anno 10 giugno 2000 - macondo.it · Andrea Bordin stampa Laboratorio Grafico BST Romano...

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38 anno 10 giugno 2000 rivista trimestrale dell'associazione per l'incontro e la comunicazione tra i popoli MADRUGADA La tenerezza è quando ci si sente piccoli. Così… in pezzi davanti all’altro. Quando nel suo sguardo ci accorgiamo di esistere. La tenerezza è quando si spartisce tutto e la comunione nulla sottrae dal giardino segreto che mai potrà appartenere all’altro. La tenerezza è quando piangiamo con le lacrime dell’altro. Quando sul suo volto s’asciugano dentro un sorriso. La tenerezza è quando ci mettiamo in ginocchio davanti alla libertà dell’altro. Quando sul punto dove si apre la ferita spunta d’un tratto l’Amore.

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r i v i s t a t r i m e s t r a l e d e l l ' a s s o c i a z i o n e p e r l ' i n c o n t r o e l a c o m u n i c a z i o n e t r a i p o p o l i

MADRUGADA

La tenerezza è quando ci si sente piccoli.Così… in pezzi davanti all’altro.

Quando nel suo sguardo ci accorgiamo di esistere.La tenerezza è quando si spartisce tutto

e la comunione nulla sottraedal giardino segreto che maipotrà appartenere all’altro.

La tenerezza è quando piangiamo conle lacrime dell’altro.Quando sul suo volto

s’asciugano dentro un sorriso.La tenerezza è quando

ci mettiamo in ginocchio davanti alla libertà dell’altro.Quando sul punto dove si apre la ferita

spunta d’un tratto l’Amore.

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direttore editorialeGiuseppe Stoppiglia

direttore responsabileFrancesco Monini

comitato di redazioneStefano BenacchioGaetano Farinelli

collaboratoriMario Bertin

Corrado BorsettiEnzo DemarchiEttore MasinaAndrea Pase

progetto graficoAndrea Bordin

stampaLaboratorio Grafico BSTRomano d’Ezzelino (Vi)

Stampato in 2.400 copie

Chiuso in tipografia il 31 maggio 2000

Registrazione del Tribunale di Bassano n. 4889 del 19.12.90La redazione si riserva di modificare e abbreviare i testi originali.

Studi, servizi e articoli di “Madrugada” possono essere riprodotti,purché ne siano citati la fonte e l’autore.

MADRUGADA38

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Via Romanelle, 12336020 Pove del Grappa / Vi

telefono 0424 80.84.07fax 0424 80.81.91

c/c postale 12794368http://www.macondo.it

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versi di Anonimo

fotografie

Adriano Boscato

SOMMARIO

3 controluceSilenzio fuori ordinanzala redazione

4 pensieriSalvaguardare l’“umano”di Enzo Demarchi

7 dentro il guscioSilenzio e interioritàdi Maurizio Casagrande

9 la prima beatitudineA fondamentodella vita interioredi fra Benedetto da Sillico

11 etica del confrontoLa politica interprete di un destino comunedi Ivo Lizzola

13 letteraOmbre gialledi Ettore Masina

15 controcorrenteViviamo come plebesugli spalti del circodi Giuseppe Stoppiglia

18 itinerariIl Dio dei poveriviaggia in autobusdi Egidio Cardini

20 in cerca d’aliRisvegli d’assenzadi Stefano Serato

21 il libroI passi leggeri delcammino interiore del viandantedi Andrea Gandini

23 terzo millennioIl sogno nasce dal realedi Maurizio Marchesin

24 diario minimoIl rumore dell’erbadi Francesco Monini

26 notizieMacondo e dintornidi Gaetano Farinelli

31 redazionaleL’infanzia rivisitataa cura di Chiara Cucchini

Hanno scritto fino ad oggi su Madrugada:Alberton Diego, Alunni Istituto Alberghiero Abano Terme, Alves Dos SantosValdira, Amado Jorge, Amoroso Bruno, Anonimo peruviano, Anonimo, AntonelloOrtensio, Arveda Gianfranco, B.D., Balasuriya Tissa, Benacchio Stefano, Benedettoda Sillico, Bertin Mario, Bertizzolo Valeria, Bianchin Saul, Bordignon Alberto,Borsetti Corrado, Boschetto Benito, Boselli Ilaria, Braido Jayr, Brighi Cecilia,Brunetta Mariangela, Callegaro Fulvia, Camparmò Armida, Cardini Egidio,Casagrande Maurizio, Castellan Gianni, Cavadi Augusto, Cavalieri Massimo,Ceccato Pierina, Chierici Maurizio, Colagrossi Roberto, Colli Carlo, CorradiniLuca, Correia Nelma, Cortese Antonio, Crimi Marco, Crosta Mario, CrostiMassimo, Cucchini Chiara, Dalla Gassa Marcello, Dantas Socorro, De LourdesAlmeida Leal Fernanda, De Marchi Alessandro, De Silva Denisia, De Vidi Arnaldo,Deganello Sara, Del Gaudio Michele, Demarchi Enzo, Di Felice Massimo, DiSante Carmine, Di Sapio Anna, Dos Santos Isabel Aparecida, Eunice Fatima,Eusebi Gigi, Fabiani Barbara, Farinelli Gaetano, Ferreira Maria Nazareth,Figueredo Ailton José, Fiorese Pier Egidio, Fogli Luigi, Fongaro Claudio e Lorenza,Furlan Loretta, Gaiani Alberto, Galieni Stefano, Gandini Andrea, GarbagnoliViviana, Garcia Marco Aurelio, Gattoni Mara, Gianesin Roberta, Giorgioni Luigi,Gomez de Souza Luiz Alberto, Grande Ivo, Gravier Olivier, Grisi Velôso ThelmaMaria, Guglielmini Adriano, Gurisatti Paolo, Hoyet Marie-José, Lazzaretto Marco,Lazzaretto Monica, Lazzarin Antonino, Lazzarini Mora Mosé, Lima Paulo, LizzolaIvo, Lupi Michela, Manghi Bruno, Marchesin Maurizio, Marchi Giuseppe eGiliana, Margini Luigia, Masina Ettore, Masserdotti Franco, Mastropaolo Alfio,Matti Giacomo, Medeiros J.S. Salvino, Mendoza Kuauhkoatl Miguel Angel,Menghi Alberto, Mianzoukouta Albert, Miguel Pedro Francisco, Milan Mariangela,Milani Annalisa, Miola Carmelo, Monini Francesco, Montevecchi Silvia, MorelliPippo, Morgagni Enzo, Mosconi Luis, Murador Piera, Ortu Maurizio, P.R., PagosMichele, Pase Andrea, Pedrazzini Chiara, Pedrazzini Gianni, Pegoraro Tiziano,Peruzzo Dilvo, Peruzzo Krohling Janaina, Peyretti Enrico, Pinhas Yarona, PintoLúcio Flávio, Plastotecnica S.p.A., Ramaro Gianni, Ramos Valdecir Estacio,Ripamonti Ennio, Rossetto Giorgio, Ruiz Samuel, Sansone Angelica, SantarelliElvezio, Santiago Jorge, Sartori Michele, Sbai Zhor, Scotton Giuseppe, SellaAdriano, Sena Edilberto, Serato Stefano, Simoneschi Giovanni, Sonda DiegoBaldo, Spinelli Sandro, Stanzione Gabriella, Stoppiglia Giuseppe, StoppigliaMaria, Stradi Paola, Tanzarella Sergio, Tessari Leonida, Tomasin Paolo, TonucciPaolo, Tosi Giuseppe, Touadi Jean Leonard, Trevisan Renato, Turcotte François,Turrini Enrico, Vulterini Stefania, Zanetti Lorenzo, Zaniol Angelo, Zanovello Ivano.

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Caro lettore e cara lettrice,

forse abbiamo tentatoun’impresa difficile: scri-vere sul silenzio e l’inte-riorità; e gli amici si sonocimentati con coraggio. Ioaccompagno i gesti delnonno nelle sue passeg-giate con il nipote, cui af-fida “I pensieri” che De-marchi trascrive e riportaper “Salvaguardare l’uma-no”. Dentro il guscio tro-vo mille voci che richia-mano e suggeriscono il si-lenzio, che riflette, comeafferma Maurizio Casa-grande, l’interiorità che vitrova il suo spazio.

Mostra qualche perples-sità sull’uso del termine in-teriorità fra Benedetto daSillico in “La prima beati-tudine” per scoprire la di-mensione trascendente delsilenzio e della vita spiri-tuale, che è la vita dellospirito.

Ivo Lizzola inizia con ladomanda se la politica puòfare silenzio, nel suo arti-colo “La politica interpretedi un destino comune”, evisto il compito che le sisuggerisce (dico alla politi-ca) io credo che proprio non ci sia altra spondacui possa appoggiarsi (vale a dire al silenzio).

Poi uno squarcio sulla violenza che dominale relazioni che il silenzio rende ancora più tra-gico, e che l’interiorità accoglie nella sua me-moria quando non cerca emozioni passeggerenella lettera di Ettore Masina su “La memoriadelle tragedie”.

Il controcorrente di Giuseppe Stoppiglia siapre con una scena di sangue costruita sullamemoria, senza nulla concedere alla rassegna-zione e per scoprire il fondo della nostra re-sponsabilità, che a volte tenta di nascondersidietro le spalle dell’operatore televisivo.

Ora s’accende il rombodi un motore; attorno unapiccola folla di uomini,donne e bambini s’accal-ca senza premere e parteper un lungo viaggio sen-za meta negli “itinerari”di Egidio Cardini dove “Ildio dei poveri viaggia inautobus”.

Non vola l’autobus, eplana “in cerca d’ali” nel-la lirica di Roberta Giane-sin de “La notte dei silen-zi”; e sui deserti bruciati,sotto i passi affaticati e so-lerti di Stefano Serato in“Risvegli d’assenza”.

Non è flagrante il rumo-re dell’autobus nel silenziodella notte; qualcuno dor-me ed accompagna i sognidel “Terzo millennio” diMaurizio Marchesin.

Cosa ci riservi il “diariominimo” di FrancescoMonini non è necessarioscriverlo perché ormai hagià assicurato il suo letto-re, che cerca ansioso l’u-mano negli stralci di cro-naca che il tempo avvi-luppa, e la vita.

Schizza sulle ultime pa-gine il chiacchiericcio diMacondo e dintorni di

Gaetano Farinelli, che forse ha dimenticatoqualche nome di troppo.

Scivola ora sulle immagini di Adriano Bo-scato la penna lieve di Chiara Cucchini sen-za segnare o ricalcare i bordi dell’infanzia ri-visitata.

Chiude il numero Andrea Gandini sul diariodi Giuseppe e la presentazione del libro del-l’anno, Clochard, di Michel e Colette Collard-Gambiez, che forse tu ancora non hai letto, per-ché le tue notti sono dolci e non cala la luna sultuo volto di pioggia.

La redazione

Silenzio fuori ordinanzaScorrendo le pagine di Madrugada

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Ricordo le passeggiate col nonno, al-la scoperta del mondo favoloso deidintorni del mio paese. Orti, campi,piccoli canali, fossi, mormorio d’a-cque tra il verde di prode erbose, ce-spugli, piante… ma di quelle passeg-giate ricordo soprattutto il silenzio delnonno. Era un silenzio che facevastranamente eco al silenzio stesso del-la natura, pervaso di voci misteriose:sorgeva davanti ai miei occhi stupiti,al mio cuore pieno di segreta emo-zione il mondo della creazione, del-le cose semplici ed umili di sempreche il nonno mi additava con un pic-colo cenno della mano, della testa,degli occhi, un “oh” di meraviglia.Sentivo quello stupore originario del-l’esistenza del mondo che, da adulti,suggerisce riflessioni apparentemen-te banali, del tipo: «Come è straordi-nario che esista qualcosa!», e sono in-vece rigorose riflessioni filosofiche(L.Wittgenstein).

«- Pietre - Non è che le pietre sianomute: - stanno solo in silenzio. - Al-

bero - Libro verde - albero poeta -quanta poesia nelle tue foglie! -Chiunque - si posi sui tuoi rami - di-venta cantore. - Il vento - Il vento bal-la, - stende le sue ali e gira. - Il ventoè un uccello grande, - vola alto - al disopra del cielo; - per questo - sentia-mo solo il soffio delle sue ali» (poesiedell’indio Humberto Ak’abal, pubbli-cate su SIAL, n° 7, 1997).

Resurrecturis

Del nonno ricordo, sì, alcune paro-le. Passando accanto al cimitero, mifaceva compitare l’enigmatica scrit-ta sul frontone d’ingresso: “Resur-recturis”. E mi spiegava - aveva fattoil ginnasio, a quei tempi! - cosa vo-lesse dire: «per quelli che risorge-ranno». Era il luogo dei dormientiche un giorno si sarebbero destati erialzati. Quel luogo di silenzio, av-volto di tanti discorsi tristi e di tantepaurose immagini, diventava un luo-go di misteriosa pace. Come un se-me gettato sotto terra. Anche loro, imorti, vengono seminati e alla finegermogliano... Un seme sotto terra.Buio e silenzio. Ma quale fervore se-greto e quanta attesa!...

Incontrare una persona è ritrovarsidi fronte (in-contro) e insieme a unaltro. Ritrovarsi in due, senza confon-dersi. Accogliersi e sentirsi accolti,non sentirsi giudicati. Scoprire la ga-ranzia della propria inviolabile inte-riorità in quella altrui. Due mondiche non si invadono, che non diven-tano “oggetto” l’uno dell’altro, non sistrumentalizzano. Ci vuole talvoltamolto tempo per incontrare una per-sona… «Porsi in atteggiamento con-templativo vuol dire saperattendere… L’atteggiamento contem-plativo deve permettere, a chi nonc’è abituato, di essere accolto perquello che è, senza secondi fini…

Salvaguardare l’“umano”

di Enzo Demarchi

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Porsi nell’atteggiamento di chi saascoltare tutto senza giudicare (lapersona)» (Michel e Colette Collard-Gambiez, Un uomo che chiamanoCLOCHARD, Ed. Lavoro/Esperien-ze/Macondo libri, 1999, p. 34 ).

Rivelazione

L’incontro è quasi sempre caratte-rizzato da rivelazione. Non quellacontenuta nelle Scritture religiose,almeno non solo e non prima di tut-to quella, ma la rivelazione che av-viene originariamente tra due per-sone che comunicano in manieraautentica tra loro. Non si conosceuna persona osservando, studiando,accumulando montagne di dati eschede. Nessun cervellone può farconoscere una persona. È la parola(comportamento, gesto, atto inten-zionale, silenzio) che rivela la per-sona, svelando ciò che ha dentro evelandolo di nuovo (duplice signifi-cato di ri-velare). Nessuno conosceil proprio “volto”; quando lo vedeallo specchio lo sente istintivamen-te quello d’un estraneo. Il nostro vol-to è fatto per essere conosciuto daaltri: è appunto “volto” (rivolto) adaltri. Come dice Giuseppe Stoppi-glia, «tutto è precario, tranne la re-lazione». L’interiorità si vive nella re-lazione, che diventa rivelazione: unsegreto che fa comunione con un al-tro segreto.

Consiglio - Parla con chiunque -perché non pensino che sei muto - midisse il nonno. - Ma una cosa: sta at-tento - che non ti trasformino in un al-tro (indio Humberto Ak’abal). Si puòdir meglio la necessità della relazio-ne umana nella salvaguardia dell’in-teriorità come identità personale?

