedono lo stesso grado d'informazione senza tuttavia saperlo o

che, dalla stessa informazione, traggano conclusioni diverse; in questi casi si crea una

sorta di malinteso che inevitabilmente porta a circoli viziosi che incidono

pesantemente sulla natura della relazione. L'unica maniera per risolvere questo tipo di

situazione è fare sì che i comunicanti riescano ad uscire da una visione univoca e

radicata della realtà e accettino la possibilità che l'altro possa interpretare quest'ultima

in maniera differente; in una parola è necessario che i comunicanti riescano a

metacomunicare.

In tale contesto possiamo collocare il concetto di profezia che si autodetermina, che

nella comunicazione ha il suo equivalente nel dare la cosa per scontata; stiamo

parlando del caso in cui un individuo assume un comportamento che provoca negli

altri una reazione alla quale quel certo comportamento sarebbe la risposta adeguata:

l'individuo in questione, dunque, crede di reagire ad un atteggiamento che in realtà è

stato da lui stesso provocato.

Comunicazione numerica e analogica

Il quarto assioma attribuisce agli esseri umani la capacità di comunicare sia tramite

un modulo comunicativo digitale (o numerico) sia con un modulo analogico. In altre

parole se ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, il primo

sarà trasmesso essenzialmente con un modulo digitale e il secondo attraverso un

modulo analogico. Quando gli esseri umani comunicano per immagini la

comunicazione è analogica; questa comprende tutta la comunicazione non-verbale.

Quando comunicano usando le parole, la comunicazione segue il modulo digitale.

Questo perché le parole sono segni arbitrari e privi di una correlazione con la cosa

che rappresentano, ma permettono una manipolazione secondo le regole della sintassi

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logica che le organizza. Nella comunicazione analogica questa correlazione invece

esiste: in ciò che si usa per rappresentare la cosa in questione è presente qualcos'altro

di simile alla cosa stessa. La comunicazione numerica possiede un grado di

astrazione, di versatilità, nonché di complessità e sintassi logica enormemente

superiore rispetto alla comunicazione analogica, ma anche dei grossi limiti per quanto

riguarda la trasmissione dei messaggi sulla relazione tra i comunicanti; al contrario,

mentre la comunicazione analogica risulta molto più ricca e significativa quando la

relazione è il problema centrale della comunicazione in corso, al tempo stesso può

risultare ambigua a causa della mancanza di sintassi, di indicatori logici e spazio-

temporali.

I problemi possono insorgere quando si verifica una traduzione del materiale

analogico in materiale digitale, ovvero un'acquisizione della valenza relazionale

contenuta nella comunicazione (messaggio) dell'altro. La principale difficoltà, come

abbiamo già accennato, consiste nella natura ambigua del modulo analogico di

trasmissione dell'informazione dovuta all'impossibilità di rappresentare le principali

funzioni di verità logiche (negazione e congiunzione); ciò può dare luogo a

innumerevoli conflitti di relazione dovuti all'errata interpretazione digitale del

messaggio analogico. Osservando il comportamento degli animali apprendiamo che

essi risolvono il problema della corretta interpretazione dei messaggi analogici

tramite rituali che recano con sé una valenza simbolica. Nelle patologie di natura

isterica si verifica probabilmente il processo opposto a quello descritto

precedentemente: un'errata traduzione del messaggio dal modulo digitale a quello

analogico provoca i sintomi di conversione, che hanno un'innegabile valenza

simbolica, in un contesto in cui non era più possibile comunicare con il modulo

digitale.

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L'interazione complementare e simmetrica

Quest'ultimo assioma si riferisce ad una classificazione della natura delle relazioni

che le suddivide in relazioni basate sull'uguaglianza oppure sulla differenza. Nel

primo caso si parla di relazioni simmetriche, in cui entrambi i partecipanti tendono a

rispecchiare il comportamento dell'altro (ad esempio nel caso della diade dirigente-

dipendente), nel secondo si parla di relazioni complementari, in cui il comportamento

di uno dei comunicanti completa quello dell'altro (ad esempio tra due dipendenti o tra

due dirigenti). Nella relazione complementare uno dei due comunicanti assume la

posizione one-up (superiore) e l'altro quella one-down (inferiore); i diversi

comportamenti dei partecipanti si richiamano e si rinforzano a vicenda, dando vita ad

una relazione di interdipendenza in cui i rispettivi ruoli one-up e one-down sono stati

accettati da entrambi (ad esempio le relazioni madre-figlio, medico-paziente,

istruttore-allievo, insegnante-studente). Va da sé, comunque, che "i modelli di

relazione simmetrica e complementare si possono stabilizzare a vicenda" e che "i

cambiamenti da un modello all'altro sono importanti meccanismi omeostatici". È

fondamentale, per andare avanti, avere chiaro il concetto che le relazioni simmetriche

e quelle complementari non devono assolutamente essere equiparate a "buona" e

"cattiva", né le posizioni one-up e one-down vanno accostate ad epiteti quali "forte" e

"debole"; si tratta solo di una suddivisione che ci permette di classificare ogni

interazione comunicativa in uno dei due gruppi.

In ogni relazione simmetrica è presente un rischio potenziale legato allo sviluppo

della competitività; accade così che, quando in un'interazione di tipo simmetrico si

perde la stabilità o sopraggiunge una situazione di disputa o litigio, si può verificare

un'escalation simmetrica da cui ci si può aspettare l'instaurarsi di uno stato di guerra

più o meno aperto (o scisma) e un rifiuto reciproco del Sé dell'altro da parte dei due

partecipanti. Tipico in questo caso è il conflitto coniugale che s'instaura con la

persecuzione di un modello di frustrazione da parte dei due coniugi. I problemi legati

alle relazioni complementari si hanno, ad esempio, quando uno dei comunicanti

chiede la conferma di una definizione del Sé per cui il partner si trova costretto a

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cambiare la propria; ciò si rende necessario perché, all'interno di una relazione

complementare, una definizione del Sé si può mantenere solamente se il partner

assume un ruolo complementare. Uno dei rischi possibili è che a una richiesta di

conferma del Sé corrisponda una disconferma, che porta ad un crescente senso di

frustrazione e disperazione in uno o in entrambi i partecipanti. A volte, inoltre, capita

che certi individui sembrino molto ben adattati al di fuori del contesto comunicativo

con il partner e solo osservati insieme al loro "complementare" mostrino la patologia

della loro relazione con esso. A questo proposito è perfettamente calzante la

teorizzazione della "folie à deux" ad opera di due psichiatri francesi, Lasègue e

Falret, pubblicata nel 1877.

Il concetto di sistema

L'interazione può essere considerata come un sistema aperto, che scambia cioè

materiali, energie o informazione con il proprio ambiente. Si possono definire sistemi

interattivi <<due o più comunicanti impegnati nel processo di definire la natura della

loro relazione (o che si trovano a un livello tale per farlo)>>. Quando si definisce un

sistema aperto è importante definire anche il suo ambiente. Secondo Hall e Fagen

<<l'ambiente di un dato sistema è costituito dall'insieme di tutti gli oggetti che sono

tali che un cambiamento nei loro attributi influenza il sistema e anche di quegli

oggetti i cui attributi sono cambiati dal comportamento del sistema>>.

