AMELIA ROSSELLI E ROCCO SCOTELLARO · 2016. 6. 23. · Rocco Scotellaro può fornirci un chiaro...
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELLA BASILICATA
POTENZA
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN LETTERE
INDIRIZZO MODERNO
Tesi di laurea in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea
AMELIA ROSSELLI E ROCCO
SCOTELLARO
Relatore: Candidata:
Prof. Anna Maria Andreoli Maria Teresa Langerano
Matr. 9492
ANNO ACCADEMICO 2000/2001
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Maria Teresa Langerano
AMELIA ROSSELLI E ROCCO SCOTELLARO
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2
Introduzione
Lo spettacolo teatrale “Contadini del sud”, che in molta parte tratta del rapporto
tra Amelia Rosselli e Rocco Scotellaro, ha suscitato in me curiosità e interesse tali da
spingermi a sviluppare la ricerca riferita a questo aspetto della vita dei due poeti.
Nel lavoro teatrale Letizia Gorga veste i panni di Amelia Rosselli e Ulderico
Pesce quelli di Rocco Scotellaro.
Lei è diafana, eterea, cammina come distaccata dal suolo, quasi volando. Lui è
più greve, come attaccato alla terra.
Amelia Rosselli e Rocco Scotellaro nella diversità delle loro esperienze culturali
ed esistenziali si sono incontrati e si sono scambiati sentimenti autentici e profondi.
La vita di Rocco Scotellaro, pur se breve (muore a soli trent’anni), è ricca di
eventi, di impegni, incontri e amicizie. Ha numerose frequentazioni e intrattiene
rapporti d’amicizia con persone di provenienza sociale e di cultura alquanto diversa
dalla sua.
L’impegno politico e sociale, come gli amori e gli affetti, gli offrono materia
d’ispirazione e diventano poesia.
Quando incontra Amelia Rosselli, nel 1950, è uscito da poco tempo dal carcere e
sta vivendo un periodo di disillusione.
Amelia è la figlia di Marion Cave e Carlo Rosselli, il fondatore del movimento
politico “Giustizia e libertà”.
Insieme alla famiglia, nel 1946, torna in Italia dopo un esilio involontario. Vive
per un periodo a Firenze, vicino alla nonna Amelia Pincherle. Nel 1949, dopo la
morte della madre Marion Cave, si trasferisce a Roma.
Il peregrinare per il mondo le ha fornito una cultura cosmopolita e un modo di
sentirsi interiormente apolide.
Nel primo capitolo di questo mio lavoro tratto della vita e della poesia di Amelia
Rosselli, rilevando, per quanto possibile, l’identificazione tra la sua vita e la sua arte.
Gli elementi fondamentali della sua poesia emergono dai sui interessi musicali,
sociologico-politici e psicologici.
Pensa e scrive in tre lingue, attingendo a diversi registri linguistici. È alla ricerca
delle forme universali e dell’esperienza sonora, logica e associativa comune a tutti gli
uomini e trasferibile in tutte le lingue: ricerca il linguaggio universale.
Amelia Rosselli, prima di essere poetessa è musicista; l’interesse musicale
suscita in lei quello poetico, per cui traspone in poesia le strutture della musica. La
musica non è linguaggio universale?
È interessata allo sperimentare in lingua e vuole appropriarsi di una scrittura
alternativa. Nella sua arte è forte il desiderio d’innovazione, ma ugualmente è
presente la necessità di sentirsi ancorata alla tradizione.
Legge autori classici e moderni, inglesi e americani, francesi e italiani.
C’è in lei uno scollamento tra vita vissuta e vita sognata, quest’ultima universo
di parole e di suoni.
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3
Il nutrimento della sua anima è la musica, la poesia. Quando questo viene meno i
tormenti, che l’accompagnano per tutta la vita, la sconfiggono.
La sua esistenza si conclude con l’atto pensato, meditato, quasi goduto del
suicidio.
Nel secondo capitolo ripercorro la vita di Rocco Scotellaro.
Scotellaro nasce da una famiglia di piccoli artigiani e, per studiare, trascorre
lunghi periodi in diverse località: Sicignano degli Alburni, Cava dei Tirreni, Matera,
Potenza, Trento, Roma. Nel 1942 s’iscrive alla facoltà di Giurisprudenza degli Studi
di Roma. La morte del padre, il 14 maggio 1942, e la guerra determinano il suo
ritorno a Tricarico e il cambio di Università, prima a Napoli, poi a Bari. Scotellaro
anche a causa di tutte le traversie della vita non consegue la laurea.
Impegnato in campo politico e sociale, nell’ottobre del 1946, a soli ventitré anni,
è il sindaco più giovane d’Italia. Il suo operato di onesto ed irreprensibile
amministratore non si conclude positivamente, infatti, è arrestato l’8 febbraio 1950
con l’accusa infondata di concussione e peculato. Condotto nelle Carceri giudiziarie
di Matera è scarcerato, il 25 marzo, dopo l’assoluzione della Corte d’Appello di
Potenza con formula piena.
La triste esperienza del carcere fa maturare in lui la volontà di emigrare; deluso e
disilluso vuole cambiare vita, è alla ricerca di una funzione che gli sia positivamente
riconosciuta entro la società in cui vive.
Il terzo capitolo riguarda l’incontro tra Rocco Scotellaro e Amelia Rosselli,
durante il convegno su “La resistenza e la cultura italiana” tenutosi a Venezia il 22-
24 aprile 1950.
Scotellaro è affascinato dalla Rosselli; in lei vede rivivere gli ideali del padre
Carlo.
Amelia ha una cultura aperta, straniera; più giovane di sette anni, consiglia a
Rocco i libri da leggere, di scrivere e di lasciare il lavoro presso l’Osservatorio di
economia e politica agraria di Portici.
Il poeta lucano le confida le insoddisfazioni per la gestazione del suo romanzo
“L’uva puttanella”, le disillusioni, la sua volontà di lasciare l’Italia.
All’interno del terzo capitolo analizzo i “Taccuini” di Scotellaro, che forniscono
degli stimoli per approfondire temi importanti, come il rapporto dei due poeti con i
genitori, con la politica, con i familiari defunti.
Ci sono le lettere1, scritte in minuta, una di Amelia e due di Rocco.
Lo “Scambio” o “Gioco”2 poetico intercorso tra i due poeti è composto da una
poesia di Amelia dedicata a Rocco, e da due di Rocco dedicate ad Amelia. Rocco le
si rivolge, chiamandola sempre con il nome materno; Amelia nella lettera e nella
poesia dedicata a Rocco, si firma con il nome della madre: Marion.
Nel quarto capitolo analizzo l’opera poetica di Amelia Rosselli, in cui è presente
la figura di Rocco Scotellaro.
1 Ivi,p. 262-264
2 Ivi, p. 261-262
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La morte del caro amico offre alla giovane donna una strana ispirazione, fino a
quel momento ha scritto soltanto in inglese, ora comincia a scrivere in italiano.
Compone Cantilena3, ventisette poesie per Rocco Scotellaro: un vero lamento
funebre.
In Sanatorio4 (1954) la morte si configura come una donna. Lei è disperata,
ironicamente afferma che le occorre un marito, per guarire dalla sua malattia.
In Diario Ottuso5 del 1968, cerca di far chiarezza su un periodo molto delicato
della sua vita e cerca di guardare dal di fuori se stessa. Nei capitoli III e IV descrivo
l’incontro con Rocco Scotellaro. Amelia vede dal di fuori “lei e lui come due
passerotti”. Vi affiora un sentimento non vissuto a pieno “L’ uno non fu mai uomo
pienamente e l’altra rifiutò d’esser donna. L’uno morì, l’altra se ne pentì.”6
Amelia può essere sorella, figlia e madre di tale uomo.
Pur essendo i tormenti di Amelia Rosselli dilatati, estremi, come donna mi sento
a lei molto vicina: il suo dolore, la sua ricerca d’amore mai completamente appagata,
suscita in me curiosità, compassione e tenerezza.
La sua sofferenza personale affonda le radici nel dramma storico-politico del
fascismo e della guerra.
Non crede nell’esistenza della libertà, perché vive in uno stato di necessità.
Come compaesana di Rocco Scotellaro sono molto interessata alla sua poesia e
al suo operato politico e sociale.
Scotellaro realizza alti esempi di democrazia partecipativa: organizza i consigli
di borgo, dialoga con i contadini e gli artigiani per conoscerne le esigenze.
La sua è una personalità complessa, e le semplicistiche definizioni non sono utili
per la comprensione dei fatti; si fa interprete del mondo contadino, ma anela ad una
cultura non provinciale.
La sua poesia e il suo operato vanno al di là dei confini locali.
È sintomatica la sua capacità tutta poetica di tradurre momenti di vita quotidiana
in poesia, vivendo una tensione tra l’attaccamento alla realtà lucana e il desiderio di
distaccarsene.
Amelia Rosselli vive una tensione opposta a quella del suo tenero amico, tra la
sua condizione di apolide e il desiderio di creare legami, di mettere radici.
Oggi molte situazioni sono cambiate, non è più necessario prendere il “biglietto
per Torino”, perché nella terra dei “padri saraceni” soffia il “vento della Fiat”.
Nel tempo della globalizzazione dell’economia, dei conflitti globalizzati, ma
anche del rilancio di una nuova globalizzazione equa e solidale e del sogno europeo
che si sta realizzando, i problemi di cinquanta anni fa, come il lavoro e l’equità
sociale, sono più che mai attuali.
Rocco Scotellaro può fornirci un chiaro esempio di come la ricerca di identità si
concilia con l’apertura verso la diversità.
3 Amelia Rosselli, Le poesie, prefazione di Giovanni Giudici, Milano, Garzanti, p. 13-19
4 Ivi, p.23-31
5 Amelia Rosselli, Diario ottuso, prefazione di Alfonso Berardinelli, Roma, IBN Editore, 1990
6 Ivi, p. 35
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Capitolo I
La vita, la poesia di Amelia Rosselli
Nata a Parigi travagliata nell’epopea della nostra generazione fallace.
Giaciuta in America fra i ricchi campi dei possidenti e dello Stato statale.
Vissuta in Italia paese barbaro.
Scappata dall’Inghilterra paese di sofisticati.
Speranzosa nell’Ovest ove niente per ora cresce.7 (“V.B.Variazioni” vv.10-14)
Amelia, la secondogenita di Carlo Rosselli e Marion Cave, nasce il 28 marzo del
1930 a Parigi. Nel 1937, anno in cui Carlo e Nello Rosselli sono assassinati, si
trasferisce con il resto della famiglia in Svizzera, dove vive per un anno e mezzo.
