Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

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Mauro Staccioli. In copertina: Seul ’88, Parco Olimpico, Seul, Olympiade desarts, 1988. Ferro e cemento rosso, 2600 x 3700 x 150 cm.

(Foto Louise Descamps).

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EDITORIALI

Per una sinistra cosmopolita

Maurizio Ferraris

Fra le tante sentenze passate in giudicato ce ne è una, emes-sa dal tribunale della storia tantissimo tempo fa, su cui credosi possa creare un consenso universale: Luigi XVI era unconservatore e Napoleone era un innovatore. Tuttavia vor-rei portare l’attenzione su un punto che a mio avviso è cru-ciale: chi potrebbe seriamente sostenere che Napoleone eradi sinistra? La domanda è assurda e non ha nemmeno unsenso.Da quando, con la rivoluzione francese, il governo si è iden-tificato con l’innovazione, la trasformazione e la razionaliz-zazione, e non con il mantenimento di un ordine garanti-to dalla tradizione e dal diritto divino, è del tutto ovvio chel’innovazione venga dalla destra, ossia dalla forza di gover-no. Il che, peraltro, spiega per quale motivo la sinistra, see quando giunge al governo e deve imporre trasformazioni,diventa di destra: non perché, esaurita la spinta rivoluziona-

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ria, diventi conservatrice, ma, proprio al contrario, perchérisponde all’esigenza di innovazione che, negli Stati succes-sivi all’ancien régime, è consustanziale all’azione di gover-no.Nessuna sorpresa dunque sul fatto che tra i grandi innovato-ri politici italiani si trovino Mussolini, Craxi, Berlusconi, nonMatteotti, o Gramsci (che peraltro filosoficamente la pensa-va come Gentile), o Berlinguer. Sono stati i primi a segna-re le grandi trasformazioni del paese e a raccogliere il con-senso popolare. Che poi queste si siano risolte nella maggiorparte dei casi in catastrofi purtroppo non è, nella fattispe-cie, rilevante: resta che i veri trasformatori sono stati loro.Sono loro che hanno ratificato o addirittura promosso la lai-cizzazione del paese, la separazione della politica dalla mo-rale, la statalizzazione prima e la liberalizzazione poi. A uncerto punto, nelle grandi strutture totalitarie del Novecen-to, indubbiamente più innovative di tutti i sogni socialdemo-cratici, la destra ha inventato il populismo, che ha realizzatoun grandissimo obiettivo politico: far accettare entusiastica-mente i sacrifici ai deboli, anzi, far sì che fossero i deboli achiederli. È tuttora in questo orizzonte che si muove il dibat-tito politico in Italia, nella gara tra una destra che è strut-turalmente innovativa e una sinistra che è strutturalmenteconservatrice, e che tuttavia si mette in testa (secondo me,sbagliando) di inseguire la destra nei suoi comportamenti enei suoi slogan.

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Che l’inseguimento della destra sia un errore è dimostratoda un apparente mistero della politica italiana, il fatto cioèche una sinistra che potrebbe assumere per sé il motto diBeckett, «fallire ancora, fallire meglio», continui ad avere unmargine di consenso, e una presenza elettorale che sorpren-de i suoi stessi rappresentanti politici. Chi la vota vuole ot-tenere protezione, che nella fattispecie significa «conserva-zione». E tutto diventa chiaro: c’è una struttura costruttiva,che è innovatrice, e una struttura decostruttiva, che è con-servatrice. Chi sostiene che la sinistra dovrebbe diventare didestra commette un errore morale (a che pro rinunciare al-le prospettive di giustizia?) ma soprattutto politico, perchél’elettorato di sinistra si attende dalla sinistra conservazio-ne, e se vuole innovazione (qualunque cosa, non necessaria-mente buona, ciò significhi) vota a destra.Da questo punto di vista, la sinistra, invece di estenuarsi inun futile inseguimento della destra (un inseguimento anzi-tutto ideologico, che è iniziato quando, ormai trent’anni fa,autori di estrema destra come Nietzsche, Heidegger e Sch-mitt sono diventati le stelle polari della sinistra), dovrebbepiuttosto concentrarsi su quella che considero la grande op-portunità per la sinistra: dissolvere le peculiarità e i parti-colarismi in una prospettiva europea, in una sinistra cosmo-polita (perché non penso che il concetto di «sinistra», pro-prio perché è storicamente determinato, si possa applicarealtrove che in Europa) che possa enunciare vecchi e obso-leti principi di tutela dei deboli, rispetto delle regole, paga-

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mento delle tasse, avendo anche la forza di farli osservare. Einsisto sull’Europa perché solo l’Europa può garantire quel-lo che manca all’Italia, che non è la politica, ma il governo,cioè anzitutto lo Stato. Proprio su questo punto il cosmopo-litismo diventa decisivo, perché è l’unico rimedio a una ten-denza radicata nei secoli e che ha ragioni storiche, che sa-rebbe lungo e anzitutto superfluo indagare qui.Mussolini, alle prese con gerarchi che rubavano e soldatiche scappavano, aveva giustamente osservato che governa-re gli italiani è inutile. Gli stessi italiani, però, quando van-no in altri paesi, accettano le regole, a meno che decida-no di impiantare dei sistemi mafiosi. Invece di sognare unimpero latino, l’unione di tutti i paesi in cui questi proble-mi sono strutturali, sarebbe a mio avviso conveniente auspi-care che sempre più, nel tempo, decresca la sovranità de-gli Stati, si stemperino le peculiarità nazionali, si uniformil’Europa sotto un impero che soprattutto non sia latino. Permettere la cosa in termini senz’altro troppo concreti: è pre-feribile essere governati da un laureato dell’Ecole nationaled’administration o da un cancelliere tedesco come Ade-nauer, o Brandt, o Schmidt, o Merkel, oppure da un dipen-dente di un’azienda televisiva o da un funzionario che passail suo tempo su Facebook? Io personalmente, visto che sonodi sinistra e dunque conservatore, non ho dubbi: i primi midanno più garanzie dei secondi.Se poi qualcuno, innovatore perché di destra, volesse con-troobiettarmi che ci sono elementi infinitamente più inno-

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vativi nei secondi, e che magari (ma raramente si giunge aquesta sincerità) la mafia e la ’ndrangheta sono le unichemultinazionali originate in Italia che funzionino davvero, eche la camorra è la realizzazione di una politica rizomaticache va oltre i più audaci sogni dell’Anti-Edipo, gli risponderei:«Hai perfettamente ragione: gli innovatori sono loro. Gliemancipatori sono loro, nel senso che chi fa da sé fa per tre,e loro indubbiamente emancipano anzitutto e soprattutto sestessi. Ciò detto, visto che non siamo più nel Settecento, nonvedo perché io dovrei lottare per l’innovazione come se ilnemico da battere fosse l’ancien régime. Il nostro obiettivonon è rinnovare, ma governare (o più esattamente, per quelche mi riguarda come privato cittadino: essere governati)e creare una situazione in cui l’applicazione delle sentenzenon suoni come un funesto paradosso, ma come un’ovvietàche non merita neppure di essere discussa».

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EDITORIALI

La rivolta che non crede nel futuro

Franco Berardi Bifo

Verso la fine degli anni Novanta, a un giornalista che glichiedeva se non fosse stato un errore armare gli islamistiafghani, Zbigniew Brzezinski, consulente della presidenzaCarter, rispondeva con l’arroganza di chi ha non capitol’essenziale: «Cos’è più importante nella storia del mondo? Italebani o il collasso dell’impero sovietico? Qualche esalta-to musulmano o la liberazione dell’Europa centrale e la finedella guerra fredda?»Adesso sappiamo che la fine della guerra fredda non haaperto un’epoca di armonia universale con qualche margi-nale disturbatore esaltato, ma ha inaugurato un’epoca di ag-gressività identitaria e di follia suicida. Il suicidio non face-va parte dell’armamentario dei sovietici, mentre è un ele-mento essenziale dell’islamismo contemporaneo. Perciò laguerra che Bush dichiarò infinita ha caratteri di asimmetriae d’imprevedibilità che non si possono ricondurre ad alcun

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pensiero strategico. L’illuminismo protestante che sta a fon-damento dell’episteme strategica americana è incapace diinterpretare i segni della cultura islamica, e la nozione for-male di democrazia è inadatta per interpretare l’evoluzioneattuale della guerra che si va diffondendo nel continente eu-roasiatico. Nessuna potenza militare pare in grado di ridur-re la violenza contemporanea perché questa sfugge alle ca-tegorie della politica.«La disperazione non è una categoria della scienza politica,ma il movimento islamista non è pensabile se non lo si com-prende come testimonianza di disperazione delle masse»,scrive Fethi Benslama nel suo libro La psychanalyse face àl’Islam, un’indagine sulle origini psicoanalitichedell’infelicità congenita alla cultura degli arabi, discendentidi Agar, la madre ripudiata e rimossa nella memoria dei suoifigli. L’islamismo contemporaneo è una sfida al razionalismodella politica moderna e della democrazia: interpretare quelche accade tra Kabul a Bengasi con la terminologia della de-mocrazia e dell’illuminismo protestante è un modo per an-dare incontro alla sconfitta.Nello scacchiere del mondo islamico si combattono diverseguerre, e nessuna di queste ha molto a che fare con la demo-crazia, questo feticcio che, svuotato di contenuto e di effica-cia in Occidente, viene pubblicizzato con insistenza come unprodotto di scarto che gli occidentali sperano di rifilare a chinon l’ha mai visto.

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Sullo sfondo, naturalmente, la guerra che Israele non puòvincere. Ma quella guerra promessa per un futuroin(de)finito è il premio per il vincitore delle guerre che in-tanto si combattono. Anzitutto la guerra religiosa che op-pone Islam sciita e Islam sunnita. Il disegno strategicodell’emirato sunnita che appariva una follia quando OsamaBin Laden lo dichiarò all’inizio del secolo, è oggi in pienasanguinosa realizzazione. Intere zone dell’Asia centrale so-no militarmente governate dalla logica dell’emirato: da Fal-luja ad Aleppo l’emirato sunnita è forza dominante, comenell’area che copre larga parte del territorio afghano e inte-re regioni pakistane. La guerra civile siriana è ormai soltantouna guerra per il predominio sunnita, cui la minoranza ala-wita oppone una resistenza insormontabile.Vi è poi la guerra sociale: la ricchezza è concentrata nellemani dei padroni del petrolio (integrati al ciclo della finanzaglobale), e la miseria di massa che ne consegue alimenta inpaesi come l’Egitto o come il Pakistan una conflittualità di-sperata perché incapace di aggredire il nodo essenziale del-la distribuzione della ricchezza e delle risorse. Democrazianon significherà niente fin quando la proprietà del petrolio,principale risorsa dell’area, rimarrà nelle mani di una mi-noranza culturalmente retriva e finanziariamente globaliz-zata. La rivoluzione egiziana del 2011 è stata preparata daun quinquennio di lotte operaie intense e vaste, ma dopo larivoluzione del 2011 le condizioni di vita degli operai sonopeggiorate e l’economia egiziana non dà segni di ripresa.

La rivolta che non crede nel futuro

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Le rivolte arabe non cambieranno la realtà di quell’area finquando non aggrediranno il forziere saudita.C’è infine la guerra culturale che il lavoro cognitivo cosmo-polita conduce contro l’autoritarismo politico e control’oscurantismo religioso. Milioni di studenti, di lavoratoridella rete globale, di blogger giornalisti e artisti hanno mes-so in contatto la dimensione culturale della rete con la stra-da provocando un cortocircuito che ha rimesso tutto in mo-vimento. Ma questo terzo fronte è per il momento minorita-rio, e scatena processi che non è in grado di governare. A Tu-nisi come al Cairo come a Istanbul come a Damasco i movi-menti sono iniziati da lavoratori precari ad alto grado di sco-larizzazione e di integrazione nel lavoro cognitivo globale.Ma questi movimenti sono stati utilizzati ed emarginati dal-le forze islamiste, oppure repressi dall’islamismo al governo,come nel caso della Turchia, dove l’esercito è, almeno peril momento, integrato e sottomesso al neoliberismo islami-sta di Erdogan. Questi movimenti continueranno a produr-re rivolte che rimarranno subalterne sul piano politico, maserviranno per consolidare ed estendere l’autonomia di unaparte crescente della nuova generazione dall’oscurantismoreligioso e dalla violenza militare.Ero al Cairo in aprile, quando è uscito in alcune sale dellacittà il film di Ibrahim El Batout, El sheita elli fat (Winter ofDiscontent), presentato a Venezia l’anno scorso. Sono andatoa vederlo con un gruppo di amici che lavorano nel mondodell’arte e che viaggiano molto spesso nei paesi occidentali.

La rivolta che non crede nel futuro

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Il film non è piaciuto a nessuno. Tutti lo hanno trovato ipo-crita perché presenta la rivoluzione come l’inizio di un tem-po nuovo in cui finalmente il popolo egiziano potrà prende-re in mano il suo destino nella libertà.I miei amici avevano tutti partecipato alle rivoltedell’inverno 2011 come attivisti, giornalisti o media-artisti,ma nessuno di loro sembrava attendersi un mutamento po-sitivo né (certamente) dal governo islamo-liberista dellaFratellanza islamica, né da alcun altro rivolgimento possibi-le nel prossimo futuro. Ciò mi ha fatto riflettere su questagenerazione che si ribella con forza e radicalità senza nu-trire alcuna speranza, senza attendersi alcun miglioramen-to. Come se la rivolta fosse, in sé, la sospensione temporaneadi una condizione intollerabile – e il momento di riconosci-mento di tutti coloro (e il numero cresce) che non voglio-no più condividere nulla, credere in nulla, né partecipare anulla. Solo vivere, inventando un altro mondo, non importaquanto impossibile.

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EDITORIALI

Distrazioni di massa

Augusto Illuminati

Di come andrà a finire Berlusconi, non ce ne può fregare dimeno. Delle procedure bizantine di decadenza, incandidabi-lità, ineleggibilità, ricalcolo interdizione: idem come sopra.L’agibilità o inagibilità politica del Grande Pagliaccio non èquestione indifferente, ma neppure il nostro peggiore incu-bo notturno. Non invidiamo le ossessioni diurne di Travaglioe le notti insonni di Asor Rosa, popolate di legalità repubbli-cana e carabinieri. Altre cose, piuttosto, ci preoccupano.Cosucce materiali che condividiamo con la maggioranza in-distinta degli italiani (Imu, Tares, Iva, disoccupazione, mu-tui) e altre più strutturali. Per esempio, il degrado dell’agirepolitico, forma primaria della vita liberamente associata, delbios. I suoi nemici sono la necessità e l’indifferenza, i palettiposti da logiche esterne presunte costrittive e la palude delrassegnato disincanto.

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Ora, la prassi italiana – la nostra agibilità politica, quella chesola ci interessa – è già fortemente perimetrata da stringen-ti vincoli economici europei (pareggio di bilancio costitu-zionalizzato, fiscal compact, mannaia dello spread, pressioniper liberalizzazioni e svendite per fare cassa) e vi si aggiun-ge, aggratis, l’obbligo di imperniare gli spazi residui di ma-novra sul destino di Berlusconi e la sopravvivenza di un si-stema pseudobipolare di grandi intese. Con l’aggiunta di unappassionante dibattito sui regolamenti del Pd, le primarieaperte o chiuse e la finale scelta del leader (cioè del piccio-ne da impallinare) tra Epifani, Cuperlo e Renzi, magari pu-re Pippo Civati e Debora Serracchiani. Chi non erompereb-be tutto d’un fiato: il personale è politico! Tanto più che, conl’occasione, abbiamo ripassato – come in un’antologia deifilm di Romero – l’intera sfilata dei morti viventi, da Ualteral Baffino.Nel mondo ne succede di ogni – ascese e cadute di imperi re-gionali, scontri epocali fra sunniti e sciiti, cambi di regime,droni vaganti, stragi chimiche e manuali – ma noi, in saggiaatarassia, discettiamo se le sentenze si rispettano o si appli-cano, si amano o si esecrano, si scontano nel senso di an-dar dentro o nel senso di ridurle, tipo saldi. Meno male cheda noi guerra civile vuol dire questo, mica stiamo in Siria oin Egitto. L’effetto palude, appunto, che soffoca nella melmaquanto della politica è sopravvissuto alla (presunta) necessi-tà.

Distrazioni di massa

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Ma mi si obbietterà: diavolo, mica tutto va così male, cisono ancora progetti, battaglie, scadenze che superano que-sto quadro asfittico! Come no, c’è vita su Marte, ovvero nellasinistra. Leggiamo con avidità il dibattito agostano. Lascia-mo perdere le dichiarazioni al vento di Ingroia o le compar-sate televisive di Cacciari e lasciamoci sedurre da un bel ti-tolo filosofico: contro le passioni tristi. Troveremo un sor-so d’acqua dissetante, una folata che spazza via il grigio deirancori? Ahimè, ancora una volta il titolista del «manifesto»è più bravo dell’estensore del pezzo, Massimiliano Smeri-glio, che tira in ballo le passioni tristi in modi che evocanopiù il benemerito Spinoza.it che l’autore dell’Ethica. Se in-fatti vogliamo conseguire un più di potenza e di gioia di cuiessere causa attiva accozzando sinistra radicale e sinistra digoverno (Sel e Pd) sotto l’egida di Bettini e Renzi, beh, allabeatitudine mentale ci manca molto, per non dire alla sanitàdel corpo e al benessere delle tasche.Ecco, questo piccolo esempio mi fa pensare che il dannomaggiore del capitolo terminale della berlusconeide è anco-ra una volta lo spostamento del conflitto fuori dall’orizzontepolitico, la neutralizzazione risentita e verbosa della soffe-renza sociale e della natura di classe della crisi: larghe inte-se, falchi, colombe e pitonesse, Letta zio-nipote, fronte del-la legalità con immancabili idoli giudiziari, il bene contro ilmale, la virtù contro il vizio, tanti sermoni di Napolitano eScalfari e – alla fine e nel migliore dei casi, se proprio nonvogliamo farci sgranocchiare dal Caimano – gli stornelli blai-

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riani di Renzi intonati a cappella da Pd e Sel. Mentre il mon-do intorno a noi va in pezzi, piuttosto indifferente – temia-mo – a quante rate dell’Imu aboliremo e se si andrà a votarecon il Porcellum o il Porcellinum.Già, il mondo. Che non è quello dei «piccoli segnali di uscitadalla crisi», ma delle nubi indistinguibili di una nuova crisiincombente e di una quasi sicura guerra – che strana coinci-denza, vero? Le reazioni farsesche della classe dirigente ita-liana possiamo già prevederle, in base all’esperienza libica,ma i movimenti daranno qualche segno di vita, malgrado lacampagna di distrazione di massa condotta da «Repubblica»,«Fatto», «Micromega» e compagnia manettante? La rispostaalla guerra e non le elezioni italiane o europee sono il bancodi prova di una sinistra non subalterna. L’aggettivo «rivolu-zionario» per il momento è meglio non evocarlo.

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EDITORIALI

Si investe nella scienza, in Trentino

Michele Emmer

A chi interessa veramente la scienza? A parte il ritornello,a cui difficilmente seguono i fatti, che bisogna aumentarei finanziamenti alla ricerca? Serve a qualcosa la scienza dibase? Serve diffondere la cultura e in particolare la culturascientifica? In fondo, a che serve la scienza? Si sono maichiesti i nostri geniali politici (senza generalizzare) come sicostruisce la conoscenza, come si costruisce l’interesse, co-me si trovano nuove idee, come si inventano nuovi prodotti,che porteranno a nuovi posti di lavoro, magari altamente in-novativi? Si sono mai chiesti perché vent’anni fa la Cina hadeciso di investire nei science center in tutto il vastissimopaese? Certo non basta solo la conoscenza scientifica, ma,con parole desuete nel nostro paese, un giusto equilibrio trale due culture. E pensare, investire nel futuro, parola da nonpronunciarsi: il nostro è il paese della perenne emergenza edella grande, forse in esaurimento, creatività italiana.

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Emblematica la discussione durata decenni sul costruendomuseo della scienza di Roma, iniziata quando ancora era sin-daco Argan. Giustamente la discussione è stata lasciata ca-dere da qualche anno dato che la situazione era diventatafrancamente grottesca, con le infinite discussioni di archi-tetti sul dove, sul come, e con gli «esperti» che volevano direla loro. Si è preferito puntare su effimeri festival e feste sen-za nessuna progettazione sul futuro. Si è preferito far pro-liferare i centri, i musei, gli spazi per l’arte contemporanea.Creandone solo a Roma un numero spropositato tra istitu-zioni pubbliche e private, con grande svantaggio, come sipuò intuire, per la qualità delle scelte.Il 27 luglio 2013, a pochi mesi della distruzione della Cittàdella Scienza a Napoli, è stato inaugurato a Trento il Muse -Museo della Scienza, nome antico del museo di scienze natu-rali che a Trento esiste dal 1922. Una sede tutta nuova, idea-ta da Renzo Piano. Un grande investimento sul futuro conuna spesa di 70 milioni di euro. Un museo naturalistico conun occhio di riguardo alle montagne. La costruzione stessa èpensata come un insieme di montagne di cristallo, di ghiac-cio e neve. E all’interno uno spazio vuoto, al centro di tut-ti i piani, con in alto un ghiacciaio artificiale che si affacciasu quel vuoto. Certo, sono rimasti alcuni animali impagliatidel vecchio museo, ma la concezione del nuovo spazio nonha nulla di quella antica. Il modello è quello di una grandescience center interattivo, per fare esperimenti, per stimo-lare l’interesse e la creatività. Puntando sulle montagne, sul

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cambiamento climatico, sui grandi acquari, sulla biodiversi-tà, ma anche sull’evoluzione e sui dinosauri, sempre con unocchio alla regione, o meglio alla provincia trentina. Ed eccoallora il FabLab per sperimentare e realizzare in prima per-sona, con un occhio di riguardo ai più piccoli, come in tutti iscience center del mondo. Con uno dei settori riservato allafauna tropicale, ma di montagna, per restare in tema con illuogo, con specie che provengono dall’Eastern Arc, una ca-tena di montagne dell’Africa tropicale orientale, compiendouna visita virtuale ai monti Udzungwa. Non una scelta ca-suale, ma il frutto di tanti anni di cooperazione fra il Tren-tino e l’Africa. Citando la presentazione del museo: «La ser-ra è il luogo simbolo dell’incontro tra ambienti lontani legatidalla cultura e dal rispetto della montagna». E pazienza pertutti i razzisti e xenofobi di questo paese.Ha alcuni grandi vantaggi il Muse. La disponibilità finanzia-ria, anche se ha risentito della crisi, della provincia autono-ma di Trento. La grande capacità di decidere per il futurocome dimostrano, oltre al Muse, l’Università che è diventa-ta un centro di eccellenza della ricerca in Italia e all’estero(come hanno parzialmente dimostrato le tabelle delle valu-tazioni delle università pubblicate qualche settimana fa, ta-bella da valutare con tutte le precauzioni del caso). Il Martdi Roverto, a pochi chilometri di distanza dal Muse, un’altragrande scommessa iniziata nel 2002. «Un edificio ridisegnasempre nuove relazioni, non può essere indifferente. Il Martnel suo spazio centrale raccoglie e valorizza il linguaggio

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dell’intorno. La diversità dei linguaggi, moderno-antico, di-viene ricchezza»: parole di Mario, Botta, l’architetto che loha realizzato, parole che si adattano anche al Muse.Il futuro del Muse, come quello del Mart, dipenderà dalleidee, dalla creatività, dalla coerenza che coloro che sonochiamati a dirigere queste istituzioni saranno capaci di svi-luppare. E non è scontato ovviamente, ma le premesse ci so-no.

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Ornella Tajani

«Si tramanda a Bersabea questa credenza: che sospesa in cie-lo esista un’altra Bersabea, dove si librano le virtù e i sen-timenti più elevati della città. L’immagine che la tradizionene divulga è quella d’una città d’oro massiccio, tutta intar-si e incastonature. Si crede pure che un’altra Bersabea esi-sta sottoterra, ricettacolo di tutto ciò che c’è di spregevolee d’indegno; una città infera di pattumiere rovesciate da cuifranano croste di formaggio, carte unte, vecchie bende.» Lacitazione, rimaneggiata da Le città invisibili di Italo Calvino, sipresta a efficace immagine della marcata polarizzazione chesi verifica oggi nelle grandi città: laddove il centro aspira aun modello sempre più ideale, in cui vige un preciso codicedi bellezza da rispettare, il resto della città sembra destina-to a raccogliere tutto ciò che non soddisfa determinati stan-dard estetici.

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Così, in un’area urbana che somiglia a una scatola di legnogrezzo, si racchiude quel che somiglia a un gioiello da sfog-giare nelle grandi occasioni: dove si godono i panorami piùbelli e si visitano gli edifici storici; dove non v’è traccia dipompe funebri o posti di pronto soccorso; dove non ci si am-mala e non si è infelici, non si muore e spesso neanche si vi-ve, se si pensa ad alcuni casi di esodo verso i sobborghi; dovevanno i turisti, e i cittadini solo quando non hanno niente dafare. Se la periferia finisce, come rilevava Pierandrea Amatonel suo lavoro La rivolta del 2010, «col delimitare uno spaziofrequentabile, quello della città normale, di contro a uno in-frequentabile», l’area urbana al di fuori del centro pare in-vece destinata a quella porzione di vita cittadina non parti-colarmente interessante da un punto di vista decorativo.Di questa operazione manichea un aspetto non trascurabilemi sembra essere la pedonalizzazione. Ormai, davanti a unafoto di piazza Navona o di piazza del Duomo a Milano pienedi automobili, il nostro occhio classifica istantaneamentel’oggetto come reperto d’epoca. Questo perché oggi il centrostorico delle città italiane è sempre, o quasi, una zona a traf-fico limitato: è un modo per preservare le bellezze storico-artistiche e consentirne una migliore fruizione. Ma – ver-rebbe da chiedersi con le parole che pare avesse usatol’architetto Kenzo Tange, quando l’allora sindaco di NapoliBassolino gli mostrò per la prima volta piazza del Plebiscitochiusa al traffico – «e adesso le auto dove sono?».

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Le auto – altro elemento antiestetico – sono espulse dalloscrigno. È naturale, si dirà: le auto inquinano l’aria e la bel-lezza del luogo. Il centro è fatto per la promenade. Eppure,azzardando ma non troppo, la sensazione è che il messaggiosubliminale non sia tanto «se vuoi, puoi passeggiarci», mapiuttosto «se vuoi passeggiare, devi farlo qui (e là inveceno)». Non è difficile prevedere – sta già accadendo – che, se-guendo questo modello di pascolo forzato, qualsiasi ammi-nistrazione comunale investirà sempre più fondi nella curadel centro, nell’obiettivo di renderne il suolo gradevolmentecalpestabile, mentre si occuperà sempre meno di consentirein altre aree urbane la presenza di pedoni. Lungi da qualsia-si velleità apocalittica, basta rifletterci un istante e non sa-rà difficile ricordarci di quando, in un punto o un altro dellacittà, ci siamo ritrovati a pensare che, vuoi per l’assenza dimarciapiedi, vuoi per la presenza di incroci ardui da attra-versare, camminare era impossibile. Il sospetto è che sia lapedonalizzazione stessa a legittimare la rigida separazione:se è stata prevista una zona apposita, perché pretendere dipasseggiare altrove?È chiaro che avere un intero lungomare pedonalizzato perfarci jogging è un lusso considerevole. Correre al centro del-la strada è una sensazione quasi irreale, come se il resto delmondo fosse altrove, dove succede qualcosa di molto impor-tante che tu, mentre ti dedichi ai tuoi quaranta minuti disport, ignori. Ma proprio per antitesi scaturisce il pensie-ro che nel resto della città, la presunta parte infera dove si

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svolge la vita quotidiana, si stia pagando il prezzo di quellusso non comune: nel satellite che per Calvino consistevanella vera Bersabea, «un pianeta sventolante di scorze di pa-tata» dove, sotto un cielo di comete dalla lunga coda, ri-splende tutto il bene della città.

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SEMAFORO & LESSICO

Lessico dell’uomo indebitato

Maurizio Lazzarato

Austerità«I 500 più fortunati di Francia si sono arricchiti del 25% inun anno. In un decennio la loro ricchezza è quadruplicata erappresenta il 16% del Pil del paese. Equivale anche al 10%del patrimonio finanziario dei francesi, cioè un decimo dellaricchezza è in mano a un centomillesimo della popolazione»(«Le Monde», 11 luglio 2013).

Mentre i media, gli esperti, i politici si riempiono la boccadi pareggi di bilancio, assistiamo a una seconda grandeespropriazione della ricchezza sociale, dopo quella messa inpratica a partire dagli anni Ottanta dalla finanza. La parti-colarità della crisi del debito è che le sue cause ne sono di-ventate il rimedio. Questo circolo vizioso non è il sintomodell’incompetenza delle nostre élite oligarchiche, ma del lo-ro cinismo di classe, poiché persegue un fine politico preci-

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so: distruggere le residuali resistenze (salari, redditi, servizi)alla logica neoliberista.

Debito pubblicoCon l’austerità i debiti pubblici hanno raggiunto picchi darecord in tutti i paesi che utilizzano lo strumento della car-tolarizzazione del debito, il che significa che anche le rendi-te dei creditori hanno raggiunto picchi da record.

ImpostaPer il governo dell’uomo indebitato lo strumento principaleè l’imposta. Che non è uno strumento di redistribuzione suc-cessiva alla produzione. Al pari della moneta, essa non haun’origine commerciale, ma direttamente politica. Quando,nella crisi del debito, la moneta non circola più né comestrumento di pagamento né come capitale, quando il mer-cato non assicura più funzioni di misura e di collocamentodelle risorse, allora interviene l’imposta come strumento digovernamentalità politica. L’imposta garantisce la continui-tà e la riproduzione del profitto e della rendita bloccate dal-la crisi; esercita un controllo economico-disciplinare sullapopolazione; misura l’efficacia delle politiche di austeritàsull’uomo indebitato.

CrescitaOggi l’America è a un punto morto. Il motore della sua mac-china gira, ma l’America non va avanti. Il motore gira uni-

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camente perché la banca centrale compra ogni mese 85 mi-liardi di titoli del Tesoro e di obbligazioni immobiliari e dal2008 garantisce denaro a costo zero. L’America non è in re-cessione unicamente perché è oggetto di trasfusione mone-taria, ma è incapace di trainare il resto del mondo al di fuoridi una crisi che essa stessa ha provocato. L’enorme quantitàdi denaro iniettato ogni mese dalla Fed si limita a produrreun lievissimo aumento di posti di lavoro, per lo più di servi-zio, a bassissima retribuzione e part-time. Si continuano cosìa riprodurre le cause della crisi, e non solo perché il solco trale differenze salariali all’interno della popolazione continuaad approfondirsi, ma anche perché si continua a finanziaree a rafforzare la finanza.

Mentre la politica monetaria fallisce nel far ripartirel’economia e l’impiego, col rischio di alimentare un’altrabolla finanziaria, favorisce il boom economico di un unicosettore, quello finanziario. L’enorme disponibilità di denaroper finanziare l’economia passa anzitutto per le banche che,nel transito, continuano ad arricchirsi. Nonostante la cresci-ta anemica degli altri settori, i mercati finanziari hanno toc-cato livelli record.

Tutti sono in attesa della crescita, ma è tutt’altra cosa ciòche s’intravede all’orizzonte: supremazia della rendita, disu-guaglianze abissali tra i lavoratori dipendenti e i loro ma-nager, gigantesche differenze patrimoniali tra i più ricchi ei più poveri (in Francia il rapporto è 900 a 1), classi socialicristallizzate nella loro riproduzione, blocco della già debole

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mobilità sociale (soprattutto negli Stati Uniti dove il sognoamericano resta ormai solo un sogno)… Tutto ciò, più che alcapitalismo, fa pensare all’ancien régime.

CrisiQuando parliamo di crisi, ovviamente intendiamo la crisiscoppiata nel 2007 dopo il crollo del mercato immobiliareamericano. In realtà si tratta di una definizione restrittivae limitata, poiché è dal 1973 che subiamo la crisi. La crisi èpermanente, a cambiare sono solo la sua intensità e il nomeche le si dà. La governamentalità liberale e liberista si eser-cita passando dalla crisi economica alla crisi climatica, allacrisi demografica, energetica, alimentare e così via. Col va-riare del nome varia solo il tipo di paura.

Paura e crisi costituiscono l’orizzonte insuperabile dellagovernamentalità del capitalismo neoliberista. Non uscire-mo dalla crisi (tutt’al più ne varierà l’intensità), semplice-mente perché la crisi è la modalità di governo del capitali-smo contemporaneo.

Capitalismo di Stato«Il capitalismo non è mai stato liberale, è sempre stato capi-talismo di Stato.» La crisi dei debiti sovrani mostra senza al-cun dubbio la pertinenza di questa affermazione di Deleuzee Guattari. Il liberalismo è solo una delle possibili forme disoggettivazione del capitalismo di Stato: sovranità e gover-namentalità funzionano sempre insieme e di concerto.

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Nella crisi i neoliberali non cercano affatto di governareil meno possibile, al contrario cercano di governare qualun-que cosa e fin nel più piccolo dettaglio. Non producono «li-bertà», ma la loro continua limitazione. Non propongonol’articolazione tra libertà del mercato e Stato di diritto, mamettono in pratica la sospensione della già debole democra-zia. La gestione neoliberista della crisi non esita a integrareuno «Stato massimo» tra i dispositivi di una governamenta-lità che esprime la propria sovranità unicamente sulla popo-lazione.

GovernamentalitàLa crisi rende evidenti i limiti di una delle più importanti ca-tegorie di Foucault, quella di governamentalità, e ci spingea completarla. Governare, secondo Foucault, non significasottomettere, comandare, dirigere, ordinare, normalizzare.Non forza fisica né divieto, né norma di comportamento, lagovernamentalità è incentivo, attraverso una serie di rego-lamentazioni flessibili e capaci di adattarsi, a congegnare unambiente che porti l’individuo a reagire in un modo piutto-sto che in un altro. La crisi, invece, ci rivela che le tecnichedi governamentalità sono imposizione, divieto, norma, dire-zione, comando, ordine e normalizzazione.

La privatizzazione della governamentalità ci obbliga a te-nere conto dei dispositivi biopolitici non statuali. Fin daglianni Venti si sviluppano tecnologie di governance a partiredal consumo che si annidano nel marketing, nei sondaggi, in

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televisione, su Internet, nelle reti sociali… che informano lavita delle persone in tutte le sue dimensioni. Questi disposi-tivi biopolitici sono contemporaneamente di valorizzazione,di produzione di soggettività e di controllo poliziesco.

Lotta di classeIl capitalismo neoliberista ha instaurato e governa una lottadi classe asimmetrica. Vi è solo una classe, ricomposta intor-no alla finanza, al potere della moneta di credito e al denarocome capitale. La classe operaia non è più una classe. Daglianni Settanta il numero di operai nel mondo è enormemen-te aumentato, ma essi non rappresentano più una classe po-litica e non la rappresenteranno mai più. Gli operai hannocertamente un’esistenza sociologica, economica, ma la cen-tralità del rapporto creditore/debitore li ha confinati in mo-do definitivo alla marginalità politica. A partire dalla finanzae dal credito il capitale è continuamente all’attacco. A parti-re dal rapporto capitale/lavoro ciò che resta del movimen-to operaio è continuamente sulla difensiva e regolarmentesconfitto.

La nuova composizione di classe emersa nel corso degliultimi decenni senza passare dalla fabbrica, costituita da unamolteplicità di situazioni di impiego, di non-impiego, di im-piego intermittente, di povertà più o meno grande, è disper-sa, frammentata, precarizzata ed è ben lontana dal darsi imezzi per essere una «classe» politica, anche se rappresen-ta la maggioranza della popolazione. Come i barbari alla fine

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dell’Impero romano, essa compie incursioni veloci e inten-se, pronta a ripiegare subito dopo sui propri territori, scono-sciuti ai più e soprattutto ai partiti e ai sindacati. Essa non siinsedia. Dà l’impressione di tastare la sua stessa forza (anco-ra troppo debole) e quella dell’Impero (ancora troppo forte),per poi ritirarsi.

FinanzaUna molteplicità di dibattiti inutili tengono impegnati gior-nalisti, esperti, economisti e uomini politici: la finanza èparassitaria, speculativa o produttiva? Controversie oziose,perché la finanza (e le politiche monetarie e fiscali chel’accompagnano) è la politica del capitale.

Il rapporto creditore/debitore introduce una forte di-scontinuità nella storia del capitalismo. Per la prima voltadacché esiste il capitalismo non è più il rapporto capitale/lavoro a essere al centro della vita economica, sociale e poli-tica. In trent’anni di finanziarizzazione il salario, da variabi-le indipendente del sistema, si è trasformato in variabile diaggiustamento (sempre al ribasso per quanto riguarda il sa-lario e al rialzo per quanto riguarda la flessibilità e il tempodi lavoro).

TrasversalitàCiò che occorre sottolineare non è tanto la potenza econo-mica della finanza, le sue innovazioni tecniche, ma piuttostoil fatto che la finanza funzioni come un dispositivo di gover-

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nance trasversale alla società e al pianeta intero. La finan-za opera trasversalmente alla produzione, al sistema politi-co, al welfare, al consumo. La crisi dei debiti sovrani confer-ma, approfondisce, radicalizza in senso autoritario le tecno-logie di governo trasversali, poiché «siamo tutti indebitati».Un’organizzazione delle lotte fondata su base nazionale e suuna divisione tra salariati a tempo pieno e precari, tra socie-tà ed economia, tra economia e sistema politico, è incapaceanche solo di resistere alla trasversalità della finanza.

Capitale umano (o imprenditore di sé)La crisi non è solo economica, sociale e politica. È anzituttouna crisi del modello soggettivo neoliberista incarnato nel«capitale umano». Il progetto di sostituire il lavoratore sa-lariato del fordismo con l’imprenditore di sé, trasformandol’individuo in impresa individuale che gestisce le propriecapacità come risorse economiche da capitalizzare, è, nellostesso tempo, crollato con la crisi dei subprime e ripropostoperché il capitalismo non ha alternative.

Da questo punto di vista la situazione dei paesi ricchi equella dei paesi emergenti, anziché divergere, con la stagna-zione e il declino dei primi e la crescita e il progresso dei se-condi, converge nella produzione di uno stesso modello disoggettività: il capitale umano, che comporta un massimo diprivatizzazione economica e un massimo di individualizza-zione collettiva. Le politiche sociali, al contrario, introduco-no ovunque un minimo (un salario minimo, un reddito mini-

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mo, servizi minimi) perché nessuno cada al di sotto di unasoglia di povertà che gli impedisca di essere «mobilizzabile»dal e per il mercato. Per attivare i governati bisogna che nonsiano troppo poveri, perché non avrebbero le risorse neces-sarie (economiche e soggettive) per lanciarsi nella concor-renza di tutti contro tutti. Una soglia che vale anche per pae-si come la Germania, dove il salario minimo non esiste maesistono otto milioni di lavoratori poveri.

La globalizzazione capitalistica si ammanta di aver fattouscire milioni di poveri dall’estrema miseria del «Sud» delmondo. In realtà, queste politiche non sono affatto incom-patibili con il neoliberismo. Quando sono condotte su vastascala, come in Brasile, arrivano persino a rappresentare unasperimentazione per fornire una parte della forza lavoroadeguata al capitalismo dei paesi emergenti. In Brasile, tra lemolte cause della mobilitazione degli scorsi mesi, c’è anchequesta. Sia la minoranza uscita dall’estrema povertà sia lanuova composizione di classe metropolitana in via di impo-verimento si sono trovate di fronte non solo a una macroe-conomia organizzata secondo i più classici principi neolibe-risti, ma anche a un welfare state a doppia velocità: da unaparte servizi sociali di qualità mediocre (minimo di servizi)e dall’altra buone scuole, un sistema sanitario funzionante,servizi di qualità, ma tutto a pagamento. Per accedervi oc-corre «mobilitarsi» e gettarsi nella mischia del darwinismosociale in salsa «socialista». Con grande giudizio, la mobili-tazione invece è avvenuta per la giustizia sociale e contro la

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versione «Sud» del capitale umano. In Europa il processo èinverso, benché giunga al medesimo risultato: la costruzio-ne di un welfare state a duplice velocità si è accelerata conla crisi del debito.

Pubblichiamo qui parte dell’introduzione a Governo dell’uomoindebitato. Tecnologie delle politica neoliberista di MaurizioLazzarato, edito da DeriveApprodi e disponibile da ottobre in libre-ria.

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Mauro Staccioli, Volterra ’73, Fortezza Medicea, Volterra, 1973. Travi di legno,mattoni forati in cotto, fascia di cemento e ferro, 280 x 200 x 200 cm. (Foto

Enrico Cattaneo).

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Maria Teresa CarboneSemaforo

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ILVA, L’ACCIAIO CHE UCCIDE

Ilva, l’acciaio che uccide

L’Italia – il posto una volta conosciuto come il Bel-paese – è punteggiata da Zone Interdette, ZoneRosse, Zone Proibite: oltre a L’Aquila, Taranto el’Ilva, il cantiere Tav in Val di Susa, Lampedusa e i

numerosissimi Cie sparsi per la penisola.Queste Zone, che disegnano un arcipelago, sono al tempo

stesso la struttura del presente distopico italiano e le micro-realizzazioni in questo presente di uno dei futuri del nostropaese e dell’Occidente. All’interno di questi spazi un futuroprecipita nel presente.

L’arcipelago delle Zone Interdette vive sovrapposto aquello delle microutopie, anch’esse concentrate nello spazioe nel tempo: i molti luoghi italiani in cui la cultura agisceper la trasformazione e non per la rimozione dei traumi,in cui la cultura ha avviato quei processi di ricostruzionedell’identità individuale e collettiva di cui abbiamo bisogno.Questi due esperimenti di futuro per il momento convivono:

Ilva, l’acciaio che uccide

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coesistono. In questo senso: Taranto è l’Italia; l’Italia è Ta-ranto.

c.c.

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Conversazione di Christian CaliandroParlano gli operai

Alessandro LeograndeIl groviglio, le scelte

Leonardo PalmisanoDal tramonto all’alba

CristòIl sapore dell’acciaio sporco

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ILVA, L’ACCIAIO CHE UCCIDE

Parlano gli operai

Conversazione di Christian Caliandro

I: Dove lavori tu?C: Insegno a Milano, scrivo libri e curo progetti culturali.I: Quindi non stai qui in paese?C: No. Torno durante le vacanze…I: Sei riuscito a fare quello che ti piace, no?C: Sì, anche se è un casino comunque. Fai quello ci ti piacefare, ma non hai alcuna garanzia.I: Viviamo alla giornata. Abbiamo sempre vissuto alla gior-nata, fin da quando eravamo piccoli, e continuiamo a farlo…C: Il fatto è che vivi e lavori sempre in condizioni fuori dallanormalità: e l’obiettivo sarebbe proprio quello di ristabilirele condizioni normali. Vedi in ogni campo quelli più grandiche si approfittano del tuo lavoro: loro hanno tutto e tu nonhai quasi niente, e questo è uno squilibrio assurdo, insoste-nibile. Credo che anche nel caso dell’Ilva ci sia un meccani-smo del genere: dall’idea che mi sono fatto, al netto di tut-

Parlano gli operai

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ti gli altri problemi, gli operai più giovani stanno scontandomolti problemi derivati dalla situazione precedente. Se nonci fossero stati quegli sprechi nei decenni passati, oggi for-se…I: Sai, prima era un bacino di voti, un «calderone» politico:oggi non lo è più. E quindi, essendo privato, bisogna lavora-re. Bisogna andare là e lavorare.T: C’erano molti più operai rispetto alla necessità effettiva.Però alla fine si sono arricchiti un po’ tutti, la gente stava be-ne… Il politico di turno chiudeva un occhio, così come i vari«controllori».C: Sì, io ho la sensazione che l’intero dispositivo mediatico einformativo costituisca una gigantesca distorsione prospet-tica di questo fenomeno. Quando leggi gli articoli sui quoti-diani o quando guardi i servizi nei tg, da più di un anno, vediquesti giornalisti che piombano a Taranto (senza probabil-mente averla mai sentita nominare prima), arrivano da al-trove, si fanno raccontare la vicenda in quattro e quattr’ottoda quelli che secondo loro sono i «protagonisti», elencanoqualche fatto di cronaca, e in tutto ciò gli operai diventa-no solo una nota di colore. Forse in questa maniera non so-lo non riusciamo mai a capire le vere ragioni di chi è den-tro questa situazione, ma non riusciamo mai ad attingernela realtà, a cogliere l’atmosfera psicologica: a vedere e a sen-tire quello che c’è.I: La sensazione è quella dell’attesa. Stiamo lì ad aspettare,e nel frattempo lavor… lavoricchiamo. Siamo in attesa. È

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un’attesa che ci distrugge, però dobbiamo stringere i denti eandare avanti – sperando che non ci licenzino. O che, peggioancora, l’Ilva chiuda: sarebbe una catastrofe. Non so, onesta-mente, se qualcuno stia valutando le conseguenze di un pas-so del genere, o se invece noi siamo solo numeri. Duemila fa-miglie su sessanta milioni di persone non sono niente… Vivicosì, sospeso. Non puoi fare un progetto per il futuro, nean-che pensare a domani. Non fine mese: domani. Domani, cheè lunedì, se lo chiamano scende a lavorare, se non lo chiama-no rimane nel letto a rigirarsi.C: E che succede se non ti chiamano?T: Senti, noi stiamo scontando le ore di ferie. Poi non lo so,una volta esaurito il monte ferie, se la cosa si prolunga do-vrebbe scattare la cassa integrazione. Perché, voglio dire…C: E quindi in questa sospensione c’è anche un sentimento dirabbia?I: No, ormai è passata la rabbia. Noi abbiamo cominciato acombattere già a marzo 2012, quando nessun politico o gior-nalista si è permesso di intervenire. Noi il 30 marzo stava-mo manifestando, ma come al solito non facevamo notizia enessuno se n’è accorto. Ormai adesso la rabbia è diventata…T: …rassegnazione. A lungo andare, l’attesa diventa stallo.Hai sempre una vaga speranza che la situazione si risolva,però cominciano le ansie, le paure – è normale – per il futu-ro. Poi, vabbè, un po’ di rabbia la avverti se pensi, anche senon ne hai la certezza, che sia stato un po’ tutto bloccato, pa-ralizzato in anni precedenti. Qualcuno sapeva che si sareb-

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be arrivati a questo punto; voglio dire, molte cose che si sa-rebbero dovute fare (ammodernamento degli impianti ecc.)sono state rimandate, hanno detto «no, aspettiamo, vedia-mo…». Uno magari non lo sa che cosa può realmente suc-cedere, poi adesso che stanno vedendo i blocchi della pro-duzione, i sequestri… Uno si dice: ecco perché non hannoportato avanti determinati lavori, perché si aspettavano unastangata.C: Ma se fossero stati portati avanti quei lavori, la stangatanon ci sarebbe stata.T: Sì, quello di cui tu parli è il processo di modernizzazionenel tempo, a lungo termine. Ma io ti parlo anche dei lavoriminimi, piccoli aggiustamenti: evidentemente non ne valevala pena.C: Cioè, hanno atteso che la situazione esplodesse.T: Ma perché il tira-e-molla è stato costante, con i media econ gli enti locali e nazionali. La corda è stata tirata al mas-simo. Noi abbiamo fatto una manifestazione in piazza a Ta-ranto a favore dell’azienda…I: Per difendere il nostro posto di lavoro. Il problema è chea Taranto siamo tutti colpevoli. Perché la politica, quandolo Stato ha venduto l’Italsider negli anni Novanta, non hamandato i controllori? Adesso in sei mesi si vuole chiuderel’intera fabbrica, quando solo per spegnere gli altiforni civuole un anno. Un anno. C’è tutto un processo di sicurezza,le temperature sono altissime, non è come il fornello di casa,che chiudi il gas e basta. È un intero ciclo produttivo. La no-

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stra domanda, da ignoranti, è: adesso ci siamo svegliati, tut-ti quanti? E in un periodo brevissimo vogliamo risolvere iproblemi di quarant’anni? Non mi sembra normale. Questimacchinari enormi richiederanno il loro tempo per essereaggiornati; certo, si può fare di più: tutti i giorni possiamofare di più, però ci deve essere il controllo da parte dei ma-gistrati, mentre dall’altra parte c’è qualcuno che si è forsecullato… oppure (noi pensiamo, perché non stiamo ai verti-ci, non sappiamo come funziona il meccanismo…), oppure civogliono venti-trent’anni per aggiustarli. Perché ogni inve-stimento non sono millecinquecento euro di marmitta cata-litica, ma otto miliardi di euro, che sono una cifra che io nonso neanche immaginare.C: Quindi voi – e tutti gli altri – che tipo di scenario vedete,prospettate nell’immediato futuro?T: Ci siamo già passati con la precedente cassa integrazione…Allora c’era l’inizio della crisi globale, e lì c’è stato un primotentativo di ammodernare gli impianti. Però si è dovuto ri-correre a questo… come posso dire… è stato tutto dovuto alfatto che c’era la crisi e siamo stati fermi… Questo ti fa capi-re quanto siamo messi male: brasiliani, cinesi, indiani hannoportato avanti negli ultimi anni e decenni piani industria-li molto avanzati. Magari con criteri non adeguati riguar-do alla sicurezza del e sul lavoro, le sue garanzie, la tuteladell’ambiente. Anche altre nazioni sono andate avanti, sonostate attente: la Germania e la Russia hanno impianti a nor-ma e anche… «accoglienti» rispetto a noi che abbiamo mac-

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chinari datati, alcuni almeno: alcuni nuovi e alcuni datati,che fanno fatica poi a mettersi al passo.C: E che tipo di rapporto c’è tra voi, gli operai della vostragenerazione, e quelli più anziani, che hanno vissuto tutte lefasi?T: Siamo quasi tutti della stessa età. I colleghi più anzianiche conosco vengono tutti da altre realtà, dismesse, fallite.Realtà industriali che sono state fatte implodere – e li hannoriassorbiti. E quindi comunque vengono da realtà diverse…quelli che sono rimasti.I: Per loro almeno la richiesta di lavoro c’era. Invece noi, do-ve andiamo?C: Non c’è…I: Dove andiamo? L’unica cosa è prendere le valigie e andarenei paesi in via di sviluppo, la Cina, l’India, il Brasile. Quellaè l’unica chance che ci rimane.C: Cioè, sfruttare il fatto di essere operai qualificati, e anda-re…I: …e andare là a insegnare. Imparare a conoscere quellerealtà.

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Mauro Staccioli, Le Balze, Mura Etrusche, Volterra, Sculture in città, 1972. Seielementi, legno verniciato, 300 x Ø 30 cm cad. (Foto Enrico Cattaneo).

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ILVA, L’ACCIAIO CHE UCCIDE

Il groviglio, le scelte

È possibile modificare la fabbrica?

Alessandro Leogrande

«My sweet Jenny I’m sinkin’ downHere darlin’ in Youngstown»

(Bruce Springsteen)

La vera linea di frattura che taglia in due Taranto non è tan-to la scelta tra salute e lavoro, come raccontano da oltre unanno i mass media. È un’interpretazione che ha il suo fa-scino, apparentemente chiara nella sua lampante dicotomia.Eppure è troppo semplicistico metterla così. Come se a Ta-ranto (in Italia, in Europa) ci fossero operai-ultimi-dei-mo-hicani disposti a prendersi qualsiasi tipo di sarcoma pur dicontinuare a colare ghisa. E come se – sul fronte opposto –ci fossero fanatici antindustrialisti che non tengono in nes-sun conto i costi sociali di una possibile chiusura dell’Ilva, lo

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stabilimento siderurgico più grande d’Europa, tuttora il pri-mo insediamento industriale del paese, più grande anche diciò che resta di Mirafiori. Certo, posizioni estremiste in uncampo o nell’altro ce ne sono. Tuttavia la città è segnata daun’altra faglia a geometria variabile che corre intorno a unadomanda cruciale: è possibile o meno, in tali condizioni, ri-formare questi impianti? È questo, in realtà, il dilemma su cuici si divide in varie posizioni (non necessariamente due). Edè un dilemma su cui riflettere, se si vuole capire qualcosa diTaranto.

Quella dell’Ilva non è semplicemente una vertenza «am-bientale». Non è solo un caso giudiziario. È piuttosto un gro-viglio economico, sociale, politico che affonda le sue radi-ci nell’industrializzazione novecentesca e nel suo fallimen-to, e che – perpetrandosi oggi – diventa a sua volta banco diprova per scelte future: quali idee di democrazia, di parte-cipazione ai processi decisionali, di industria possano convi-vere in questo lembo d’Europa nel XXI secolo. Cosa produr-re, quanto produrre, come produrlo… e soprattutto chi sono isoggetti che possono e devono argomentare tali scelte.

Ma, per arrivare a discutere tutto ciò, bisogna riflettere– ancora una volta – sulla domanda da cui tutto discende:quella fabbrica è riformabile? Finora ho sempre pensato disì, per almeno due motivi. Il primo è che dalla miglior tra-dizione del movimento operaio è recuperabile l’idea secon-do cui il lavoro che non ci piace non va rifiutato luddisti-camente, bensì trasformato (e quindi liberato) modifican-

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do i rapporti e i luoghi di lavoro. Il male di Taranto è statoin gran parte determinato dall’accettazione acritica nondell’acciaio, bensì di quel modo di produrre acciaio, specie neiquindici anni di gestione Riva. In Germania, in Austria, inCorea del Sud si produce acciaio in maniera molto diversa,ad esempio… Il secondo è che – ne sono convinto – chiuden-do oggi l’Ilva, lo scenario più probabile che ne verrebbe – aldi là della crisi occupazionale che si aprirebbe come una vo-ragine – non è la bonifica, ma lo spettro di Bagnoli: una vastalanda postindustriale, senza bonifica, senza lavoro, senza al-ternativa.