Ogni sistema si può ulteriormente suddividere in sottosistemi e gli oggetti che

appartengono a un sottosistema si possono benissimo considerare parte dell'ambiente

di un altro sottosistema. Tale precisazione ci consente quindi di collocare facilmente

un sistema diadico interattivo in sistemi più ampi, come la famiglia con figli, la

famiglia con i parenti acquisiti, la comunità, la cultura. Inoltre, questi sottosistemi

possono sovrapporsi ad altri sottosistemi, perché ogni membro della diade è coinvolto

in sottosistemi diadici con altre persone e anche con la vita stessa. Gli individui che

comunicano, quindi, vengono considerati sia nelle relazioni orizzontali che in quelle

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verticali che essi hanno con altre persone e altri sistemi. Secondo il principio di

totalità ogni parte di un sistema aperto è in rapporto tale con le parti che lo

costituiscono che qualunque cambiamento in una parte causa un cambiamento in tutte

le parti e in tutto il sistema. Un sistema, quindi, si comporta come un tutto

inscindibile e non può essere fatto coincidere con la semplice somma delle sue parti

(principio di non-sommatività). I sistemi interpersonali (gruppi di estranei, coppie

sposate, famiglie, relazioni psicoterapeutiche, ecc.) possono essere considerati circuiti

di retroazione, poiché il comportamento di ogni persona influenza ed è influenzato

dal comportamento di ogni altra persona. In un sistema simile i dati in ingresso si

possono amplificare fino a produrre un cambiamento oppure neutralizzare per

mantenere la stabilità, a seconda che i meccanismi di retroazione siano positivi o

negativi.

Poiché sia la stabilità che il cambiamento contraddistinguono le manifestazioni della

vita, i meccanismi di retroazione negativa o positiva agiscono in essa come forme

specifiche di interdipendenza o di complementarietà. A caratterizzare tutte le famiglie

che rimangono unite, ad esempio, deve esserci qualche grado di retroazione negativa,

che consente loro di resistere alle tensioni imposte dall'ambiente e dai singoli

membri, ma anche qualche grado di retroazione positiva, che favorisce invece un

processo di apprendimento e di crescita.

In un sistema aperto, circolare ed autoregolantesi, i "risultati" (da intendersi come

modificazioni dello stato dopo un certo periodo di tempo) non sono determinati tanto

dalle condizioni iniziali quanto dalla natura del processo o dai parametri del sistema.

Secondo il principio di equifinalità, infatti, gli stessi risultati possono avere origini

diverse perché ciò che è determinante è la natura dell'organizzazione. Se il

comportamento equifinale dei sistemi aperti è basato sulla loro indipendenza dalle

condizioni iniziali, allora non soltanto condizioni iniziali diverse possono produrre lo

stesso risultato finale ma risultati diversi possono essere prodotti dalle stesse "cause".

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Il paradosso e il doppio legame

Si può definire il paradosso come una contraddizione che deriva dalla deduzione

corretta da premesse coerenti. Esistono paradossi logico-matematici (antinomie),

definizioni paradossali (antinomie semantiche) e paradossi pragmatici (ingiunzioni

paradossali e predizioni paradossali), che nell'ambito della struttura della teoria della

comunicazione umana corrispondono chiaramente ai tre settori principali di questa

teoria: il primo tipo di paradosso alla sintassi logica, il secondo alla semantica e il

terzo alla pragmatica. I paradossi logico-matematici si presentano nei sistemi logici e

matematici e si fondano quindi su termini come numero o classe formale. Le

definizioni paradossali differiscono dalle antinomie soltanto in un unico aspetto

importante: non si presentano nei sistemi logici e matematici ma derivano piuttosto

da certe incoerenze nascoste nella struttura di livello del pensiero e del linguaggio. I

paradossi pragmatici, infine, sono quelli che si presentano nelle interazioni in corso e

che quindi determinano il comportamento. Bateson, Jackson, Haley e Weakland

hanno descritto per primi gli effetti del paradosso nella interazione umana. Studiando

il fenomeno della comunicazione schizofrenica, questo gruppo di ricerca ha compiuto

il passo concettuale dalla "schizofrenia come misteriosa malattia della mente

individuale" alla "schizofrenia come modello specifico di comunicazione" ed è

arrivato a ipotizzare che lo schizofrenico <<deve vivere in un universo in cui le

sequenze di eventi sono tali che le sue abitudini di comunicazione non convenzionali

in qualche modo saranno appropriate>>. Questa ipotesi lo ha portato a postulare e a

identificare certe caratteristiche essenziali di tale interazione, per cui ha coniato il

termine “doppio legame”. È possibile descrivere gli elementi di un doppio legame

come segue: due o più persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto

valore di sopravvivenza fisica e/o psicologica per una di esse, per alcune, o per tutte;

in un simile contesto viene dato un messaggio che è strutturato in modo tale che (a)

asserisce qualcosa, (b) asserisce qualcosa sulla propria asserzione e (c) queste due

asserzioni si escludono a vicenda; infine, si impedisce al ricettore del messaggio di

uscir fuori dallo schema stabilito da questo messaggio, o situazione di doppio legame

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è quindi probabile che si trovi punita (o almeno che le si faccia provare un senso di

colpa) per avere avuto percezioni corrette, e che venga definita "cattiva" o "folle" per

aver magari insinuato che esiste una discrepanza tra ciò che vede e ciò che

"dovrebbe" vedere. Per la natura della comunicazione umana il doppio legame non

può essere un fenomeno unidirezionale. Se un doppio legame produce un

comportamento paradossale, allora sarà proprio questo comportamento a "legare

doppio" il "doppio legatore" e questa reciprocità esiste anche quando tutto il potere

sembra essere nelle mani di una parte mentre l'altra è del tutto indifesa perché alla

fine, come spiega Sartre, <<il torturatore è degradato quanto la vittima>>.

Per definire la connessione esistente tra il doppio legame e la schizofrenia possiamo

dunque aggiungere altri due criteri:

quando si ha un doppio legame di lunga durata, forse cronico, esso si trasformerà in

qualcosa che ci si aspetta, qualcosa di autonomo e abituale, che riguarda la natura

delle relazioni umane e del mondo in genere, una attesa che non ha bisogno di essere

ulteriormente rafforzata; il comportamento paradossale imposto dal doppio legame a

sua volta ha natura di doppio legame e questo porta a un modello di comunicazione

autoperpetuantesi.

Il doppio legame, quindi, non è semplicemente un'ingiunzione contraddittoria, che

offre almeno la possibilità di compiere una scelta logica tra due alternative, ma un

vero e proprio paradosso, che fa fallire la scelta stessa (illusione di alternative) e

mette in moto una serie oscillante e autoperpetuantesi (un vero e proprio modello

paradossale). Le comunicazioni paradossali legano quasi sempre tutti coloro che vi

sono coinvolti: dall'interno, quindi, non si può provocare nessun cambiamento (gioco

senza fine) e può verificarsi un cambiamento soltanto uscendo fuori dal modello. La

possibilità di interrompere un gioco senza fine (e quindi una comunicazione

paradossale) attraverso un intervento esterno costituisce il paradigma dell'intervento

psicoterapeutico. In altre parole, il terapeuta in quanto outsider è in grado di

provocare quello che il sistema stesso non è in grado di produrre: un cambiamento

delle proprie regole. L'intervento psicoterapeutico dovrebbe quindi consistere

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sostanzialmente nel formare un sistema nuovo e allargato in cui non solo è possibile

guardare il vecchio sistema dall'esterno ma è anche possibile che il terapeuta usi il

potere del paradosso per ottenere un miglioramento (utilizzando interventi di doppio

legame come ad esempio la prescrizione del sintomo). Sul piano strutturale, un

doppio legame terapeutico è l'immagine allo specchio di quello patogeno: presuppone

una relazione intensa (nella fattispecie, la situazione psicoterapeutica) da cui il

paziente si aspetta una ragione per sopravvivere; in questo contesto, viene data

un'ingiunzione che è strutturata in modo tale da (a) rinforzare il comportamento che il