Dopo il soggiorno in Svizzera, la famiglia Rosselli si stabilisce per due anni in
Inghilterra e, infine, per sei anni negli Stati Uniti d’America. Nello Stato di New
York Amelia compie un’esperienza presso la comunità dei quaccheri americani:
impara a raccogliere il fieno, a pulire i cavalli, a mungere le vacche, dipinge i grandi
granai di legno. È per lei quasi un’oasi di tranquillità, che per poco tempo interrompe
il suo peregrinare di esule.
Nel giugno del 1946 la famiglia Rosselli ritorna in Italia. Amelia, per un certo
periodo, vive a Firenze con la nonna Amelia Pincherle.
Nell’autunno del 1949, dopo la morte della madre Marion Cave avvenuta a
Londra, Amelia da Firenze parte per Roma. Dopo il trasferimento stabile a Roma, la
poetessa fa solamente due tentativi di evasione dalla capitale: il primo nella seconda
metà degli anni settanta, quando vende la sua casa romana per acquistarne una a
Londra.
Durante l’anno trascorso nella capitale londinese è delusa dall’indifferenza
culturale che vi respira. Dopo il soggiorno a Londra torna a Roma e compra la sua
ultima casa, la mansarda in via del Corallo, nei pressi di Piazza Navona.
Il secondo episodio di evasione da Roma dura un solo mese: si reca a Mosca
insieme al poeta Gino Scartaghiande durante il periodo gorbacioviano.
Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza sono considerati fondamentali per la
formazione della personalità di ogni individuo. Amelia durante il periodo infantile e
nel primo adolescenziale vive un trauma molto forte: l’assassinio del padre e dello
zio avvenuto il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l’Orne a opera di sicari francesi
appartenenti al gruppo terroristico di estrema destra “La Cagoule”, assoldati e istruiti
dal servizio segreto italiano su ordine dei vertici del fascismo.
La Rosselli vive un esilio involontario, che la porta da una parte all’altro del
mondo, la mette in contatto con realtà, culture, concezioni morali, lingue differenti.
Questi anni sono fondamentali nella formazione della sua personalità angosciata
e sofferente, ma le forniscono anche molti stimoli che, dilatandosi, diventano la sua
poesia: l’interesse musicale e una formazione culturale internazionale.
7Amelia Rosselli, Le poesie, prefazione di Giovanni Giudici, Milano, Garzanti, 1998, p. 202
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La condizione di esule struttura il suo modo di sentirsi interiormente apolide e
cosmopolita. La condizione di apolide è essa stessa causa di angoscia, perché la
poetessa vive uno sradicamento: quali sono le sue radici, la sua lingua, la sua
cultura?
E’ particolarmente difficile per chi ha vissuto un’infanzia e un’adolescenza
come quella di Amelia Rosselli rispondere a queste domande.
Dal 1953 diventa romana e, secondo la testimonianza del cugino Aldo Rosselli,
ama la città come pochi romani la amano.
Bella la riflessione poetica su quella che fu “caput mundi” in “Prime Prose
Italiane”:
Roma città eterna che silenziosamente di notte ti bevi il tuo splendore hai tu
nulla da predire. Ti sei fatta principessa e languisci. Nulla ti vieta. Arrotonda pure i
tuoi seni bianchi e lustri. Le massaie si sono stancate di portarti le acque piovane.
Tu hai succhiato latte di volpe hai rubato hai saccheggiato e ora siedi riposi
assestata.8
Amelia Rosselli compie gli studi liceali e poi studi specialistici di musica e di
composizione musicale; studia solfeggio e canto a scuola, in America. Fin da
adolescente suona il violino, poi l’organo e infine il pianoforte. Gli studi di musica e
di musicologia destano in lei l’interesse per le strutture della poesia.
In “Spazi metrici” (1962) scrive:
Una problematica della forma poetica è stata per me sempre connessa a quella
più strettamente musicale, e non ho in realtà mai scisso le due discipline
considerando la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche suono, e il
periodo non solo un costrutto grammaticale ma anche un sistema. Definire la sillaba
come suono è però inesatto: non vi sono suoni nelle lingue:- la vocale o la
consonante nelle classificazioni dell’acustica musicale si definiscano come rumore, e
ciò è naturale, vista la complessità del nostro apparato fonetico-fisiologico, (…).
Comunque nel parlare di vocali generalmente noi intendiamo suoni, o anche
colori, visto che ad esse addebitiamo le qualità “timbriche”; e nel parlare di
consonanti o di raggruppamenti di consonanti, intendiamo non soltanto il loro
aspetto grafico ma anche movimenti muscolari e forme mentali (…).9
Prima di essere poetessa è musicista: il nesso musica-poesia è per lei
inscindibile. Scrive ascoltando Bach, oppure prima suona Chopin, Bartòk o Webern
e poi scrive; prima le sue dita si muovono sulla tastiera del piano e poi su quella della
macchina da scrivere come su uno strumento gemello.
Altri poeti sono anche musicisti: Montale, Joyce. Questo fatto non è eccezionale
se si pensa alla lirica greca. In origine il vocabolo ‘lirica’ indicava la poesia con
l’accompagnamento della lira.
Lirici furono poeti come Alceo, Saffo, Alcmane, Simonide, Pindaro, le cui
composizioni non erano recitate, ma cantate, associando le parole agli strumenti.
Nella lirica greca esiste un rapporto diretto tra musica e poesia: la poesia è anche
musica.
8 Ivi, p. 44
9 Ivi, p. 337
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Alcuni cantautori di talento, come Fabrizio de Andrè e altri, associano alle
composizioni musicali vere e proprie poesie.
Amelia all’interno della sua poesia evidenzia due elementi: quello musicale e
quello sociologico-politico, quest’ultimo mediato dalla lettura di autori come Carlo
Levi e Rocco Scotellaro.
A tale proposito fondamentale è “Contadini del sud”, che le fornisce un
importante esempio di analisi sociologica. Per Amelia “Contadini del sud” è un
capolavoro dal punto di vista letterario.
La Rosselli non ama l’ambiente letterario; comincia a pubblicare a trentatré anni
quando si rende conto che gli studi specialistici di musica non le daranno mai alcun
reddito.
Invia a Vittorini il suo primo manoscritto: “Variazioni belliche”. Vittorini lo
trova buono e pubblica ventisei poesie sulla rivista il “Menabò”.
Successivamente incontra da Alberto Moravia Pier Paolo Pasolini che l’aiuta a
pubblicare l’intero libro.
P. Paolo Pasolini è una scoperta tarda per la Rosselli.
Comincia ad apprezzarlo dopo “Accattone”, conquistata dalla sua capacità di
sincronizzare le immagini del film con la musica di Bach. Amelia non ama la
scrittura ottocentesca dei romanzi di Pasolini, ma ritiene splendide le sue poesie
giovanili in dialetto friulano.
Scrive e dedica
(a Pier Paolo Pasolini)
E posso trasfigurarti,
passarti ad un altro
sino a quell’altare
della Patria che tu chiamasti
puro…
E v’è danza e gioia e vino
stasera:- per chi non pranza
nelle stanze abbuiate
del Vaticano.
Faticavo: ancora impegnata
ad imparare a vivere, senonché
tu tutto tremolante, t’avvicini
ad indicarmi altra via.
Le tende sono tirate, il viola
dell’occhio è tondo, non è
triste, ma siccome pregavi
io chiusi la porta.
Non è entrata la cameriera;
è svenuta: rinvenendoti morto
s’assopì pallida.
-
8
S’assopì pazza, e sconvolta
nelle membra, raduna a sé
gli estremi.
Preferii dirlo ad altra infanzia
che non questo dondolarsi
su arsenali di parole!
Ma il resto tace: non odo suono
alcuno che non sia pace
mentre sul foglio trema la matita
E arrossisco anch’io, di tanta esposizione
d’un nudo cadavere tramortito.10
(“da Appunti sparsi e persi”)
“Variazioni belliche” presenta, come “Serie ospedaliera”, una compatta struttura
poematica:
Variazioni belliche sono appunto variazioni intorno all’unico tema di un
travaglio, un conflitto interiore, motivi non soltanto di racconto, ma anche ritmici,
lessicali, prosodici, che si sviluppano come un’ostinata e ossessiva sequenza
musicale quasi inseguendo un acme, una sempre incompiuta compiutezza.11
Amelia Rosselli compone “Variazioni belliche” stando come sospesa tra la
tastiera di un pianoforte ed una macchina da scrivere. Nel suo libro esprime il
nascere e il morire di una passionalità dapprima imbrigliata, e poi sfociata in lotta e
denuncia.
Pasolini rileva nella poesia di Amelia Rosselli la presenza del lapsus linguistico
come “errore creativo”. Pier Paolo Pasolini scrive:
Uno dei casi più clamorosi del connettivo linguistico di Amelia Rosselli è il
lapsus. Ora finto, ora vero: ma quando è finto, probabilmente lo è nel senso che,
formatosi spontaneamente, viene subito accettato, adottato, fissato dall’autrice sotto
la specie estetica di una invenzione “che si fa da sé”. (…).
In realtà questa lingua -ripeto- è dominata da qualcosa di meccanico:
emulsione che prende forma per suo conto, imposseduta, (…). Tuttavia, io direi che
più che di specie culturale (e lo sono), i lapsus della Rosselli sono di specie
ideologica. Il lapsus dà una profonda liberazione: consente, alla buonora, di
liberarsi del peso istituzionale - gravante su tutta la lunghezza dell’anima - e nel
tempo stesso, di rispettarlo. (…).
Il Mito dell’Irrazionalità (mettiamo le maiuscole), ha con le poesie della
Rosselli, negli anni sessanta, il suo prodotto migliore (…). E aggiungo che il tema
dei lapsus è un piccolo tema secondario e irrisorio rispetto ai grandi temi della
Nevrosi e del Mistero che percorrono il corpo di queste poesie: è solo un filo che ho
10
Ivi, p. 638-639 11
Ivi, p.x
-
9
seguito per poter produrre qualche effato su questo splendido testo che si propone
come ineffando.12
Per Giacinto Spagnoletti si tratta di lapsus in casi sporadici. Si deve invece
parlare:
…di una conoscenza non perfettamente assimilata della lingua italiana, e del
relativo apparato poetico. Spesso nei testi della Rosselli sono presenti espressioni,
modi concettuali, che non si potrebbe definire se non arbitrari, (…)
Se vogliamo considerarle “forzature analogiche o metaforiche”, occorre
avvertire che la Rosselli si serve di esse per esplorare il suo territorio psichico, o
alcuni lembi di esso, dando alla scrittura lo stesso peso che di solito si affida
all’ambiguità, alla duplicità di un pensiero verso i confini dell’inespresso.13
Per Giovanni Giudici:
…l’illuminazione poetica si ha in una zona, per così dire, trascendentale della
lingua, a mezza via tra l’intenzione di dire e il già detto, tra il pre-fato e l’el-fato, in
terra di nessuno ossia di ispirazione14
.