E allora, poiché lo status quo è inaccettabile, la domandanon può essere aggirata: è possibile trasformare l’Ilva? Ver-ranno realizzati i necessari ammodernamenti degli impian-ti? Si copriranno i parchi minerari e i nastri trasportatori? Sirifaranno le batterie della cokeria, gli altiforni, le acciaierie?Si compirà davvero (come auspicato dalla legge Ilva, e dalpiano industrial-ambientale che dovrebbe essere presentatoin autunno) questo percorso?

I prossimi mesi, dall’autunno fino alla primavera del 2014,sono il vero banco di prova. In tale arco di tempo risulteràevidente se un cambiamento è realmente possibile. In casocontrario la città sarà nuovamente dilaniata dalle sue con-trapposizioni, e la tesi della irriformabilità della fabbrica siinvererà, risucchiando ogni cosa in un enorme gorgo. Non èdetto che tale scenario sia irrealistico. Anzi: la crisi economi-ca e le incertezze del mercato dell’acciaio, l’assenza di clas-

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si dirigenti locali e nazionali che possano dirsi tali, lo stranolimbo prodotto dallo stallo politico, sono tutti potenti alleatidi un possibile scenario catastrofico.

Al di qua della domanda principe (è possibile modificarela fabbrica?) continuano poi a vivere la città e i suoi operai.Paradossalmente, sono proprio loro – cioè la più grande con-centrazione operaia in un’Italia sempre più deindustrializ-zata – i meno raccontati di tutti. Tale rimozione spiega mol-to della nostra incapacità di guardarci allo specchio. Non so-lo a Taranto, ma in tutta Italia: la rimozione della questioneoperaia è un enorme processo che attraversa l’ultimo ven-tennio – tanto quanto il trionfo del berlusconismo.

Eppure, osservando proprio il laboratorio Ilva, si possonocapire molte cose. L’inquinamento devastante è stato innan-zitutto il prodotto di devastanti relazioni di lavoro. Chi, co-me me, ha iniziato a raccontare i nuovi operai assunti dalcolosso privatizzato alla fine degli anni Novanta, mentre pa-rallelamente si palesava lo scandalo dell’istituzione di unreparto-confino per i più recalcitranti tra gli «anziani» (equindi: i contratti di formazione lavoro, l’impatto con gli im-pianti, l’eccesso di straordinari, la virulenta desindacalizza-zione, gli infortuni costanti, il numero incredibile di mortiper incidenti ancora prima che per tumore…), si è trovato adescrivere una fabbrica sull’orlo del caos, tra fumi e manca-te manutenzioni, abitata da una generazione profondamen-te diversa da quelle precedenti, irreggimentata in una gab-bia disciplinare ultramoderna.

Il groviglio, le scelte

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Chi sono i giovani operai dell’Ilva (età media trent’anni,assunti quando ne avevano venti o poco più)? Cosa pensanodella politica o del sindacato? Come vivono? Dove vivono:in città o nei paesi della provincia? Cosa sognano? Di cosa siammalano quando si ammalano? Perché si incazzano quan-do si incazzano? Perché sovente stanno zitti? Perché in ge-nere pensano che questo lavoro sia meglio di altri?

Ogni volta che non ci si è posti queste domande, l’enormecampana di vetro che avvolge l’intera questione Ilva ha ir-robustito le sue pareti. E questo non è un problema politico-sindacale. Riguarda innanzitutto noi: i libri che potevano es-sere scritti e non sono stati scritti, le inchieste che potevanoessere fatte e non sono state fatte, i romanzi che potevanoessere ideati e non sono stati ideati. La gran mole di paginescritte su Taranto negli ultimi anni sfiora appena tale que-stione.

In un noto reportage scritto nel 1979 Walter Tobagi evocòla categoria del «metalmezzadro» per spiegare la strambaclasse operaia che era sorta nell’Italsider di Taranto: non an-cora pienamente staccati dal passato contadino, quegli ope-rai erano stati inseriti in un ciclo produttivo calato dall’alto.Si erano così prodotte le condizioni per l’alienazione futura.Ciò nonostante quella fabbrica di Stato, tra mille sperperi,aveva prodotto maestranze, una cultura del lavoro e dei di-ritti a esso connessi. Aveva prodotto anche un tasso di sin-dacalizzazione molto elevato: intorno al 90% dei dipendenti.

Il groviglio, le scelte

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Oggi appena il 40% degli operai ha una tessera sindacale.L’Ilva è in gran parte una fabbrica non rappresentata, nonsolo per errori e ritardi dei sindacati, ma soprattutto perchécosì ha voluto la dirigenza Riva: favorendo massicciamenteassunzioni in cambio della non-iscrizione, e quindi co-struendo un rapporto diretto tra i vertici e il singolo dipen-dente. La stessa categoria di «metalmezzadro» oggi andreb-be rivista, dal momento che in uno scenario mutato sonostati fatti molti passi indietro.

A costo di apparire retrò, vorrei ribadire ancora una voltache l’inquinamento è la manifestazione esterna dei rapportie dei modi di lavoro interni alla fabbrica. E che per abbatterel’inquinamento vanno anche abbattuti quei modi. Sarà pos-sibile farlo? Benché le ombre siano ancora molte, con il com-missariamento una fase di privatizzazione scellerata si èchiusa. Nei prossimi mesi la strada sarà tutta in salita. Den-tro e fuori la grande fabbrica.

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Il groviglio, le scelte

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Ilva, l’acciaio che uccide

Conversazione di Christian CaliandroParlano gli operai

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Il groviglio, le scelte

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ILVA, L’ACCIAIO CHE UCCIDE

Dal tramonto all’alba

Dalla fabbrica alla città

Leonardo Palmisano

«Lavoro, poco maleperò mi so arrangiare.

Tutto il giorno all’altofornosenza andata né ritorno»

(Daniele Di Maglie, cantautore tarantino)

Il tramontoQuando apro la mia vecchia Treccani e cerco Taranto, trovouna cartina in bianco e nero di tanti anni fa che ancora peròs’attaglia alla città. Due occhi convergenti come quelli di uncomico, due ali d’una falena bruna, due valve… I due mari. Eun viluppo di strade che come lame di sciabola si congiungo-no sul ponte girevole. Il ponte che raccoglie le vite dei taran-tini che da fuori vanno dentro, dove più reale è il tramon-

Dal tramonto all’alba

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to del luogo, dove il giorno si spegne al di qua dell’Ilva. Difiammeggiante alcune città come Praga hanno il gotico, unsistema architettonico che dimora nelle cattedrali e nei ca-stelli e che serve ancora a dare movimento alle volute dellecolonne portanti di amplissimi saloni e navate. A Taranto difiammeggianti ci sono almeno due cose: le vampe di fuocoche s’innalzano intermittenti dai fumaioli e il sole che si ri-flette sugli scorticati muri del vecchio borgo e del rugginosoquartiere dei Tamburi. Questa città è un panorama di con-trasti tra colori: blu, rosso, nerofumo, ruggine. Ed essa stessaè l’occhio nel quale si specchia il Sud che non ce l’ha fatta adiventare Nord. Un occhio sofferente e glauco che vorrebbechiudersi su se stesso per nascondere al Mediterraneo la pe-na del fumo che sale come una grande lacrima grigia controil blu carnoso e sensuale del cielo sopra il mare Jonio.

L’arrivo a Taranto da Bari è preceduto da una cartolinache dal Novecento, dal secolo scorso, si stampa sull’occhioinesperto dell’automobilista. Una piana che arriva al mareirta di comignoli di altezza variabile e di braccia meccanicheche come dinosauri in pensione stanno lì, arrampicati sulcielo, incombenti sulla città come robot pronti ad animarsiper un’invasione barbarica o per l’attacco di una tribù mes-sapica, antica e cattiva. Taranto è la fotografia della storia edella preistoria, la fabbrica e l’antichità che non si devonodimenticare mai. Ci si arriva da una strada ampia, scorrevo-le, soltanto a tratti ristretta per l’incuria degli amministra-tori, dell’Anas, di chissà quale altro ente sovrumano che si è

Dal tramonto all’alba

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strutturato nella corruzione delle Puglie democristiane e so-cialiste. Dopo aver lasciato la noiosa pianura barese ci si im-mette, scendendo, nell’arteria che porta l’automobilista co-me un globulo rosso carico d’ossigeno a intossicarsi passan-do sotto il rullo trasportatore del cuore acceso dell’Ilva, sulquale campeggia un ironico cartello di benvenuto. Se la cit-tà fosse un’altra o meno molle, il suo occhio avrebbe già as-sorbito il collirio ocra e gelatinoso che la ricopre. Invece vi-ve nel suo morente tramonto infiammata dalle arrabbiaturedei tarantini per bene, ma fiaccata dall’incoscienza desolan-te dei suoi amministratori.

Il tramonto, qui, è di una portentosa schiettezza. Tutto ilbello e il brutto guerreggiano in un tramonto elettrico, gas-soso e fordista. Mentre altrove, a Bari o a Palermo, ogni tra-monto è scettico come scettico è il sole nel suo percorso se-rotino, a Taranto la gagliardia del lume solare esplode in unultimo lento colpo di cannone proprio al tramonto, quandola città fordista prende il sopravvento su quella antica con lemille luci da presepe e le bocche aperte dei crateri fumantidell’Ilva. Come spronate da una vendetta antica, le tante ar-chitetture della città finalmente emergono alla vita solo inquei brevi minuti di tramonto. Spiccano come falli eretti ocome capezzoli eccitati da un sole lascivo e morente. Questoè il tramonto delle chiese del Borgo Vecchio che si eclissanoin pochi istanti sopraffatte dalla luminescenza ineluttabiledella cattedrale dell’acciaio.

Dal tramonto all’alba

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La notteLa notte tarantina è silenziosa come una timida agonia. Lacittà vecchia dorme con un occhio aperto, al pari d’un felinosempre pronto a ingoiare una preda tra i vicoli lucidi dovequalche ragazzetto di strada sosta fuori dei radi locali.

Ai Tamburi si dorme sui cuscini impolverati dal fumo, sirespira l’aria espulsa dal mostro, si inalano veleni e morte.Negli altri quartieri ci s’inebetisce davanti alla tivù o perstrada, in giro, alla ricerca di un’idea, di un avvenire, di unoscampolo di lavoro dentro il quale rimettere insieme i coccidi un disastro prima di gettarli via per sempre.

La notte tarantina porta consiglio? Nei mari la raccoltadelle cozze si estingue come la pesca in mare aperto. In cen-tro i turisti non ci vengono più, se non per caso, e i mari-nai scodinzolano dietro a qualche ragazza senza pretenderetroppo. La città vuole scuotersi, certo, ma per fare cosa? Ilsilenzio ogni tanto è interrotto dalla sirena di una nave mer-cantile, il buio spezzato dalle luci del porto e della fabbrica.Qualche motoscafo si lancia coraggioso oltre il Mar Piccolo,sotto il ponte girevole, per approdare chissà dove, portandochissà quali passeggeri, chissà quale nostalgia. Come nei filmdove la tristezza è calma e la tempesta è passata, Taranto vi-ve la sua ultima lunghissima notte. Nel diverbio della politi-ca e della corruttela, ciascuno ha il suo dire e il suo sognaresulla città. Ma nessuno osa ancora dire che domattina, al ri-sveglio, la città potrebbe essere morta.

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I Riva non mollano l’affare, il governo non sa come com-portarsi, i magistrati insistono, qualcuno è insorto sponta-neamente, la politica è distante, i sindacati obiettano e di-scettano, eppure un sogno o un progetto questa lunga nottenon riesce ancora a partorirlo. Sarebbe bello svegliarsi sen-za più distrazioni, con la certezza di avere davanti vent’anniper chiudere l’acciaieria, smontare il mostro, riprendere fia-to e fare un’altra città. Ma come? La seconda città della Pu-glia non riesce a sognarsi diversa da com’è adesso. Ogni tan-to si scuote, con un sussulto, come un vecchio dal sonnoleggero. Ogni tanto la cronaca raccoglie un’idea: facciamodell’arsenale un grande hub per idee, un museo d’arte con-temporanea, un centro di stoccaggio per innovazioni e im-prese; dell’Ilva un centro come il Lingotto di Torino; del por-to il più grande approdo del Mediterraneo; della città vec-chia e degli Ori l’attrazione turistica più importante dello Jo-nio. Bello… Tutto bello. Chi lo fa? E come? E i mesi passa-no… I bambini dei Tamburi ingrassano al latte di piombo sul-le mammelle delle mogli degli operai, mentre i padri si sa-turano i polmoni di polveri e cancro. Le lastre d’acciaio ar-rugginiscono sulle banchine come enormi covoni. Le prote-ste muoiono e il carro della luna piano piano scompare oltrel’orizzonte col suo carico di incubi e pensieri.

L’albaPoi la città si sveglia con lo sbadiglio di un bambino. I primidentini, la lingua rosa e la speranza di vivere, conoscere,

Dal tramonto all’alba

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crescere. La fabbrica spenta c’è ancora, testimonianza di unpassato estinto, ma il bambino è tenuto sotto costante mo-nitoraggio, portato in un parco e al mare a respirare pulito.Le scuole più lontane dall’Ilva raccolgono finalmente i figlidei Tamburi e li trattengono tutto il giorno assieme agli al-tri, sì da dar loro respiro. Sul mostro giovani tarantini hannofatto una città delle scienze, dell’accoglienza, dell’arte, dellacultura, del cinema industriale, dove chiunque può evocarel’idea dell’industria senza rimetterci la pelle. Dalla fabbricaalla città il percorso è sportivo, ciclabile, pedonale, e da lì,senza soluzione di continuità, entra nell’isola della città vec-chia, dove le chiese, le case, le botteghe artigiane, i locali sisusseguono animando un luogo altrimenti morto.

Nei palazzi antichi requisiti dal Comune persone d’ogniparte del Mediterraneo hanno dato vita a un grande accele-ratore di competenze, a luoghi semplici dove un nuovo sen-so di comunità si è innestato sul vecchio ripristinando la re-gola del controllo sociale orizzontale, non repressivo, nonpoliziesco o mafioso, ma conviviale. E sempre da lì, attraver-sando altri pezzi della città, nel vecchio Arsenale si è stabili-ta un’importante Università del Mare – con una fiorente Fa-coltà di Medicina, con le sue cliniche dedicate alle patolo-gie del fordismo seminate nella città, associata all’Universitéde la Méditerranée di Aix-en-Provence e Marsiglia, dove stu-denti egiziani, turchi, greci, libici, tunisini, italiani, spagnoli,francesi, albanesi ecc. si fanno un’idea di questo bacino nelcuore del bacino stesso, studiando sul lungomare, sotto om-

Dal tramonto all’alba

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brelloni e pannelli fotovoltaici, passeggiando nei Peripatidella nuova Taranto. E i pescatori, gli allevatori di mitili, ivecchi «metalmezzadri» ora riconvertiti in operatori del be-nessere, guide turistiche nel ventre del mostro sconfitto, la-vorano ovunque per una nuova economia, etica e sociale,che dall’ex Ilva innerva la città. Quindi il porto straripa dituristi portati a rivivere l’antichità e la modernità, con tra-sporti agili e leggeri, a impatto zero. Dal porto al mostro uc-ciso, dal mostro alla città rinata: strato su strato, epoca suepoca, stile su stile, tutto si tiene nella nuova città. Mentrevelocemente il sole si alza, apre il suo occhio imponente cheda Brindisi – da est – raggiunge Taranto e la copre, la irradia,la sana illuminando i due mari come ali blu di una meravi-gliosa farfalla Icaro.

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CristòIl sapore dell’acciaio sporco

Ilva, l’acciaio che uccide

Conversazione di Christian CaliandroParlano gli operai

Dal tramonto all’alba

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Alessandro LeograndeIl groviglio, le scelte

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Dal tramonto all’alba

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ILVA, L’ACCIAIO CHE UCCIDE

Il sapore dell’acciaio sporco

Cristò

Taranto è una città lontana che sta su un altro mare eche ha un dialetto ispido. Per uno di Bari, in genere,è così. Ottanta chilometri scarsi, ma verso la Cala-bria, la Basilicata. I centocinquanta di Lecce sono

una passeggiata al confronto: sono tutti sullo stesso mare.Invece per andare a Taranto devi venire a patti col fatto cheesiste un’altra Puglia, anzi due: una senza mare e una su unaltro mare.

Le Puglie che inerpicano i paesi sulle alture e poi li ridi-stendono sullo Ionio fanno paura, in genere, a uno nato aBari, gli danno un senso di spaesamento. Qui non sappiamoquasi niente di Taranto, le notizie che ci arrivano dal tele-giornale o che leggiamo online ci interessano solo per la loroportata nazionale, come se non fosse cosa nostra. Parliamodella questione «salute o lavoro» come se non fosse anche lanostra salute e il nostro lavoro a essere messi in discussione,

Il sapore dell’acciaio sporco

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come se fosse solo un esercizio ideologico, come se stessimofacendo un’indagine sociologica.

Guardiamo sui canali nazionali la gente che protesta, i pe-diatri che testimoniano la morte di bambini per tumore bensopra la media nazionale, le vedove e gli orfani dei Tamburi,e pensiamo al fatto che la settimana scorsa abbiamo mangia-to tutte quelle cozze tarantine, piccole ma piene, e speriamoche non fossero contaminate. Invece quelle facce sembranolontane, molto più lontane dello studio televisivo di Roma dacui si sta trasmettendo il collegamento esterno. Le immagi-ni di quei volti e i suoni di quelle voci partono da Taranto epassano da Roma prima di venire a Bari; potrebbero arrivareda qualsiasi posto del mondo e sembrerebbero ugualmentelontane.

Incontri il tuo amico tarantino che vive a Bari dai tempidell’università e che è uno di sinistra, uno che si interessa, einvece scopri che sa le stesse cose che sai tu e che sanno tut-ti, nonostante sia cresciuto ai Tamburi, nonostante abbia vi-sto la polvere nera poggiarsi quotidianamente sul balcone dicasa sua. A parte i suoi ricordi d’infanzia e adolescenza nonti sa dire nulla di nuovo, nulla di diverso. Taranto è trop-po lontana anche per lui. È lontana nonostante le libreriesi riempiano anche a Bari di libri sul caso Ilva, con gli edi-tori locali che si affannano a inseguire quelli nazionali, no-nostante i titoli in prima pagina della «Gazzetta del Mezzo-giorno», nonostante i dibattiti cittadini e gli incontri pubbli-ci con oncologi, sindacalisti, reporter, assessori, ambienta-

Il sapore dell’acciaio sporco

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listi, scrittori, cantautori e operai. Nonostante tutto questoTaranto resta sempre e solo una notizia, non è mai una feri-ta aperta, una questione personale.

Da questo punto di vista la distanza psicologica tra Bari eTaranto mi sembra emblematica di un meccanismo tipico diquesti ultimi anni, un sentimento più o meno comune chechiamerei «interessato disinteresse». A Bari non facciamoaltro che chiederci perché i tarantini non insorgano davve-ro e continuiamo a chiedercelo anche quando i tarantini in-sorgono. Ce lo chiediamo come se noi fossimo osservatoriesterni, come se facesse così tanta differenza abitare a ottan-ta chilometri dall’Ilva piuttosto che nel quartiere Tamburi.Nello stesso modo ognuno di noi continua a chiedersi perchéquesta nazione non sia ancora insorta contro la plateale in-capacità di un apparato dirigente corrotto e arrogante. Ce lochiediamo come se non spettasse a ognuno di noi comincia-re, non dico ad alzare le barricate, ma almeno a pretenderecon fermezza quello che ci è dovuto. Continuiamo a dibatte-re sulla scelta «salute o lavoro» e non consideriamo neanchel’ipotesi che averli entrambi sarebbe il minimo accettabile,che bisognerebbe pretenderlo.

Però ogni volta che vai a Taranto ti stupisci di quantosia bella, e attraversare il ponte girevole con la macchinati fa sentire bambino, ma è l’Ilva a darti il benvenuto el’arrivederci e, mentre ti allontani sulla strada verso Bari, ciòche ti è rimasto dentro è il sapore dell’acciaio sporco che co-pre tutto, e la città non te la ricordi più.

Il sapore dell’acciaio sporco

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Mauro Staccioli, Piramide 38° Parallelo, Fiumara d’Arte, Motta d’Affermo, 2010.Acciaio Corten e calcestruzzo, 3000 x 2200 cm. (Foto Luca Guarneri).

Altri percorsi di lettura:

Ilva, l’acciaio che uccide

Conversazione di Christian CaliandroParlano gli operai

Alessandro LeograndeIl groviglio, le scelte

Il sapore dell’acciaio sporco

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Leonardo PalmisanoDal tramonto all’alba

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Il sapore dell’acciaio sporco

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EDITORIA INDYEUROPEA

Editoria Indyeuropea

Gli interventi presentati in questo nodo di «alfabe-ta2» sono spunti di riflessione per la preparazionedel primo convengo europeo dell’editoria indipen-dente, che si svolgerà a Roma nella primavera 2014.

Un primo momento di confronto sulle problematiche chelegano l’editoria indipendente e l’editoria di progetto in ge-nere si è tenuto a Madrid nel maggio 2013 per iniziativadell’associazione di editori spagnola Contrabandos.All’incontro madrileno hanno partecipato, oltre a numerosesigle editoriali spagnole, anche editori e collettivi francesi,inglesi e italiani. Base del dibattito erano l’appello del Col-lettivo francese 451, redatto da un gruppo eterogeneo di at-tori della filiera del libro (librai, redattori, tipografi ecc.) epubblicato nell’autunno 2012, e il manifesto degli editori in-dipendenti dell’osservatorio Odei presentato a Roma nellostesso periodo per iniziativa di più di settanta case editrici.Dall’incontro di Madrid è emerso con flagranza che le pre-messe del lavoro editoriale sono, in Europa e non solo, ovun-

Editoria Indyeuropea

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que le stesse: concentrazione della filiera del libro, fenomenidi monopolio, finanziarizzazione, impoverimento della qua-lità a favore di un’editoria mass market, tagli ai diversi presi-di del libro e della cultura in nome della riduzione delle spe-se statali…

Obiettivo dell’incontro di Roma della primavera 2014 è lastesura di un «manifesto europeo» dell’editoria indipenden-te e di progetto che, a partire dall’analisi delle comuni con-dizioni della produzione culturale nei diversi paesi, immagi-ni forme e strumenti di valorizzazione di un patrimonio dibibliodiversità da preservare e da promuovere.

I.B.

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Ilaria BussoniLibri a qualunque costo

Collettivo 451La querelle dei moderni e dei moderni

Alfonso SerranoPer farla finita con le briciole

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Editoria Indyeuropea

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EDITORIA INDYEUROPEA

Libri a qualunque costo

Per una critica al mass-market editoriale

Ilaria Bussoni

All’automobilista autostradale vacanziero in viaggioper l’Italia nell’estate 2013 non sarà sfuggita, tra unCamogli e un’offerta Toblerone 2 × 3, l’occasione deilibri a 0,99 centesimi di euro, con tanto di esposito-

re, disponibili negli autogrill (ma anche in libreria per chinon andasse in vacanza). Non una scopiazzatura in euro delfamoso «millelire» in auge a cavallo tra anni Ottanta e No-vanta, spillato, senza dorso, un foglio di carta 70 × 100 ripie-gato su se stesso, autocopertinato, copyright del genialeMarcello Baraghini. No, stavolta è un libro vero: svariatecentinaia di pagine, un dorso, una copertina di cartone a co-lori e persino un espositore a misura nel quale far entrareclassici e non solo, spesso in traduzione. Tiratura un milione

Libri a qualunque costo

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e mezzo di copie, sbandiera lo stesso editore che li promo-ziona come «libri anticrisi», di che fare invidia alla tiraturadelle pagine gialle.

Un’idea editoriale contro quale «crisi», per la precisione?Senz’altro non quella delle librerie indipendenti (scarsinesull’A1 e sulla Salerno-Reggio Calabria), ormai alla canna delgas per il calo di vendite e le condizioni economiche fuoriparametro; non quella delle case editrici indipendenti, chesemmai possono limitarsi a guardare sbavando l’audace ini-ziativa di un collega che, nonostante lo slogan della sua ca-sa editrice, indipendente del tutto non è più; non quella del-le tasche dei lettori (parola diversa da acquirenti) che buonaparte dei classici lì riprodotti gli sarà già capitato di leggerlie di averli in casa, forse dalle scuole medie. La retorica mar-keting vuole che gioverebbe al non-lettore, a colui che nonlegge, che passa in libreria solo per caso, che non va in bi-blioteca, che ha finito di comprare libri il giorno della tesi dilaurea, questo sì un potenziale acquirente. Da qui la specifi-ca missione culturale degli autogrill dell’estate 2013: alfabe-tizzare, diffondere letteratura, riportare al libro chi preferi-va il Toblerone (costa molto meno!), alla faccia di Marc Augée dei suoi non-luoghi.

Nonostante il neoliberismo ci abbia da tempo abituati alla«corsa al ribasso», non solo del costo del lavoro salariato maanche del costo di qualunque bene di consumo, con un librodi carta, nuovo, stampato, magari pure tradotto, infilato inun pacco, spedito e messo su un apposito espositore, a 0,99

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euro, si arriva pressoché all’apice: oltre questo c’è solo lagratuità. Certo, non è una logica nuova, la si era già vista congli allegati editoriali dei grandi giornali: piccolissimi margi-ni di guadagno su una grandissima tiratura e un’enorme di-stribuzione possono fare molto profitto. E di questo si trat-ta: di un’idea commerciale che sa usare la grande distribu-zione organizzata, una buona logistica, le librerie di catena ei luoghi ad altissima frequentazione per vendere una merceche a produrla costa tot, per ricavarne un tot in più; non diun’iniziativa per la diffusione della lettura. E di per sé non èaffatto uno scandalo. Ma lo specifico paradosso del libro inquanto merce è che per vendersi deve ancora ammantarsi diqualcosa in più, deve darsi un’aura, continuare a dire a quelpo’ di lettore che resta nell’acquirente: «Guarda che non so-no solo una merce». Per venderlo, non basta che costi poco.Diversamente da un’offerta di Toblerone, che non ha biso-gno di spacciarsi per un’iniziativa contro la fame nel mondo.

Eppure, solo della merce-libro, solo di un supporto di car-ta con dentro parole messe in fila, si continua a supporre chesia ben più di una merce con un prezzo fisso, che abbia unvalore aggiunto non misurabile incorporato, che in qualchemodo, per chi lo compra, se lo tiene e semmai se lo legge,abbia un beneficio superiore al prezzo di vendita, insommache faccia bene. Tutte le iniziative di promozione della let-tura battono su questo punto: leggere a qualunque costo. Aprescindere dal libro, dal suo autore, da come sia fatto, da

Libri a qualunque costo

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dove sia stato prodotto, da quale sia la sua distribuzione, daquali attori coinvolga, dalle condizioni della sua produzione.

In ambito agroalimentare, ormai lo sanno anche i sassiche comprare verdure al supermercato non è uguale a com-prarle in un mercato a filiera corta o attraverso un gruppod’acquisto. Non perché siano necessariamente più buonequelle del mercato (ma quasi sempre lo sono), ma perché unsistema distributivo in grande scala ha un impatto notevo-le su tutta la filiera, al punto da determinare le condizioniin cui si produce, la scelta di cosa produrre, da influire (alribasso) sui margini di guadagno di chi produce aumentan-do quelli di chi distribuisce, da costringere il produttore aun’uniformità del prodotto. Perché la grande distribuzionenon può accettare le differenze: può accettare la differenzadi un brand, il biologico ad esempio, ma a condizione che siatutto uguale. Ed è proprio in virtù di queste differenze, a vol-te buone, a volte no, che chi non può o non vuole coltivareverdure a queste condizioni, e chi non ne può più o non vuo-le più mangiare verdure tutte uguali, sceglie di incontrarsiin un luogo diverso, in un altro mercato.

Perché per il libro dovrebbe funzionare altrimenti? Per-ché la distribuzione di una produzione editoriale massifi-cata, diffusa in grande scala e venduta negli autogrill, neisupermercati o nelle librerie in franchising dovrebbe averecondizioni diverse? E infatti non ne ha. Identico è l’impattosulle scelte di cosa produrre, identico quello sull’erosionedei margini dell’editore a vantaggio di chi distribuisce e ri-

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vende, identica la corsa al ribasso sui costi (tipografia, lavoroeditoriale…) legati alla produzione, identica l’economia discala che funziona solo se in grande, che funziona solo conuna logistica integrata che da subito prevede il macero(esattamente come per le arance), spesso identico l’effettosul consumatore che si «abitua», anche editorialmente, sem-pre allo stesso gusto. Diversa, invece, resta la percezione delprodotto: quell’alone di miseria gustativa e iniquità socia-le che ormai accompagna la produzione agroindustriale nonsi applica all’industria culturale destinata alla produzione diun libro. E per quel lettore al quale venisse il dubbio di con-siderare una semplice merce un vero libro, seppure piazzatoin un supermercato, seppure a un prezzo irrisorio, a conte-nere il suo dubbio se davvero valga qualcosa in più del prez-zo esibito, se davvero abbia ancora un valore-libro oltre cheun valore-merce, beh, a questo pensa il marketing: costa po-co, perché è un libro anticrisi. Costa poco ma vale molto,perché comunque è un libro!

È allora sorprendente che oggi in Italia non esista nem-meno l’abbozzo di un discorso sulla differenza editoriale, suquell’editoria che nella sua proposta culturale o nelle sueforme di produzione prova (non sempre riuscendoci) a con-servare il segno di una differenza. Su quell’editoria che nonimpatta il mercato editoriale con una logica del «è tuttomio» e che non muove la leva del prezzo, o dello sconto li-brario, come una clava. Su quelle librerie che non sanno chefarsene dei libri anticrisi, perché anche a venderne cento co-

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pie guadagnerebbero qualche decina di euro. Su quelle li-brerie e quelle proposte editoriali che non puntano per for-za (perché non vogliono o non possono) sul mass market,sul miglior prezzo, e che ancora si pongono come media-tori culturali, che si sforzano di tenere insieme il valore-li-bro e il valore-merce e che sanno vedere cosa li distingue. Èsorprendente che le istituzioni pubbliche nemmeno si sianoaccorte che il problema della non-lettura affonda anche inqueste premesse. Come se con l’obesità statunitense McDo-nald’s non c’entrasse affatto!

Eppure, forse non ancora per molto, anche nelle nostrecontrade rimane chi si è inoltrato nell’avventura editorialeper ragioni diverse dal non aver trovato adeguato impiegonella gestione immobiliare. Non tutta l’editoria è anticipibancari, fattorizzazione, finanziarizzazione, algoritmi divendita, sell-in, sell-out, buyers, merchandising, franchi-sing, stock, flussi… Ancora qualche libraio e, nonostante tut-to, non pochi editori provano a tenere duro su progetti cul-turali (missioni? vocazioni? ossessioni?) che continuano aesistere nonostante le pastoie di chi organizza il mercato.Chi ha orrore del Novecento può continuare a dormire tran-quillo, la critica delle condizioni della produzione culturalein ambito editoriale non coincide con la trasformazione del-le librerie in soviet e delle case editrici in tribunali del po-polo. Formulare una critica del mercato editoriale, delle suelogiche spesso antieconomiche, delle sue dinamiche dilapi-danti interi patrimoni culturali e interi bacini di lettori, e

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persino indicare degli agenti responsabili o designare alcu-ni dei fattori dannosi che ne sono all’origine, non significaproporre la logica del baratto o della nazionalizzazione dellafiliera editoriale. Persino le banche e i banchieri, financhela finanza e le assicurazioni riescono ad accettare la parola«critica», non foss’altro per bon ton o perché vienedall’illuminismo, che è difficile rinnegare.

Quanti oggi provano a formulare una critica delle condi-zioni di lavoro, di circolazione, di produzione, di fruizionedel libro nella filiera editoriale sono appunto quei soggettiche ritengono ancora possibile (e urgente) trovare strumen-ti per arginare quella corsa al ribasso endogena al neolibe-rismo che si abbatte (peraltro in modo alquanto maldestro)sulla nuova frontiera dei prodotti culturali. Cosa che, con di-versi gradi di intensità, avviene grosso modo ovunque in Eu-ropa e non solo. Se contadini, vignaioli, coltivatori e con-sumatori (o meglio coproduttori) hanno trovato più modiper segnare una differenza, costruendo le condizioni di al-tri mercati e di altre produzioni, forse ci riusciranno anchegli intellettuali impiegati nell’editoria e coloro che per il mo-mento si ostinano a definirsi lettori. Magari, oltre il ristret-to orizzonte dell’italianità, urge un incontro dell’editoria in-dyeuropeo.

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EDITORIA INDYEUROPEA

La querelle dei moderni e dei moderni

Rimettere in discussione il modoin cui lavoriamo

Collettivo 451

Quella che pubblichiamo è una versione ridotta del testo La que-relle des modernes et des modernes, redatto dal Collettivo francese451. Il Collettivo 451 è l’autore dell’Appello dei 451 pubblicato dalquotidiano «Le Monde» il 6 settembre 2012, di riflessione e criticasulla situazione della produzione culturale relativa al libro in Fran-cia. Fanno parte del collettivo vari addetti del mondo editoriale,da correttori di bozze a stampatori, passando per agenti commer-ciali e bibliotecari. Alla pubblicazione dell’appello, per altro sot-toscritto da decine e decine di intellettuali e scrittori, è seguitoun intenso dibattito poi sfociato nell’opuscolo La querelle des mo-dernes et des modernes, disponibile in versione integrale inhttp://les451.noblogs.org

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Una delle dimensioni essenziali del libro è quella diessere una merce, della quale il pensiero è materiaprima. La sua concezione, produzione, foliazione,rilegatura, diffusione, distribuzione, vendita, fino

all’acquisto, avvengono a partire da ciò che autori ed editorihanno pensato: e ciò accade tanto per la ricetta di cucinaquanto per la teoria fenomenologica passando per i versi inrima. Viene poi fabbricato con macchinari e computer,stampato con inchiostri chimici su carta proveniente da fo-reste. Se ne fa la pubblicità. Lo si vende nuovo. Lo si scambia,lo si ruba, ci si specula sopra. Lo si rivende d’occasione. Poi,macerato e riciclato, lo si rivende di nuovo. Come tutte lemerci, il libro è inscritto nella società capitalistica e generasia valore che sofferenza.

Uno dei miti che intendevamo contestare con l’Appello dei451 risiede nella diffusa illusione che le idee sarebbero se-parate dall’economia, che se ne starebbero lì ad agitarsi inun mondo etereo, sconnesso dalla realtà. Laddove un’idea,uscendo dalla sfera dell’intimità e del privato, diventa un og-getto suscettibile di essere trasformato, diffuso, negoziato informe artigianali o industriali, dentro economie globalizzateo filiere corte. Per questo abbiamo paragonato il libro a unpomodoro: per ribadire la necessità di una riappropriazionedei saperi pratici all’interno dei quali si inscrivono le produ-zioni intellettuali.

È infatti possibile fare un parallelo pertinente tra la storiadella produzione agricola e quella del libro: in entrambi i

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settori ritroviamo gli stessi processi di massificazione, di ab-bassamento della qualità, di aristocraticismo del gusto e diconcentrazione monopolistica. Oggi la filiera del libro è ar-ticolata, ad esempio, intorno al problema della distribuzio-ne, settore decisivo che spesso impone i propri interessi aglialtri attori, agli editori a monte, ai librai a valle: situazio-ne che ricorda quella meglio conosciuta delle grandi catenedi distribuzione agroalimentare, delle verdure o del latte adesempio, che hanno progressivamente portato, nei confron-ti dei contadini, alla confisca del diritto di scelta sulle loroproduzioni e a una concentrazione dei luoghi di vendita.

Il parallelo regge anche per la situazione di sovrapprodu-zione dei libri, dove la smisurata quantità di unità fabbricateper uno stesso titolo dipende non dalle valutazioni di ven-dita, ma da un intento di saturazione del mercato. Si sa chepresso i principali editori, ben prima della messa a scaffale,una buona parte della produzione è destinata al macero.

Inoltre il termine di due mesi concesso ai librai per pagarei distributori, quello di tre mesi concesso ai distributori perpagare gli editori, e la possibilità di restituzione delle resefanno sì che i libri siano prodotti e distribuiti a partire daciò che ne dicono gli agenti di vendita in libreria (non sem-pre sinceri) o dalla notorietà degli autori, molto raramenteda una vera lettura dei libri. Infine, la tendenza degli editoria pagare importanti anticipi agli autori di successo ben pri-ma della stesura del libro, o a non pagare affatto autori esor-dienti, comporta una produzione di titoli la cui qualità è

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spesso incerta. Tutto ciò rivela che il denaro che circola nelmondo del libro tende a finanziarizzarsi, a fondarsi sul cre-dito e su un’economia immateriale svincolata dai veri dati divendita e dal valore delle opere proposte.

La catena del libro (dalla produzione di idee fino alla suacommercializzazione passando per la fabbricazionedell’oggetto-libro) è così sottoposta a logiche di manage-ment già denunciate altrove, guidate dal profitto e daun’ideologia della crescita. Può quindi finire per essere ac-compagnata dagli stessi orrori economici delle industrie pe-trolchimiche o agroalimentari. Rispetto a questa situazionec’è chi cerca di resistere, ovvero di organizzarsi per svolgereuna professione a condizioni che non cedano alla barbariecircostante. A niente serve contrapporre piccoli e belli agrandi e cattivi: le pratiche sono diversificate e non è pos-sibile circoscrivere il valore di un libro alla sua origine. Unbellissimo libro può provenire da procedure industriali euno mediocre da una piccola casa editrice indipendente chestampa presso una tipografia di quartiere. Eppure, se la qua-lità delle idee e degli argomenti o la bellezza di un testo nonsono in funzione del loro supporto, è opportuno valutare idiversi modi di produzione mettendoli in relazione con leidee che diffondono.

Anziché accontentarci di leggere e scrivere delle malefat-te del capitalismo sulle pagine di un libro, abbiamo alloraprovato a metterci in condizione di agire sulla nocività di-rettamente connessa alla produzione di libri. Cerchiamo così di

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prendere coscienza di quale sia il nostro posto nella societàmoderna, riflettendo sulla nostra produzione e sui nostrimodi di fare: riflettere ad esempio sul modo in cui un saggiosul capitalismo si inserisce nel capitalismo stesso. E da quiproponiamo di rovesciare quel luogo comune il quale vor-rebbe che in uno scritto conti solo il messaggio ivi contenuto– poco importa come sia diffuso, poco importa il suo conte-nitore. In un mondo in cui le idee sono confusamente mi-schiate, i valori relativizzati e le discussioni depoliticizzate,formuliamo la seguente domanda: il modo in cui si produceun libro oggi non conta più, o almeno altrettanto, delle ideeche contiene? O, per dirla altrimenti, perché sembra acces-sorio trovare una coerenza tra medium e media nella produ-zione editoriale?

Una volta scostato il sipario delle idee, è facile osservarecosa sia in gioco in ogni passaggio della produzione e delladiffusione di un libro: ognuno cerca di aumentare i proprimargini, di negoziare vantaggi, di conservare corsie prefe-renziali o di divorare gli altri… Anche nel mondo del librociascuno tira a sé la coperta. Da un editore a un altro, da unlibraio a un altro, tra stampatori e tra autori, la legge è bana-le: quella della concorrenza, incrementata da un gioco egoi-co forse più esacerbato che altrove, dato il carico simboli-co veicolato dagli oggetti intellettuali nella società moder-na. E queste dinamiche iperliberiste si scatenano nella to-tale ignoranza delle specificità di ciascuno, da un mestiereall’altro.

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Per questo, come Collettivo 451, ci siamo interrogati sulla«separazione» in quanto specificità di questa condizione co-mune, e una delle nostre aspettative, per quanto modesta,è quella di facilitare la reciproca conoscenza degli interessi,delle contraddizioni e dei vicoli ciechi di ognuno di questisegmenti che formano la filiera del libro. D’altra parte è cer-to che, al di là delle separazioni indotte dalla struttura eco-nomica nella quale siamo immersi, altre gerarchie costitui-scono la nostra relazione con il mondo: ad esempio, la di-visione tra manuale e intellettuale, tra scritto e orale, tramaestro e ignorante. Queste categorie sociali che separano imembri di una società, attraverso la sedimentazione del mo-vimento delle idee, impongono effetti di potere e di domi-nio; vanno quindi pensate collettivamente, cosicché si facciauno sforzo di decostruzione e di invenzione di forme capacedi contenere tale tendenza.

In questo il libro e la cultura in genere giocano un ruolofondamentale rispetto a molti altri meccanismi di potere. Inun’epoca che vede i paesi dominanti su una soglia postindu-striale, e il lavoro immateriale oggetto di svalorizzazione, ilcapitale culturale si lega più che mai al capitale finanziarioed entrambi non smettono di marcare la frontiera tra il den-tro e il fuori delle nostre società.

Possiamo anche affermare, deplorandolo, che di pari pas-so alla costituzione di un’industria culturale si è costituitauna cultura dell’industria, in tutte le sue forme: materialee soggettiva. L’acquisizione di piccole case editrici indipen-

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denti da parte di grandi gruppi, in una logica di concentra-zione dei capitali, impone una redditività e una produttivi-tà che l’ambiente dell’editoria può sopportare solo a condi-zione di pubblicare libri di qualità mediocre ma che venda-no. Così si insinua tra gli editori una logica sorniona: consa-pevolmente pubblicheranno sempre più libri brutti per da-re vita a pochi titoli di qualità, sempre più esigui. Allo stes-so modo la moltiplicazione di megalibrerie a spese di picco-le strutture indipendenti comporta un’ostentazione di titoliseduttivi e molti tentennamenti nell’ordinare opere difficili,alla fine reperibili solo su Amazon, se abbiamo la fortuna diaverne sentito parlare.

La conseguenza è quella di un impoverimento e diun’omologazione del pensiero: i modi per formulare una cri-tica o esprimere un parere si stemperano, indicizzati sul cri-terio del profitto, e diventano parte di una produzione indu-striale di soggettività. I libri, con il vaglio delle idee che con-tengono, con le singole scelte editoriali, con la produzione dimanualistica scolastica, si riducono a veicolo di idee ricalca-te sui valori dei dominanti. Per questo la riflessione sui me-stieri che facciamo non si riduce a poste in gioco corporati-ve, ma interroga la responsabilità che tutti abbiamo nei con-fronti del divenire dell’ambito critico, delle esperienze este-tiche e dei problemi sociali.

Sappiamo anche che siamo parte di un meccanismo socia-le e culturale generatore di violenze e di umiliazioni. Nelloslancio che ha portato alla nascita del Collettivo 451 c’era il

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desiderio comune di rimettere in discussione il modo in cuilavoriamo. Se si considera che lavorare con i libri ha una di-mensione politica, allora bisogna porsi domande come que-ste: qual è la funzione sociale di un libro? Come si veicolanoeffetti di potere nei luoghi destinati al libro? La produzioneintellettuale è chiusa in un ambiente autoreferenziale?

Ciò che accade nel settore editoriale è molto simile a ciòche accade in altri settori: si tratta di una logica diffusa cheva oltre le specificità di singole professioni o attività. Perquesto, per formulare correttamente una critica che vadaoltre i nostri interessi, bisogna avviare una discussione coninsegnanti, educatori, tecnici, lavoratori sociali…

Il filo che stiamo tirando attraverso il libro ci serve daguida per parlare degli sconvolgimenti antropologici in cor-so. L’automatismo del ricorso all’informatica da quando suo-na la sveglia finché si va a letto, le pratiche compulsive da-vanti a uno schermo, o più semplicemente la trasformazionedei nostri modi di pensare in relazione ai cambiamenti del-le pratiche di lettura, tutto questo ha delle conseguenze suciò che diventiamo, sia per quanto attiene le nostre facoltàfisiologiche e neurologiche, sia per il nostro essere sociale.

Nell’analizzare questo modo di essere al mondo, impostodall’informatica e dal marketing, acuito da un liberismo esi-stenziale, ci confrontiamo con un altro problema: quello deltempo. È per darci il tempo di affinare la nostra critica, maanche di ridere e sognare, che intendiamo procedere passoper passo. Nello scrivere queste righe continuiamo a imma-

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ginare le premesse di quelle che potrebbero essere misureconcrete di fronte alla situazione attuale: sindacati, coope-rative, assistenzialismo, spazi comuni… Per precisare tuttoquesto, oltre che di parole nuove, abbiamo bisogno di incon-tri.

Traduzione dal francese di Ilaria Bussoni

Mauro Staccioli, Arecibo ’04, Universidad de Puerto Rico, III SculptureSymposium, 2004. Acciaio Corten, 500 x 500 x 30 cm. (Foto José Pérez-Mesa).

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Per farla finita con le briciole

I cento fiori dell’editoria spagnola

Alfonso Serrano

Sulla terrazza di un bar i clienti bevono birra, eall’improvviso arriva una folata di vento. Un breve efortuito elemento di disordine, e le patatine cadono aterra. Famelici si avventano un paio di piccioni e un

passerotto, poi ne arrivano altri. Qualche tavolino più in làaltri clienti finiscono l’aperitivo. Una scena creata dal vento,un’immagine eloquente per lo stato dell’editoria in Spagna:grandi gruppi seduti al tavolo e un’orda di piccole case edi-trici indipendenti che lottano per accaparrarsi qualche pata-tina. Ora dovrò spiegare perché questa immagine mi sembraesplicativa…

Prima di tutto, chi sono i piccioni e il passerotto? Piccolecase editrici, distributori e librerie che si inseriscono nella

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filiera economica della catena del libro. Persone con orien-tamenti e obiettivi molto diversi. Per alcuni si tratta solo dilavoro, di commercio, per altri è in gioco una vocazione, peraltri ancora si tratta di militanza… Persone diverse che con-dividono uno spazio comune e che negli ultimi anni hannodato vita a una – molto apparente – profusione di nuove pic-cole librerie, case editrici, collane… Dal 2002 sono compar-si in Spagna più di 3100 nuovi marchi editoriali, quasi 300all’anno… ma più della metà di questi nascono per pubblica-re un solo titolo. Un dato rilevante è anche il fatto che dal2002, ogni anno, un migliaio di editori cessano di operarein maniera temporanea o definitiva. Abbondanza, certo, maanche sterminio di massa.

Passiamo alle patatine: non sono tante, ma qualcosa c’è.Osservando in dettaglio i dati forniti da ministeri, sindacatie istituti di statistica di Francia, Italia e Spagna, la conclu-sione non può essere che una ripetizione di quanto già si di-ce in molte sedi: la maggior parte delle cifre sembrano usci-re da una seduta spiritica. A fronte della serietà con la qua-le l’Unione Europea si impegna a studiare la diffusione del-le nuove tecnologie nei diversi paesi europei, la lettura e lepratiche culturali associate al libro non godono della mini-ma attenzione. Non esistono statistiche e studi seri che ren-dano possibile confrontare la realtà del libro e della lettu-ra nei diversi paesi dell’Unione. L’unico modo per impostareun confronto consiste nell’analizzare la contabilità naziona-le di ogni singolo Stato. Lì è possibile individuare una voce

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di spesa specifica dedicata all’editoria, che può ulteriormen-te suddividersi in voci dedicate alla pubblicazione di libri.Sorpresa: nella maggior parte dei casi gli ultimi dati dispo-nibili sono del 2010; per avere accesso a documenti più det-tagliati bisogna fare domanda, ma questi dati sembrano co-munque riservati agli uffici studi delle banche (sic!). Un altroconfronto possibile: l’analisi della composizione della spesaprivata che comprenda una voce dedicata ai libri, alle libre-rie e agli articoli di cancelleria. Qui la spesa – e questo è unodei dati più significativi – nel caso spagnolo non è neanchela metà di quella francese, e rimane molto lontana anche daldato italiano, che è più vicino a quello francese.

Continuiamo con le patatine. Un confronto sarà utile an-che per smontare il mito di un’editoria spagnola florida chepotrebbe contare sull’importante bacino di lettori latino-americani. In realtà ci ritroviamo un settore editoriale (libri)con un peso in termini commerciali inferiore alla metà diquello francese, e più o meno equivalente, o di poco superio-re, a quello italiano. E a proposito delle famigerate esporta-zioni in America Latina: esistono, ma non pareggiano la cifradelle esportazioni del libro francese. E continuano a dimi-nuire con picchi significativi nell’ultimo decennio (nel 2011meno 50% rispetto al 2001). Riassumendo: il volume di de-naro che si muove intorno al libro in Spagna non è nean-che la metà di quello francese, e i parametri sono più vicinia quelli italiani (per numero di addetti, volumi stampati, gi-ro d’affari). Italiani e spagnoli, insieme, non raggiungono la

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Francia né per giro d’affari né per quantità di copie stampa-te… Certo, è vero che tra questi paesi ci sono differenze si-gnificative anche dal punto di vista demografico, ma la ten-denza rimane quella: a sud delle Alpi e dei Pirenei regressio-ne, mentre le cifre francesi continuano a crescere. Che invi-dia! In Spagna il volume d’affari si è ridotto di oltre un quar-to dal 2007, e non si tratta di un dato legato solo alla contin-genza della crisi più recente: si tratta di una riduzione pro-gressiva che dura ormai da una decina d’anni, tanto che nel2011 sono state pubblicate un terzo delle copie pubblicatenel 2005. Ancora un confronto: nel 2011 le case editrici spa-gnole hanno speso in totale 193 milioni di euro per pagare idiritti di autori, traduttori ecc., mentre la Francia ne ha spe-si 427. Più del doppio.

Ma le patatine non spiegano tutto… È possibile delineareun quadro strutturale continuamente messo a dura provada meccanismi totalmente antieconomici. Tutti noi abbiamoconoscenza e/o esperienza di case editrici e librerie econo-micamente in perdita, che tuttavia rimangono in piedi gra-zie a chi ci lavora. E le statistiche non danno conto di alcunifenomeni poco comprensibili, come per esempio le cifre ele-vate di produzione teorica (in titoli) che si registrano in Spa-gna. Cifre che però non hanno un ritorno concreto neancheper quanto riguarda le tirature: la tiratura media dei titoli inSpagna è inferiore di quasi sei volte rispetto a quella france-se.

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Le cifre non ci portano molto lontano, ma forse ci aiutanoa spiegare qualche ulteriore dettaglio. Come, per esempio,la relativa salute di cui godono le librerie indipendenti (cioènon facenti parte di nessuna catena) rispetto alla situazionefrancese o italiana. In Spagna queste non soffrono troppoper la crescita delle vendite via Internet, né per la concen-trazione delle vendite come nel caso italiano (catene librarieper un 40%, a fronte di un 14,5% nel caso spagnolo e un 23%per la Francia…). Sembra così che in Spagna la posizione del-le librerie indipendenti si sia consolidata negli ultimi anni.Sono state le grandi catene a subire maggiormente un calodi vendite. Congratulazioni, vecchi librai! E per chiudere conle cifre, ancora una curiosità che gioca a favore delle picco-le case editrici: mentre queste hanno un fatturato comples-sivo cinque volte inferiore a quello dell’insieme dei grandieditori (approssimativamente 329,46 milioni di euro a frontedi 1.774, 97), dedicano alle traduzioni un investimento mol-to maggiore di quello dei grandi editori (1,72 milioni di eurocontro 1,27).

Finora ci siamo affannati a contare le patatine e a stabilirele differenze tra i piccioni, i passeri e gli altri convitati al ta-volino. Ma ci sfugge la cosa più importante. Le patatine sonovolumi di vendita, dietro i quali ci sono i libri. E chi ci lavo-ra. Libri, carta, lettere, lettura… Un’attività molto particola-re. Buona o cattiva? Utile o inutile? Non ci sono più cifre chetengano: qui bisogna scoprirsi, bisogna saltare. Saltiamo!

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Qual è il ruolo dei libri, delle librerie, delle case editricinella contemporaneità sociale? Qui finiscono le cifre e inizial’interpretazione. La maggior parte della produzione libra-ria, la maggior parte dei luoghi e dei contenuti dedicati allibro sono mero intrattenimento e mero consumo. Le pata-tine che passeri e piccioni si contendono sono libri che nonservono a niente. Sono mero infotainment. E chi scrive non sache farsene… Anche se persino nei prodotti peggiori rimaneun po’ di potenza, quella di un tempo e di un pensiero diver-si. E qui ho finito con le patatine…

Libri, librerie e case editrici si collocano sempre in un am-biente, in un determinato contesto. Sarebbe facile cavarseladicendo che è un momento caotico, il nostro. Monopoli, di-soccupazione, disuguaglianze, insicurezza, precarietà, diffi-coltà per chi è povero e vantaggi per chi è ricco, sfruttamen-to (o auto sfruttamento, o anche entrambi), spettacolarizza-zione mediatica, cacofonia… È questo il nostro contesto, equesto è il contesto dei libri, così come quello delle mele, deivini, dei salumi… È lo stesso contesto per tutti.

Ma, come editore, sono stato io a scegliere i libri, non loroa scegliere me. Ed è stata una scelta cosciente. Ho scelto dicombattere, perché sopravvivere è una battaglia. Ho sceltoi libri, e come me molti altri: aprendo librerie, case editrici,organizzando festival letterari e distribuzioni indipendenti.In molti hanno scelto di mettere in movimento libri, prototi-pi mentali e una temporalità del tutto particolare. Prototipie temporalità «anticiclici» come parte di quel lento processo

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che è fare rete. Reti che continuano a crescere, nonostante imolti attacchi subiti. Noi continuiamo a intrecciare reti: i li-bri lo consentono, con i loro tempi lenti, con i loro prototipimentali, con le loro differenze. Reti che strutturano comuni-tà a Madrid, a Barcellona, in Andalusia, nei Paesi Baschi… O,per meglio dire, accompagnano e, nei casi migliori, connet-tono. Tracciano un sentiero, disegnano una mappa.