paziente si aspetta che sia cambiato, (b) implicare che questo rinforzo sia un veicolo

del cambiamento, e perciò (c) creare il paradosso perché al paziente si dice di restare

com'è; la situazione terapeutica impedisce al paziente di chiudersi in se stesso o

altrimenti di dissolvere il paradosso commentandolo. Perciò anche se l'ingiunzione è

assurda da un punto di vista logico, è una realtà pragmatica: il paziente non può non

reagire ad essa , ma non può neppure reagire ad essa nel suo modo consueto,

sintomatico. Il paziente viene messo in una situazione insostenibile, riguardo alla sua

patologia. Se egli accondiscende non può più "non farci niente"; egli può farci

qualcosa, e questo rende impossibile la situazione di non poterci fare niente (il che è

lo scopo della terapia). Se si oppone all'ingiunzione, può farlo soltanto non

comportandosi sintomaticamente (che è lo scopo della terapia). Per concludere,

quindi, mentre in un doppio legame patogeno il paziente è "dannato se può farci

qualcosa ed è dannato se non può farci niente", in un doppio legame terapeutico è

"cambiato se può farci qualcosa ed è cambiato se non può farci niente".

Il problem solving strategico

L'arte di risolvere situazioni problematiche relative a organizzazioni, istituzioni o

sistemi produttivi, mediante interventi strategici che inneschino spirali virtuose ove

sussistevano spirali viziose, ha una tradizione millenaria. Nella letteratura relativa ad

aziende e organizzazioni si fa riferimento spesso ai concetti di strategie e di problem

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solving, riferendosi però, con tali espressioni, a costrutti teorico-applicativi e ad

approcci spesso diversi e, talvolta, contrapposti.

Per questo motivo appare indispensabile chiarire che quando parliamo di problem

solving strategico ci riferiamo a un particolare modello di soluzione di problemi che

ha alla base un'epistemologia e una logica ben precise ed evolute e va quindi distinto

dagli altri modelli.

In particolare, il problem solving strategico si rifà a quella branca specialistica della

logica matematica nota come "logica strategica" (Elster, 1979, 1985; Nardone e

Salvini, 1997; Nardone, 1998). Tale logica si differenzia dalle logiche tradizionali per

la sua caratteristica di mettere a punto il modello di intervento sulla base degli

obiettivi prefissati e delle specifiche caratteristiche del problema affrontato, piuttosto

che sulla base di una rigida teoria precostituita. Nell'approccio strategico evoluto il

presupposto fondamentale è la rinuncia a qualsiasi teoria forte che stabilisca a priori

la strategia di intervento. Da questa prospettiva è sempre la soluzione che si adatta al

problema e non viceversa, come avviene invece nella maggioranza dei modelli di

intervento tradizionali.

Al problem solver strategico non interessa conoscere le verità profonde e il perché

delle cose, ma solo "come" farle funzionare nel miglior modo possibile. La sua prima

preoccupazione è quella di adattare le proprie conoscenze alle "realtà" parziali che si

trova di volta in volta ad affrontare, mettendo a punto strategie fondate sugli obiettivi

da raggiungere e in grado di adattarsi, passo dopo passo, all'evolversi della "realtà".

Abbandonando la rassicurante tesi positivista di una conoscenza "scientificamente

vera" della realtà, nell'intervento strategico ci si preoccupa infatti di individuare i

modi più "funzionali" di conoscere e agire, ovvero di aumentare la "consapevolezza

operativa".

Aumentare la propria consapevolezza operativa significa quindi lasciare in secondo

piano la ricerca delle cause degli eventi per concentrarsi sullo sviluppo di una sempre

maggiore capacità di gestire strategicamente la realtà che ci circonda in modo da

raggiungere i propri obiettivi.

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In base a quanto detto, la domanda del "perché" verrà sostituita con quella del "come

funziona”.

Chiedendosi "come funziona" una data situazione, infatti, si evita di andare alla

ricerca dei "colpevoli" focalizzandosi invece, sulle modalità che determinano la

persistenza di un determinato equilibrio e su come questo possa essere modificato.

Questo significa orientare l'osservazione sulla persistenza di un problema piuttosto

che sulla sua formazione. Perché è sulla persistenza di un problema che si può

intervenire, e non sulla sua precedente formazione. Chiedersi "come funziona"

orienta l'indagine in direzione della ricerca del cambiamento nel presente, mentre

domandarsi "perché" conduce a ricercare le spiegazioni in un passato che non può

comunque essere cambiato.

Rinunciando alla pretesa di una conoscenza a priori dei fenomeni oggetti di studio, il

problem solver strategico deve avere a disposizione un qualche "riduttore di

complessità" che gli consenta di cominciare a intervenire sulla realtà da modificare e

di svelarne così, progressivamente, la modalità di funzionamento. Tale riduttore è

stato individuato nel costrutto di "tentata soluzione". Quando si presenta un problema

all'interno di un determinato contesto si ha la tendenza a far ricorso all'esperienza

sotto forma di riproposizione di interventi risolutivi che in passato hanno funzionato

per problemi analoghi. Di fronte all'insuccesso di tali strategie, poi, piuttosto che

ricorrere a modalità di soluzione alternative si ha la tendenza ad applicare con

maggior vigore la strategia iniziale nell'illusione che fare "più di prima" la renderà

efficace. Questi tentativi di reiterare una stessa soluzione che non funziona finiscono

per dar vita a un complesso processo di retroazioni in cui sono proprio gli sforzi in

direzione del cambiamento a mantenere la situazione problematica immutata. Da

questo punto di vista possiamo affermare che le "tentate soluzioni" diventano il

problema (Watzlawick, Weakland e Fisch, 1974). Quando un sistema si trova in

questa situazione è invischiato dentro un "gioco senza fine", poiché è esso stesso una

componente del problema e solo un cambiamento introdotto dal di fuori, che cambi il

sistema stesso, rappresenta una soluzione concreta al problema. La prima cosa che il

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problem solver dovrà fare, quindi, sarà individuare le "tentate soluzioni" che il

sistema e le persone in esso implicate hanno messo in atto finora per raggiungere un

dato obiettivo o per modificare una situazione ritenuta disfunzionale. L'intervento

strategico si occuperà poi di rompere nel modo più efficace e rapido possibile quel

meccanismo autopoietico stabilitosi tra le tentate soluzioni e la persistenza di un

equilibrio disfunzionale.

Il contesto delle aziende e delle organizzazioni appare certamente un mondo

complesso e articolato. Al suo interno, tuttavia, si rileva una costante che può essere

ritrovata in ogni sistema strutturato, ossia la caratteristica apparentemente paradossale

della "resistenza al cambiamento". Tale caratteristica si esprime con il fenomeno

strano e apparentemente illogico per cui sono proprio coloro che richiedono un

intervento di esperti, al fine di risolvere un qualche problema, gli stessi che tendono

poi a boicottare il cambiamento richiesto. Pertanto, al problem solver è prima di tutto

richiesta l'abilità strategica di aggirare tale resistenza. Una componente fondamentale

dell'approccio strategico è sicuramente la comunicazione. Il problem solver deve

infatti utilizzare un linguaggio suggestivo che porti i soggetti a mutare le proprie

percezioni riguardo alla realtà, aggirando la loro inevitabile resistenza al

cambiamento. Un modello di problem solving strategico richiede un modo di porsi e

di comunicare del tutto diverso da quello basato sulla spiegazione e

sull'argomentazione ragionevole. In un'ottica strategica gli aspetti retorici e persuasori

della comunicazione sono considerati elementi fondamentali dell'intervento e

utilizzati in forma deliberata e consapevole. Il problem solver si assume in prima

persona la responsabilità di influenzare direttamente il comportamento e le

concezioni dei suoi clienti, utilizzando le strategie comunicative e i mezzi più efficaci

per ottenere il cambiamento (Watzlawick, 1977; Nardone e Watzlawick, 1990).