Se “Variazioni belliche” denuncia la presenza di una “malattia” e delle sue
conseguenze, la successiva “Serie ospedaliera” (1963-1965) appare tutta pervasa da
una sorta di necessità terapeutica identificata nell’isolamento, nell’interiorizzazione,
nella “malinconica privazione di vita”.
Amelia scrive “Serie ospedaliera” durante un periodo molto doloroso: ha un
acutizzarsi della malattia, che le impedisce di camminare, di leggere, di vivere.
La serie di poesie è ospedaliera, in quanto rassegnata a un ritornare criticamente
sui propri passi.
L’apertura discorsiva è riscontrabile anche in “Documento”, che raccoglie poesie
scritte tra il 1968 e il 1973.
“Documento” è il libro meno programmatico della Rosselli che vuole restituire
quantità e durata acustica alle parole della realtà.
Vuole essere il libro della realtà, definito “libro del sangue e del cuore”, è un
labirinto d’amore non una serie di variazioni (come “Variazioni belliche”).
Nel suo terzo libro in italiano Amelia Rosselli aspira ad eliminare sia il tu, sia
l’io, per il raggiungimento in poesia dell’obiettività di Pasternak, dove l’io è il
pubblico, dove l’io è le cose. Vuole eliminare la tendenza autobiografica.
In “Documento” è ricorrente la tematica dell’amore e della morte, scrive del suo
stesso estinguersi, che è il contrario della poiesis: il suo disfarsi, non il suo farsi.
La struttura metrica di “Documento” è più leggera, l’attrezzatura degli artifici
retorici e fono-simbolici del passato si è andata smantellando. Nel più largo periodare
sono comunque presenti le iterazioni, i paradossi, le interiezioni e le interrogazioni
retoriche.
Le visioni nelle liriche di “Documento” sono le
12
Pier Paolo Pasolini, Notizia su Amelia Rosselli, “Il menabò”, 6 (1963), Torino, Einaudi, p. 66-69 13
Giacinto Spagnoletti, Amore e solitudine, in “Galleria”, a. 48, 1/2 (1997), Caltanissetta, Sciascia
editore, p. 31-33 14
Giovanni Giudici, Poesia-visione di Amelia Rosselli, in Novecento, XI, tomo 2, Settimo Milanese,
Marzorati, 1989, p. 1050
-
10
“felici / visioni di una tranquilla morte” (Tende rivoluzionarie nel mio cuore,
vv. 16-17);
il riconoscere nella vita una continua morte
“la vita che ha nascosto la morte per / tanto tempo finché un giorno ritrovarono
/ la notte stesa come un morto”, (Hanno fuso l’ordigno di guerra con le, vv. 28-30);
e infine il vuoto cercato e desiderato
“Vola nel vuoto questo mio oblioso cuore” (Tende rivoluzionarie del mio cuore
v. 5);
“Muta e in soggezione rincorro il vuoto”, (Questo gioco v. 6);
ora “nulla / divenuto però incandescente / e separato dal vostro vivere / ostile”,
(Conversazioni molto sofisticate, vv. 16-19);
ora “vivo vuoto”, (Gelosa dello spazio che ti contiene, v. 17).15
“Impromptu”, composto nel 1979, è l’ultimo scritto di Amelia Rosselli;
interrompe un silenzio di sette anni e riassume i tratti essenziali e tipici della sua
poesia. “Impromptu” è definito dalla stessa autrice un po’ d’élite, un po’ leopardiano.
È scritto nel corso di una mattinata.
L’uso del lapsus linguistico come errore creativo, messo in evidenza da Pasolini,
non è qui tanto nel soggetto-autrice, quanto nella parola stessa affrancata in parte
dalla normativa convenzionale e restituita a una condizione di autonomia
autoinventiva. Scarto originale e profondo che nasce da un’idea non statica, ma
dinamica e in divenire della parola. La parola è portatrice di un suo significato da
dizionario, ma sempre più diventa portatrice di suono e di segno grafico che
coinvolgono aree di segno e di suono contigue e affini. La parola della lingua
poetica ha una ridondanza spontanea. Il poeta non condurrà la parola, ma dovrà
farsi condurre da essa.
In “Impromptu” “tank” ridonda in “tango”. La parola nella disposizione
metrica delle strofe fa da ponte fra una strofa e la successiva che la riprende, o
riprende altra parola semanticamente, fonicamente o graficamente contigua.
La casualità della rima è utilizzata come generatrice di significati.
Nel ritmo si esercita il più alto impegno di una prosodia non più fondata sul
rapporto fra accenti tonici e numero di sillabe, ma su valori di quantità, intensità e
durata.
In “Impromptu” Amelia Rosselli applica il procedimento per cui alla fine del
verso sono presenti parole monosillabiche: articoli, preposizioni, congiunzioni o
particelle pronominali, che nella lingua comune non sono funzionalmente e
semanticamente autonome.16
L’argomento principale della poesia di Amelia Rosselli è la lingua considerata
nel senso generale di linguaggio, in quanto facoltà umana, mezzo di esplorazione, di
sperimentazione e invenzione.
15
Rosselli, Le poesie cit. p. 511, 518, 544, 550 16
Giudici, Poesia-visione di Amelia Rosselli cit. p.1048-1051
-
11
Amelia Rosselli ha una triplice coscienza linguistica, culturale e letteraria;
pensando e scrivendo in tre lingue ricerca le forme universali e il linguaggio
universale. In “Spazi metrici”:
(…) la lingua in cui scrivo di volta in volta è una sola, mentre la mia esperienza
sonora logica e associativa è certamente quella di tutti i popoli, e riflettibile in tutte
le lingue.17
La sua poesia può collocarsi in un ambito letterario sia inglese, che francese ed
italiano.
In “Diario in Tre Lingue” (1955-1956) mescola francese, inglese e italiano,
alterna frammenti in prosa con il verso.
La Rosselli oltre a scrivere in lingue diverse attinge a registri linguistici
differenti.
È interessata eminentemente allo sperimentare in prosa, ritenendo che si dica di
più in prosa che non in poesia, spesso manierista e decorativa.
“Prime Prose Italiane” è un breve testo del 1954. Per la prima volta Amelia
scrive in italiano, in prosa non scientifica o semplicemente saggistica e razionale. Lo
scritto è breve e ispirato dal Tevere.
La Rosselli scrive “Nota” una prosa difficile, interiore quanto la poesia,
viaggiando in treno, o stando seduta ad un caffè assolato, o dinnanzi a una macchina
da scrivere.
Vuole dotarsi di una lingua propria ed esclusiva, liberata dall’usura,
dall’abitudine ed investita di una maggiore potenzialità comunicativa.
Come per gli strutturalisti così per la Rosselli il linguaggio è ambiguo a tutti i
livelli: esso è logico (simile alle strutture matematiche), ma anche espressivo e quindi
sociale in quanto garantisce la comunicazione tra gli individui; infine è individuale
perché serve come mezzo di espressione di ogni personalità.
In “Spazi metrici” Allegato a “Variazioni belliche” descrive la sua ricerca “di
forme universali”, avvalorando l’idea che le parole escano dal vuoto, appartengano a
un linguaggio affrancato dalla parola piena e ordinata della razionalità, e siano
linguaggio universale dell’origine e della passione, corporeo, rumore, suono, soffio, e
respiro, idea, musica.
Nelle analisi freudiane di sogni, lapsus e motti di spirito “l’inconscio” si
permette qualunque mescolanza o slittamento da un significato a un altro, se i
significanti offrono la coincidenza anche più accidentale, la somiglianza anche più
approssimativa, la possibilità più assurda di scomposizione.
Per Freud “l’inconscio è solito trattare le parole come cose”. Lacan definisce
“l’inconscio come ciò che prende tutto alla lettera, come il regno del significante
ecc….”.18
Questo mette in crisi la concezione saussuriana del segno come combinazione di
signifiant e signifié (significante e significato), paragonabile a un foglio con il suo
17
Rosselli, Le poesie cit. p. 338 18
Gabriella Palli Baroni, Disuguali incantamenti di Amelia Rosselli, in “Quaderni del Circolo
Rosselli”, 17 (1999), Firenze, Giunti, p. 28-29
-
12
recto e il suo verso. Per Saussure il segno è arbitrario rispetto al referente, ma
necessario poiché il significante non può sussistere senza il significato e viceversa.
Nella Rosselli fondamentale è l’insistenza sul significante, sulla lettera, sulla
parola.
In “Spazi metrici” a proposito della sillaba, della parola, della frase e del
discorso dice:
“Per una classificazione non grafica o formale era necessario, nel cercare i
fondi della forma poetica, parlare invece della sillaba, intesa non troppo
scolasticamente, ma piuttosto come particella ritmica
Salendo su per questa materia ancora insignificante, incorrevo nella parola
intera, intesa come definizione e senso, idea, pozzo della comunicazione.(…). Io
invece (e qui forse farei bene ad avvertire che essendo il mio sperimentare e dedurre
assai personali e in parte incomunicabili, ogni conclusione ch’io ne possa aver tratto
è da prendersi davvero “cum grano salis”), avevo proprio altre idee in proposito, e
consideravo perfino “il” e “la” e “come” come idee e non meramente congiunzioni
e precisazioni di un discorso esprimente una idea.
Premettevo che il discorso intero indicasse il pensiero stesso, e cioè che la frase
(con tutti i suoi coloriti funzionali) fosse una idea divenuta un poco più complessa e
maneggiabile, e che il periodo fosse l’esposizione logica di una idea non statica
come quella materializzatasi nella parola ma piuttosto dinamica e in “divenire” e
spesso anche inconscio.
Volendo allargare la mia classificazione davvero non troppo scientifica, inserivo
l’ideogramma cinese tra frase, e la parola, e traducevo il rullo cinese in delirante
corso di pensiero occidentale. (…)”.19
L’ideogramma cinese diventa, così, uno strumento di affrancamento della parola.
Questa riflessione può scaturire dallo studio di Pound. Nei “Cantos” Ezra Pound
si serve dell’ideogramma cinese per intervallare italiano, inglese, greco, latino. Fin
dall’inizio del secolo Pound si interessa alla scrittura cinese come mezzo espressivo.