Dice un proverbio arabo: «Fortu-nati e felici due amici che sannocamminare insieme senza parlare»(è l’esperienza del deserto e del no-madismo che fa fiorire un’autenticacomunione umana nella solitudinee nel silenzio?). Mi viene in mentel’amicizia sobria e profonda che sisalda tra compagni di gite alpine.Come dimenticare quel passo rit-mato sul respiro, quegli occhi assor-ti nella conquistata contemplazionedel paesaggio, quel silenzio che èl’eco d’una parola trasmessaci dalmondo circostante, un mondo nuo-

vo di intatte meraviglie, quella ma-no che si stringe a un’altra manoquando il sentiero si fa improvvisa-mente più ripido e presenta passag-gi difficili?

Non è con chiacchiere che si con-sola o distrae un morente. Non perquesto si diserta il suo letto. Ricordoquali indelebili momenti di comuni-cazione essenziale siano stati quelliin cui ho potuto tenere silenziosa-mente nella mia la mano d’una per-sona cara poco prima di morire (in-consapevole pratica di “aptonomia”).«Quando non si può più fare nulla,tuttavia si può ancora amare e sentir-si amati, e molti moribondi, nel mo-mento di lasciare la vita, ci hannolanciato questo messaggio struggen-te: non ignorate la vita, non ignoratel’amore. Gli ultimi istanti della vita diun essere amato possono essere l’oc-casione di spingersi con lui il più inlà possibile. Quanti di noi colgonoquesta occasione?» (Marie de Hen-nezel, psicologa e psicanalista ope-rante nelle unità di cure palliativepresso l’ospedale della città universi-taria di Parigi, La morte amica, BUR1996, p.17).

Parlare e dire

«Dire e parlare non sono la stessa co-sa. Uno può parlare, parla senza fine,e tutto quel parlare non dice nulla.Un altro invece tace, non parla e può,col suo non parlare, dire molto» (M.Heidegger, In cammino verso il lin-guaggio, Mursia 1990, p.198). Nonc’è bisogno di scomodare filosofi co-me Heidegger, o Bergson, per sapereche parliamo tanto perché non riu-sciamo a dire quello che veramenteimporta e che vorrebbe sempre resta-re un segreto appena sussurrato, condiscrezione e pudore, quasi chieden-do scusa. Sono forse poeti, mistici,bambini e... pazzi coloro che ascol-tano più d’ogni altro il silenzio, sen-za confondere la parola con la chiac-chiera.

«A dispetto di tutto e malgrado tut-to, bisogna mettersi indefinitamenteall’ascolto del silenzio di Dio, all’a-scolto del Verbo che presiedette al-lo sbocciare del mondo, all’irrom-pere della luce, che dialogò con iprofeti, che si fece Carne, e che poi,riallacciandosi alla sua misteriosasolitudine originale, si diffuse di

nuovo in un grande silenzio... Il si-lenzio è una im-materia fissile, bi-sogna spezzarla a forza di ascolto edi interrogazione fino a provocarel’esplosione e l’effusione dell’im-mensa riserva di energia che contie-ne» (Sylvie Germain, Gli echi del si-lenzio, Edizioni Lavoro - EditriceEsperienze, 1998, p.108-9).

«Il raccoglimento (l’interiorità) nonpersegue un rifugio, ma una raccol-ta di forze per un migliore attacco;e non cerca il silenzio per il silenzioo la solitudine per la solitudine, mail silenzio perché vi si prepara la vi-ta e la solitudine perché vi si ritroval’uomo» (E.Mounier, Che cos’è ilpersonalismo?, Einaudi, Torino1948, p.80).

«Di ciò di cui non si può parlare sideve tacere» (L.Wittgenstein alla fi-ne del suo Tractatus logico-philo-sophicus). Commento di P. Engel-mann (in Lettere di Ludwig Wittgen-stein): «Il positivismo sostiene checiò di cui possiamo parlare è tuttociò che conta nella vita. Invece W.crede appassionatamente che tuttociò che conta nella vita umana èproprio ciò di cui, secondo il suomodo di vedere, dobbiamo tacere».E ancora: «Il linguaggio di W. è quel-lo della fede non espressa in parole...Nel futuro gli ideali non saranno co-municati per mezzo di tentativi attia descriverli, ma da esempi di un’ap-propriata condotta di vita» (cit. inD.Antiseri - M.Baldini, Lezioni di fi-losofia del linguaggio, Nardini ed.,1989, p.155ss).

«Mano nella mano»... Quella delnonno che mi conduceva a scoprireil mondo della mia infanzia, ma miguidava anche a scrivere le prime let-tere, i numeri: un doposcuola, unaripetizione che rinnovavano la “le-zione” in classe. E ricordo la sua ma-no nella mia, a guidarmi a passi len-ti (il passo del vecchio accordato, rit-mato su quello del bambino) per ma-gici sentieri lungo prode erbose difossi e ruscelli mormoranti in mezzoai brusii della campagna. Il nonnonon era praticante, forse nemmeno“credente” nel senso confessionaledel termine, eppure con la sua pre-senza silenziosa mi dava la sicurez-za e la pace indicibile che comuni-ca ogni fede vissuta. Lui era con me,mi accoglieva e valorizzava per

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quello che ero, diventava letteral-mente il mio “compagno”: era lui aspezzarmi il pane, a offrirmi da berealla sua umile mensa, in una stan-zetta che mi sembrava contenesse ilmondo intero.

... Quella della mamma nelle nottidi paura degli allarmi aerei: avevo bi-sogno di sentirmi preso per mano, nelmio lettuccio a fianco del letto gran-de per comunicare silenziosamente,in segreta osmosi, con una sicurezzaindubitabile.

... Quella dell’incoraggiamento inun momento difficile; quella del pat-to-promessa-fedeltà-amore, sigillatosenza parole di troppo, parole checonfondono.

Un professore di filosofia, un tipostrano, al liceo dedicava dieci minu-ti d’ogni lezione alla lettura di qual-che opera letteraria straniera (per lopiù in francese)... Ci metteva a con-tatto di autori veri (autorità da auge-re = far crescere), ci svelava anche ilgenio, l’interiorità delle lingue. Le-zione che non avrei dimenticato. Tra-durre da un’altra lingua divenne ap-passionante esercizio di scoperta e ri-

creazione, ascolto e trasmissione, in-teriorità feconda...

«Nella mentalità tecnico-scientificaqualcosa ha senso solo se ‘utilizzabi-le’, solo se ‘impiegabile’ per qualco-s’altro. In questo ‘universo di mezzi’non si dà un ‘fine’ che possa acquisi-re una sua rilevanza se a sua voltanon assurge al rango di ‘mezzo’ perqualcos’altro» (U.Galimberti, in LaRepubblica, 24 marzo 2000, La zonad’ombra della scienza).

Oggettività della scienza e utilitàdella tecnica non dicono nulla del vi-vente dell’uomo e della sua relazio-ne. Il segreto d’ogni persona, la suainteriorità non è oggettivabile e stru-mentalizzabile, non è in vendita sunessun mercato. Il suo semplice si-lenzio sfida tutte le parole che di leisi possono dire.

L’interiorità permette il dono di sénel rispetto dell’altro.

«Il rapporto (d’amicizia e d’amore)pienamente umano e liberante ri-chiede autonomia e accettazione ar-monica della propria incompletezza.Per donarsi è indispensabile posse-

dersi: solo se siamo sufficientementeintegrati al nostro interno possiamodonarci a un’altra persona e amarlaper se stessa. Ciò che non significa ri-nunciare allo slancio, al bisogno, al-l’emozione, ma guardare l’altra per-sona come tale: cioè nella sua unicità,nel suo mistero, nel suo futuro infini-to» (Lilia Sebastiani, in Rocca, n.6/2000, Un cuore indiviso).

Una povera coppia di anziani co-niugi, seduti sulla panchina d’un par-co in un pomeriggio autunnale: manonella mano, in silenzio, godono dellaluce pallida, dell’ultimo tepore dellastagione. Ogni parola è già stata det-ta, ogni passione esaurita, ogni tem-pesta placata. La vita è alle spalle, ep-pure tutta presente in quel silenziosocongiungersi delle mani, un gesto dipazienza, un tenue sorriso di ricordoe di speranza, un invincibile segno difedeltà perseverante dentro e oltreogni umana vicissitudine. Così parladel simbolo più concreto dell’amoreumano un teologo ortodosso, A.Sch-memann, in The world as sacrament.

Enzo Demarchi

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Silenzio e interiorità

di Maurizio Casagrande

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Armonia di contrari

Esistono molteplici accezioni del ter-mine silenzio: c’è il silenzio sterile estanco di chi ha parlato troppo, ac-canto al silenzio forzato di chi nonpuò parlare perché non ne ha la fa-coltà (i muti) o perché ne è impeditodall’autorità (i dissidenti); c’è il silen-zio rassegnato della vittima che ha ri-nunciato alla lotta, accanto al silenziodi chi non si sottrae alla lotta pur nonavendo alcuna voce per rivendicare leproprie ragioni; c’è il silenzio dellamistica e della contemplazione, c’è ilsilenzio richiesto ed indotto dal con-tatto con la pagina scritta e c’è il si-lenzio che aleggia sul campo di bat-taglia dopo uno scontro cruento: il si-lenzio della morte; c’è, ancora, chi ta-ce perché non ha nulla da dire e chi,al contrario, tace perché ogni dire ri-sulterebbe inadeguato e “parla”, mol-to più incisivamente, proprio tacendo.

Naturalmente c’è silenzio e silen-zio; ma che cos’è il silenzio? Si po-trebbe dire che è una dimensione dicui l’uomo ha vitale bisogno come èdell’aria per il respiro; ma è pure ar-monia di contrari, è lotta all’ultimosangue con i propri dèmoni, è stasiche pone le premesse per una nuo-va forza, è soprattutto ascolto, è bel-lezza, è estasi e perdizione, è unodei poli indispensabili al darsi e alpieno dispiegarsi della dialettica del-l’esistenza.

Non è semplicemente e riduttiva-mente assenza di suono – questo èsoltanto il senso più povero dell’e-spressione: è piuttosto la condizionestessa che rende possibile (e dotata disenso) ogni comunicazione, ognisuono.

Il silenzio, a condizione però che sitratti di una scelta volontaria e non in-dotta dall’esterno, è anche libertà nel-la sua forma più alta, è autenticità, è,paradossalmente, piena espansionedella soggettività e delle sue poten-

zialità: ne sono una prova le arti, dal-la musica alla poesia.

Con questo, naturalmente, non sivuole negare il potenziale negativoche il silenzio racchiude: all’internodi rapporti logorati, nella famiglia co-me nella società, esso può infattiadombrare tensione e rifiuto spinti fi-no ad un’aperta ostilità che si esplici-ta nella negazione dell’altro; valorenegativo il silenzio può assumere pu-re in situazioni cruciali quali la sepa-razione inattesa ed innaturale da unapersona cara: la morte – incarnazio-ne del silenzio supremo – può appa-rire quale negazione radicale ed irre-versibile di ogni possibile dialogo inquanto annientamento dei soggettimedesimi tra i quali dovrebbe inne-scarsi lo scambio comunicativo.

Il silenzio acquista tuttavia una con-notazione ulteriore e molto forte nel-l’ambito della teologia, di quella teo-logia che è stata troppo sbrigativa-mente classificata con la formula diteologia “negativa” o della morte diDio: per i teologi di questo orienta-mento – ma il discorso si potrebbeestendere pure alla letteratura e alla ri-flessione teologica dell’ebraismo dopol’esperienza della shoah – il silenzio,l’assenza, al limite la morte stessa, di-vengono le cifre per antonomasia del-la trascendenza, di un dio che si “ri-vela” proprio nella negazione di sestesso, nell’assurdo e nel paradossale:il silenzio di Dio, pietra d’inciampo edi scandalo per gli uomini, anche perquelli di fede, del Novecento!

Perfino nella storia della chiesa il si-lenzio ha avuto e continua ad averenotevole spazio: si pensi alla formulache era in uso fino a pochi anni or so-no per alludere alle comunità cristia-ne dei paesi satelliti dell’URSS (“Chie-sa del silenzio”); ma non si può di-menticare nemmeno il silenzio im-posto d’autorità dalle gerarchie ec-clesiastiche a voci scomode di cre-denti in anni non troppo lontani:

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Dom Helder Camara e i teologi del-la liberazione, Lorenzo Milani e tan-ti altri preti controcorrente.

Il silenzio, oggi

Il silenzio, per chi scrive, è un valoreda riscoprire – attingendo per esem-pio alla tradizione delle nostre cam-pagne, o a quella delle genti di mon-tagna – e da difendere contro l’inva-denza e l’arroganza della società me-diatica globalizzata e globalizzante,onnipresente ed onnipervasiva; è unbisogno e una necessità in un mondosempre più dominato dalla fretta, daiMoloch del profitto e dell’efficienza;è un lusso che non ha prezzo e chebisogna sapersi concedere centelli-nando i propri interventi e restituen-do alla parola la sua dignità più veraliberandola dalle incrostazioni che iltempo ha sedimentato, attraverso usinon sempre appropriati.

Si tratta di una dimensione che in-trattiene rapporti molto stretti conquella dell’interiorità, senza per que-sto appiattirsi, annullandosi, nell’au-toreferenzialità: silenzio ed interioritàsono quasi le due facce di una stessamedaglia.

Si tratta, anche, di una condizione digrazia che non è per tutti e che non èdato a chiunque sperimentare: è il si-lenzio che elegge i propri fedeli e lisceglie con cura. Esso è pure una con-dizione antitetica rispetto alla moder-nità, a quella occidentale almeno:l’uomo del 2000, l’uomo o la donnadi Milano, Berlino, Parigi o New Yorkparlano, gridano, chattano ma non co-municano, non entrano mai davveroin relazione e non lo possono fare fin-tantoché non prendono coscienza cheil loro codice espressivo è ormai logo-ro ed insignificante – proprio perché sipresta a significare indifferentementetutto – paradossale ma logica conse-guenza della globalizzazione indottadai e nei sistemi dell’informazione.Ora che la parola è giunta ai limitiestremi della propria significanza è ar-rivato il momento di una “epoché” dellinguaggio, di una sospensione dellechiacchiere vuote ed inautentiche perrestituire alla parola la sua valenza diverità e di rivoluzione/rivelazione.

Ed il primo passo è l’ascolto, nel si-lenzio, delle voci che ciascuno portain sé.

Maurizio Casagrande

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d e n t r o i 1 g u s c i o

Michel e Colette Collard-Gambiez

Un uomo che chiamanoCLOCHARD

Quando l’escluso diventa l’eletto

Edizioni Lavoro / Esperienze / Macondo Libri

Roma 1999, pp. 381, Lire 30.000

u n l i b r o

Stendere la mano a chi passa, cercare il cibo nei bidoni della spazzatu-ra, dormire sui marciapiedi e nei corridoi della metropolitana… questa èla sorte tragica dei senzacasa nella nostra società opulenta.Colette e Michel, che di questa società facevano parte, si sono uniti a loro,non per aiutarli, come si fa di solito, ma per tracciare assieme a loro uncammino nuovo di vivere la propria umanità.Da diciassette anni lui, da otto lei, rispondendo al richiamo evangelico,con una scelta di sapore francescano, condividono giorno e notte la vitadei clochards.A mani nude, nella miseria assoluta, non fanno altro che lasciarsi acco-gliere dai più poveri in una presenza amichevole e fraterna. È il mondoalla rovescia.Sono essi gli autori di questo libro, dove raccontano l’esistenza dramma-tica dei loro compagni e le loro aspirazioni più profonde.Un libro testimonianza sconvolgente che si rivolge a tutti.Uno di quei libri che può cambiare l’esistenza.