La possibilità di esercitare una qualche forma di influenzamento su un ipotetico

interlocutore passa innanzitutto da una serie di elementi comunicativi di tipo non

verbale che precedono l'interazione verbale. Tali fattori risultano essere

particolarmente rilevanti soprattutto nella formazione di quella che in letteratura

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viene definita la "prima impressione", ossia quell'immagine di una data persona che

strutturiamo nel momento in cui la incontriamo per la prima volta. L'effetto "prima

impressione" può quindi rappresentare un notevole aiuto, se sfruttato a nostro favore

proponendo da subito un'immagine in grado di affascinare e catturare l'interlocutore,

così come può rappresentare un forte limite se trascurato.

Una comunicazione strategica è caratterizzata dal suo essere sempre orientata in

direzione di un obiettivo da raggiungere. Il "persuasore" si propone di guidare l'altro

ad assumere una particolare posizione che lo porterà a modificare la propria

percezione rispetto a una data realtà. Per farlo, egli si preoccupa di strutturare la

forma della propria comunicazione in modo tale da facilitare questo processo,

piuttosto che andare alla ricerca di una condivisione di contenuti.

In una prospettiva sofista e suggestiva (cui si ispira il problem solving strategico),

infatti, un processo che voglia essere realmente persuasorio non sarà veicolato dai

significati, quanto piuttosto dalla forma della comunicazione, in grado di produrre

particolari effetti di tipo pragmatico. In un modello di problem solving strategico,

dunque, a livello di comunicazione si assiste al passaggio da un linguaggio

"descrittivo-indicativo" a un linguaggio "ingiuntivo-performativo": mentre il primo è

il linguaggio tipico della spiegazione e della descrizione delle caratteristiche delle

cose, il secondo è quello tipico dell'influenzamento, poiché non descrive ma

prescrive, nel senso che induce a eseguire azioni ed esperire emozioni.

La regola comunicativa principe, che ha caratterizzato tutti gli approcci di tipo

strategico a partire dal lavoro di Erickson (Erickson e Rossi, 1979, 1980), consiste

nell'"osservare, imparare e utilizzare il linguaggio del cliente". Tale tecnica (del

ricalco) si basa sull'utilizzo del linguaggio e delle modalità rappresentazionali del

nostro interlocutore, in modo tale da entrare in sintonia con le sue modalità di

percezione della realtà, creare un clima di suggestione positiva e ridurre così

notevolmente la sua resistenza al cambiamento.

In una comunicazione strategica di tipo evoluto chi vuole persuadere si pone fin

dall'inizio alla guida della comunicazione e predispone il contesto in modo tale da

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indurre l'altro a cominciare. In un'ottica persuasoria, infatti, risulta molto più efficace

indurre l'altro a prendere l'avvio piuttosto che aspettare che sia l'altro a iniziare e

doversi poi adattare a seguire il percorso da lui tracciato.

L'arte della persuasione sta nel saper "aggiungere", non nel togliere, per dirottare la

prospettiva della persona nella direzione voluta. Questo a partire dalla sua percezione

della realtà e mediante la sua logica e il suo linguaggio. Per fare ciò, il persuasore si

avvale di un particolare processo di domande (intervenienti-discriminanti) che lo

aiuteranno a guidare la persona lungo un percorso conoscitivo che le darà la

sensazione di essere arrivata da sola alle conclusioni alle quali, invece, è stata

sottilmente indotta (comunicazione verbale induttiva). Quando l'altro arriverà a dire

al persuasore quello che lui avrebbe dovuto dire, a questi non resta che mostrarsi

perfettamente d'accordo con la prospettiva che gli viene proposta. Pertanto, al

contrario di quanto si fa nelle abusate tecniche di vendita, in cui si cerca di mostrare

ed esibire l'accordo con l'altro come precondizione per l'influenzamento, nella

conversazione strategica il "sono d'accordo con lei" rappresenta il punto di arrivo del

percorso di persuasione, che si dichiara quando l'interlocutore è arrivato ad affermare

ciò che noi avremmo voluto proporre.

Solo una volta che questo tipo di accordo sia stato creato sarà possibile passare dalla

comunicazione verbale induttiva alla comunicazione verbale ingiuntiva, ossia al

proporre concrete indicazioni di cambiamento.

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CAPITOLO 13 Tecniche di comunicazione persuasoria Dopo il viaggio nella tecniche della comunicazione umana, affrontiamo alcuni

strumenti utili a persuadere il nostro interlocutore a gestire una situazione in modo

diverso rispetto a quello che si era originariamente prefissato, inducendolo a

modificare le sue azioni e, nel caso della negoziazione in caso di ostaggi, a liberare

quest’ultimi. Comunicare quindi in modo persuasivo. La conoscenza di tutte queste

tecniche diventa bagaglio importante del negoziatore. Parlare, ascoltare, queste le

primarie azioni che compie e di queste deve avere totale e piena padronanza.

Conscio che nel momento in cui gli viene richiesta la sua opera il negoziatore ha tra

le sue mani la vita altrui, non può e non deve sbagliare.

La ristrutturazione

Ristrutturare significa cambiare lo sfondo o la visione concettuale e/o emozionale in

relazione a cui è esperita una situazione ponendola entro un'altra cornice che si

adatta, ugualmente bene o perfino meglio, ai "fatti" della medesima situazione

concreta (Watzlawick, Weakland e Fisch, 1974). Come sottolinea Watzlawick

(1976), mediante la ristrutturazione la realtà di primo ordine, i meri fatti, rimane

immutata, ciò che cambia è la realtà di secondo ordine, ovvero il significato e il

valore che attribuiamo a tale realtà. Una ristrutturazione, perché riesca a produrre il

cambiamento, deve portare il problema fuori dalla sua rigida struttura e porlo

all'interno di un'altra struttura che sia congeniale al cambiamento auspicato. Mediante

adeguate ristrutturazioni si costruiscono delle realtà inventate che producono nuove

realtà concrete.

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L'illusione di alternative

Questa tecnica consiste nel creare un ambito all'interno del quale viene proposta la

scelta apparentemente libera fra due alternative che però sono in realtà tali da

produrre il medesimo effetto finale, cioè il cambiamento. Le due alternative, infatti,

in realtà rappresentano entrambe solo un polo di una coppia di opposti più generale.

Viene dunque creata l'illusione che vi siano solo queste due possibilità o, in altri

termini, si provoca nell'altro una specie di incapacità di vedere che all'esterno di

quell'ambito esistono anche altre possibilità. L'illusione di alternative è una tecnica

particolarmente utile quando si deve prescrivere qualcosa che si teme non sarà

seguito facilmente dalla persona. Si assegna la possibilità di scelta tra due compiti da

eseguire: uno, il primo, molto ansiogeno e sicuramente ritenuto impossibile, il

secondo sempre meno ansiogeno e attuabile. La persona sarà costretta ad accettare il

secondo in quanto, pur se difficile, è sempre meglio del primo. In questo modo si crea

una realtà che obbliga la persona ad assumere un impegno a eseguire qualcosa che, se

fosse stato assegnato come unico compito, probabilmente sarebbe stato rifiutato

perché ritenuto una richiesta eccessiva.