È particolarmente importante e interessante studiare la poesia della Rosselli dal
punto di vista musicale quando si esamina la ritmica. È attratta dalla studio della
metrica, aiutata in questo dai suoi studi di etnomusicologia, della musica del terzo
mondo e dell’oriente su indicazione di Bartòk. Il suo punto di partenza per le ricerche
della metrica è il rifiuto del postmajakovskismo.
Per l’eminente interesse musicale si reca a Darmstdat, dove trascorre le estati
degli anni 1959-1960. Darmstdat è il centro della Neue Musik, musica d’avanguardia
ispirata da Schoenberg e Webern. In questo centro collabora con John Cage.
Esistono forti elementi di similarità tra le teorie poetiche della Rosselli e le teorie
della musica dodecafonica: la parola è isolata nel verso, così come nel dodecafonico
la nota classica è isolata in mezzo al silenzio.
Si fa costruire uno strumento sperimentale per riprodurre le scale musicali con
molti più toni della scala occidentale a dodici toni.
19
Rosselli, Le poesie cit. p. 338
-
13
Applicato alla poesia, questo interesse nella divisione in minime unità dell’ottava
armonica si traduce nella preoccupazione della poetessa di annotare le divisioni
minime del tempo dei suoi versi.
Le sue idee sul ritmo e il tempo nella recitazione dei versi assomigliano a un tipo
di musica dell’avanguardia contemporanea.
Afferma che i suoi versi vanno recitati entro un intervallo di tempo, a seconda
della lunghezza del primo verso. La tesi è molto vicina al principio teorico di alcuni
brani di musica cantata non in tempi o battute (piedi o sillabe per la poesia) ma in
secondi e altre misure di tempo assoluto.
Questi sono aspetti innovativi della poesia della Rosselli, che si conciliano con le
linee dello sviluppo della musica d’avanguardia, ma è anche molto importante il
legame con la tradizione. Infatti parla dell’invenzione di questa forma nuova-antica
che nasce dalla lettura delle origini.
Scrive: “Volli rileggere i sonetti delle prime scuole italiane; affascinata dalla
regolarità volli tentare l’impossibile. (…)”20
(“Spazi metrici”).
Ritiene esaurita la scoperta del metro libero e necessario scoprire nuovi ordini
metrici; ma non torna al sonetto della tradizione, cerca un’altra strada, una nuova
forma d’invenzione personale.
Il risultato è la “forma-cubo”, come la chiama nell’intervista rilasciata a Giacinto
Spagnoletti. La nuova forma è breve, estremamente condensata, rigorosa e regolare
come il sonetto, ma anche diversissima in quanto sostituisce all’endecasillabo del
sonetto classico dei versi di misura fissa.
Da “Variazioni belliche” a “Serie ospedaliera”, da “Documento” a “Impromptu”,
la sua poesia è un “continuum” dove fondamentale è la componente letteraria.
Legge un considerevole numero di autori e di opere, che sono captati dal suo
ascolto e su cui si leva la sua voce: gli stilnovisti, gli elisabettiani, i romantici, gli
ermetici, Donne, Leopardi, Campana, Montale, Mallarmè, Verlaine, Rimbaud,
Kafka, Saba, Penna, Pavese, Scotellaro, Pasternak, Pound, Eliot, Dickinson, Plath,
Shelley, Pascal, Kierkegaard, Kant, Bergson. Legge testi freudiani e, quando non ha
ancora vent’anni, Karl Marx.
Ha trascorso diversi periodi della sua esistenza in psicanalisi con Ernst Bernadt,
diretto allievo di Carl Gustav Jung: più che sedute sono stati veri e propri “incontri
psicanalitici”, che hanno esercitato un’influenza sui suoi interessi culturali.
Per la Rosselli è importante fare analisi, prima di dedicarsi alla scrittura: questo
permette di scrivere cose generali e utili.
L’analisi psicanalitica serve per non incorrere, nella poesia, in un’autoanalisi
confusa e impasticciata di uso privato.
Gli scrittori in un certo senso sono i dottori dei loro lettori: perciò rifugge da una
poesia di tipo confessionale o privato.
Il suo itinerario poetico non è collocabile entro nessun ambito letterario; né
antologie, né movimenti letterari ottengono il suo incondizionato favore.
20
Ivi, p. 339
-
14
La poetessa definisce il “Movimento Beat”, nel testo della prima trasmissione
radiofonica dedicata alla Poesia d’elite nell’America d’oggi, “urgente e chiassosa
scuola Beat”.
Nei confronti della neoavanguardia nutre un tiepido interesse; a proposito degli
incontri del Gruppo ’63, racconta a Renato Minore in un’intervista:
Stavo a sentire tutto quel chiacchiericcio critico, era un po’ pesante. Scoprivano
Pound, Joyce e tanti altri che io avevo letto mille volte, che io avevo scoperto tanti
anni prima, per via della mia formazione non italiana.21
Del “Gruppo 63” apprezza Antonio Porta per la serietà della ricerca e Pagliarini
de “La ragazza Carla”, anteriore alla nascita dell’avanguardia.
Ne “La Libellula”: “E io lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su de le
mie spalle e ride e sputa come una vecchia fattucchiera,(…).”22
Per la Rosselli il poeta non è un veggente, non crede nel ruolo salvifico della
poesia: il poeta non è colui che addita e salva, non è il vate.
La poesia è piuttosto una testimonianza, che va resa con mezzi esatti e sottili; “la
poesia è scienza e istinto insieme”, “deve avere precisione scientifica ed essere
accettazione immediata delle percezioni”.23
L’esempio più alto di artista scienziato è rappresentato da Ghoethe.
Nel poemetto del 1958 (“La Libellula”): “io non so se io rimo per incanto o per
travagliata pena. Io non so se rimo per incanto o per ragione e non so se tu lo sai
ch’io rimo interamente per te, (…)”24
dichiara di non sapere se rima per incanto,
l’incantamento degli antichi, o per il travaglio di una sofferenza, per ammaliamento,
incantamento o per buon senso, per ragione.
Gli elementi che costituiscono la personalità e lo stile letterario di Amelia da un
lato sembrano essere scritti nel suo corredo genetico, (i nonni paterni, provenienti da
agiate famiglie ebree erano artisti; il nonno Giuseppe Emanuele Rosselli era un
raffinato musicista e compositore, la nonna Amelia Pincherle era un’affermata
autrice di drammi teatrali), dall’altro questi elementi sono determinati dalle
contingenze di vita, i traumi infantili, l’esilio involontario che la mette in contatto
con diverse culture.
Anima in pena, sofferente fin dalla giovinezza di schizofrenia, malattia che lei
chiama morbo di Parkinson, si toglie la vita l’11 Febbraio (di domenica) del 1996.
Forse non è una coincidenza che la poetessa Sylvia Plath, le cui poesie sono state
tradotte da Amelia, si sia suicidata proprio un 11 febbraio di trentatré anni prima.
La poetessa durante una conversazione con la scrittrice Sandra Petrignani
dichiara: “la poesia non si addice alla vita normale, quella di tutti i giorni. Per
questo tanti poeti muoiono giovani o suicidi. È come se lo scrivere dovesse essere
legato a una visione adolescenziale del mondo e quando si raggiunge la cosiddetta
maturità, il desiderio di scrivere vien meno”.
21
Francesca Caputo, La scrittura pratica di Amelia Rosselli, in “Quaderni del Circolo Rosselli” cit. p.
74 22
Rosselli, Le poesie, p.142 23
Elio Pecora, Un incontro con Amelia Rosselli, in “Galleria” cit. p. 151-152 24
Rosselli, Le poesie cit. 147
-
15
E confida: Non mi riconosco più scrittrice da cinque anni. Prima avevo la
poesia. Ho scelto di non sposarmi per non distrarmi da lei. Ma ora che la scrittura
mi ha abbandonato non ho più nulla.25
(Intervista da “Il Messaggero”, 23/6/1978).
Per la Rosselli vivere è ben più che scrivere. La vita è la prima fonte
d’ispirazione, e non di rado la poesia tradisce la sua fonte vitale d’ispirazione.
Dalla sua ultima opera “Impromptu”, pubblicata nel 1981, alla morte passano
quindici anni.
Amelia nell’ultimo periodo della sua vita soffre molto. Trascorre lunghi periodi
in ospedale. Agli amici confida di avere “idee suicidali”.
I fantasmi sempre presenti nella sua vita entrano con violenza in casa sua,
diventano reali e l’afferrano per i capelli trascinandola alla finestra.
Si allontana dalla vita, si abbandona ad una dimensione vegetativa, non vitale.
Quella costante espressa tante volte nella sua poesia della “morte in vita”, quella
specie di limbo tra vita e non vita, quella condizione confinante tra la vita e la morte
in cui la poetessa si trova e si muove, si tramuta poi nel gesto pensato, meditato,
quasi goduto del suicidio.
Sulla sua vita aleggia come un’ombra: “il suicidio”; sceglie di lanciarsi non dal
balcone della camera da letto-studio, più comodo per una simile impresa, ma dalla
finestra della cucina, per affacciarsi alla quale è necessario prendere una sedia, e poi
fare altri movimenti come la torsione del busto per sedere sullo stretto davanzale.
Nell’attimo del lancio voluto e scelto coincidono la sua malattia, la sua
sofferenza, la sua solitudine, la sua poesia che ha sempre costituito una dimensione
altra, proprio come la sua vita sospesa tra cielo e terra.
E ritornano i versi di “Hanno fuso l’ordigno di guerra” (“Documento”)
“Pregano che non se ne andrà così presto / la vita che ha nascosto la morte per /
tanto tempo finché un giorno ritrovarono / la notte stesa come un morto”.26
E in “Il Cristo (Pasqua 1971)”:
“Così come la finalità di tutte le cose / così come il conto festoso e a rima / ti
precipiti al balcone, dal balcone / per vederti camminare.”27
Da “Sanatorio” (1954)
“Il faut mourir pour vivre tranquilles.”28
Infine in “Notte, labirinto sorteggiato”(“Documento”)
«Inno alla vita nel punto di morte»29
Come la sua poesia si identifica con la sua vita, così nel suo lancio vuole
identificarsi con “la sua libellula” e si libra alla ricerca di nuovi lidi e nuove terre.
Come la vita ha nascosto la morte, così la morte può nascondere la vita, e la può
liberare.