Michel Collard, 52 anni, entra molto giovane dai francescani. Scopre ilmondo della grande miseria, grazie a una associazione di volontariato, dicui fa parte per cinque anni. Nel 1983 decide di condividere la vita deisenzacasa nella sua interezza. Nel 1992, dopo aver lasciato l’ordine fran-cescano, prosegue il suo cammino con Colette, diventata nel frattemposua moglie.

Colette Gambiez, 41 anni, dopo aver esercitato per nove anni la profes-sione d’infermiera, crea la comunità Magdala a favore dei senzacasa. Ottoanni fa conosce Michel e, dopo aver abbandonato tutti, si unisce a lui,condividendo insieme la vita dei più poveri.

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L’espressione “vita interiore”, anche seassai di moda, mi pare molto vaga e ri-duttiva. Preferisco parlare di “vita spi-rituale”. L’interiorità è una semplicecomponente della psiche umana, chesi manifesta attraverso scelte esisten-ziali e filosofiche, tutte costruite sul ra-ziocinio umano. C’è l’adeguamento aduna forma mentis che non porta all’u-niversalità e spesso sbocca nel settari-smo e nell’“elitismo”. La vita spiritua-le non è immune da tali pericoli – sela si riduce a vita interiore! – però si ri-collega ad un’intuizione del divino odel sovrannaturale insito nella co-scienza umana e si sviluppa con essa.Solo le due espressioni saranno diver-se secondo le epoche e le culture.

Essendo io monaco cristiano, mi at-terrò all’esperienza cristiana o, in mo-do più sicuro, al richiamo di Cristosulla vita spirituale: la vita di ciascu-no di noi nello Spirito; l’incarnazionenostra dello Spirito, portando il so-stantivo spirito all’aggettivo spirituale.

D’altra parte, nella nostra epoca co-sì chiassosa, non si è mai tanto parla-to del silenzio. Però si preferisce tro-vare i mezzi per mettere a tacere glialtri piuttosto che tacere noi stessi.Sarà che ciascuno di noi ha tante co-se da comunicare!

Il silenzio si manifesta in vari modi.Non è una mera assenza di suono. Ilsilenzio che ci interessa non è ester-no all’essere: è propriamente un mo-do dell’essere e non stare in un mo-do o in un altro; il silenzio è vivo, èuna tensione dell’anima o, se si vuo-le, una vigilanza del cuore. È fonda-mentale, in quanto fondamento del-la vita spirituale. A patto che non siintenda fondamento, come comune-mente lo si intende, come quello diuna casa o di una legge. Il fonda-mento spirituale del cristianesimo èla Parola viva, riconosciuta e rivela-tasi nel corso del nostro pellegrinag-gio terreno ed è in questo stato pel-legrino che il silenzio entra come

fondamento. Per rimanere al parago-ne del fondamento fisico della mate-ria, Cristo è il basamento e il silenzioè il fondamento.

I vostri pensierinon sono i miei pensieri

La costruzione della vita spirituale pas-sa attraverso l’assimilazione esisten-ziale delle Beatitudini, dove Gesù ri-balta tutti i luoghi comuni più cari agliuomini. Mai è stata tanto vera la paro-la del profeta che fa dire a Dio: «I vo-stri pensieri non sono i miei pensieri,le vostre vie non sono le mie vie». Laprima beatitudine è l’illustrazione an-tropologica del silenzio. Perché?

Abbiamo per abitudine di pensareche la libertà, l’indipendenza sono ne-cessarie a delle scelte vere ed autenti-che, e assimiliamo questi due terminiad un altro altrettanto ambiguo: auto-sufficienza. Dimentichiamo che la no-stra libertà è sempre mediata e chel’indipendenza è solo affermazione dipredilezione per una dipendenza. Ipensieri umani, in quest’ambito, sonotutti fasulli o, più esattamente, basan-dosi su presupposti assiomatici, crea-no un sistema infrastorico limitato adun periodo sempre più ristretto dellastoria, escludendo la transitorietà del-l’uomo e delle sue istituzioni; tanto èvero che i nostri più belli ideali di so-cietà perfetta, cioè chiusa, finisconocon creare l’ennesimo inferno. Esem-pi lampanti sono sotto gli occhi del-l’intera nostra generazione, ma conti-nuiamo a voler strutturare le nostreutopie politico-sociali. Cristo, nellaprima beatitudine, ci propone un’al-tra utopia – utopia perché la propostafattaci è metastorica: la sua realizza-zione non è di nessun tempo e di nes-sun luogo determinato; direi che è psi-co-culturale: è l’esodo dalle nostreutopie ed è espressa fattivamente dal-lo stato interiore di silenzio.

A fondamento della vita interiore

di fra Benedetto da Sillico

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Beati i poveri in spirito

«Beati i poveri in spirito, perché ve-dranno Dio». Che cos’è maggior-mente auspicabile di vedere la luceche illumina il cammino di ogni uo-mo? La luce vera, sorgiva! Cristo nondice «beati i poveri» e infatti chi maioserebbe affermare che i poveri sonobeati o che uno stato innaturale didegrado umano sia la via universaledella felicità? Se i poveri fossero in-trinsecamente beati, la Rivelazionenon ci presenterebbe Dio come il lo-ro protettore; un protettore che nonchiede nessun conto al povero. Alcontrario, gli assicura che la sua po-vertà lo pone, ipso facto, fuori daogni forma di giudizio.

Non si tratta della povertà volonta-ria che entra nelle scelte etiche, madella povertà subita, quale ne sia l’o-rigine. Ed è il senso della povertàevangelica, evidentemente non è ilsenso imposto dai media per dare unasferzata psicologica al mercato oquello dei buoni sentimenti propensia creare l’uomo alla misura delle no-stre bramosie o delle nostre brutte co-scienze. L’esempio del povero delle

Beatitudini è di chi non può - per for-za o per diritto - esigere nulla.

Esigere? Rivendicare niente perchéprivato di tutto non è ascoltato da nes-suno; più di essere un nullatenente èun nonnulla.

«In spirito». Con il suo verbo profeti-co, Gesù non vuole nemmeno esserefrainteso. Non parla di una situazionesocioeconomica, nemmeno di un fattoculturale, ribadisce che nell’economiadivina questi poveri, nonnulla della so-cietà, sono i bambini di Dio. Non sichiederà loro alla fine dei tempi più diquanto si chiede ai bambini. Pur di nondimenticare che l’uomo libero, cioè ric-co, se non ritroverà lo stato d’animo delbambino, rimarrà fuori del Regno.

Servi inutili

Che cosa significherebbe se non chel’uomo non può accedere alla vitaspirituale prima di essersi svuotato dise stesso per fare spazio a Dio? Checosa è tale svuotamento, se non il si-lenzio? Silenzio dell’ascolto, silenziodella fede, silenzio dell’amore. Silen-zio del discepolato, certo, ma silen-

zio più essenziale ancora, stato co-sciente di chi davanti a Dio è un non-nulla. Solo su queste fondamenta Diocostruirà la casa «non fatta di manod’uomo»; una casa in cooperazioneperché il silenzio se è vivo è genera-tore di vita spirituale. È vita di Dio innoi, tramite noi.

«Servi inutili» - ci dirà Gesù un’al-tra volta, inutili certo ma servi lo stes-so. Inutili perché nessuno è indispen-sabile ma servi perché servitori dellaParola che salva; non la propria, mala parola intuita, riconosciuta nel si-lenzio delle nostre logiche. O se il vo-cabolo servo ferisce la nostra menta-lità: innesto. L’innesto non vive di vi-ta propria, vive della linfa del tronco.Evidentemente, l’innesto non si rin-chiude con la linfa altrui in una torred’avorio di compiacimento e di con-templazione che sia, ma cresce e por-ta frutti, quelli che gli permette di ma-turare la sua individualità specifica,trasformandosi in personalità spiri-tuale. Se fa l’indipendente, il sapien-te muore: gli manca la sorgente dellaquale il letto è il silenzio.

fra Benedetto da Sillico

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Può la politica “fare silenzio”? Ascol-tare i silenzi delle città è cercarecontatto con ciò che nel silenzio s’e-sprime, si nasconde, si riserba: il do-lore e il nascere, il resistere nelleprove e la fedeltà, la cura e il diso-rientamento. Ciò che è gemito di vi-ta e ciò che è fremito di vita abitanoil silenzio. Grande battito della vita,personale e sociale.

Un diverso rapporto con il potered’una politica non ideologica chie-de una capacità della parola politi-ca di farsi carico di un attraversa-mento-riconoscimento dei silenzi edelle ombre della città. Di farsi co-struttrice di soglie per l’incontro làdove la vita è più evanescente e i di-ritti sono più infragiliti.

In questo grande bisogno, “dram-matico”, di politica, “si resiste”, si è“eccedenti”: qui il realismo parados-sale di chi ha fede!

Questo uomo, questo mondo, hanbisogno che li si ami, che li si sveli asé, li si apra da dentro; che la politi-ca del comune destino si sveli comela politica per l’uomo.

Da diverso tempo specie dopo ilcrollo dei muri e delle ideologie, I’a-zione politica pare, invece banal-mente, intendere la coscienza dellepersone come «una sorta di escre-scenza soggettiva o emotiva, cresciu-ta sopra le leggi economiche e i si-stemi di informazione» (per usare pa-role dell’ultimo Balducci).

Rappresentareo interpretare

Forse è tempo che sulla scena poli-tica si presentino persone capacinon tanto di rappresentare quanto diinterpretare.

La rappresentanza si è andata sem-pre più marcatamente esprimendocome legata a bisogni o interessi pre-si “così come sono”. In scambio, in

competizione. Oppure legata a unterritorio, oppure, ancora, a una ri-vendicazione.

Tutto ciò è, certo, per certi aspettiinevitabile e anche legittimo.

Ma interpretare è altro. “Farsi in-terpreti”, anzitutto. È capacità disintonia con le persone, e un con-testo sociale, nelle loro contraddit-torietà e ricchezze, anche nei loroconflitti interiori e nelle loro ambi-guità, oltre che nelle ansie e nellesperanze. In servizio e in ascolto,capaci di individuare linee di pro-getto e consenso cui chiamare per-sone intere e non ruoli o domandespecifiche.

Persone intere, e comunità che nelprogetto di costruzione di relazionisociali e con le cose, si ri-conoscono,decidono di sé e del loro stile di vita.Vengono svelate e, insieme, possonodarsi spazi di libertà e responsabilitàin riprogettazioni.

Ci vuole amore, pazienza, pietà. Persé e per l’uomo.

E gusto di avviare a convocare per-sone e gruppi a una narrazione per-sonale e comune dentro il tempo delvivere, e dentro i tempi sociali, co-noscitivi, economici, legislativi, pe-dagogici.

Una realtà di relazioni funzionali edi relazioni polari è una realtà senzaluoghi per il riconoscimento, per l’in-contro. Senza soglie sulle quali l’in-contro tra donne e uomini è scoper-ta, pratica, dell’obbligo. Dell’assu-mere la consegna dell’altro.

Perché si dia il riconoscimento, econ esso la capacità-possibilità di rap-presentanza, occorre definire tali so-glie. Sia nei luoghi istituiti, ad esem-pio le scuole, sia nelle realtà dell’ag-gregazione informale.

È una strategia pedagogica e sociale,dall’alto valore politico. Che si muovein due direzioni: nella de-saturazionedelle istituzioni, nella ri-composizionedi contesti locali-globali.

La politica interprete di un destino comune

di Ivo Lizzola

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e t i c a d e l c o n f r o n t o

«… Ogni forte manifestazione

di potenza esteriore,

sia di carattere politico che di

carattere religioso [produce]…

una privazione dell’indipendenza

interiore dell’uomo, sopraffatto

dall’impressione che su di lui

esercita la manifestazione della

potenza, tanto da fargli rinunciare

- più o meno consapevolmente -

alla ricerca di un comportamento

suo proprio verso le situazioni

esistenziali che gli si presentano».

[Dietrich Bonhoeffer

Dieci anni dopo, Natale 1942]

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Confini e zone d’incontro

Definire qui le soglie serve anche perevitare intrusioni o pressioni indiffe-renti che sanciscono dipendenze, co-me per evitare estraneità e in-diffe-renze, che sanciscono separazioni.Non ci sono soglie per incontri neiquali sia garantito il parlarsi aperto e,insieme, il rispetto e il pudore se glispazi sono troppo pieni, i ruoli rigidie se non c’è tempo.

Nelle scuole, nelle istituzioni, neiluoghi aggregativi e associativi, le so-glie vanno definite, ma, soprattutto,aperte.

Ben utilizzando crepe e intersti-zi, spazi per un agire per patti eprogetti.

Le soglie sono, invece, da “costrui-re”, da definire nei luoghi più infor-mali. A volte di puro incrocio di unvagare. Come le strade, le piazze, ibar, i locali. La strada non definiscealcuna soglia, è ambito nel quale tut-ti possono avere accesso e per questodà l’illusione di poter costruire rela-zioni più “facilitate”, più “liberate”.Ma dove non c’è soglia manca pureil controllo della distanza nella rela-zione, e questo può portare alla ne-gazione di qualsiasi relazionalità. So-prattutto senza soglia c’è il pericolodi intrusione, di violenza, non c’è pu-dore, né difesa. Individuare dei limitari sui quali po-ter fare un passo nell’incontro, in unacomunicazione responsabile (indivi-duare un interesse, fare un video, fa-re musica, raccontare, …) con il di-ritto riconosciuto di accogliere o ri-fiutare, può rendere i locali o i luoghidi ritrovo, o le piazze e le strade me-no opachi, meno generici. Senza so-glie le relazioni sono spesso o soloformali o solo reattive.Direi che la sera al parco, o per lastrada dove vivono tante biografie del-l’abbandono, noi vediamo piena as-senza di soglie anche nella incredibi-le capacità di entrare e di uscire sen-za rispetto dai tempi e dalle cose, eanche dai corpi di giovani donne e digiovani uomini della città. Senza so-glia, e estremamente lontani da ogniforma di incontro.

Ricostruire degli spazi comuni den-tro la città è anche rendere raccon-tabili le storie: con i video, con i rac-conti, con le feste, con gli spettaco-li teatrali, con i rapporti di ricercadegli studenti delle scuole superiori.Aprire questi spazi comuni attorno a

cui la città può far coalizione, spazidel riconoscimento reciproco, dellarelazione sociale, significa renderela città fisica, e anche quella dei ruo-li, delle relazioni, delle presenze, unpaesaggio abitabile. Allo stesso tem-po questo è possibile se, insieme, di-ventano paesaggi abitabili quelli in-teriori, quelli che si dilatano e si ar-ricchiscono grazie a questo incontro,anche a questo incontro, reso possi-bile con sé.

Un’esperienza per lapropria interiorità

Occorrerebbe, per questo, vivere lapolitica come esperienza ricca per lapropria interiorità, mentre, prevalen-temente, pare praticata come attivitàsegnata da competenze e abilità, conlabili riferimenti a senso e fine uma-no.

Può la politica essere luogo del si-lenzio interiore; dell’ascolto attento,quello che sa rilevare, riflettere, so-prattutto riconoscere? Servono movi-menti interiori, oltre che giocati nel-l’esteriorità della relazione (dove in-vece la politica tende a “spiegare”, oa “risolvere”).

Movimenti interiori capaci di co-gliere ritmi e attese, sogni non detti,affidamenti.

Se si è persone che si ritrovano solonell’esprimere, attraverso gesti e pa-role (autori e attori con “signoria”) al-lora “il silenzio è il segno terrificante

del vuoto”. Così lo si vive sul margi-ne del nulla: e allora ogni frastuono olagna è preferibile.