Oggi in Spagna – e siamo ben lontani da tutta quella massadi piccioni in cerca di patatine e briciole – tutto questo mo-vimento di case editrici indipendenti, librerie, distribuzionialternative, biblioteche nate nei centri sociali, fiere alterna-tive e festival di poesia impegnata, disegna una mappa. I no-di e i rapporti che si sviluppano sono differenziati, a volteconflittuali, ma in grado comunque di tracciare percorsi. Dicostruire supporti, di propiziare transiti, di facilitare derive.

E tutto questo lo fanno in una società del capitale, dellosfruttamento del lavoro, eppure si continua a tessere. Conun ritmo di lavoro lento e faticoso. Perché le cifre passatein rassegna poco sopra mostrano come la diminuzione dellevendite si sia fatta sentire soprattutto nelle grandi librerie,mentre le piccole librerie, le piccole case editrici indipen-denti e alternative continuano a esistere. E, forse, continue-ranno a esistere proprio perché non sarebbero mai dovuteesistere. Perché sono antieconomiche. Perché sono il risul-tato di illusioni, forse di volontà sbagliate… Ed è attraversoesse che vogliamo riuscire a disegnare la meravigliosa map-pa di una ragione antieconomica. Una ragione materiale, ma

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profondamente antieconomica, se per economia dobbiamointendere la subordinazione del volo alla lotta per le bricio-le.

Traduzione dallo spagnolo di Nicolas Martino

Mauro Staccioli, Rotonda della Besana ’87, Milano, Besanaottanta, 1987. Ferro ecemento, 700 x 2000 x 100 cm. (Foto Enrico Cattaneo).

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SCUOLA DIGITALE

Il tempo delle scelte

La didattica e i feudatari del web

Giuseppe Dino Baldi

La storia dell’introduzione delle tecnologie digitalinella scuola italiana è fatta tutta o quasi di paradossi,nei modi, nei tempi, nelle convinzioni dei protagoni-sti. Un esercizio utile per non rimanerne intrappolati

potrebbe allora prescindere di netto dal quadro di realtà: fa-re «come se» la maggioranza delle classi disponesse di infra-strutture adeguate a utilizzare contenuti e strumenti digita-li, gli insegnanti fossero formati e motivati a guidare il pro-cesso di innovazione, gli editori scolastici fossero a loro vol-ta pronti e ben disposti ad assecondare il cambiamento, e in-fine il quadro legislativo fosse chiaro, coerente, accompa-gnato da opportune azioni di sistema e soprattutto stabile.Viceversa, per tacere del resto, la legislazione che obbliga al

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passaggio dal cartaceo al digitale si barcamena tra accele-razioni e frenate, tra l’aspirazione a una forte discontinui-tà (nella convinzione inespressa che un’istituzione conser-vativa come la scuola non possa cambiare per un proces-so naturale) e la necessità di mediare con gli interessi de-gli editori, l’ostilità e l’inadeguatezza di una parte degli in-segnanti, la mancanza delle risorse economiche indispensa-bili per sostenere il piano, l’incertezza negli obiettivi. Nelfrattempo di scuola digitale si dibatte molto, e molte sono lesperimentazioni e i progetti speciali: la scuola italiana, an-che per l’ambito delle tecnologie, è il regno delle splendi-de eccezioni, dei casi di studio da convegno; mentre sareb-be necessaria e urgente una fase di applicazione struttura-le dell’innovazione: non solo per non disperdere le poche ri-sorse disponibili in mille rivoli spesso senza esiti, ma ancheperché la «normalità» è una delle poche armi utili a disin-nescare il protagonismo naturale delle tecnologie, che infi-cia molte delle discussioni su questo argomento. Dal digita-le come fine al digitale come mezzo al servizio della didat-tica, come ulteriore strumento nella «cassetta degli attrez-zi» dell’insegnante: avremo modo di ritornarci. Per adesso,tutta questa premessa serve solo a porre un assunto che hail valore di una petizione di fiducia: pur tra difficoltà, incoe-renze e rallentamenti, si è avviato all’interno della scuolaun percorso in una direzione ormai tracciata. Ma qual è, perquanto si può capire oggi, questa direzione? Quale tipo dicambiamento asseconda e presuppone?

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Le motivazioni che guidano l’introduzione dall’alto del di-gitale nelle classi sono, mi sembra, sostanzialmente quattro:diminuire il peso degli zaini; diminuire il costo dei libri; ag-giornare la scuola a quel che accade fuori dalla scuola; rin-novare le pratiche didattiche. Tralasciando il primo punto,non centrale in questo contesto, il secondo implica che il co-sto di produzione dei libri digitali sia in assoluto minore delcosto di produzione dei libri cartacei. È un presupposto soloparzialmente vero che sottende al tempo stesso il consuetoma non meno insidioso massimalismo rispetto alla nozionedi «digitale», dietro al quale può stare di tutto, dalla schedain pdf alla simulazione interattiva. Qui basti dire che, ancheprescindendo dal Cd-Rom o da altri supporti di distribuzio-ne offline (e dunque a fronte del risparmio in stampa, ma-gazzino e distribuzione), la produzione di risorse digitali diqualità può avere costi molto elevati; che per un editore – di-ciamo – tradizionale le voci di spesa non comprendono sol-tanto lo sviluppo a regime, ma anche l’investimento neces-sario a implementare una nuova macchina progettuale, pro-duttiva e organizzativa; che, se queste risorse non vengo-no concepite in maniera obsoleta, occorre un’infrastrutturatecnologica che le accolga e dia loro un senso, la quale vacreata e a sua volta mantenuta nel tempo (un tempo chenell’informatica, è noto, viaggia molto rapidamente); che,infine, in questa fase di transizione nella quale non esistonoveri standard, un produttore è costretto a barcamenarsi traformati e device che impongono spesso sviluppi e percorsi

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di testing differenziati. Sono le prime cose che chi vienechiamato a occuparsi di sviluppo digitale è costretto a spie-gare al proprio editore, vittima spesso anch’egli del luogocomune secondo il quale «il digitale costa meno». Se poii contenuti multimediali-interattivi possono diventare inprospettiva una leva per la diversificazione dell’offerta sco-lastica, a oggi per questo ambito un mercato non esiste, eil «digitale» viene solitamente offerto gratuitamente a chiadotta il libro tradizionale. Del resto, se venisse venduto, ilpedaggio imposto dai distributori (30% Apple e Amazon) el’Iva al 21% anziché al 4% difficilmente giustificherebbero unprezzo di vendita inferiore del 30% rispetto al cartaceo (co-me indicato nel decreto Profumo, ancora in vigore nel mo-mento in cui scrivo).

L’arretratezza tecnologica della scuola italiana invece èun dato di fatto incontestabile; però si può contestare chenella scuola debba valere la stessa idea di progresso chevige fuori dalla scuola. Giustamente Roberto Casati (Controil colonialismo digitale) polemizza con quanti concepisconol’innovazione come un processo automatico, da accettaresenza discutere. La scuola italiana, nella logica dei moder-nizzatori, sarebbe inadeguata a instaurare un dialogo coni cosiddetti «nativi digitali», ovvero con quei giovani, naticonvenzionalmente dopo il 1996, per i quali il digitale è unalingua madre, mentre per gli «immigrati» sarebbe una se-conda lingua appresa e compitata con difficoltà. Le tecnolo-gie, dunque, non soltanto come strumento per migliorare il

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setting di studio, ma come modalità per attivare un processoconoscitivo con chi non conosce altro modo per comunica-re.

Qualcuno, ad alti livelli, ha spinto la fiducia in questa nuo-va umanità fino al punto di considerare i nativi digitali unveicolo di innovazione spontanea, portatori per così dire diun «contagio» che, se accolto e favorito, invaderà progres-sivamente la scuola e poi la stessa società, modernizzando-la dal basso. È l’altro paradosso degli studenti che insegna-no ai maestri, un luogo comune al quale si lega molta delladiffidenza, o addirittura del rifiuto, che gli insegnanti nutro-no nei confronti delle tecnologie, rispetto alle quali sono inqualche modo condotti a provare un senso di inadeguatezza(nel comprenderle, nell’utilizzarle concretamente). Eppure,come ormai da tempo è chiaro, i nativi digitali non esisto-no: sono una trovata mediatico-promozionale che non ha ri-scontro nella realtà se non in un senso assai meccanico e ste-rile.

Chiunque abbia a che fare con bambini e ragazzi anagra-ficamente nativi sa bene quanto siano lontani dall’avere conle tecnologie un rapporto spontaneamente maturo e con-sapevole. Al più si può parlare di una certa manualità, diun’empiría: non esiste alcuna competenza digitale innata daparte di chi è nato dopo una certa epoca, non c’è nessuncambiamento antropologico in corso. Al contrario, in uncontesto mediatico così ricco di stimoli e di «rumore», di-venta letteralmente vitale la capacità di svolgere ragiona-

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menti complessi, di utilizzare puntualmente l’intelligenzacritica: la scuola, anziché imparare dagli allievi, dovrebbedunque rivendicare il proprio ruolo anche per l’ambito deicontenuti e degli strumenti digitali, in parte rafforzando lecompetenze di valutazione delle fonti e aggiornandole ai ca-si della rete, in parte introducendo in classe temi di webeducation: quali sono in Internet i centri e i modelli di diffu-sione delle informazioni, come funzionano i meccanismi au-toritativi che ne sono alla base, quali sono le forme di condi-visione, quali i linguaggi.

Al fondo di molte delle iniziative ministeriali pare essercila convinzione che le tecnologie siano portatrici di innova-zione di per sé. Introduciamo in classe un tablet per studen-te, una lavagna interattiva, dei contenuti digitali, una con-nessione che permetta di accedere ad altri contenuti opene magari a qualche forma di socialità di rete, ed ecco che lascuola si rinnova: l’importante è ridurre il ritardo rispettoal mondo circostante. Su temi così delicati io credo sarebbelecito attendersi maggiore lucidità. Se si assolutizza il con-cetto della rispondenza tra fuori e dentro, la scuola a rigoreserve a poco, perché non c’è niente di più allineato al mondoesterno del mondo stesso. Se invece la scuola deve continua-re a essere quel luogo «altro» nel quale accade qualcosa cheha a che fare con la didattica, allora non le si può chiedere,rispetto alle tecnologie, di arrendersi senza condizioni.

L’introduzione di strumenti e tecnologie digitali in classeè utile e auspicabile, ma bisogna essere in grado di mettere

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in gerarchia gli obiettivi e avere consapevolezza del conte-sto di riferimento. L’ingresso del digitale, come di tutto ilresto, deve essere subordinato a un progetto, al fondo delquale ci sarà la trasmissione e preservazione del paradigmaculturale che ci rende quello che siamo (una tradizione, dun-que), e anche, nei casi migliori, l’educazione a un dialogocritico con la tradizione e con il mondo. Questo soprattut-to se si intende il digitale in funzione non solo strumentale(e già sarebbe un obiettivo nobile e ambizioso), ma come le-va per il rinnovamento dei metodi di insegnamento; che èun’altra, come si è detto, delle motivazioni a cui viene legatal’introduzione del digitale a scuola.

È banale ma forse non inutile ripetere che l’innovazionenella didattica ha una curva diversa rispetto all’innovazionenella tecnologia. Si possono usare strumenti vecchi per farecose nuove, e strumenti nuovi per fare cose vecchie. Se doall’insegnante un testo in pdf da stampare o lo leggo su uneBook reader, se metto un test a risposta multipla sull’iPad ointroduco lo stesso contenuto in forma di gioco multimedia-le, non innovo la didattica. Ma un foglio e una penna sonosufficienti per impostare in classe un sofisticato modello diProblem based learning. Purtroppo oggi è più frequente il casoin cui la tecnologia, lasciata in mano ai tecnologi e non pre-sidiata (o solo subita) dai didatti, contribuisce a reintrodur-re in classe metodologie vecchie capziosamente rivestite diun’innovazione solo formale, modelli obsoleti di derivazionecomportamentista, dinamiche biunivoche di insegnamento/

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apprendimento, la concezione di un sapere chiuso, nozioni-stico, non problematico.

Se dunque si vogliono aggiornare i metodi e le forme tra-dizionali di trasmissione del sapere, io temo che le tecnolo-gie da sole non siano la strategia giusta. Non lo sono nellascuola come non lo sono, per dire, nella politica: non c’è nes-suna relazione tra un iPad e nuova didattica, come non c’èfra streaming e democrazia. Il che non vuol dire che le tec-nologie siano neutre, fredde, inerti. Al contrario, sono por-tatrici di una propria intelligenza, hanno una forza intrinse-ca che tuttavia conduce spesso in una direzione divergenterispetto a quella propugnata dai paladini dell’innovazione.

Per quello che è oggi il quadro delle forze in campo, por-tare in classe una tecnologia con un certo livello di sofisti-catezza significa introdurre una componente che è di fattofuori dalle possibilità di controllo dei legislatori e degli inse-gnanti, e quindi esporsi al rischio di contaminare l’ambientedi apprendimento con qualcosa di fortemente connotato daogni punto di vista. Per questo io credo che sia prioritariomettere gli insegnanti e gli studenti in grado di fare unascelta, più che imporla per legge. È un aspetto che mi paretroppo sottovalutato, forse perché espone all’accusa di vietoanticapitalismo; qui tuttavia non si tratta di ideologie, ma diqualcosa di molto più concreto e reale. Apple, Google, Micro-soft, Amazon, per citare i maggiori protagonisti del settore,non stanno lottando fra loro per imporre un prodotto hard-ware o software, ma ecosistemi complessi e sostanzialmente

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chiusi (de facto, se non de iure) nei quali i contenuti forma-tivi e informativi sono, prima ancora che un business, la levaper introdurre ad altri prodotti e servizi, tutti indissolubil-mente legati fra loro. Questi ecosistemi presuppongono nonutenti generici e meno che mai studenti, ma consumatori.

Chi lavora nel settore educativo ha ben presente quantopossano essere generosi con la scuola i feudatari del web.La scuola per loro non è primariamente un mercato diretto:troppo piccola, almeno fino a oggi, la torta disponibile. Lascuola è quel luogo in cui viene messo in mano agli studenti,agli insegnanti e alle loro famiglie un filo d’Arianna che, ti-rato piano piano, conduce dentro al labirinto; un luogo tal-mente pervasivo e con una tale capacità di attrazione che ri-schia di fagocitare la scuola stessa. È quello che accade quan-do si mettono accanto entità di cui una ha a malapena le ri-sorse per sopravvivere, e l’altra invece assomma una capaci-tà di investimento e di azione che raramente organizzazio-ni private hanno avuto in passato. È la pericolosa illusioneche si possano colmare le lacune di investimento rispetto al-la prima utilizzando le risorse messe a disposizione dalla se-conda. La storia è piena di esempi su cosa accade, tipicamen-te, in casi del genere. È una delle cose che mi hanno insegna-to a scuola.

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Mauro Staccioli, Senza titolo “Fosso”, Mercato del Sale, Milano, 1981. Cemento,scavo in profondità 220 cm, dimensioni ambientali 500 x 2500 x 220 cm.

(Foto Enrico Cattaneo).

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EDUCAZIONE AMERICANA

Educazione americana

ARio de Janeiro, lo scorso luglio, sono nuovamenteapparsi i book bloc, quella pratica politica intrapresaa Roma e poi dilagata in diverse mobilitazioni in Eu-ropa e non solo. Tra i molti scudi-libro che hanno

attraversato la capitale brasiliana ne è comparso uno con lascritta «+ educação – opressão», segno della persistente cen-tralità della formazione anche in quelle esplosioni tumul-tuose nate al di fuori di scuole e università.

Le recenti manifestazioni muovono dalla chiara rivendi-cazione di voler condividere la ricchezza prodotta social-mente da uno dei principali protagonisti dell’economia su-damericana. Al contempo la richiesta di accesso alle risorsee al welfare va di pari passo con il rifiuto dell’esclusione so-ciale e dei processi di gerarchizzazione che hanno cristalliz-zato la società brasiliana. Eppure, nonostante le specificitàlocali e l’evidente affinità dei tumulti brasiliani con quelli re-centemente diffusi nel Mediterraneo, intravediamo una co-stante presenza di rivendicazioni legate alla formazione co-

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sì come il protagonismo di soggetti esclusi dalle istituzionieducative o imbrigliati in sistemi di dipendenza e misurazio-ne come quello del debito studentesco.

Queste rivendicazioni sono divenute patrimonio condivi-so dei movimenti sociali dispiegati nel continente america-no e, in molti loro aspetti, sono estremamente affini ai pro-blemi posti dai movimenti studenteschi europei durante gliultimi anni di radicale contestazione del Processo di Bolo-gna. La scelta di dismissione del pubblico, la mercificazio-ne e la dequalificazione del sapere, così come la produzio-ne di processi di gerarchizzazione ed esclusione sociale pos-sono essere considerati i cardini attorno ai quali si è costi-tuita una «guerra all’intelligenza», un feroce attacco a tut-ti quei soggetti protagonisti delle nuove forme di coopera-zione sociale. Al contempo le mobilitazioni organizzate ini-zialmente negli ambiti classici della formazione hanno im-mediatamente posto il problema del suo superamento, rifiu-tando le vertenze settoriali e intrecciandosi con le più ete-rogenee figure produttive che abitano le metropoli. I recen-ti movimenti hanno tentato, spesso riuscendovi, di costruireun immaginario e pratiche comuni a livello transnazionalenel segno dell’irrappresentabilità e della rottura con il para-digma neoliberale, aprendo nuovi spazi in cui creare una ra-dicale alternativa sia nel mondo della formazione che nellasocietà più ampia.

La scelta di collocarsi nello spazio americano non ha nullaa che vedere con il volgere lo sguardo europeo verso il «la-

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boratorio latinoamericano» per rintracciare una sorta dimateria empirica su cui applicare teorie o esperienze ma-turate nell’ormai decaduta fortezza. Piuttosto evochiamo ilProcesso di Bologna, di matrice europea, in quanto esperi-mento neoliberale caratterizzato da uno statuto tendenzial-mente globale. Così come ha avuto carattere transnaziona-le il ciclo di lotte sulla formazione che, dalla bolla della neweconomy fino all’attuale crisi economica, ha contestato ilmodello educativo, svelandone l’iniquità e l’ideologia dellaretorica meritocratica.

I quattro discorsi di una provocatoria «educazione ameri-cana» compongono uno scenario ridotto rispetto al più va-sto continente, una mappa parziale di sperimentazioni po-litiche nate all’interno delle più recenti mobilitazioni: ana-lisi di parte legate a una costante ricerca di dispositivi or-ganizzativi capaci di diffondersi nella società a partire dalprocesso educativo e dalla critica dei saperi. In questa map-pa non ci sono laboratori, né la riduzione dell’ambito ame-ricano all’ormai decaduta potenza statunitense, ma territoriche compongono nuove regionalità, affatto coincidenti con iconfini degli Stati. Una mappa che interroga la nostra espe-rienza e arricchisce la riflessione politica attraverso unospazio di relazione con attivisti e ricercatori la cui presa diparola, in forma di testo o di intervista, intensifica le con-nessioni dal Nord al Sud del continente. Discorsi che proven-gono da Buenos Aires, Montréal, Rio de Janeiro e Valparaí-so per intercettare le tendenze comuni, le affinità tra corpi

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capaci di produrre sapere vivo e i nodi problematici su cui imovimenti si stanno confrontando nel presente.

Innanzitutto l’impatto delle politiche neoliberali e dellafinanziarizzazione nell’ambito educativo, nonostante le spe-cificità locali, ha avuto esiti piuttosto omogenei in terminidi privatizzazione e smantellamento dell’istruzione pubbli-ca. Da un lato questo processo ambisce ad aumentare il nu-mero degli studenti indebitati, tanto che ormai sono moltia guardare alla mole del debito, in particolare nordamerica-no, come la prossima bolla speculativa pronta a esplodere.Dall’altro l’obiettivo è di innalzare il confine dell’accesso al-la formazione moltiplicando le linee di segmentazione e am-pliando così l’esclusione sociale di un numero sempre mag-giore di persone.

Tale esclusione si basa su processi di razzializzazione cheimpongono una linea del colore netta e rigida ancheall’interno dei luoghi della formazione, ma anche sullo stig-ma del «fannullone» inadeguato alla competizione capita-lista e disadattato rispetto alla società. Insomma, corpi chesono perennemente fuori luogo per il loro essere troppoformati o poco bianchi, troppo radicali o poco dociliall’educazione del biocapitalismo.

Gli scioperi a oltranza, le affirmative action e le imponentimanifestazioni hanno imposto l’irriducibilità dei movimentisulla formazione alla vertenza studentesca, affermando lacentralità delle strade delle metropoli come territorio so-vrano in cui si fa nuova soggettività.

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Nell’affrontare le esperienze di resistenza e dunque la re-lazione tra lotte sociali e formazione ci inoltriamo, infine,nel mondo variegato delle esperienze di educazione popo-lare e delle pratiche di autoformazione, in cui la critica deimodelli pedagogico-educativi conduce alla creazione di veree proprie «istituzioni autonome».

Claudia Bernardi e Alioscia Castronovo

Altri percorsi di lettura:

Eric MartinOltre gli scioperi studenteschi

Bruno CavaIl colore della quota

Roberto VargasUniversità autonoma e lotte sociali

Intervista a Natalia Polti di Claudia Bernardi e AliosciaCastronovoBachilleratos populares

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EDUCAZIONE AMERICANA

Oltre gli scioperi studenteschi

Dopo la primavera degli aceri in Québec

Eric Martin

Il Canada non si è mai opposto alle pressioni internazio-nali di aumentare le tasse universitarie. Secondo la Ca-nadian Federation of Students «la quota dei bilanci uni-versitari coperta dalle tasse studentesche è più che rad-

doppiata fra il 1985 e il 2005», ciò che a sua volta spinge alraddoppio del debito studentesco. Gli studenti dell’Ontariohanno un debito medio di 25.000 dollari canadesi e il debitocomplessivo supera i 15 miliardi, mentre in Québec gli scio-peri su larga scala del 2005 e 2012 hanno contenuto il debitostudentesco e le tasse di iscrizione a un livello più basso. Alcontempo sono forti le pressioni politiche e ideologiche peradattarle alla «media canadese» e al modello americanodell’università-azienda.

Oltre gli scioperi studenteschi

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Nel libro Université Inc. Maxime Ouellet e io abbiamo di-mostrato come l’insistenza sull’incremento delle tasse e deldebito sia giustificata da un discorso falso e ideologico sulsottofinanziamento autonomo dell’università. La vera ragio-ne, secondo Pierre Dardot e Christian Laval, così come perMaurizio Lazzarato, è di creare una serie di costrizioni perprodurre un comportamento coerente con le richiestedell’accumulazione capitalistica finanziarizzata. Questanuova forma di «governamentalità» non poggiasull’autorità, sulla dottrina politica o la forza per imporrecostrizioni sulle soggettività studentesche. Piuttosto crea unambiente di semimercato nel settore educativo, con suoipropri indici di prezzo (le tasse di insegnamento).

La sottostante convinzione ideologica afferma che il pro-cesso decisionale decentralizzato e individuale è miglioredella pianificazione statale centralizzata nello scegliere do-ve gli studenti dovrebbero investire il loro tempo e il lorodenaro, ciò che a sua volta porta a un miglior adattamentodel «mercato» dell’educazione ai bisogni del capitale finan-ziario che cambiano rapidamente. Questo apparato scenicoè incompleto senza la trasformazione dello studente in im-prenditore del proprio capitale umano, che deve scegliereil programma sulla base di una logica costi/benefici. Natu-ralmente i soldi per cominciare il gioco non sono regalati,ma prestati mediante un credito; questo chiude il sistema,dal momento che ognuno è vincolato nel nuovo mercatoeducativo, scommettendo su ideologia e comportamento: se

Oltre gli scioperi studenteschi

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non calcolano e non investono bene, andranno in bancarot-ta. Questo meccanismo disciplinare non si presenta come uncontrollo autoritario verticale, bensì come la libertà di inve-stire su se stessi. Gli studenti sono «liberi» di comportarsi dainvestitori, ma questo significa altresì che non sono più libe-ri di comportarsi... da studenti.

Per le élite canadesi e del Québec l’università con i suoistudenti «fannulloni» è uno spreco di soldi se essi non pos-sono dimostrare la loro «rilevanza» e «utilità» in terminimisurabili, economici. «Il ruolo dell’università è di forgiarecervelli per la grande industria», ha detto l’anno scorso GuyBreton, rettore dell’Università di Montréal. L’élite si presen-ta come desiderosa di usare l’università per aiutare il Québeca essere competitivo e lottare nella guerra economica globa-le. Studenti, professori e università sono descritti come disa-dattati alla «realtà del XXI secolo».

Il recente sciopero studentesco contro l’aumento delletasse universitarie, il più esteso nella storia del Québec, èstato considerato «violento» dai media a causa delle prote-ste di massa, e le richieste di abolizione delle tasse sono sta-te ridicolizzate e bollate come «utopiche» e irrealistiche. Magli studenti sono stati capaci di svelare gli interessi di classecelati sotto il discorso ideologico sugli aumenti e hanno gua-dagnato un significativo appoggio popolare contro un go-verno afflitto da scandali per corruzione e allontanato dalpotere nelle elezioni del settembre 2012.

Oltre gli scioperi studenteschi

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Infatti il movimento studentesco del Québec è molto benorganizzato, mentre nel resto del Canada non esiste in pra-tica una resistenza efficace alla mercificazione delle univer-sità. Con l’appello dell’élite a dissociarsi dall’adattamento almodello canadese lo sciopero è ben presto diventato il pro-blema di preservare l’«eccezionalismo socialdemocratico»del Québec in un Nord-America neoliberale. Sebbene mol-ti studenti radicali si ispirino all’anarchismo e dunque sia-no antinazionalisti, si potevano vedere parecchie bandieredel Québec durante le proteste più vaste. Questa riviviscen-za del «nazionalismo progressivo» illustra ancora una voltala differenza nella cultura politica fra il Québec e il resto delCanada (Roc), ed è precisamente per tale motivo che le nuo-ve élite neoliberali vogliono conformarsi al Roc: distrugge-re i residui di socialdemocrazia e «normalizzare» la situazio-ne della provincia. Storicamente, il nazionalismo progressi-vo del Québec è stato spesso dipinto dalla destra anglo-cana-dese come «razzista» e «fascista».

La recente vittoria del Parti québécois ha segnato la finedello sciopero, sebbene i problemi di fondo non siano statirisolti. Le proteste sono continuate contro gli attacchi allostesso diritto di protesta a causa di nuovi restrittivi regola-menti municipali. Gli attivisti radicali sono stati coinvolti inassemblee popolari di vicinato, mentre i riformisti appog-giano un partito politico di sinistra, Québec solidaire, chemira a costituire una rete eco-socialista. Inoltre sono emersi

Oltre gli scioperi studenteschi

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numerosi progetti di università popolare: c’è già un sentieroaperto da seguire per gli attivisti dell’ultimo anno.

Il sentimento generale, ora come ora, è di stanchezza e in-certezza. Nessuno credeva che lo sciopero fosse una rivolu-zione, ma adesso circola nelle menti degli attivisti una do-manda: che altro dobbiamo fare dopo un movimento così va-sto e senza precedenti? Le forme autonome, locali, alterna-tive di organizzazione ed educazione sono interessanti, maresta ancora un problema su tutta la faccia del globo: tro-vare una via d’uscita dal neoliberismo e dal capitalismo perl’insegnamento e per il Québec nel suo complesso.

Le élite transnazionali sembrano aver trovato un nuovomodo di «accumulazione per spossessamento» in cui nondevono più farsi carico della crescita economica nazionalecome accadeva nel capitalismo fordista. Ma la soluzione inQuébec non può essere un semplice ritorno alla difesa delnostrano «eccezionalismo socialdemocratico». Occorre orauna sintesi delle sue particolarità culturali e della necessitàdi un progetto universale per sostituire al capitalismo unasocietà più giusta ed ecologica. Dopo il più vasto movimentosociale nella sua storia, il Québec sembra impaludarsinell’incapacità di articolare la salvaguardia della propriacultura con il rovesciamento del capitalismo, mentre dibat-titi falsi e spettacolari oppongono conservatori culturali e li-berali multiculturalisti. Invece ci potrebbe essere, da qual-che parte, un sentiero ancora non battuto per riconciliarepassato e futuro oltre il capitalismo. L’energica rivolta della

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«primavera degli aceri» del 2012 spinge ora il Québec allapaziente ricerca di tale nuova complicità.

Traduzione dall’inglese di Augusto Illuminati

Mauro Staccioli, Senza titolo, Fondazione Mudima, Milano, 1992. Legnoverniciato. (Foto Enrico Cattaneo).

Oltre gli scioperi studenteschi

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Altri percorsi di lettura:

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Roberto VargasUniversità autonoma e lotte sociali

Intervista a Natalia Polti di Claudia Bernardi e AliosciaCastronovoBachilleratos populares

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EDUCAZIONE AMERICANA

Il colore della quota

Il razzismo nelle università brasiliane

Bruno Cava

Dal 2002 le affirmative action sulle quote razzialihanno intensificato il dibattito e polarizzato il cam-po politico della sinistra e della destra. Le primeuniversità a riservare un numero di quote a studen-

ti neri e indigeni sono state quella dello Stato di Rio de Janei-ro e l’Università di Stato del Nord Fluminense. Se da un latouna politica affermativa non è un successo assoluto,dall’altro ha «cambiato il volto» dell’università, portando uncolorito del tutto particolare con nuove rivendicazioni, va-lori, idee, stili.

Nonostante i buoni risultati nel rendimento degli studentie il supporto del 65% dei brasiliani, permane una rispostareazionaria. Coinvolgendo criteri razziali, il sistema delle

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quote sta ricevendo un attacco più feroce rispetto alle altrepolitiche di inclusione, come i posti per gli studenti nellescuole pubbliche. Per molti il problema è il «colore dellaquota». Nella Universidade Federal do Rio Grande do Sul al-cuni gaúchos «indignati» hanno scarabocchiato a grandi let-tere sulla facciata del campus: «Il nero solo nella cucina del-lo Hu». Altri avversari, più sofisticati, pubblicano lunghi e«imparziali» libri per dimostrare che la quota razziale è dan-nosa proprio perché non siamo razzisti. Molti mantengonoun’attitudine tipicamente brasiliana: essere contrari in si-lenzio e salvaguardarsi dal razzismo, negandolo e disprez-zando la storia del Brasile. Ma non sempre il razzismo è così«cordiale», come si è visto nel caso degli studenti africani al-la Universidade de Brasilia, occasione nella quale è stato ap-piccato il fuoco alle loro porte in stile Ku Klux Klan.

Che il Brasile sia un paese razzista è del tutto evidente:storicamente razzista, economicamente razzista, estetica-mente razzista, culturalmente razzista. La «democrazia raz-ziale» è un mito che serve a perpetuare le disuguaglianzesocio-economiche attraverso una modulazione razziale. Latesi del popolo brasiliano come mescolanza di bianco, indi-geno e nero – ossia il meticcio come substrato della brasilia-nità – camuffa la nostra storia, che è l’esplicita egemonia delbianco. Sostenere che scientificamente non si possa defini-re la razza è tanto stupido quanto affermare che il nero nonesiste. La razza non è un concetto biologico. Coinvolge no-zioni culturali, economiche e politiche. Il nero c’è. È il risul-

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tato di un processo di esplorazione attraversato da migra-zioni forzate, alienazione del lavoro e violenta repressioneche si è protratto fino a oggi e nel quale il colore – sia esso«marrone», «mulatto», «scuro», «bruno» – è solo una mani-festazione.

L’affirmative action non promuove il razzismo, tuttaviariconosce che è necessario fare giustizia contro i suoi effetti.Il nodo non è eliminare le differenze razziali, ma non per-mettere loro di continuare a riflettere disuguaglianze bruta-li. Se riconoscere l’ovvietà dell’esistenza di razze è razzismo,allora è necessario, per così dire, essere «razzista», perchésolo in questo modo si potrà consentire una discriminazionepositiva.

Affermare che la quota razziale è incompatibile con la re-pubblica, a causa della cittadinanza formale, vuol dire vive-re nel mondo astratto delle fiabe, un’astrazione che favori-sce la perpetuazione delle disuguaglianze e dell’ingiustizia.L’uguaglianza formale appiattisce le differenze materiali chesono la sostanza stessa della giustizia. Trattare i disuguali amisura di disuguaglianza. Assolutizzare la meritocrazia vuoldire approvare l’egoismo e l’individualismo. La meritocraziaè ingiusta e i concorsi di ammissione sono una fotografia chenon cattura la struttura socio-economica e familiare, la qua-le determina anche la preparazione degli studenti. Il concor-so non può essere un criterio esclusivo.

La quota puramente economica, ossia basata sul reddito,non va bene. Anche se in linea di principio un bianco povero

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ha le stesse possibilità di un nero povero, essi non hannole stesse opportunità nella società nel suo complesso.L’università non è un microcosmo o una torre d’avorio, co-me ritengono molti intellettuali, ma è connessa alla società.Una società giusta dipende da un’educazione giusta, motivoper cui è anche la migliore educazione.

Difendere il generico miglioramento della formazioneelementare e secondaria come misura «meno onerosa» ri-spetto alle quote significa rinviare le affirmative action allecalende greche, perpetuando la dittatura razziale. Una cosaè differente dall’altra. Le due politiche non si escludono a vi-cenda, si complementano. Ci sono voluti molti anni di ne-gligenza e di ipocrisia su questo tema. Vi è ora l’esigenza direalizzare una democrazia razziale – nella concretezza delledifferenze – non in dieci o cento anni, ma qui e subito.

La militanza dei movimenti neri è il modo migliore per farfronte all’oppressione razziale: attraverso la resistenza essamanifesta il suo progetto di giustizia e si definisce come sog-getto politico. Più che un catalogo di differenze empiriche,è nella lotta comune che risiede la singolarità della razza,espressa a una società che – da sinistra a destra, compresi igiovani – non approva o, quando lo fa, si riduce a comoda in-dignazione.

Traduzione dal portoghese di Claudia Bernardi

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Altri percorsi di lettura:

Roberto VargasUniversità autonoma e lotte sociali

Intervista a Natalia Polti di Claudia Bernardi e AliosciaCastronovoBachilleratos populares

Educazione americana

Eric MartinOltre gli scioperi studenteschi

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EDUCAZIONE AMERICANA

Università autonoma e lotte sociali

Ultime notizie da Valparaíso

Roberto Vargas

Apartire dal 2007 il Preuniversitario Popular y Revo-lucionario «El Cincel» e il Centro di Estudios Revo-lucionario uniscono i loro sforzi per creare uno spa-zio comune finalizzato a contribuire

all’organizzazione dei lavoratori e dei settori popolari. Ciòche al momento era solo un’idea oggi si chiama UniversidadPopular de Valparaíso (Upv), un lungo percorso di attivitàanimate da diverse organizzazioni sociali e studentesche eda numerosi intellettuali. La Upv è un’organizzazione chenon solo appoggia i movimenti sociali emergenti, ma cercaanche di essere uno strumento capace di contribuire allacreazione di un’alternativa, di un’organizzazione capace di

Università autonoma e lotte sociali

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governare insieme alla maggioranza degli esclusi e deglisfruttati in Cile.

La Upv si pone l’obiettivo di costruire e connettere glispazi eterogenei che rivendicano sanità, casa e lavoro a par-tire dalla formazione dei soggetti in lotta. La Upv non è unatradizionale istituzione educativa e non intende riprodurnei meccanismi e i contenuti. Al contrario. Essa prende posi-zione contro le diseguaglianze e le ingiustizie generate dalsistema per collocarsi nel dibattito politico in maniera criti-ca e radicale rispetto ai contenuti e alle pratiche educative.Mediante corsi, conversazioni e lezioni tratta temi come laricomposizione sociale, il processo di accumulazione neoli-berista e il suo impatto sulle lotte dei lavoratori, la storia delmovimento studentesco, i diritti e i conflitti sindacali, i mez-zi di comunicazione, l’economia critica e le teorie marxistecontemporanee, le lotte femministe e ambientaliste, ecc.

L’esperienza della Upv non può essere compresa se nona partire delle varie lotte sociali e politiche che si sono di-spiegate negli ultimi anni. Esse sono nate dallo scontento so-ciale, in costante crescita esponenziale, che è culminato nel2011 con l’esplosione dei conflitti legati alla questione delgas a Magallanes, con gli scioperi dei lavoratori del rame, ilsaccheggio delle risorse naturali, la privatizzazione della sa-nità, il collasso del sistema pubblico, le condizioni indegnedi lavoro, la costante e sistematica repressione contro i po-poli Mapuche e Rapa Nui, i conflitti regionali che compon-

Università autonoma e lotte sociali

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gono il lungo elenco di richieste e insoddisfazioni dei cilenirispetto al modello attuale.

Il caso più emblematico di questo acuto malessere è legatoalla crisi del sistema educativo. Abbiamo visto come migliaiadi manifestanti hanno invaso le strade per protestare controil profitto nel campo dell’educazione. Il 2011 ha segnato unarottura per il movimento studentesco, con un salto radicaledalle rivendicazioni e dalle pratiche di resistenza fino aesplicitare questioni programmatiche che il movimento hamesso in campo di fronte al processo neoliberista. L’apportosignificativo delle lotte studentesche consiste nell’aver resocomuni nella società cilena rivendicazioni strutturali voltea instaurare un nuovo ordine economico, politico e socialea partire dall’educazione, che immediatamente si estendea tutta la società. In questo processo diventa evidentel’intenzione di costruire un discorso politico che si pongal’obiettivo della lotta per l’egemonia: per esempio, rispettoall’esigenza di rinazionalizzare il rame e alla necessità diuna riforma tributaria che favorisca la gratuità universaledell’educazione pubblica.

Il corpo studentesco ha fatto proprie le rivendicazioni po-litiche complessive trovando un ampio appoggio nella socie-tà civile e rompendo così la nefasta logica dell’apatia. Tut-to ciò emerge chiaramente nella semplice e potente paro-la d’ordine impressa nell’immaginario cileno di oggi: «Noal profitto nell’educazione». Contro l’esclusione sociale el’emarginazione provocate dai meccanismi di indebitamen-

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to e privatizzazione, il movimento studentesco sta conti-nuando ancora oggi a lottare. I fatti del 2011 hanno segnatol’inizio della crisi del modello politico-economico egemone,l’orientamento ufficiale ha cominciato a perdere prestigio ecredibilità, le ragioni di chi vive un malessere sociale hannoriscosso un vasto consenso tra la cittadinanza.

La Upv considera come compito proprio quello di accet-tare la sfida della costruzione di un’alternativa, superandoil settarismo ideologico, il riformismo strumentale e il mitodella purezza proprio della sinistra. Nel contesto attualedobbiamo comprendere la realtà e saper agire per la costru-zione di un potere reale, rafforzare i processi di elaborazio-ne, organizzazione e formazione politica: questo è il compitofondamentale di una sinistra che voglia avere come progettoquello di lottare complessivamente per costruire la propriaegemonia nella società.

Traduzione dallo spagnolo di Alioscia Castronovo

Università autonoma e lotte sociali

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Mauro Staccioli, Senza titolo “Muro”, XXXVIII Biennale internazionale d’arte,Venezia, 1978. Cemento, 800 x 800 x 120 cm. (Foto Enrico Cattaneo).

Altri percorsi di lettura:

Intervista a Natalia Polti di Claudia Bernardi e AliosciaCastronovoBachilleratos populares

Università autonoma e lotte sociali

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Educazione americana

Eric MartinOltre gli scioperi studenteschi

Bruno CavaIl colore della quota

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EDUCAZIONE AMERICANA

Bachilleratos populares

Pedagogia autogestita a Buenos Aires

Intervista a Natalia Polti di Claudia Bernardi e Alioscia Castronovo

L’esperienza dei bachilleratos populares nasce dieci anni fa a Bue-nos Aires, quando il sistema educativo pubblico entra in crisi e ar-riva al collasso a causa delle politiche neoliberiste. Qual è la rela-zione tra la nascita dei bachilleratos populares e il processo diesclusione dei giovani dalla scuola?

Non è possibile spiegare la nascita dei bachilleratos popula-res senza considerare il processo di ristrutturazione delloStato argentino, che inizia nel 1976 con l’ultima dittatura esi sviluppa fino al decennio del neoliberismo sfrenato del1989-1999. Nell’ambito educativo queste trasformazionihanno prodotto il decentramento amministrativo e il con-seguente passaggio della responsabilità dell’educazione ai

Bachilleratos populares

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livelli provinciale e municipale (di fatto un disinvestimentorispetto al sistema educativo). Contemporaneamente la leg-ge federale sull’educazione ha ridimensionato l’importanzadei programmi educativi per adulti inserendoli all’internodi uno spazio semiresiduale, quello dei cosiddetti «regimispeciali», dimostrando un evidente disinteresse rispetto aigiovani e agli adulti in quanto soggetti in formazione.La conseguenza di questa scelta è stata disastrosa: nel 2001circa 14 milioni di giovani e adulti in Argentina erano esclu-si dal sistema educativo (il 67% era costituito da giovani daiquindici anni in su).In questo contesto i bachilleratos populares sorgono perdare una risposta a chi vive in una condizione di «rischioeducativo», cioè corre il pericolo di emarginazione dalla vi-ta sociale, economica e politica proprio perché non ha ac-cesso all’educazione. Sebbene la nascita di queste esperien-ze si iscriva all’interno di una situazione di emergenza, leproposte pedagogiche non vogliono essere semplicementeun aggiustamento provvisorio, superabile col risolversieventuale di tale situazione, bensì il contrario. Si tratta diuna proposta politico-pedagogica che intende ripensare etrasformare la funzione sociale della scuola recuperando latradizione freireana di educazione popolare.

Come si può descrivere il progetto pedagogico-politico dei bachille-ratos populares e cosa significa concretamente autogestire il pro-cesso scolastico?

Bachilleratos populares

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Nel progetto pedagogico-politico delle scuole popolari è im-plicita una visione della scuola che la qualifichi comeun’organizzazione sociale, con l’obiettivo di formare politi-camente i soggetti favorendo lo sviluppo di capacità criti-che e riflessive e i processi di autogestione del lavoro. Que-sto emerge tanto dalle forme organizzative quanto dallepratiche pedagogiche sperimentate. Per esempio, èl’assemblea mensile di docenti e studenti il luogo in cui sidiscute e si prendono decisioni comuni su come debba svol-gersi il processo di insegnamento-apprendimento, di qualiregole dotarsi, come organizzare le pulizie dei locali, oltread analizzare la situazione delle scuole in rapporto allo Sta-to e realizzare attività con altre organizzazioni.Il lavoro in classe ci permette di portare avanti un modelloeducativo sensibile alle diversità degli studenti (sia relativaall’età che ai percorsi educativi pregressi) e rompe con ilmonopolio del discorso favorendo gli interventi personali.Infine vi sono le commissioni di lavoro miste tra studenti edocenti, funzionali a organizzare collettivamente la dimen-sione amministrativa, la manutenzione degli spazi, le ini-ziative culturali e l’attività quotidiana della scuola.

Come è stato possibile ottenere il riconoscimento dei titoli, le borsedi studio e gli stipendi? Qual è l’importanza della lottanell’esperienza educativa?

Bachilleratos populares

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Tutti i bachilleratos populares sono d’accordo che tocca alloStato garantire l’accesso all’educazione e si sono organizza-ti fin da subito per esigere il riconoscimento dei titoli,l’accesso a borse di studio da parte di tutti gli studenti sen-za discriminazioni, lo stipendio per i docenti e il finanzia-mento complessivo dei bachilleratos. Da sempre, come Ba-chillerato Chilavert, noi abbiamo partecipato, docenti e stu-denti, a innumerevoli manifestazioni, escraches e lezioni inpiazza e continuiamo a farlo perché non tutti i bachilleratospopulares hanno ottenuto il riconoscimento e il finanzia-mento. Così nel 2008 si sono ottenuti il riconoscimento deititoli e le borse di studio e nel 2011 la retribuzione per i do-centi (ma non per i tirocinanti).La partecipazione degli studenti a questi processi è decisivaper la loro formazione in quanto soggetti politici, proprioperché valorizzano i saperi che si formano nell’esperienzadella lotta. Gli studenti partecipano spesso anche alle mobi-litazioni legate ad altri spazi autogestiti, in particolare lefabbriche recuperate.

Molte scuole popolari si trovano, infatti, all’interno delle fabbricherecuperate e autogestite dai lavoratori (Ert). Qual è il rapporto trail progetto pedagogico e i movimenti sociali, in particolare con leErt?

Pensare la scuola come organizzazione sociale implica pen-sarla come spazio di lotta, dove i saperi sono continuamen-

Bachilleratos populares

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te messi in discussione. La scuola può essere uno spazio do-ve si riproducono rapporti sociali di dominio, oppure unluogo in cui si creano nuovi rapporti sociali, valori e saperi,idee e azioni che tendono alla trasformazione sociale. Pres-so i bachilleratos populares situati nelle fabbriche recupe-rate è centrale lo studio di una materia particolare, il coo-perativismo, proprio perché l’esperienza dei «lavoratorisenza padroni» è considerata un’alternativa reale utile apensare forme diverse di organizzazione del lavoro.La relazione fra i lavoratori di Chilavert e la propostapolitico-pedagogica della scuola si è andata consolidandocon il tempo, tanto che quest’anno un gruppo di lavoratoriè diventato parte del gruppo docente dei corsi di cooperati-vismo. Gli studenti stanno vivendo un’esperienza pratica diautogestione attraverso la realizzazione di una produzionegrafica che viene stampata nella stessa fabbrica.La classe si organizza come una vera e propria cooperativache decide e porta avanti collettivamente tutto il processoproduttivo, determinando quanto si deve produrre, curan-do l’editing e la veste grafica, la stampa e la commercializ-zazione del prodotto, appoggiando al tempo stesso le riven-dicazioni e le lotte degli operai e dei movimenti sociali.

Traduzione dallo spagnolo di Alioscia Castronovo

Bachilleratos populares

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Mauro Staccioli, Arco rampante ’08, Giardino di Daniel Spoerri, Seggiano, 2009.Acciaio Corten, 805 x 805 x 90 cm. (Foto Aulo Guidi).

Altri percorsi di lettura:

Educazione americana

Eric MartinOltre gli scioperi studenteschi

Bruno CavaIl colore della quota

Bachilleratos populares

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Roberto VargasUniversità autonoma e lotte sociali

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Bachilleratos populares

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PERSONAGGI D’ECCEZIONE

Personaggi d’eccezione

Sono almeno quattro gli aspetti fondamentali di alcu-ne fiction televisive americane che vogliamo qui met-tere in luce. Il primo è la dimensione attoriale: questefiction sono imperniate su personaggi che non si pon-

gono più come un vessillo di un’emancipazione identitaria odi un ethos, non sono dunque più «eroi», ma personaggid’eccezione che promuovono nuove forme di identificazio-ne. Il secondo aspetto è la questione categoriale che pertienea tale eccezione: essa si presenta come un’estremizzazionedelle procedure (professionali e criminali) che finisce perneutralizzare la convenzione morale e l’ipocrita calcolo so-ciale dei contrappesi. Non manca infine una determinazionespaziale precisa di tali personaggi (terza caratteristica pre-gnante): alla centralità di rappresentanza dell’eroe si sosti-tuisce infatti il carattere intenso della perifericitàdell’«eccezionalista». La marginalità sociale del protagoni-sta delle fiction consente di esaltare l’autonomia del suo sa-pere e del suo volere a scapito dei doveri e dei poteri istitu-

Personaggi d’eccezione

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zionali. Infine, sul piano temporale, il personaggiod’eccezione sogna la rimozione, l’amnesia se non l’amnistia,perché la sua condotta è spesso ingloriosa, disonorevole esenza decoro. Il polo dell’eccezione è così la protesi spettato-riale esaltante rispetto a un’intimità perdente o irrisolta checonsente di trovare un polo di comunione.

Laboratorio di Semiotica dello IULM

Altri percorsi di lettura:

Pierluigi Basso FossaliEffetti di carisma

Giacomo FestiEccezion fatta, eccezion ficta

Valentina CarrubbaLo specchio di Calibano

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Personaggi d’eccezione

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PERSONAGGI D’ECCEZIONE

Effetti di carisma

Nelle fiction di conservazione

Pierluigi Basso Fossali

La ricerca ansiosa di leader, il solerte credito concessoai guru, la voga dell’opinionismo e il discredito delmetodo (soprattutto nell’ambito delle scienze uma-ne) sono tendenze sociali tutt’altro che irrelate. At-

traverso di esse passa ambiguamente tanto la presunta ri-cetta per i mali della democrazia occidentale quanto la pos-sibile diagnosi delle patologie endemiche di quest’ultima. Sipuò ragionevolmente sospettare che la «civiltà» sia malatadelle proprie stesse cure o che si autoinduca uno stato dimalattia temendo uno sguardo lucido su se stessa. I civili piùilluminati, tutt’al più, inviano una visita fiscale.

All’interno di un’indagine sullo stallo che affligge il pre-sente politico ci si può chiedere se esso non abbia subito ef-

Effetti di carisma

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fetti di rinforzo attraverso diete culturali che sotterranea-mente hanno influito in modo del tutto impensato sulle at-titudini dei cittadini. Facile è prendersela con certa culturatelevisiva berlusconiana che, tra l’altro, è stata in larga parteevitata proprio da quelli che lo stallo lo percepiscono e lo vi-vono come una condizione personale da cui sortire. Servonoaltre risposte per spiegare una paralisi che si sospetta possaessere solo immaginaria: risposte di finzione. E queste pos-sono forse cominciare a emergere non appena ci si domandiquale spazio è stato riservato negli ultimi anni ai personaggid’eccezione nelle nostre diete televisive.

Lo sdoganamento della fiction televisiva come un prodot-to degno del consumatore culturale più scafato e raffinatoha consentito di allentare le briglie critiche a favore di unafruizione sempre più catartica e appagata della saga di pro-tagonisti che rompono regole sociali, metodi ripercorribi-li, finanche interdetti morali. Questi prodotti arty, almenoda Twin Peaks in poi, hanno condotto un’intellighenzia sem-pre più deposta nel garage della frustrazione, o parcheggia-ta nei talk show con l’obbligo del motore spento, a coltivarsiin privato una passione: la solerte identificazione in figurecome House, un geniale medico malato e di irraggiungibilecinismo (House M.D., 2004-2012); il dottor Lightman, un aci-do segugio della verità alquanto incline alla menzogna (Lie toMe, 2009-2011); Walter White, un chimico fallito, malato ter-minale e spacciatore (Breaking Bad, 2008-2013); Dexter Mor-gan, un poliziotto psicologicamente instabile e «avveduto»

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serial killer (Dexter, 2006-2013). Non sono che pochi esempidelle ormai innumerevoli fiction, spesso di grande qualità,che pongono al centro un personaggio ambiguo, contraddit-torio, un’eccezione a resto zero. Infatti questi personaggi –di cui non mancano versioni al femminile – scompaginanoil sociale per la loro individualità incontenibile e irregolare,ma nel contempo non offrono affatto esemplificazioni di co-me l’ambiente sociale in cui si muovono potrebbe cambiaredavvero.

Le fiction si guardano bene dal mettere in scena figureprofetiche o che più semplicemente possano dare l’idea diuna reale presa sul presente, talché il loro modello possa es-sere proficuamente esportato. Al contrario, la loro eccezio-ne è sub condicione: vale come frattura locale della norma,certo catartica ma che li destina ad apparire comunque co-me iceberg alla deriva in un oceano di senso comune. In ognicaso non potranno «fare scuola», e a tranquillizzare gli edu-catori vi è il fatto che sono un po’ tutti personaggi disperati.Più che portatori di un avvento, gli eroi «eccezionisti» sonodegli avventizi.

Il primo aspetto individuabile nel personaggio finzionaled’eccezione è quindi il suo paradossale apporto ecologico;porta scompiglio ma rilascia ordine, infrange leggi ma a findi giustizia (o di scienza), cosicché infine non apre alcunareale controversia. È un rimedio locale al senso di impotenzacovato a latere e in segreto dallo spettatore. O forse è comeuna pianta perversa che la notte rilascia tanta anidride «sul-

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furea» proprio per permettere a giorno di riconsegnarciall’uso delle solite bombole d’ossigeno che chiamiamo con-sumi.

Non bastasse, i nuovi personaggi d’eccezione esemplifica-no spesso la superfluità di un periodo di formazione. La lorocondizione anomala e impareggiabile dipende tutt’al più daun accadimento mitico, ma la folgorazione dell’accadimentoX non spiega mai le loro prestazioni. La straordinaria serieBbc dedicata recentemente a Sherlock Holmes (Sherlock,2010-2013) trasforma il personaggio di Doyle non in qualcu-no che è in grado di fare molte inferenze perché ha presta-to la massima attenzione al proprio intorno sociale, ma inun elaboratore di informazioni che provengono dalla più va-sta enciclopedia di saperi che si possa immaginare. Inutilespiegare come Sherlock possa avere immagazzinato tuttaquell’enciclopedia fatta di informazioni totalmente distantidalla sua esperienza diretta; sta di fatto che, per comfortnarrativo, si dà per buona ogni sua suggestiva, vertiginosaricostruzione.

House non studia quasi mai, ma ha freschi tutti i para-digmi eziologici che consentono a un diagnosta di sventa-gliare le possibilità interpretative anche più remote e rare.Con ciò arriviamo alla seconda caratteristica del personag-gio d’eccezione, vale a dire che questi non ha bisogno dispiegare le proprie competenze; e in tale ellissi della loro ac-quisizione si nasconde l’alibi sociale per cui è inutile tenta-re qualsiasi emulazione, tanto più che nel personaggio vi è

Effetti di carisma

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un gene di genialità non trasmissibile. Ciò afferma latamen-te un paradossale paradigma culturale che si accompagnaanche con l’abbandono di qualsiasi metodo, dato che sonol’intuizione, la sensibilità, quando non le doti più o meno pa-ranormali, a consentire al protagonista di realizzare le sueperformance straordinarie. Ciò che è certo è che l’eccezionefinisce per opporsi all’eccellenza, visto che quest’ultima ri-chiede la memoria di un perfezionamento; e, coerentemen-te, i nostri personaggi finzionali non perseguono nemmenola glorificazione, ossia l’eccellenza riconosciuta.