25
Biancamaria Frabotta, Una lettura di Documento, in “Quaderni del Circolo Rosselli” cit. p. 20 26
Rosselli, Le poesie cit. p. 517 27
Ivi, p. 614 28
Ivi, p. 23 29
Ivi, p. 507
-
16
Capitolo II
La vita, l’impegno politico e sociale, la poesia di Rocco Scotellaro
Rocco Scotellaro nasce a Tricarico il 19 Aprile del 1923 da una famiglia di
piccoli artigiani. Il padre, Rocco Vincenzo, era calzolaio ed aveva un piccolo negozio
di scarpe; la madre, Francesca Armento, era sarta casalinga e scrivana degli
analfabeti del vicinato. Il 24 giugno del 1923, secondo la tradizione della religione
cattolica, riceve il battesimo, i padrini sono Battista Lomastro e Annunziata
Scotellaro.
Dopo aver frequentato le scuole elementari a Santa Croce, presso il vecchio
Convento delle Clarisse, si trasferisce a Sicignano degli Alburni nel Convitto
Serafico dei Cappuccini per il primo ginnasio. Dopo Sicignano è la volta di Cava dei
Tirreni, dove rimane per circa tre anni.
Nel 1937 a Matera, da privatista, sostiene gli esami conclusivi del triennio
ginnasiale; sempre a Matera frequenta il quarto ginnasio, il quinto a Tricarico, dove
nel frattempo è stato istituito un normale corso di studi ginnasiali.
Nell’anno 1939-1940 studia al Liceo classico “Quinto Orazio Flacco” di
Potenza. All’inverno del 1939 risale il primo incontro tra Rocco Scotellaro e
Giovanni Russo. I due giovani studenti scrivono i loro primi articoli su un
settimanale del Sud, “Potenza Fascista”, dove Russo fa le sue prime prove come
letterato e giornalista e Scotellaro come critico.
Nell’anno 1940-1941 si iscrive a Trento per il secondo liceo, che frequenta
presso l’istituto “Giovanni Prati”, ospite della sorella Serafina e del cognato Terzilio
(sottufficiale dell’esercito). A Trento ha per insegnante Giovanni Gozzer, e stringe
rapporti di amicizia con Alfredo Pieroni (poi direttore del quotidiano “Il resto del
Carlino”). Durante la permanenza a Trento prepara da privatista gli esami della
maturità classica, che supera in maniera brillante nel giugno del 1941.
Rocco Scotellaro consegue ottimi risultati scolastici, ottenendo voti molto alti in
greco e latino. Anni dopo, così traduce poeticamente “O fons bandusiae” (Carminum
Libro terzo, 12-13) di Orazio:
Bella fontana di Banzi,
ti luccica un’acqua di vetro,
ti porteremo domani in un cesto di fiori
un capretto che allatta e pasce.
Le prime corna gli promettono guerre di amore,
peccato perché noi laveremo il tuo sangue
nel tuo rivolo gelato.
Perché non ti prende il sole cane
e tu puoi rinfrescare
i buoi aratori e le greggi camminanti.
La bella fontana di Banzi,
dicono che sarai tra le nobili fonti,
perché rompe il cuore delle pietre
la tua canzone lontana.30
(1949)
30
Rocco Scotellaro, È fatto giorno, a cura di Franco Vitelli, Milano, Mondadori, 1954, p. 120
-
17
Nel 1942 si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di
Roma, guadagnandosi contemporaneamente da vivere con il lavoro di istitutore
presso un collegio di Tivoli.
La morte del padre, avvenuta il 14 maggio 1942, e la guerra determinano il suo
ritorno a Tricarico e il cambio di Università, prima a Napoli, poi a Bari, dove non
frequenta, ma si reca per sostenere gli esami, come tutti gli studenti universitari
poveri. A causa degli impegni politici e delle traversie della vita non consegue la
laurea.
Nella primavera del 1943, all’età di vent’anni, partecipa a Potenza ai “Ludi
lucani della cultura” indetti dal Gruppo dei Fascisti Universitari (GUF) di Potenza,
dove si classifica al secondo posto per la cultura letteraria (la notizia è in Potenza
fascista del 25 aprile 1943).
Durante questo convegno letterario, dove si è distinto per l’acume
dell’intelligenza e per la preparazione, Scotellaro incontra Rocco Mazzarone.
Mostra al dottor Mazzarone un articolo di critica cinematografica e poi tira fuori
di tasca una poesia intitolata “Lucania”
M’accompagna lo zirlìo dei grilli
e il suono del campano al collo
di un’inquieta capretta.
Il vento mi fascia
di sottilissimi nastri d’argento
e là, nell’ombra delle nubi sperduto,
giace in frantumi un paesetto lucano.31
(1940)
Questi sono i primi versi sicuramente databili di Scotellaro. Rocco Mazzarone è
colpito positivamente da questa poesia e lo considera poeta compiuto.
All’inizio del mese di luglio del 1943 incontra Tommaso Pedio a Potenza.
Tommaso Pedio, da studente liceale a Pisa nel 1936, frequenta il gruppo di Carlo
Rosselli e poi cellule comuniste di Napoli, di Brindisi e Taranto. Nell’estate del 1938
è nelle Marche, dopo nel Polesine, a Ferrara dove conosce molti esponenti del partito
liberale democratico dei Rosselli denominato “Giustizia e Libertà”. Pedio, rientrato a
Potenza nel 1939, organizza attorno a sé un gruppo di vecchi socialisti e di studenti,
che indirizza verso le varie compagini partitiche della sinistra rivoluzionaria. Tra
questi giovani c’è Rocco Scotellaro, che rimane sulle posizioni di Pedio fino al 1944.
La posizione di Pedio è incerta tra l’accettazione incondizionata del programma
politico del PSIUP e un’ideologia libertaria vagamente anarchica.
Si sviluppa un intenso rapporto dialogico ed epistolare tra Rocco Scotellaro e
Tommaso Pedio, testimoniato dalle lettere intercorse tra i due in due periodi distinti.
Il primo periodo è compreso tra gli anni 1943-1944, durante il quale si
ricostituisce la sezione del Partito Socialista, intitolata a “Giacomo Matteotti”
(deputato e segretario del PSU sequestrato e ucciso il 10 giugno del 1924 da una
squadra di sicari comandata dallo squadrista toscano Amerigo Dumini). Il 4
dicembre 1943 Scotellaro si iscrive al PSIUP.
31
Ivi, p. 41
-
18
La casa di Rocco, in via Roma numero 65, diventa provvisoriamente la sede
locale del partito. Nel dicembre del 1943 si svolge una prima riunione di iscritti e
simpatizzanti.
Nelle lettere del secondo periodo, compreso tra gli anni 1950-1953, Scotellaro
chiede aiuto e assistenza al Pedio avvocato, per difendere tanti contadini disoccupati
e compromessi per le occupazioni dei latifondi.
Del 1944 è uno dei primi articoli politici scritti da Scotellaro. L’articolo su
Camillo Prampolini è pubblicato sul periodico “Battaglie Gogliardiche”, un foglio
stampato a Potenza a cura di un gruppo di giovani, di cui fanno parte Renato Matteo
Pistone, Giuseppe Ciranna e Giovanni Russo, riuniti in un’associazione studentesca
universitaria “Luigi La Vista”, di spirito innovatore e progressista.
Dalle lettere scritte a Pedio si evince uno Scotellaro concreto, legato a una
progettualità politica realistica, che alle astratte ideologie e alle utopie preferisce il
miglioramento immediato delle condizioni dei braccianti, dei contadini, degli
artigiani.
Mentre a Potenza Pedio lavora per la costituzione di un Fronte di Azione
Nazionale (FAN), formato da tutti gli antifascisti, a Tricarico Scotellaro costituisce,
nel febbraio del 1944, il Comitato di Liberazione, alla presidenza del quale si pone
l’avvocato Carlo Grobert, un militante del Partito d’Azione.
Nella lettera del 21 febbraio 1944 Scotellaro scrive:
(…), se vogliamo rappresentare sia pure una forza minima di critica nel partito
che ci può apparire traviato da manovre ascose, ebbene entriamoci dentro a vedere
con i nostri occhi, per correggere se possiamo e se qualcosa c’è che sia da
correggere e smettiamola di fare gli intellettuali di un partito che ha bisogno
anzitutto di opera e di azione(…).Io non ho una cultura comunista (…).
Esprime una critica nei confronti delle tendenze intellettualistiche di un partito
che ha necessità, invece, di agire in modo concreto. Ammette di non avere una
cultura marxista. La sua visione politica non è influenzata dalla lettura e dallo studio
del Manifesto e del Capitale di Karl Marx, ma piuttosto dalla lettura della Bibbia. Il
suo socialismo è imperniato sull’idea utopica di Gioacchino da Fiore ed è
caratterizzato dal rigorismo morale di Girolamo Savonarola.
Nel 1944 si celebra a Tricarico il “Primo maggio” in modo unitario. Si tiene un
comizio durante il quale partecipano Abdon Alinovi per il Partito Comunista, il
sindaco di Tricarico, l’avvocato Carlo Grobert per il Partito d’Azione, e Rocco
Scotellaro per lo PSIUP.
Nel 1946 Carlo Levi partecipa in Lucania, nella lista di “Alleanza Repubblicana”
insieme con Manlio Rossi Doria, Guido Dorso, Michele Cifarelli, alla campagna
elettorale per la Costituente e per il Referendum istituzionale. In tale occasione
Scotellaro conosce, nel mese di maggio, Carlo Levi. È Rocco a presentarlo come
candidato durante un comizio svoltosi a Tricarico. Inizia una profonda amicizia tra i
due, alimentata dalle frequentazioni romane del giovane lucano. Rocco Scotellaro si
inserisce nell’ambiente culturale romano, confermando una personalità singolare e
autonoma. Ma non dimentica la sua regione.
È intensamente impegnato nell’attività politica e sindacale che svolge
nell’entroterra della collina materana (Irsina, Stigliano, Calciano) tra Matera e Bari.
-
19
Le elezioni amministrative dell’ottobre 1946 vedono la lista del Fronte Popolare
Repubblicano, capeggiata da Rocco Scotellaro, ottenere la maggioranza dei voti. A
ventitre anni è il sindaco più giovane d’Italia, un sindaco socialista.
L’azione che qualifica al meglio il suo operato di amministratore è la fondazione
dell’Ospedale Civile di Tricarico (il terzo della Lucania).
“Egli non inventò l’ospedale; inventò invece, nel 1947 la maniera di trasformare
un’azione amministrativa in movimento di partecipazione popolare”.32
Questa espressione è usata da Rocco Mazzarone, concittadino e sincero amico di
Scotellaro. Mazzarone (medico e direttore Sanitario del Consorzio Provinciale
antitubercolare di Matera), nel suo operato è mosso da uno spirito di concretezza e di
empatia verso i suoi concittadini e corregionali più umili, comune al giovane
sindaco.