Un piccolo libretto sul silenzio, diqualche anno fa, frutto di dialoghisul limitare, offre tracce preziose. Siparla di un silenzio che si oppone«al silenzio della morte», al muti-smo. Di un silenzio che è lasciarsiinteriormente riposare, «in una so-spensione che lascia l’essenziale delrapporto con la parte di sé con cui siè in pace; e che permette una ri-co-struzione, un cammino ulteriore bio-grafico, un lasciare e di nuovo ria-prire il cammino».

C’è anche un silenzio esperienzapositiva: dove resta un battito e un rit-mo (come del cuore, del respiro). Sitorna “al ritmo della vita elementare”,“all’interiorità di questo ritmo”, quan-do il silenzio ha un ritmo. Dentro ilfarsi e il modularsi dei giorni, dellecose, delle scadenze, si può dare, avolte, che il ritmo (come del cullare,della ninna nanna) crei il silenzio e lasua pace. Si dà, tra noi, un silenzio«in presenza di qualcosa», senza an-goscia del nulla.

«Ritorna il pulsare della vita»: pal-pito irreale e permanente. Regola-rità: «ci ascoltiamo, finalmente, ciricordiamo di essere in vita, noistessi». E il ritmo accoglie la varia-zione, il silenzio vivo accoglie leparole, come possibilità che nascedal silenzio.

Ivo Lizzola

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1.

Leggendo sui giornali italiani i com-menti al 25.mo anniversario della vit-toria vietnamita nella guerra di libe-razione, mi sono tornate alla mentealcune immagini e alcuni libri.

Le immagini sono quelle dei cimi-teri che costellano le regioni delNord: tombe vuote, “virtuali”: dopoil conflitto, il poverissimo Vietnamnon ha potuto affrontare il costo eco-nomico della traslazione di un milio-ne di militari, morti combattendo alCentro e al Sud del paese, ma le fa-miglie hanno voluto almeno un cip-po sul quale posare un fiore. E, an-che, le immagini che ho rivisto nellamemoria, sono quelle dei “bambini-granchi”, come un giornalista euro-peo li definì una volta: quelli cui, aHochiminhville, la dottoressa NguyenThi Ngoc Phuong, chiamata per que-sto “la mamma dei mostri”, cercava,con sapienza e tenerezza, di daresembianze umane: piccini stravolti daorrende deformità, nati da madri av-velenate dall’Agent Orange, il defo-liante alla diossina irrorato dagli ame-ricani su grandi zone del Vietnam perstanare i partigiani dalle giungle(bambini così nascono ancora, a cen-tinaia: l’avvelenamento passa di ge-nerazione in generazione).

Ho rivisto le montagne desolate incui le immense foreste tropicali sonostate ridotte dalla diossina a macchiedi sterpi: neppure più le farfalle né gliuccelli, soltanto zanzare e cobra. E horivisto nei ricordi le catacombe diCuu Chi, nei pressi di Saigon, capita-le del Vietnam del Sud e dell’armataamericana: 240 chilometri di cunico-li in cui le “ombre gialle” si nascon-devano, curavano i feriti, addestrava-no le reclute, sbucando poi alle spal-le del nemico, da pertugi che si apri-vano nelle risaie. Un immenso formi-caio umano, poiché anche questo fula guerra in Vietnam: un popolo diminuscoli guerrieri in lotta contro lapiù potente macchina militare dellastoria. L’opinione pubblica mondialelo comprese: in molti luoghi della Ter-ra – e anche in Italia – fu appassiona-tamente con i soldati dello zio Ho econ i patrioti del Sud.

Ombre gialleLa memoria delle tragedie

di Ettore Masina

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Ho trovato anche, incise nei miei ri-cordi, le immagini atroci dei filmamericani che coraggiosamente de-nunziavano i crimini di una politicadominata dagli interessi dell’industriapesante, da un’ossessiva convinzioneche l’Asia potesse diventare un conti-nente “rosso”; e raccontavano lo svi-limento umano prodotto da un mili-tarismo ottuso e feroce: “Apocalipsisnow”, “Full Metal Jacket”, “Platoon”,“Il Cacciatore”, “Nato il 4 luglio”… Inquei film, i vietnamiti quasi non c’e-rano, se non come ombre nella giun-gla, belve infide mescolate alla gentedei villaggi. Contro di loro, un im-menso stuolo di ragazzi supernutriti esuperarmati spinti all’uso della tortu-ra sui nemici e consegnati alla dispe-razione dall’impossibilità di com-prendere la tragedia in cui eranocoinvolti e che giorno dopo giornominava la loro stessa umanità. Nellaconclusione di uno di quei terribilifilm i “rangers” avanzano verso unorizzonte in fiamme, cantando “To-polin, Topolin, viva Topolin”. Ritorna-ti bambini, terrorizzati e feroci.

E anche libri, dicevo, ho ricordato:libri di autori americani come Fitzge-rald e Karnow, O’ Brian e Currey, maanche Nixon e McNamara e Kissin-ger; e tutti, anche quelli scritti per di-fendere le ragioni della guerra, co-stretti ad ammettere l’inutilità dell’a-vere messo a ferro e fuoco l’intera exIndocina (non soltanto il Vietnam maanche la Cambogia e il Laos); a rico-noscere i crimini della CIA (come l’as-sassinio, per ordine di Kennedy, deifratelli Diem, dittatori sudvietnamiti:o la propaganda menzognera per in-centivare la fuga dei cristiani delNord); ad ammettere le bestiali atro-cità commesse dai militari di Saigon(le “gabbie di tigre”, le prigioniereviolentate dai cani…).

Anche questo, infatti, fu la guerranel Vietnam: la tragedia, la barbarie,il cinismo dei politicanti, ma anche ilcoraggio dei democratici americani –giornalisti, intellettuali, studenti e re-duci – e di molti, moltissimi cristianiche insorsero contro la perpetuazio-ne degli orrori, per testimoniare la ve-rità contro la propaganda “ufficiale”e l’escalation delle armi.

Perché ho ricordato queste immagi-ni e queste letture? Perché nella stra-grande maggioranza dei giornali ita-liani nelle scorse settimane si è parla-to esclusivamente o quasi dei mal-trattamenti ai prigionieri americani,

dei campi di punizione per i collabo-razionisti del governo di Thieu, dellepersecuzioni che spinsero centinaiadi migliaia di cino-vietnamiti a tra-sformarsi in boat-people, disperatifuggiaschi per mare. E lo si è fattocancellando ogni altra realtà, com’èproprio del revisionismo storico chenega le tragedie altrui per cancellareogni ricordo delle colpe della nostra“civiltà occidentale e cristiana”.

Io credo, invece, che con pietà econ coraggio noi dobbiamo mante-nere la memoria delle tragedie, dellecrudeltà, delle sofferenze e anche de-gli eroismi che segnarono la storia delsecolo che va concludendosi. Quan-do, come si è fatto in questi giorni (as-sai più nell’Italia berlusconiana chenegli Stati Uniti), si pretende di giudi-care non il presente ma il passato delVietnam, non si può dimenticare chegli aerei americani lanciarono sulVietnam tre volte più bombe di quan-te ne furono usate su tutti i fronti delsecondo conflitto mondiale. Le vitti-me vietnamite furono più di tre mi-lioni; un milione le vedove, ottocen-tomila gli orfani. Distrutti tutti i pon-ti, gli ospedali, le scuole, le fabbriche.E Saigon contava, alla fine della guer-ra, - sono cifre di fonte americana -un milione di prostitute e prostituti, di“borsari neri”, di spacciatori di dro-ga...

Dimenticare tutto questo e dimenti-care la ferocia dei colonialismi cheper secoli devastarono il Vietnam si-gnifica negare la complessità dellastoria per affermare una brutale, ottu-sa parzialità. La vittoria vietnamita ri-mane, nonostante tutto, il simbolodelle capacità dei Piccoli di non ar-rendersi allo strapotere dei Grandi.

2.

Questo spazio avrebbe dovuto essereriempito da qualche parola di gioia.Il 6 e il 7 maggio le telefonate si sonosusseguite sino a sera, con l’allegriadi chi vede realizzarsi un caro sogno:«Hai sentito? Il Papa dichiarerà mar-tire monsignor Romero». Confesso diavere pensato: anche questa voltaGiovanni Paolo Secondo mostra ca-pacità profetiche che scavalcano latriste (per non dire peggio, molto peg-gio) prudenza della curia vaticana.

Non è accaduto.Marco Politi su “la Repubblica”

dell’8 maggio scrive: «Una sola man-

canza o uno scandalo, come sosten-gono in molti: fra le testimonianzenon si è ricordata nessuna vittima deiregimi cristiani, quelle dittature chespecie in America Latina ammazza-vano; recandosi ossequienti alla mes-sa. “I martiri della civiltà occidentalecristiana” commenta il vescovo sal-vadoregno Rosa Chavez su TrentaGiorni. Il nome del vescovo Romero,assassinato in Salvador dalle squa-dracce della oligarchia di destra, di-menticato alla vigilia, viene infilatofrettolosamente in una preghiera. Manon la pronuncia il Papa, com’era sta-to preannunciato in Vaticano all’ulti-mo momento».

E ci sono da aggiungere due parti-colari che rendono tanto più gravel’afonìa del Papa. Il primo è che erastato lo stesso portavoce vaticano, Na-varro, ad annunziare in sala stampache il pontefice avrebbe nominatoRomero; il secondo che neppure inquella preghiera si è parlato degli as-sassini di Monsignore; indicati per glialtri due vescovi di cui è stato fatto ilnome: i quali assassini – guarda caso!– sono per l’uno un gruppo di indiose per il secondo un gruppo di guerri-glieri colombiani. Insomma nessuno,tanto meno il Papa, tocchi gli amicidel cardinale Sodano, i buoni vecchigeneralissimi, i pii terratenientes!

Sento la risata sarcastica di qualchepersona cara che mi addebita un’o-stinata fedeltà a una Chiesa incapa-ce di riconoscere i suoi figli migliori.Ma è la stessa Chiesa nella qualeRomero stava consapevolmente, per-ché ci stavano anche i poveri. Essi, ipoveri, continuano ad essere la miabussola anche quando i cardinalipreferiscono la “gente con l’anello aldito” (v. la Lettera detta di San Gia-como) e, come spesso avviene, i vec-chi papi non riescono più a scostarsidai loro “consiglieri”.

Ettore Masina

l e t t e r a

L’argomento di questo numero diMadrugada verrà ripreso anche

nel numero 39 di settembre 2000,con il contributo di Mario Bertin

- “Il silenzio come grembo disenso” - la cui pubblicazione

dobbiamo rinviareper ragioni di spazio.

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Dolore e morte

«Separarono gli uomini con la scusadi convocarli per una riunione, in cuidiscutere come si deve sviluppare ilvillaggio, li chiusero in un locale. Isoldati poi riunirono le donne e ibambini, di tutte le età, nella chiesa.Lì l’esercito inizia a sparare sulle don-ne. Le sopravvissute sono separate daibambini e portate a gruppi nelle ca-se, dove vengono assassinate a colpidi machete. Più tardi si uccidono ibambini. Ci sono testimonianze con-cordi di bambini sventrati a colpi dicoltello o sfracellati con la testa con-tro il muro.

Segue un breve riposo.Poi i soldati cominciano l’esecuzio-

ne degli uomini. Li fanno uscire unoad uno, legano loro le mani, li getta-no al suolo e li fucilano. Il massacrocontinua per un’ora e termina con illancio di granate contro le case. I re-sponsabili del massacro sono 660 sol-dati capeggiati da sei ufficiali».

(Massacro di S. Francisco. Dal rap-porto sul Guatemala, voluto da J. Ge-rardi, vescovo cattolico, assassinato il26 aprile 1998, Guatemala NuncaMas, La Piccola Editrice).

Credo sinceramente che valga lapena di raccontare queste storie.Fanno giustizia della storia degli uo-mini. Vita e uomini non esemplari,ma reali. Dolore, morte, destino e di-sgrazia sono reali come la gioia, lavitalità, la fecondità, l’amorevolezzae la fortuna.

L’inferno esiste soloper chi ne ha paura

Chi riesce a prendere la propria vitanelle sue mani sa anche che la vita èpiù grande di lui e delle sue intenzio-ni. Sa che il destino può essere unelefante troppo pesante e troppo in-nocente per potergli resistere.

La predicazione cristiana sulle gran-di questioni esistenziali si è incentra-ta tradizionalmente sui “Novissimi”,in cui il tema della salvezza si intrec-cia con lo spettro della possibile edirredimibile perdizione. Un cantau-tore, irriverente eppure a suo modoreligioso, come Fabrizio De André, ri-cordava che «l’inferno esiste solo perchi ne ha paura».

Per me, invece, l’inferno evoca la vi-ta e la morte di otto decimi dell’uma-nità. Io appartengo a quei due deci-mi che hanno fatto tutto ciò che erain loro potere per approntare su que-sta terra un inferno che altrove nonesiste, e se esiste è vuoto e senza luo-go. Io ho paura di questo inferno e hopaura di me, che non ho fatto nullaancora di veramente concreto perchésia allontanato dall’orizzonte dell’u-manità. Di questo mi verrà chiestoconto davanti a Dio.

Il tema della sofferenza e della mor-te nella nostra società è diventatotabù. Disturba.

Rimozione o irresponsabilità?

Credo che viviamo non nel mondodella rimozione, ma nel mondo del-l’irresponsabilità. Cresciamo. Invec-chiamo. Decidiamo (qui da noi nonsi muore, si decide; la morte appar-tiene alle tragedie dell’altrove), ser-vi dell’irresponsabilità nei confron-ti di noi stessi, della nostra specie,del creato.

Questo perché? Perché venga con-fermato un sistema politico ed eco-nomico che fa dell’irresponsabilitàdelle proprie azioni la natura stessadella sua esistenza e della sua pro-sperità.

Viviamo come plebe esente da do-veri che non siano le servitù al siste-ma. Se compriamo abbastanza, lavo-riamo abbastanza e votiamo abba-stanza chi si autocandida a posseder-

Viviamo come plebesugli spalt i del c ircoLa morte abita altrove

di Giuseppe Stoppiglia

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«… c’è un tempo

per scagliare le pietre

e c’è un tempo

per raccogliere le pietre…».

[Qohelet 3,5]

«Quando ti ritrovi solo

in mezzo a tanta gente,

cerca un po’ di silenzio

nella tua quiete profonda.

Vedrai la tua pienezza interiore

riempirsi della compagnia

di te stesso,

perché di colpo ti troverai

colmo di cultura

e di storia gialla, nera e bianca

del tuo essere globale».

[Ndjack Ngana]

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ci, null’altro ci può essere chiesto.Nulla di più è bene che noi chiedia-mo per noi stessi e per gli altri.

La morte deve stare altrove, dovenon è possibile raggiungerla mate-rialmente. Di volta in volta ci vengo-no mostrate immagini della morteperché se ne traggano lezioni edifi-canti a conferma della bontà della no-stra servitù e della nostra irresponsa-bilità. Consegnare un paio di scarpeusate alla “Missione Arcobaleno” ba-sta e avanza ad esentarci dalla re-sponsabilità di generare ecatombi.

Nel silenzio senzaangoscia del nulla

Pove è un piccolo paese all’imbocca-tura della Valsugana, adagiato ai pie-di del Grappa. Lì sono nato e ho vis-suto la mia infanzia, la mia adole-scenza e gli intervalli dell’itinerariodel seminario; vi riconosco, non inmodo nostalgico e retroattivo, bensì

di prospettiva, le mie radici.Nel piccolo cimitero collocato in

una posizione suggestiva, circondatodalle montagne, sono sepolti mio pa-dre, mia madre, i miei quattro nonni,il sacerdote che mi ha battezzato, glizii, altri parenti e conoscenti.