L'uso del paradosso

Il paradosso logico è un tipo di enunciato che si nega e si afferma al tempo stesso,

che risulta al tempo stesso vero e falso, giusto e sbagliato. Il paradosso rappresenta

uno scardinamento della logica aristotelica del "vero o falso" e dell'ottica manicheista

delle coppie di opposti utilizzate come categorie per descrivere la realtà. Nella

comunicazione interpersonale tale forma di trappola logica si consolida quando

all'interno di un asserto comunicativo sono presenti due messaggi contraddittori, per

cui chi riceve tale tipo di comunicazione si trova nell'impossibilità di decidere se tale

comunicazione sia vera o falsa. La forma più frequente in cui il paradosso entra nella

pragmatica della comunicazione umana è una ingiunzione che richiede un

comportamento specifico che proprio per sua natura non può essere che spontaneo.

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Nei confronti di un comportamento disfunzionale che si presenta come spontaneo o

irrefrenabile è molto efficace prescrivere il comportamento stesso mettendo la

persona in una situazione paradossale, in cui l'esecuzione volontaria di tale

comportamento porterà al suo annullamento. Con la ingiunzione paradossale, dunque,

si richiede il comportamento che si intende estinguere, facendogli perdere in questo

modo la sua spontaneità e ponendo la persona all'interno di un "doppio legame"

(Bateson, Jackson, Haley e Weakland, 1956) in cui è posta di fronte all'illusione di

una scelta: ubbidire, vale a dire continuare col suo comportamento: in questo caso

però il suo comportamento viene svuotato di significato in quanto ormai non è più

involontario e spontaneo, ma volontario e richiesto da un altro, quindi il soggetto

agisce sotto il controllo dell'altro e non più per suo conto; disubbidire, ribellandosi

alla prescrizione, il che però significa abbandonare il comportamento indesiderato,

che era proprio quello che si desiderava ottenere.

L'utilizzo della resistenza

Di fronte a una persona che si oppone tenacemente a un intervento appare funzionale

prescrivere paradossalmente la resistenza per poi manipolarla. Si procede così

creando un doppio legame, per cui la resistenza della persona diventa una

prescrizione; la funzione prioritaria della resistenza viene così annullata mentre viene

utilizzata la sua forza per promuovere il cambiamento.

La tecnica della confusione

Questa tecnica consiste nel creare uno stato di confusione intellettuale (Watzlawick,

1977). In un torrente di parole e costrutti contorti e confusi alcuni concetti vengono,

invece, comunicati in modo molto concreto e chiaro, cosicché l'intelletto, in mezzo a

tale minacciosa confusione, vi si aggrappa come all'unico appiglio comprensibile. Ciò

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rende tale appiglio ragionevole per il suo contrasto con il resto particolarmente

incomprensibile.

Anticipare le reazioni e le espressioni dell'interlocutore

Questa tecnica è estremamente utile quando si vuole comunicare qualcosa che

potrebbe provocare reazioni aggressive e di rifiuto.

La tecnica del “come se”

("Cosa farei oggi di diverso da quello che faccio usualmente se questo problema non

ci fosse più?")

Il "come se" (Watzlawick, 1990) è una tecnica finalizzata a introdurre in ciò che la

persona fa nel corso della sua giornata un piccolissimo cambiamento che però potrà

innescare tutta una serie di cambiamenti a catena che porteranno al sovvertimento del

sistema (esperienza emozionale correttiva). Le piccole ma concrete azioni "come se"

gradualmente rovesciano l'usuale interazione fra il soggetto e la sua realtà,

conducendolo a esperire realmente ciò che inizialmente finge di provare. Questo

concreto cambiamento condurrà gradatamente anche al cambiamento delle sue

credenze e percezioni della realtà (Nardone e Salvini, 1997; Nardone, 1998). Si tratta

di una tecnica che presenta inoltre il vantaggio di condurre la persona a costruire una

sua propria soluzione, senza che sia il problem solver a fornirgliela. È quindi una

tecnica molto soft perché evita prescrizioni dirette lasciando decidere alla persona

cosa fare, comportandosi "come se" il problema non ci fosse più.

L'uso di aforismi, aneddoti, storie e metafore.

Questa modalità di comunicazione minimizza la resistenza della persona in quanto

non la sottopone ad alcuna richiesta diretta. Il messaggio giunge quindi velato e sotto

forma di metafora, trasmettendo forti suggestioni (Nardone, 1991).

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CAPITOLO 14 Negoziazione operativa : l’arte della creatività flessibile Nella negoziazione i rapporti tra la squadra tattica (pronta ad intervenire in caso di

blitz) e il team di negoziazione, l’ambito in cui possono dispiegarsi le trattative e la

catena di comando sono punti cardine da rispettare e nessun caso da interrompere e/o

scavalcare.

Nello schema di comando utilizzato in Italia al vertice vi è il Capo della Polizia,

subito sotto troviamo il responsabile delle operazione sul campo alle dirette

dipendenze del quale vi sono, da un lato il responsabile delle informazioni al

pubblico, dall’altro il coordinatore delle indagini e l’amministrazione logistica.

Direttamente operativi nella zona dove si svolge l’evento troviamo il capo squadra

tattica e il caposquadra negoziatori che interagiscono tra loro. Il capo squadra tattica

gestisce la forza di reazione (cecchini, osservatori del perimetro esterno, ecc.). Il capo

della squadra dei negoziatori, coordina i negoziatori. I negoziatori interagiscono con

il soggetto/i che stanno compiendo il sequestro. Questo schema base non deve essere

modificato ed ogni elemento attivo nelle operazioni deve attenersi scrupolosamente

ed esclusivamente alle sue mansioni.

L’ascolto

ASCOLTA. Il diktat principale nella negoziazione è ascoltare.

Il ruolo primario del negoziatore in casi di crisi è quello di interagire, come abbiamo

visto, con il sequestratore in modo che la tensione si riduca . Deve raccogliere

informazioni il più numerose e precise possibili, al fine di identificare ed eliminare la

minaccia rappresentata dal soggetto ( il buon negoziatore è una persona che sa

ascoltare e sente quello che dice l’interlocutore; infatti vi sono molti modi di ascoltare

fingendo di sentire. Chi si trova a negoziare deve sentire poichè nei particolari si

possono trovare indicazioni importanti per la buona risoluzione della situazione). Far

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parlare il sequestratore è il primo passo per interagire e costruire un rapporto con lui.

Questo serve a far stemperare la tensione, dato che il nervosismo e la tensione sono

cattivi consiglieri e rischiano di far compiere al sequestratore gesti inconsulti. Vite

umane sono in gioco siano essi ostaggi, sequestratori o agenti di polizia. Il rispetto

per la vita deve essere un punto fondamentale per chi negozia. I negoziatori devono

non giudicare e deve evitare di dare lezioni di moralismo.

Deve saper dare consigli e allo stesso tempo essere analitico, trattare con

accondiscendenza , allo scopo di creare empatia. Essere simpatico al terrorista

sicuramente rende il compito più agevole. Il sentimento di antipatia che può venire a

crearsi tra le parti renderà ancor più complicato raggiungere una soluzione. L’animo

umano con le sue mille sfaccettature influisce sui comportamenti tenuti

dall’individuo singolarmente, questi a loro volta possono influenzare il gruppo. Se

per un qualche motivo, anche il più banale, il negoziatore dovesse risultare antipatico

al sequestratore, questi, riporterebbe il suo stato d’animo ai compagni che con lui

stanno effettuando il sequestro, influenzandoli (è lui infatti l’unico a tenere rapporti

con l’esterno e a riportare all’interno i termini della trattativa, se lui percepisce nel

modo sbagliato qualcosa, , a suo modo riporterà termini e sensazioni) creando una

ulteriore barriera tra il team di negoziazione ed i terroristi/sequestratori.