L’inaugurazione dell’Ospedale Civile di Tricarico si svolge il 7 agosto del 1947
ed è collocato in un’ala del Palazzo Vescovile.
Le elezioni politiche del 18 aprile 1948 conferiscono alla Democrazia Cristiana
una clamorosa vittoria. Il Fronte popolare in cui sono schierati socialisti e comunisti
è sconfitto.
Grande la delusione di Scotellaro per l’esito elettorale: scrive
“Pozzanghera nera il diciotto aprile”
Carte abbaglianti e pozzanghere nere
hanno pittato la luna
sui nostri muri scalcinati!
I padroni hanno dato da mangiare
quel giorno, si era tutti fratelli,
come nelle feste dei santi
abbiamo avuto il fuoco e la banda.
Ma è finita, è finita, è finita
quest’altra torrida festa
siamo qui soli a gridarci la vita
siamo noi soli nella tempesta
E se ci affoga la morte
nessuno sarà con noi,
e col morbo e la cattiva sorte
nessuno sarà con noi.
I portoni ce li hanno sbarrati
si sono spalancati i burroni.
Oggi ancora e duemila anni
porteremo gli stessi panni.
Noi siamo rimasti la turba
la turba dei pezzenti,
quelli che strappano ai padroni
le maschere coi denti. 33
32
Rocco Mazzarone, in Scotellaro trent’anni, Atti del Convegno di studio (Tricarico-Matera, 27-29
maggio 1984), Matera, Basilicata editrice, 1991, p. 12 33
Scotellaro, È fatto giorno cit. p. 71
-
20
Le dimissioni dei repubblicani e degli indipendenti, sollecitate da interventi
sotterranei, riducono il gruppo di sinistra, e provocano lo scioglimento
dell’amministrazione del Fronte popolare repubblicano. Rocco Scotellaro dà le
dimissioni da sindaco con una lettera, che reca la data del 2 giugno 1948. In una
relazione inviata al Comitato provinciale del Fronte popolare, riferisce del suo
complesso e delicato lavoro politico, svolto nei diciotto mesi dell’amministrazione
comunale da lui presieduta.
“(…) io personalmente dovevo essere nello stesso tempo il Sindaco,
l’organizzatore sindacale e politico, l’assistente sociale. Ed è pure utile che io
accenni per sommi capi a quello che abbiamo fatto: Risanato il bilancio, eseguito
lavori di strada di campagna, condotti in economia i servizi della nettezza urbana e
delle imposte di consumo; (…) riuscite pressioni per la costruzione di un ponte sul
Bilioso richiesto dai contadini da più di cento anni (…). Abbiamo riaffittato zone di
pascolo, (…) Vi sono state le concessioni delle terre che hanno tratto dalla fame più
di cento poveri braccianti (…). È stata istituita una refezione scolastica frequentata
da quattrocento alunni. Sette corsi popolari serali mantenuti da noi contro i due del
Ministero (…). Abbiamo dato infine la possibilità del funzionamento di un ospedale a
Tricarico.” 34
Le elezioni amministrative, ripetute il 28 novembre 1948, riconfermano
Scotellaro sindaco. La lista elettorale del Fronte democratico popolare (con simbolo
l’aratro) ottiene sedici seggi contro i quattro della Democrazia Cristiana.
Da tempo il movimento per l’occupazione delle terre portava avanti le sue
battaglie, ora più assopite, ora più palesi. Questo movimento di riscossa popolare, di
braccianti, di contadini, e di donne con bambini al seno, riprende con vigore nei mesi
di novembre e dicembre del 1949.
Il Congresso per l’Assise della terra si apre a Matera alla presenza di
quattrocento delegati. L’evento più drammatico è l’uccisione, il 17 dicembre del
1949, a Montescaglioso di Giuseppe Novello. Il bracciante montese è ucciso durante
le sommosse per l’occupazione delle terre del demanio comunale e di quelle delle
aziende Tarantino, Strada, Miami, Galante, Lacava.
Rocco Scotellaro in tale drammatica occasione scrive una poesia che dedica alla
vedova del bracciante Giuseppe Novello:
“Montescaglioso”
Tutte queste foglie ch’erano verdi:
si fa sentire il vento delle foglie che si perdono
fondando i solchi a nuova bella terra macinata
Ogni solco ha un nome, vi è una foglia perenne
che rimonta sui rami di notte a primavera
a fare il giorno nuovo.
È caduto Novello sulla strada all’alba,
a quel punto si domina la campagna,
a quell’ora si è padroni del tempo che viene,
il mondo è vicino da Chicago a qui
sulla montagna scagliosa che pare una prua,
34
R. Salina Borello, A giorno fatto, Matera, Basilicata editrice, 1977, p. 15
-
21
una vecchia prua emersa
che ha lungamente sfaldato le onde.
Cammina il paese tra le nubi, cammina
sulla strada dove un uomo si è piantato al timone,
dall’alba quando rimonta sui rami
la foglia perenne in primavera.35
Nella primavera del 1949 stringe un rapporto di amicizia con Carlo Muscetta,
inoltre conosce Vittorini e Pavese.
Per Rocco Scotellaro è determinante il rapporto con Carlo Levi, non di
dipendenza o di filiazione, ma paritario. Così Levi scrive a proposito della relazione
di amicizia con Scotellaro:
(…), e la nostra amicizia, che a me fu, più di ogni altra, preziosa; e che forse
contribuì, in qualche modo, alla sua presa di coscienza del mondo contadino di cui
faceva parte, e al suo guardarlo per la prima volta con distacco e amore, al suo
farne poesia, attraverso un linguaggio libero, personale, non letterario.36
Giovanni Russo ha vissuto momenti di vita, di confronto e di crescita con Levi e
Scotellaro. In “Lettera a Carlo Levi”:
Mentre per Levi il mondo della “civiltà contadina”, pur avendo una dimensione
politica e sociale, era, tuttavia immerso nel mito della memoria, per Scotellaro era
una realtà di cui egli, personalmente interpretava il dramma presente, le aspirazioni,
le contraddizioni interne come i momenti di speranza e il destino fatale di
inarrestabile dissoluzione.37
Non è esatto parlare di maestri a proposito di Scotellaro, la strada è stata forse la
sua vera maestra, la vita l’unica e autentica fonte di ispirazione. Il giovane lucano è
una persona ricettiva, aperta alle nuove esperienze ed alle esistenze di cultura diversa
dalla sua.
Ha un atteggiamento intellettuale, ma aperto, modesto, anche fermo, che gli
permette di apprendere da quanti hanno un’esperienza maggiore e differente dalla
sua.
L’8 febbraio del 1950 è arrestato con l’accusa di concussione e peculato per la
distribuzione delle lanerie UNRRA (United Nations and Rehabilitation
Administration). Condotto nelle Carceri Giudiziarie di Matera, è scarcerato il 25
Marzo del 1950. Dall’accusa, nata dalla denuncia di un democristiano monarchico, è
assolto dalla sezione istruttoria della Corte d’Appello di Potenza con formula piena.
Durante questo triste periodo, può sempre contare sull’assistenza fraterna e
sincera di Carlo Levi, e sulla solidarietà concreta di Ignazio Silone, Giulio Einaudi e
di tanti altri amici.
In carcere Scotellaro va scrivendo “L’uva puttanella”, il romanzo o “memoriale”
autobiografico, non condotto a termine.
35
Rocco Scotellaro, Margherite e rosolacci, a cura di Franco Vitelli, prefazione di Manlio Rossi
Doria, Milano, Mondadori, 1978, p. 66 36
Carlo Levi, in Omaggio a Scotellaro, a cura di Leonardo Mancino, Manduria, Lacaita, 1974, p. 410-
411 37
Giovanni Russo, Lettera a Carlo Levi, Roma, Editori riuniti, 2001, p. 79
-
22
È difficile dire se Scotellaro avesse fin dall’inizio in mente una vera e propria
autobiografia o piuttosto un diario di memorie. Forse è più corretto affermare che
“L’uva puttanella” è un’opera frammentaria e non incompiuta. Il poeta lucano crede
molto in quest’opera che definisce il suo “Cristo si è fermato a Eboli”.
Durante i quarantacinque giorni di detenzione conquista molte simpatie, sia tra
chi è stato arrestato per reati comuni sia tra i molti contadini arrestati per gli scioperi
e le occupazioni delle terre, leggendo le pagine del “Cristo si è fermato a Eboli”.
Dopo la sentenza di assoluzione è reintegrato nella carica di sindaco, da cui si
dimette l’8 maggio 1950.
Nella primavera del 1950 Scotellaro partecipa a Venezia al convegno su “La
resistenza e la cultura italiana”. Qui incontra Amelia Rosselli.
Nello stesso anno Rocco Scotellaro conosce Friedrich George Friedmann,
tornato in Italia dopo esserci già stato in un periodo compreso tra gli anni 1933-1939,
dopo la fuga dalle persecuzioni degli ebrei nella Germania nazista.
Nel 1933 trova rifugio a Roma dove, dagli studi di medicina che frequentava a
Friburgo passa a quelli di lettere e filosofia. Lascia l’Italia dopo che anche qui, nel
1939 sono estese le leggi razziali. Fugge prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti
d’America.
A riportarlo in Italia è l’interesse verso la società e le culture contadine del
Mezzogiorno. Per il programma Fulbright propone come progetto di ricerca “La
filosofia di vita dei contadini italiani”.
Dopo aver ricevuto, nel febbraio del 1950, dal Dipartimento di Stato Americano
una borsa di studio, si trasferisce con la famiglia in Italia.
Quando giunge in Italia è già presente a Tricarico il sociologo americano George
Peck, appartenente a un’importante famiglia di commercianti di New York. Peck
studia l’economia domestica delle famiglie più povere del Mezzogiorno d’Italia:
nella sua ricerca è aiutato da Rocco Scotellaro, suo amico.
Friedmann, durante la permanenza a Roma è in stretto contatto con l’autore del
“Cristo si è fermato a Eboli”. È Carlo Levi a indirizzarlo da Rocco Scotellaro. Il
primo incontro tra i due si svolge a Tricarico, a casa di Scotellaro. Subito dopo
Friedmann, insieme allo storico delle religioni Ernesto de Martino e a Rocco
Scotellaro, assiste alla festa della Madonna di Fonti.