Quando riesco a risalire la mia val-le, la sosta di meditazione e di pre-ghiera in quel luogo è una necessitàintrinseca. Ripensare a quelle vicen-de umane, al loro significato profon-do, alle relazioni vissute, all’amore,all’impegno, al sacrificio, al segnoche hanno lasciato, al seme che han-no collocato nella storia, pur vivendoin una piccola comunità, diventanointensità e pedagogia alla vita…; ilcimitero diventa luogo antropologicoe teologico per la vita. C’è attorno unsilenzio che è la pace data dal ritmodell’amore: un silenzio senza ango-scia del nulla, “in presenza di Qual-cuno”. È un atto di nascita.

I mass media producono un’infla-zione di parole, al punto che “la pa-

rola” perde il suo significato specifi-camente umano, si svuota, si consu-ma fino ad esaurirsi al suo mero va-lore strumentale. Anche la comuni-cazione perde così il suo carattereumano e si meccanizza, diventa im-personale flusso elettronico di dati.Ecco che il silenzio, su questo sfon-do, acquista tutto il suo potenzialeumano e liberante.

Il grembo della parola

«Il silenzio – afferma Paolo Marangon– è lo spazio dell’interiorità, la via checonduce al cuore di noi stessi e dellecose. Il silenzio è il grembo della pa-rola: la parola procede dal silenzio,esprime il silenzio e ritorna nel silen-zio. Solo le parole che riposano nelsilenzio comunicano, le altre infor-mano o alienano».

Il silenzio è perciò la pre-condizio-ne necessaria e imprescindibile perscoprire il senso della vita e della

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morte. Personalmente credo che l’a-more del potere nasca in fondo pro-prio dall’ossessione e dalla paura del-la morte. La paura delle cose chepassano, che finiscono, che sbiadi-scono. Di fronte all’angoscia che ciprocura il presentimento della possi-bilità della morte, nostra o delle per-sone amate, ci sono diversi atteggia-menti possibili.

C’è il sentimento religioso, vissuto,in questo caso, come consolazione,come lenitivo che calma l’angoscia,immaginandosi un aldilà, una vita ol-tre la morte. Oppure c’è la tentazio-ne di non guardare, di volgere losguardo: di allontanare da sé quel-l’ombra oscura e con essa l’idea stes-sa della fine.

Da ultimo, ma è di pochi, si puòscegliere di guardare, di interrogare lamorte, il lutto, la separazione.

La morte è fragilità

La morte, se guardata fino in fondo,ci dice una cosa sola: fragilità. Gli uo-mini in genere non amano la fragilità.Non riescono a sopportare il consu-marsi delle cose, il venir meno dellavita. Non riescono a sopportare il si-lenzio del vuoto, la carica urticantedell’assenza.

La ricerca affannata che certi uo-mini fanno del potere è un esorci-smo contro la morte e la fragilitàdella vita.

Si può rispettare questa fragilità, im-parare ad amarla, metterla al centrodel proprio modo di pensare e di agi-re, al centro del proprio modo di vi-vere e di valorizzare le relazioni. Sipuò, infine, trarre forza e determina-zione da questo riconoscimento. Inquesto caso il potere perde molto delsuo fascino. Perché far leva sul pote-re non è il modo migliore per rispet-tare e creare bellezza nel fragile tes-suto della vita e delle relazioni.

Un esempio illuminante di auten-ticità umana derivata dalla riconci-liazione con la morte, quale mo-mento intrinseco del vivere, è Fran-cesco d’Assisi, l’uomo senza paure:né di se stesso, né degli altri, né diDio, né della morte, considerata so-rella. Niente da difendere, nessunaspetto da nascondere; nessun esse-re umano, nessun essere viventeidentificato come minaccia, comenemico da attaccare: una riconcilia-zione completa.

In questa nostra epoca è però mol-to difficile, soprattutto per tre moti-vazioni ingombranti e pericolose. Laprima è l’assolutizzazione della sog-gettività come individualismo chenon accetta il confronto con gli altri,con il bene comune, temendoli co-me limitazione per sé. La seconda:la realizzazione personale senza al-cuna verifica etica. La terza: il pro-tagonismo vincente. Tutte e tre ren-dono difficile l’accettazione del li-mite, della malattia, della sofferen-za, della morte.

L’uomo onnipotente ed onniscientenon iscrive nelle possibilità la morte:presume illusoriamente l’immortalità.

Misericordia e speranza

Esiste e si crea in alcuni una situazio-ne contraria: il trapasso d’epoca, leprofonde trasformazioni, le difficoltàa trovare riferimenti significativi, ledelusioni personali, relazionali e sto-riche accrescono il senso del limite,della fragilità, del vuoto che sfociaspesso nel non senso, in una sorta dinichilismo nel quale la morte è piut-tosto indifferente o invocata e cerca-ta come soluzione.

Purtroppo l’attuale cultura non è ingrado di misurarsi umanisticamentecon tale dimensione. Ignorando il do-vere della responsabilità, ignora purela virtù civile e cardinale della mise-ricordia. Misericordia per la vita e perla morte, la nostra e degli altri, degliumani e del creato intero.

Per gli uomini e le donne che ac-

cettano la responsabilità, c’è bisognodella speranza… e la speranza è giàredenzione. Credo che i cristiani di Ti-mor Est, i musulmani del Senegal, imarxisti della Colombia e i buddistidel Tibet siano ricchi di speranza e invia di redenzione già prima che lamorte offra loro un’opportunità di ve-rifica ulteriore.

Tastare l’orizzonte,nel mattino

Esco di primo mattino e l’aria frescami avvolge.

Riscopro il volto delle cose, dei fio-ri, degli alberi, sotto il gran cielo as-sorto. La poesia e la spiritualità delquotidiano. «Aprirsi – diceva Capiti-ni – è come pregare».

Svuoto la mente da ogni pensieronegativo, poi da ogni pensiero toutcourt. Mi concentro sui dati imme-diati, elementari, dei cinque sensi.

Provate a farlo anche voi in monta-gna o in riva al mare, nei giardinipubblici o sulla terrazza di casa.Scioglietevi nel soffio che giunge al-le vostre narici - odore di pino, di sal-mastro, di caffè o di bucato - nel ven-to che accarezza la vostra pelle, nelcinguettio degli uccelli e nello stor-mire delle foglie, nella vela lontanao nel profilo dei monti o nel bimboche gioca… e diventerete voi stessiqueste cose, vi sentirete uno col tut-to e nell’unità del tutto, sentirete latrascendente presenza dell’invisibiledivinità. Soprattutto non amareggia-tevi per i milioni che non avete…mettiamoci assieme alla finestra aguardare le stelle: sono miliardi… esono tutte nostre.

Per stare sulla strada sento che ho legambe abbastanza buone. Non ci ve-do moltissimo e l’udito è diminuitoun po’, ma non manco un giorno do-po l’altro di tastare l’orizzonte persentire se per caso si è allargato ab-bastanza per farmi passare. Per vali-care a modo mio la ristrettezza.

Che siamo nello stretto, lo sappia-mo, ma è qui che rimango. Il mioviaggio ancora non l’ho finito e sentoche la vastità di questa nostra epocaio non l’ho toccata.

Amici, sarò sul ciglio, vi sentirò pas-sare e mi vedrete.

Pove del Grappa, maggio 2000

Giuseppe Stoppiglia

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Capire un popolo e un paese dai viag-gi in autobus è quantomeno curiosoe originale. In Brasile è possibile, seci si arma soprattutto di una grandepazienza e ci si dispone a osservareogni aspetto, anche il più trascurabi-le, con gli occhi di un bimbo che simeraviglia e si sorprende davanti aogni cosa. Se questo accade, alloraanche le cose apparentemente più fa-stidiose, come il caldo, il sonno, la fa-tica, le ore di viaggio, le strade scon-nesse e la folla, possono diventare unmotivo per ricordare piacevolmenteogni dettaglio.

In un Paese così esteso come il Bra-sile, i ricchi viaggiano sempre in ae-

reo, mentre il popolo viaggia soltan-to ed esclusivamente in autobus.

Il Brasile in rassegnadal finestrino

Il Brasile è il paese degli autobus. Cene sono a decine di migliaia, di ogniforma e colore, uno dietro l’altro,sempre carichi di un’umanità dolce,triste e gentile che viaggia per i moti-vi più disparati.L’autobus è la vita di questo popoloe ne rappresenta il modo di essere,passando dal caos delle strade im-mense di Rio e di San Paolo ai sen-

Il Dio dei poveriviaggia in autobus

di Egidio Cardini

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tieri sterrati e polverosi alle soglie diuna foresta che sta gradualmentescomparendo. Con l’autobus i pove-ri delle periferie degradate possonoandare nella città dei ricchi per ven-dere tutto ciò che possiedono e leempregadas (le donne di casa) pos-sono andare a mettersi a servizio deiloro padroni per potere almeno so-pravvivere.

L’autobus è l’unico mezzo che con-sente a questo popolo di uscire dal-l’isolamento nel quale viene quoti-dianamente spinto.

Dal suo finestrino si può vedere tut-to ciò che le immagini stereotipate diquesto Paese solitamente nascondo-no, si può avvertire l’odore acre del-la povertà e il sapore dolciastro diuna ricchezza sfrontata, si possonoattraversare tutte le contraddizioni delBrasile.

Quando stavo a San Paolo, passavotutti i giorni dal quartiere universita-rio di Perdizes, signorile e splenden-te, alla periferia sterminata, colorita epolverosa di Itaim Paulista, là dove laterra rossa, sulla quale sono state co-struite migliaia di abitazioni precarie,penetrava dappertutto con il sole e sitrasformava in fiumi di fango scivolo-so con la pioggia. A ogni curva l’au-tobus sprofondava sempre di più inuna povertà anonima e sconosciuta amolti, mentre i volti e gli abiti dei pas-seggeri cambiavano rapidamente manmano che ci si avvicinava al capoli-nea: dalla dignità formale alla trascu-ratezza, dall’apparente freddezza diuna classe media preoccupata sol-tanto del proprio lavoro al calore ge-nuino e più chiassoso della gentesemplice.

Nonostante ciò, lo sfinimento di chiarrivava al capolinea, dormendo abocca aperta, parlava da solo e co-municava il senso di una fatica che inBrasile molti spendono per niente: perquattro soldi o forse nemmeno perquelli.

In bus è facilecomunicare

In autobus cadono le barriere dell’in-comunicabilità tra le persone, perché,per un brasiliano che viaggia per mol-te ore, è impossibile non raccontarela storia della propria vita al vicino diposto.

Nelle otto ore di viaggio da Vitóriaa Rio ho ascoltato pazientemente le

vicende di un’infermiera del RioGrande do Norte con tutte le sue an-sie e inquietudini per sé e per la pro-pria famiglia, mentre un poliziotto inabiti civili due file più avanti magni-ficava l’ordine e la disciplina nei qua-li, a suo dire, vivrebbero gli abitantidel “Primeiro Mundo”, l’Europa, la-sciando incantati tutti gli altri pas-seggeri, i quali ascoltavano con gliocchi spalancati, credendo di assi-stere alla descrizione di un Paradisomai visto.

Si accendono i sognie si spengono

Viaggiare in autobus apre la strada aisogni in un paesaggio illuminato dal-le piantagioni di canna da zuccheroe dalle piante di banane e di caffè,anche se gli stessi sogni muoiono su-bito attraversando quell’interminabi-le favela che è la Baixada Fluminen-se, una sterminata periferia afosa emiserevole alle porte di Rio. Quandoavanza, l’autobus sembra abbraccia-re correndo tutto il milione e mezzodi uomini e di donne che lì vive, omeglio sopravvive. Allora la fermataè fonte di vita e di sopravvivenza: peri ragazzi che vendono acqua e Coca-Cola ghiacciate ai finestrini, per ledonne che distribuiscono cocco, ba-nane e mandarini.

Assaltoalla carovana

È vero, la fermata è fonte di vita,quella vita che è sistematicamentenegata a chi non ha nemmeno 45centavos per un biglietto e cercaun’impossibile rivincita assaltandogli autobus a mano armata. A Rio, inun fine settimana, ne hanno assalta-ti quarantasei, come nel West. Nem-meno John Wayne avrebbe potutodifendere tante diligenze. – «La ve-di? È una pistola, ma la tengo in ta-sca. A te non prendo niente, perchéhai avuto il coraggio di parlare conme, che sono povero». – Nonostan-te i quaranta gradi, alla signora ita-liana che mi ha raccontato questoepisodio si è ghiacciato il sanguequando si è trovata accanto un simi-le compagno di viaggio.

Ma chi vuole veramente il Far We-st? Dai finestrini dell’autobus si vedo-no tante piccole e grandi Carson City,

fatte di fogne a cielo aperto, di cata-pecchie e di poveri “barzinhos” e poiuna moltitudine di bimbi sul cigliodelle strade, incuriositi dalle auto edalla gente che passa.

È fonte di vita pure il lavoro del bi-gliettaio, uno dei più inutili al mon-do per due motivi: prima di tutto per-ché nessuno saprebbe mai tradurrein portoghese termini come “mac-china obliteratrice” o “agente unicodel mezzo” e poi perché quale altrolavoro potrebbe fare un bigliettaio? Ilustrascarpe ci sono già, i venditoriambulanti anche, le donne di servi-zio pure, i posteggiatori nemmeno aparlarne (sono milioni). Allora siviaggia tutto il giorno scambiandomoneta, annoiati e distesi sul sedile,con i piedi all’insù, sbattendo la suo-la delle scarpe quasi in faccia aiviaggiatori.

Naturalmente per quattro soldi oforse nemmeno per quelli.

In bus si pensa,si fantastica

Io credo che il Brasile non rinunceràmai ai suoi autobus, perché sugli au-tobus si può pensare e quello brasi-liano è un popolo che pensa, pensa epensa: alle sue condizioni, al pane daguadagnare, al prossimo Carnevale,alle sue piccole storie quotidiane. Aibrasiliani manca l’azione, ma non lafantasia e sull’autobus si può ancorafantasticare tanto. E questo a loro peril momento basta.

Anch’io, non potendo uscire daquesto stato di continua meraviglia,ho pensato. E a un certo punto hopensato quale mezzo di trasportoavrebbe potuto usare Gesù Cristo, ilDio dei poveri, in Brasile: natural-mente l’autobus. Dentro questa pro-spettiva di un popolo itinerante, maistabile, è possibile concepire sol-tanto la possibilità di un Dio itine-rante, che porta la misericordia viag-giando nella polvere, nel traffico enel caldo.

So che Pedro Casaldáliga, uno deivescovi più coraggiosi e santi del Bra-sile, viaggia spesso in autobus. È ilmodo migliore per leggere dentro lastoria presente di un popolo che hasempre più bisogno di intraprendereun lungo viaggio verso la giustizia.

Il capolinea è la sua liberazione.

Egidio Cardini

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Esilio

Ho abitato deserti, luoghi d’appello ed’invocazione. Ho dato parole goffe ascampoli di una viandanza troppospesso costretta a impreviste battuted’arresto. Ho dato una flebile voce asolitudini e dolori abituati mio malgra-do all’erranza fatta destino. Ho attesocenni, soprattutto dal cielo. Ho raccol-to solo tremendi silenzi. Il cielo tace, larabbia prorompe in bestemmia e ipianti soffocati mi esplodono in petto.

Non mi rimane che un faticoso sta-to di esilio al quale in parte mi co-stringo per malcelato e rovinoso or-goglio di creatura caduta. In parte, so-lo in parte, perché il cielo ha le suemancanze e io rivendico le mie.

La violenta grazia dei volti

Uomo. Humus, terra vivificata da sof-fio divino. Maschio e femmina li creò,a sua immagine.

È il paradosso del niente divino chesiamo, polvere d’infinito.