Importantissimo è essere chiari, comprensibili per non dare adito ad interpretazioni di

ciò che si dice. Il negoziatore deve preferire un dialogo semplice di facile

comprensione, spesso i rapitori non sono della stessa nazionalità del negoziatore, non

comprendono una dialettica particolarmente complessa. Nel caso poi che si debba

utilizzare un mediatore linguistico è di assoluta importanza accertarsi che questo

esperto traduca letteralmente ed esattamente ciò che il negoziatore dice.

Incomprensioni posso sorgere per una traduzione non corretta, situazioni del genere

già accadute hanno rischiato di portare a conclusioni nefaste negoziazioni di semplice

risoluzione.

La tattica di base è l’ascolto. Ascolto delle informazioni d’intelligence che si hanno a

disposizione. Le considerazioni tattiche verranno elaborate solo in un secondo tempo

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dopo aver valutato le richieste dee sequestratori e le eventuali concessioni che si è

disposti a fare.

L’importante ascoltare, ascoltare soprattutto dettagli. I dettagli parlano spesso più

delle parole, massima attenzione a cosa dice il sequestratore, come si muove, come è

vestito, tutto può avere un’importanza imprevista e contribuire alla felice soluzione.

Importantissimo è infatti raccogliere informazioni su chi è il nostro avversario. Le

informazioni possono essere raccolte con l’uso di microspie se si riesce ad utilizzarle,

collocate dentro il luogo del rapimento. Un’altra fase determinante per la raccolta ti

informazioni è il dialogo diretto, sia con i sequestratori che con i testimoni e con

eventuali ostaggi liberati. Gli ostaggi possono inconsapevolmente fornire dettagli

rilevanti, Ecco allora l’importanza di saper ascoltare per poter trovare ciò che si

nasconde dentro i loro racconti. Anche le informazioni sul cibo che viene richiesto, su

eventuali farmaci, ossia sulle richieste in generale possono aiutare a formare il quadro

completo dei sequestratori e degli ostaggi.

Più informazioni si hanno, più si è in grado di creare e sviluppare una strategia

vincente.

Il negoziatore deve fare in modo di permettere le fotografie o la realizzazione di

filmati durante i faccia-a-faccia nei negoziati. Lo studio di queste informazioni ha

doppia valenza, la conoscenza delle persone e dei luoghi, di come sia la disposizione

degli ostaggi e dei terroristi, è decisiva nel caso si decida di intervenire con la forza.

Nel evolversi della situazione, di suo particolarmente complessa e concitata nelle

prime ore, si deve riuscire a creare un tempo dedicato alla raccolta di intelligence.

(dati acquisiti) e trovare modo di acquisire il tempo necessario per la preparazione di

un eventuale assalto, il tutto senza far percepire ai sequestratori che le attese che

intercorrono tra una loro richiesta e una risposta che potrebbe essere anche

immediata, servono a questa preparazione di messa in campo di uomini e di mezzi,

questi sono punti fondamentali da gestire con attenzione e cautela per non far

innervosire ulteriormente i rapitori già sovraccarichi di tensione in queste prime fasi

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del sequestro. La creatività del negoziatore nel trovare o inventarsi situazioni per

distrarre l’interlocutore sono caratteristiche indispensabili.

Va stabilita una routine inerente i pasti, il sonno, le consegne, ecc.

Questo serve a sviluppare un rapporto ostaggio / rapitore e negoziatore / rapitore,

serve inoltre a favorire la stabilità e scoraggiare attività spontanee.

Contestualmente alla negoziazione, come stavano iniziando a dire prima, devono

essere valutate e predisposte altre opzioni per la risoluzione tra cui :intervento armato

da parte della polizia o dei militari. Deve essere predisposto l’utilizzo di cecchini,

come va valutata l’opzione di un assalto con l’utilizzo di agenti chimici.

Altresì va anche considerata l’ipotesi di fare un passo indietro ed aspettare. Il tempo

gioca a favore di chi è fuori. Non ci sono regole precise, ogni situazione è diversa.

Negoziazione è ascoltare, vedere, e dopo agire.

I negoziato non deve mai essere considerato come un segno precursore di una scelta

tattica.

I negoziatori devono solo negoziare, devono essere liberi di svolgere le trattative e

non devono assumere situazioni di comando che potrebbero spostare la loro

attenzione facendogli perdere la concentrazione e la lucidità richiesta.

Creare il dialogo e costruire un rapporto con i rapitori serve a stemperare la

situazione e a creare empatia, quindi a poter iniziare una trattativa il più possibile

efficace. A volte anche parlare di cose insignificanti , scherzare, serve a creare il

rapporto, cosa determinante per gestire la negoziazione.

L’ascolto deve essere attivo, il negoziatore non subire solamente ciò che dice il

rapitore.

Importante ricordarsi sempre che non sono tutte verità quelle che vengono dette e

fornite dai rapitori, per una serie di motivi che non staremo ad analizzare, le verità

vengono condite con bugie a volte con lo scopo di deviare l’attenzione, a volte

inconsapevolmente. In ogni caso ogni parola va analizzata, ogni frase compresa

sviscerata in modo da non cadere nel tranello della menzogna. Anche il negoziatore

deve essere in grado di raccontare false verità a seconda delle situazioni. Deve evitare

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di dare informazioni sulla disposizione delle forze dell’ordine. E in ogni caso deve

valutare a seconda della situazione che informazioni fornire. Il concetto cardine è che

non tutto è negoziabile. Tornando alla questione sopra affrontata, ci sono valide

ragioni operative per cui i comandanti non dovrebbero negoziare, tra cui:

- perdita di controllo dell'incidente - cercando di fare troppo;

- perdita di obiettività;

- perdita di continuità;

- perdita di costruita nella costruzione del rapporto;

- perdita di tattica dello stallo;

- può avere personalità assertiva;

- la persona preposta al comando può essere troppo occupata;

- incapacità di differire - manca il tempo di pensare

- sa troppo;

- può dare troppo;

- competenze diverse;

- sovraccarico emotivo;

- non riesce a riconoscere il ruolo tattico del team di negoziazione

Affrontiamo ora quelle che sono alcune regole fondamentali da applicare durante la

negoziazione.

Si tratta di alcuni punti e schemi riconosciuti ed utilizzati internazionalmente da

negoziatori di polizia ed esercito. I punti sono precisi, è buona regola per il

negoziatore attenersi a queste norme.

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Che cosa è generalmente negoziabile?

- cibo; - bevande (non alcoliche); - soldi - sigarette - l'accesso ai mezzi di comunicazione * - specifiche cure mediche - farmaci da prescrizione - contatto con la famiglia / amici * - adeguato esercizio cautela e di controllo * Può essere usato come una ricompensa per la consegna di ostaggi.

Ciò che non è negoziabile?

- armi - droghe - fuga - rilascio dei prigionieri - trasporti - scambio di ostaggi

Nelle negoziazioni con ostaggi sarebbe sempre da evitare l’utilizzo di mezzi di

trasporto da parte dei rapitori. Situazioni di movimento creano problemi con:

Comando/controllo nella comunicazione con l’ oggetto. Oltre alla messa in pericolo

per la comunità

Concessioni di questo genere possono essere discusse, ma dovrebbero essere

concesse solo in circostanze estreme per facilitare una soluzione tattica.

Molti argomenti possono essere discussi senza in realtà fare concessioni. Come già

indicato, è importante raccogliere più informazioni possibili sui rapitori sin dal primo

istante.