Alla fine degli anni cinquanta, terminata la borsa di studio del programma
Fulbright, Friedmann ne ottiene un’altra. Con il finanziamento dell’UNRRA-CASAS
realizza un progetto che ha per oggetto di studio la comunità di Matera.
Friedmann durante il suo soggiorno di studio in Lucania rileva ed evidenzia una
“certa qualità cosmica del mondo contadino”. Il modo di vita e la dignità personale
dei contadini aderiscono a un ordine cosmico, un ordine non creato dall’uomo.
Friedrich George Friedmann afferma l’esistenza di un “mondo arcaico” e di un
“mondo contadino”; il mondo arcaico ha una priorità assoluta, il mondo contadino
almeno una priorità secondaria, essendo molto più vicino al mondo arcaico rispetto al
mondo borghese o industriale.
Letteralmente, archè significa principio non in senso cronologico. L’archè, è ciò
che sempre fu e che sempre sarà.
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23
Il mondo arcaico non ha solamente il carattere del primordiale, ma anche del
permanente, la permanenza può esprimersi metaforicamente nel paesaggio, con cui
contadini e pastori stanno in stretto contatto, oppure psicologicamente come strato
subcosciente di tutta l’umanità.
È questo elemento arcaico-e non il mondo contadino-che noi tutti abbiamo in
comune.38
Rocco Scotellaro nello scritto “I contadini guardano l’aria”39
evidenzia il
carattere di primogenitura del mondo contadino. I contadini sono i primo generati,
perché il primo lavoro umano è stato quello “di sollevare la zolla”, quello “della
terra”.
Il lavoro dei contadini dà il pane e il vino (il pane e il vino nella religione
cristiana attraverso la transustanziazione diventano il corpo e il sangue di Gesù
Cristo).
Rocco Scotellaro afferma che i contadini si muovono entro un universo dove gli
elementi fondamentali sono la terra e il cielo. La terra è madre, il cielo è un bambino
capriccioso, che sa fingere e mordere. La terra madre e il cielo padre (fecondatore
per esempio per via della pioggia) costituiscono i quadri cosmologici e gli elementi
focali dell’esistenza di un popolo. Il cielo è guardato con sospetto dai contadini
perché ha il carattere dell’imprevedibilità.
Nel suo breve ma significativo scritto descrive un mondo contadino chiuso da un
patto incrollabile che non ha paragoni nel mondo borghese o industriale. Mondo nel
quale riesce ad entrare ogni giorno perché aderisce agli “statuti della concezione
contadina”, che sono la “primogenitura dei contadini” e i “capricci del cielo”.
È attraverso il lavoro dei contadini che il mondo si muove e va avanti. Di questo
loro carattere di indispensabilità i contadini sono consapevoli e quindi fieri. Oltre ad
affermare la consapevolezza e la fierezza dei contadini parla anche di una “loro
combattività intelligente”, che contrasta con tutta una “vecchia storia del
conservatorismo contadino”.
I contadini “hanno aperto gli occhi”, sono “entrati in gioco” con “i loro panni e
le loro scarpe e le loro facce”, da soggetti passivi diventano protagonisti di quella
“Storia”, che per troppo lungo tempo li ha tenuti ai margini. Evidenzia il moto di
risveglio, di riscossa dei contadini, espresso anche in quella che Carlo Levi definisce
una Marsigliese del movimento contadino,
“Sempre nuova è l’alba”.
Non gridatemi più dentro,
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.
Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento disperato.
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna,
38
Friedrik G. Friedmann, Mondo contadino e mondo arcaico, in Scotellaro trent’anni dopo cit. p. 26 39
Rocco Scotellaro, I contadini guardano l’aria, in Omaggio a Scotellaro cit. p. 18
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l’oasi verde della triste speranza,
lindo conserva un guanciale di pietra.
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.40
I contadini sono i padri operosi dell’umanità, per questa, proprio come buoni
padri da sempre si sacrificano e sopportano. I contadini guardano l’aria e riescono a
predire il tempo della mattina, a presagire se c’è qualcosa di nuovo.
Rocco Scotellaro nello scritto “I contadini guardano l’aria” descrive in maniera
molto bella il mondo contadino, un mondo nel quale entra ogni giorno, non
violandone gli statuti, ma rispettandoli. Il poeta lucano comprende, ama e riesce a
farsi interprete del mondo dei contadini.
Dopo gli ultimi eventi, l’amministrazione, il carcere, matura sempre più in
Rocco la volontà di lasciare Tricarico. Sempre presente è in lui la volontà di
arricchire la sua esperienza di vita, oltre il desiderio di evasione è presente anche una
necessità economica a determinare l’allontanamento dalla regione nativa.
Dopo il lavoro di qualche mese da Einaudi ottiene un’occupazione dal professor
Manlio Rossi Doria, presso l’osservatorio di Economia e politica agraria di Portici.
Scotellaro collabora alla stesura degli studi preliminari del Piano regionale per la
Basilicata, sotto commissione della Svimez, cura la parte relativa ai problemi
igienico-sanitari (sotto la guida del dottor Mazzarone), la parte riguardante
l’analfabetismo e la scuola. Insieme con Manlio Rossi Doria progetta la costituzione
a Portici di un centro di sociologia rurale e di avviare studi di comunità rurali.
Nel 1952 accetta, pur avendo un atteggiamento critico nei confronti del PSI
materano, la candidatura per la provincia alle elezioni di maggio; in tale occasione
non è eletto. Agli inizi di dicembre dello stesso anno con Carlo Levi viaggia in
Calabria per verificare sul posto gli effetti della Riforma Agraria.
Nel gennaio del 1953 aderisce ad una proposta di Tristano Codignola e collabora
a “Nuova Repubblica”. Partecipa a Pisa ad un convegno promosso dai gruppi toscani
di Giustizia e Libertà (tra cui ci sono Cassola e Capitini). Dopo aver viaggiato per i
paesi della Basilicata e della Puglia (Tricarico, San Chirico, Accettura, Stigliano,
Pisticci, Taranto, Lecce) con il fotografo Maraini, incontra, il 13 maggio a Bari, Vito
Laterza, che gli propone di realizzare un libro sulla cultura dei contadini meridionali.
Scotellaro abbozza un primo schema di lavoro, che consegna all’editore Laterza
il 24 giugno. Nel breve scritto intitolato “Per un libro su i contadini e la loro cultura”,
Scotellaro afferma: ‘i contadini dell’Italia meridionale formano ancora oggi il
gruppo sociale più omogeneo e antico per le condizioni di esistenza, per i rapporti
economici e sociali, per la generale concezione del mondo e della vita.’41
Fin dall’inizio Scotellaro sceglie come metodo di ricerca quello delle interviste e
dei racconti autobiografici. Vuole far parlare in prima persona i diretti interessati.
40
Scotellaro, È fatto giorno cit. p. 82 41
Manlio Rossi Doria, in Omaggio a Scotellaro cit. p. 270
-
25
Questo gli permette di ottenere documenti vivi e un’interpretazione più profonda
della realtà contadina.
L’impegno del libro è per l’intero Mezzogiorno. In un primo momento Rocco
vuole limitare l’indagine a tre regioni soltanto, ma poi le porta a quattro, si tratta
della Campania, la Calabria, la Lucania e la Puglia. In Campania si ferma a Nola
dove abbozza una prima biografia, e nella Valle del Sele, dove vive il giovane
bufalaro, la cui storia è presente in “Contadini del Sud”.
Di ritorno dalla Sicilia dove ha ricevuto il Premio Borgese per le sue poesie, si
ferma a Reggio Calabria, dove intende intervistare donne raccoglitrici di olive a
Polistena, di gelsomino a Brancaleone, di bergamotto a Melito, portatrici di sale di
Bagnara e poi contadini piccoli affittuari delle colline alluvionate presso Reggio,
poveri sfollati di Africo, greci di Rogudi, piccoli assegnatari di Caulonia.
Dal 10 luglio al 4 agosto è in Puglia, dove viaggia nel Salento passando per
Lecce, Tricase, Alessano, Leuca, Patù e Taranto per arrivare a Bernalda e Matera.
Le quattro vite ultimate e pubblicate in “Contadini del Sud” riguardano contadini
di Tricarico e della frazione di Calle. Da un elenco di capitoli ritrovato e scritto due
giorni prima di morire si evince un progetto di ampio respiro. L’ordine dei capitoli
ritrovato è il seguente:
1. I contratti agrari (Beneventano); 2. La rivoluzione insubordinata (Montano Altilia nel Cilento); 3. Le roccaforti comuniste (Cerignola, Andria, Irsina); 4. La grande Reggio (Reggio Calabria, Rosario Valaniti, San Gregorio, il
Lazzaretto, ecc.);
5. Il profumo del Sud (bergamotteti e gelsomini); 6. Obelischi e piantine di tabacco (Salento); 7. Il mare d’olio (Taurianova, Palmi,ecc.); 8. L’oro bianco (zone canapicole) 9. Le ceneri del Vesuvio (San Vito e Terzigno); 10. Il mini fondo (Avigliano, Ruoti e frazioni)42
Mentre procede nel suo lavoro Rocco acquista consapevolezza della varietà e
complessità del mondo contadino, per questo decide di non realizzare un’inutile
ricerca estensiva, ma studia e analizza alcuni ambienti particolari per poi
rappresentarli attraverso diverse vite e interviste individuali.
L’inchiesta sui “contadini meridionali e la loro cultura” è un’iniziativa di
conoscenza scientifica e non di letteratura o di folclore, quindi le pagine dei
contadini lucani o campani o pugliesi devono essere leggibili e comprese da qualsiasi
lettore italiano, qualunque sia la regione di provenienza. Rocco nell’affrontare il
lavoro resta comunque poeta.
La ricerca sociologica, proprio come la vita con le speranze e le delusioni, è
materia d’ispirazione e diventa poesia.
Delle cinque vite pubblicate soltanto quella del bufalaro Cosimo Montefusco è
scritta interamente da Scotellaro, le altre quattro sono dettate o scritte direttamente
dai protagonisti.
42
Ivi, p. 277-278
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26
Le autobiografie sono di gente di Tricarico: Antonio Laurenzana, piccolo
affittuario e piccolissimo proprietario, scarsamente interessato alla politica, forse
socialista; Andrea Di Grazia, piccolo proprietario coltivatore diretto, cattolico,
democristiano; Michele Mulieri, contadino-artigiano, indipendente e anarchico;
Francesco Chironna, mezzadro, innestatore e potatore specializzato, indipendente
politicamente, di fede evangelica.
Il lavoro sociologico è rimasto incompiuto per l’improvvisa e prematura morte di
Scotellaro.