A ogni buon conto tali personaggi non inducono affattoun’emulazione, non invitano a dirigersi verso una ricercadi conoscenza, tanto meno prospettano una mobilitazionecivile. Ecco allora che personaggi di questo tipo finisconoper promuovere nello spettatore solo una catarsi sterile, nelmentre paiono incarnare il punto limite di un’esaustionedella tenuta del sociale. Se sono esaltanti, inoculano nel con-tempo un po’ di calmante, se non di oppiaceo – per rimanerea una facile allusione al Vicodin con cui House si impasticcatutto il tempo, e così anche il suo omologo femminile JackiePeyton (Nurse Jackie). Che importa se è mostrata una certadose di cinismo o di immoralità? L’ecologia mediatica ha labuona coscienza di eroi a impatto zero. Non bastasse, piùche pionieri di un avvenire già in nuce nel presente, i perso-naggi d’eccezione svolgono un ruolo − grazie agli effetti me-diatici a lungo termine − di agenti della conservazione.

Effetti di carisma

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Si dirà che ciò è fortemente ripagato dal carisma di questefigure. Ma quest’ultimo è appunto la «grazia» ricevuta diesercitare un’influenza proprio malgrado: un dono che di-viene ben presto l’alibi, anche per l’intellighenzia, per ab-bassare le armi critiche. Si cerca un epicentro carismaticoper giustificare meglio la propria disoccupazione ol’indolenza a prendersi responsabilità dirette. La «grazia»poi non si insegna, ma si permuta: infatti chi ha la grazia delcarisma è facilmente graziato da coloro che potrebbero im-pugnare gli arbitrî, se non i crimini perpetrati sotto le inse-gne del «dono». Attorno al carisma si impernia una doppiascusante: riflessiva, tanto c’è infatti chi risolverà tutto (l’al-tro con il dono), e transitiva, tanto c’è chi assolverà gli effetticollaterali (noi stessi del condono).

A forza di dosi omeopatiche di quell’eccezione che noistessi fingiamo, la democrazia si fa sempre più esangue e lasocietà stessa vive il suo medical drama. Qualcuno dirà che lavera malattia non è della società civile, ma dei poteri econo-mici e chissà, in particolare finanziari. Ora, pare auspicabi-le che venga quanto meno confessata una qualche correitànell’infezione dilagante dello stallo. Certo, si ricorderà chegli stati d’eccezione assegnano alla politica un’appariscenzacarismatica, ma che infine, più o meno sotto traccia, prevaleun pensiero gestionale, economicista.

Senza accorgersi, il desiderio di cambiamento si uniscecosì alla comicità provata compulsivamente di fronte a chivorrebbe una parola politica nuova: c’è serietà solo

Effetti di carisma

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nell’amministrazione, e il carisma serve solo per far spetta-colo e ritenere che le poste sociali si muovano in un frontedell’azione rispetto al quale siamo solo spettatori. Sul palco-scenico salgono così assieme figure istituzionali carismati-che e personaggi finzionali, tanto ricercati quanto poi «in-transitivi», incapaci di incidere nel presente. Il difetto dellarealtà è caso mai che il carisma ha la gambe corte, tant’è cheopinionisti, guru e ameni personaggi della «provvidenza» sirivelano presto un’eccezione forzosa, richiesta su commis-sione, malgrado l’apparenza modesta e posticcia potesse giàsuggerire la desistenza.

La resistenza democratica si è così cristallizzata in unaposa dopo inopportuno testacoda: è come raggelata, guardasolo iceberg che hanno il dono di svettare, senza merito ocompetenza, eccezioni puntuali sospinte da un’ondata me-diatica, nel mentre non si ha più speranza in alcun avventoche non sia il global warming. Il panorama cinico ha sostituitoquello critico, e chi ha il genio di opporsi è soltanto caso cli-nico degno di fiction.

Il vero calcolo della nostra condizione (malattie, comuni-cazione, destini sociali ecc.) è vertiginoso e ormai operabi-le solo da menti che viaggiano a una velocità di elaborazio-ne che finzionalmente surclassa qualsiasi computer. Pensie-ro per analogia o estensione paranormale delle facoltà spo-polano come eccezioni narrative che impediscono poi di in-tentare dei processi alla realtà. Il versante dell’eccezione cheva messo a fuoco non è quello dell’opposizione strenua al-

Effetti di carisma

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la rubricazione (il vecchio spauracchio dell’omologazione),ma piuttosto quello della neutralizzazione: nel nostro amarela fiction si è nascosta subdolamente un’eccezione di rito. Inqualche maniera, abbiamo rigettato anche noi il tribunale. Eormai ciò comincia a fare storia.

Mauro Staccioli, Al bimbo che non vide crescere il bosco, SR 68 Podere SanNicola, Volterra, Luoghi d’esperienza, 2009. Ottone, rame, acciaio inox,

alluminio, acciaio Corten, 1530 x 25 cm. (Foto Bob Tyson).

Effetti di carisma

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Altri percorsi di lettura:

Giacomo FestiEccezion fatta, eccezion ficta

Valentina CarrubbaLo specchio di Calibano

Personaggi d’eccezione

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PERSONAGGI D’ECCEZIONE

Eccezion fatta, eccezion ficta

Quando la fiction pare denegare se stessa

Giacomo Festi

Èdai tempi in cui Umberto Eco rifletteva da par suo sulfumetto Superman (Apocalittici e integrati, 1964) che iltema delle relazioni tra mondi finzionali seriali e so-cietà ha conquistato una sua piena dignità. Trasposi-

zione figurata della catena di montaggio, emblema del mo-derno industriale, la serialità alimenta un’attitudine conser-vatrice dello status quo. In Superman, per dire,l’intemporalità del mito si fondeva con la civiltà del roman-zo. Risentiamo però l’eco di quei tempi: «In una società in-dustriale contemporanea [...] l’avvicendarsi dei parametri, ildissolversi delle tradizioni, la mobilità sociale, la consuma-bilità dei modelli e dei principi, tutto si riassume sotto il se-gno di una continua carica informazionale che procede per

Eccezion fatta, eccezion ficta

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via di scosse robuste, implicando continui riassestamentidella sensibilità, adeguamenti delle assunzioni psicologiche,riqualificazioni dell’intelligenza. La narrativa della ridon-danza apparirebbe allora, in questo panorama, come un in-dulgente invito al riposo, l’unica occasione di reale disten-sione offerta al consumatore» (ivi, p. 252). Si fa largo un mo-dello del rispecchiamento: le strutture dei mondi seriali ri-flettono pedagogicamente i valori dominanti socialmente,in una circolarità di formazioni congiunte (si educa il socialee si dà forma sempre variata allo stesso schema narrativosoggiacente). Sotto sotto, la finzione ridondante sarebbe unaforma di doping sociale, calmante o eccitante, ma propria auna versione del consumo intransitivo, incapace di portaresu altro, di trasporsi su scenari identitari davvero implicativicome quelli propri alla dimensione politica.

Come per le sostanze psicotrope, però, la serialità provocaassuefazione e si richiede una continua inoculazione di dosidi innovazione per rigenerare quel carattere avvincente ne-cessario a far presa sullo sguardo spettatoriale. Da quil’interesse a osservare da vicino il panorama contempora-neo della fiction televisiva, dato che essa si trasforma in ac-coppiamento con i pubblici che ne godono, indicandoci co-me mutano i modi di sensibilizzarsi, cosa sia in grado di av-vincere ancora, e come si estenda l’orizzonte del consuma-bile dal punto di vista delle logiche produttive.

La fiction, insomma, è una frontiera del consumo graziealla propria capacità di costruire mondi narrativi e laborato-

Eccezion fatta, eccezion ficta

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ri identitari. Proprio per questo, si direbbe, essa paga oggi lostallo e la crisi: la carenza di un immaginario dell’avvenire,l’assenza di nuovi assi valoriali portanti, lo sfibramento dellelogiche di genere (science-fiction, western ecc.). Di qui i pro-cessi di estremizzazione o di contaminazione dell’esistente eil tentativo di reperire sfondi narrativi relativamente vergi-ni. A volo d’uccello, oggi la fiction presidia parabolicamentela Storia e i suoi periodi (le fiction d’ambientazione, da MadMan alla produzione scorsesiana Boardwalk Empire), infondedi magia tecnologica le sempreverdi detection poliziesche (ivari Csi), si bea di un gioco narrativo metalinguistico (vedi lefiliazioni lynchiane, Lost su tutti).

Ma c’è qualcosa d’altro, recentemente, che pare indicareun salto qualitativo nell’offerta della fiction e, quindi, nelrapporto con il pubblico. Ci riferiamo a House M.D., a Dexter, aBreaking Bad, a Bones, a Lie to Me, per citare le principali. Fic-tion non più interessate a mettere in scena una coralità col-lettiva ma centrate su un unico personaggio, spesso urtan-te, difficilmente accettabile socialmente, financo riprovevo-le. Insomma, si scalza la figura dell’eroe modello per sosti-tuirlo con alcuni personaggi che qui proponiamo di leggeresotto la chiave dell’eccezione. Il personaggio d’eccezione èl’esito della ricerca di uno stralcio di identità ancora consu-mabile da uno spettatore sempre più avveduto. Non ci sonopiù nuove fondazioni come per l’eroe del mito, non ci sononuovi orizzonti valoriali da far traspirare, incarnandoli, solol’infittirsi di una complessità senza scampo che si intreccia

Eccezion fatta, eccezion ficta

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con le rovine dei mondi passati. Ma come si declina il perso-naggio d’eccezione?

L’eccezione implica innanzitutto un chiamarsi fuori. Houseè insofferente a regole e protocolli, non indossa il camice, èmalato come i pazienti, si sottrae al rispetto comunicativodell’altro, esibendo nelle relazioni interpersonali il propriocinismo corrosivo e un’insensibilità programmatica. Dextere White si chiamano entrambi fuori dalla legge e dalla mora-le, con una differenza. Dexter è già ciò che è, avendo inven-tato un suo codice penale, di cui è il tribuno e il boia, mentreWalter White (Breaking Bad) scopre pian piano di cosa è ca-pace sul versante del socialmente ripugnante pur di racimo-lare qualche soldo, spacciando, uccidendo, fingendo e men-tendo.

L’eccezione, in secondo luogo, elabora un pensiero del re-sto e della marginalità. Il destino identitario dei protagoni-sti è esso stesso un resto di vita. La solitudine senza scampodi House trova un rigurgito di significatività nella sfida dia-gnostica, il resto è noia. A Dexter non rimane che elaborareil mascheramento sociale del normale perfetto, per coltiva-re il suo impulso assassino come unico motore d’iniziativa. AWhite diagnosticano un resto di vita, che vorrebbe chiuderecon un lascito, se non altro economico. Ma ogni progettua-lità che mette in campo produce eccedenze e imprevisti chelo trascinano in un circuito infernale di abbruttimento delsé, fino a farlo diventare davvero un antieroe, in una sorta dichiusura del cerchio.

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L’eccezione, infine, funziona come squarcio sulle cornicicostruite del sociale, grazie anche a quel ricordo d’eroe cheè il barlume dell’intelligenza. Il personaggio d’eccezione ètanto irrisolto sul piano affettivo quanto capace di una co-gnizione d’eccezione. House, ad esempio, da un lato spogliale interazioni dalla comodità dei giochi di faccia e dall’altrogetta luce, grazie ai pazienti che gli arrivano in ospedale, sualcune tensioni che attraversano i domini sociali. Giochi dipotere, difficili convivenze di medicina e religione, impre-visti risvolti legali ecc.: ogni puntata riannoda a suo modoplausibili pezzi di società contemporanea.

La voice over di Dexter, invece, ci fa vivere quasi da fuori,in osservazione di secondo ordine, tutte le situazioni che lovedono recitare sul palco del sociale, denunciando una di-mensione affettiva programmaticamente inaccettata. Whi-te, infine, è una figura di frontiera che riannoda la facciatada salvare dei rapporti inter e intrafamiliari al rimosso diogni possibile abiezione, mostrandoci il lato nero della so-cietà americana.

Se il personaggio d’eccezione non è più, quindi, un model-lo mitizzabile, preserva tuttavia un tratto portante del con-cetto antropologico di mito (leggi Lévi-Strauss), invitandoa chiedersi se oggi non sia demandato proprio alla fictionil compito di costruire narrativamente qualcosa di simile aimiti antichi. Egli è infatti un trickster che incarna contrad-dizioni, traduce tensioni culturali senza risolverle davvero.Volendo riassumerle nel loro scheletro strutturale: House

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sperimenta la dialettica tra volontà di sapere e guarigione.Assorto interamente dall’interesse per la scoperta di una ve-rità della malattia, cinicamente indifferente alle sorti del pa-ziente, incontra nonostante tutto l’efficacia curativa. Dexterè invece un giustiziere che fa sparire i portatori di mortedella società, i serial killer, ma lo fa uccidendoli, non chia-mandosi fuori dallo stesso insieme. La serialità si confrontaqui con il proprio doppio fantasma, la serialità assassina. InBreaking Bad il sacrificio personale per la famiglia (conceder-si al narcotraffico per garantire una sopravvivenza econo-mica alla propria famiglia) travolge e sacrifica tutto il sensodell’agire.

Tali fiction, in sostanza, sfruttano la contrapposizione traarchitettura narrativa e semantica identitaria. Mentre da unlato preservano nella sintassi degli episodi un orizzonte mi-nimamente socializzabile e apprezzabile (una guarigione, laneutralizzazione di un serial killer, il futuro di una buonafamiglia americana), si addentrano nell’oceano del riprove-vole, dell’inganno, del negativo, elaborando una sofistica-ta semantica delle identità in gioco. L’ambiente interno deipersonaggi d’eccezione, come esemplificano i dilemmi eticidi White o i paesaggi interiori disegnati dalla voce di Dex-ter, pareggia i conti con l’ambiente esterno. Il personaggiod’eccezione ci attrae come una voragine di senso pronta aimplodere.

Il paradosso apparente è che qui la fiction sembra persinodenegare se stessa: Breaking Bad è il caso limite, saga quasi

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cinematografica in cui l’episodio singolo non lascia più in-travedere alcuno schema ripetitivo. Tali esperimenti si sot-traggono, in fondo, al patinato, alle passioni spettatorialidel monitoraggio, recuperando una schiettezza e una durez-za nel mettere al centro la morte, la violenza ingiustifica-ta, l’abbruttimento morale. È un sociale, insomma, di cui simostra la carne viva, e l’effetto di vividezza dipende pro-prio dall’impressione di una complessità di scrittura analo-ga a quella dei mondi extratestuali, laddove il carattere se-curizzato di altre serialità invita fin da subito a una distan-za critica. Qui, noi spettatori consumiamo il consumarsi deipersonaggi d’eccezione, in una vertigine di combustioni in-crociate, dissolvenza incrociata del senso. Non rimane allorache una domanda: ci sarà un dopo?

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Personaggi d’eccezione

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PERSONAGGI D’ECCEZIONE

Lo specchio di Calibano

Sulle soglie dell’identificazione

Valentina Carrubba

Un personaggio d’eccezione in una serie televisivasembra quasi una contraddizione. Perché la serie,normalmente, cerca di catturare un pubblico va-sto, e il pubblico vasto dovrebbe corrispondere

all’uomo comune. L’eccezione, però, non è affatto comune, eanzi dovrebbe essere proprio il contrario di quel che è di tut-ti. Eppure il personaggio d’eccezione è arrivato nelle serieottenendo, suo malgrado, un gran successo. Intendiamo par-lare di individui come Gregory House (House M.D.,2004-2012), Dexter Morgan (Dexter, 2006-2013), Walter Whi-te (Breaking Bad, 2008-2013) e Sherlock Holmes (Sherlock,2010-2013), ma gli esempi si potrebbero moltiplicare e simoltiplicano nelle nuove serie. Sono personaggi di genio

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che, per intelligenza e creatività, si distaccano per ogni ver-so dalla norma e dalla banalità di tutti gli altri, violando re-gole, leggi e costumi.

Se ci si chiede cosa ci faccia un carattere simile in unserial tv, si potrebbe ragionevolmente pensare che interpre-ti il diffuso bisogno di rottura degli schemi, e si potrebbe pu-re fantasiosamente sperare che indichi qualcosa come unanuova tavola di valori. Un personaggio che fungesse da mo-dello, d’altra parte, dovrebbe prestarsi a una qualche formadi assimilazione, mentre il suo potere mobilitante dipende-rebbe da un’identificazione. Ma nelle serie di cui parliamoil protagonista non è qualcuno di cui si possano calcare leorme identitarie: troppo geniale per poterlo emulare, trop-po particolare per poterlo modellizzare, sembra non volersiconcedere all’identificazione. E sembrerà che questa sia unaconseguenza necessaria dell’eccezionalità. Contro questoparere basta immaginare qualche soluzione diversa, la qualemostrerà che (e come) si è scelto di valorizzarel’eccezionalità. Certamente l’eccezione comporta una dosed’irriducibilità, la descrizione di una singolarità che evadeciò che è comune. Ma un personaggio eccezionale potrebbecomunque ammiccare all’eccezionalità dello spettatore, po-trebbe mettere in scena un’individualità che ispiri una ricer-ca esistenziale, potrebbe agire argomentando una scelta diautenticità, potrebbe insomma spostare l’identificazione sulpiano di un principio generale, un principio di ricerca, unprincipio di metodo, un principio filosofico, come quello che

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dice che tutti siamo unici e irripetibili, o che dobbiamo di-ventarlo, come lui, passando per la terra di nessuno.

Oltre al fatto che il personaggio non si possa né seguirené emulare, queste serie fanno sì che la sua eccezionalitàsia a tal punto irriducibile che finisce per corrispondere aun’antisocialità. Tra le doti dell’eccezione, come nel suo con-cetto, ci sarebbe una disposizione al conflitto con la norma.Ciò che si argomenta, narrativamente, è un’opposizione tral’affermazione di una singolarità e la violazione di uno o piùpunti del contratto sociale. L’identificazione del personag-gio parte perciò da uno zero in condotta per avanzare, invia d’eccezione, verso un regime di concessività: nonostan-te sia un serial killer, Dexter uccide solo i killer; nonostantetratti male i pazienti, nonostante li umili e si prenda giocodi loro, House è il migliore dei medici; nonostante sintetiz-zi metanfetamine, White è un paladino dei valori familiari;ecc. Entro questi limiti si rende possibile un’identificazione,che procede di soglia in soglia e che arretra quando le si mo-stra l’aspetto reversibile della concessione (nonostante Dex-ter uccida solo i killer, tuttavia è un killer). Lo scoglio eti-co è superato quando l’evasione del protagonista dalle re-gole si sia spiegata nei termini di un trauma infantile, diuna malattia, di un’ipertrofia di qualche facoltà. Le sue do-ti eccezionali, d’altra parte, non mancano di suscitare am-mirazione, facendo apparire, se non la realtà, il miraggio diun’emulazione. E se questa mobilitazione finisce per urtarecontro l’esclusività della dotazione, si può cercare di abita-

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re l’eccezione nel suo rapporto con quel che è comune. Ci sitrova allora da una parte e dall’altra del conflitto, provocatia provocare con un semplice assenso spettatoriale.

La soglia dell’identificazione si può spostare all’internodel personaggio, per seguire la sua voce finché non diventail canto delle sirene. Così, in Dexter, il conflitto di sanguecon la società si assume fino al limite di un’estetizzazionedel corpo a corpo e del carnale. Il colpo, il taglio, la varietàdel fendere e dello stringere, già dalle immagini della sigla,sono azioni di cui si mostra la bellezza quotidiana, mentresi apre un’ambiguità sugli oggetti cui potrebbero riferirsi.La passione del killer si può assimilare sotto ogni aspettoformale, ma il suo contenuto resta ripugnante. Coscienti inbuona parte dell’animo di Dexter, e della parte buona, si as-siste a quella che è la sua rappresentazione sociale. Ciò che èsocialmente accettato, socialmente conveniente, socialmen-te ammirato, appare nella cornice della menzogna, che mo-stra i canoni della costruzione di un «bravo ragazzo».

Questo conflitto di sangue, che si descrive nella primapersona, trova una direzione narrativa inversa nel conflittointellettuale di Sherlock. Oggettivato e in terza persona, ilsuo sguardo si oppone allo sguardo parziale, limitato e sog-gettivo degli altri. L’identificazione si ferma sul protagoni-smo metonimico dei suoi occhi, glacialmente intelligenti einaccessibili da un punto di vista passionale, fatta eccezioneper la passione di sapere. Quel che si può partecipare dellasua identità appartiene alla scienza che lui stesso, e soltanto

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lui, potrebbe costruire. La sua visione delle cose ci è offertaa titolo di una dimostrazione che, in secondo ordine, dimo-stra la sua eccezionalità, assieme ai limiti delle altrui facol-tà. I nostri ragionamenti lo irriterebbero, i nostri discorsi loannoierebbero, i nostri sentimenti genererebbero disprez-zo: noi non sapremmo intrigarlo, mentre lui ci riesce a talpunto che lo vediamo in una doppia rappresentazione, at-traverso il nostro schermo e attraverso gli schermi del suomondo, come se avessimo bisogno di molti occhiali per ca-pirlo.

Il caso di White è quello di un conflitto di volontà, tra ete-ronomia e autonomia. Il suo genio nella chimica fa da scortaall’affermazione progressiva e asintotica, ma soprattutto fa-ticosa, di un’indipendenza. Il protagonista si evolve nella se-rie, riscattandosi dall’immagine iniziale di un uomo medio,perdente, impotente, frustrato, impacciato, represso. A tut-to questo la prima puntata aggiunge la sfortuna, nella dia-gnosi di un tumore che, oltre a dargli due anni di vita, lofa tossire e vomitare e quindi resistere figurativamente ainostri impulsi d’identificazione. Ci si comincia a identifica-re quando il personaggio intraprende il suo percorso di anti-socialità, dandoci qualche prova di un carattere d’eccezione.Eppure tra il suo piano d’emancipazione e i suoi tratti atto-riali c’è uno scarto che fatica a ricomporsi: la sua imperizianell’azione, le sue esitazioni, la sua ingenuità estenuano an-che l’identificazione, che si sposta sempre un po’ più in làdel personaggio, come se fosse lui a seguirla, ma lentamente

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e arrancando. È una lacunosità della realizzazione, una suaimperfettività che si dà anche a livello di rappresentazionesociale. White non riesce a nascondere del tutto le sue occu-pazioni e deve mentire, ma non mente mai del tutto, comenon dice mai tutta la verità. Confessa alla moglie di avercompiuto un’azione illegale, ma le confessa un crimine infe-riore rispetto a quello che ha commesso. E lo stesso farà piùtardi coi suoi amici, scrivendo e recitando, assieme alla mo-glie, il finto copione di chi è incappato nel vizio del gioco.Anche qui, come in Dexter, si fanno appunti sulle sceneggia-ture del sociale.

Appunti che diventano centrali nella serie di House, doveil conflitto è un conflitto che verte sulle rappresentazioni,sui costumi e sugli usi ritenuti convenienti. È il personaggioche esprime in maniera più compiuta l’anelito alla catarsidell’eccezione, a cominciare dalla sua capacità di costruireper differenza una cornice del sociale. La figura del medicostravagante tiene insieme il doppio riferimento della parolacatarsi al campo medico e al campo teatrale. House cura imalati sul piano fisico e però li ferisce sul piano sociale,convinto che la loro guarigione dipenda dallo svelamentodi una qualche menzogna. Del resto, dal suo punto di vista,mentono tutti, in una farsa sociale che egli non evita maidi svelare, mancando ovunque di tatto e discrezione. La suaeccezione mira a sospendere ogni valore condiviso, dalleregole della conversazione alle norme di comportamento,che vengono scimmiottate, iperbolizzate, ridicolizzate, pro-

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iettate insomma entro i confini di una rappresentazione.L’identificazione con House avviene nei limiti della sua man-canza di tatto, e nella concessione di qualche momento li-rico che ci fa intravedere il suo animo tormentato, chiusosul fronte della comunicazione. Ma la questione si complicaquando diventiamo doppiamente spettatori, mentre il medi-co teatrante ci presenta la sua caricatura del sociale. Allorasi resta sulla soglia dell’identificazione, tra la riflessione diCalibano e uno specchio che non sembra fare nient’altro chedeformare.

Sono casi che interpretano diversamente uno stesso rap-porto tra eccezione e conflitto, in una progressione al limitedell’identificazione. Ognuno provoca e offende qualche ri-spetto di un «uomo sociale»: la sua dimensione corporea, lasua intelligenza, la sua volontà, le sue rappresentazioni. Lanorma è violata su più livelli, dai costumi alle leggi, dalle re-gole di conversazione alle massime di comportamento. Ep-pure, se l’eccezione mette in questione parecchi principidel viver comune, non ci presenta, dell’uomo eccezionale,nessuna immagine positiva. Quando si raccolga quello cheil personaggio ci ha lasciato al di qua della sogliadell’identificazione, dopo aver denunciato l’ovvietà del vive-re comune, non ci resta che qualcosa di astratto: ogni con-tenuto dell’eccezione sembra scomparire quando si facciascomparire quello cui si oppone.

Disgiunta dalla parodia sociale, la rappresentazione diHouse diventerebbe una specie di pura riflessività critica;

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sganciata dalla passione criminale di Dexter, l’estetizzazionedel corporeo non indica nessuna azione; senza un confrontocon la stupidità degli altri, l’intelligenza di Sherlock è soloun inno alla deduttività; senza l’opposizione del mondo, ilvolere di White non si sarebbe mai nemmeno faticosamentedestato. Ci resta dell’intelligenza, del genio, anche dellacreatività; ma non sono che vuote facoltà. L’identificazionesembra dover perdere di vista il proprio legame conl’universo dei valori, con una proposta di contenuto. Ci sitrova soltanto a spostare delle soglie, tra l’interno el’esterno del personaggio, tra la sua immagine privata equella pubblica. Decidiamo in modo vario i confini dellamenzogna, comprendiamo i meccanismi della società e, sic-come la serie è intelligente, se siamo intelligenti compren-diamo anche il nostro decidere dei confini della menzogna,comprendiamo il nostro comprendere il meccanismo dellasocietà – ed è chiaro come lo spettatore raffinato possa sen-tirsi attirato da cotanta coscienzialità.

Ma, a parte un ottimo esercizio di riflessione, non si capi-sce cosa ci sia dentro a tutte queste comprensioni, né tantomeno cosa ci sia dentro al personaggio d’eccezione, se nonquesto gioco di specchi. L’identificazione ci porta sul suocontorno negativo, costruito e ispessito nel conflitto con lanormalità. Al di là di questo confine c’è una landa desolata incui si vede qualche meccanismo della serialità. Se ci si chie-de quale sia il destino del suo carattere nel mondo della se-rie, si potrebbe pensare che la serie vada avanti anche per-

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ché crediamo di poter inseguire una qualità e di poterla, inqualche modo, assimilare. Così speriamo che House diventipropositivo o che White si emancipi del tutto, ma bisogne-rà ammettere che, se mai lo diventassero, dovrebbero con-segnarsi alla normalità: il personaggio, nella serie, vive perevasione dalla sua eccezionalità.

Mauro Staccioli, Parco della Cupa ’09, Perugia, 2009. Cinque elementi, pietraserena, Ø 210 x 50 cm cad. (Foto Thomas Clocchiatti).

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MAURO STACCIOLI

Mauro Staccioli

La scultura attraverso l’obiettivo

Simona Santini

Il viaggio alla scoperta del lavoro di un artista non può dirsicompleto se non è accompagnato dall’esperienza e dal rap-porto diretto con le sue opere. La forma, la materia, il colore,le dimensioni, ma anche gli odori, i suoni, la luce, insommatutto ciò di cui l’opera vive, possono essere apprezzati ap-pieno solo entrando in diretto rapporto con esse e con il lorocontesto. Questo è tanto più vero per gli artisti che fonda-no la loro ricerca sull’interazione con l’ambiente, e tra que-sti sicuramente Mauro Staccioli.Solo attraversando la Fiumara d’Arte e salendo sulla collinadi Motta d’Affermo, trovandosi davanti alla Piramide 38° Pa-rallelo, possiamo apprezzare i suoi trenta metri di altezza e ilsuo ergersi, guardiana del mare. Solo entrando nel suo ven-

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tre possiamo sentire questo grande corpo che respira al rit-mo della natura circostante e che protegge la terra che ledà sostegno. Solo avventurandosi nella campagna volterra-na possiamo scoprire, inaspettate, le sculture che l’artista havoluto installare per segnare un paesaggio culturale a lui co-nosciuto e caro, in occasione della grande mostra organiz-zata nel 2009, il cui titolo, Luoghi d’esperienza, in questo sen-so non può essere più esplicito. Solo sbarcando al molo eimboccando come d’abitudine il viale d’ingresso ai Giardinidella Biennale di Venezia, nel 1978, scontrandoci contro ilMuro alto e largo otto metri, avremmo potuto percepire ilsenso profondo di quell’ostacolo e della necessità, imposta,di deviare da un percorso ormai sterile.Difficile documentare una ricerca di questo tipo, difficilesintetizzare l’attività di quarant’anni in poche immagini, maquelle selezionate e pubblicate in questo numero di alfabe-ta2 vanno osservate con questa ottica: un modo per trasmet-tere l’infinita emozione che le sculture di Staccioli evocano.Certamente un lavoro arduo, quello del fotografo che questeopere ha interpretato, ritratto e documentato. A lui è de-mandato ciò che i nostri sensi non possono provare, a lui sirichiede la capacità di trasmettere la sensibilità del luogo, difarci vedere ciò che la sola vista non può. Un’impresa dop-piamente difficile quando l’opera vive proprio del rappor-to con lo spazio che la ospita. Ne nasce un gioco di equili-bri, sottile, delicato: il fotografo inizia un dialogo serrato conl’opera e il suo contesto, un confronto in cui continuamente

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cambiano i punti di vista, in cui lievi movimenti stravolgo-no la percezione e segnano il trascorrere del tempo. È infat-ti il mondo intero che passa attraverso le opere di Stacciolie dentro l’obiettivo; quest’ultimo deve saper cogliere il mo-mento, la luce, la presenza umana, il significato.Con Staccioli la fotografia deve riuscire a diventare sintesiestrema e allo stesso tempo infinita possibilità. È grazie alleacrobazie dei fotografi che lo hanno seguito che possiamo,oggi, apprezzare e rivivere le sensazioni, il clima, la tensionedegli anni dei suoi esordi, con immagini che testimoniano larealizzazione di opere create appositamente per luoghi bendefiniti, durate il tempo di un’esposizione e poi distrutte. Ègrazie ai loro occhi attenti che possiamo visitare il mondodi Staccioli, provando lo stupore di un equilibrio instabile, diuna presenza imprevedibile, o abbandonarci alla calma con-templazione di un paesaggio che lo scultore ha posto in cor-nice.È sicuramente Enrico Cattaneo il più attento interprete dellavoro di Staccioli, fin dall’inizio degli anni Settanta. Con ilsuo uso espressionista del bianco e nero Cattaneo coglie ilmessaggio dell’artista, riduce alle due dimensioni un lavoroche cresceva nelle strade e nelle piazze infiammate, trasfor-ma in immagine una sensazione, traduce l’esperienza in ico-na, come nell’ormai celebre scatto del passo che varca il Fos-so scavato nel pavimento della galleria Mercato del Sale diMilano nel 1981. Sempre questo stesso scatto mostra d’altrocanto l’uso paradigmatico che Cattaneo fa della presenza

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umana, soggetto che interviene inconsapevolmente agendonegli spazi. Il fotografo rende così evidente ciò che sottendeil lavoro dello scultore, obiettivo che sarebbe comprensibileappieno solo attraverso l’esperienza diretta dell’opera: lavolontà di intervenire sugli spazi per dialogare con l’uomoe trasformarlo da oggetto in soggetto, da semplice e mutospettatore in attenta voce critica.Con l’arrivo degli anni Ottanta gli interventi di Staccioli sifanno più sottili e meditati, e anche la fotografia accompa-gna questa evoluzione e traduce i nuovi, precari equilibriche l’artista va componendo, sottolineando insieme il suorinnovato rapporto con la natura, legame che nel corso deglianni Settanta era rimasto latente, schiacciato dalla volontàdi analizzare il rapporto conflittuale instaurato dall’uomocon l’ambiente urbano.Vediamo così, con gli occhi di Cattaneo, sorgere paradossal-mente placida la scultura tra gli alberi della Fattoria di Cel-le, mentre attraverso l’obiettivo di Bob Tyson assistiamo alprodigio di un frammento di cemento calato dal cielo e inca-stonato tra due rami nella rigogliosa natura californiana al-la Djerassi Foundation. Immagini diverse, ma capaci entram-be di trasmettere la meraviglia dell’inaspettato che ci inducea rivalutare un ambiente che, viceversa, avremmo liquida-to con uno sguardo distratto. Sarà proprio Tyson, con la suaparticolare sensibilità, affinata negli studi di geologia, a scat-tare le immagini delle opere realizzate a Volterra nel 2009.In questo caso è proprio l’esaltazione dei colori della terra

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toscana a uscire in tutta la sua potenza espressiva, in sinto-nia con il desiderio dell’artista di celebrare un paesaggio chemostra evidenti i segni di un antico rapporto tra l’uomo e ilsuo territorio.Recentemente lo sguardo di Luca Guarneri ha raccontato lapiramide in acciaio Corten sospesa tra terra, cielo e mareall’interno della Fiumara d’Arte, mentre quello altrettantoesperto di Antonio Renda ha saputo sintetizzare le moltepli-ci suggestioni della mostra ospitata nel Parco Archeologicodi Scolacium a Roccelletta di Borgia, vicino a Catanzaro. Quile sculture di Staccioli, rileggendo i resti di un luogo croce-via di civiltà, hanno saputo sbalordire il visitatore, come ap-pare evidente nella fotografia che ritrae le vestigia di unachiesa abbaziale normanna attraversata dalla Diagonale ros-sa. Un segno netto, incisivo, essenziale come solo l’opera diStaccioli può essere.

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Mauro Staccioli, Diagonale rossa, Parco Archeologico di Scolacium, Catanzaro,Cerchio imperfetto, 2011. Legno cementato, 2500 x 100 x 50 cm.

(Foto Antonio Renda).

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Alberto FizLa geometria deviata del grande costruttore

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MAURO STACCIOLI

La geometria deviata del grandecostruttore

Alberto Fiz

«Guardare un oggetto significa venire ad abi-tarlo.» Questa perentoria affermazione delfilosofo Maurice Merleau-Ponty appare fon-damentale per cogliere la scultura non come

oggetto ma come meccanismo d’interazione percettiva.L’arte plastica come sguardo a distanza si trasforma, tra

la fine degli anni Sessanta e i Settanta, in luogo dello spazioche accentua il proprio ruolo come elemento teso verso ilcambiamento, determinando una rinnovata relazione con ilmondo.

In Italia, già alla fine degli anni Quaranta, Lucio Fontanarealizza alla Galleria del Naviglio di Milano l’Ambiente spazia-le a luce nera. Negli anni Sessanta l’occupazione progressivadi uno spazio esterno avviene attraverso l’Articolazione tota-

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le di Francesco Lo Savio, lo Spazio elastico di Gianni Colombo,gli interventi di Giuseppe Uncini, Nicola Carrino e GiuseppeSpagnulo. Nell’ambito della nascente arte povera va ricorda-ta la mostra Arte abitabile tenuta alla Galleria Sperone di To-rino con la presenza, tra gli altri, di Michelangelo Pistolet-to, Gianni Piacentino e Piero Gilardi, come pure Arte povera+Azioni povere ad Amalfi nel 1968, cui partecipano Anselmo,Boetti, Fabro, Kounellis, Mario e Marisa Merz, Paolini, Pia-centino, Pistoletto e Zorio, insieme a Richard Long e PaoloIcaro.

Non c’è dubbio che il dibattito intorno all’environmentappaia subito di particolare importanza. L’elemento unifi-cante di esperienze tanto diverse sta nella volontà di rende-re l’opera d’arte partecipe di un contesto globale. In tal mo-do l’esperienza plastica s’impone come presenza imprescin-dibile, come proiezione del mondo e non più come elementotransitorio definito a priori.

Chi in Italia, con maggior coerenza, segue la stradadell’arte ambientale è Mauro Staccioli, la cui opera si pone inrelazione dialettica con le esperienze minimaliste e concet-tuali. Sin dalle sue prime installazioni del 1969-70, come Bar-riere, dove una serie di cubi in cemento sono attraversati dalame in ferro, appare evidente la componente ideologica epolitica di opere interventiste che «agiscono lo spazio», do-ve l’ambiente non è più contenitore ma elemento struttu-rale del nuovo contenuto. E a tale proposito Staccioli scrivenel 1976: «Le mie sculture non sono pensate come oggetti di

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abbellimento stabile della città, come monumenti, non illu-strano o celebrano un evento; sono strumenti di provocazio-ne, di coinvolgimento e rilevamento critico, richiamo e con-dizione esistenziale presente, occasione di una discussionepubblica collettiva».

Se le neoavanguardie privilegiano un atteggiamento ridu-zionista e tautologico, Staccioli sceglie una strada ben piùimpervia, che è quella della scultura-intervento, dichiaran-do la propria sfida al contesto sociale attraverso una metafo-ra militare. Le Barriere, così come gli Autocarri, sono gli stru-menti di una guerriglia estetica che si consuma nei primi an-ni Settanta senza alcuna forma di compiacimento o di reto-rica.

La prima mostra di Staccioli in uno spazio urbano è del1972, a Volterra, sua città natale. In quell’occasione esponecinque installazioni destinate a rivitalizzare il processo sto-rico e che assumono un significato civile e politico: davantialla Porta Etrusca, difesa dai cittadini durante l’invasione te-desca del 1944, sistema un’asta in ferro; alle Balze, il luogodove si trovano i resti delle mura etrusche, posiziona una se-rie di pali neri inclinati verso l’esterno. In piazza dei Priorila lotta tra guelfi e ghibellini è rievocata da una barriera diforme piramidali inclinate.

Staccioli, dunque, innesca un meccanismo di riflessionecritica e dialettica profonda, dove il luogo stesso attiva nuo-ve energie; i suoi manufatti edili realizzati in ferro e cemen-to sono concepiti per il luogo dove vengono costruiti per

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un uso temporaneo. Dopodiché vengono distrutti. In tal mo-do non fa altro che ribadire la componente processuale edesistenziale di un’indagine che intercetta la precarietà delmondo.

Un procedimento radicale, quello di Staccioli, che con isuoi interventi giunge addirittura a vietare l’accesso ai luo-ghi dell’arte: nel 1975 chiude la Galleria Bocchi a Milano conuna parete rostrata in cemento a cuneo e nel 1978, alla Bien-nale di Venezia, realizza in loco un Muro quadrangolare inlaterizi e cemento di fronte al Padiglione Italia (il Muro com-pare in una celebre sequenza del film di Alberto Sordi Le va-canze intelligenti del 1978), una vera e propria barriera fisi-ca per gli spettatori che di fronte a questo imprevisto mo-nolito sono costretti a deviare dal percorso consueto. Nellascheda di partecipazione alla mostra Staccioli spiega le ra-gioni della sua scelta affrontando un tema cruciale, ovverola mancanza di comunicazione dell’opera d’arte che diven-ta ostacolo a se stessa. Evidentemente, l’artista coglie la crisidi un sistema che corre il rischio di implodere, condizionatodal proprio narcisismo autocelebrativo. Il significato del Mu-ro emerge con evidenza proprio nella fase caotica che stia-mo attraversando di fronte al prevalere di modelli linguisti-ci consumati e ampiamente metabolizzati, privi di una loroautonoma forza creativa.

Quali che siano i loro significati metaforici, le opere diStaccioli hanno un determinante impatto fisico che implicala partecipazione attiva dello spettatore, parte in causa di un

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processo conoscitivo dove l’individuo è costretto a interagi-re con il luogo attraverso un’esperienza non solo razionalema anche emotiva.

È datato 1981 il suo intervento più provocatorio, che sipone nella medesima direzione concettuale del Muro:all’interno della galleria milanese Mercato del Sale rompeil pavimento e scava un fosso profondo che taglia in duelo spazio, ponendo gli spettatori di fronte a un’improvvisascossa tellurica dove ciascuno può decidere o meno di supe-rare il fossato. Un’azione svolta con coerenza in sintonia conl’idea di una scultura-segno che sin dall’inizio degli anni Set-tanta è stata al centro dell’indagine processuale e situazio-nista. Se l’artista americano Robert Smithson aveva conia-to il termine «non-luogo», Staccioli agisce sul «superluogo»fecondandolo attraverso le sue opere plastiche, «oggetto esoggetto per un rilevamento critico della condizione umananella società», come afferma lui stesso.

È piuttosto curioso come nel 2007 Doris Salcedo abbiarealizzato alla Turbine Hall della Tate Gallery Shibboleth,un’installazione site-specific che prevedeva una crepa attra-verso tutta la pavimentazione del museo secondo un princi-pio sorprendentemente simile a quello realizzato da Staccio-li ventisei anni prima. Appare chiara l’attualità di un mes-saggio che ha avuto ampie ripercussioni sull’arte di oggi,trovando verifiche inimmaginabili da parte di artisti entratinel mainstream del contemporaneo.

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Un aspetto di notevole interesse che vale la pena di essereapprofondito è la relazione con il minimalismo. Su questopunto Staccioli è stato molto esplicito e in un testo del 1993ha scritto: «Non mi riconosco nell’arte minimal, in quelleesperienze che muovono da presupposti molto lontani daimiei. Nel mio lavoro non c’è tanto una preoccupazione for-male, quanto quella di produrre, attraverso la scultura, unacomunicazione forte che agisca sugli aspetti profondi delnostro stare, del nostro essere, del nostro vivere il mondo.Nel mio caso c’è un’evidente intenzionalità, un’evidente ela-borazione finalizzata al senso del dire più che al modo di di-re».

Sebbene tali considerazioni siano in buona parte condivi-sibili, la questione appare assai più complessa e, a mio avvi-so, rappresenta un nodo centrale su cui riflettere per com-prendere la specificità dell’indagine condotta da Staccioli.Il punto di congiunzione può essere rintracciato nell’uso dimateriali edili (il cemento viene privilegiato anche da Ri-chard Serra), ma soprattutto nell’utilizzo di strutture prima-rie. L’assunto dell’architetto tedesco Ludwig Mies van derRohe «Less is more» potrebbe valere sia per Staccioli sia peri minimalisti.

Il grande collezionista Giuseppe Panza di Biumo nel 1999,in un saggio di particolare significato, ha affermato che conStaccioli «ci troviamo di fronte a opere minimaliste perideazione e forma che, nello stesso tempo, possiedono undinamismo interno più umano». Ma se lo sviluppo formale

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dell’opera rientra in un contesto minimalista, esistono dif-ferenze fondamentali tra i due procedimenti, che sono rin-tracciabili nel rifiuto da parte di Staccioli di una ripetizionemodulare e in una ferma opposizione a un’indagine che pri-vilegi il concetto rispetto all’oggetto, annullando l’approcciodi tipo manuale. Per lui la scultura è la costruzione dell’ideaattraverso il lavoro manuale.

Staccioli è un costruttore in grado di rinnovare il signi-ficato del proprio intervento evitando un’alienazione di ca-rattere intellettuale. Le immagini di Enrico Cattaneo che do-cumentano le sue azioni degli anni Settanta, quando cemen-tifica le opere nei luoghi stessi dove le colloca, hanno un va-lore emblematico paragonabile a quelle di Ugo Mulas che co-glie l’attimo in cui Lucio Fontana taglia la tela.

Staccioli prende parte alle controversie del mondo e ne ri-mane implicato attraverso una serie di installazioni che nonrinunciano mai a un corpo a corpo con il luogo. I suoi inter-venti sono caratterizzati da un equilibro sospeso e ansioso,come dimostrano i tanti elementi oscillanti che impongonola loro architettura arbitraria su luoghi ben connotati. Bastipensare al poligono irregolare in bilico sulla scalinata dellaGalleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma (1981), che appa-re in netta opposizione rispetto alla retorica magniloquentedell’edificio. Ma vanno in questa direzione anche il muro diTel Hai del 1983 sospeso sulle montagne della Galilea, vici-no al confine tra Israele e Libano, così come, l’anno dopo, la

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lunga stele appoggiata in discesa sulla gradinata che condu-ce alla University Gallery di Amherst nel Massachussets.

Sono sculture «sempre protese oltre il baricento», comeha scritto Panza di Biumo, caratterizzate da un dinamismopotenziale che si trasferisce al paesaggio tanto da riconno-tarlo. È questa una prerogativa fondamentale dell’opera diStaccioli che ha sviluppato la propria geometria deviata, la-tente, fondamentalmente irregolare, senza mai rinunciarealle premesse poste all’inizio degli anni Settanta. Se allora lesculture avevano un aspetto persino inquietante, negli annisuccessivi si è andata attenuando la componente espressivaattraverso una più sofisticata integrazione tra l’interventoinstallativo e il contesto spaziale, sino a creare quello cheStaccioli, con felice intuizione poetica, definisce «sensibileambientale». Non è venuta meno, però, la forza provocato-ria delle sue opere che, pur rilevando una sempre maggiorsofisticazione, continuano a rilasciare la loro energia rispet-to a un contesto che, ogni volta, va incontro a una nuovaverifica; il paesaggio è parte dell’opera in base a interventisite-specific, dove la scultura respira all’unisono conl’ambiente.

Nell’ultimo decennio tutto ciò è reso più esplicito dallegrandi strutture in acciaio Corten che assorbono il paesag-gio e, nello stesso tempo, ne vengono assorbite. Sono luoghid’interferenza che creano un dialogo tra pieno e vuoto, doveviene accentuata la componente temporale e non passaistante senza che l’opera proietti un’immagine differente di

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sé e del mondo. Il dinamismo statico trova la sua piena ap-plicazione mettendo in rilievo le potenzialità di un proce-dimento dove l’opera d’arte è una presenza che esiste soloin quanto parte del reale da cui si alimenta. Una sculturaespansa, insomma, che mantiene intatta la propria fisicitàpur dialogando con l’infinito.

Staccioli, del resto, interviene sulla memoria immanentedei luoghi ispirando una nuova fruizione della storia, nonpiù legata alla contemplazione, bensì alla rigenerazione. Nel2011, in occasione del suo importante intervento al ParcoArcheologico di Scolacium in provincia di Catanzaro, è riu-scito a creare un rapporto osmotico tra le sue installazionie l’antica città romana di Minervia Scolacium, superando loiato del tempo.

«Edificare la forma trasporta nell’ipotesi, nell’utopicosenso delle cose, dà significato profondo all’esistenza», af-ferma Staccioli, il grande costruttore che ha saputo proiet-tare l’arte ambientale nel XXI secolo.

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Mauro Staccioli. Primi passi 2009, località Piancorboli, Volterra, Luoghid’esperienza, 2009. Acciaio Corten, 805 x 1300 x 40 cm. (Foto Bob Tyson).

Altri percorsi di lettura:

Simona SantiniMauro Staccioli

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POESIA

Poesia

Abbiamo voluto parlare di poesia contemporaneanon per proporne una qualche sommaria geografia.Ciò implicherebbe uno sforzo di equanime perlu-strazione all’interno di un campo frastagliato e irri-

ducibilmente plurale. La nostra perlustrazione è stata inve-ce preorientata, e questo la rende più simile a una visuale. Seessa non pretende di fornire un’immagine esaustiva delcampo, ambisce a restituirne una sufficientemente esempla-re.

Abbiamo scelto come filo conduttore due incontri che sisono tenuti nella primavera del 2013 ad Albinea e a Rieti. Ilprimo incontro metteva a confronto principalmente il lavo-ro di artisti e poeti, italiani e non. Il secondo chiamava aldialogo poeti e critici italiani. Entrambi gli eventi erano ac-comunati da un interesse per la ricerca di nuove forme discrittura, che spesso esulano non solo da vocabolari e metritradizionali, ma dalla stessa scrittura in versi. Non tutti co-loro che praticano la ricerca in poesia erano presenti ad Al-

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binea o Rieti, ma tra gli autori emersi nell’ultimo decenniove n’era senza dubbio un buon numero.

a.i.

Mauro Staccioli, Senza titolo, (particolare) Djerassi Foundation, Woodside,1987-1991. Cemento, 900 x 40 x 70 cm. (Foto Bob Tyson).

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POESIA

Per una poesia irriconoscibile

Andrea Inglese

C’è qualcosa di così palesemente inattuale nella fi-gura del poeta da renderla nonostante tutto an-cora allettante e carismatica. Nessuno sa più be-ne cosa farsene, ma sembra impossibile rinun-

ciarvi una volta per tutte. Ciò dipende, credo, da una buonaragione. Si percepisce oscuramente che il poeta è un po’l’antitesi degli eroi del nostro tempo: i manager, gli impren-ditori, le star dello sport e dei media di massa, gli scrittori dibest seller planetari. D’altra parte la poesia nella sua formamoderna, ossia lirica, nasce con questa precisa connotazioneideologica: nella metropoli ottocentesca, l’attitudine delpoeta, almeno da Baudelaire in poi, si costruisce per opposi-zione a quella dell’uomo d’affari; da un lato l’enunciato liricoche corrisponde alla singolarità di un oggetto o diun’esperienza, dall’altro il denaro come equivalente univer-sale e ratio economica che ne governa l’uso.[1]

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A questa buona ragione, però, se ne aggiungono alcunecattive, che contribuiscono a mantenere vivo, seppure inmodo intermittente e disinvolto, il culto del poeta. Le pagineculturali dei quotidiani ce ne forniscono alcuni esempiquando saltuariamente decidono di evocare le bizzarre vi-cende biografiche di un poeta defunto, oppure di onorarnela senile saggezza. L’antitesi di cui sopra, con tutto ciò cheimplica di irrisolto e problematico, diviene nella versionegiornalistica una pacifica divisione del lavoro: al poeta ilprivilegio di predicare e di promettere un supplementod’anima, a tutti gli altri di dedicarsi impietosamente, perquanto è possibile, alle carriere redditizie e ai lauti consumi.Da qui una convinta retorica della resistenza che piace moltoai poeti del nuovo secolo, giovani e meno giovani. Ecco allo-ra la poesia farsi custode di autenticità, di valori antichi (bel-lezza formale), di cura artigianale per il linguaggio, di rura-le immaginazione, ma anche di civili indignazioni e velleitàepiche. Di fronte alle minacce dell’incultura e dello spettaco-lo a oltranza la poesia sarebbe l’espressione, e dunque la ga-ranzia, di una qualche incontaminata interiorità: sentimentischietti, immagini profonde, significati ultimi.

Questo vario fronte poetico, che resta in qualche mododominante in Italia, e soprattutto ben riconoscibileall’interno del mondo letterario, ignora però – o si comportacome se le ignorasse – alcune circostanze storiche: nella so-cietà tardo-capitalistica in cui viviamo l’autenticità è unamerce, e l’intimità un mercato estremamente dinamico e in

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espansione. L’industria dell’informazione ha compiuto me-glio di qualsiasi altra il ciclo che va dalla produzione ge-neralista a quella individualizzata. E soprattutto ha fornitoa ogni individuo, come nel sogno delle avanguardie nove-centesche, le protesi tecnologiche per una (sedicente) liberacreazione di sé. Ogni consumatore degno di questo nomeè oggi sorgente e terminazione di un flusso in entrata e inuscita di immagini ed enunciati che gli forniscono l’illusionedi essere padrone, se non della propria vita, almeno dellafetta più intima di essa – quella comprimibile in uno smart-phone o nella propria pagina Facebook. Nessuno vuole quidire che il doppio flusso non comporti un qualche grado dicreatività, di libera e marxiana produzione di se stessi, a pat-to però di riconoscere a monte una coesistenza inestricabiledi stereotipi e invenzioni, di idiozia e intelligenza, di auto-nomia e alienazione, di regressione ed emancipazione.

Solo accettando di esplorare questo intreccio in modo as-solutamente spregiudicato mi sembra sia possibile alimenta-re ancora oggi la componente critica insita nella poesia. Ciòsignifica che la scrittura poetica si pone non solo in conflit-to con l’ideologia dominante e con i suoi modelli di perce-zione della realtà, ma anche con qualsiasi discorso edifican-te, fosse pure quello associato a prospettive antagoniste e ri-voluzionarie. La scrittura poetica, infatti, si fa carico soprat-tutto di ciò che mina quella indispensabile articolazione tradiscorso e azione, tra dicibile e visibile, su cui si erge ogniordine sociale, ma anche ogni organizzata forma di conte-

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stazione.[2] Da qui il carattere tendenzialmente non narrati-vo della scrittura poetica, che si specializza nella configura-zione di paesaggi più o meno disastrati e discontinui. Gli ele-menti primi di questi paesaggi sono inevitabilmente «paro-le vuote» e «oggetti muti», e più generalmente residui inertidi flussi che tendono a fondersi con l’inesauribile e insignifi-cante materialità del mondo. Per questo motivo chi preten-de di scrivere in nome o a difesa della nostra umanità si muo-ve nel cerchio rassicurante di ciò che dà senso e corrispondealle figure conosciute dell’umano, senso e figure ogni giornosmentite non solo dal volto disumano della storia, ma anchedalla distruzione del non-umano a cui la nostra specie è de-dita con crescente successo.