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Uno schema efficiente è il seguente:

Lista di controllo

Quesiti che il negoziatore pone appena giunto sul luogo del sequestro, è preferibile

che incontri eventuali testimoni o persone presenti al fatto di persona (può accadere

che nel riportare le informazioni, terzi, dimentichino involontariamente di fornire tutti

i dettagli, affrontando la raccolta dati personalmente si evitano questi inconvenienti).

-Cosa è successo? -Chi ha avviato la chiamata? -Tempo di insorgenza? -Lesioni alla polizia? -Sospetto infortuni? -Lesioni agli ostaggi? -Altri infortuni? -Che tipo di contatto è stato realizzato con il sospetto? -Quando? -La situazione è bloccata? -Dove si trovano i sospetti? -Dove sono situati gli ostaggi? -Dove sono i non-ostaggi? -Dove si trova la planimetria? -Dove sono i telefoni e quali tipi sono? -Dove sono i punti di osservazione del sospetto? -Quali armi da fuoco vengono utilizzate / si trova sul sito? -Che esplosivi / prodotti chimici si trovano sul sito? -Qual è la descrizione / profilo del sequestratore? -Qual è la descrizione / profilo del ostaggio? -Qual è la natura della scena circostante -Qual è l'affiliazione del trasgressore / quale il sostegno pubblico.

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Raccolta dati del soggetto in una situazione di ostaggi:

-nome completo eventuale soprannome; -età e sesso; -altezza, peso; -recenti guadagni / perdita, costruire un profilo economico; -colore dei capelli / colore occhi porta occhiali ? / quale modello lenti a contatto ? ; -cicatrici / voglie / tatuaggi / altri marchi; -abbigliamento e descrizione gioielli; -storia civile e lo stato corrente / luoghi dove ha vissuto; -storia criminale compresa la violenza / convinzioni / condanna / disposizioni varie; -salute fisica / malattia (se ve ne sono in famiglia) fattori di rischio; -dormire e mangiare storia modelli; -storia della salute mentale, impotente / senza speranza / dichiarazioni di suicidio / tentativi / se ha -espresso l’intenzione in questa situazione; -istrionico, stile di personalità schizoide, compulsivo, evitante, dipendente, narcisistico, aggressivo? -temperamento? Capacità di coping?; -anamnesi familiare mentale / effettivi o potenziali fattori di stress / impegni volontariato: -altri dettagli significativi / familiari / amici / vicini; -rapporto con chiunque nella situazione; -religione / partecipazione; -storia militare / incarichi / teatri di operazioni; -armi / esplosivi storia / e in questa situazione; -istruzione e le competenze specialistiche / formazione; -occupazione lavorativa e la storia / esperienza; -status della storia socio-economica dei terroristi e dei sequestrati; -finanziari ( proprietà / beni / fondi acquisizione / dismissione) storia: -stabilità residenziale; -attività quotidiane / modifiche ricreative / sportive / attività comportamentali; -eventuali procure rilasciate, assicurazioni; -uso di sostanze / dipendenza / storia di abusi / e in questa situazione; -rapporto quotidiano coinvolgimento dei media; -incidenti traumatici nella vita e nella storia recente / reazioni durante e dopo; -coinvolgimenti in storia di negoziazione e in questa situazione; -movimento e stress. storia comportamenti durante questa situazione; -domande ricevute durante questa situazione; -usciti, stato salvato, feriti, deceduti o altri a risoluzione di questa situazione;

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Vi è una classificazione generica di segnali per verificare l’andamento della

negoziazione; in sintesi li riportiamo indicandoli qui di seguito.

Segni di progresso positivo

-diminuiti riferimenti alla violenza; -si sono verificati più spesso e più a lungo riferimenti alla violenza; -velocità rallentata e il volume ridotto; -minacce diminuite; -si trasferisce il dialogo a questioni personali; -passata scadenza ultimatum senza incidenti; -portato il rapitore a liberare ostaggi; -portato il rapitore a non uccidere o ferire nessuno dall’ inizio dei negoziati.

Segni di progresso negativo e tendenza a diventare suicida

-fissare un termine per la propria morte; -istintiva provocazione nei faccia a faccia dei negoziati (suicidio rituale, cerca di farsi uccidere dai poliziotti); -pensieri di suicidio negato ( personalità depressa); -trasferimento o cessione o messa a disposizione della proprietà (il suicidio rituale) dei propri beni materiali.

Segni di progresso negativo e tendenza a diventare volubile

-legare armi/esplosiva agli ostaggi; -una storia di violenza durante la negoziazione; -insistito a provocato una terza persona in particolare; -diventa più arrabbiato a causa dei negoziati; -diventa più emotivo a causa dei negoziati; -non ha sbocco sociale per esprimere l'ansia, paura o frustrazione; -ascolta e non risponde.

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Segni di progresso negativo e mancanza di cooperazione e rapporto

-nessun rapporto e nessuna richiesta chiara; -oltraggiose richieste dopo che ha inizio la negoziazione; -possibili fattori includono l'uso di alcool o droghe durante negoziati; -significativi fattori di stress nella vita acuiti dalla situazione attuale.

Nella letteratura della si evince che l'avversario più paziente ha la migliore possibilità

rispetto a colui che usa la forza, di contrattare.

Caratteristiche del negoziatore

"Essere flessibili ... Essere creativi. E’ un fattore in indispensabile per i negoziatori.

Qualità del negoziatore:

-deve avere un’ottima capacità di comunicazione orale; -essere un buon ascoltatore; -maturità; -avere un buon temperamento essere tollerante; -sesso opposto può essere un vantaggio; -senso dell'umorismo; -in grado di lavorare come parte di una squadra ma allo stesso tempo autonomamente; esperienze di vita, il buon negoziatore è una persona che ha affrontato nel corso della sua vita delle situazioni problematiche, questo consente una maggior comprensione degli stati d’animo di chi si trova dall’altra parte della barricata; -buone capacità relazionali; -ascoltatore attivo; -buona espressione verbale; -intervistatore di successo; -emotivamente stabile; -flessibilità; -rimane calmo sotto stress; -familiarità con le tattiche di pronto intervento.

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I principi del negoziato

-Scindere le persone dal problema.

-Prima di concentrarsi sul problema è fondamentale capire come la controparte pensa

al problema, perciò, vedere il problema così come lo vede la controparte.

-Concentrarsi sempre sugli interessi reali in causa e non sulle posizioni assunte.

-Prospettare una gamma di opzioni quanto più vasta è possibile facilita il

raggiungimento di un accordo.

-I risultati ottenuti, devono fondarsi su criteri quanto più possibile oggettivi.

-Non dimenticare che se in una trattativa comune il margine d'errore può avere

risvolti professionali, nel negoziato in presenza d'ostaggi il margine d'errore deve

essere nullo perché sono in gioco le vite degli ostaggi.

Negli anni si sono sempre più classificate alcune regole inerenti la comunicazione tra

il negoziatore e il sequestratore, queste regole possono essere così riassunte:

-distinguere i fatti dalle interferenze: può essere opportuno, in certe situazioni,

separare il comportamento osservabile, dalle interpretazioni che ne abbiamo tratto;

-usare con parsimonia gli eufemismi: gli eufemismi sono parole che sono utilizzate

per mitigare l'impatto di informazioni che potrebbero risultare spiacevoli;

- usare il linguaggio emotivo con moderazione: i termini a forte connotazione

emotiva rischiano anche di essere accolti poco volentieri dalla controparte;

-evitare il linguaggio equivoco: evitare cioè parole che possono avere più significati

oltre quello comunemente accettato;

-diffidare delle valutazioni statiche: quelle che definiscono gli altri con caratteristiche

immutabili, cercando invece di specificare sempre il contesto nel quale gli eventi si

sono verificati.