Sono questi i versetti di Genesi cheda mesi mi scavano il cranio. Per mianatura anche le parole che hanno lapretesa del sacro mi attraversano pri-ma il cervello che la carne. Forse perquesto sono meglio abituato al rassi-curante della teodicea che al durodella saggezza. Eppure, mio malgra-do, quelle parole mi violentano. Nonha i modi della tenerezza il sacro;vincola per destino agli incontri, allefacce, linguaggio divino che sfuggeper timore.

I volti mi risvegliano desideri. Nonsono mai riuscito a indurmi un desi-derio, ne sono sempre stato sorpresocome da novità antiche. Novità anti-ca è il desiderio di trascendenza chela morte giovane di Alberto mi ha agi-tato in ventre, inquietudine d’ignoto.Per sensazione di nausea diserto itempli e nei giorni di domenica fre-quento il cimitero ritrovandovi voltinoti e meno noti, comunque cari. Ilbianco e nero delle foto è la mia pre-ghiera. Novità antica è il desideriod’amare: un sogno di maggio si è fat-to poi invadere d’occhi e mi ha acca-rezzato il cuore indurito da ferite tra-scorse. Gli affetti veri sono il pienod’arte che un delicato lavoro di scal-pello libera da ciò che chiude e illu-de e cade ai colpi della mano.

A fatica sostengo il peso d’assenzache il desiderio rinnova. Distimia lachiamano i tecnici dell’anima dal-l’occhio clinico. Se l’occhio non simeraviglia dell’evento del vedere, por-ta su ciò che vede la violenza di unsequestro. Se sono volti, soprattutto sesono volti, è profanare interiorità.

Rimediata promessa

In deserto si fa silenzio e s’attende. Inesilio s’impreca e si spera.

Chi attende ha la grazia della leg-

Risvegli d’assenzaStare al greve dono dei desideri

di Stefano Serato

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«La terra ha desiderio

d’altezza, di cielo».

[Erri De Luca]

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Il viandante ci dona l’immagine delviaggio che abbiamo compiuto negliultimi dieci anni, che hanno visto lacrescita “triste” di un popolo che,per dedicarsi ad ingrassare il vitellod’oro, che è transeunte, ha dimenti-cato l’essere eterno divino che è inlui. Per questo oggi è triste e depres-so. Non solo. È aggressivo perchéogni essere umano diventa tale nel-la misura in cui non riesce ad esserese stesso.

Il viandante ha abbandonato il cam-po della pura ascesi per guadagnarsida vivere così come gli altri uomini,senza per questo rinunciare alla pre-ghiera e ad una vita lavorativa mora-le. È più difficile, ma il viandante sache l’antico “ora et labora” di San Be-nedetto non ha perso affatto il suo va-lore profetico del testimoniare nel “la-bora” di tutti i giorni lo spirito; enell’“ora” la materia della vita. È inquel “et” che sta il segreto, mentre èpiù comodo stare tutti di qua o di làin gruppo, cioè dormienti.

Il viandante educa con la sua vita igiovani, in una società tecnologicache trasforma le pietre in pane, dovenon solo sono scomparsi i mentori,ma dove si è ingigantito come nonmai “il senso del vuoto”, dove sonodebellate tante malattie fisiche masono cresciute quelle dell’anima per-ché smarrito il verbo che nutre la lo-ro anima.

Egli propone la fratellanza, come undistribuire ai poveri quel di più cheahimè non fanno più neppure i ricchi,ma pratica anche la solidarietà, che ècosa diversa. È sviluppare giorno pergiorno nella sofferenza del viverequella purificazione che è diventaresempre più Essere Umano (con lamaiuscola). Sviluppare cioè i propritalenti che è l’impegno primario nel-la vita e che costa più caro del farecarriera. Quando gli dicono di mette-

re “la testa a posto” il viandante sache è sulla strada giusta.

Il viandante vive così con gioia lapropria identità individuale e non habisogno di aggredire perché ama alcontempo la diversità e l’unicità diogni altro. La grande malattia dell’e-poca moderna è l’aggressività che ori-gina nella misura in cui non si riescead essere se stessi.

Il viandante vive con serenità in unafitta rete di relazioni che il destino glifa accadere perché sa che il nuovonasce… dall’incontro. La solitudinealimenta il pensiero intellettualistico,che può essere anche abile e astutoma è sempre luciferico in quantoamante del sé; l’incontro desta l’a-scolto dell’altro, il dialogo, il con-fronto e consente di sviluppare unpensiero nuovo, immaginativo, il pen-siero d’oro del futuro.

Il viandante così nutre l’anima dichi incontra. Sa che l’anima è diver-sa dallo spirito, come già dicevanoPlatone e Paolo di Tarso. L’anima è ilmondo interiore del sentire, unico inciascun essere vivente (come tale pre-sente anche nel sentire dell’animale),personale e soggettivo, in fondo noncomunicabile, il mondo delle proprieemozioni e sentimenti. E se l’anima èil mondo interiore della passività, lospirito è la capacità attiva di prende-re coscienza di questo vissuto e di in-tervenirvi con la nostra libertà e vo-lontà, con il nostro Io. Ciascuno dinoi, se lo vuole e nella libertà, può ri-correre allo spirito che Cristo a tuttiha donato.

Il viandante ascolta e risponde allamorale che nasce dentro di sé e nonla confonde con l’etica che rispondea norme dettate fuori di sé. Quandoesse entrano in conflitto segue la mo-rale, anche se l’etica viene dalla Chie-

I passi leggeri del cammino interiore del viandantedi Andrea Gandini

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La nottedei silenzi

di Roberta Gianesin

Il lento sospiro della notteschiude l’uscio per l’eterno

verso una stellata tempesta di bluche accoglie riso e pianto.

Silenzio.Vani cicalare, rimprovero,

invettiva,denuncia, scherno,

altera derisione.Tutto inghiottito e smorzato al di là

di quel mare ancora brillante.Ed ancora l’intenso blu,

nonostanteil catramoso asfalto dell’imbroglio

e del tradimento a lui asceso.Tutto è inghiottito e smorzato

da un’ovattata barrierache assorbe,filtra risana.

Oltre l’esterrefatto silenziodel contraccolpo

oltre i notturni fuochisolo voci di bimbi

il fruscio di un bacio tra i capellie poi il canto vibrante

e bello del giustoche accorda preghiere

mai pronunciateparole, sofferenze, emozioniinespresse lacrime sospese.

Con amorosa violenza un signoredelle stelle squarcia e ribalta la

nottein un’accecante luce.

Echeggiano ancora voci,rimbombano silenzi,resta vivo e vero solo

l’ascolto.

gerezza, ha il cuore sollevato comel’amante sulla soglia. Chi spera ha ilcorpo appesantito dalle assenze e ri-vendica promessa di pienezza: a suaimmagine li creò…

Rimedio estremo di temporanea leg-gerezza, la chimica dei nervi fornisceil minimo di contegno per continuarelo sforzo d’essere colto a sorpresa.Non so se questo è saggio. Dio tace.

Il mio silenzio si salda a quello divinoe l’esilio si converte in esodo necessa-rio. Sto in queste parole per esigenzad’impronta nel mentre del cammino.

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sa, che come tutte le istituzioni uma-ne può sbagliare come quando nondistingue più tra anima e spirito, co-me quando si fa sponsorizzare dallaNestlé.

Il viandante cammina, è un ricerca-tore spirituale e non teme di esserevissuto come diverso dalle potenti isti-tuzioni umane, seppure amiche, sia-no esse il sindacato dei lavoratori, ipartiti amici, la Chiesa stessa. Ascol-ta e risponde alla sua morale, credenello spirito, è attento ai moti dellasua anima e si inginocchia più volen-tieri di fronte alle persone che nelchiuso di una cella.

Il viandante usa un linguaggio poeti-co perché sa che, come disse J.W.Goethe, «…il linguaggio comune è ap-pena bastante nella vita per esprimeree comprendere, poiché con esso indi-chiamo soltanto rapporti superficiali.Non appena si parla di nessi piùprofondi ci si deve servire di un altrolinguaggio: il linguaggio poetico…».

Il viandante non dimentica di criti-care le scienze moderne e prima di

tutto l’economia, perché sa che vi-viamo in una cultura profondamentematerialista e si dà peso solo a ciòche appare, alla materia. In realtà ilmaterialismo è un’astrazione e anchela fisica stessa comincia a dirci che lamateria è il limite dell’esperibileumano e la cosiddetta materia è inrealtà ciò che non è più esperibile. Ipensieri, per esempio, non sono af-fatto materia ma sono da soli piùesperibili di tanta materia ed hannoun impatto concreto sulla nostra vi-ta. La vita interiore dell’anima e lacapacità di esprimere iniziativa e spi-rito sono dunque al fine più concre-ti di tanta materia esteriore. Il vian-

dante ha visto non solo nei paesi po-veri che l’applicazione reale delleteorie delle discipline accademicheeconomiche sono inique, materiali-stiche, astratte, pensate più per i mor-ti che per i vivi.

Il viandante non teme la morte per-ché ha imparato a riconoscersi comeEssere spirituale, perché veramente loè e quando arriva l’ora della mortenon può che gioire.

Lo fu anche per Socrate, nonostan-te avesse vissuto 500 anni prima del-l’evento del Golgota.

Il viandante viaggia leggero perchéha poco bagaglio, perché ha impara-to che chi dona ha e chi trattiene per-de; pudicamente non dice che spes-so ha sofferto e si è sentito abbando-nato, ma non ha mai perso la fiduciarammentando a chi in croce già ave-va vissuto questa esperienza.

Grazie, caro viandante, finché puoicammina ancora con amore e in li-bertà a lungo tra noi

Andrea Gandini

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Dove vi avevo lasciato l’ultima volta? Sì ecco: in ca-neva, in cantina. Col Mario. E la Rita. Ve l’avevo pre-sentata la Rita? Non importa: si presenta da sola. È lamoglie del Mario. Vi avevo condotto nel sepolcro-ca-neva, tra prosecchi e disillusioni, ma è ora di risorge-re. Come? Armandosi di sfiondra (fionda), ovvio. Mieidue reduci lettori, avanti, a riveder le stelle.

Il sogno nasce dal reale di uomini di profitto, nel de-trito industriale, nel traffico intasato: vive nel super-mercato.

Il sogno arma la sua fionda e può anche riuscire acentrare nella zucca il mostro: ammaccarlo, farlo pen-sare.

Il sogno di Mario ve lo dice la Rita: nonostante ledune di pannolini, acqua luce gas a fine mese, nono-stante il tritacarne del quotidiano che tutti noi triturafinemente, nonostante tutto il Mario trova il gusto dinon morire. Cioè di pensare.

Sviluppati sviluppaticonsuma un po’ di piùsviluppati sviluppatiproduci anche tu.

Sviluppati sviluppatinon ci pensare suconsumati consumatila vita è tutta qui.

Ecco, lo so che come sogno non è un gran che, mavedete: di questi tempi trovare il tempo di pensarci supotrebbe essere la leva che arresta l’ordigno univer-sale (Montale scusami). Perché come sanno bene i ric-chi le idee servono e contano. Anzi: per essere più si-curi ci spendono soldi per pagare quelli che gliele fab-bricano, le idee.

www.TNI.org. Dateci un’occhiata se non l’avete giàfatto. Leggete gli articoli di Susan George. Anche laRita lo fa, aspettando che finisca la centrifuga dellalavatrice. Wurstel senza pelle

formaggio lighttre per due:fratellidi che ipermercato siete?

E del resto Mario anche lui fa fatica a pensare qual-cosa di diverso quando la sua università (e noi con lui)la fa al supermercato, che voglia o no, tre-quattro vol-te la settimana. C’è voluta la Rita per fargli riprende-

re gusto: tra il sogno splendido ed ebete dei vent’an-ni e il martirio y dolor dei quaranta abbiamo anchealternative. Tutti, anche tu Mario.

Portami via da queste sere ingiallitenel sodio dei lampioni di via Progressoportami via da questo scempio di vite a ore pagate straordinarienon credere che questa sia la vita:produzione, consumo, e consumarsi.

Non ci sono in giro molti sogni credibili, onesta-mente. Bei sogni, intendo. Pancia troppo piena? Cer-to. Saggezza reumatica? Mi pare di sì. Del resto la Ri-ta ve la vedete arrivare a casa sventolando sotto il na-so del Mario una rivista al grido di «Leggi qua, Se-polcri!» con qualcosa di meno degno? Ecco: in quel-la rivista c’era un articolo di Zanotelli. Il quale per di-re quelle cose ha dovuto finire in Africa. Leggetevi tut-to, o almeno qualcosa di Zanotelli e poi ditemi. An-che al Mario ha aperto una coronaria (anche perchéquando la Rita lo chiama Sepolcri, in maiuscolo tral’altro...).

«La pienezza si avvicina:farò tutto nel marmo».[lo scultore Modigliani, in una lettera]

… la fabbrica s’avvicinache ne farò del verbo?

Eccolo, l’errore. Non credere nel verbo, credere chele idee non servono. A causa di certe idee costruiteda uomini, altri uomini producono e consumano. Oc-corrono idee diverse per persone, diverse, per met-terle insieme. Questo tipo di idee hanno il pregio e ildifetto che non vengono fuori come le idee post-li-beriste (passami questa smenata lessicale, per piace-re) da fondazioni e intellettuali pagati. Esce da posticome l’Africa più nera, il carcere di Turi (vedi Gram-sci) e manifestazioni di Seattle che quando va bene lidescrivono come “disordini”. E poi esce dal super-mercato, nel senso che diventa uno stile di consumodiverso, e poi si riappropria di quella che è una dellerisorse economiche più scarse dell’attuale sistemaeconomico: il tempo. A farlo sarà gente comune, co-me la Rita, anche se per l’unica ragione che conosce:la necessità. Il Mario arriverà anche lui (gli tocca!).

Maurizio Marchesin

Il sogno nasce dal reale

di Maurizio Marchesin

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Uso molto la macchina, ma non hol’autoradio. L’avevo una volta e, di-stratto come sono, nel cambiare cas-setta nel mangianastri, mi sono trova-to con le ruote all’aria.

Da allora, pur amando i suoni e levoci, in macchina sono in compagniadel silenzio. E mi trovo molto benecosì. Come mio padre, che l’autora-dio non l’ha mai voluta, e mi dicevache nei viaggi in macchina pensavaai suoi progetti di ingegnere e trova-va le soluzioni migliori.

Se gli diamo spazio, il silenzio ci ri-paga. Mentre i miei occhi seguonomeccanicamente la strada, ecco una

immagine lontana che riaffiora, un so-gno che torna a galla, un ricordo pro-fumato, un piccolo particolare chesembrava senza importanza, ma cheora cambia radicalmente l’interpreta-zione che ho dato a questo o a quelfatto. E con il silenzio, tra un tentati-vo di bilancio e uno scampolo di esa-me di coscienza, arrivano in fila in-diana i volti e le parole degli uominie delle donne che ho incontrato. Miparlano in silenzio e io, in silenzioprovo a rispondere.

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Il rumore dell’erba

di Francesco Monini

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«Lo sai quando è ora di mietere?»- mi spiegava vent’anni fa Federico,un amico portato via dall’Aids -«Devi andare sul campo, stare inperfetto silenzio e ascoltare: quan-do il grano è secco e maturo, le spi-ghe agitate dal vento si toccano efanno tac tac».

Federico, scappato dalla Milanodella droga, aveva trovato un provvi-sorio rifugio in un angolo di Umbria.Lì era diventato contadino, pastore,stalliere e mungitore. Lì aveva impa-rato a riconoscere i suoni sommessidella natura che il rumore della suavita randagia aveva fino allora coper-to ed occultato.