Il «partito preso delle cose» significa, allora, privilegiarenella costruzione del paesaggio tutto ciò che non è umano,viaggiando attraverso salti di scala che oscillano tra il microe il macro, e discontinuità temporali che giustappongonocronologie individuali e collettive, di specie e planetarie. Laconcentrazione sul dato materiale e oggettivo non implica lariproposizione di qualche caricaturale azzeramento del sog-getto. Il soggetto, infatti, è ciò che ogni volta, seppure in mo-do incompiuto e provvisorio, tenta di comporre il paesaggiodi cui fa parte. È una sorta di agente rivelatore che con curalascia emergere quanto le narrazioni individuali e colletti-ve della società attuale lasciano nell’ombra, sorta di univer-so residuale, estraneo ai piani ordinari di soddisfacimentoo sfruttamento dell’esistente. Ma l’orientamento all’oggetto

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neppure deve essere salutato come l’occasione per liquidarela specifica materialità del linguaggio in favore di un’idealetrasparenza comunicativa. Si tenga a mente la nettezza con-cettuale del Tractatus di Wittgenstein: «Il mondo si divide infatti»; «Noi ci facciamo immagini dei fatti»; «L’immagine èun fatto». Francis Ponge ce lo ha ricordato a sufficienza: ilpoeta vive tra il mondo delle cose e quello delle parole; mon-di diversi, ma entrambi materiali e dotati di un ineliminabilegrado di opacità.

Queste riflessioni non hanno come scopo di indicare ten-denze o poetiche che dovrebbero garantire in qualche mododella qualità letteraria di chi scrive poesia. La poesia che piùci interessa, oggi, non è (spesso) nemmeno riconosciuta co-me tale. Invece di resistere si fa invadere o invade, invecedi esprimere l’interiorità si fa strumento di ricezionedell’esteriorità del mondo, invece di procedere secondo or-dini formali ereditati costruisce di volta in volta forme al li-mite del disordine, invece di celebrare i grandi significati siespone al non-senso e all’insignificanza. A dirla tutta, moltiscrittori in Italia rinuncerebbero volentieri ai dubbi privilegidella figura del poeta per praticare semplicemente, indiffe-renti alle corsie editoriali e alle tassonomie critiche, una let-teratura generale.

1. «Ma economia monetaria e dominio dell’intelletto sicorrispondono profondamente. […] L’uomo puramente in-

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tellettuale è indifferente a tutto ciò che è propriamente in-dividuale, perché da questo conseguono relazioni e reazioniche non si posso esaurire con l’intelletto logico – esatta-mente come nel principio del denaro l’individualità dei fe-nomeni non entra» (Georg Simmel, La metropoli e la vita dellospirito [1903], Armando, Roma, 1995, p. 38).

2. È stato forse Jacques Rancière, nella sua Politique de lalittérature (2007), ad aver meglio di altri indagato le ragioniche distinguono la scrittura letteraria dall’oratoria rivolu-zionaria.

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Mauro Staccioli, Da sinistra a destra, Parco Archeologico di Scolacium,Catanzaro, Cerchio imperfetto, 2011. Acciaio Corten, 400 x 1500 x 70 cm. (Foto

Antonio Renda).

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POESIA

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Andrea Cortellessa

EsperienzaUna delle nozioni più equivocate, in poesia, è quella di espe-rienza: convocata con particolare enfasi da chi insiste su que-sta scrittura come se il suo specifico fosse la dizione più im-mediata e diretta del vissuto di chi scrive. Facendo appello,con la stessa immediatezza, al riconoscimento di chi legge:alla sua immedesimazione, ai suoi precordi, alla sua ricono-scenza. La pagina come specchio, insomma. In cui il lettorepossa riflettere, nell’esperienza di chi ha scritto, la propria: lashylockiana «libbra di carne» palpitante, esposta a crudo: dilà da tutti gli schermi linguistici (ma anche intellettuali, filo-sofici, culturali o – non sia mai! – ideologici) che quel vissu-to allontanano, traducono, «lavorano». A partire dal vissuto,certo: la lingua della poesia quel vissuto lo lavora, lo diparteda sé (anche nel senso che lo seziona nei suoi componimentiprimi: come un’analisi chimica, una spettroscopia) – facen-

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do sì che, davvero, possa essere compartecipato. In una delleconversazioni video con Claire Parnet, Gilles Deleuze lo hadetto con brutalità: «la scrittura ha fondamentalmente a chefare con la vita», ma non con la biografia individuale: «la vitaè qualcosa più che “personale”» ed «è disgustoso» chi ridu-ce la letteratura «ai propri affari privati»: è «letteratura dasupermercato, da bazar, da best-seller, la vera merda».

Al riguardo una volta Edoardo Sanguineti – proprio in unapoesia della sua seconda maniera, in apparenza più legataal suo vissuto individuale – si è rifatto a una celebre dico-tomia benjaminiana (con distinzione terminologica assen-te in italiano): «fare / dell’esperienza un’esperienza: (risol-vere ogni Erlebnis in Erfahrung)». La dicotomia è stata ri-chiamata a Rieti, nelle animatissime giornate di maggio de-dicate da ESCargot a Poesia 13, da Gilda Policastro. In un ma-gnifico, breve saggio su Paul Celan mai tradotto in italia-no, e che s’intitola proprio La poésie comme expérience, Philip-pe Lacoue-Labarthe si richiamava all’etimo di queste espres-sioni: delle due è Erfahrung a contenere la radice germanicafaran, viaggio o trasporto, comunque spostamento; è questol’equivalente più corretto del termine esperienza, che con-tiene l’ex-periri latino, «attraversamento di un pericolo» (lostesso termine pericolo deriva da quelli greci peiro, «attraver-sare», e peras, «termine, limite»).

Ora, se l’esperienza di chi scrive può essere trasposta neltesto, quella di chi legge non può invece consistere che nelproprio atto di lettura. Dunque la poesia è davvero

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un’esperienza: l’esperienza del limite rappresentato dalla poesiastessa. Mentre il vissuto di chi ha scritto ci è remoto e intan-gibile, tangibilissimo è il testo che sposta l’esperienza da chiscrive a chi legge: ne è il tramite, il veicolo, il legame. Il tra-vaglio, il lavoro (psichico, emotivo, in una parola cognitivo)che esercitiamo sul testo – quando lo leggiamo davvero – èl’equivalente del lavoro esercitato, da chi scrive, sul propriovissuto. In questo doppio lavoro, precisamente, consiste ilfare dell’Erlebnis un Erfahrung.

ResistenzaEd è proprio per questo travaglio (e non certo per esoterismogratuito, strizzata d’occhio fra iniziati), che la poesia si trovaa essere – spesso – oscura. Quante discussioni, negli ultimidecenni, su oscurità e chiarezza, leggibilità e illeggibilità…A me è sempre parsa – se vissuta come il più delle volte èstata, un match fra contrapposti snobismi – la peggio postadelle questioni. La poesia è per definizione l’oggetto strano –strano attrattore, se si vuole, per la sua «lingua strana», perdirla con Giovanni Giudici –, irriducibile agli altri, non solonel senso strettamente linguistico di Jakobson. Si fa esperien-za della poesia come di uno stato anomalo: con una percezio-ne intensificata e un po’ maniaca, una disciplina se non unamistica dell’attenzione (leggere una poesia come una «pre-ghiera naturale», per parafrasare di nuovo Benjamin), «unpo’ di febbre» insomma. D’improvviso si devono fare i con-ti con qualcosa che sta lì, e oppone resistenza. Anche questo

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termine, resistenza (ha tutte le ragioni a protestare, qui, An-drea Inglese), è spesso equivocato in poesia. Il senso in cui vapreso è quello in cui lo ha impiegato una volta Paul Valéry:«Confesso che non afferro quasi nulla di un libro che non miopponga resistenza».

Quello della poesia è il suo uso in cui più di frequente in-contriamo questa resistenza della lingua: «resistenza» al no-stro desiderio di comprensione immediata, di comunicazio-ne lineare, di senso dato subito e una volta per tutte. Ma mal-posta è pure l’altra contrapposizione, spesso dibattuta (an-che a Rieti), fra poesia e comunicazione: la resistenza non an-nulla la comunicazione (altrimenti non si vedrebbe perchéimpiegare la lingua): semmai la accresce, sino all’iperbole,mercè il suo differimento. Ha scritto una volta Andrea Zan-zotto: «Pensate al filo elettrico della lampadina che mandala luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenzadel mezzo. Se devo trasmettere corrente a grande distanza,mi servo di fili molto grossi e la corrente passa ed arriva sen-za perdita a destinazione. Se metto, invece, fili di diametropiccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera unfatto nuovo, la luce o il colore».

È quella che in amore si chiama delectatio morosa: nella suaattesa si moltiplica a dismisura il piacere che si proverà, poi,allo scioglimento. Il differimento, la differenza della poesia, èil contrassegno di quella che Giorgio Agamben (non a casocommentando il proverbialmente oscuro, ma mai gratuita-mente tale, Osip Mandel’štam) ha definito l’essere contem-

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poraneo come anacronismo: «il contemporaneo è colui chepercepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo ri-guarda e non cessa di interpellarlo». Come contemplare laluce delle stelle, che percepiamo attraverso l’oscurità a infi-nita distanza nel tempo e nello spazio, leggere una poesia è«essere puntuali a un appuntamento che si può solo manca-re».

Diffusione«La mente diffusa» è un sintagma che prelevo da uno dei te-sti letti, a Rieti, da Laura Pugno. L’attributo designa bene unconnotato della poesia di ricerca di questi primi anni del XXIsecolo. Così come si parla di «cinema espanso» – per allude-re al diffondersi della sintassi cinematografica in quella de-gli altri media e, insieme, alla diffusione delle immagini delcinema attraverso gli stessi media –, oggi la poesia diffusa èquella che, anziché racchiudersi nei territori di riserva del-le proprie dizioni più collaudate e dei propri circuiti più ri-saputi, si nutra di altri immaginari, altri concetti, altre tra-dizioni; e al contempo estenda i propri confini nei territoridell’immagine, della performance, dell’installazione. Solo lafrequente pigrizia intellettuale di chi la poesia la pubblica, lapromuove, o semplicemente la legge, vede in questo un in-debolirsi dello «specifico poetico». La poesia è forte proprioin quanto inclusiva, più inclusiva che in passato. (Ma in fon-do Ezra Pound, come si ricorderà, sosteneva che già la suaage demanded era «un cinema di prosa».)

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La mente diffusa, inoltre, ci riporta alla questione del sog-getto e dell’esperienza. A Rieti un connotato trasversale, traautori considerati «post-lirici» e altri «oggettivisti», mi paresia – superata la dicotomia novecentesca fra un io «ridotto»,tendenzialmente annullato, e un soggetto restaurato, sino alsuo trionfo narcisistico – una soggettività neutra.

Il soggetto in questi testi ha una presenza più o menomarcata (non solo in senso grammaticale: magari coglishifters «assonimici» sui quali a Rieti ha richiamatol’attenzione Paolo Zublena), ma non esercita più la sua tra-dizionale funzione regolatrice o coordinatrice, delle perce-zioni e delle cognizioni (la metropolitana driverless evocatada Lidia Riviello in uno dei testi che verranno prossimamen-te proposti da «alfabeta2»; il moto senza direzione di RenataMorresi – «What do we know? We’re just drivers» –; la re-gistrazione di eventi dialogici nelle Inattuali di Gilda Polica-stro). La poesia espansa, o diffusa, del 2013 è una poesia cheforse, dopo averli tanto invocati, sta finalmente costruen-do ponti: tra l’uno e i molti, tra l’io e il noi, tra poesia eprosa, tra parola e immagine, tra il Novecento e il tempoche gli è sopravvenuto. Con la categoria di neutro MauriceBlanchot, come si ricorderà, aveva designato il luogo speci-fico della scrittura; ma, ha sottolineato Roberto Esposito, an-che «il contenuto stesso dell’atto politico». E sempre a pro-posito del neutro citava Marx, Roland Barthes: «È soltantonell’esistenza sociale che antinomie come soggettivismo e

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oggettivismo, spiritualismo e materialismo, attività e passi-vità perdono il loro carattere antinomico».

Un altro componimento presentato a Rieti (e anticipatosu «alfabeta2» n. 29) di Giovanna Marmo, s’intitola Oltre i ti-toli di coda. Lo schermo – una volta terminato il film, il gran-dioso film del Novecento – resta illuminato; ma non vi scor-rono più le immagini di prima, né si vedono ancora quellenuove. È pura potenza, come una squadratura del foglio. Sia-mo qui, seduti in sala: un nuovo film sta per cominciare.

Gilles Deleuze, Abecedario [1996], a cura di Claire Parnet, re-gia di Pierre-André Boutang, DeriveApprodi, 2005.Edoardo Sanguineti, 44, in Id., Scartabello [1980], in Id., Segna-libro. Poesie 1951-1981, Feltrinelli, 1982.Walter Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire [1940], in Id.,Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Ei-naudi, 1962.Philippe Lacoue-Labarthe, La poésie comme expérience, Chri-stian Bourgois, 1986.Giovanni Giudici, Vaga lingua strana. Dai versi tradotti, a curadi Rodolfo Zucco, Garzanti, 2003.Walter Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario dellasua morte [1934], in Id., Angelus Novus, cit.Paul Valéry, Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé… [1931], inId., Varietà, a cura di Stefano Agosti, Rizzoli, 1971.

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Andrea Zanzotto, Intervento [1981], in Id., Le poesie e prose scel-te, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Monda-dori, 1999.Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, nottetempo,2008.Ezra Pound, Hugh Selwyn Mauberley [1920], traduzione di Gio-vanni Giudici, in «il verri», n. 3, 1959; poi in Id., Opere scelte,a cura di Mary de Rachelwitz, Mondadori, 1970.Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento. Scrittisull’insensato gioco di scrivere [1969], traduzione di RobertaFerrara, Einaudi, 1981.Roberto Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofiadell’impersonale, Einaudi, 2007.Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes [1975], traduzionedi Gianni Celati, Einaudi, 1980.

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Mauro Staccioli, La Boldria 2009, SR 68, Volterra, località La Boldria, Luoghid’esperienza, 2009. Cemento e ferro, Ø 600 x 60 cm. (Foto Sergio Borghesi).

Altri percorsi di lettura:

Esempi da Poesia 13

Per riconoscerla: tre connotati

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Cetta Petrollo PagliaraniTre giorni a Rieti

Marco GiovenaleSpettri che parlano

Massimiliano ManganelliEX.IT: contesti aperti

Frammenti da EX.IT

Gilda PolicastroNon come vita

Poesia

Andrea InglesePer una poesia irriconoscibile

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Per riconoscerla: tre connotati

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POESIA

Esempi da Poesia 13

Cantiere aperto di ricerca letteraria

(Rieti, 17-19 maggio 2013)

Maria Grazia Calandroneda Rosa dell’animale

io estraevo da un suolo di calceil passo bianco di un animale estintonon lasciavo residui, ero bianchissimae nucleare, tutto il mondo facevaun silenzio iniziale

ti sei abbattuto come una centuria sui miei passicome una legione di galli rossi: al biancohai aggiunto il canto. dov’era il biancoè intervenuto il canto, fino a dove la schiuma della terrapiegava

oltre questo segnale di confine niente

Esempi da Poesia 13

Page 206: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

stava in piedi. dio, donna, uomo e bestia ciecamenteerano solo canto

Alessandra Cavada La camera rovesciata (Timequakes)

stanno come stanno restano a guardare e vanno ancora perle strade e cambiano città allungano lo sguardo dove quelloche era canto è ora sfondamento e superano vanno sconfinando:contro i giardini i capolinea gli ingressi dei cinema controvogliadentro i treni –

non c’è fine

la città espone sguardi quando affaccia al fiume aggancia il cielo facerchio rotto e specchia e schiude - dimentica dilaga la sorgente metteponti

virgole e due punti fadisegno

sa grafia

Renata Morresida Bagnanti

vicino al lunedìce n’è uno vuoto diore, tutto specie eccitate econtemporaneo niente,mancante minore

Esempi da Poesia 13

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lo sguardo fa da filtroall’estraneo delle coseper esempio fermoin fila di semaforosolo il «piove»

da Trenitalia

«non siamo solealmeno», dice al selfnel tunnel piastrellato giallo

tu-tun tu-tun tu-tun tu-tun fanno

le rotelle mentre andiamodirette al nostro numerodéjà-vurosso di endometrio

life is all around

la mente è un altro postonon ereditario

«ci vediamo, ciao»arrivederci, ci vedremosu Chi l’ha vistocon l’altezza, i numeri egli aggettivi giustiun immenso coloredegli occhi

Esempi da Poesia 13

Page 208: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Laura Pugnoda Home

il letto nel legno d’ulivo,la mente diffusail bagliore attraversa la pelleil ramo che brucia di colponel buio del bosco,– l’imboscata, l’incendio –dici che è fuoco controllato nei campiperfezione terrestre

Sara Ventronida Le relazioni

Hereafter

Lia dice: ho ricevuto talmente tanto che adesso non c’è vuoto.Si tratta di una superba menzogna senza peccato che significame la caverò, mi hai fatto forte abbastanza.Ma ora il dialogo è interrotto e si prosegue nel monologo.È concesso solo un margine di pietà oggettiva per noi dell’aldiqua.Che è tutto poi, si sa. Uno solo è il cieloche ci preme a terra staccato il cordone.

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Cetta Petrollo PagliaraniTre giorni a Rieti

Esempi da Poesia 13

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Marco GiovenaleSpettri che parlano

Massimiliano ManganelliEX.IT: contesti aperti

Frammenti da EX.IT

Gilda PolicastroNon come vita

Poesia

Andrea InglesePer una poesia irriconoscibile

Andrea CortellessaPer riconoscerla: tre connotati

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Esempi da Poesia 13

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POESIA

Tre giorni a Rieti

Minicronaca di un evento «memorabile»

Cetta Petrollo Pagliarani

Buona parte del gruppo degli «Escargottini» li ho co-nosciuti a Roma alla fine degli anni Novanta, allamanifestazione-reading Voce!, organizzata dalla Bi-blioteca Alessandrina presso l’Aula Magna

dell’Università «La Sapienza». Alcuni di loro, come Tomma-so Ottonieri e Sara Ventroni, erano da tempo assidui a casaPagliarani: e ci presentarono i più giovani e allora sconosciu-ti, come Florinda Fusco, Giovanna Marmo o Vincenzo Ostu-ni; o che già conoscevamo bene, come Lidia Riviello. L’ideaera quella di rompere gli ambiti della parola poetica e diquella didattica, realizzando empatia di ascolto e accresci-mento di vitalità. E Voce! fu: declamante e performativa. Se-duto al centro della sala Pagliarani batteva il tempo con la

Tre giorni a Rieti

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mano incoraggiando ritmi e sottotracce ritmiche, impri-mendo col gesto direzioni di marcia.

Poi è stato il tempo di ESCargot: letture e discussioni diquesti autori all’interno del centro sociale ESC a via dei Vol-sci, a San Lorenzo. Da questa esperienza, che ha ormai unpaio d’anni di vita, è nata l’idea del Cantiere aperto: al qualemembri del gruppo hanno invitato alcuni coetanei coi qualiconfrontarsi di fronte a un pubblico di critici chiamati a in-tervenire – come nei precedenti convegni del Gruppo 47 epoi del Gruppo 63, più di recente di RicercaRE a Reggio Emi-lia e RicercaBO a San Lazzaro di Savena – su testi di autori,magari, mai sentiti nominare prima: una tre giorni affanna-tissima (la prima sessione si è chiusa ben oltre la mezzanot-te…) tenutasi a Rieti, nelle Officine della Fondazione Varro-ne.

Il colpo d’occhio, o meglio d’orecchio, al di là delle diffe-renze fra i singoli, restituisce un cambiamento nella posturadella voce: dalla voce centrata e significante di Ventroni, Fu-sco, Calandrone, Policastro, Marmo e Ostuni all’estremo na-scondimento di Morresi e Annovi, attraverso la trasparenzaframmentata di Riviello, Zaffarano, Marzaioli, Pugno, Soccie Giovenale, fino al territorio indistinto dove poesia e prosasi incontrano nella più ampia dizione di scrittura con movi-mento tuttavia inverso rispetto alla «prosa poetica» (cripto-metri che vanno verso la prosa e non-narrazione che si muo-ve verso la musicalità poetica): Fianco, Guatteri, Cava e Ren-da.

Tre giorni a Rieti

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Si ha l’impressione che il terzo millennio – con la nuovamisura del linguaggio digitale, il suo viluppo video-linguisti-co, il presente interattivo della comunicazione e la sua mi-sura breve – sia entrato nella scrittura di queste ultime ge-nerazioni, superando le resistenze di chi vorrebbe tenernefuori la scrittura poetica (come se un amanuense insistesse anegare l’esistenza del libro a stampa). Così si è venuto sosti-tuendo al plurilinguismo novecentesco l’uso di compresentimodalità comunicative (penso a Elisa Davoglio): dalla visio-narietà trasfigurante il quotidiano dei versi di Florinda Fu-sco all’intensità poematica di Sara Ventroni e Maria GraziaCalandrone, dal flusso di coscienza di Gilda Policastro al ge-sto minimo dei più giovani (i già citati Annovi e Morresi).

La discussione si è incentrata su questioni mai sopite delnostro tempo e di quello che lo ha preceduto: il soggetto,l’io, la memorabilità, il significato e la valenza politica dellascrittura.

Alla fine Andrea Cortellessa ha tentato di rispondere alladomanda che riassume tutte le altre: cosa voglia dire «ricer-ca», quale il suo significato politico. E lo ha fatto citando Le-zione di fisica (1964): «e invece non ci basta nemmeno dire noche salva solo l’anima / ci tocca vivere il no misurarlo coin-volgerlo in azione e tentazione / perché l’opposizione agiscada opposizione e abbia i suoi testimoni».

Tre giorni a Rieti

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Poesia13 Cantiere aperto di ricerca letterariaRieti, 17-19 maggio 2013

a cura di ESCargot - Scrivere con lentezza (Maria Grazia Ca-landrone, Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa, ElisaDavoglio, Michele Fianco, Francesca Fiorletta, Marco Giove-nale, Massimiliano Manganelli, Giulio Marzaioli, VincenzoOstuni, Tommaso Ottonieri, Cetta Petrollo, Gilda Policastro,Laura Pugno, Lidia Riviello, Franca Rovigatti e Sara Ventro-ni), con letture poetiche di Gian Maria Annovi, AlessandraCava, Florinda Fusco, Mariangela Guatteri, Giovanna Mar-mo, Renata Morresi, Marilena Renda, Luigi Socci e MicheleZaffarano; e interventi critici di Vincenzo Bagnoli, CeciliaBello Minciacchi, Paolo Febbraro, Giulio Ferroni, FedericoFrancucci, Roberto Galaverni, Paolo Giovannetti, AntonioLoreto, Arturo Mazzarella, Giorgio Patrizi, Fabio Zinelli ePaolo Zublena

Altri percorsi di lettura:

Marco GiovenaleSpettri che parlano

Massimiliano ManganelliEX.IT: contesti aperti

Frammenti da EX.IT

Tre giorni a Rieti

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Gilda PolicastroNon come vita

Poesia

Andrea InglesePer una poesia irriconoscibile

Andrea CortellessaPer riconoscerla: tre connotati

Esempi da Poesia 13

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Tre giorni a Rieti

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POESIA

Spettri che parlano

Marco Giovenale

«La letteratura, come la politica, conta più corpi di quantine identifichi l’ordine poliziesco. Tutte e due includono

nelle loro invenzioni dei quasi-corpi che non sono che“spettri” per lo sguardo dell’ordine dominante del visibile.»

(Jacques Rancière, Ai bordi del politico)

C’è un elemento, carattere o segnale politico nellescritture? In alcune scritture? Diremmo che af-fiora o si nasconde sempre in tutte, e che sta inqualsiasi articolazione del linguaggio. Ma si trat-

terà solo di un carattere frontale, esplicitante, della pagina?Un carattere assertivo? Non si incarnerà piuttosto, tale carat-tere, in strategie formali diverse, in tracce diverse, e in diffe-renti aperture al lettore?

Vorrei suggerirlo. Vorrei anche solo accennare al profi-cuo scompiglio portato nell’«ordine dominante del visibile»da quei graffi e grafie che abitano fuori dal vocabolario del

Spettri che parlano

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dominio (assertivo), e fuori dall’incasellamento matemati-co e poliziesco nei generi letterari. Vorrei dunque, magariin parentesi, lateralmente, anche solo installare una frecciache indica alcune scritture de/generate. (Come di un frumen-to, anche, si dice che può essere deglutinato, privato di uncoesivo che si rivela non essere unico né indispensabile).

Chi ha ancora bisogno di rastrellare e tenere sotto con-trollo ogni possibile emissione di nuove pagine entro il re-cinto di un centro di permanenza temporanea, in attesa dismistarle nei campi dei generi letterari, inizia solitamentecol catalogarle secondo quei parametri con i quali ha pacifi-camente o conflittualmente già fatto i suoi conti. Ne parleràdunque come di «poesia», decapitando ogni differenza; op-pure ne parlerà come di testi che vengono dal periodo/ere-dità delle «avanguardie» o delle «nuove avanguardie». Dirà:a volte sembrano tali, «ergo» sono tali.

A nessuno pare venir in mente che un etiope non è un eri-treo non è un macedone non è un polacco non è un cinese.Se arrivano ex abrupto (?) da fuori sono tutti «extracomu-nitari», no? Certo: ovviamente la comunità è una, santa cat-tolica italiana. Il romanzo della comunità! (La comunità delromanzo). Il resto non conta – se non appunto come resto,scarto.

E poco importa, agli occhi miopi della tassonomia livel-lante, il fatto che per esempio tante nuove scritture di ricercanon italiane, anche semplicemente sotto forma di microoc-correnze di senso che ci fanno vivere senza per forza essere

Spettri che parlano

Page 217: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

«opere», e mostrandosi davvero diversissime tra loro (goo-glism, scrittura concettuale, flarf, glitch, prosa in prosa, mi-croracconto, animazioni flash, post di rigorosa filologia di-gitale, twit pseudoinformativi, terabytes di poesia visiva ar-chiviata online, gif o jpg virali su tumblr, esperimenti graficiasemantici, video astratti, mp3 lobit su soundcloud...), sianogià linguaggi, differenze condivise, e siano già materia e ma-teriale presente attorno a noi. Non conta che si tratti giàadesso della semiosfera e del senso delle nostre mail o sms,delle sintassi verbovisive che implementiamo nei post, dellanatura stessa dei social network (ma intaccata, criticata, ma-gari), dei giornali in rete e fuori, dei blog, dei videogiochi,dei gruppi di discussione, dei muri siglati in spray, dellechiacchierate non certo lineari e assennate che facciamo aquattr’occhi, quotidianamente, extra skype, al bar, ovunquenei canali adsl e in quelli fisici di conoscenza e condivisioneche riguardano e innervano i signa e le vite di milioni di per-sone, di vecchie e nuove generazioni. Che tante nuove scrit-ture configurino picchi di senso inatteso, di cui facciamo tes-suto mentale quotidiano. Che esistano perfino festival e ravee incontri, per chi fa googlism o glitch; e corsi universitarie riviste. Che l’arte contemporanea abiti lì e non (solo) nellegallerie. Che, insomma, i nuovi codici siano materia verbaledel mondo là fuori. Nulla. Per chi resta impigliato nel con-teggio razionale/razionante dei corpi, tutti in casella, si trat-ta e si tratterà sempre di scritture «minoritarie», ma in sen-so spregiativo (non come gli irraggiamenti del minus loquens

Spettri che parlano

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Kafka, di cui sappiamo). Delle nuove scritture diranno nul-la; o che non esistono. O che si tratta, al più, di cattivi o po-co meno che cattivi epigonismi appunto delle stagioni delleavanguardie: solo «spettri», quasi-corpi, frazioni poco sopralo zero. Pagine che di fatto tutti leggono e scrivono? Nulla.Editoria e storiografia non sono in ascolto, non ascoltando levoci attorno.

Invece proprio un’idea di littérature générale – quale era os-servata e «aperta» (non chiusa) in rivista già vent’anni fa daOlivier Cadiot e Pierre Alferi – era ed è l’idea anche fenome-nologica e perfino mappante, ostile al computo e al numerochiuso dei corpi, che risponde più articolatamente e fedel-mente alla situazione contemporanea e alla sua complessità.Per il contesto in cui ci troviamo a vivere, esiste sì una lette-ratura, dunque: viene prima dei generi che conosciamo, checonoscevamo, e può talvolta felicemente prescinderne. Haspessore, ha autori che da decenni in tutto il mondo scrivo-no e dialogano. Si tratta infine di tradurli (e tradursi), dar lo-ro il corpo che già le loro voci hanno. È, la traduzione stessa,un atto – più di molti altri – politico.

Spettri che parlano

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Mauro Staccioli, Tondo pieno 2009, SR 68, località La Mestola, Volterra, Luoghid’esperienza, 2009. Cemento e ferro, Ø 600 x 60 cm. (Foto Sergio Borghesi).

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Massimiliano ManganelliEX.IT: contesti aperti

Frammenti da EX.IT

Gilda PolicastroNon come vita

Spettri che parlano

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Poesia

Andrea InglesePer una poesia irriconoscibile

Andrea CortellessaPer riconoscerla: tre connotati

Esempi da Poesia 13

Cetta Petrollo PagliaraniTre giorni a Rieti

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POESIA

EX.IT: contesti aperti

Massimiliano Manganelli

In tempi di prospettive glocal (parola non proprio grade-vole), può capitare che un piccolo Comune emiliano, Al-binea, diventi per qualche giorno un nucleo pulsante discritture, anzi di «materiali fuori contesto», come recita

il sottotitolo di EX.IT, le tre giornate di incontri ospitate ap-punto dalla Biblioteca Comunale di Albinea tra il 12 e il 14aprile di quest’anno.

Tre giornate densissime di letture, di suoni e di immagini,perché di materiali si tratta, appunto, e non solo di testi insenso stretto, il tutto ascrivibile a un’area che con una buonadose di approssimazione si qualifica come scrittura di ricer-ca, espressione sotto la quale si tende sovente a rubricare unpo’ di tutto, senza discernere troppo tra le varie poetiche. Einvece qualcuno – nella fattispecie i quattro organizzatori diEX.IT: Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marza-ioli e Michele Zaffarano – trova ancora necessario provare a

EX.IT: contesti aperti

Page 222: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

differenziarsi, a definirsi, in una maniera che non è polemi-ca né drastica, senza dunque proporre movimenti o manife-sti, limitandosi invece a circoscrivere un territorio e a inter-rogare chi lo abita. E benché quel territorio sia variamentepopolato – sono ben 31, e assai diversificate, le voci presen-ti nell’antologia che dall’incontro di Albinea è scaturita – èabbastanza agevole riconoscerne i contorni e attribuirgli unnome: nuovo oggettivismo.

È questa la formula, senza alcun dubbio approssimativae generica, che, eventualmente declinata al plurale, sembraunire le numerose esperienze italiane, francesi e statuniten-si messe in campo nell’antologia, legate tra loro da vinco-li non tanto di discendenza – ancorché siano presenti «de-cani» come Charles Bernstein, Bob Perelman e Jean-MarieGleize – quanto soprattutto di affinità.

Fornire una definizione di tale affinità è davvero arduo,eppure essa balza facilmente all’occhio, soprattutto di chi,come il sottoscritto, ad Albinea c’era e ha potuto vedere eascoltare tutti i materiali, anche quelli video (spesso rea-lizzati dai poeti stessi), che per ragioni comprensibilinell’antologia sono solo evocati e non direttamente fruibili.

All’ingrosso si possono rintracciare alcune linee di ricercacomuni, per esempio quella sorta di poetica del mostrareche mette a nudo i procedimenti del testo come i materialiche lo compongono, spesso prelevati dal contesto globaledella comunicazione. In sostanza si mostra l’oggetto, magariisolato e ricontestualizzato, senza aggiungere ulteriori so-

EX.IT: contesti aperti

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vraccarichi del soggetto, che ovviamente non è rimosso,giacché è esso medesimo a costruire il testo, mentre il fa-migerato io lirico viene meno. La logica che sottende inlarga misura queste scritture di ricerca – e forse ogni scrit-tura di ricerca – prevede che il testo si configuri comeun’esperienza, se non condivisa, quanto meno condivisibile,e non giocoforza riconducibile a un soggetto individuale. Ealmeno in questa circostanza i termini esperimento ed espe-rienza rivelano la propria radice comune, tanto etimologicaquanto semantica.

Altri ancora sono i nessi sotterranei che si possono rin-tracciare tra gli autori partecipanti a EX.IT. Per esempio, ilcostante uso dell’immagine (fotografica o video), la qualenon si presenta in veste di mero rimando, ma ingaggia con laparola una ininterrotta dialettica intermediale, al punto daentrare a pieno titolo nell’economia del «testo».

È così che finiscono per deflagrare del tutto i confini di ge-nere, tanto idolatrati dall’editoria contemporanea: sia quellitra generi letterari (in molti degli autori presenti la dicoto-mia prosa/poesia è semplicemente insensata), sia quelli chedividono i diversi linguaggi del fare artistico. Ed ecco perchési parla di «materiali» e non di testi.

Materiali fuori contesto, però, perché estranei alla distri-buzione generalista e dunque spesso invisibili o non facil-mente fruibili. Lo scopo di EX.IT è allora, tra gli altri, creareun contesto in grado di ospitare quei materiali e metterli aconfronto, farli dialogare tra loro. Si scopre così che, pur col-

EX.IT: contesti aperti

Page 224: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

locati fuori, essi sono pienamente in sintonia col nostro pre-sente, non appaiono come qualcosa di alieno dal modo cheabbiamo di esperirlo. Risiede qui il loro essere in contesto,oltre che la loro consistenza allegorica e politica, suggeri-ta forse da una delle possibili interpretazioni della formu-la EX.IT: exit, cioè uscita. È un’indicazione per sperimentaredelle vie d’uscita, magari in direzione del futuro.

Segnato com’è da un carattere intrinsecamente aperto,tale progetto pertanto non trova la propria conclusionenell’incontro di Albinea e nella conseguente pubblicazionedell’antologia. Il lavoro prosegue anche per altre vie: la co-stituzione, presso le Biblioteche Pablo Neruda di Albineae San Gerardo di Monza, di due fondi che ospiteranno idocumenti di questa scrittura di ricerca; e un blog (eex-xiitt.blogspot.it) dove è possibile reperire anche alcuni do-cumenti video. E altro ancora, perché la ricerca non può farea meno di guardare avanti, altrimenti non esiste, in quantoricerca.

EX.IT. Materiali fuori contestoa cura di Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli e Mi-chele Zaffarano. Albinea (RE), 12-14 aprile 2013. Tipografia LaColornese-Tielleci editrice, 2013, 249 pp., s.i.p.

Pietro D’Agostino, Elisa Davoglio, Daniele Bellomi, Alessan-dro Broggi, Mariangela Guatteri, Andrea Inglese, RiccardoCavallo, Manuel Micaletto, Florinda Fusco, Giulio Marzaioli,

EX.IT: contesti aperti

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Fiammetta Cirilli, Bob Perelman, Roberto Cavallera, NathalieQuintane, Alessandro De Francesco, Miron Tee, CharlesBernstein, Michele Zaffarano, Marco Giovenale, AndreaRaos, Luigi Severi, Jean-Marie Gleize, Gherardo Bortolotti,Rosa Menkman, Rachel Blau DuPlessis, Éric Suchère, FabioTeti, Simona Menicocci, Jennifer Scappettone, Rosaire Ap-pel, Marco Ariano

Altri percorsi di lettura:

Frammenti da EX.IT

Gilda PolicastroNon come vita

Poesia

Andrea InglesePer una poesia irriconoscibile

Andrea CortellessaPer riconoscerla: tre connotati

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Marco GiovenaleSpettri che parlano

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POESIA

Frammenti da EX.IT

Gherardo Bortolottida Quando arrivarono gli alieni

27. Dalle distanze della periferia, risuonavano gli allarmi an-tiaerei e si vedevano i fumi di alcuni incendi in corso, iso-lati, tra i condomini ed i parcheggi dei centri sportivi. bg-mole sapeva che alcune cellule di estrema sinistra avevanoiniziato una campagna di guerriglia nei quartieri, assaltandouffici decentrati, piccole filiali di crediti cooperativi e di fi-nanziarie minori. Ogni tanto, il pomeriggio, vedeva arrivaredi corsa, da dopo la rotatoria, drappelli informali di giova-ni con il volto coperto ed un tascapane a tracolla. C’era chisi fermava, una mezz’oretta, a prendere a sassate la vetrinadi un’agenzia di lavoro interinale. Più spesso, proseguivanoverso le uscite della tangenziale, in attesa delle prime colon-ne di blindati delle forze dell’ordine.

Frammenti da EX.IT

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28. I cinque consigli di amministrazione più importantidell’area di Singapore decisero di passare alla rete, spinot-tando i propri componenti ad un hub organico di produzio-ne texana. I corpi, in stato di sonno rem per più di dodici oreal giorno, galleggiavano in un composto nutritivo innesta-to di colonie di batteri modificati e di tessuti nanotecnologi-ci, incaricati di smantellare sistematicamente le connessio-ni cellulari, senza interrompere l’attività cognitiva, e infinedisciogliere i corpi stessi in una gelatina ipocosciente, attra-versata dall’hardware di un elaboratore dedicato.Erano stoccati in alcuni magazzini sotterranei alla periferiadi Losanna, gestiti da un consorzio di laboratori terrestri edorbitali, ed i loro cicli onirici venivano quotati sui mercatieuropei a scadenze mensili.Da quel momento, una serie di operazioni al ribasso avevanocongelato l’impennata borsistica corrente, producendo, suimercati nord-americani, strane speculazioni ai danni dellefiliere della produzione di contenuti e del settore psicofar-maceutico. Di colpo, iniziarono a spuntare, sul territorio,nelle città di media importanza, piccole finanziarie che of-frivano abbonamenti virtualmente gratuiti alle proprie lineedi credito, dando luogo a fenomeni di iperinflazione moltolocalizzati ed alla generazione di economie parallele basatesull’assenza di moneta e di proprietà.Come soluzioni improvvise di lente mareggiate, fronti di ca-pitali senza controllo si riversavano su alcune comunità pe-riferiche e si incanalavano nei distretti industriali e agrico-

Frammenti da EX.IT

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li secondari, disfacendo le articolazioni dei ceti, le distribu-zioni e le abitudini di consumo, l’impiego della forza-lavoro,per poi infrangersi in distanza.

Simona Menicoccida Saturazioni

è anche vero che / cosaa: crisi urla e l’altra

dispneapena respiro a / e brevea / caposenza mimo / gestus plus / gusto

a: solo un nona più non puòcome anno: ecco lo: primo errorelasciato(è) immesso / gratotombato dentro

*

Frammenti da EX.IT

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lo spazio coartatodesti–nato a: ivifrattura non che / non solospazio crepa–nato tortonodo nonpiù – beh c’era:realtà / rete alta / altra cellatutta giàìnsita / inìqua nell’indentronon muta imago maiimmune muta

Luigi Severida Sinopia

controlla la posizione, disegna l’accadutopoi sporziona pezzo per pezzo in bocca

mastica beneprima di inghiottire / ovvero:crepa la carne, scardina le fibre,confondi e impastala grana intorno ai fasciliquida i nessi, bevi dalle giunture fino al battito

Frammenti da EX.IT

Page 231: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

carne e crepa, mastica, liquida il nessosucchia l’impulso, l’anima dai forami, trita a fondo,incorpora i diciotto milioni di respiri di quel corpo,le paure dell’ombra quando a sera,l’odore del fieno e della pioggia, l’eccitazioneal fumo di una femmina,i sogni nella stalla di giorno, presagi,fiato dell’erba, senso della notte, il terroreal brillare della lama-stella, e quei secondi finaliquando il sangue si scarica (testa in giù,corpo in giù) da tutte le vene aperte, quello sguardodel tutto scoperchiato sulle cose, quell’ultimo fiato rifluitodentro la carne-mondo che ora spolpilentamente come se fosse un’ostia

*

quantità: pesa, riempiallea cose alle cose: le linee che combaciano le togli

quantità prima di qualità, oin altri termini: temperatura peso associazione di elementiluce è già un po’ altrove,spiace dirlo, per un pittore poi,ma un pittore archivia la materia, la giustificain forme, prima che arrivi luce

(nel buio ronza tutto, lontananze (rappresentare i pesi,faldoni di materia: sei sette dieci cento, conta i nodi,i passi, le zampe (per esempio) del frosone che scomparecome un treno in un tunnel: anche l’eco ha un profilo

Frammenti da EX.IT

Page 232: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

(la luce dopola luce arriva quando (è come in volo

Fabio Tetida Sotto peggiori paragrafi

«E però che soprastare alle passioni e acti di tanta gioventudine pa-re alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse, e trapassando moltecose, le quali si potrebbero trarre dallo exemplo onde nascono que-ste, verrò a quelle parole le quali sono scripte nella mia memoriasotto maggiori paragrafi» (Dante Alighieri, Vita nova, I, 11)

mi ha fatto un animale, una macchina, una macchina, unanimale, come posso assicurare che sia io il responsabile ditutto? e se è una poesia che ho nel mio vecchio cerchio didolore generato dalla morte di un capello, ho scritto ma è lostesso anche a causa delle guerre dei segni: perché io, a suavolta, porta alla morte e vi si lascia inoculare senza i vari ar-redamenti, le applicazioni, dimenticate, per l’espulsione dirifugiati a vario titolo nell’incubo cotidie di bruciato il ragnodella, verità, ma mai la tela del regno

centripeto e così in astratte e le scanalature inferiori del pia-no detto astrale, in cui è il divario di transizione o un’altraformula a scavare all’improvviso un panorama di corpi ce-lesti e di sangue. prepararvi un proprio moto, in luogo, mauna catena anche umana e girare in ogni caso non contando

Frammenti da EX.IT

Page 233: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

su quell’aggettivo, comune a tutti, o peggio o meglio. invece,si ha giusto una vaga idea della guerra poi coinvolti in undialogo da strada, e come prorogati o postergati aun’estensione permanente della pressione diastolica e sisto-lica dai vostri, piccoli conti controllati dai computer, neglieoni con successo

infine, è stata accettata, o non lo è stata. la gente chiama luiun umano, o altro di simile, purché lo si assimili, ché in lescoperte fuori quello toglie cosa solo solo antropomorfa magestita dalla scienza come vera: si sta distrutti hanno creatopensa proprio una cassetta, di sicurezza, per l’abuso di po-tere e la semplicità della larghezza di banda. poi alcuni, divoi o senza ricorrere a dell’acqua, non si ricordano ma nien-te della tenia né del fuoco: eppure, la passione morale è unaparte naturale del corpo come il seno o un’ascella o le dita selasciate senza protesi

Alessandro Broggida Protocollia Mousse

Sebbene sembri caotico questo lavoro è strettamente legatoa problematiche relative all’organizzazione. L’atto o la pro-posta di posizionare, spostare, misurare, tagliare, incollaree giustapporre solleva interrogativi sull’ordine dei sistemi e

Frammenti da EX.IT

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sulla struttura delle gerarchie. Crea cose di cui non si è con-sapevoli.Ognuno di noi può fare ciò che vuole e ottenere dagli altriuna reazione intelligente. C’è un certo grado di realtà nel fa-re concretamente qualcosa osservando il mondo senza ma-nuali. Mentre parli, puoi sottolineare l’esattezza dei conte-nuti modulando l’inflessione verbale come un possibile pri-mo passo verso la più sofisticata forma di parabiografia.L’ego è finzione, non c’è un «me», si tratta soltanto di unatecnica discorsiva. La creazione di qualità culturali, la tuacosiddetta vita – in vari momenti di lavoro, riposo, tempo li-bero, attesa e affetto fisico –: un’ininterrotta attenzione aicambiamenti tecnologici, alle economie industriali, al modoin cui viviamo. La verità è solo un sistema che cerca di con-trollare un territorio per un certo periodo di tempo. Fino al-la nausea.Come artista avrai percepito più o meno soltanto serie di zerie di uno. Come scriveva Baudrillard, non c’è più trascenden-za, non c’è divergenza, non c’è niente da un’altra scena, è ungioco che riflette il mondo contemporaneo così com’è. Perquesto l’arte contemporanea è vuota e senza valore. Essa e ilmondo producono un’equazione a somma zero.Come spettatore avrai creato versioni fittizie di chiunque co-nosci. Dei tuoi amici, di te stesso – e di fatto quelle qualitàimmaginarie saranno i tratti migliori di quasi tutte le per-sone. Le cose si formano e si dissolvono in fretta, spesso èquestione di raccogliere la giusta qualità di pensiero formale

Frammenti da EX.IT

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per proseguire la conversazione: la ricerca analogica atten-de che le congiunzioni materiali ti piombino in testa.La speranza per una nuova sequenza di fatti. Cercando rifu-gio nell’interesse materiale il sogno parametrico è schiaccia-to lateralmente. È una strategia che funziona all’interno didiverse economie.

Artista, spettatore – non c’è una corrispondenza perfetta traqueste figure, ognuna guarda le spalle dell’altra.Anziché un’implausibile posizione che immagina se stessaal di fuori delle circostanze, avrai sperimentato con le re-lazioni performative dei meccanismi d’uso nei quali ti saraitrovato coinvolto, vettori proattivi di narrazione rispetto aiquali sarà possibile rapportarsi.Avrai preso in considerazione gli elementi esistenti e glioggetti nello spazio e, piuttosto che nasconderli o evitarli,avrai provato ad usarli come elementi compositivi integrali(la tua pratica avrà così evitato qualsiasi forma di riduzioni-smo).Avrai tentato di introdurvi un protocollo soggettivo, affin-ché il tuo approccio non diventasse una definizione o unachiusura del senso, ma rappresentasse veramente quello chepuò voler dire incontrare i significati. Avrai immaginato chel’opera avesse una forza superiore alla tua e a quel genere diproblemi; desiderato che mal si adattasse alle categorie chereclamava o a cui faceva riferimento. Questo sarà un mo-

Frammenti da EX.IT

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do per delineare i confini del linguaggio e delle convenzioniespositive.Un’opera che abbia abbastanza spazio in sé da consentire alfruitore di fare esperienza della creazione del significato: inessa trova espressione un’interpretazione ideologica del po-tenziale dello spettatore.La complessità ha raggiunto il punto di non-coagulazione.

Frammenti tratti da EX.IT - Materiali fuori contestohttp://eexxiitt.blogspot.it/2013/04/exit-2013-libro.html

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Frammenti da EX.IT

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RI-SITUAZIONISMO

Ri-Situazionismo

Itesti raccolti in queste pagine sono un compendio di in-terventi più ampi ospitati in occasione del convegno in-ternazionale Situazionismo: teoria, arte e politica tenu-to a Roma il 30 maggio 2013 presso la Facoltà di Lettere e

Filosofia dell’Università di Roma Tre. Gli studiosi che vi han-no partecipato hanno cercato di evidenziare cosa sia rimastooggi del movimento situazionista, domandandosi se la furiaiconoclasta del cinema di Debord e il suo radicalismo politi-co siano categorie ancora applicabili alla contemporaneità.Le conclusioni sono state piuttosto disarmanti, dal momentoche l’espressione più attuale del movimento situazionistasembra essere proprio una rielaborazione dei concetti filo-sofici di Debord applicati al cinema, all’arte contemporaneae alla politica internazionale; il pensiero di Debord ritornaattuale nelle pratiche locative inaugurate dalla rete e nelpensiero che sottostà ai movimenti di liberazione dei paesiin via di sviluppo. Gli atti completi del convegno usciranno

Ri-Situazionismo

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sulla rivista «Agalma» (edita da Mimesis) nella primaveradel 2014.

Ivelise Perniola

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Ri-Situazionismo

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RI-SITUAZIONISMO

Ciò che è vivo e ciò che è morto

Il paradosso situazionista

Mario Perniola

Che cos’è il movimento situazionista?Occorre innanzitutto precisare che cosa s’intende per «mo-vimento situazionista» e per «situazionismo». Si possono in-tendere tre cose differenti.

La prima è l’Internazionale situazionista, un gruppod’avanguardia artistico-politica che si è costituito in Italiaa Cosio d’Aroscia (Cuneo) nel luglio 1957 e si è dissoltonell’aprile 1972. Questa è stata un’associazione chiusa, cuihanno partecipato complessivamente nei quindici anni dellasua esistenza 70 persone (63 uomini e 7 donne). La praticadelle esclusioni e delle dimissioni fece sì che nel gruppo fos-sero contemporaneamente presenti non più di una decina dimembri. Il leader del gruppo è stato il francese, di origine

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italiana per parte di madre, Guy Debord (1931-1994) che hasvolto un ruolo egemonico per tutto il periodo della sua esi-stenza. La frequenza delle espulsioni (45 membri su 70 furo-no espulsi), unitamente alla pratica delle «rotture a catena»e al dogmatismo esasperato per cui le affermazioni di ognu-no impegnavano anche tutti gli altri, conferì a questo grup-po quel carattere settario cui sono sempre stato refrattario:perciò nel periodo in cui fui in stretto rapporto con loro (trail 1966 e il ’69) non entrai a farvi parte. Il gruppo produssetra il giugno 1958 e il settembre ’69 dodici numeri di una ri-vista, il cui direttore fu sempre Guy Debord. L’Internazionalesituazionista ha fin dall’inizio rifiutato di riconoscersi neltermine «situazionismo», attribuendo a questa parola un si-gnificato negativo: essa, infatti, sarebbe stata connessa colricupero da parte del mercato artistico delle produzioni deimembri del movimento. Nel mio testo I situazionisti (Castel-vecchi, 2005) ho raccontato la storia di questo gruppoartistico-politico.

Altra cosa invece è la storia della ricezione edell’influenza che l’Internazionale situazionista ha avuto sulmaggio francese del 1968, sulla cultura e sulla controculturadei decenni successivi. Bisogna pertanto distinguere i situa-zionisti (cioè i membri dell’Internazionale situazionista) daisitus, che sarebbero quanti hanno sostenuto e sviluppato leprospettive situazioniste al di fuori dell’Is. Fino al ’66 l’Isera conosciuta da pochissime persone: io venni a conoscen-za della sua esistenza in occasione della Décade sul surreali-

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smo che si tenne presso il Centre Culturel International diCerisy-la-Salle (10-18 luglio 1966). Nel dicembre dello stessoanno scoppia lo scandalo di Strasburgo, che è la prima ma-nifestazione della contestazione studentesca in Europa. Condue compagni mi precipito in auto a Strasburgo, dove osser-vo con una certa amarezza e disappunto che l’accordo tra isituazionisti e gli studenti locali si è già incrinato e nel mesesuccessivo si rompe definitivamente: segue una serie di ac-cuse e insulti reciproci. Questa piccola vicenda è indicativaperché anticipa uno dei tratti caratteristici della mentalitàrivoluzionaria dell’epoca: la tendenza a mettere sotto accusae a escludere con critiche infamanti e insulti chi non sareb-be degno di fare la rivoluzione.

C’è infine un terzo aspetto da considerare: gli individuida cui era formata l’Internazionale situazionista. Questi era-no molto diversi tra loro e ben pochi sono stati coloro chesi possono considerare «geniali», se appunto questa era unacondizione di appartenenza (Is IX, 43). Tra chi ne fece partenel primo periodo indubbiamente geniali furono l’artista da-nese Asger Jorn e l’architetto olandese Constant. In seguitola personalità di Debord ha marcato il movimento. Si ten-de generalmente a porre l’accento sul rapporto di Debordcol suo tempo, mentre si trascura il suo rapporto con latradizione culturale e con la geografia. In un atlante ingle-se degli anni Trenta Debord ha indicato gli autori che sonostati importanti per la sua formazione culturale, divisi pernazione. Alcuni sono segnati in lettere capitali: tra questi

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l’Ecclesiaste, Tucidide, Dante, Machiavelli, Montaigne, Bos-suet, Cervantes, Shakespeare, Stendhal, Hegel, Marx, Nova-lis. Vale a dire buona parte del canone occidentale. Questoancoramento nella tradizione è ciò che distingue Debord daisitus, unitamente a un culto della precisione e della formache appartiene a ciò che Nietzsche chiamava «il grande sti-le», quanto mai estraneo al vitalismo spontaneistico e comu-nicativo che caratterizzò la contestazione e la controculturadella sua epoca.

Quando si parla di movimento situazionista, esistono per-tanto tre soggetti: il gruppo Internazionale situazionista,che ha prodotto la rivista omonima; l’insieme dei simpatiz-zanti (i situs); e infine Guy Debord, senza il quale il movi-mento non sarebbe esistito.

Debord è «riuscito»?Quale destino storico si suppone possa avere avuto Debord,il pensatore più estremista della seconda metà del Nove-cento? Uno che si definiva «nato virtualmente rovinato» (D1661), «dottore in niente», amico dei ribelli, completamen-te estraneo e aspramente ostile al mondo dell’università,dell’editoria, del giornalismo, della politica, dei media e diqualsiasi tipo di lavoro, grande spregiatore dello Stato,dell’economia, della Chiesa, dell’arte e di tutte le istituzioniesistenti, per di più in guerra costantemente col mondo in-tero? Chi avrebbe predetto a un simile individuo una fineoscura e miserevole sarebbe stato facile profeta. Eppure sa-

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rebbe stato un falso profeta. Perché il 29 gennaio 2009 gliarchivi di Debord, che era morto quindici anni prima, sonoproclamati dal ministro della Cultura della Repubblica Fran-cese dell’epoca, Christine Albanel, «tesoro nazionale»: e inquanto tali accolti nella Bibliothèque Nationale de France.Dunque Debord avrebbe raggiunto la massima «riuscita»inimmaginabile, specie se si considera che essa proviene daquello Stato la cui distruzione egli auspicò con estremo ac-canimento senza mai alcuna esitazione.