Il materiale raccolto durante la negoziazione costituisce un nucleo informativo

importantissimo su variabili come le reazioni emotive, il potenziale suicidiario ed il

contatto con la realtà.

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Grazie al substrato informativo è possibile sviluppare le cinque tappe di cui sarebbe

composto un negoziato con sequestratori di persona (Donohue),:

1. riunione dell'intelligence; 2. sviluppo della relazione; 3. sviluppo e chiarificazione del problema; 4. strategie di intervento; 5. risoluzione.

Non è possibile escludere che la trattativa si protragga per più giorni in tal caso sarà

opportuno prevedere che il negoziatore possa avere tempi di recupero e riposo senza

tuttavia allentare la pressione sul sequestratore interrompendo la comunicazione.

Affinché il negoziatore possa svolgere adeguatamente il proprio lavoro, gli sarà

necessario un gruppo di supporto che potrà provvedere a tutte le necessità che si

presenteranno nel corso del negoziato al team di negoziazione.

Il team sarà composto da un soggetto che assiste nella formulazione delle strategie e

coordina le varie fasi della trattativa. Dovrebbe rappresentare il più stretto

collaboratore del negoziatore, in grado di indicargli i percorsi alternativi per agire

sulle leve della persuasione del sequestratore.

La seconda persona necessaria al team del negoziatore è il tecnico informatico, in

grado di fornire tutti gli elementi connessi al caso rilevabili dalla banca dati delle

forze di polizia e tutti quegli elementi rilevabili tramite quella fonte che si dovessero

rendere necessari nel corso della trattativa.

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Il decalogo del FBI

I tecnici del Federal Bureau Investigation in basa alle esperienze acquisite negli anni

hanno strutturato una serie di indicazioni internazionalmente condivise per quanto

concerne la negoziazione.

Ostaggi

- I primi 15-45 minuti sono i più pericolosi.

- Seguire le istruzioni dei rapitori senza tentare di fare gli eroi.

- Tentare la fuga oppure no? Meglio pensarci due volte prima di fare qualsiasi mossa!

- Prepararsi a sopportare anche lunghi periodi di detenzione.

- Parlare solo quando si è interrogati e non dare ai sequestratori suggerimenti o

indicazioni.

- Non fissare negli occhi i sequestratori.

- Evitare di essere polemici e di voltare le spalle ai sequestratori.

- Evitare i comportamenti che potrebbero creare allarme o fastidio.

- Guardarsi intorno: una volta liberati si potrebbe essere d’aiuto alle forze dell’ordine.

- In caso di irruzione delle forze dell’ordine, tenersi pronti a gettarsi a terra.

Negoziatori

- Essere disponibili e flessibili di fronte alle richieste.

- Essere pronti a proporre possibili alternative.

- Lasciare che siano i sequestratori a fare la prima mossa.

- Non dare consigli.

- Non giudicare mai banali le richieste dei malviventi.

- Non fare riferimento agli ultimatum fissati.

- Non tornare su vecchie richieste.

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- Cercare di ottenere sempre qualcosa in cambio per ogni richiesta accolta.

- Non creare aspettative che non si possono mantenere.

- Scaricare sugli “alti comandi” l’impossibilità di accogliere determinate richieste.

L’FBI utilizza sempre team composti di sette persone: due negoziatori, il leader del

team, un tecnico delle comunicazioni, un coordinatore, un tattico ed un esperto nelle

scienze del comportamento.

CROSS-CULTURALE

In un contesto globale in cui sono in aumento estorsori e rapitori è di vitale

importanza essere a conoscenza di tecniche di negoziazione in continua evoluzione e

lo spostamento dei fattori è determinante.

Classificare e strutturare la propria strategia negoziale e la tecnica di comunicazione a

seconda dell'identità culturale di un autore sta diventando sempre più prioritario.

Da ricerche effettuate si analizza che nei modelli di interazione, in 25 casi di

negoziazione, gli autori hanno reazioni diverse a seconda degli argomenti persuasivi

e/o le minacce utilizzate ciò dipende dalla loro contesto e dall’alta o bassa identità

che i rapitori hanno.

Il cross-culturale tra negoziatore e sequestratore può portare a problemi di

comunicazione e conseguentemente a non ottimali risultati con rischio di escalation

del conflitto.

Le strategie di negoziazione devono attingere a molte discipline, al fine di spiegare la

complessità del processo in un ambiente instabile.

Gli schemi di comportamento, nei negoziati, sono influenzati dalle identità culturali

influendo in modo significativo nel loro successo il fallimento.

Vi sono situazioni come in Colombia dove la negoziazione diventa complicata oltre

da quello che abbiamo definito cross-culturale, anche dal contesto in cui è immersa la

situazione stessa.

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Vi è una profonda e complicata struttura delle cose che coinvolge molteplici

dinamiche e tipi di risultati dei negoziati (bilaterali, multilaterali, multilivello),

cessione di diritti e di potere e la ricerca di migliori alternative agli accordi negoziati .

Allo stato il negoziato, con l'attuale clima di scontro ideologico richiede uno

spostamento da un livello militare ad una strategia aggressiva che si concentra sulla

negoziazione e di un tentativo di trovare una soluzione attraverso la discussione e

compromesso. Questo va eseguito in un contesto bilaterale senza lasciare spazio ad

infiltrazioni di qualsivoglia genere che tendono solo a rallentare o deviare trattative

che potrebbero in breve tempo trovare risoluzione. I tipi di negoziato che esistono in

Colombia sono tra i peggiori possibili. I negoziati tendono ad essere multilaterali,

invece che bilaterali, problema, ripetuto più e più e più volte, Questo tipo di

situazione ha come conseguenza che il governo non è in grado di negoziare con

successo con la guerriglia, o convincerla a smettere con il sequestro di persona.

Fattore positivo nel tentativo di liberazione degli ostaggi è la presenza di mediatori e

facilitatori esterni che godendo della fiducia dei guerriglieri, riescono ad instaurare

trattative. Queste figure appartengono ad organizzazione di altri Paesi.

Negoziare in caso di ostaggi non è quindi cosa facile, ne è una cosa che si possa

imparare esclusivamente nei testi. Servono scambi di esperienze con i vari operatori

del settore, pratica attiva, un costante aggiornamento nei più disparati settori, una

buona conoscenza generale di cose “normali” comuni, Buone e varie esperienze a

livello personale. Per quanto possa sembrare impossibile a volte anche quale esca si

usa per la pesca d’altura (cito questo quale argomento a caso) può servire a scardinare

il portone che il sequestratore ha frapposto tra il negoziatore e se stesso e far iniziare

o continuare su binari che portano ad una conclusione positiva.

Contano molto le esperienze di vita che il negoziatore ha avuto, vari psichiatri

vedono questo come eventuale fattore negativo, ma da esperienze di molti negoziatori

poter comprendere chi si trova dall’altra parte della barricata consente di saper

prevedere eventuali mosse inconsulte e in concreto salvare vite umane.

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La negoziazione operativa, riportata e gestita a livello personale face-to-face, pur

essendo la più rischiosa per il negoziatore è quella che raggiunge i più significativi

risultati e che consente il rilascio in tempi più brevi degli ostaggi. Infondo siamo tutti

esseri umani. La semplicità ha da sempre dato i migliori risultati nella risoluzione di

tutte le controversie, portare ai minimi termini le questioni del conflitto, senza troppe

intromissioni, consente di trovare celermente e nel migliore modo per le parti

soluzione alla disputa.