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Accendo la televisione e sono in-vestito dalle grida. Sarà colpa dellacampagna elettorale? Macché, l’urlosembra essere l’ingrediente base del-la stragrande maggioranza dei pro-grammi.

Urlano - evidentemente è una clau-sola inserita nel contratto - giornalistied intrattenitori. E urlano, ancora dipiù, gli ospiti: la gente comune chearriva a coronare il proprio sogno diqualche minuto di passerella televisi-va. Per l’occasione hanno avvertitoparenti, amici e vicini di casa, tuttiprecettati davanti al video a seguire laperformance del loro eroe.

Non si va in televisione per farebella figura. Si va in televisione sem-plicemente per essere visti (ricordoin un racconto di Stefano Benni latriste storia di quel povero e derelit-to avventore del Bar Sport, il solo intutto il bar che non era mai stato ri-preso dalla tivù). Non importa nullase l’ospite è goffo, strambo, impac-ciato, se è vestito come un burino, separla sgrammaticato. Anzi, compitodei selezionatori è trovare ospiti tal-mente strani da riuscire a muovere lacuriosità e l’ilarità degli annoiati te-lespettatori.

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Se poi non si trovano persone cherispondano alle caratteristiche, si pos-sono sempre costruire personaggi inlaboratorio: scimmie ammaestrate peril grande circo televisivo.

Basta dare un’occhiata ai program-mi e ci si accorge che anche gli ospi-

ti seguono un copione. Non sono per-sone vere di una Italia reale - per unavolta, e per fortuna, la realtà è megliodi quanto si vede in televisione - so-no invece comparse, che recitano asoggetto. Ad ogni comparsa è asse-gnata una piccola parte: una battuta,una barzelletta, una scemenza, unasmorfia.

Succede così che lo stesso ospiteche il lunedì, su Retequattro, era unmarito tradito ed inconsolabile, lo ri-vediamo su RaiDue il martedì, maga-ri con un abile cambio di cravatta,nella parte dell’inventore di una rivo-luzionaria pentola cuocitutto.

• • •

E i bambini? I bambini sono più chemai gettonati. Una volta la massimaaspirazione di due genitori teledipen-denti era la ribalta dello Zecchinod’oro, oggi le alternative per raggiun-gere un briciolo di gloria televisiva sisprecano.

Non è necessario avere in casa unpiccolo genio - in quel caso rivolger-si direttamente a Mike Bongiorno -basta avere un figlio telegenico, chenon se la faccia sotto e, soprattutto,capace di mandare a memoria ilcompitino assegnato dagli autori delprogramma.

Questa, ad esempio, è la domandarivolta da un bambino di sei sette an-ni ad una giunonica Anna Falchi nelprogramma spazzatura Chi ha inca-strato Peter Pan?. Chiede il bambino:«Ma al tuo fidanzato (il campione dimoto Max Biaggi n.d.r.) piacciono dipiù le curve della pista o le tue cur-ve?». Risate in sala e falsa sorpresa diBonolis, il presentatore che con Fu-nari si contende il Telegatto della vol-garità.

Chi ha incastrato quel bambino? Chil’ha convinto a mandare a memoriauna battuta, con tanto di doppio sen-so e di pessimo gusto?

E, visto che si parla tanto di comeproteggere i bambini dalla scene diviolenza quotidianamente trasmesse,perché intanto non proibire la messain onda di programmi con protagoni-sti bambini ammaestrati come quellidi Paolo Bonolis o Carlo Conti?

Resiste stoicamente un programmadivertente ed intelligente come L’al-bero azzurro, amatissimo dai bam-bini ma che arriva solo una volta al-la settimana. Poi c’è la Melevisione.

E poco altro. Quel poco che mi trat-tiene da prendere a randellate il te-levisore.

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Per fortuna, con buona pace deiprogrammisti a caccia di scimmietteammaestrate, i bambini continuano afare domande. Domande vere e pro-dotte in proprio. Domande buffe, maanche domande difficili, scomode,imbarazzanti. Come quando tirano inballo il nostro comportamento diadulti: è incredibile la loro capacitàdi cogliere le contraddizioni tra il no-stro dire e il nostro fare!

Ma per ascoltare i bambini occorre fa-re un po’ di silenzio. Spegnere la tele-visione, chiudere il giornale, interrom-pere un lavoro, fermare il corso dei no-stri importantissimi impegni, sgombra-re la mente dai nostri pensieri adulti.

La stessa cosa per gli anziani. Ripe-tono cento volte la stessa cosa comeun disco rotto? Ma forse quella cosanon l’abbiamo mai ascoltata vera-mente. Forse quella cosa è più im-portante delle mille novità che ci pro-pina il mercato della vita.

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Non c’è molto spazio per il silenzio. E, guarda caso, non c’è molto spa-

zio per bambini ed anziani.Non c’è tempo da perdere, così al-

meno ci hanno insegnato, perché lavita è una lotta e la Storia incalza.

Eppure questa volta ho buttato viaquello che avevo scritto sui grandi av-venimenti riportati dall’informazione:crociate e crociere elettorali, crisi digoverno, referendum disertati e ita-liani sfiduciati. Ho buttato anche lepolemiche arbitrali e i grandi interes-si delle squadre che si quotano in bor-sa, le glorie della Ferrari che amman-tano di rosso un paese che va semprepiù a destra, le mille versioni del ter-zo segreto di Fatima che rimpiccioli-scono un Giubileo che non scuote lecoscienze e non tocca il portafoglio.

Mi è tornata in mente una cosascritta da un poeta. Magari, ho pen-sato, non era solo una pura fantasia,una bella immagine lirica. Forse è ve-ro che, facendo silenzio, si può sen-tire il rumore dell’erba che cresce?

Francesco Monini

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9 febbraio 2000 - Venezia.Giuseppe e Tullio Chimi-nazzo ritornano dal Brasile;hanno incontrato molte per-sone, per avviare un rapportodi lavoro e di formazione. Ilprogetto di avviare una men-talità ed un’attività impren-ditoriale assieme ai brasilia-ni là dove e come sia possi-bile. L’anima è Tullio, con laScuola di Etica ed Economia;Giuseppe l’ha accompagnatoa Rio de Janeiro, Alcobaça,Salvador, Recife, Santarem,San Paolo, per incontrare lepersone adatte a far da rife-rimento. Hanno depositatoi loro doni in Brasile e sonotornati con tanti sogni e qual-che tratto di penna.

12 febbraio 2000 - Povedel Grappa. Seconda lezio-ne del corso di socio-politi-ca. Fedeli i trenta discepoliascoltano, chiedono, riflet-tono e poi annotano la le-zione precisa sul periodo trale due guerre del prof. An-dolfato. Pane, sopressa e for-maggio non mancano per ri-storare i corsisti. E poi uncaffè per riprendere l’ap-profondimento del pome-riggio sui totalitarismi.

13 febbraio 2000 - Mila-no: un gruppo di famiglie in-vita Giuseppe sul tema: Giu-stizia tra Nord e Sud. Comecostruirla nelle famiglie enelle scelte personali. L’ini-ziativa era partita da Fiorel-la Morelli, che riflettendocon alcune famiglie sul sen-so del giubileo, s’è trovata adover fare i conti non solocon una responsabilità ge-nerica, ma con un impegno

personale. Anche perché leparole del Deuteronomionon sono rivolte ad un grup-po informe di volontari o direligiosi, ma diventa regolae usanza per un popolo.

22 febbraio 2000 – Mus-solente (VI). Di passaggio perl’Italia a confortare l’anima,non certo lo spirito, che è at-tivo e reattivo, padre Taddeo,che lavora in una comunitàdi Imperatriz, si è incontra-to con un gruppo di amiciche hanno lavorato con luiin Brasile, o ne hanno con-diviso l’attività e gli intenti,o che amano rivederlo do-po lunghi tratti di Brasile:Gianni, Sonia, Adriano, Ele-na, Giuseppe, Meridio e tan-ti altri i cui nomi sono scrit-ti sotto il pane dell’ospitalità.Padre Taddeo continua l’at-tività pastorale a Imperatriz,con la nuova comunità deifrati brasiliani; accompa-gnando sempre la coopera-tiva dei contadini.

24 febbraio 2000 - Forlì.Un gruppo di animatori diparrocchia invita Giuseppea condurre un corso sullemotivazioni, che spingonoun animatore a fare attivitàcoi ragazzi e coi giovani, inun lavoro che li coinvolganon solo nel mestiere, manella ricerca di senso.

2 marzo 2000 - San Mar-tino di Lupari (PD). C’è unvolantino simpatico, scrittoin bilingue (italiano e vene-to), che annuncia l’incontrocon Giuseppe Stoppiglia conun titolo molto lungo, ritra-dotto poi in vernacolo lo-

cale. La firma del volantinopoi è un programma, in cuialle lingue di cui sopra si ag-giungono lo spagnolo e l’in-glese. Un modo sicuro percombattere i personalismi ele rocche dello strapaese edel razzismo. All’incontro,organizzato dalla parroc-chia, ci sono ben centoven-ti animatori che affrontanoil tema: “Giubileo del 2000:fumo o qualcosa di molto,molto concreto per la miavita di tutti i giorni? (maga-ri te la cambia in meglio)”.Il messaggio del Giubileo vaoltre il semplice rito, e af-fronta i temi della vita deipopoli in termini non misti-ficati e rassegnati.

3 marzo 2000 - Santa Ma-ria di Sala (VE). Il consigliodi fabbrica della Safilo, azien-da che produce occhiali edè costituita quasi totalmentedi donne, ha invitato Giu-seppe all’assemblea di fab-brica; è un incontro cordia-le attorno alla evoluzione del-l’organizzazione del lavoro;ed il ruolo del sindacato og-gi. Era naturale che non man-casse qualche considerazio-ne sul ruolo della donna nel-la società di oggi e le pro-spettive future, per romperele rigidità di una società fon-data sulla competizione.

4 marzo 2000 - Pove delGrappa. Dal 1943 ai nostrigiorni. Terza lezione di So-ciopolitica. I soliti trenta di-scepoli non si perdono nes-suna delle parole di VittorioAndolfato. Il professore, nonsentendo né tossire, né sbadi-gliare, continua la spiegazio-

ne e arriva fino agli anni ’70.Alle 13.00 Enrico e Bal-

dassare faticano ad inter-rompere per proporre il pran-zo al ristorante Monsignore.Troppo bravo, professore,troppo appassionante. Nean-che mangiare lo lasciano…

6 marzo 2000 - Ferrara. C’èun legame forte di Giuseppecon Ferrara; non tanto con lacittà, ma per gli amici ed il ri-cordo di un’attività svolta ne-gli anni sessanta in quel diComacchio. Il gruppo ferra-rese della Fuci lo ha invitatoad una conversazione attor-no al tema I nuovi poveri. Chesono anche i giovani in unasocietà che, nonostante il for-te dinamismo economico,tende a conservare i ruoli edunque lascia uno spazio av-ventizio al rinnovamento. Maè pure l’occasione per rive-dere don Piero Tollini, chedopo anni di pastorale nellacittà di Ferrara si è ritirato inpensione al compimento del-l’età canonica. E resta unospirito libero, che continua,pur nella difficoltà di un am-biente non sempre acco-gliente, ad incontrare le per-sone di un tempo con le qua-li ha percorso la strada di unafede non provvisoria, e nondogmatica.

10 marzo 2000 - Bassanodel Grappa. Il professorFrançois Turcotte del LiceoScientifico Da Ponte invitaGiuseppe a parlare alle quar-te classi sul rapporto Nord eSud del Mondo, all’internodel programma culturale cheogni scuola dispone. È un’oc-casione per presentare la in-

Macondo e dintorniCronaca dalla sede nazionale

di Gaetano Farinelli

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terdipendenza dei territori edelle popolazioni, che a trat-ti sfumano in un tutto unico,nell’inganno delle transazio-ni e delle cifre; ma che poiripropone il contrasto e lafrattura nei volti delle perso-ne; nelle rivolte improvvisecovate nel dolore; e nel ci-nismo delle parole che con-donano il debito e chiedonoun pedaggio subdolo nel-l’aggiustamento strutturale,che significa diminuzione deldiritto alla vita, all’istruzio-ne, alla sicurezza. E così quel-lo che dovrebbe essere unrapporto Nord e Sud si tra-sforma in una guerra silen-ziosa ed implacabile, dove ilnostro compito si sfalda o sistempera, se non è sostenu-to dalla volontà e dal senti-mento di essere attenti e re-sponsabili ai processi socia-li ed economici, che passa-no nelle parole d’ordine disviluppo e progresso; eschiacciano e comprimonole anime e i corpi nel buio

della rassegnazione. Gli oc-chi stavano aperti e sgranati;qualcuno si stropicciava l’oc-chio azzurro, l’occhio verde.Dietro l’occhiale. Nell’aulamagna della scuola eranopresenti circa centocinquantagiovani e ragazze.

11/12 marzo 2000 - SanGiovanni in Marignano (FO).Il parroco don Piero Battisti-ni, che fa la spola con la chie-sa di Santa Maria in Pietrafit-ta, collocata tra gli alberi a ri-dosso di una dolce collina,dove cresce un buon vino cor-poso, ha invitato Giuseppe aparlare al gruppo dei respon-sabili della formazione pa-storale. Sono stati due giorniintensi di formazione, attor-no al lavoro della progetta-zione. Come attivare, prepa-rare un intervento di pastora-le sul territorio, tenendo con-to dei contenuti e delle tec-niche. È un lavoro difficile chesi compone anche attorno al-le difficoltà dell’animatore a

trovare spazio e tempo in ta-le intervento. C’è un’anticaamicizia con Giuseppe, natafin dal seminario regionale diBologna; e che è cresciuta neltempo e nelle vicissitudini purdiverse della vita. Molti pren-devano appunti; alcuni ro-sicchiavano la penna, forsepensando alla strada biancache porta in cima al colle.

Di rientro da San Giovanniin Marignano (che forse haqualche attinenza con il ma-re vicino?) Giuseppe si è fer-mato da don Pino Ricci, ami-co carissimo, reduce da unalunga malattia, parroco nel-la chiesa di Bertinoro in queldella Romagna, dolce paese.Sul piano correvano le notedi Beethoven, che qualcheindolente ha trasformato incane, dimenticando o scam-biando i latrati o i guati conle note Per Elisa.

15 marzo 2000 – Ceneselli(RO). La Biblioteca Comu-nale e la Pro Loco hanno or-

ganizzato un ciclo di in-contri, dal titolo “Siamo so-gnatori di mondi” e hannoinvitato a parlare Giuseppesu “La memoria del presen-te; i mondi dimenticati”, cheriporta il discorso su territo-ri che sono dimenticati dal-la stampa, e dunque fuoridel circuito dell’informa-zione; ma che magari an-cora qualcuno ricorda, e stascritto nei suoi quaderni dicontabilità. Del dare e del-l’avere e dal quale risultanomolte cifre in rosso; nono-stante l’invito a ripensare ilGiubileo, in termini di giu-stizia e di vita. E nonostan-te siano già tante le restitu-zioni in danaro e materie pri-me, da parte dei paesi in ros-so. Ma tant’è; la proprietàprivata è un fondamentotroppo importante nella so-cietà del diritto per badarealle quisquilie dei morti difame, e delle barche cheaffondano, e dei volti clan-destini stipati in scatole di

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sardine. Nella sala consilia-re, che accoglie le rappre-sentanze della comunità adecidere delle piccole cosefondamentali della vita, ilpubblico, la gente ha segui-to con attenzione una ani-mata conversazione.