Il 5 dicembre con l’amico Antonio Albanese da Irsina giunge a Tricarico. Rocco
sta già molto male; amici medici accertano che la pressione è a 60. Nei giorni
successivi le sue condizioni di salute migliorano, tanto che i medici acconsentono ad
un suo viaggio a Napoli, dove deve sottoporsi ad una serie di analisi. Insieme con
Manlio Rossi-Doria parte il 12 dicembre da Tricarico. Rimane a casa dell’amico due
giorni, per poi partire diretto verso Portici dove deve rimettersi al lavoro.
Il 13 dicembre scrive l’ultima poesia dedicata alla madre:
“Tu sola sei vera”
Colei che non mi vuol più bene è morta
È venuta anche lei
a macchiarmi di pause dentro.
Chi non mi vuol più bene è morta.
Mamma, tu sola sei vera.
E non muori perché sei sicura.43
La sera del 15 dicembre, durante la cena, si sente male, si porta la mano alla testa
e con un’espressione di dolore cade a terra. Muore immediatamente alle otto e
mezza.
Il poeta lucano nell’ “Uva Puttanella” a proposito di Pasquale il fuochista, morto
suicida, scrive:
(…).Il prete non volle ragionare con me il suicidio, io capii infine, era l’unico
fatto degli uomini che la chiesa rispettava e fui contento che Pasquale non andasse
in chiesa e corresse senza campanelli e acqua santa e giaculatorie, al suo riposo.
Andai a rileggermi il libro di quegli anni al punto che dice “Quando presterai
qualsivoglia cosa al tuo prossimo, non entrerai in casa sua per prendere il suo
pegno; te ne starai di fuori, e l’uomo a cui avrai fatto il prestito, ti porterà il pegno
fuori. E se quell’uomo è povero, non ti coricherai, avendo ancora il suo pegno. Non
mancherai di restituirgli il pegno, al tramonto del sole, affinché egli possa dormire
nel suo mantello, e benedirti; e questo ti sarà contato come un atto di giustizia agli
occhi dell’Eterno, ch’è il tuo Dio” (10-13, cap.24, Deuteronomio).44
Anche Scotellaro, morto, non è entrato in chiesa, e al suo riposo è andato senza
campanelli, acqua santa e giaculatorie; accompagna il feretro un nutrito corteo di
familiari, di amici e risuona come una ninna nanna di morte il lamento funebre di
braccianti, di contadini, di artigiani, la sua tanto amata gente.
43
Scotellaro, È fatto giorno cit. p. 46 44
Rocco Scotellaro, L’uva puttanella, Contadini del sud, Prefazione di Carlo Levi, Bari, Laterza,
1986, p. 43-44
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Capitolo III
L’incontro tra Rocco Scotellaro e Amelia Rosselli
Rocco Scotellaro incontra Amelia Rosselli durante il convegno su “La resistenza
e la cultura italiana”, svoltosi a Venezia il 22-24 aprile 1950.
Amelia ha vent’anni, Rocco ventisette.
Rocco Scotellaro, uscito da un mese dal carcere, sta vivendo un periodo di
disillusione; Amelia Rosselli vive a Roma, alla ricerca di un lavoro.
Scotellaro annota gli eventi all’interno dei “Taccuini”, esordendo con una
considerazione personale sui convegni, che può valere per tutti:
“Sono molto pratico dei convegni: quando è solo necessario assicurare la
propria presenza, si può pensare ad altro, perché gli applausi o i commenti
sgradevoli non ti toccheranno”.45
Dopo descrive il viaggio in treno e l’arrivo a Venezia “che il sole metteva”46
,
ossia al sorgere del sole, all’alba.
Dalla stazione ferroviaria Rocco si dirige alla segreteria e poi all’albergo
assegnatogli. Vive la “prima traversata della vita, su un vaporetto che ti tiene dentro
proprio come una vasca”47
.
Descrive una “città già sveglia”, quando il sole non è alto nel cielo, “non tocca
ancora le case”48
.
Durante il convegno Rocco si siede accanto ad una signorina dal “volto biondo
come una lampada, i capelli corti tagliati alla nuca”49
, il portamento altero e lo
sguardo eretto dinnanzi a sé.
Per il giovane poeta lucano “incontrarsi o star vicini e poi dire una parola è
rompere con i miti”50
.
È subito impressionato positivamente dalla “ragazza nella bellezza bianca”51
, un
mito per lui.
Non è soltanto la bellezza e il portamento a impressionarlo e affascinarlo, ma
soprattutto il comportamento non remissivo, ma cortesemente partecipativo alle
questioni che si affrontano durante il convegno.
Rocco Scotellaro esprime in altre occasioni il fascino esercitato su di lui da
donne dall’aspetto fisico e dal comportamento differente da quello delle donne
contadine del suo paese. Le donne contadine hanno una grande forza, svolgono
lavori molto duri, ma hanno compiti ben determinati, che le vede impegnate nei
lavori casalinghi o nel lavoro dei campi.
45
Amelia Rosselli-Rocco Scotellaro, Marion e Rocco.Un epistolario,a cura di Franco Vitelli, “Lo
straniero”, 13/14 (2001), p. 254 46
Ivi 47
Ivi 48
Ivi 49
Ivi 50
Ivi 51
Ivi
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28
Nel racconto “Fili di ragno”, Rocco è innamorato di Tilde (l’aiuto svizzero
all’Italia):
Allora venisti tu. Ti vidi in una macchina lucida, di profilo. Erano i tuoi capelli,
era la tua carne bianca e lentigginosa. (…) ricordo come ti rispondevano gli
interpellati fissandoti la faccia bianca e lentigginosa, meravigliandosi della tua
bellezza e che il tuo corpo lungo era impegnato in quelle minute faccende. (…)52
La meraviglia dei compaesani di Rocco per una donna dalla carnagione chiara e
dal corpo snello è la sua stessa meraviglia.
Scotellaro è attratto da una donna dalla bellezza nordica e non mediterranea, è
affascinato da una donna che svolge un lavoro intellettuale e non un lavoro manuale.
La pelle delle donne contadine non è chiara e liscia, ma ruvida per la pioggia e il
vento e cotta dal sole.
L’innamoramento per una donna straniera diventa un topos della poesia di
Scotellaro.
Il poeta lucano scrive: “Per una donna straniera che se ne va”53
, “Una
dichiarazione di amore a una straniera”
……………………..
Senti le nostre donne
il silenzio che fanno.
Portano la toppa
dei capelli neri alla nuca
hanno tutto apparecchiato
le mani nel grembo
per l’uomo che torna dalla giornata54
.
Le donne della realtà contadina hanno un atteggiamento remissivo, non pongono
interrogativi, attendono ossequiose il ritorno degli uomini.
È evidente il contrasto con la ragazza “che agita appena un dito quando sorgeva
un problema, e riporlo sul grembo dopo la risposta”55
.
La signorina “mito nella bellezza bianca” non è una ragazza qualsiasi, è la figlia
di Carlo Rosselli.
Rocco Scotellaro apprende il nome della ragazza (pronunciato con accento
inglese) e rimane confuso. Non sa se prova un sentimento d’amicizia, se è legittimato
a sentirsene innamorato, o piuttosto se deve venerarla, in quanto “figlia di un grande
martire che parlava più di tutti in quel convegno”.56
Rocco vede rivivere in Amelia gli ideali del padre Carlo Rosselli57
, di cui avverte
chiara la contiguità.
Esiste un’affinità ideologica tra Carlo Rosselli e Rocco Scotellaro: Rocco non
ha una cultura marxista, ma ha letto le opere di Rosselli, “Socialismo liberale”, e
52
Rocco Scotellaro, Fili di ragno, in Uno si distrae al bivio, prefazione di Carlo Levi, Matera,
Basilicata editrice, 1974, p. 54 53
Scotellaro, È fatto giorno cit. p. 49 54
Ivi, p. 50 55
Rosselli-Scotellaro, Marion e Rocco cit. p. 254 56
Ivi 57
Vedi Carlo Rosselli fine del presente capitolo
-
29
“Oggi in Spagna, domani in Italia”(nuova edizione degli scritti rosselliani), ha inoltre
avuto contatti con i gruppi toscani di “Giustizia e Libertà”.
Carlo Rosselli è in polemica con il materialismo economico di stampo
marxistico, ritiene il socialismo essere tensione verso la libertà e l’emancipazione del
maggior numero di uomini, quindi il suo socialismo non è in contrasto con il
liberalismo, ma ne rappresenta il logico sviluppo.
Il “revisionismo socialista”di Carlo Rosselli deve piacere molto a Rocco
Scotellaro.
Rocco incontra Amelia Rosselli, la figlia del “suo ideale politico”.
Quando si presenta ad Amelia-Marion è già noto come il “sindaco-poeta”, la
giovane donna conosce la sua opera poetica “Mi sapeva. Lesse le mie poesie”58
; in
seguito accenna dei giudizi sulla poesia scotellariana non completamente positivi
“Accennò dei giudizi non completamente lusinghieri: ciò che mi permise uno
scambio di sguardi che mi fece più ardito”59
La seconda sezione dei “Taccuini” è intitolata “La grande batosta di Venezia”. Il
convegno passa in secondo piano, non è importante quanto l’incontro con una donna;
Rocco scrive:
“In breve non si tratta di un convegno, ma di una donna e me”60
.
Amelia–Marion appaga il desiderio di Rocco, che da sempre desidera una donna
dominante. Amelia (chiamata sempre con il nome della madre, Marion), è la donna
alla quale Rocco può offrirsi come un servitore soggiogato e a lei sottomesso.
Amelia-Marion è per Rocco “la più grande batosta dell’anima”61
;prova grande
ammirazione, ma anche soggezione, forse prova un sentimento d’inferiorità nei
confronti della Rosselli:
Mi sento schifoso a confronto della sua bellezza. È una bellezza intera, perché
anche dentro deve star bene. (…) Intanto lei nel suo splendore pare che abbia gli
occhi in alto, in alto. Sorride da lontano, la sua voce ha un suono d’uccello che non
si preoccupa di essere ascoltato. Io sono fuori di lei.”62
.
Queste sono le opinioni, i sentimenti suscitati dal primo incontro con Amelia, ma
ben presto Rocco comprende l’angoscia, la sofferenza che tormenta l’anima, la vita
della giovane donna fino a paragonarla alle figure sacre:
“Non mi è mai capitato di vedere i santi o la Madonne o Gesù Cristo che si
muovono, che appaiono ai bambini, agli uomini, alle donne che restano inchiodati
per terra e non vogliono sapere più del mondo. Ma una ragazza è capace? Non