Consideriamo la questione da un punto di vista più serio.La vera domanda riguarda, per adoperare l’interrogativoche Benedetto Croce si poneva a proposito di Hegel, «ciò cheè vivo e ciò che è morto» del pensiero di Debord. Quantoi testi di Debord possono essere utili alla critica radicaledel capitalismo odierno? Quella che mi sembra superata èuna teoria rivoluzionaria che consideri come opposizionefondamentale (in termini marxiani Hauptwiderspruch) quellatra borghesia e proletariato. Il nuovo spirito del capitalismotende a eliminare tanto l’una quanto l’altro. La prima perchéil mantenimento delle categorie socio-professionali è troppocostoso e il neoliberismo non è più disposto a pagare il cosid-detto «salario dell’ideale»: il primo colpo al vecchio ordina-mento è assestato con la distruzione del sistema universita-rio, la liberalizzazione delle professioni colte, l’eliminazionedelle piccole imprese e del piccolo commercio e gli ostacoliposti alla mobilità sociale verticale attraverso il capitaleumano. Il neoliberismo non ha più bisogno di una classe me-

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dia, né di un bagaglio di conoscenze, né di saper-fare diffu-si e generalizzati. Esso mira altresì all’abolizione del prole-tariato attraverso la marginalizzazione dei sindacati, la pre-carizzazione del lavoro e la deindustrializzazione. Ne derivache quanto in Debord appartiene ancora all’eredità della tra-dizione dei Consigli operai mi sembra debba essere lasciatoda parte.

Ci sono però molte altre cose in Debord che meritano, an-zi obbligano a una lettura integrale della sua opera. Per esem-pio, è importante chiarire il malinteso che riguarda il rap-porto tra Debord e la contestazione studentesca del ’68. Sulsuo esito positivo Debord non si fece nessuna illusione, co-me risulta dalle lettere che mi scrisse proprio nel maggio.A luglio di quell’anno, quando fui con lui e altri situazioni-sti a Bruxelles, mi parve già evidente che esisteva uno iatotra lui e lo spontaneismo insurrezionale del gauchisme. Neitempi successivi mi sono reso conto che la ragione di quelloiato fosse da ricercare nella confusione tra autoritarismo eautorevolezza. Debord è sempre stato critico del primo, maovviamente non poteva accettare di essere considerato luistesso come autoritario per il semplice fatto di avere delleidee ben precise e saperle scrivere! Perciò tendo a credereche egli sia stato una vittima del gauchisme – non diversa-mente da Adorno.

Un altro punto d’importanza decisiva è l’attenzione cheegli dedica in un testo del 1971, La planète malade, alle tra-sformazioni del capitalismo: questo «non può più sviluppare le

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forze produttive […] qualitativamente, ma solo quantitativamen-te» (D 1065). Così cogliendo con molto anticipo un aspettofondamentale del mondo attuale, che si rivela oggi di estre-ma attualità. Quando il capitalismo non riesce a fornire piùnulla di qualitativamente valido, la spinta progressiva da cui ènato, e che ha ancora mantenuto fino agli anni Settanta delNovecento, si è completamente esaurita. Oggi avviene pro-prio ciò che Debord descrive: per la società dello spettaco-lo «solo il quantitativo è il serio, il misurabile, l’effettivo; ilqualitativo non è che l’incerta decorazione soggettiva o ar-tistica del vero reale stimato al suo vero prezzo. Per il pen-siero dialettico al contrario […] il qualitativo è la più decisi-va dimensione dello sviluppo reale». L’ottimismo scientificodel XIX secolo è crollato: «Oggi la paura è ovunque, e nonse ne uscirà che confidando sulle nostre proprie forze» (D1069). Puntare sul qualitativo sembra perciò l’unica strate-gia possibile. A chi considera questa strategia come una ma-nifestazione di passatismo, bisogna ricordare che «l’essereassolutamente moderno» è diventato la legge speciale pro-clamata dal tiranno!

In conclusione, in cosa consiste il paradosso situazionista?Nell’avere portato contemporaneamente all’estremo i dueopposti orientamenti della modernità: l’uno versol’eccellenza, la lotta per il riconoscimento, la competizione;l’altro verso l’egualitarismo, il livellamento, la negazionedelle differenze. Il progresso dipende dalla capacità di trova-re un punto di equilibrio tra queste due istanze.

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Testi citatiD = Guy Debord, Œuvres, Gallimard, Parigi, 2006.Is = «Internationale situationniste» 1957-1969, Fayard, Parigi,1997.

Mauro Staccioli, Roma 2011, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 2011.Acciaio Corten, Ø 1000 cm.

Ciò che è vivo e ciò che è morto

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Ri-Situazionismo

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RI-SITUAZIONISMO

Lotta nelle strade contro lo spettacolo?

La critica della vita quotidiana,mezzo secolo dopo

Anselm Jappe

Le teorie sociali nascono per spiegare gli eventi dellaloro epoca, con più o meno pertinenza. Con gli anniche passano, e la società che cambia, il loro valore eu-ristico ha la tendenza a diminuire. Il tribunale della

storia ritiene allora solo quelle letture della realtà che dimo-strano di potersi applicare a situazioni diverse da quelle incui tali letture sono nate perché hanno colto le tendenze ge-nerali di un’epoca più ampia. Queste teorie non sono «profe-tiche» (categoria vuota), ma hanno saputo comprenderel’essenza di un lungo periodo storico. Coloro che oggi si ri-fanno ancora all’opera di Tocqueville, o Marx, o Weber, o Pa-reto, affermano che costoro hanno colto, uno o persino qua-

Lotta nelle strade contro lo spettacolo?

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si due secoli fa, elementi della società moderna che sono an-cora presenti oggi, anche se in forma diversa. Al contrario,teorie anche più recenti, che, tanto per fare un esempio, ve-devano nell’alleanza tra operai e contadini un elemento ca-pace di trasformare la società capitalista, ci sembrano ormaiirrimediabilmente datate.

Le teorie elaborate negli anni Cinquanta e Sessanta del se-colo scorso dai situazionisti, e in particolare da Guy Debord,fanno parte di queste analisi dall’effetto prolungato? Sonoin grado di aiutarci a comprendere fenomeni che questi au-tori ancora non potevano conoscere? La categoria critica di«spettacolo», una volta chiarito che essa descrive un feno-meno molto più vasto del solo strapotere della televisione,si applica anche alla dimensione politica e sociale del mon-do globalizzato quarantacinque anni dopo l’uscita del librodi Debord? È ancora troppo presto per esprimere un giudiziosulle contestazioni che dal maggio 2013 hanno scosso pri-ma la Turchia, poi il Brasile. Questi movimenti di protesta, diun tenore ben diverso dagli Indignados, da Occupy Wall Streete dalle «primavere arabe» – come si spiegherà in seguito –hanno sorpreso tutti gli osservatori e prodotto molte anali-si visibilmente imbarazzate e insufficienti. In compenso al-cuni concetti situazionisti possono forse aiutare a coglieretratti salienti e innovatori di questi movimenti che sembra-no sfuggire alla sociologia e alla politologia tradizionali, didestra come di sinistra.

Lotta nelle strade contro lo spettacolo?

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I situazionisti si erano attribuiti il merito di aver forte-mente contribuito a preparare il clima da cui è nato il mag-gio ’68 in Francia, e di averne espresso il contenuto profon-do, indipendentemente dalla questione di un «influsso» di-retto. Il ’68 francese colse di sorpresa quasi tutti gli osser-vatori; non era la conseguenza di una crisi economica. Leproteste in Turchia e in Brasile arrivano in modo altrettanto«inspiegabile», cioè dopo anni di vivace sviluppo economico– e protestano soprattutto le stesse nuove classi medie, e igiovani che hanno grandemente approfittato di questa cre-scita. Sembra un paradosso.

Alcuni economisti si affrettano ora a spiegare il malcon-tento con un rallentamento della crescita e il ritornodell’inflazione. O, in modo più generale, con le aspettativeche questo sviluppo avrebbe creato senza poterle soddisfa-re, soprattutto nell’ambito dei servizi pubblici. Questo signi-fica però dare per scontato che lo sviluppo capitalistico, lasua forma di ricchezza e il consumo che permette siano diper sé desiderabili e che lo scontento sociale nasca solo dallaloro assenza, o dal loro ridimensionamento. Ora, i situazio-nisti sono stati tra i primi a proclamare che la vita nel capita-lismo è sempre alienante, anche quando la povertà di massaviene meno. «La questione non è di constatare che la gentevive più o meno poveramente; ma sempre in un modo chesfugge loro», diceva Debord in un suo film del 1961, e nel li-bro La società dello spettacolo affermava nel 1967 che «ora èl’abbondanza capitalista che ha fallito» (§ 115). Essa può ga-

Lotta nelle strade contro lo spettacolo?

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rantire la «sopravvivenza», ma non la «vita». Questa anali-si, che era in contraddizione col marxismo tradizionale, main parallelo con un pensiero come quello di Herbert Marcu-se, si dimostrò lungimirante riguardo all’esplosione del ’68 eal suo seguito: la vita nella società capitalista risulta sempreinsopportabile, anche quando la scodella è piena. E se le per-sone che manifestano oggi con tanta costanza nelle stradedelle città turche e brasiliane di rado esprimono idee chiara-mente anticapitaliste, si vede allo stesso tempo che i pretestiiniziali (taglio degli alberi in un parco a Istanbul, prezzo deitrasporti pubblici in Brasile) sono stati rapidamente supera-ti. Quello che si percepisce è un’insoddisfazione generale perla vita che si è costretti a condurre, anche se non sempre sisa dire il suo nome.

Il fatto stesso di trovarsi in tanti per strada, di bloccareil corso abituale dell’infelicità, la rottura con il quotidiano,il sentimento di potenza e di rivincita che derivadall’occupazione dello spazio pubblico e dallo stare insiemeimplicano quella «critica della vita quotidiana» in atto chefu sempre al centro dell’agitazione situazionista. Non si ma-nifesta solo per ottenere l’accoglimento di una rivendicazio-ne concreta e poi tornare a casa e al lavoro, ma anche persfuggire alla passività organizzata e alla noia di una vita ge-stita da altri. «We want to riot, not to work», dicevano giài rivoltosi di Brixton nel 1981, scandalizzando i benpensan-ti di sinistra come di destra. Mentre la sinistra tradiziona-le rimane sconcertata di fronte al carattere «apolitico» del

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movimento in Brasile, alcuni suoi tratti sembrano la confer-ma di quanto i situazionisti preconizzavano: un movimentosenza capi né programmi, che si situa al di fuori di partiti esindacati, né desideroso di formarne altri, perché rifiuta la«politica» tradizionale tout court e ritiene che la presuntasinistra non si distingua dalla destra. (Certo, per altri aspet-ti esso è ben lontano da quanto volevano i situazionisti, cheevocavano rivolte proletarie, consigli operai e occupazionidi fabbriche.)

I situazionisti erano anche pionieri quando indicavanoun nuovo terreno centrale delle lotte socialinell’organizzazione dello spazio urbano e nell’opposizionealla sua ristrutturazione autoritaria e mercantile, che impe-disce gli incontri e gli scambi diretti fra gli individui. Si è su-bito constatata l’importanza di questi temi in Turchia, doveil pomo della discordia è stato la trasformazione di un par-co in centro commerciale, e in generale la devastazione diIstanbul mediante megaprogetti architettonici; e in Brasile,dove ha fatto da detonatore la questione dei trasporti.

Ma l’aspetto più notevole sembra risiedere in quella che sipuò chiamare la contestazione dello «spettacolo». Per «spet-tacolo» Debord e i situazionisti non intendevano solo i me-dia, ma un’organizzazione sociale in cui gli individui consu-mano sotto forma di immagini e ideologie tutto quello chela società capitalista impedisce loro di vivere realmente. Vientrano la religione così come il consumismo, lo star systemcome la politica dei partiti e dei leader. Quel che non esiste

Lotta nelle strade contro lo spettacolo?

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nella vita viene visto su un palcoscenico o su uno schermo(termini da prendere anche in senso più largo). Lo spettaco-lo è dunque una continuazione della religione all’epoca dellemerci, dell’immagine riprodotta massicciamente e del con-sumo compensatorio.

Ora, le rivolte in Turchia e in Brasile contestano un aspet-to centrale dell’alienazione spettacolare nei rispettivi paesi.In Turchia (e ciò costituisce una grande differenza con le«primavere arabe») si combatte il ritorno all’«ordine mo-rale» imposto da un governo islamista che vuole bandirel’alcool e incita le donne a fare «almeno tre figli». Ancorapiù «spettacolare» è la messa in discussione dello spettacoloin Brasile: come tutti sanno, il calcio vi svolge da molti anniun ruolo assolutamente centrale nell’alienazione quotidianae come «oppio del popolo». Il governo poteva aspettarsi cheanche le spese più folli e inutili e la devastazione dei quartie-ri popolari vicini agli impianti sportivi sarebbero stati accet-tati, visto che si trattava del calcio. Il diffuso rifiuto, mani-festatosi all’improvviso, di sacrificare gli interessi immediatidella vita allo spettacolo sportivo costituisce allora una verasorpresa. Decine o centinaia di migliaia di persone marcia-no a ogni match della Confederations Cup per raggiungerelo stadio, scontrandosi spesso con la polizia, mentre alcunitifosi contestano all’interno dello stadio. Lo slogan «più pa-ne, meno circo, coppa per chi?» ha trovato un largo consen-so. Secondo i sondaggi un terzo dei brasiliani è contrario allosvolgimento nel paese dei campionati mondiali programma-

Lotta nelle strade contro lo spettacolo?

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ti per l’anno prossimo. Altrettanto notevoli sono le contesta-zioni dei media, soprattutto dell’onnipresente Rede Globo,la seconda più grande del mondo. Molti osservatori si dico-no perplessi di fronte a un movimento che apparentementenon sa che fare della sua forza, al cui interno convivono leanime più diverse e dove ognuno arriva con la sua rivendica-zione personalizzata su un cartello. Ma si può dire già adessoche l’ideologia sportiva, chiave di volta della passivizzazionedella popolazione brasiliana, ha subito un duro colpo. E que-sto, per il sistema, potrebbe essere più grave della perdita difiducia nei confronti dei partiti e degli uomini politici, cioèdello spettacolo politico in cui nessuno crede più da moltotempo (e che continua ugualmente). La vita reale, quotidia-na, scopre la sua miseria e non accetta più di dimenticarlanella contemplazione di una perfezione illusoria.

Evidentemente molti altri aspetti di queste contestazioninon sono immediatamente leggibili con le categorie annun-ciate a loro tempo dai situazionisti. Ma considerando lo sgo-mento della maggior parte dei commentatori professionali,e l’evidente obsolescenza di molte categorie interpretative,l’utilità, almeno parziale, delle intuizioni situazioniste diquasi mezzo secolo fa non può che confermarne la pertinen-za.

Lotta nelle strade contro lo spettacolo?

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Mauro Staccioli, Senza titolo 2011, Villa Adriana, Tivoli, Villa Adriana. Dialoghicon l’antico, 2011. Due elementi, acciaio Corten, 55 x 250 x 30 cm cad.

(Foto Giovanni Bulian).

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RI-SITUAZIONISMO

Dalla critica allo spettacoloal corpo critico

A monte delle Femen e delle Pussy Riot

Carsten Juhl

Guy Debord non era il solo, ai suoi tempi, a nutrireforti sospetti nei confronti dell’apparenza e dellaspettacolarizzazione. Lo storico dell’arte MichaelFried si muoveva in parte nella stessa direzione

quando attaccava indirizzi dell’arte figurativa di quegli annicome la minimal, la land art e, più tardi, l’arte concettuale.Fried criticava come una mossa spuria, da parte degli artisti,la «teatralità» della presentazione delle loro opere. Invece difermarsi a forme e colori, materiali e rappresentazioni, essiagivano anche sul contesto in cui le loro opere venivanopresentate. Per lo storico dell’arte americano la ricerca es-senziale della creatività si era snaturata con una specie di ca-

Dalla critica allo spettacolo al corpo critico

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priola da parte degli artisti: i quali, invece di lasciare l’operaaperta alla libera contemplazione, volevano determinare ilsuo effetto sulla cultura, o che addirittura rappresentasseuna presenza antagonistica nella società.

Ad accomunare la critica dello spettacolo di Debord alleidee di Fried è l’ipotesi di una zona del sociale da evitareper diverse ragioni. Mentre Debord identifica la spettacola-rità con il dominio del capitale, e dunque con l’alienazione,Fried interpreta lo stesso spazio come una scena nella qualela ricerca artistica perde il suo contenuto per occupare in-vece un ruolo culturale e quindi aumentare il suo poteresulla società. Un aumento di potere che per Debord restaun’illusione. All’interno della spettacolarità vige invece lastrumentalizzazione da parte di interessi tutt’altro che cri-tici. Da qui tutta un’analisi storica dei limiti dell’esperienzadel dada o dei surrealisti, e della fine delle avanguardie arti-stiche del modernismo «alto».

Ciò che vorrei tentare di precisare ora è quello spaziointermedio della spettacolarità o della scena culturale dicui diffidavano tanto i due autori. Nel 1931 Ernst Cassirertenne una conferenza sullo spazio, Spazio mitico, estetico eteorico. Senza polarizzarli in modo eccessivo, Cassirer se-parava lo spazio mitico da quello estetico qualificando ilprimo come assoluto, identitario, unitario e ontologico: inesso il sentimento della vita doveva essere confermato daun’illuminazione, quasi una rivelazione. Lo spazio estetico,invece, si costituisce con un ragionamento di tipo kantiano,

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che mantiene la separazione tra soggetto e oggetto partendoda un’ipotesi di ordine in relazione al molteplice. Invece del-la conferma della vita, vi si svolge un formarsi di immagi-ni il cui movimento riguarda i modi della libertà. Lo spazioteorico tra il mitico e l’estetico era poi intravisto come zonaextracategoriale, nella quale potevano sorgere quelle Wesen,o essenze locali e intrinsecamente diverse, che sono le ope-re d’arte. Cassirer si riallacciava qui alla tradizione filosoficache mantiene una separazione tra sublime e bello, volontà eVorstellung; oppure tra dionisiaco e apollineo.

Tralasciando ora bruscamente i necessari distinguo, sipossono qui ritrovare le questioni di Debord e Fried: cheda una parte possiamo individuare in un’esteticadell’iniziazione e del rituale e, dall’altra, in un’estetica dellapercezione e della spontaneità. Interessa qui, come si è det-to, la zona intermedia: quella della ricerca artistica, peresempio, di Fluxus o della performance. Questa ricerca eragià messa in discussione all’interno dell’Internazionale si-tuazionista nei primi anni Sessanta quando, sulla sciadell’azionismo austriaco e di tentativi paralleli da parte diartisti scandinavi, si arrivò alla separazione tra Asger Jorn eJørgen Nash proprio sulla questione della scena e della pre-sentazione delle opere d’arte. Mentre Jorn cercava di mante-nere una forza critica all’interno dell’operare artistico, e unlegame forte con l’arte ancestrale e popolare, Nash rivendi-cava una vita comunitaria artistica in azioni come la famosaablazione della testa della Sirenetta a Copenaghen (1964).

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In fondo i situazionisti volevano mantenere una separa-zione tra l’arte e le situazioni, inscrivendo queste ultimenella preparazione rivoluzionaria: la creazione di situazionidoveva in qualche modo aprire a una comprensionedell’alienazione mediante azioni esemplari, capaci di segna-lare l’importanza di uno spazio teorico e pratico autogestito.Non siamo lontanissimi dall’ipotesi di Cassirer, poiché ancheil filosofo tedesco poneva una possibile autonomia nello spa-zio teorico della ricerca e della riflessione artistica.

Lo stesso spazio teorico costituisce le premesse delle azio-ni dei gruppi postfemministi tipo Pussy Riot o Femen. Comenel caso di Fluxus o della performance, sarebbe infatti limi-tativo cercare di analizzare le figure delle maschere dellePussy Riot, o le cadenze rap dei loro slogan anti-Putin, comelo sarebbe descrivere le scritte sui seni nudi delle Femen alpari di graffiti o tatuaggi. È invece evidente che abbiamo ache fare con una furia sovversiva che si vuole situare fuoridai giochi della politica o delle istituzioni culturali. Sceglien-do spazi e contesti carichi di autorità come le chiese, gli in-contri tra uomini di Stato, giochi sportivi o elezioni, questigruppi commentano e aggrediscono allo stesso tempo le au-torità e i loro rituali sottolineandone la dimensione ipocritae la «doppia morale». Invece di fare appello in modo discor-sivo all’indignazione popolare, la loro presenza radicale e«oscena» diventa portatrice di un senso tutto da interpreta-re. Tale radicalità è legata al pericolo che corre il corpo nu-do femminile quando si espone in quel modo all’intervento

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delle autorità. Pericolo che scavalca senz’altro l’audacia arti-stica mostrata nelle performance o nelle situazioni. Ogni pe-ricolo ricercato è «nuovo», se vogliamo accettare questo ag-gettivo di comodo, poiché ogni rischio è un rischio a se stan-te, definitivo, legato all’aprirsi all’arbitrio delle scelte dei po-tenti. I due anni di gulag inferti alle Pussy Riot o la condannadi Amina Sboui parlano chiaro.

Lo spazio che stanno aprendo questi gruppi postfeministimostra l’importanza dell’ipotesi di Cassirer: tra l’identitàmitica e l’esperienza estetica esiste uno spazio teorico chenon si può assimilare a funzioni sociali come l’opinione pub-blica o la spettacolarità mediatica, ma molto più vicino allaricerca. Non è aperto di per se stesso, ma può essere di-schiuso da un operare investigativo relativamente comples-so. Non è infatti un operare isolato, ma si inserisce in un to-pos diverso da quello della politica o della cultura. Aggiun-gerei qui, per esempio, le lotte contro il sexual harassmentda parte di gruppi femminili sparsi in tutto il mondo, dalBrasile all’India, dall’Egitto al Sud Africa, che si riconoscononel Manifesto contra-sessuale di Beatriz Preciado (pubblicatoin Italia da Il dito e la luna nel 2002 a cura del centro studi Gl-tq): un manifesto radicalmente antidentitario o almeno as-solutamente trasversale nei confronti di un’identificazionedel soggetto con un essere genitale, etero o omosessuale chesia. Mediante un tono di tipo parodico – e sia le Femen chele Pussy Riot usano la parodia come forma di intervento –si argomenta a favore d’una eguaglianza «anale» tra gli es-

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seri umani per uscire dal dominio «dell’uomo sull’uomo» eapprodare a una società di scambi rituali mediati da quel fe-ticcio magico che Preciado individua nel dildo! Con tali to-ni parodici questi gruppi postfemministi riescono a reinter-pretare zone di comportamento che i movimenti precedentiavrebbero considerato di «cattivo gusto». Un simile dischiu-dersi dell’osceno si rivela quanto mai necessario per espan-dere il potenziale di interventi di questi corpi critici.

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RI-SITUAZIONISMO

Ancora alla deriva?

Su alcune pratiche filmiche e locativepostsituazioniste

Laura Rascaroli

Pratica sperimentale legata all’esplorazione degli ef-fetti psicogeografici delle zone urbane, la deriva si-tuazionista è un’operazione che tende a riorganizza-re e cambiare la città, ricostruendola come spazio

potenziale, aperto e nuovo. Essa si è manifestata a tre livelli:come esperienza di individui o gruppi di situazionisti deditialla pratica del passaggio veloce attraverso ambienti cittadi-ni, guidati dalle attrattive del territorio stesso e dagli incon-tri che vi si fanno; come attività teorico-critica sulla societàcapitalista e lo spazio da essa forgiato e controllato; e comeproduzione riflessiva e culturale, per esempio di resocontiscritti o di cartine psicogeografiche, come la celeberrima

Ancora alla deriva?

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The Naked City. La pratica situazionista della deriva urbana èoggi tornata potentemente alla ribalta anche grazie allo svi-luppo di tecnologie che offrono modi alternativi, individualie personalizzati di interagire con lo spazio, di mapparlo e diregistrare la propria presenza quotidiana al suo interno.

Il Geographic Information System (Gis) ha avuto un ruolocentrale nel rilancio della deriva situazionista come praticacritico-artistica nel mondo contemporaneo. E non sono sologli artisti ad aver recuperato tecniche situazioniste sullo sti-molo fornito dal Gis: si pensi per esempio alle app per iPho-ne come Situationist, sviluppata da Benrik, dove la tecno-logia Gps è utilizzata per identificare e incontrare perso-ne disposte a interagire con noi in situazioni casuali, dallepiù amichevoli alle più sovversive; o al WalkSpace di ConorMcGarrigle, descritta dal suo creatore come un metodo al-ternativo di navigare la città (Dublino, nel caso specifico)in maniera nuova e imprevedibile. App di questo tipo sol-levano l’inevitabile domanda non solo sulla mediazionedell’esperienza della deriva attraverso la tecnologia, ma an-che sul trasferimento dell’esperienza stessa su Internet. Do-ve è situata la deriva guidata o registrata da tecnologia Gps?Nella città o nella rete? O da nessuna parte?

Nonostante il fervore postsituazionista che imperversa suInternet e l’interesse di molti artisti per l’uso del Gps appli-cato alla mappatura di camminate e città, alcune voci criti-che mettono in dubbio l’opportunità di legare queste nuoveforme al situazionismo — incluso il filosofo Simon Critchley,

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il quale ha adottato l’espressione «manierismo situazioni-sta» alludendo a un fenomeno tardivo, decadente e compro-messo rispetto all’originale. I problemi identificati dai criti-ci includono la logica calcolativa che caratterizza il Gps co-me tecnologia di origine militare; l’enfasi posta sui patterndi dati piuttosto che sull’essenza della deriva; e, più in ge-nerale, l’impossibilità di sviluppare una dimensione davveroestranea al capitale, alla scienza e alla tecnologia, e alla real-tà mediata e mediatizzata in cui viviamo. Altri critici fannonotare invece come l’uso che questi artisti fanno di tecno-logie nate per altri scopi sia sovversivo in sé, concetto perniente estraneo al situazionismo, che incitava al détourne-ment, visto come deviazione e sovversione.

È tuttavia innegabile che le tecnologie a base di Gis pon-gano l’enfasi sulla raccolta e sui pattern di dati più chesull’esperienza della deriva, come si evince da una disaminadi vari progetti artistici, per esempio le camminate registra-te da Gps di Thorsten Knaub; cartine come Traverse Me, map-patura situazionista del campus dell’Università inglese diWarwick commissionata dalla Maed Gallery a Jeremy Wood;e resoconti attraverso blog che possono includere scritturadiaristica, cartine, dati, fotografie e video, come quello dellederive urbane in bicicletta di Ryan Raffa. Tutte queste meto-dologie di registrazione, resoconto e comunicazione conten-gono specifiche tracce della deriva e dell’esperienza fatta. Lesintesi grafiche e le cartine sono spesso affascinanti oggettiestetici, e certamente possono modificare la nostra immagi-

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ne di una città o di una zona, ma non ci avvicinano in manie-ra sostanziale all’esperienza della deriva, di cui offrono unavisione astratta, come dall’alto. I blog o progetti multime-diali sono resoconti più informativi e completi; ma sono i vi-deo che promettono una visione più fedele e una partecipa-zione più diretta, personale ed emotiva all’esperienza di unaderiva (salvo parteciparvi in prima persona). Se da un latooffrono meno dati, essi forniscono molte tracce esperienzia-li in più.

Un esempio è il progetto multimediale Divergent Metropolisdi Social Agency Lab, un collettivo di urbanisti nordamerica-ni. Nel video di una loro deriva attraverso Houston (visiona-bile sul sito socialagencylab.org) colpiscono certi aspetti dellinguaggio filmico: la grana e il colore dell’immagine ripresacon telecamera a infrarossi; l’immagine mossa della cameraa mano; la velocizzazione dell’immagine; il commento mu-sicale. I codici audiovisivi sono sfruttati per creare un sen-so di immediatezza, casualità e imprevedibilità, presenza evicinanza fisica al gruppo, parzialità (e quindi soggettività)dell’immagine e della visione, e di emozione.

Non sono pochi i video e i film riconducibili alla praticasituazionista. Alcuni nascono come documentazione di unaderiva, come quello di Divergent Metropolis, altri ne costrui-scono una e, per così dire, la mettono in scena. Fra i primi,High Wycombe: Psychogeographic Nodules of Energy Walk è unvideo caricato su YouTube da Fuguer, nome sotto il qualeoperano i britannici Cathy e John Rogers. Girato in Super 8,

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High Wycombe è il documento di una camminata effettuatadurante il solstizio d’inverno del 2004. La camera in sogget-tiva e la macchina a mano producono un senso di presen-za e di partecipazione emotiva; il montaggio veloce imita letecniche situazioniste del passaggio rapido, dei differenzialidi velocità e del cambiamento di paesaggio. Il Super 8, for-mato amatoriale del passato, produce al contempo un sen-so di familiarità e un insolito spaesamento temporale che siaggiunge a quello geografico. Quella che si vuole ricreare èla sensazione, l’emozione, la partecipazione, in altre parolel’esperienza della deriva.

Anche film professionali di derive spesso fanno uso di co-dici simili. Fra gli esempi, Cycling the Frame (1988) e The In-visible Frame (2009) di Cynthia Beatt, che seguono le pedalatedell’attrice Tilda Swinton lungo il Muro di Berlino, prima edopo la sua caduta; London Orbital (2002) dei registi-scritto-ri Chris Petit e Iain Sinclair, girato lungo la tangenziale M25di Londra; e il primo episodio di Caro diario (1993), che se-gue una deriva di Nanni Moretti in Vespa per le strade diRoma. La trilogia di film saggio del regista-architetto ingle-se Patrick Keiller – London (1994), Robinson in Space (1997) eRobinson in Ruins (2010) – è un esempio di film per i qualiuna deriva non è mai esistita. Un narratore fittizio segue letracce dell’elusivo Robinson e delle sue ricerche sul «pro-blema» di Londra e dell’Inghilterra: così offrendo una con-trolettura dell’ultimo secolo inglese, visto attraverso le trac-ce lasciate da capitalismo e imperialismo e dalla politica del

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partito conservatore sullo spazio urbano ed extraurbano. Latrilogia di Keiller è ideologicamente vicina al situazionismoe alla sua critica/distruzione dei valori borghesi, capitalistie colonialisti, anche se con un tono più disincantato, scet-tico e postmoderno. Essa adotta uno stile del tutto dissimi-le dai video e film fin qui considerati, essendo composta dalunghe sequenze di immagini girate con una camera fissa,che osserva senza mai muoversi. In questo caso i film nonci avvicinano alla deriva di Robinson, fatta «in soggettiva»,ma ce ne propongono tracce disgiunte focalizzandosi, perusare la terminologia di Debord, sui «centri di attrazione»;il movimento della deriva, prodotto da «correnti» e «vor-tici», è stato eliminato dalla rappresentazione visiva, ma èsuggerito dalla narrativa in voce fuori campo, e ricostruitomentalmente dallo spettatore. In altre parole, la deriva è quiun’esperienza interamente filmica; l’esperienza della derivaè l’esperienza del film stesso. In questo senso i film di Keil-ler sono performativi; essi sono la performance di una deri-va che è interamente filmica, e che è esistita ed esiste solocome film. In altre parole, il film è la deriva.

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Mauro Staccioli, Senza titolo “Celle ‘82”, Fattoria di Celle, Santomato di Pistoia,1982. Cemento, 810 x 1770 x 105 cm. (Foto Enrico Cattaneo).

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RI-SITUAZIONISMO

Come ripensare la contestazione

«Errata» e Toni Arno a Pariginegli anni Settanta

Amalia Verzola

Nella prima metà degli anni Settanta un giovane ro-meno esule a Parigi, Toni Arno, fonda la rivista«Errata». Pubblicata per la prima volta nel novem-bre 1973, essa rappresenta un esempio ben costrui-

to di militanza intellettuale. Quindici anni di proposte, pro-getti, idee e alternative, e un solo scopo: spiegare il fallimen-to del ’68 e superarlo. Un superamento che, dunque, è anchee soprattutto un attraversamento.

Peccato però che l’avventura avanguardista che accompa-gna la pubblicazione di «Errata» sia pressoché sconosciuta.Peccato, perché le tematiche che emergono dalla lettura del-la rivista sono davvero suggestive.

Come ripensare la contestazione

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Al primo impatto «Errata» sembrerebbe collocarsi nel sol-co del postsituazionismo, ma non è affatto così. Lo stessoToni Arno, d’altronde, fa parte dell’Internazionale situazio-nista, ma solo per qualche mese. Conosce e frequenta GuyDebord per prenderne poi bruscamente le distanze. Perché?«Errata» voleva rispondere a una sostanziale esigenza: inne-scare un processo efficace e trasversale di ridefinizione delleculture di sinistra. Forse anche l’Is, così come il movimentorivoluzionario moderno, non era stata in grado di compren-dere realmente la sua epoca? O meglio: l’Is era riuscita a in-gaggiare quella che Arno avrebbe definito una lotta storica-mente situata?

Critica e socialità sono i concetti chiave attorno ai qualiruota il lavoro del gruppo avanguardista che gravita intornoad Arno. Un gruppo che stenta, tuttavia, a definirsi tale. «Er-rata» è l’incontro autentico di individui che condividono lemedesime prospettive, le medesime aspirazioni. Non è set-tarismo, ma partecipazione. Ripensare non solo il presentema anche e soprattutto i rapporti interpersonali: su questoterreno si gioca la partita. Ma in che modo la rivoluzione de-ve avvenire nel presente? Innanzitutto rompendo col passa-to. Con una rinnovata lucidità, con un’affinata capacità cri-tica. Il rapporto con la dimensione storica non deve più fon-darsi su un’attitudine contemplativa, fatalista o addiritturamillenarista: tendenza che invece è stata la cifra peculiaredegli anni Settanta. I movimenti rivoluzionari avevano in ef-fetti dimostrato scarsa capacità di aderire al presente, ripro-

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ponendo schemi di pensiero e azione ormai obsoleti, stantii.Il primato della teoria, inoltre, aveva contribuito a rendereancora più difficoltoso qualsiasi ripensamento critico del da-to. Il fallimento stesso della contestazione aveva portato consé una serie innumerevole di piccole rivendicazioni astratte.

Per «Errata», invece, fare la storia, e ingaggiare una lottastoricamente situata, vuol dire essenzialmente avere unacognizione chiara del momento storico: essere in grado disoggiornarvi. «Per capire il presente è importante insistere,persistere, considerare senza precipitazione tutto ciò che èin via di formazione – sostiene Toni Arno in Jours critiques,pubblicato sull’undicesimo numero della rivista –. Non ri-sparmiarsi di fronte a nessuna difficoltà che si presenti, maaffrontare queste per intero, senza scorciatoie né vie traver-se. I cambiamenti reali non sono i più visibili, ma i più sensi-bili.»

Il rapporto dei vecchi rivoluzionari con la dimensione po-tenziale dell’esistenza era assolutamente patologico, morbo-so, proprio perché non attento al presente. «Errata» vuoleinvece accogliere e tesaurizzare il momento storico. Questanuova attitudine è critica in quanto valutativa, analitica. Unadisposizione a lasciarsi attraversare dalla vie courante cheporta con sé anche la possibilità di risignificare le relazioniinterpersonali attraverso un contatto più profondo conl’altro orientato all’ospitalità, alla scoperta e privo di pregiu-dizi. Non c’è alcun rapporto di antecedenza logica tra la cri-tica e questa rinnovata socialità: affinare l’arma della criti-

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ca, infatti, significa al contempo acquisire coscienza del con-tenuto eversivo della relazione, dell’incontro. E così questasocialità, la capacità di vivere consapevolmente le relazioniinterpersonali, permette di articolare un’opposizione speci-fica allo statu quo. La critica, incanalata nella socialità, puòdunque finalmente tradursi in sapere operativo.

La socialità critica, ovvero il saper-essere-presenti-lucida-mente nella relazione, rappresenta in «Errata» il punto diarrivo di un percorso di indagine estremamente interessan-te. Ma, al contempo, anche il punto di partenza. Il presen-te non offre mai un adeguamento perfetto dell’altro: farsicarico di questa differenza irriducibile vuol dire predisporsiall’emergenza dell’imprevisto, e dunque al cambiamento.

Una nuova generazione di intellettuali rimpiazza cosìquella precedente. L’intellettuale di «Errata» vuole conosce-re il mondo senza lasciarsi intrappolare dal vecchio. Rispon-dere alle esigenze dei tempi non equivale a guardare con oc-chio nostalgico al passato, né tanto meno a proiettarsi in unadimensione futura tanto fumosa quanto irreale. Risponderealle esigenze dei tempi vuol dire aprirsi, piuttosto, a un con-tatto più autentico con il presente. Quello di «Errata» fu unprogetto culturale di ampio respiro e di estrema attualità.Forse sottovalutato.

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Mauro Staccioli, Portale 2009, Fattoria di Lischeto, Volterra, Luoghid’esperienza, 2009. Acciaio Corten, 1000 x 805 x 55 cm. (Foto Bob Tyson).

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GRECIA

La guerra dell’informazione

Un colpo di stato mediatico

Dimitri Deliolanes

Non è possibile comprendere le responsabilità delleclassi dirigenti per la profonda crisi in cui si trovadal 2009 la Grecia senza affrontare la cruciale que-stione del sistema informativo, con particolare at-

tenzione verso quello televisivo, che è poi quello che contadi più nel formare il consenso e indirizzare il voto.

In Grecia inoltre si ha la particolarità che il sistema tele-visivo privato è uno dei più forti centri di potere del paese.Fin dalla sua nascita, negli anni 1990-91, il sistema delle tvprivate si è distinto per il suo fortissimo intreccio con i duepartiti di governo (i socialisti del Pasok e i conservatori diNuova Democrazia), e proprio questo intreccio ha definitoa sua volta tutte, senza eccezione, le successive scelte poli-

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tiche ed economiche del potere politico. Un forte intreccio,quindi, tra imprenditorialità in affari con lo stato e informa-zione politica fortemente controllata.

Il motivo di questo intreccio trae le sue radici, come han-no rilevato economisti quali Kostas Vergopoulos, dalle ori-gini dell’attuale classe imprenditoriale greca, in gran partecomposta dai discendenti di chi si è arricchito con la crimi-nalità, la borsa nera o la collaborazione con i nazisti duran-te la seconda guerra mondiale. La successiva guerra civile hasdoganato, in funzione anticomunista, queste bande di nuo-vi ricchi che hanno preso in mano le redini dell’economiadel dopoguerra, avendo gradualmente emarginato e poiespulso le grandi famiglie costantinopolitane. Il regime deicolonnelli (1967-1974) ha segnato l’affermazione definitivadi questa borghesia parassitaria, che prospera unicamentegrazie agli affari con lo stato.

È proprio questa classe imprenditoriale che oggi controllai principali cinque canali privati greci, i quali nel complessorappresentano quasi l’80% dell’informazione televisiva.Grandi audience, ma scarsa credibilità. Il modello informa-tivo applicato è infatti quello dell’infotainment, informazio-ne resa intrattenimento, facilmente «digeribile», dramma-tizzata ed enfatizzata. Ovviamente, con tutte le manipola-zioni del caso: notizie scomode scomparse e informazionidubbie riportate come fatti, a seconda degli interessi poli-tici ed economici dell’editore. Un esempio eclatante è sta-ta l’affermazione di Kostas Simitis nel 1996 come nuovo lea-

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der del Pasok dopo la morte del fondatore Andreas Papan-dreou. Simitis era un esponente di una corrente ultramino-ritaria dentro il Partito socialista. Grazie a un’intensa cam-pagna propagandistica promossa dai canali privati egli si èritrovato a capo del partito, pronto a truccare i conti pubbli-ci pur di ottenere l’adesione della Grecia all’eurozona.

Va inoltre segnalato che alcuni editori televisivi sono an-che proprietari di giornali, così il controllosull’informazione diventa molto più efficace. Ad esempio, ilgruppo dell’appaltatore Bobolas è l’azionista di riferimentodel canale privato Mega (ai vertici dell’audience) e del grup-po editoriale Pegasus, mentre il gruppo editoriale Lambra-kis, che ha interessi nelle forniture pubbliche, ha una parte-cipazione in Mega e pubblica due giornali, «Ta Nea» e «ToVima» (domenicale).

Nella Grecia della crisi l’intreccio perverso tra i due partitidi governo e le televisioni private non solo non è stato mini-mamente intaccato, ma al contrario si è rafforzato. La Troi-ka (Bce, Fmi, Commissione europea) ha colpito duramente illavoro dipendente, ma non ha sollevato alcuna obiezione sulfatto che tutti i canali privati occupano da più di un venten-nio le frequenze pubbliche senza versare un euro alle cas-se dello stato. Non è stato neppure sollevato il problema deimancati versamenti della pur esigua tassa sulla pubblicitàtrasmessa e dei contributi dei dipendenti.

Ma c’è un motivo per questa distrazione. I canali privatisono stati fin dall’inizio della crisi tra i più tenaci sostenitori

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della politica di austerità, giustificata e difesa grazie alla dif-fusione di informazioni manipolate. Un esempio: per più diun anno i canali privati hanno propalato la falsa notizia se-condo cui gli impiegati pubblici greci erano più di un milio-ne e mezzo. E quando l’allora premier socialista George Pa-pandreou fece un censimento e scoprì che nel 2011 eranopoco più di settecentomila (sotto la media europea), la noti-zia fu sepolta.

Anche per l’attuale premier Antonis Samaras il sostegnodei canali privati è stato decisivo nelle doppie elezioni dimaggio e giugno 2012. Ma è soprattutto adesso che lui nonpuò permettersi di perdere il loro sostegno. Il governo grecosi trova infatti in una situazione estremamente scomoda:pur avendo promesso agli elettori una «rinegoziazione» del-la politica di austerità, ora è costretto ad applicare una seriesenza fine di nuove misure in nome di una politica che haperso ogni legittimità perfino agli occhi del Fmi. Incapace distringere alleanze con gli altri paesi indebitati dell’eurozonae restio a sollevare di fronte all’Europa il problema della gra-vissima situazione sociale che ha comportato la politica del-la Troika in Grecia, il governo di Samaras ha gradualmentetrasformato la sua funzione in modo da diventare un meroorgano esecutivo delle imposizioni della Troika stessa. Unapolitica con altissimi costi sociali che non lascia intravederealcuno sbocco.

L’unica maniera per far accettare al popolo greco questoscempio è la repressione poliziesca coniugata con grandi

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campagne propagandistiche. Queste ultime sono una specia-lità dello staff dei collaboratori del premier, composto per lamaggior parte da ex esponenti dell’estrema destra, che spes-so non esita a ricorrere a vere e proprie falsificazioni. Come,per esempio, il montaggio ad arte delle dichiarazioni di undeputato dell’opposizione di sinistra Syriza per farlo sem-brare un apologeta della violenza terroristica.

L’ultima campagna in grande stile è stata intrapresa a giu-gno. Sosteneva che la politica di austerità era certo dura, ma«cominciava a dare risultati»: continue rivalutazioni nellaBorsa di Atene, stabilità politica, un’uscita dalla recessionegià nel 2014. Il ministro delle Finanze, Yannis Stournaras, siè spinto perfino a preannunciare il ritorno della Grecia neimercati entro l’anno prossimo. Anche qualche autorevolegiornale italiano ha abboccato e qualche giornalista impru-dente ha usato le fatali parole «ristoranti pieni». Pochi gior-ni dopo è stato rivelato il documento del Fmi sull’erroneitàdella politica europea in Grecia, mentre si è scatenata unavalanga di dati e valutazioni tutti incentrati sul fatto che,dopo tre anni di sofferenze, non c’è alcuna luce in fondo altunnel. Alla fine persino Wolfgang Schauble ha dovuto rico-noscerlo.

È in questo contesto che l’11 giugno è scattata la brutalechiusura della televisione pubblica Ert. Sulla stampa italianasono comparse molte imprecisioni: avendo in mente la Rai,si è parlato di «privatizzazione» e si è descritta la Ert comeun «carrozzone mangiasoldi». La verità però è che la priva-

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tizzazione non è stata mai presa in considerazione da Sama-ras, mentre si è ignorato il fatto che dal 2010 la Ert è in at-tivo. L’anno scorso ha chiuso i suoi bilanci con un guadagnonetto di circa 40 milioni.

La guerra all’emittenza pubblica, quindi, è stata scatenatadalla componente di destra del governo non per ragioni eco-nomiche ma per ragioni puramente politiche e si inseriscenella preoccupante svolta autoritaria che caratterizza il go-verno Samaras. Dall’inizio dell’anno ben diciannove scioperidi categoria (dai portuali agli insegnanti) sono stati repres-si con la precettazione. A Skouries, nel «dito» mediano del-la Penisola Calcidica, da marzo la popolazione vive in con-dizioni di stato di polizia, con continui controlli e perquisi-zioni, violenze e blocchi di interi villaggi. Il motivo è che gliabitanti protestano perché una società mineraria greco-ca-nadese (la parte greca è rappresentata dall’azionista di mag-gioranza dell’emittente Mega) sta distruggendo la splendidapenisola per aprire nuovi pozzi alla ricerca di oro.

L’emittenza pubblica era di ostacolo a questa politica delgoverno, non perché si prodigasse in critiche e obiezioni, maperché si rifiutava di appiattirsi sulle veline della Presidenzadel Consiglio. Samaras ha ritenuto che l’unica soluzione fos-se la completa privatizzazione dell’informazione televisiva.Un grande regalo ai signori dei canali privati per ottenere ilpieno controllo dell’informazione. Non è un caso che l’unicaforza politica che ha sostenuto tale scelta, oltre alla stessaNuova Democrazia, fossero i nazisti di Alba Dorata.

La guerra dell’informazione

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GRECIA

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Vassilis Vassilikos

Caduta come un fulmine a ciel sereno, la chiusura del-la radio-televisione pubblica Ert, del sito Internet edei canali satellitari non è altro che un colpo di statomediatico, il primo a livello mondiale. Neanche la

giunta militare andata al potere con i carri armati il 21 aprile1967 aveva decretato la chiusura della radio pubblica(all’epoca non c’erano radio private, né una stazione televi-siva). Si era limitata a trasmettere marce militari e proclamideliranti dei colonnelli.

Quel che voglio dire è che la «chiusura», il «lucchetto»,la «cancellazione», l’apparizione del «no signal» nel piccoloschermo dal punto di vista semantico segna un ritorno allabarbarie. Parafrasando la formula «socialismo o barbarie» diCornelius Castoriadis, di fronte al dilemma «capitalismo obarbarie» il presidente del Consiglio Antonis Samaras ha op-tato senza dubbio per la seconda.

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Avendo ricoperto l’incarico di vicedirettore generale del-la Ert negli anni 1981-1984, conosco bene il ruolo svolto dallatv per quanto riguarda i problemi di difesa del paese, ma so-prattutto per quel che riguarda i greci della diaspora, che so-no altrettanti dei residenti nel paese: circa 11 milioni di el-lenofoni che risiedono oltre le frontiere, sparsi nei cinquecontinenti. Tutti costoro sono rimasti all’improvviso orfani,privati dell’unico legame ombelicale che li teneva in contat-to con la madre patria.

La televisione privata ha fatto la sua apparizione nel 1990in maniera arbitraria e sregolata, e il suo status è rimasto in-variato fino a oggi. I suoi programmi si caratterizzano perpopulismo e volgarità e i suoi telegiornali sono asserviti agliinteressi dei singoli editori. Questo ha fatto in modo che i te-lespettatori si spostassero in massa verso la televisione pub-blica, specialmente negli ultimi anni, come assetati nel cuo-re del Sahara in cerca di un’oasi di qualità dove abbeverarsi.Ovviamente i pubblicitari hanno sistematicamente manipo-lato le loro misurazioni dell’audience e non hanno mai asse-gnato alla Ert gli indici di ascolto dei suoi tre canali sul digi-tale terrestre, più uno satellitare, più sei programmi radio-fonici con copertura nazionale.

Anche in questo caso, come durante la «primavera araba»e poi in Turchia, Internet ha funzionato come provvisoriavalvola di sfogo per i gas tossici del golpe mediatico. Inoltredue canali televisivi, uno della sinistra radicale Syriza e unaltro più piccolo, hanno continuato a trasmettere program-

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mi con interviste e dibattiti con coloro che facevano visita aicoraggiosi giornalisti dell’occupazione, in studios provvisoridentro la sede centrale della Ert, mentre migliaia di cittadi-ni li proteggevano da una probabile invasione della polizia.La quale, alla fine, non ha osato entrare in azione ad Atene,mentre ha sgomberato con le maniere forti la sede del cana-le pubblico regionale Et3 a Salonicco.

Un sondaggio effettuato durante i giorni dell’occupazionedella Ert ha mostrato che il 70% degli intervistati, in ogniangolo del paese, si è espresso contro la chiusura della te-levisione pubblica. I cittadini hanno mandato un messaggiochiaro al premier che ha preso la decisione di chiuderla inmaniera unilaterale, tenendo all’oscuro gli altri due partitiche partecipano alla coalizione di governo, i socialisti del Pa-sok e la Sinistra democratica.

La verità è che non avevamo fatto in tempo a digerire pie-namente la notizia di aver evitato il grexit quando ci è ca-pitato tra capo e collo il «no signal» delle frequenze dellatv pubblica. Avevamo aperto con tanto ottimismo le portedell’estate ai circa 17 milioni di turisti previsti, e di colpo cisiamo trasformati in un paese antieuropeo agli occhi di tut-to il mondo.

È stato un errore imperdonabile. E insistere nell’errore,come il partito di centrodestra ha continuato a fare nellesettimane seguenti, è ancora più imperdonabile. Certo, la Ertnon era un’impresa perfetta. Dominavano cordate sotterra-nee, clientele, raccomandazioni, un sistema di governo tipi-

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co del periodo in cui, per quattro decenni, si erano alternatial governo i socialisti del Pasok e i conservatori di Nuova De-mocrazia.

C’era stato un tentativo di risanamento durante il gover-no di George Papandreou, ma si era scontrato in Parlamen-to con l’allora opposizione di Nuova Democrazia di Sama-ras. Quello stesso Samaras che ora ripropone praticamentelo stesso piano di risanamento, ma compresso nell’arco ditre mesi. Con alcune modifiche sostanziali: coloro che saran-no riassunti dovranno possedere un dottorato di ricerca epasseranno al vaglio dell’organismo per i concorsi pubbliciAsep.

Ma i giornalisti, i produttori, i registi e tutti coloro che inqualche modo lavorano nel mondo dell’informazione e dellospettacolo non devono avere necessariamente titoli accade-mici di alto livello. Forse i capi dei servizi tecnici sì, ma noncerto gli operai, i cameraman, i fonici. In conclusione, tuttoappare per il momento confuso. L’unica cosa inammissibileè l’oscuramento delle frequenze, il buio pesto della cultura edell’informazione pubblica.

Traduzione dal greco di Dimitri Deliolanes

Per ulteriori informazioni si veda anche www.alfabeta2.it/2013/06/19/no-signal/#sthash.Ou8YFU8K.dpuf

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Cinquant’anni dopo

Dal 3 all’8 ottobre 1963, all’Hotel Zagarella di Solunto,presso Palermo, nasceva il Gruppo 63. A cin-quant’anni di distanza, nei prossimi mesi di ottobree novembre, una serie di appuntamenti si terranno

fra Roma e Los Angeles secondo il programma dettagliatoqui a p. 36.

Il Gruppo 63 non fu solo letteratura, si sa (del resto il pri-mo incontro si tenne in occasione della Settimana interna-zionale di Nuova Musica, organizzata da Francesco Agnel-lo), come ricorderà un ampio speciale sul prossimo numerodi «alfabeta2». Ma certamente il suo nucleo fu composto dascrittori e critici. E fra ottobre e novembre usciranno anchealcuni loro libri, vecchi e nuovi, dei quali presentiamo qui inanteprima qualche assaggio.

Cinquant’anni dopo

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I testi di Umberto Eco e Giorgio Manganelli sono compresinel volume Il romanzo sperimentale, a cura di Nanni Balestrini,uscito nella collana «Materiali» di Feltrinelli nel 1966 con gliatti del convegno omonimo tenuto ancora a Palermo l’annoprima: e ora di nuovo in uscita presso L’orma, a inaugurarela seconda serie della collana «fuoriformato», a mia cura, icui primi 31 titoli sono stati pubblicati dal 2006 al 2012 da LeLettere. Il testo di Manganelli, che non era presente a Paler-mo, era in appendice al volume originario, mentre quello diEco, scritto per questa occasione, fa parte di una sezione daltitolo «Il senno di poi» che comprende interventi dei «redu-ci» di quell’occasione e di una quantità di scrittori e critici«postumi», appartenenti alle generazioni successive.

I brani in versi di Elio Pagliarani, originariamente com-presi nella Bella addormentata nel bosco, edita presso Corpo 10nel 1987 (e in parte remixati dall’autore otto anni dopo nellaBallata di Rudi), sono ora compresi nel volume Tutto il teatro,in uscita presso Marsilio a cura di Gianluca Rizzo, che rac-coglie i testi scritti per la scena da Pagliarani e una scelta disuoi saggi e articoli teorici al riguardo.

Il frammento narrativo di Enrico Filippini è prelevato dalracconto In negativo, pubblicato su «Marcatré» nel 1964 emai raccolto in volume (se non parzialmente in Gruppo 63.La nuova letteratura, a cura di Nanni Balestrini e Alfredo Giu-liani, Feltrinelli, 1964). Il testo integrale figura nel volumeL’ultimo viaggio, in uscita presso Feltrinelli a cura di Alessan-

Cinquant’anni dopo

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dro Bosco, che raccoglie tutti gli scritti narrativi e teatrali diFilippini.

Il testo di Giulia Niccolai è tratto dal terzo capitolo del ro-manzo Il grande angolo, la sua opera prima pubblicata da Fel-trinelli nel 1966, e ora in uscita per la prima volta da allo-ra presso Oèdipus, a cura e con introduzione di Milli Graffi euna nota dell’autrice, come titolo d’esordio della nuova col-lana «à rebours» diretta da Cecilia Bello Minciacchi.

Il brano di Carla Vasio, infine, fa parte del volume Vita pri-vata di una cultura, in uscita presso nottetempo, che raccogliei ricordi dell’autrice su figure ed episodi della cultura deglianni Sessanta. La frase che qui intitola il frammento su Ame-lia Rosselli è di Giacinto Scelsi, e nel libro dà il titolo alla se-zione sul mondo musicale.

a.c.