18 marzo 2000 - Ferrara.Si tiene la redazione di Ma-drugada in casa del diretto-re Francesco Monini. Sonoall’ordine del giorno i temidei prossimi numeri e alcu-ne considerazioni sulla rivi-sta e l’ultimo numero in par-ticolare. Tenendo conto del-la composizione sociale diMacondo e dei lettori, pareopportuno affrontare il temadel lavoro, inserendo ancheil sindacato; e di seguito laformazione, che tanta parteassume in Macondo specienegli ultimi anni. All’incon-tro è presente anche Maria,rientrata dal Brasile già a set-tembre, per ritrovare i vec-chi amici di Ferrara, in par-ticolare Francesco.

Santa Maria di Sala. Nellostesso giorno, Giuseppe è in-vitato a parlare del “Debitoestero” dei paesi in via di svi-luppo durante la Santa Mes-sa. Un momento opportuno,laddove si spezza il pane del-

la parola e della vita, per ri-cordare quanto anima e cor-po vivono anche sulla pre-carietà essenziale del paneche viene dalla terra; e cheil pensiero non germoglia daidiamanti dell’apoteosi, madagli umori di madre terrase liberata dalle recinzioniche escludono la mano ope-rosa di chi non ha terra.

19 marzo 2000 - Castel-franco. Su invito della co-munità terapeutica di Mira,Giuseppe parla ai ragazziche sono già rientrati e rein-seriti nella società, sul te-ma La fatica di vivere tra so-gno e realtà. La dove il so-gno non è un progetto; e larealtà non è cosa immuta-bile cui adeguarsi; ma lospazio delle relazioni chesi contraggono e si alimen-tano nel silenzio, nell’a-scolto e nel rispetto dellavita e delle aspirazioni del-l’altro. Per uno che ha sof-ferto la tossicodipendenzaè difficile il rientro, che nel-la mentalità comune signi-fica adeguarsi alla società,senza tener conto che essi,con il loro disagio, sono unsegnale che “forse” qual-cosa non quadra nella no-stra vita sociale.

20 marzo 2000 - Pove delGrappa. Il Comitato della fe-sta riunisce tutte le associa-zioni aderenti alla festa na-zionale di Macondo, per fa-re il punto della situazionee per comunicare alcune li-nee di comportamento nel-la gestione degli spazi e deitempi. La sala dell’associa-zione piano piano si riem-pie di volti e di parole, perdelineare i tratti e i momen-ti dell’incontro di Spin di Ro-mano, dove si terrà la festanazionale, che negli ultimidue anni si era tenuta nelcentro giovanile di Bassano.

22 marzo 2000 - San Ze-no di Cassola (VI). Dopoaverlo inseguito con discre-zione per diverso tempo,l’Associazione Macondo èriuscita a portare nel territo-rio di Bassano Fabio Fazio,simpatico conduttore televi-sivo, impegnato da semprenel sociale a difesa di quan-ti non hanno accesso al di-ritto alla vita e dunque allafelicità; un’attività che Fabioconduce per spirito “egoisti-co”, come dice lui con iro-nia; ma anche per smitizza-re e riportare a dimensioneumana anche l’impresa di fa-re il bene; che non è un do-

vere, ma deve nascere nel si-lenzio, nell’ascolto e nel pu-dore della riservatezza. Il te-ma era: Globalizziamo la giu-stizia, tema che ha voluta-mente provocato l’ambiguitàdivertita che il Fazio invita-to fosse l’altro, quello dellabanca. L’uditorio era nume-roso, attento e divertito dal-l’ironia semplice e naturaledi Fabio, dalla conversazio-ne a tre a quattro che si sno-dava della sala di Etica edEconomia, gentilmente con-cessa dalla scuola medesi-ma, e che toccava molti te-mi; compresa naturalmentela funzione della parola edelle immagini televisive; delpericolo della banalità, chesi insinua nei palinsesti del-la televisione. E tutto proce-deva con semplicità, senzarelazioni introduttive; ma tut-to segnato da una temperiedi vita che non si lascia cor-rompere dal successo, sen-za affermazioni retoriche conironia e autoironia.

24 marzo 2000 - Lugano.Si riunisce il Club di Luga-no. Sono due giornate di la-voro presieduto dal profes-sor Bruno Amoroso. Il Grup-po di Lugano è costituito dainsegnanti, ricercatori e grup-pi di base impegnati da an-ni nella costruzione e nelmantenimento di legami disolidarietà tra la gente, le ge-nerazioni, i popoli, i paesi,per opporre al disegno del-l’apartheid globale, impostodalla globalizzazione, un si-stema di solidarietà e di be-nessere mondiale. Il gruppodi Lugano nasce in un mo-mento di grandi cambia-menti e decisioni forse de-finitive; tra un cambio radi-cale di civiltà, come scriveAmoroso, e la catastrofe. Al-l’incontro ha partecipato an-che l’Associazione Macon-do, con Giuseppe come re-latore, che si pone nel grup-po come cerniera tra il mo-mento elaborativo, le presedi posizione pubblica e lacomunicazione dei dati. Perquesto Macondo ha pure co-

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stituito un osservatorio, cheandrà delineando i suoi ruo-li assieme al professor Mau-ro Pellegrino, per divenireuno degli “anelli di solida-rietà” tra culture, regioni egruppi sociali per cui è na-to il Club di Lugano.

25 marzo 2000 - Pove delGrappa. Corso di sociopoli-tica. Il professor Gabriele Do-nola inaugura il ciclo dellelezioni dedicate all’econo-mia. Si comincia dal con-fronto fra il sistema keyne-siano e quello monetaristico.I corsisti cominciano a capi-re i rudimenti del sistema eco-nomico. Cosa produrre?Quanto? Con quali tecniche?E soprattutto, per chi? I par-tecipanti seguono diligente-mente, cercano di metabo-lizzare e di far propria la ma-teria, cominciano a chieder-si quale sia, fra quelle pro-poste, la migliore visione eco-nomica della società.

28 marzo 2000 - Padova.20° anniversario dalla mortedi Dom Romero. L’iniziativaparte dal Comitato di Soli-darietà con il popolo di El Sal-vador. I primi due interventimostrano in controluce i mo-tivi della morte di Romero,ed il silenzio che tenta di co-prire la sua morte di testimonedi un’ingiustizia che non hafine: M. Cantarelli sull’Ame-rica Latina schiacciata dalneoliberismo, e la Teologiadella Liberazione di J. RamosRegidor. Stoppiglia tenta in-vece di vedere quali sono irapporti possibili con questocontinente, perché quellamorte apra un percorso di so-lidarietà responsabile. Allatavola rotonda, che si tienealla Sala Polivalente di via Va-leri, interviene pure Mariel-la Tornago.

1 aprile 2000 - PioveneRocchette (VI). Dopo diver-se peripezie, tra cui anchel’incidente occorso alla vi-gilia di Natale, superato mi-racolosamente, Giuseppe,invitato dal gruppo famiglie

che si raccoglie attorno allafamiglia Deganello, ha af-frontato il tema del rappor-to educativo con i figli, chesi basa sulla capacità di let-tura dei segni dei tempi, sul-l’ascolto, e sul senso di li-mite che la famiglia consta-ta in tale fase educativa…Poi si passa al Giubileo, chenon è la festa del touring, odello spingi che non ci ve-do; ma un impegno nato inseno ad un popolo, per farein modo che la convivenzanon dimenticasse la fratel-lanza; ed i rischi della sot-tomissione fino alla servitù.

8 aprile 2000 - Dosolo(MN). Si è tenuta la segrete-ria di Macondo. All’ordinedel giorno c’era la festa na-zionale; gli incontri con gliautori del libro Clochard; icampi scuola estivi ed il sen-so del processo educativo; alproposito va sempre tenutala funzione del viaggio in Bra-sile e nell’America latina co-me momento formativo alconfronto interculturale.

Si costituisce l’Osservato-rio sulla Globalizzazioneche ha la funzione di tra-smettere il materiale alter-nativo all’economia liberi-sta, in collaborazione con ilClub di Lugano presiedutodal dottor Bruno Amoroso.

Si prende poi in conside-razione il progetto di co-struzione di una casa di ospi-talità in Bahia, all’internodella scuola di Salvino Me-deiros, per gli italiani chesoggiornano ad Alcobaça incollaborazione al progettoCELS. Si conferma la dispo-nibilità alla collaborazionecon Anna Maria Bertoldo nelprogetto educativo in Boli-via, disponibilità che servea dare un punto di appog-gio e di ospitalità a quantivogliono conoscere e fer-marsi in quella realtà. In fi-ne resta da ristampare il dé-pliant che illustra Macondoe le sue finalità.

9 aprile 2000 - Pove delGrappa. Gianni Tognoni vie-

ne invitato da Macondo perparlare ai giovani sul tema“Globalizzare la giustizia: ilsilenzio della politica”. Gian-ni Tognoni è medico ed insie-me segretario del Tribunalepermanente dei Popoli. Nel-la sala ci sono circa sessantapersone. Per il ruolo che rico-pre, affronta il tema assegna-to sotto l’aspetto giuridico. So-no cambiati i significati delleparole; e questo stravolge i rap-porti e rallenta o blocca la pos-sibilità di intervento; bisognadunque liberare le parole dal-le incrostazioni che si sonoformate. La guerra è diventa-ta guerra umanitaria, che per-mette di intervenire; il villag-gio globale è diventato pro-prietà di pochi che hanno can-cellato l’universalità del dirit-to; la logica dell’efficienza hacancellato la parola respon-sabilità dal linguaggio econo-mico; la politica che canta lalibertà di scambio delle mer-

ci impedisce la libera circola-zione delle persone. Per nonessere schiacciati dal peso delconformismo bisogna mante-nere il contatto con la realtàe riprendere il diritto alla dia-lettica, schiacciata dai processidi concertazione.

14 aprile 2000 - Vicenza.In occasione dell’anniver-sario della morte di AugustoGiorgioni si sono riuniti gliamici della Cisl, che ha sco-perto in sua memoria unalapide, a riconoscenza delsindacato da lui svolto pertanti anni nel mondo del sin-dacato. Era presente alla ce-rimonia la moglie Cristina.

15 aprile 2000 - Pove delGrappa. Quinta lezione delcorso di sociopolitica. “Infla-zione, disoccupazione e crisimonetaria”. Il relatore analiz-za il funzionamento del mer-cato del lavoro. Parla di occu-

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pazione, forza lavoro e risor-se. Gabriele Donola lascia tra-sparire sempre più la sua pas-sione per la materia, coinvol-gendo anche i corsisti che par-tecipano attivamente alla le-zione con domande di chiari-mento o di approfondimento.

19 aprile 2000 - Lagosan-to (FE). È stato sepolto nel suopaese natale don GiovanniMarinelli; c’erano molti co-macchiesi alla cerimonia fu-nebre. A Comacchio era ri-masto circa trent’anni. Ora ri-posa nel cimitero del suo pae-se, vicino ai suoi genitori.Giornalista fervido e conver-satore amabile; conoscitoredegli uomini della sua terrae degli intrecci sociali. Era so-cio di Macondo. L’avevamoincontrato l’ultima volta a Ser-ravalle. C’eravamo ritornati,ma era ricoverato a Bologna;e poi è passato il tempo. Conlui avevamo vissuto momen-ti indimenticabili negli annisessanta e settanta: lui parro-co e noi immansueti cappel-lani. Con una umanità umi-

le, che teneva i piedi sul-l’humus della nostra terra ma-dre. Nella simpatia che eracordialità aveva mantenutoil rapporto con noi, scom-mettendo con ironia sulla no-stra avventura con il Brasilee con Macondo. Siamo arri-vati nella chiesa mentre ri-cordavano le sue imprese; for-se lui avrebbe sorriso; o for-se avrebbe aggiunto paroleingroppate che poi sarebbe-ro divenute un fiume doves’immergono i bambini e ipesci e forse dove corrono disoppiatto anche le anguille.

28 aprile 2000 - Solagna(VI). Macondo Tracce assie-me al gruppo Cineforum diSolagna organizza una sera-ta di riflessione e dibattito sultema: Globalizzazione: ver-so un’umanità disumana?Quale il ruolo della Politica?Dopo la presentazione deltema della serata da parte diGaetano Farinelli dell’Asso-ciazione Macondo, prendela parola il relatore BenitoBoschetto, già direttore di

Piazza Affari, Borsa di Mila-no. La sala intanto va riem-pendosi e verso le nove ci sa-ranno almeno ottanta perso-ne ad ascoltare. La globaliz-zazione non è la soluzionedei problemi dell’umanità;l’economia ha le sue regole:produce ricchezza ed il mer-cato accumula. Gli stati van-no perdendo potere; ma c’èla possibilità, anche attraversole nuove tecnologie (Internet)di una nuova democraziauniversale, che si opponeinformando ed aggregandoin tempo reale attorno e con-tro le decisioni dei pochi ascapito dell’universale. La po-litica ha la funzione di met-tere regole per la distribu-zione del reddito; e se gli sta-ti perdono potere, le realtàlocali nelle loro componen-ti multietniche potranno in-tervenire opponendosi ai pro-cessi di anonimato e di mas-sificazione delle multinazio-nali. A fronte della comples-sità degli argomenti, il di-battito si è sviluppato in mo-do articolato e dinamico.

Bari. Giuseppe incontra, inoccasione di un interventoformativo, alcuni amici diMacondo; conversa e dialo-ga con p. Pietro, cugino, ep. Gianni Capaccioni, padriComboniani, ed è stato poiaccolto da tutta la Comunitàin modo fraterno e cordiale.

29 aprile 2000 - Pove delGrappa. Sesta e ultima lezio-ne del corso. Conclude Be-nito Boschetto: “Lavoro, fi-nanza e tecnologia nell’eradel mercato globale”. Finalecon l’acuto: chi si immagina-va che un direttore della Bor-sa di Piazza Affari fosse co-municativo, immediato e so-prattutto chiaro? Chi ha dettoche di economia non si capi-sce niente? Le lezioni di Do-nola e Boschetto dimostranoil contrario.

Chiusura conviviale daSandro; si uniscono al grup-po la bella Valeria, il Presi-dente, Donna Maria ed ilcronista Farinelli.

Gaetano Farinelli

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Vedendo i giochi di Alberto, sento affio-rare un sentimento che credevo sopitoda tempo. Lo lascio emergere, non vo-glio resistergli, e mi accorgo che quasimi mette a disagio, perché mi sembra undesiderio inconfessabile: ho ancora vo-glia di giocare!

Mi studio e mi analizzo, e trovo che lacosa non sia affatto banale: voglio an-cora cimentarmi col salto, con la corsa,con l’abilità in una prova che sia fine ase stessa, che non scriverà il mio nomesu nessun foglio importante e che il gior-no seguente mi permetterà di provare dinuovo.

Voglio divertirmi. Voglio ridere comeun bambino eccitato dalla sfida, e poi senon mi piacerà, cambierò gioco.

Torno in me, e vedo che invece sonosu di un treno che viaggia in un’unica di-rezione. Fatico a scorgere percorsi diver-si. Vivo il peso dei miei sbagli che qual-cuno puntualmente annota e so che, almomento opportuno, me li farà pesare.

Vorrei cancellare il punteggio dal ta-bellone… e ricominciare il gioco dac-capo. Senza dubbio sto vedendo nero,mi chiedo se i giochi di Alberto sono so-lo il desiderio di un caldo rifugio dalledifficoltà del quotidiano, il desiderio dinon crescere, di non affrontare le provedecisive… O se piuttosto il mio riflette-re può assumere i toni di una condannarispetto ad una vita troppo veloce, trop-po competitiva e spietata, che finisce colperdere ogni senso autentico.

L’infanzia rivisitataLe immagini di questo numero

di Madrugada

a cura di Chiara Cucchini

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