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Umberto EcoMa ti paiono questi i tempi per scrivere un romanzo?

Giorgio ManganelliSgomberare le macerie

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Enrico FilippiniSegni divergenti che non convergevano mai

Giulia NiccolaiNella vasta mattina di luce implacabile

Carla VasioSì, sono suoni, ma difficili da sentire

50 anni del Gruppo 63

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Cinquant’anni dopo

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Ma ti paiono questi i tempi per scrivereun romanzo?

Umberto Eco

Rimettendomi a sfogliare gli atti dell’incontro di Palermo1965 ho l’impressione che possano dire molto d’interessanteanche al lettore d’oggi – pure se appaiono datate alcune di-spute ideologiche e la discussione se Brasilia fosse più im-portante di Praga, avvenuta quando Praga era ancora unacittà soffocata dallo stalinismo e Brasilia, se pure già si av-viava al collasso, era l’esempio di un esperimento utopistico– ma quanti dei neoavanguardisti d’allora non erano in qual-che modo ancora ricattati da un dovere dell’impegno politi-co, anche quando si sfarinava il linguaggio del realismo so-cialista? Però non voglio rileggere i saggi di questo libro – o,

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se l’ho fatto, non ne terrò conto. Quel che vorrei ricordare èl’impressione che la discussione mi aveva fatto allora.

Anzitutto, la vulgata giornalistica voleva che il Gruppo 63fosse un’associazione di neoavanguardia che pervicacemen-te seguiva la propria poetica unitaria e massiccia, e solo perfar dispetto a Carlo Cassola. Niente di più falso: quanto ilgruppo non fosse omogeneo si vede dalla discussione, cam-pionario di reciproci e ferocissimi insulti, anche se formulatiin belle maniere. E in secondo luogo il convegno del 1965mostra linee di pensiero (e di ripensamenti) del tutto nuoverispetto agli scritti e alle posizioni del 1963.

Cito solo i due punti che mi erano parsi allora (e che mipaiono ancora adesso) più significativi. Il primo è che si sta-va stabilendo che un conto sono i movimenti di avanguar-dia, che tendono all’azzeramento di ogni poetica del passa-to e mirano alla provocazione del pubblico, tanto da far pre-valere l’azione provocatrice sulle ragioni dell’opera. Il fattostesso che si intitolasse il convegno al romanzo sperimenta-le significava che si era introiettato il principio che c’era unabella differenza tra azione d’avanguardia (che io allora chia-mavo provocazione esterna) e ricerca sperimentale (che al-lora chiamavo provocazione interna al testo). E il fatto chemolti tra noi litigassero su questo punto significa che si sta-va toccando un nervo scoperto. Da allora (e forse da prima)il lavoro di chi partecipava alle riunioni del gruppo (parte-cipare era come iscriversi, e la nozione di appartenenza eraestremamente fluida) si è specificato sul versante sperimen-

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tale e solo i mass media hanno continuato a parlare di neoa-vanguardia, e lo fanno ancora oggi; ma pazienza, i cliché so-no più facili da usare dell’analisi critica, e d’altra parte chiscrive per i media non può pensare in modo sperimentale,altrimenti lo licenzierebbero.

Accanto a questa virata in direzione dello sperimentalestava forse anche una mia polemica (che anni dopo ho avutoa Parigi con Boulez e Robbe-Grillet) sul fatto che ormai leprovocazioni e d’avanguardia e di sperimentalismo tendeva-no a essere gradatamente accettate da un pubblico nuovo, eda lì la mia analisi della ricezione del bellissimo Verifica in-certa di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi.

Ma è il secondo punto che mi è rimasto più impresso e checertamente ha influenzato il mio modo di pensare (e di scri-vere) negli anni successivi. Ed era il richiamo di Renato Ba-rilli alle nuove strade che stava prendendo la narrativa: daun lato l’uso dell’epifania e dell’estasi materialistica, comenarrazione «bassa» di una quotidianità rivisitata attraversogli schemi non edificatori, ma dall’altro un ritorno inevita-bile all’azione, all’intreccio (così vituperato dalla neoavan-guardia del 63), sia pure un intreccio usato in modi diversi,non teso, come diceva Alfredo Giuliani, a un’educazione sen-timentale. Barilli parlava di avventura autre.

Ora, nel momento in cui Barilli teneva la sua relazione(1965), non si parlava ancora di postmoderno in letteratura:i saggi fondamentali in argomento sono più tardi, come Laletteratura dell’esaurimento di John Barth (1967) o quelli di Le-

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slie Fiedler (inizio degli anni Ottanta). E sarebbe nata lenta-mente l’idea che una forma di avventura autre non sarebbestata soltanto rappresentata da uno stravolgimento dei ca-noni classici dell’intreccio, ma anche da una rivisitazioneironica (e fatta di citazioni) dei suoi passati trionfi. Credo siastato per queste impressioni che nel 1972 dedicavo l’Alma-nacco Bompiani al «Ritorno dell’intreccio», dove le strategieclassiche dell’azione romanzesca venivano rilette non con lameravigliata eccitazione dei lettori di Dumas, ma con un oc-chio critico, o meglio «cinico», che le analizzava senza piùfarsene coinvolgere. E naturalmente senza evitare, anzi vo-lendo, che tra maglie smandrappate di molti intrecci folgo-rassero proprio le epifanie alle quali ci richiamava Barilli.

Così, almeno nella mia memoria (e si sa che la memorianon registra ma ricostruisce), l’incontro del ’65 si era pro-filato come una divinazione del postmoderno a venire e inquesto senso, mirando allo sperimentalismo, liquidava iconti con l’avanguardia. L’avanguardia storica cercava di re-golare i conti con il passato. «Abbasso il chiaro di luna» èstato il programma tipico di ogni avanguardia: bastava met-tere qualcosa di appropriato al posto del chiaro di luna.L’avanguardia distrugge il passato, lo sfigura: Les demoisellesd’Avignon sono il gesto tipico dell’avanguardia. Poil’avanguardia va oltre: distrutta la figura, l’annulla, arrivaall’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata,alla tela bruciata, in architettura sarà la condizione minimadel curtain wall, l’edificio come stele, parallelepipedo puro, in

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letteratura la distruzione del flusso del discorso, sino al col-lage alla Burroughs, sino al silenzio o alla pagina bianca, inmusica sarà il passaggio dall’atonalità al rumore, al silenzioassoluto (in questo senso il Cage delle origini è moderno).

Ma arriva il momento in cui l’avanguardia (il moderno)non può più andare oltre, perché ha ormai prodotto un me-talinguaggio che parla dei suoi impossibili testi (l’arte con-cettuale). La risposta postmoderna al moderno consistevanel riconoscere che il passato, visto che non poteva esseredistrutto, perché la sua distruzione portava al silenzio, do-veva essere rivisitato in modo non innocente.

Ironia, gioco metalinguistico, enunciazione al quadrato. Icollage di Picasso, di Juan Gris e di Braque erano moderni,e per questo la gente «normale» non li accettava. Invece icollage che faceva Max Ernst, montando pezzi di incisioniottocentesche, erano postmoderni: si potevano anche leg-gere come un racconto fantastico, come il racconto di unsogno, senza accorgersi che rappresentano un discorsosull’incisione, e sul collage stesso. Se il postmoderno è que-sto, è chiaro perché in uno stesso artista possano convivere,o seguirsi a breve distanza, o alternarsi, il momento moder-no e quello postmoderno. Si veda cosa accade con Joyce. IlPortrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners sonopiù moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wakeè già postmoderno, o almeno apre il discorso postmoderno:richiede, per essere compreso, non la negazione del già det-to, ma il suo ripensamento quasi sardonico.

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Forse è stato dopo Palermo 1965 che ho iniziato a chieder-mi se non avessi voglia di raccontare una storia romanzescama letterariamente cinica, iniziando con un centone di inizisalgariani, personaggi che entravano in scena portando al-la fascia damascata, che gli stringeva il petto ansimante sot-to una fine batista, pistole dal calcio arabescato e ornate didiamanti grossi come nocciole. Ma non ero sicuro che il dou-ble coding sarebbe stato capito. Se col moderno chi non ca-pisce il gioco non può che rifiutarlo, col postmoderno è an-che possibile non capire il gioco e prendere le cose sul serio.Che è poi la qualità (il rischio) dell’ironia. Così questi mieiprogetti sono rimasti per quindici anni pure fantasie episo-diche, come sognare ogni tanto di fuggire su un’isola deser-ta. Era ancora presto per giocare sull’intreccio, ed è naturaleche poi (quando ho scritto un romanzo – e Staino mi ha fattouna bella vignetta con Molotov che dice a Bobo: «Ma ti paio-no questi i tempi per scrivere un romanzo?») alcuni compa-gni del vecchio Gruppo mi rimproverassero di aver abban-donato gli ideali sperimentali dei miei trent’anni. Non ave-vano tratto dall’incontro di Palermo il potenziale esplosivoche conteneva.

Insomma, questo è quello che mi viene in mente riapren-do gli atti del ’65. E se mi sono sbagliato a leggere quei fondidi caffè, significa proprio che le vie della provvidenza sonoinfinite.

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Sgomberare le macerie

Giorgio Manganelli

Temo che questo mio intervento, aggiunto in calce al dibat-tito cui non ho avuto il piacere di partecipare, risulti insie-me più apodittico e più generico del necessario.

Comunque, se un angelo intervistatore mi ponesse unadomanda sulla condizione attuale del romanzo, io pensoche, con la compunzione necessaria, risponderei all’incircacosì: io provo uno scarso interesse per il romanzo in genere– inteso come protratta narrazione di eventi o situazioniverosimili – e talora un sentimento più prossimo alla ripu-gnanza che al semplice fastidio; ho l’impressione che oggicodesto genere sia caduto in tanto irreparabile fatiscenzache il problema è solo quello dello sgombero delle macerie,

Sgomberare le macerie

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non del loro riattamento a condizioni abitabili; codestosprofondamento ha, a mio avviso, una causa precisa. I ro-manzieri sono persone serie, o si comportano come tali. So-no persuasi che nelle pieghe del loro raccontare debba esse-re disposto il coonestante aroma di una qualche idea gene-rale, di un messaggio. Diventato nutrimento ideologico, in-saporito di frammenti di idee, il romanzo è decaduto – comenota Giuliani – a messaggio edificante; questo di per sé nonsarebbe ancora rovinoso, giacché le vie della salvezza lette-raria sono infinite; ma ci rattrista constatare a qual punto iromanzieri siano riusciti nel loro compito. Non per caso, ilromanzo appare nella letteratura europea proprio nel mo-mento in cui decadono il gusto e l’intelligenza della retoricaclassica: quando, cioè, entra in crisi l’idea dell’opera lette-raria come artificio; in particolare, l’esplosione ottocentescadel romanzo coincide con la liquidazione della retorica clas-sica.

Dimentico che non v’è discorso letterario se non comemacchinazione, il romanziere si è via via persuaso che quelche egli faceva aveva qualcosa a che fare col mondo in cui vi-veva; critici pazienti gli hanno spiegato che, di quel mondo,il romanzo era volta a volta specchio, testimonianza, inter-pretazione; indotto da queste insinuazione a sottovalutar-si, il narratore si è coinvolto in un rovinoso compito ideolo-gizzante; non pago del messaggio, ha tentato la visione delmondo. Corrotto dalla serietà propria e dei critici, ha per-so la limpida gioia della menzogna, l’irresponsabilità, la dop-

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piezza morale, l’ilare arroganza che sono, a mio avviso, levirtù fondamentali di coloro che attendono a quel perpetuoscandalo che è il lavoro letterario. Persuaso di avere delleidee, e che il romanzo sia mezzo atto a esprimerle, lo scrit-tore ha perso il candido cinismo, in primo luogo il cinismoverso se medesimo. Ha scelto di balbettare delle verità, men-tre era suo compito declamare delle fluenti menzogne, an-zi esaltare il vero a menzogna; ha cercato di far capire cheegli si proponeva di interpretare il mondo per i suoi lettori,invece di rivolgersi a lettori non nati, già morti, o destinatia non nascere mai; ha voluto collocarsi nella storia, che fratutti gli abitacoli che la letteratura ha sperimentato si è ri-velato il più estraneo e disagevole. Infine ha rinunciato al-la disubbidienza, si è fatto morigerato: e ora si stupisce chela letteratura, aureolata sgualdrina, respinga e irrida la suacorte goffa e onesta.

Naturalmente, non è tutta la verità: tra le reliquiedell’impero romanzesco, accampati accanto ai deserti, fran-tumati ideodotti, si affacciano i nuovi, acerbi visigoti: batto-no le loro aspre oreficerie, si rallegrano di riconoscervi i se-gni astratti e arbitrati, i quadrati, i triangoli; incidono i lo-ro scacchi in un avorio duro, si dispongono a giocare le loroeterne, fatali, inutili partite.

Sgomberare le macerie

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Mauro Staccioli, Andorra ’91, Ordino d’Arcalis, Principato di Andorra,Symposium de sculpture en plein air, 1991. Acciaio Corten, 1200 x 60 cm.

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Elio Pagliarani

Tutta oro e pizzi barocchi la signora dell’alta moda

SFILANO LE SACERDOTESSE DEL LUSSO

Con la mantella di visonec’è anche la gonna di volpe.Si emoziona e piange Gianfranco Ferréquando esce in passerella a raccoglierela grande ovazione. Fa tenerezzaanche perché è così grasso,ha la taglia forte dell’orso buono. Lo applaudonodal privilegio della prima filagiovani e ardenti mogli di scrittori famosi,note contesse con lenti a contatto turchese,

Una mappa di terremoti

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attrici del nudo in lattei décolleté, grandi dame arrogantidai culi in proporzione, autori di libri gonfiabili,soubrettes passate all’aerobica, ambasciatrici ingioiellatecoi gorilla custodi, pallidi principi in baciamano non stop.«Mi sono innamorato del velluto (a canzone)e dei suoi riflessi, che in naturasi trovano nella viola pansé. Coro: PlissettatoL’ho sposata a forme tonde e esuberanti». PlissettatoAbbondano le gran cappe di zibellinobiondo, con strascico di due metri,le enormi mantelle di visoneintessute di ricami d’oro.Cortissime le gonne da giorno, ma di pellicciadi castoro, breitschwanz, addirittura di volpe;un tubino da cocktail d’oro damascatosi porta con guanti lunghi pure d’oro, e bordati di volpe.Le top model pagate mille dollari l’oranon versano una stilla di sudoresotto gli zibellini maestosi o nei velluti rinascimentalicolor rubino.

Un computer come giudice

Centosessantamila in gara per duecentosettantaquattroposti all’Inps

Torino avrebbe dovuto ospitarel’esercito di aspiranti allo stadio comunaleperché i diecimila candidati del Piemontenon avrebbero potuto trovare spazio in nessun istituto.Ma, alla fine, i potenziali nuovi impiegati Inpshanno svolto la loro prova nelle aule del Politecnico;

Una mappa di terremoti

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infatti ieri mattina si sono presentati soltantoil cinquanta per cento di quanti avevano fatto domanda.«Sarebbe stato inutile, spiegano i dirigenti Inps,mettere in piedi un concorso allo stadio. Le aule del Politecnicosono state riempite e tutto si è svolto secondo il regolamento».«La novità, interviene Claudio Porcia, segretario torinesedella funzione pubblica della Cgil, è che il test di questo concorsogarantisce imparzialità; questa è una gara pulitaperché c’è il computer che giudica, e non gli uominisensibili alla raccomandazione».Tutto «pulito», tutto sicuro. Le buste sigillatedestinate ai candidati erano state custoditenel caveau della sede regionale dell’Inps in via XX Settembre.I quiz sono stati portati sotto buona scorta al Politecnicoe consegnati ancora incartati nel cellophane ai partecipanti.

ENEL PREPARA UNA MAPPA DI TERREMOTI

Franco Graziosi

Nel 1953 con la scoperta della struttura del dna,la lunga molecola filamentosa che contiene i «geni»responsabili di ogni nostra caratteristica fisica,si è aperto un campo di intervento di dimensioni gigantesche:in pratica la possibilità di manipolare gli esseri viventi.

Una mappa di terremoti

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Con degli enzimi, detti di «restrizione», si è anche in gradodi tagliare la catena del dna, estrarne un gene e,usando virus vettori, collocarlo all’interno delpatrimonio nucleico di un’altra cellula. Si è così riuscitia costringere batteri a produrre sostanze utili, come l’insulina.Quindi il biologo (Franco Graziosi) ha rilevato nel suo interventol’eventualità che nel rimescolamento del genoma (ossiadel patrimonio genetico di una specie) si creino forme di vitaimprevedibili, che vengano realizzate forme microbiche aggressive,sia intenzionalmente a scopi bellici, sia per incidenti connessia scopi industriali.

Monsignor Sgreccia

Monsignor Sgreccia sembra ammettere,sia pure con qualche riluttanza, una possibilità di sperimentazionee innovazione, come del resto l’uomo fa da millennicon l’allevamento e la selezione di animali e piante.Se il seme possa o no adire artificialmente la vagina,questo come e quando lo decide il cardinal Ratzinger,bisogna chiederlo a lui – e poi siamo fuori tema Ach so!Se il seme possa o no adire artificialmente la vagina,questo come e quando lo decide il cardinal Ratzinger,bisogna chiederlo a lui – e poi siamo fuori tema Ach so!

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Carla VasioSì, sono suoni, ma difficili da sentire

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Cinquant’anni dopo

Umberto EcoMa ti paiono questi i tempi per scrivere un romanzo?

Giorgio ManganelliSgomberare le macerie

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Segni divergenti che nonconvergevano mai

Enrico Filippini

Para una chica sola

Vom Glück: che era del tutto soltanto eventuale e chissà sot-to quale segno e non dipendente per intero da lei: getäuscht:in un giorno di un inverno: per lei non sarebbe stato facile.

Perché primo: io: in un pomeriggio di pioggia: seduto alCaffè Verbano: intento a bere e a scarabocchiare su un tova-gliolino di carta segni divergenti che non convergevano maie a tener lontana l’umida imminenza di un telegramma chedovevo scrivere e che poi: scritto: dopo due ore sarebbe ar-rivato: bevendo pensai: per lei non può essere facile perché.

Segni divergenti che non convergevano mai

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Quando lui avrebbe finito di decidere che era meglio abo-lire la faccenda della composizione: di quell’insieme di tetti:alla determinazione di ciò che andava detto: e detto andavatutto: in vista anche di una liberazione e di un migliore fu-turo dell’umanità (e non detto bensì semplicemente sugge-rito o qualche cosa del genere) sopra ciò e in rapporto conciò o in distinzione totale da ciò che era hinweggeschwun-den contribuirono in eccesso alcuni fatti: peraltro irrilevantie marginali ma provvisti della capacità di incarnare se stessi:di rendersi concreti e presentarsi lì. Per esempio: pensai: difronte a certi fatti è molto difficile: e dentro la pioggia: sce-verare la whatness e la howness… e mi fermai qui.

I tetti sarebbero stati spolverati di neve e vaghi e mobilie in certo modo privi di un punto di riferimento: provare lamancanza di quest’ultimo doveva voler dire volerli descrive-re in rapporto con qualcosa che era totalmente di altro ge-nere e nei cui confronti essi avrebbero dovuto semplicemen-te servire da trampolino: da constatazione empirica iniziale:da prima e relativamente casuale immagine evidente. Comequando io dico: e piove. Precipitando vorticosamente: pen-sai e avrebbe potuto essere l’inizio ma non precipitavo.

Perché secondo: lui avrebbe provato la mancanza di qual-cosa che poteva anche essere sbagliato e oltre cui non sareb-be riuscito ad andare ma che insomma avrebbe anche potu-to essere un centro di attenzione e avere un alone: lì dentrotutto sarebbe confluito insieme con la storia e il senso di tut-ti i singoli atti di una vita e di una vita: che da due anni ave-

Segni divergenti che non convergevano mai

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va il bisogno e l’intenzione di recuperare e rendere pubblicaesponendola al giudizio altrui (che sarebbe stato in rappor-to: necessariamente: con la responsabilità e con l’avveniredel mondo): che adesso si sentiva in corpo inerte e sbriciola-ta e recalcitrante a tornare su ma nello stesso tempo richie-deva di venir caricata di un’enorme emblematicità: della ve-ra esemplarità.

Io: avrebbe potuto pensare: e così si sarebbe distinto dame e poi gli sarebbero venute a mancare tutte le aggiunte: iverbi e gli attributi e il resto delle cose.

Invece: abolita l’eventualità quasi evidente diquell’insieme di tetti (visti dall’alto): sulla città si versa rista-gnando un tetro nebbione: e tutto che s’innera e tutto ches’insozza e aspetta di finire… e

…e nello spazio tetro della simultaneità: passato il ponteil treno lancia un lungo fischio e poi si ferma: un semaforoè rosso e non si può passare. Per cominciare da lei: per leinon poteva essere facile e non soltanto perché nell’attesa daqualche parte nello spazio intriso dall’impiastro nero (cherisucchiava gli alberi e le case e le lontananze e l’imminenzadella città) si formò una domanda che era: dopo due annidi assenza e distrazione dalla sua natura: qual è la mia veranatura? e la risposta si fece aspettare e poi venne e fu unafrase che non c’entrava niente: «Well, to begin with: she isblack». A essa si aggiunse: «…aber beweglich, und jetzt viel-leicht: endgültig: ENDGÜLTIG selbstverneinend»:

Segni divergenti che non convergevano mai

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«Vom Glück»: dissi e la cameriera disse: «Prego?» E io dis-si: «No, niente, mi scusi»: sorridendo: nella pioggia: al ripa-ro dalla pioggia nel caffè pensando: ciondolando insieme colbicchiere: dissi: «Black?» e la cameriera disse: «…and whi-te?» Io dissi: «No, mi scusi»: ciondolando: di fronte a me:dall’altra parte della strada c’era la vetrina di un gioielliere:installata nella sua eternità. Il mio telegramma avrebbe do-vuto dire sì oppure dire no: e senza sfumature e vigere per ilresto della vita.

Segni divergenti che non convergevano mai

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Mauro Staccioli, Parma ’73, Piazza della Steccata, Sculture contemporanee nellospazio urbano, 1973. Tre elementi, cemento e acciaio, Ø 220 x 240 cm cad.

(Foto Enrico Cattaneo).

Altri percorsi di lettura:

Giulia NiccolaiNella vasta mattina di luce implacabile

Segni divergenti che non convergevano mai

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Nella vasta mattina di luce implacabile

Giulia Niccolai

Il suo passo non è silenzioso come quello dei servi che cam-minano scalzi, porta babbucce di cuoio rosse con le punterialzate.

Si alzano dalle sedie, si voltano e vedono l’Hombda inqua-drato nella porta.

Saluta da quella distanza con l’antico e ospitale gesto dibenvenuto del suo paese: appoggia la mano destra alla fron-te poi alla bocca poi al petto, china la testa avvolta nel tur-bante bianco di mussola, non dice parola e allarga il bracciosottile nella manica ampia del caffettano nero che gli scendealle caviglie. Sorridendo indica il parco la villa e li guarda ne-

Nella vasta mattina di luce implacabile

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gli occhi uno per uno come per dire che tutto quanto gli ap-partiene è anche loro.

Avanza e si mette a sedere su una poltroncina di vimini.Aggiusta le pieghe ampie della veste, incrocia le gambe, ap-poggia i gomiti ai braccioli, unisce tra di loro all’altezzadella bocca i polpastrelli delle otto dita mentre i due pollicis’incrociano sotto il mento e li guarda sempre in silenzio aldi sopra delle mani lunghe e nodose.

Lei è la sola donna e si sente in dovere di parlare per pri-ma.

Mentre si risiede si volge a Domínguez chiedendogli ditradurre all’Hombda il suo pensiero. Vuole che lo ringraziper l’invito, che gli esprima la sua gratitudine e gli dica cheil suo parco le sembra il più bello che abbia mai visto.

L’Hombda ascolta Domínguez e quando ha finito si volgedi nuovo a lei chinando la testa per ringraziarla a sua volta.

Karlheinz toglie dal portafoglio il suo biglietto da visita, loporge al padrone di casa e chiede a Domínguez di dirgli che èonorato di avere lavorato nel suo paese all’installazione del-la nuova industria di fertilizzanti nella città dell’Alta Diga.

L’Hombda sorride, parla per la prima volta: dice che unodei suoi figli studia agraria nel paese di Karlheinzall’università di Hannover.

Domínguez gli domanda cosa prova un uomo come lui,sempre vissuto su queste terre, che le possiede le ha irrigatee coltivate tutta la vita, a sapere che tutto deve venire som-merso e scomparire entro sette otto anni.

Nella vasta mattina di luce implacabile

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L’Hombda sorride di nuovo e allarga le braccia.Stanno con lui tre giorni perché li invita, li ospita alla vil-

la.Vengono a sapere che ha dodici figli e tre mogli e che la

sua famiglia possiede queste terre fertili da cinquecento an-ni.

Mangiano con lui. Lo vedono mangiare reclinato sui cusci-ni o seduto in terra a gambe incrociate. Dal tavolo basso dirame intarsiato e dai piatti che vi sono posati si serve con ledita pezzi di montone formaggi salati di capra riso e selvag-gina che porta alla bocca.

Lo vedono fumare il narghilè: ogni profonda boccata fagorgogliare l’acqua profumata nel recipiente di vetro attra-verso il quale passa il fumo prima di salire nel lungo cannel-lo flessibile e nel bocchino tenuto al centro delle labbra.

Lo seguono nei campi di canna da zucchero e di tabacco,tra le coltivazioni di papiro. L’Hombda fa strada, camminasempre avanti e loro seguono in fila indiana. Al sole il suocaffettano nero è lucido e liso sulla schiena nei punti dove siappoggia e si siede.

Con le due mani alza un poco la veste ampia quando saltai canaletti d’irrigazione. L’acqua scorre nei condotti di ce-mento adagiati nella sabbia.

Vedono il suo cranio di capelli bianchi e rasati e le sue ma-ni veloci e automatiche che avvolgono per trentadue voltela lunga benda di mussola bianca attorno al fez calcato sullatesta.

Nella vasta mattina di luce implacabile

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(L’Hombda aveva allora sessanta settanta ottanta? anni.Domínguez che gli parlava da due giorni nella sua lingua

diceva che non aveva mai espresso un pensiero un giudizioo un’opinione: dava solo notizie.

Quando pensa a lui o ne parla lei se lo figura sempre inquel primo gesto che gli vide fare: l’Hombda che sorride e al-larga le braccia.

Forse il suo parco è già stato devastato dalle onde, o im-putridisce nell’acqua che si alza e avanza adagio.

Tutte le sue terre, forse, sono già sommerse.Le sue mogli e i suoi figli forse lo hanno già …Nella morte, su una branda la sua pelle scura forse … nella

luce di una lampada a petrolio la linea sottile dei baffi bian-chi la barba corta sul mento il naso ancora più affilato eaquilino le rughe più profonde gli occhi grigi le dita lunghee nodose … )

Che nel ricordo l’Hombda è come il Padre.

Vanno con lui al paese che dista sei chilometri sul fiu-me. Quando arrivano al pontile viene ossequiato dagli uo-mini che si occupano della sua barca a motore e anche peri sentieri del villaggio la gente si china profondamente asalutarlo.

L’Hombda ha da fare, dà loro appuntamento tra un’ora inun locale vicino al molo dove ai tavoli sotto una tenda ci so-no uomini che bevono tè fumano e giocano a dadi.

Nella vasta mattina di luce implacabile

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Loro tre girano da soli per le strade di terra battuta tra lecase bianche senza finestre.

Nella vasta mattina di luce implacabile che ha l’odore delcammello vedono le vele colorate delle feluche sul fiume, gliuomini che dondolano sulle groppe, le donne nere e vela-te che camminano a fronte china ma alzano un attimo gliocchi profondi e bistrati per guardarli. Le collane e i monilid’argento sui loro petti tintinnano a ogni passo scalzo e ve-loce. I palmi delle mani e le piante dei piedi sono tinti con ilcinabro.

Vorrebbero trovare qualcosa da regalare all’Hombda pri-ma di partire.

Girano tutto il paese ma non vedono negozi, non ne tro-vano e pensano che nemmeno ce ne siano.

Camminano nell’ultimo sentiero del villaggio delimitatodal fiume da una parte, e qui da un largo canaled’irrigazione.

Camminano sotto l’argine alto all’ombra dei muri di fangoe di sterco di cammello che in questa strada sono istoriati erinforzati da cocci di terracotta premuti nell’impasto. Guar-dano all’interno di una corte e vedono orci ammucchiati cheasciugano al sole.

Ci sono forni e botteghe di vasai.Un uomo fa loro cenno di entrare. Si lasciano convincere,

sperano di trovare qualcosa da regalare all’Hombda anche sehanno il dubbio che queste botteghe gli appartengono. […]

Nella vasta mattina di luce implacabile

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Sì, sono suoni, ma difficili da sentire

Carla Vasio

Nel numero 8 del «Menabò» che esce nel 1965 sono presen-tate quindici poesie della Serie Ospedaliera di Amelia Rosselli.

Amelia Rosselli è padrona di tre lingue, l’inglese, il fran-cese, e l’italiano come lingua paterna essendo figlia di CarloRosselli ucciso a Bagnoles de l’Orne, insieme al fratello Nello,da un commando di militanti della Cagoule, organizzazionefrancese di estrema destra.

Amelia scrive poesie di una terribile rarefatta intensità,ricomponendo vocaboli e frasi di molte lingue in una catenadi nuovo significato: «La memoria corre allora alle più fan-tastiche imprese, spazi versi rime tempi». Scrive di se stessa.

Sì, sono suoni, ma difficili da sentire

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Quanto alla metrica: «La metrica, essendo libera, variavagentilmente a seconda dell’associazione o del mio piacere».

È sempre inquietante il controllo con cui per lunghi pe-riodi Amelia sosta sul confine fra la purezza di una sapientearchitettura poetica e la deformazione della malattia, e in-tanto il suo grande potere di concentrazione la trascina a co-struire catene di parole e di significati con cui si compon-gono nuovi sistemi di descrizione del dolore. Perché le suepoesie ignorano la lamentazione in rima o il vaneggiamen-to elusivo: sono solide strutture verbali/musicali che attin-gono nel deposito delle sue tre lingue e nei suoi studi al pia-noforte, per creare una forma letteraria intensa e originaleche non evade dalla sofferenza e neppure se ne compiace. Lasua preparazione musicale le permette anche di comporre alpianoforte musiche equivalenti, oppure di pensarle e ascol-tarle soltanto nella propria mente.

Per tutta la vita Amelia si è battuta contro l’oscurità comeuna guerriera, e chiedo perdono se accetto per lei di svariarenella metafora, ma la frequentazione della sua vita ammala-ta mi è ancora penosa e il pensiero della sua sofferenza è in-consolabile.

All’inizio di una delle ultime crisi ho telefonato al suo me-dico chiedendogli quali modalità seguire per aiutarla me-glio, mi ha risposto: «Tu per un po’ riposati, si trova semprequalche amica che si sacrifica». Una risposta che non mi èpiaciuta. Facevo, come si dice, tutto quello che potevo fare,ma avrei voluto fare meglio, e avrei voluto anche stare me-

Sì, sono suoni, ma difficili da sentire

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glio perché dopo ogni sua crisi lei si quietava e io avevo unacattiva insonnia.

Andavamo spesso ai concerti di musica contemporaneadove Amelia trovava un soddisfacente riscontro. Come a unconcerto di Giacinto Scelsi particolarmente atteso nel marzodel ’59, dove siamo arrivate in compagnia di Achille Perilli edi qualche altro amico di musica. Esecuzione perfetta, com-menti positivi nell’intervallo. Ma improvvisamente Ameliaci assale con grida disperate, ci accusa di non aiutarla, nonriesco a entrare in contatto con lei, alcuni estranei si avvi-cinano senza capire. Finché arriva Scelsi e semplicemente latrascina in un difficile discorso sulle dissonanze che la ap-passiona facendole dimenticare ogni altra cosa.

Molte volte, Amelia chiede aiuto da una estrema lonta-nanza, e bisogna capire come raggiungerla. Una sera, sul tar-di, suona alla mia porta, entra, si getta su una poltrona, ten-ta di dirmi qualche cosa ma non riesce a formularla perchéogni volta che ci prova un acuto dolore al cranio l’avverteche non deve parlare. Per tre ore continua a provarci, conun’espressione di sofferenza e insieme di attesa: «Sei dispo-sta a riconoscere che un altro è più forte di te?… Anche unadonna?… E allora chiedimi… chiedimi… chiedimi…». Lo soche devo chiederle la cosa giusta, che non devo sbagliare, manon capisco quale sia la cosa giusta da chiedere, tutti i mieitentativi di capire quale sia la cosa giusta vanno a vuoto, elei è sempre più agitata. Dopo quattro ore di lotta contro lesue elisioni e insieme di fatica per non perderla, sento che

Sì, sono suoni, ma difficili da sentire

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sto per soffrire anch’io i suoi fantasmi non conciliati e que-sto non la aiuterà. La abbraccio stretta e le dico: «Amelia,non ci siamo riuscite, non è colpa nostra», e vado in un’altrastanza. Subito mi segue. Quando entra ha già cominciato aparlare a piena voce, come una cascata. Un sogno è la co-sa proibita, il terribile sogno della notte precedente che leè proibito confessare, l’angoscia di tutta la notte preceden-te che permane, insostenibile. Ha sognato che Anna, la suacompagna all’ospedale psichiatrico, le ripeteva infinite volteal telefono: «Melina, tu sei una piccola mela e io ti taglio conil coltello a pezzi piccoli piccoli, ti taglio tutta a fette con ilcoltello…». Parla della sua amica Anna con cui ha condivisoalcuni ricoveri. Mi racconta che Anna è una ragazza ragio-nevole: quando sente arrivare la crisi chiede alla mamma diavvertire il medico, ed è così che si dovrebbe fare. Parla perpiù di un’ora, e dopo usciamo, e andiamo a mangiare insie-me: un buon modo innocuo per avviare il contenimento diuno scompenso psicotico.

Lei stessa scrive:

Conto di farla finita con le forme, i lorobisbigliamenti, i loro contenuti contenentitutta la urgente scatola della mia anima laquale indifferente al problema farebbemeglio a contenersi.

Spesso mangiamo con altri amici nelle piccole trattorie vici-no alla sua casa in Trastevere. È contenta, rilassata, le piace

Sì, sono suoni, ma difficili da sentire

Page 327: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

star seduta nella piazzetta, assaggiare qualcosa. Ma quandosi alzano le voci e l’allegria si fa rumorosa, diventa inquieta,finché fugge correndo per i vicoli. Bisogna seguirla, che nonsi perda, che non cada, e mi rifiuto di dire inseguirla perchésarebbe come agire le sue paure di essere inseguita, cattura-ta, imprigionata, uccisa.

Nell’inverno del 1996 Amelia mi telefona di notte a un’oramolto tarda chiedendomi di portarle da mangiare, perchénon esce da giorni e in casa non c’è niente e si sente male.Raccatto quello che ho e corro da lei. Ma di fianco alla suaporta, appoggiati al muro, ci sono altri pacchi e pacchetticon carte di pasticceri. Sono troppi e hanno l’aria di essereabbandonati lì da giorni. Non ha voluto aprire la porta, e hocapito che questa volta era troppo tardi.

È stata lei a scrivere:

Era potentissima la sua gioia. Era davvero un peccatonon avvenisse diversamente l’illuminamento che conla pasticca del peccato. Era potentissima la sua libertàma non sapeva farne uso. Era necessario allasua altezza morale che fosse registrato su dell’inchiostronero la sua fallimenta. Non era necessario alla suabassezza morale morire.

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Calendario delle manifestazionisettembre-novembre 2013

PALERMO6 ottobre

Teatro Massimo - Conservatorio Vincenzo BelliniConcerto

7 ottobreCantieri Culturali alla ZisaMostra “Sinestetica”

8 ottobreCantieri Culturali alla ZisaLetture e dibattito

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TORINO9 ottobre

Museo Nazionale del Cinema - Cineteca MassimoCinema sperimentaleCircolo dei Lettori - SparajuriRecital di poesia

ROMA18 ottobre - 3 novembre

Auditorium Parco della MusicaMostra “Arte totale” - Cinema sperimentale

18 ottobreAuditorium Parco della MusicaI poeti del Gruppo 63

19 ottobreAuditorium Parco della MusicaIl teatro del Gruppo 63

20 ottobreAuditorium Parco della MusicaI musicisti con il Gruppo 63

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MILANO19 settembre

MITO SettembreMusicaI musicisti con il Gruppo 63

26 ottobreCastello Sforzesco - Museo degli Strumenti MusicaliMusica elettronica e Gruppo 63

29 ottobre-16 novembreFondazione MarconiGli artisti con il Gruppo 63Fondazione MudimaI fotografi con il Gruppo 63

9 novembreSpazio OberdanCinema sperimentale

23-24 novembreBookcity - Castello SforzescoGruppo 63. Tavole rotonde

25 novembreTeatro Elfo PucciniI poeti del Gruppo 63

26 novembreTeatro Elfo PucciniIl teatro del Gruppo 63

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GENOVA1-15 ottobre

Galleria UnimediaModernMostra “La visione fluttuante #2” - Ricerche verbo-visuali in Italia’60-’70

10 ottobreBiblioteca UniversitariaProiezioni di videopoesia e letturePalazzo Ducale - AtrioProiezioni di videopoesia

15 ottobrePalazzo Ducale - Spazio 42RMostra “I libri del Gruppo 63”Palazzo Ducale - Sala del CaminoPoesia - Riscritture I

18 ottobreTeatro della TossePoesia - Riscritture II

23 ottobreTeatro della TosseLa linea surrealista del Gruppo 63

23 novembre - 7 dicembre 2013Musei d’Arte Contemporanea di Villa CroceLa rivista “Marcatre” - Mostra bibliografica

50 anni del Gruppo 63

Page 333: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

BOLOGNA16-17 ottobre

Biblioteca dell’ArchiginnasioConvegno “50 anni del Gruppo 63” Storia, bilanci, prospettiveLibreria ZanichelliVideo e letture

PERUGIA8-9 novembre

Università - Facoltà di LettereConvegno “Letteratura e contestazione”

LOS ANGELES17-19 ottobre

Università UCLAConvegno “On the Fringe of the Neo-Avant-Garde”

Programmi dettagliati sul sito www.alfabeta2.it. Altri eventi, pre-visti nel mese di dicembre a Roma, Napoli, Venezia, Firenze, Pari-gi, Berlino, verranno annunciati sul prossimo numero

50 anni del Gruppo 63

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Logo Gruppo 63 di Gianfranco Baruchello

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PAOLO ROSA 1949-2013

Le armi dell’arte e della gentilezza

Manuela Gandini

Ripiombo nella stanza, improvvisamente. Quellastanza buia con gli uomini e le donne virtuali cheemergono dall’oscurità guardandoci da tre mega-schermi. È la stanza dei primi cinque capitoli della

Genesi, dedicata alla Creazione, di Studio Azzurro al Padiglio-ne della Santa Sede nella 55a Biennale di Venezia, ancora incorso. È la prima immagine che affiora quando, mentre stocucinando pollo alle mandorle, arriva la notizia della mortedi Paolo Rosa in pieno agosto. Un momento di vuoto, di so-spensione. Cerco un ricordo al quale aggrapparmi: vita emorte fluiscono, Paolo adesso è al di là dello schermo, è gio-vane, cerco di ricordare la sua voce gentile, ferma. La solacertezza, mi dico, è l’impermanenza.

E torno indietro, al Padiglione Vaticano, in quella fatico-sissima giornata di fine maggio, con Tiziana Migliore. Sia-mo entrambe nauseate dalla quantità di patologie reificate

Le armi dell’arte e della gentilezza

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in mostra lungo tutto l’Arsenale. Fabrio Cirifino, l’altra ani-ma di Studio Azzurro (fondatore del gruppo con Rosa e Leo-nardo Sangiorgi nel 1982), ci sta indicando come interagirecon le persone proiettate che, a uno sguardo distratto, pos-sono ricordare le immagini di Bill Viola. Ma l’intensità emo-tiva di questo lavoro non ha niente a che vedere con quellodell’artista americano. Toccando una delle persone proietta-te, la nostra mano attiva un suo movimento, lasciando unatraccia. In uno degli schermi vi sono alcuni detenuti del car-cere di Bollate: la persona sfiorata, e prescelta, si avvicinae pronuncia il suo nome, poi quelli dei genitori e dei non-ni, e racconta di sé. Mentre, negli altri due schermi, vi so-no dei sordomuti. I due gruppi di sordomuti spiegano il re-gno animale e il regno vegetale descrivendo, con il propriolinguaggio, un animale o un albero. Il tocco della nostra ma-no forma una nebulosa che si aggiunge alle altre creandoun’immagine pittorica destinata presto a evaporare.

Stiamo bene in quella stanza, dove compare Paolo che stamangiando una banana. Ha gli occhi raggianti: «Siamo statiinvitati due mesi fa, abbiamo fatto tutto molto velocemen-te». Li immagino giorno e notte in carcere e in un istitutoper sordomuti a scambiare storie e umanità.

Adesso che Paolo è morto sulla spiaggia a Corfù dopo iltramonto, fumando l’ultima sigaretta, quell’ingresso nellaCreazione, quel contatto impossibile tra noi e i detenuti, tranoi e i sordomuti, assume un valore universale che travalical’arte. Non sappiamo in realtà se i sordomuti siamo noi o lo-

Le armi dell’arte e della gentilezza

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ro; se i prigionieri siamo noi o loro; visto che noi – forzatidell’arte – non riusciamo a parlare che il nostro linguaggioautistico e siamo imprigionati nel circuito ristretto dell’egoe della vanità finanziaria.

Due anni fa Paolo Rosa, con Andrea Balzola, pubblicò perFeltrinelli L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnolo-gica, un testo che analizza l’autoreferenzialità del sistemadell’arte e la perdita delle origini dell’opera: un simulacroinfinito al servizio del mercato. Secondo gli autori l’arte èfuori di sé perché ha perso codici e valori, ma anche per po-tere spostarsi da un piano di rappresentazione a un piano dipraticità politica. Alla critica i due contrappongono infattiproposte concrete di formazione di comunità attive. La tec-nologia e l’arte usate come collante, come possibilità di re-lazione, come rete di ribellione, possono costituire la curaai mali sociali contemporanei, ponendosi «in antidoto allepatologie dell’età post-tecnologica, spostando il baricentrodalla creazione individuale a quella collettiva, dall’operacompiuta al processo aperto, dalla centralità dell’artista “ge-nio” allo spettatore, con una circuitazione totalmente diver-sa, gratuita e molto più partecipata degli eventi artistici».

La pluralità, come scrive qui Paolo Fabbri, è la prerogativadel lavoro di Paolo Rosa, il quale negli anni Settanta, a Mila-no, fonda il Laboratorio di comunicazione militante con Tul-lio Brunone, Giovanni Columbu, Ettore Pasculli. I quattro so-no tra i primi in Italia a porre l’attenzione sulle strategie di

Le armi dell’arte e della gentilezza

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comunicazione, compiendo esperimenti legati a teatro, per-formance, fotografia, cinema, pittura.

Come si è visto nella recente mostra Armamentari d’arte ecomunicazione alla Fondazione Mudima, il linguaggio media-tico e le strategie di informazione come tecniche di guer-ra costituiscono il materiale d’analisi della poetica politicadel gruppo che, senza interventi ulteriori, ingrandisce i voltidegli uomini di potere studiandone l’antropometria (Colum-bu), oppure ricostruisce la disposizione fotografica delle ar-mi sequestrate dalla polizia nei blitz rivelandone i codici(Rosa), analizza la manipolazione (Brunone) e le iconografierappresentative del potere (Pasculli). I singoli lavori sonoindistinguibili e, come piaceva a Rosa, sono privi di auto-rialità. Il Laboratorio, attivo sino al 1978, porta in seguitoall’occupazione della chiesa abbandonata di San Carpoforo.Già allora Paolo, con altri, vuole trasformare il luogo in cen-tro d’arte. Da lì passa Brian Eno, si mettono in scena Beckett,Cage e Duchamp; Mario Merz, Enrico Baj, Alik Cavaliere do-nano loro lavori per finanziare l’operazione. Il gruppo sot-trae al degrado uno spazio che ora è in gestioneall’Accademia di Brera.

L’attenzione al sociale e al politico, da parte di Paolo Rosae Studio Azzurro, non cesserà mai e si concretizzerà nellacostituzione della Fabbrica del Vapore dove, oltre a loro,hanno sede alcune tra le più attive associazioni milanesi. Neisuoi piani, spesso osteggiati, vi era per Milano un nuovo con-cetto di partecipazione, collettivo e riproduttivo, che ha de-

Le armi dell’arte e della gentilezza

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finito «stazioni creative». Recentemente ha dichiarato: «Ènecessario e urgente attivare luoghi di convergenza e diconfronto capaci di essere produttivi, di generare valori ingrado di affrontare la crisi più generale di questo momentostorico, di valorizzare i talenti e le qualità. Occorrono luoghiin grado di generare valore attraverso differenze collabora-tive, capaci cioè di mettersi in rete, di orchestrarsi in un si-stema di stazioni creative che irradi la città e la accenda dalcentro alle periferie. […] Un circuito che sappia governareuna propria economia non necessariamente dipendente dafinanziamenti pubblici, che sappia sollecitare il volontaria-to e sia capace di coinvolgere la cultura d’impresa limitrofa,offrendo in cambio un valore territoriale forte e spendibile,oltre che stringendo un’alleanza di reciproca utilità».

Coniugare vita politica, sociale, spirituale con la tecnolo-gia è stata la missione di Studio Azzurro che, oltre a produr-re lavori indimenticabili, ha documentato, negli anni, centi-naia di azioni, eventi, performance. Tra questi tutte le edi-zioni di Milano-poesia.

«È doloroso parlare di Paolo – dice Gino Di Maggio –, erauna delle rarissime persone serie che abbia mai conosciuto.Il linguaggio dell’arte e la vita reale sono sempre stati inse-parabili nel suo lavoro. Paolo seguiva me e Gianni Sassi nonper soldi, perché non ne avevamo, ma per complicità intel-lettuale. Paolo era nella vita di tutti i giorni.»

Lo era per Gino ma anche per noi che eravamo abituatia vederlo un po’ dappertutto, nei luoghi strategici dell’arte,

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della didattica, della politica. Un evergreen che aveva an-cora tante cose da fare, che lavorava sempre proiettato inavanti per «riconfigurare dei comportamenti e delle sensibi-lità collettive»; che concepiva l’arte come evento di transi-to dal «museo della collezione», statico e chiuso, al «museodella narrazione», evenemenziale e umanistico.

Alla cerimonia funebre, alla Fabbrica del Vapore, si perce-pivano sia il dispiacere collettivo sia la fertilità del suo pen-siero. Il mondo dell’arte, spogliato delle sue mostrine, eraper un momento come piaceva a Paolo, solidale e compatto.

In conclusione torno alla stanza della Creazione,nell’installazione intitolata In principio (e poi). È lì che lo po-trò rincontrare mentre fa merenda tra quell’umanità che siricongiunge a noi attraverso un tocco. L’ascolto dell’altro, iltatto, l’infinito… qualcosa di Paolo mi ricorda Yves Klein… ilblu, le mani, il vuoto.

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Paolo FabbriArtista plurale

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PAOLO ROSA 1949-2013

Artista plurale

Paolo Fabbri

Paolo Rosa, artista plurale. Il primo modo che viene amente per mettere insieme un nome e una definizio-ne che gli stava e mi sta a cuore. Un artista e più pre-cisamente un regista che, in collaborazione col suo

Studio Azzurro, ha esplorato, dall’inizio degli anni Ottanta,tutti i linguaggi nuovi della creazione e della comunicazio-ne. «Bottega d’arte», laboratorio singolare di sperimentazio-ni e di esperienze, fondato – con Fabio Cirifino e LeonardoSangiorgi – come Collettivo militante di controinformazio-ne, Studio Azzurro è un luogo riflessivo e performativo delfare e del pensare, documentato nel libro e dvd Videoambien-ti e ambienti sensibili (Feltrinelli, 2009). Come regista penso arealizzazioni che mi sono care: al teatro (Il nuotatore, Vene-zia, 1984; Vedute. Quel tale non sta mai fermo, 1985; La cameraastratta, da Documenta 8, Kassel); e soprattutto al cinema«espanso» – per sua definizione – non nella direzione del vi-

Artista plurale

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deogioco ma della videoarte (Il giardino delle cose, 1992). Ealle installazioni nei musei e sui musei, veri affreschi digitalie interattivi, tra creazione artistica e ricerca antropologica,didattica e ricezione estetica (Tavoli. Perché queste mani mitoccano?, 1995). Opere costitutivamente aperte che hannopreso la misura immersiva delle nuove tecnologie. Opereche indicano e invitano a una inversione dell’arte e della cul-tura contemporanea: passare dalla forma e dalla rappresen-tazione alla relazione e alla partecipazione.

Un’attività di esplorazione e di continua ricerca che PaoloRosa (con Andrea Balzola) ha articolato teoricamente nelsuo ultimo libro, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica (Feltrinelli, 2011). Un manifesto – formato discor-sivo delle avanguardie – di analisi e di proposta che parte dauna constatazione radicale: la rete è un connettore seman-tico, una forma simbolica che ha il valore che ebbe ai suoitempi l’invenzione della prospettiva. Per Paolo Rosa, artistae docente, essere connessi non è essere in rapporto; la so-la tecnica non è condizione sufficiente alla generazione dilegami collettivi, estetici e culturali. Estetici in primo luo-go: l’interattività permette la produzione di opere «imper-manenti» che hanno un carattere di evento e provocano(diamogli la parola) «responsabilizzazione etica ed esteticadello spettatore e […] comportamenti fruitivi imprevedibiliche […] producono a loro volta delle possibili trasformazionidell’opera». E legami culturali: come dimostra il lavoro sui«musei narrativi» (Percorsi narrativi e affreschi multimediali,

Artista plurale

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Silvana, 2011), sulla didattica e la memoria, la cui realizza-zione promette un inatteso rinnovo della funzione e del sen-so dei musei, tramutandoli in luoghi interagenti di cono-scenza e in cliniche per gli sguardi. Un’attività internaziona-le (Usa, Cina, Giappone ecc.) e nazionale, come il ruolo re-cente di progettista e direttore artistico della mostra Fare gliitaliani. 150 anni di storia italiana, per le celebrazioni dell’Unitàd’Italia. Contro il consumismo e la mercificazione, così Rosapensava al progetto d’un museo felliniano a Rimini, di cuichiedeva la realizzazione nella sua risposta alla consegna, daparte della sua e mia città, del Sigismondo d’oro.

Paolo Rosa sapeva che non solo le connessioni, ma nep-pure le relazioni bastano. Ci vuole attachment, cioè capacitàdi attaccamento, di prossimità sensibile e affettiva. Qualitàsingolare che l’amico Paolo, aperto e generoso, possedevain sommo grado, nonostante gli impegni di insegnamento– al Dipartimento di progettazione e arti applicatedell’Accademia di Belle Arti di Brera – e di gestione, e nono-stante le delusioni politiche.

Ma è venuto per me il momento lasciare l’imperfetto –che non avrei voluto usare – per ricordare a futura memoriail suo progetto di «stazioni creative». Moltiplicare il collet-tivo felice di Studio Azzurro? Comunicare e realizzare unapratica teorica delle arti? Non c’è bisogno di sperare per cre-derci. Toccherà al futuro – per quel che resta oggi della ten-sione verso quel tempo – dirci se sarà soltanto un’utopia.

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Manuela GandiniLe armi dell’arte e della gentilezza

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GLI ARTISTI DI ALFABETA2

Roberto Barni Passi d’oro

Giovanna Giusti

Nella ricorrenza del ventennale della strage di via dei Geor-gofili a Firenze, la Galleria degli Uffizi ha voluto rimanesseun segno, come monito duraturo, di quella tragedia. Il pen-siero è andato a una scultura che ne serbasse forte memoria,e a un artista, Roberto Barni, che per il suo importante ope-rato scultoreo corrispondeva a tale progetto. A concretizza-re l’operazione, assecondando questo desiderio, è interve-nuta l’Associazione Friends of Florence, donando alla Galle-ria la scultura di Roberto Barni Passi d’oro, realizzata in bron-zo e oro per l’occasione. Collocata in alto, su una superfi-cie muraria del complesso vasariano che prospetta il cortileaperto su via dei Georgofili, la figura di un uomo «in cam-mino», poggiante su un basamento bronzeo che, come unalama, sporge dal muro, porta con sé cinque «animule», pre-senze evocative delle cinque vittime dell’attentato.

Roberto Barni Passi d’oro

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In piena coerenza con il suo tracciato di scultore, ancora unavolta Barni, artista intellettuale-filosofo, esprime la passionetravolgente del suo percorso creativo, che passa anche at-traverso la musica, quando le note di un’opera di Schubertguidano la mano e il cuore dello scultore, in un’ascesa emo-zionale che trova la via d’emersione in questo monumentoaereo. In Passi d’oro pare infatti coesistere ogni segmentodella ricerca di Barni: la coerenza della scelta del passodell’uomo, resistente all’insidia del supporto/rasoio,l’illuminazione di un pensiero riflesso nel bagliore dell’oro,scelto come metallo regale, simbolo di eternità, di illumi-nazione interiore, resistente all’aggressione, comel’evocazione morale degli innocenti, uniti accorpati, vincen-ti sul male.

Spiega lo stesso Roberto Barni:

Fin dal primo momento, quando mi è stata commissionataquest’opera per ricordare le vittime dell’attentato di via deiGeorgofili e insieme le opere che sono andate distruttenell’esplosione, ho pensato che avrei voluto realizzare unlavoro che, più che ricordare la morte di coloro che non cisono più, ce ne ricordasse la vita.Ho immaginato una figura capace di riportarli tra noi. Unafigura lassù sospesa che pare emanare dal luogo dell’arteper eccellenza, anch’esso ferito. Una figura che è l’arte e ilsuo perenne tentativo di superare la tragedia in un atto di

Roberto Barni Passi d’oro

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esistenza. E penso a Masaccio, alla morte di Anania trasfor-mata in una maternità, forse la più sguarnita, ma la più bel-la. Ho pensato di usare i materiali più eterni, il bronzo e so-prattutto l’oro che con la sua luce acceca le tenebre.Ho pensato che su una lama simbolo di morte si erga una fi-gura come una vittoria, come una Nike, che con passo deci-so avanza portando con se le cinque persone dorate proprioper ricordare gli esseri umani nel loro splendore della vita,nelle loro case, nelle loro strade. Perché questa figura checammina ha anche qualcosa del Wanderer di Schubert.Un viandante alla ricerca delle sua terra sempre sognata,una terra dove i suoi amici se ne vanno in giro e i suoi mortirisorgono.Una figura che è simbolo stesso dell’arte e che nel suo vaga-re viene sospinta a ricominciare sempre il suo viaggio, e quiimprevedibilmente proprio dalle mura più alte di uno deiluoghi più significativi del mondo, aggredito dalla barbarie.

Roberto Barni Passi d’oro

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Alfabeta2 n.24

Roberto Barni Passi d’oro

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Andrea FioreEmilio Isgrò Modello Italia (2013-1964)

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Roberto Barni Passi d’oro

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GLI ARTISTI DI ALFABETA2

Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964)

Andrea Fiore

«L’arte non serve a niente.» Se con questo adagio qualchetempo fa Emilio Isgrò ci poneva dinanzi a un paradosso allastregua di quello del «mentitore cretese» (Epimenide di Cre-ta), questa volta l’artista siciliano ci introduce a una rifles-sione sull’identità di un popolo affetto da amnesie storiche.Modello Italia (2013-1964) «è un modello identitario che, par-tendo dall’arte, vuol recuperare quell’unicità culturale chedal Rinascimento al futurismo ha imposto l’Italia al rispettodel mondo. Perché sì, è vero, siamo economicamente e po-liticamente in crisi […] tuttavia restiamo pur sempre unagrande potenza culturale in grado di competere sui mercatiglobali.È da questa consapevolezza che dobbiamo ripartire noi ar-tisti se vogliamo segnare le vie del coraggio ancheall’economia e alla politica. Direi che il nostro è un doverepatriottico» (E. Isgrò, 2013).

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La mostra, allestita presso la Galleria Nazionale d’Arte Mo-derna di Roma, traccia il percorso di un artista costretto acavarsela «con astuzia e coraggio tra il fuoco incrociato del-la borghesia e dei burocrati», come lo stesso Isgrò si descrivein un brano riproposto nel volume Come difendersi dall’arte edalla pioggia (ed. Maretti, 2013). Una rivelazione che ricono-sce al poeta «un cervello di volpe e un cuore di leone», mu-tuando le parole di Machiavelli e trasponendole dalla figuradel principe a quella dell’artista.Il percorso espositivo parte da una monolitica affermazionedi straordinaria consapevolezza: Dichiaro di essere Emilio Isgrò(2008). Un buon inizio per introdurre un’indagine sulla«questione italiana». Una fiumana di formiche percorre lacandida statua di Giuseppe Garibaldi e un pianoforte conl’anima di carillon intona la Casta diva ricordano l’epico Sbar-co a Marsala (2010). In questo stato di assoluta precarietà esospensione il proverbiale «obbedisco» dell’Eroe dei due mon-di si cancella e attraverso una coltre di omissis diviene unDisobbedisco (2010), questa volta pronunciato dall’Eroe dellacancellatura. Nella sala successiva i volumi della Costituzionecancellata (2012) sono adagiati con solennità profetica, comefossero le tavole della legge, ma cancellate e brulicanti diapi.Il modello di democrazia che è la Costituzione cede il passo aun altro prototipo altrettanto democratico: la cancellatura.Al centro della sala dorme un’Italia turrita assediata da sca-rafaggi, acuta metafora di una nazione che noncurante par-

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tecipa alla trasformazione del suo «egro talamo» in sepolcropatinato (L’Italia che dorme, 2010). Un tentativo auspicabilequanto ironico è quello della Cancellazione del debito pubblico(2011), che concede, generosamente, una nuova possibilitàalla nostra nazione. Isgrò, come un implacabile angelo ster-minatore, cancella tutto, non si salvano neanche i Codici ot-tomani (2010) in cui il testo, come sentenzia lo stesso titolodell’opera, «c’è e non c’è» (Var ve yok). Un percorso a ritrosoriporta alla luce reperti che testimoniano cancellazioni di al-tri tempi in cui l’interesse passa dal concettuale all’assoluto,come in Dichiaro di non essere Emilio Isgrò (1971), opera in cuil’artista non cancella le parole di un testo, ma cancella sestesso.Il percorso espositivo procede nelle sale del piano superiorecon altri lavori storici come Jacqueline (1964), le cancella-zioni dell’Enciclopedia italiana Treccani (1970) e Volkswagen(1964), in cui ironicamente è riportata l’iconografia di un Dio«perfettissimo come una Volkswagen che… va… e va… e va».Modello Italia dimostra, infine, un senso di identità nazionaleattraverso il sentimento di responsabilità civile che affioradai drammi riconosciuti dalla memoria collettiva di una na-zione. I venti tondi dell’Ora italiana (1985) ne sono un chiaroesempio. Di certo non è semplice parlare di patriottismomentre la decadenza di una nazione si manifesta tra atti dicannibalismo culturale e quotidiane mutilazioni di dignità.Davanti all’incalzare dei rumori degli orologi e al processo dicancellazione che avviene attraverso l’immagine, L’ora italia-

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na si impone come un’icona del nostro tempo, una suggesti-va Biblia pauperum della contemporaneità.Modello Italia (2013-1964) è un percorso attraverso cui è rico-noscibile la teoria della cancellatura e la franchezza con laquale è messa in pratica. Per comprendere meglio il punto divista dell’autore gli ho posto alcune domande.

La cancellatura è un atto di prepotenza nei confronti dei sistemi dicomunicazione, oppure può essere intesa come un’azione silenzio-sa e composta, anche se radicale?

Direi entrambe le cose, ma principalmente è un atto di dife-sa dalla prepotenza di una comunicazione indiscriminata,rischiosa per la stessa democrazia. La cancellatura è quindiun distacco epico tra l’arte che inganna e l’occhio che guar-da. L’arte, quindi, diventa una forma di difesa democratica el’artista ha la responsabilità di segnalare un pericolo e difornire al pubblico uno strumento per difendersi. Con que-sto non voglio dire che l’arte debba essere necessariamenteuno strumento di dissenso, ma di certo deve rappresentareuno strumento critico, finalizzato alla difesa democratica.Conviene aiutare il pubblico a comprendere qual è il suo ef-fettivo interesse, e in una situazione di stallo politico e cul-turale è chiaro che la riflessione può indicare delle vied’uscita. Ora non si tratta più di prendere la Bastiglia o ilPalazzo d’Inverno, ma di battere il conformismo che ci stasoffocando, una forma di conformismo planetario. È para-

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dossale che proprio gli artisti, un tempo campioni della di-scussione, ora diventino i campioni del conformismo. Se-condo me un artista, se vuole sopravvivere in questa epoca,deve sviluppare i suoi difetti prima di accrescere le sue qua-lità.

Potrebbe spiegare meglio quest’ultimo concetto?

Certo. Oggi cosa fa un artista per piacere o per compiacere?Sviluppa le proprie qualità: le qualità pittoriche, le qualitàdi scrittura, le qualità dell’orecchio se fa il musicista, questoserve per agganciare il pubblico; se invece si cerca di svi-luppare la propria sordità, la propria cecità e la propriamancanza di tatto, anche quando si usano le parole, alloral’artista sarà costretto a supplire con l’immaginazione aipropri difetti inventandosi altre cose. Se l’artista ha dellequalità, per quanto sviluppi i propri limiti, esse saltano fuo-ri; un artista è pericoloso quando non ha alcun difetto. Selei si propone di coltivare i propri difetti, si propone di vin-cerli e, vincendoli, indica alle persone che la circondano lapossibilità di vincere i propri limiti.

In più occasioni lei ha sostenuto che la cancellatura non è uno sti-le, ma un linguaggio poiché sopravvive al tempo, quindi deve esse-re inteso come un processo in divenire. Per questo mi piacerebbechiederle: come immagina le sue cancellature nel futuro? La can-cellatura come potrà cambiare?

Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964)

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Potrà avvenire che a un certo punto verrà cancellata essastessa da una visione completamente costruttiva della real-tà, quindi dell’arte. In effetti la cancellatura è sempre sotte-sa anche quando non appare, come procedimento contrarioalla scrittura o alla pittoricità. Non è obbligatorio che essaci sia. In molte mie opere la cancellatura è diventata pittu-ra. Penso che la cancellatura esista in natura come esistel’aria e come esiste l’acqua, si cancella da sempre; diciamoche io l’ho trasformata in qualcosa d’altro, ma senza cavarlequella carica dirompente che ha già di suo, perché continuaa generare dubbio, curiosità e attenzione.

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Alfabeta2 n.11

Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964)

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Altri percorsi di lettura:

Giovanna GiustiRoberto Barni Passi d’oro

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Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964)

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SEMAFORO & LESSICO

Semaforo

Maria Teresa Carbone

AgendaLa letteratura russa del XXI secolo ha un’agenda importantedavanti a sé: digerire un’intera epoca; descrivere una nuovasocietà e le persone che la compongono; sollecitare i lettorie sconvolgerli con visioni postapocalittiche. Deve anche cer-care forme degne di nota e scoprire nuovi talenti.

Alena Tveritina, in «RBTH», 6 agosto 2013

AlcolIl piccolo gruppo linguistico dell’Estonia, poco più di un mi-lione di persone di madrelingua nel mondo, riesce a produr-re una scena letteraria incredibilmente vivace. Una delle ra-gioni è il successo della vendita di alcolici, rivolta essenzial-mente ai turisti finlandesi in cerca di bevande meno costoseche in patria. Parte del denaro ricavato dalla vendita di al-

Semaforo

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colici è destinata a enti culturali che sostengono numeroseopere pubblicate in estone.

«Yle», 20 agosto 2013

CondivisioniNella sua ricerca più recente, Extended Self in a Digital World(Il sé esteso in un mondo digitale), che uscirà sul «Journalof Consumer Research» a ottobre, Russell W. Belk, docentedi marketing alla York University di Toronto, sostiene cheil nostro rapporto con i social media sta gradualmente ren-dendo più complessa la nostra idea di noi stessi in quantoindividui. Attraverso Pinterest, Instagram e YouTube, il cuiprecedente slogan era «Broadcast Yourself» (Trasmettiti),noi costruiamo le nostre identità in un modo che non eramai stato possibile prima. «Quando guardiamo lo schermo,non ci confrontiamo fisicamente con qualcuno che può rea-gire subito ai nostri stimoli, per cui è più facile lasciarsi an-dare: è come se fossimo invisibili», spiega Belk a propositodell’«effetto disinibizione» che la condivisione in rete con-tribuisce a creare. «Il paradosso è che, invece di una solapersona, ci sono potenzialmente migliaia o centinaia di mi-gliaia di persone che ricevono quello che noi mettiamo làfuori».

Paul Hiebert, The Real Reason Why So Many People Overshare onFacebook, in «Slate», 19 agosto 2013

Semaforo

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DoposcuolaKim Ki-hoon guadagna quattro milioni di dollari all’anno inCorea del Sud, dove è noto come un docente-divo, due ter-mini che di rado si trovano accoppiati nel resto del mondo.Kim insegna da oltre vent’anni presso gli hagwon, accademieprivate che tengono corsi doposcuola.

A differenza della maggior parte degli insegnanti del pia-neta, è pagato in base alla domanda per le sue competenze,domanda molto alta nel suo caso. […] I servizi di tutoring simoltiplicano ovunque, dall’Irlanda a Hong Kong e anche nel-le aree suburbane della California e del New Jersey. Definititalvolta come sistemi educativi ombra, rispecchiano il siste-ma istituzionale, offrendo classi doposcuola in ogni materia,a pagamento.

Ma in nessun paese hanno raggiunto la penetrazione dimercato e la sofisticatezza degli hagwon sudcoreani, dove itutor privati oggi superano di numero gli insegnanti dellescuole. Da vicino, il sistema ombra è insieme eccitante e con-turbante.

Promuove competizione e innovazione fra gli studenti co-me fra i professori e ha aiutato la Corea del Sud a diventareuna superpotenza accademica. Ma al tempo stesso dà origi-ne a una lotta spietata nel sistema educativo, garantendo iservizi migliori alle famiglie più ricche, per non parlare delfardello psicologico sui ragazzi. Con questo sistema di fattogli studenti vanno a scuola due volte: una volta di giorno e

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una di sera, agli hagwon. È un tritacarne in perenne funzio-ne.

Amanda Ripley, The $4 Million Teacher,in «The Wall Street Journal», 4 agosto 2013

Ideali«La tendenza degli uomini gay a enfatizzare l’aspetto fisiconon si può liquidare facilmente», dice Duane Duncan, ricer-catore presso l’Australian Research Centre in Sex, Healthand Society.

Nel suo articolo Out of the Closet and into the Gym (Via il ve-lo, si va in palestra) Duncan sostiene che il fisico maschileidealizzato è uno dei maggiori riferimenti culturali nellarappresentazione dominante degli uomini gay.

«Siamo stati noi a farlo», afferma David Brennan, sociolo-go all’Università di Toronto. «La nostra cultura mostra unasola immagine del corpo e dobbiamo chiederci quanto que-sto ci condizioni.»

Ovviamente è una questione carica di implicazioni politi-che. Gli esponenti antigay sono prontissimi a patologizzarequalsiasi tratto gli uomini gay possano avere in comune.

D’altro canto molti attivisti per i diritti gay fanno di tuttoper negare che ci siano caratteristiche specifiche di quel chegli avversari connotano negativamente come lo stile di vi-ta gay. […] Brennan, egli stesso omosessuale, insiste che la

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preferenza della cultura gay per un determinato ideale fisi-co condiziona chi non rientra nel canone dominante.

Brandon Ambrosino, The Tyranny of Buffness,in «The Atlantic», 16 agosto 2013

MacchieFra cinquant’anni la gente guarderà al caso Manning come aun’altra macchia in un’epoca oscura per gli Stati Uniti e peri valori che essi affermano di avere cari.

John Cassidy, History Will Pardon Manning, Even if Obama Doesn’t,in «The New Yorker», 21 agosto 2013

SmsSapevo che sarei stato in grado di fare questo lavoro perchéha a che fare con avvenimenti catastrofici. In un istante unavita può essere spazzata via o cambiata per sempre. Perso-nalmente non mando sms quando guido, e anzi non mandoproprio sms, ma non posso fare a meno di rilevare che nel-la nostra civiltà sta accadendo qualcosa che ci investe congrande veemenza.

Werner Herzog, citato da Associated Press in Herzog on TacklingTexting and Driving in New Film,

a proposito del suo documentario From One Second to the Nextsui rischi di mandare sms mentre si guida (il documentario si può

vedere gratuitamente su ItCanWait.com), 9 agosto 2013

Semaforo

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VerbiFra sei secondi mi odierai. Ma fra sei mesi sarai uno scrittoremigliore. D’ora in avanti, per almeno sei mesi, non potraiusare verbi di «pensiero». Essi includono: «pensa», «sa»,«capisce», «si accorge», «intuisce», «crede», «immagina»,«desidera» e cento altri che ti piace usare. L’elenco dovrebbecomprendere anche «ama» e «odia».

Chuck Palahniuk, Nuts and Bolts: «Thought» Verbs,in LitReactor.com, 12 agosto 2013

VetrineNella nostra epoca saturata dai social media l’ipotesi che latecnologia abbia trasformato il concetto di intimità non èparticolarmente rivoluzionaria. Dall’aggregazione di comu-nità politiche agli incontri amorosi online la tecnologia offreun cumulo di opportunità eccitanti e di possibili ansie. Pren-diamo il caso di Grindr. Per uomini attratti dallo stesso ses-so, me incluso, è diventato il simbolo della possibilità di or-ganizzare sesso, amicizie e relazioni cliccando sullo schermodello smartphone. Il marketing del prodotto lo dice chiara-mente: «Grindr è rapido, conveniente e discreto. Ed è ano-nimo quanto tu vuoi che sia». E ha milioni di utenti in tuttoil mondo. Che tu stia leggendo in biblioteca o sia sdraiato inun parco, ovunque ti trovi, col tuo telefonino quello diven-ta un luogo di possibilità sessuali. […] Dal momento in cui miiscrivo al sito i corpi sono presentati come un assortimento

Semaforo

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di piccole foto ordinate in termini di prossimità geografica.Passare in rassegna i vari profili mi fa sentire come un ra-gazzino in un negozio di caramelle per adulti: «passeggio» divetrina in vetrina sperando di trovare il tipo giusto che cor-risponda al mio stato d’animo attuale. Forse voglio solo unpo’ di sesso, oppure sono in cerca di un partner romantico, omagari tutte e due le cose insieme!

Senthorun Raj, How Grindr Has Transformed Users’ Experience ofIntimacy, in «The Guardian», 2 agosto 2013

Altri percorsi di lettura:

Maurizio LazzaratoLessico dell’uomo indebitato

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Semaforo

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ALFATURK UNA RIVOLTA TRASVERSALE

Lo speciale è a cura di Eleonora Castagna

Una protesta urbana

Franco La Cecla

Cosa sta accadendo in Turchia? Forse la chiave di in-terpretazione più attendibile è da cercare nelle pa-role imbarazzate e colpevoli del primo ministroTayyip Erdogan. Di fronte alla mobilitazione di enor-

mi fette delle popolazione a Istanbul, ad Ankara, a Izmir e intutto il paese, dopo aver cercato di criminalizzare la prote-sta e di attribuirla a facinorosi pagati da una potenza stra-niera, egli ha dichiarato che tutto ciò non aveva nulla a chefare con le «primavere arabe», ma si trattava di una protestacome quella di Occupy Wall Street o dei giovani ad Atene oin un’altra capitale europea. È interessante che un politicocome lui, convinto di poter restare al potere per un altro de-cennio come capo supremo del paese abbia scoperto

Una protesta urbana

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un’opposizione che attraversa tutti i ceti, le generazioni, leclassi, le professioni e i credo presenti nel paese. In questoimprevisto ostacolo la prima cosa che vuole evitare è di es-sere identificato con il dittatore di un paese arabo da abbat-tere, al pari di Assad che nella vicina Siria è minacciato daforze che lo stesso Erdogan appoggia. Facendo questa mossadà credito ai suoi oppositori in piazza che appunto rivendi-cano per la Turchia un futuro da paese europeo.Erdogan si trova di fronte a un tipico doppio vincolo da schi-zofrenico: allontanarsi dall’Europa dalla quale non vuole es-sere giudicato, ma allo stesso tempo paragonarsi all’Europaper non restare schiacciato nel destino di un qualunque pre-potentello alla Ben Ali, alla Gheddafi, alla Mubarak. Dallaparte sua ha la carta vincente fino a ieri di uno sviluppoeconomico che somiglia molto a un capitalismo alla cinese,un’oligarchia che si appoggia in Turchia come caso specificoa un’ideologia islamica populista che somiglia a un pensieromaoista rivisitato.Il suo problema è che la Turchia è un paese molto diversodalla Cina. In Turchia è la società a essere cresciuta forse ad-dirittura più in fretta del capitale. Ci sono una marea di gio-vani che vogliono far parte del mondo in cui la democraziasignifica non dovere sottostare a uno Stato etico e polizie-sco, per cui modernità significa diritti delle donne e dirittidelle minoranze, ma soprattutto un futuro di partecipazio-ne, di social network, di presenza democratica nella gestio-ne delle città. Accanto a loro ci sono varie compagini, una

Una protesta urbana

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classe media ben strutturata, una popolazione urbana che siidentifica nell’idea di cittadinanza espressa nei giorni di GeziPark come appartenenza spaziale e cura per la qualità dellavita nella propria città.La Turchia dimostra che il potere di un uomo provenienteda un partito populista islamico che si rivolge anzitutto allaTurchia profonda dell’interno è qualcosa che decresce pro-porzionalmente all’inurbamento, al peso che le città hannonella vita del paese. Gli stessi movimenti religiosi legati auna rinascita spettacolare del sufismo, con enormi confra-ternite maschili e femminili e una rete di solidarietà invidia-bile, non sono sicuri di potersi identificare con un’ideologiapolitica che corteggia la sharia. I sufi turchi hanno tutto datemere da un capo dello Stato che vuole dettare le leggi mo-rali del paese, perché ricordano che Atatürk ha fatto lo stes-so, anche se al contrario, alla fondazione della Turchia mo-derna.E non c’è da sottovalutare il peso degli aleviti, questa mi-noranza compatta e molto presente nella vita del paese cheoggi alza il capo pretendendo di rappresentare un Islam lai-co al punto da non celebrare il Ramadan e non andare inmoschea (gli aleviti hanno un’origine ibrida e in parte scii-ta che li rende invisi al mondo turco sunnita). Ma c’è in bal-lo la questione curda, di cui Erdogan si fa bello promettendola pace attraverso un patto con Abdullah Öcalan, il capo delPkk in carcere. L’altra gatta da pelare è la riscoperta in tuttala Turchia delle «origini» di molti cittadini, origini nascoste

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fino a ieri nel timore di ripercussioni, origini armene, gre-che, ebraiche, circasse.

I miei amici turchi, studenti, giornalisti, artisti, musicistiprima che avvenisse Gezi Park mi parlavano preoccupati delfuturo del loro paese. A me sembrava un mondo con una for-te contraddizione, dove alcune persone vivevano con unamaniera di pensare e di agire molto simile a persone del re-sto d’Europa e con la coscienza di rischiare di essere repressida un giorno all’altro. La mia amica Gulseh, attrice dei serialtelevisivi più guardati nel mondo arabo – le Tv turche sonodiventate le prime nella produzione di sitcom, ne fanno cen-tocinquanta all’anno e le vendono ad Algeria, Tunisia, Emi-rati, Indonesia e a tutto il mondo islamico – alla mia doman-da su come vedeva il presente del suo paese mi rispondeva:caos. E mi portava alla manifestazione in un teatro di IstiklalCaddesi, la grande via pedonale di Beyoglu, in difesa del piùgrande pianista turco, Fazil Say, accusato di aver stilato untwitter in cui, lamentandosi di un muezzin che aveva stona-to una delle cinque preghiere dal minareto vicino a casa sua,aggiungeva: «Non basta che io sia ateo, devo anche soppor-tare questo?» Il twitter gli era costato un processo per bla-sfemia e la proibizione per lui, pianista di fama internazio-nale, di fuggire all’estero.Eppure, la sera della manifestazione con tutti gli artisti e imusicisti solidali riuniti nel teatro a leggere poesie di NazimHikmet e testi di scrittori e pensatori indipendenti, avevo

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avuto l’impressione di un’accozzaglia di idealisti di sinistraun po’ troppo lontani dalla realtà di un paese in cui l’Islamcomunque ha un peso quotidiano nella vita delle persone.E mi sbagliavo. Gezi Park ha dimostrato che quelli che sonoandati in piazza non erano una minoranza di nostalgici che-guevaristi, né un mondo di anime belle, ma invece gente conuna forza di organizzazione e una voglia coraggiosa di bat-tersi e una capacità di fare comunella con amplissime frangedella società.A questo c’è da aggiungere che, per chi conosce piazza Tak-sim, questo spazio non ha nulla per cui commuoversi. Èun’orrenda rotatoria di traffico con qualche salvagente diverde. Una cerniera mal partorita tra due parti di città, traBeyoglu e Galata che è il simbolo della città più europea (deigiovani, dei consumatori, ma anche di coloro che amano laparte antica di questa città che sta sparendo sotto i picconidell’impresa che appartiene alla famiglia di Erdogan). In piùBeyoglu è storicamente il simbolo della parte meno discipli-nata della città, artisti e puttane dell’Ottocento, il luogo do-ve si beveva liberamente e dove si cantava e suonava. Questaparte confina con zone meno antiche e abbastanza devasta-te dall’edilizia degli anni Novanta. Eppure è questa cernieraa essere diventata il simbolo di una nuova identità cittadina.Qui come a piazza Tahrir – e qui Erdogan non ha capito – lagente si è impossessata di uno spazio che dia unità a una vo-glia generale di protesta, che unisca il mosaico dello scon-tento sotto un’etichetta che non sia politica ma urbana. È

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questa la grandissima novità della protesta in quest’ultimodecennio. La gente si riappropria e si fa riappropriare dallospazio urbano. Vuol essere anzitutto fisicamente presenteinsieme, proprio il contrario di tutta la demenza sociologicache parla di protesta via Facebook e Twitter. Sono i luoghicittadini con la loro fisicità ad avere ridato alla politica ilsenso di un’incarnazione sociale e il disprezzo per la politicadi professione e di pura rappresentanza (l’avessero capito igrillini, non starebbero ancora a smanazzare sulla tastiera).Il corpo è venuto fuori con tutta la sua forza, nelle danze,nelle barricate, negli standing men and women che hanno ri-baltato lo spazio di piazza Taksim, reinventando il propriocorpo come spazio simbolico.

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Altri percorsi di lettura:

Turgul ArtunkalDemocrazia islamica

Alberto Fabio AmbrosioLa Turchia come simbolo

Una protesta urbana

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Eleonora CastagnaUn coro di voci meraviglioso

Conversazione di Eleonora Castagna con Melis İnan eSinem ÖzerLa potenza della ricerca di libertà

Sena BasozRemixtenza

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ALFATURK UNA RIVOLTA TRASVERSALE

Democrazia islamica

Turgul Artunkal

L’apoliticismo giovanile turco era un’idea parecchiodiffusa prima degli eventi relativi alla protesta.Purtroppo questo risveglio è stato sfruttato dainostalgici appartenenti alla mia generazione che

l’hanno visto come un buon pretesto per risollevare l’antico«spirito rivoluzionario» dei vecchi partiti di sinistra durantele epopee degli anni Sessanta e Settanta.È sbagliato oltretutto generalizzare volendo parlare sola-mente della generazione più giovane e volendo analizzaresolo questa parte della popolazione, essendo il movimentodi protesta, sin dagli ultimi giorni di maggio, assolutamentetrasversale.Il nostro è un paese che presenta divisioni interne di pensie-ro politico molto importanti: l’Akp, il partito ora al governo,ha ottenuto il 50% dei voti a livello nazionale (questo non èassolutamente da sottovalutare). I partiti d’opposizione so-

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no molti e frammentati anche al loro interno: i maggiori so-no l’Mhp, ultranazionalistico, che ha ottenuto tra il 13 e il15% dei voti alle ultime elezioni, e il Chp, fondato da Ata-türk, che ha ottenuto tra il 25 e il 28%. L’opposizione è votatasoprattutto dai nostalgici del partito unico (dagli anni Ventiagli anni Quaranta).La manifestazione in piazza Taksim ha visto una partecipa-zione molto composita, che va al di là di quelle che possonoessere le prese di posizione politica o l’affiliazione ai parti-ti d’opposizione. A difesa di Gezi Park si sono mossi tifosi dicalcio, membri e simpatizzanti dei piccoli partiti di sinistra,alcuni giovani curdi arrabbiati ma al contempo entusiasti,attivisti del movimento Lgbt e soprattutto studenti e giova-ni professionisti che si trovano a fronteggiare la situazionedi precariato (che esiste anche qui in Turchia, nonostante lanostra nazione venga spesso presentata come l’«isola felice»per quanto riguarda la crescita economica e l’offerta di postidi lavoro). Molti di questi ragazzi li conosco personalmente,in quanto sono miei studenti o lo sono stati fino a pochi an-ni fa (la maggior parte di loro sono filmaker, giornalisti, vi-deoartisti...).Penso che a Taksim si sia palesata la stessa situazione de-scritta da Pasolini nella sua poesia sugli scontri di Valle Giu-lia a Roma nel 1968: gli agenti della polizia stanbuliota, infat-ti, provengono dai ceti medio-bassi degli ambienti più con-servatori. Giovanissimi vengono mandati, dalle famiglie deivillaggi più interni della Turchia, nelle grandi città a intra-

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prendere il servizio di polizia. Anche la promozione che sifa di questa professione, a livello visivo di billboard, ricor-da molto quella della chiamata alle armi dello Zio Sam negliStati Uniti. Al contrario, la maggior parte dei manifestantiprovengono dalle classi più altolocate. Questa distinzione èfondamentale ed è una cosa sulla quale si è poco riflettuto:negli scontri di piazza si sono fronteggiati elettori dell’Akp(i poliziotti conservatori) e giovani sostenitori della politicadi Atatürk, il Chp.Come è stato riferito anche dalla stampa internazionale, ilmovimento di protesta a Istanbul solo in un primo momentosi è concentrato sulla salvaguardia di uno degli ultimi spaziverdi pubblici al centro della città. L’occupazione di GeziPark è stata solo un pretesto per manifestare contro le sem-pre più palesi e numerose restrizioni che il governo di Erdo-gan sta applicando tramite l’approvazione di leggi che im-pediscono ai cittadini turchi di vivere con una reale liber-tà personale di scelte. L’autorità dittatoriale del governo siè palesata fortemente durante le proteste soprattutto perquanto riguarda la diffusione delle informazioni tramite imedia nazionali: le televisioni turche, la sera in cui gli scon-tri hanno raggiunto l’apice della violenza, trasmettevanodocumentari sui pinguini e programmi televisivi comici, im-pedendo ai cittadini di assistere alle violenze in piazza Tak-sim e nel quartiere di Besiktas. L’autorità governativa ha an-che posto sotto controllo le informazioni diffuse in temporeale dai social media: Facebook e Youtube hanno subìto

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censure e cancellazioni e molti ragazzi, soprattutto a Izmirnei primi giorni di giugno, sono stati arrestati nelle loro abi-tazioni con l’accusa di diffondere false informazioni sul webtramite la piattaforma di Twitter.Purtroppo il primo ministro Recep Tayyip Erdogan imponee mantiene il pugno di ferro grazie a due suoi tratti fonda-mentali: un carattere irascibile e prepotente, e la legge isla-mica che brandisce ogniqualvolta ne senta il bisogno perrafforzare i propri discorsi populisti. Condivide in questomolti connotati di leader musulmani e uomini politici isla-mici che mostrano una certa intolleranza per la libertà. Nonvorrei apparire ora troppo generalizzante, so che non esisteun solo modo di vivere l’Islam come legge e fede religiosa:non esiste infatti un’unica lettura del Corano. Detto ciò, mipermetto di tentare un’analisi puramente personale al ri-guardo perché credo che comunque il Corano non promuo-va esattamente gli stessi valori che si possono trovare nelVangelo cristiano. Anche la figura principale del libro sacroislamico, il profeta Maometto, è indubbiamente presentatocome un uomo estremamente irascibile e vendicativo, e no-nostante non sia il figlio di Dio, e anzi se ne ricordi più voltel’umile origine di orfano e poi di commerciante, viene spes-so paragonato a una divinità dai fedeli. Basti pensare a qualireazioni violente hanno provocato, qualche anno fa, le cari-cature del profeta disegnate in un fumetto olandese.Gli storici e gli islamisti vorranno sicuramente obiettare aquesto mio discorso, e so bene che una delle loro prime ri-

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sposte in difesa dell’islamismo sarà quella di sottolinearel’estrema tolleranza di molti Stati e leader musulmani du-rante il medioevo, comparati alla violenza distruttiva deicrociati cristiani. Il problema è che spesso ci si dimentica diriflettere su un fatto che secondo me è invece importante:l’Islam non ha dato vita a nessun tipo di pensiero umanisticoe non presenta alcuna apertura verso ciò che fuoriesce dalcredo monoteistico ufficialmente accettato; questo ha por-tato a non avere alcuna apertura alle differenze sociali edetiche ancora al giorno d’oggi. Si intuisce che anche il primoministro è piuttosto insofferente riguardo all’accettazionedi una popolazione multiculturale, e che ogni volta spera ditrovare o promuovere leggi che possano annullare qualsiasitipo di idiosincrasie. So che potrebbe risultare un pensieroparanoico quello che sto esprimendo, ma sono convinto dinon essere il solo a pensarla così. Per placare questa parano-ia Erdogan non sta facendo nulla; anzi non fa che alimentar-la minacciando il popolo turco con nuove imposizioni ognigiorno.Queste mie osservazioni circa l’immobilità e l’inefficacia del-la cosiddetta democrazia islamica in Turchia sono rafforzatedal fatto che non si sia mai voluto promuovere un pensierocritico al riguardo: la libertà non viene mai posta come unargomento da approfondire, anche solo storicamente par-lando.Fin dal XIX secolo, inoltre, la maggioranza musulmana hasempre cercato di sottomettere le minoranze cristiana ed

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ebraica fino a tentare una vera e propria purificazione daqueste etnie. Nonostante ciò anche oggi la popolazione nonha una sola origine comune perché ci sono state varie con-taminazioni di stampo balcanico-caucasico, le quali si sonoprogressivamente fuse nella popolazione stanbuliota preesi-stente dopo la caduta dell’Impero ottomano; inoltre vi sonostate massicce migrazioni di etnie provenienti dall’Anatoliaa partire dal 1927. Queste minoranze rappresentano circa lametà dei 13 milioni di abitanti di Istanbul, ma sono anchela parte più liberale e moderna: fanno meno figli (molti deimiei studenti non hanno fratelli e i figli unici rappresentanoquasi il 20% dell’intera popolazione) e inoltre appartengonoalla confessione alevita (gli aleviti sono un gruppo religiososubetnico e culturale presente in Turchia che conta circa 10milioni di membri; l’alevismo è considerato una delle moltesette dell’Islam e i suoi riti vengono celebrati in lingua cur-da) che non è vista assolutamente di buon occhio dagli isla-mici conservatori. Queste minoranze hanno rimpiazzato leprecedenti minoranze cristiana ed ebraica.Con la nascita della Repubblica, nel 1922, si impose a tuttala popolazione turca il moderno stile di vita di queste mino-ranze: oggi il nuovo governo sembra voler auspicare un ri-torno alla purezza della razza turca mediante l’abolizione dicerte libertà che sono state indotte precedentemente dallaconvivenza con queste minoranze progressiste.La parte della popolazione più ricca e politicamente rappre-sentata è quella più conservatrice che vede al suo interno

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molti imprenditori, professionisti, burocrati, capi di istitu-zioni sociali private. Nonostante il mercato capitalista piùpotente sia supportato anche da un crescente gruppo di ana-tolici conservatori, questi sono ben lontani dal ricevere unappoggio concreto e raggiungere il sopravvento.Le minoranze avvertono di vivere in una città all’interno diun’altra città che tende costantemente a emarginarli. Inol-tre il governo continua, quasi impercettibilmente ma co-stantemente, a minacciarle e opprimerle mediante restrizio-ni legali, non perdendo alcuna occasione pubblica di fare pe-santi insinuazioni circa lo stile «pagano» di vita che condu-cono.

Traduzione di Eleonora Castagna

Approfondimenti sul sito www.alfabeta2.it

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Alberto Fabio AmbrosioLa Turchia come simbolo

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Conversazione di Eleonora Castagna con Melis İnan eSinem ÖzerLa potenza della ricerca di libertà

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ALFATURK UNA RIVOLTA TRASVERSALE

La Turchia come simbolo

Alberto Fabio Ambrosio

La Turchia e le vicende di cui è stata protagonista negliultimi mesi sono tutt’altro che un fatto puramente lo-cale e regionale. Di fronte a questo grande laborato-rio sociale e politico, nazione da poco più di ot-

tant’anni, i media del mondo intero si sono posti quesiti ehanno formulato riflessioni che non sempre sono stati il ve-ro specchio della realtà. La Turchia è il simbolo reale di unaproblematica fondamentale nel contesto geopolitico mon-diale: la religione, e come questa venga percepitadall’opinione pubblica. Non vi è bisogno di citare Hunting-ton per farsi un’idea di quanto il ritorno della religione in-fluenzi le stesse analisi sociologiche e politologiche, ma cer-to il suo apporto ha non poco indirizzato le rotte della rifles-sione.La domanda che affianca quella precedente riguarda da vi-cino la regione medio-orientale. L’Islam è compatibile con

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una vera democrazia? È una religione che può davvero farsicarico dell’esperienza della modernità? Gli studi sulla vicen-da storica della secolarizzazione, o meglio della moderniz-zazione della Turchia repubblicana, sono numerosi per chivolesse approfondire la questione, che è solo in parte quel-la odierna. Ma qui c’è ben di più. Quanto un partito islamicoalla direzione di un paese come la Turchia, che conta parec-chi decenni di storia laica e di modernità, può continuare inquel processo – lo si dà per scontato, ma è da verificare – diperpetua modernizzazione?A dire ancora di più la verità, in gioco – qui – è quanto lareligione possa essere capace di stare alla testa di un paese.Certo, il partito al governo sin dal suo nascere non ha maivoluto dirigere un paese dal punto di vista religioso. Il fattoche l’Europa non voglia riconoscere un’origine religiosa allasua stessa compagine la dice lunga su questa diffidenza fon-damentale nei confronti delle religioni. La Turchia va situataquindi nella ricezione della diffidenza scettica europea neiconfronti del «religioso». Segnale che conferma in un certoqual modo un carattere turco ormai profondamente euro-peo.La grande novità dell’Akp era di essere un partito moderato,democratico, liberale e conservatore, costituito certo dabuoni musulmani, ma l’Islam non era e si pensa che non siala priorità. Qui giace tutto il problema. Quanto si può dare«fiducia» al religioso che, non volendo dirigere un paese conla religione, può sempre avere una certa sterzata durante la

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corsa? Questa è una delle questioni che si pone oggi la Tur-chia. Quanto le proteste contenevano implicitamente o ad-dirittura esplicitamente questa accusa?Buona parte dell’opinione pubblica europea si è subito rivol-ta a criticare la troppa «islamicità» delle posizioni del gover-no. I giovani di Taksim, però, in generale non si sono maiscagliati contro questo nuovo orientamento del paese, an-che perché ogni nuova legge può certo essere letta in chiavedi islamizzazione, ma anche e più semplicemente come bar-riera per una certa «decadenza» morale e sociale della gio-ventù turca.Questa ambiguità di interpretazione ha lasciato aperta lastrada a fraintendimenti quando non a scontri diretti. Questisi sono giocati più sulle questioni legate all’urbanistica,all’ecologia e, più in generale, ai simboli della laicità repub-blicana della Turchia. La sfida soggiacente a tutte questeproteste di strada è legata alla rappresentatività politica indemocrazia da una parte e alla capacità, per l’Islam turco,di superare l’esame della modernità rappresentato dalla ge-stione dei diritti individuali, dall’altra. Nel momento in cuinegli Usa la Corte suprema riconosce il diritto di matrimonioper le coppie omosessuali, l’Occidente dell’Oriente – alias laTurchia – si vede confrontato con gruppi che rivendicanodiritti, seppur di minoranza neanche rappresentata politi-camente. Questa è una chiave di lettura fondamentale percomprendere di fronte a quale situazione si trovi la Turchia:affrontare come governo di ispirazione conversatrice, e in

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ultima analisi religiosa, la questione della rappresentativitàdei diritti delle minoranze, oppure arrestare il processo dimodernizzazione.Quest’ultima ipotesi sembra da escludersi secondo i teorici egli storici della modernizzazione, che la comprendono comeun’azione ormai ininterrotta e incessante. Le resistenze so-no da situare a questo livello: rappresentatività politica del-le minoranze e rivendicazione dei diritti delle stesse. A Tak-sim vi era un numero impressionante di gruppi, soprattuttodi una certa cultura di sinistra, che avevano sempre lavoratocome attivisti nel loro ambito di competenza o di interesse.Il fatto di Gezi Park ha fatto sì che questi gruppi si riunisseroin un solo insieme. Questo è stato in un certo qual modo ilmiracolo di Taksim. Non c’è poi però da pensare che la par-te opposta ai gruppi, cioè buona parte dei componenti e deisostenitori del partito al governo siano un insieme unico emonolitico. Questo rende la lettura dei fatti ancora più erro-nea. L’Akp è l’espressione politica di numerose correnti, an-che religiose, che si ritrovano in una politica conservatrice eliberale, ma si tratta di un’espressione tutt’altro che mono-litica.L’Islam turco è dotato di una ricchezza straordinaria chesembra sia molto caratteristica di questa nazione. Nell’Islamturco si va dall’ordinario fedele che segue scrupolosamente idettami della religione, così come viene esplicitata dalla tra-dizione e impartita – nel caso della Turchia – sotto il control-lo del Ministero degli affari di culto (Dib), a numerosissime

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altre espressioni. La grandezza dell’Islam in Turchia è rap-presentata dal numero di gruppi che si rifanno alla tradizio-ne sufi vissuta tanto in termini tradizionali e un po’ folclori-stici quanto in termini di autentica fedeltà agli insegnamen-ti di un maestro spirituale. Non è il caso di scendere nei det-tagli, ma questi gruppi – le confraternite sufi, ufficialmenteproibite – sono anch’essi una sorta di minoranza religiosa.Le confraternite sufi, a causa di questa soppressione risalen-te al 1925, hanno lasciato il posto all’invenzione di gruppi re-ligiosi, di vere comunità che fanno capo a un leader. Nume-rose sono queste comunità in grado di riunire migliaia di fe-deli intorno all’insegnamento di un leader carismatico. Que-sta è la forza religiosa della Turchia contemporanea.Poi ci sono gli intellettuali musulmani che hanno sempre piùparte nella storia del paese e nelle scelte politiche. Questecategorie all’interno della grande compagine dell’Islam tur-co mostrano quanto questo non sia un monolito, ma forseuna composizione di minoranze che si sono battute fino apochi anni fa contro una modernizzazione laicista conside-rata esagerata. Da anni il discorso politico di maggioranza èstato quello dell’unità del paese, che ricalca anche quello piùnettamente nazionalistico – l’unità della nazione – e forseanche questo discorso ha ancora la sua ragion d’essere a unacondizione. Se per unità si intende un’unità dinamica chesappia tenere in considerazione le correnti minoritarie tan-to di una parte quanto dell’altra, allora la Turchia saprà ri-solvere le tensioni interne di dibattito con la modernità e la

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rappresentatività. Se per assurdo dovesse arrestarsi di fron-te a questa ipotesi, allora tutta la Turchia ne uscirebbe inde-bolita da tutti i punti di vista, compreso quello economico.La Turchia nella sua ricchezza interna costituisce il simboloe la cifra di quanto altrove si vive senza talvolta sentirne latensione, e forse, proprio per questo motivo, è addirittura inanticipo sui tempi per la soluzione di domande fondamenta-li cui si faceva cenno all’inizio, tra le quali quella del «reli-gioso» capace di gestione politica democratica e liberale.

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ALFATURK UNA RIVOLTA TRASVERSALE

Un coro di voci meraviglioso

Eleonora Castagna

Istanbul, nei giorni della protesta, non si è mai piegata difronte alla minaccia della legge. Le immagini più emble-matiche mostrano giovani che fronteggiano, in piedi,fermi e fieri, i mezzi più violenti usati dalle forze di poli-

zia. C’è la ragazza che apre le braccia e viene colpita dal get-to d’acqua di un idrante; c’è la giovane dal vestito rosso cheviene accecata dal getto di liquido urticante spruzzato da unpoliziotto; ci sono gli hacker del movimento RedHack chestanno in mezzo alla piazza a documentare ogni cosa suiblog con i loro cappucci neri e la bandana rossa; c’è il giova-ne uomo che legge poesie di fronte alla polizia in tenuta an-tisommossa; c’è l’adorabile vecchina impavida che con tantodi fionda casalinga si unisce alla resistenza con orgoglio, ec’è l’artista performer Erdem Gunduz che sta per quattro orein silenzio davanti al centro culturale dedicato ad Atatürk,assorto quasi in un’estasi mistica a osservare l’enorme volto

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del fondatore della Repubblica che si staglia tra due altret-tanto grandi bandiere turche al centro dell’edificio.Ancora una volta mi trovo a ragionare sul significato dellaparola resistenza. Questo termine, per il lettore italiano, è in-dubbiamente legato a un determinato periodo storico e su-bordinato a un certo tipo di ideologia. Qui a Istanbul, neigiorni della protesta, ho assistito, grazie a questi esempi ditenacia e di applicazione della non violenza e della protestapacifica, a un rinnovamento della parola. Vorrei rifarmi alsuo secondo significato etimologico per cui il termine resi-stenza indica la proprietà di un corpo di non cambiare se vie-ne sottoposto a forze esterne che vorrebbero invece mani-polarlo, sottometterlo alla propria potenza. Al popolo turco,se volessimo continuare a richiamare l’accezione scientificadel termine, andrebbe assegnato un undicesimo posto nellascala di Mohs.Il modo con cui ogni cittadino continua a credere nella forzadella propria compattezza come popolo che persegue unobiettivo comune ha dell’incredibile. O forse no. Forse siamonoi italiani che invece abbiamo perso di vista questo nostropotere.Durante i miei sei mesi di permanenza in terra turca ho as-sistito a malincuore alla snervante passività con cui i mieiconnazionali hanno, ancora una volta, accettato le decisionidi una classe politica che ormai sembra costituire un uni-verso a parte, al quale non è possibile avere accesso. La no-stra critica di popolo si è ridotta ai commenti e alle vignette

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sarcastiche anche sulle maggiori testate, e anche dall’esterotraspare una rassegnazione sconcertante. È palpabile quan-to le risate suscitate da questo approccio, che ha del «vabbèma tanto noi che ci possiamo fare» o del «si sa che sono tuttiraccomandati ed è così che gira il mondo», siano intrise diamarezza e insoddisfazione. Tutto ciò mi è stato confermatoda amici e giornalisti di passaggio a Istanbul i cui primi com-menti, di fronte ai cori e ai concerti di quartiere suonati conpentole e padelle fuori dalle finestre da gente di ogni età, so-no stati: «Ma da noi questo casino si fa solo se l’Italia vinceuna partita ai mondiali di calcio!» e: «Dovremmo imparareda loro a muovere una reale e forte protesta di popolo».La grandezza di questa protesta è che è stata guidata propriodal tipico spirito turco che in questi mesi a volte ho biasima-to, a volte amato alla follia: un animo contraddittorio per-vade ogni campo lavorativo, sociale, economico. E anche du-rante le manifestazioni contro il primo ministro Erdogan,solo nella città di Istanbul, è stata evidentissima questa po-liedricità di atteggiamenti che pure sono riusciti ad amal-gamarsi perfettamente in un coro di voci meraviglioso. Giài primi giorni di corteo, mentre i poliziotti lanciavano la-crimogeni addosso ai manifestanti c’erano ragazzini che inbicicletta, forti del loro spirito di piccoli commercianti im-pavidi, sfrecciavano in mezzo alla folla per vendere limoni,latte e mascherine antigas. In Istiklal Caddesi poi, fino allosgombero della piazza, si potevano trovare piccoli tavoliabusivi che offrivano bicchieri di superalcolici a prezzi più

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che economici, mentre poco lontano erano stese a terra del-le coperte su cui si era improvvisato un piccolo commerciodi maschere di Guy Fawkes da parte di vecchi baffuti. Le seredegli sgomberi di Taksim e di Gezi Park, inoltre, passeggian-do per le viuzze che scendono verso i quartieri di Cihan-gir e Tophane, si potevano osservare le terrazze illuminatedei grandi ristoranti piene di coppie intente a condividerebottiglie di vino pregiato e sguardi languidi, o gruppi in ce-ne aziendali sui cui tavoli troneggiavano raffinate portate dipesce.Questi e altri episodi di convivenza di reazioni spesso mihanno portato a un senso di straniamento e dubbio nei con-fronti delle mie convinzioni spazio-temporali. Eppure ri-mango convinta del fatto che gli stessi imprenditori elegantiche quelle sere si stavano godendo dell’ottimo branzino euna vista mozzafiato sul Bosforo, il pomeriggio, dopo il la-voro, un giro al Gezi se l’erano fatto anche loro, oppure sa-rebbero usciti di lì a poco dal ristorante per unirsi al corteodi protesta. Questi ruoli sociali che improvvisamente hannoiniziato ad autosovvertirsi hanno spiazzato Erdogan stesso,soprattutto quando ha ammonito le madri dei giovani chestavano occupando il parco di andare a riprendersi i figli:queste in tutta risposta si sono subito palesate nell’area ver-de piena di tende, ma solo per piazzarne una anche loro, percondividere la resistenza con i propri figli.Tuttavia a resistere sono anche i giovani poliziotti, molti po-co più che diciottenni e provenienti dai vilaggi più interni

Un coro di voci meraviglioso

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della Turchia, che da quasi un mese vivono a sorveglianzadei luoghi sgomberati, dormendo su autobus pubblici occu-pati e offrendo lavoro costante ai ristoratori della piazza dicui sono divenuti clienti più che abituali. E così chi dovessepassare ora, mentre scrivo, da piazza Taksim, vedrebbe duefile di stanti che imperterriti si fronteggiano giorno e nottenonostante si legga la stanchezza imperante sui loro volti: leforze dell’ordine con le loro camicie blu e i manganelli ne-ri appesi alla cintura da una parte, e i ragazzi che seguonol’esempio di Gunduz con scarponi da trekking, zaini e le im-mancabili pashmine dall’altra.Tra pochi giorni il mio permesso di residenza scadrà e io do-vrò lasciare Istanbul così, senza avere la certezza di poter ca-pire, una volta rientrata in patria, quello che sta accadendorealmente qui. Purtroppo infatti so che quello che leggerò ovedrò alla televisione in Italia sarà solo una strisciata labi-le dell’arcobaleno di colori che sono riuscita a osservare inogni sua sfumatura vivendo qui. L’unica speranza e volon-tà che ho, una volta rientrata, è di vedere un altro trionfodi colori così anche a casa. Se è vero, come dicono qui, chenoi italiani siamo simili e affini ai turchi, spero che sapremoreagire con la loro poliedrica ma forte compattezza e unionequando ne avremo l’occasione.

Un coro di voci meraviglioso

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Altri percorsi di lettura:

Conversazione di Eleonora Castagna con Melis İnan eSinem ÖzerLa potenza della ricerca di libertà

Sena BasozRemixtenza

Un coro di voci meraviglioso

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Franco La CeclaUna protesta urbana

Turgul ArtunkalDemocrazia islamica

Alberto Fabio AmbrosioLa Turchia come simbolo

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ALFATURK UNA RIVOLTA TRASVERSALE

La potenza della ricerca di libertà

La casa editrice Otonom

Conversazione di Eleonora Castagna con Melis İnan e Sinem Özer

Uno dei miei ultimi, caldissimi pomeriggi, qui aIstanbul, scendo le piccole, intricate vie del quar-tiere di Firuzaga per andare a trovare i ragazzi chehanno fondato e gestiscono la casa editrice indi-

pendente Otonom. Il loro è stato uno dei gazebo più fre-quentati durante l’occupazione di Gezi Park e voglio capirecome questa protesta è stata vissuta realmente e fisicamentedai cittadini turchi che per più di dieci giorni hanno abitatoil parco costruendo una vera e propria comunità auto-orga-nizzata.

Quando siete entrati a far parte della comunità del Gezi installan-do il vostro gazebo?

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Subito dopo la notte del 31 maggio, quando la polizia hatentato il primo sgombero entrando e bruciando le tendedegli occupanti. Abbiamo seguito la reazione di molta altragente che come risposta si è riappropriata del parco graziealla forza numerica. Abbiamo montato il nostro gazebo vici-no all’ingresso principale, quello che fronteggia piazza Tak-sim, e abbiamo vissuto in questa neocomunità prendendoneparte attivamente. Il nostro ruolo come casa editrice e ilfatto di sponsorizzare i libri pubblicati è stato assolutamen-te marginale rispetto a quello che abbiamo vissuto e condi-viso con gli abitanti dello spazio verde.

Avete incontrato lettori interessati a discutere circa gli argomentitrattati dalla maggior parte delle vostre pubblicazioni (politica, fi-losofia ecc.)?

Per lo più le persone si accostavano alla nostra tenda inquanto interessate a comprare un libro per leggerlo neltempo libero trascorso nel parco. Sono state poche le occa-sioni per approfondire un certo tipo di discorsi perché si vi-veva il tempo presente: il parco andava costantemente ri-pulito, le attività collaterali e le conferenze erano tantissi-me e anche noi ci siamo sentiti molto coinvolti a livello atti-vo. Ora per noi è il momento di lavorare e pubblicare ciòche abbiamo visto e ciò che abbiamo sentito all’interno delparco. Durante questa pausa di decompressione dobbiamocercare di raccogliere più materiale possibile anche per po-

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terlo poi pubblicare nel prossimo numero della nostra rivi-sta («Otonom Magazine») a luglio. Stiamo raccogliendo arti-coli di ragazzi che parlano del movimento di protesta inTurchia anche dall’estero.Molti ci scrivono via mail e ci mandano i link di pezzi chehanno già pubblicato sulla piattaforma virtuale: tuttaviasentono il bisogno di produrne documenti fisici, stampati.

Il governo turco ha applicato spesso politiche restrittive circa sva-riati aspetti riguardanti le scelte e libertà personali. I media televi-sivi, durante le prime giornate di scontri, non hanno mandato inonda nulla e quando si sono decisi a farlo, molte notizie risultava-no falsate o sottoposte a censura. Voi, in quanto casa editrice chesi occupa soprattutto di testi politico-filosofici, avete mai dovutofronteggiare personalmente politiche restrittive di questo tipo?

Grazie al cielo non sono arrivati a tanto. La Turchia ha tut-tavia una lunga storia di censura per quanto riguardal’informazione pubblica. Durante gli anni Sessanta e Settan-ta le case editrici erano costantemente sorvegliate e moltigiornalisti e scrittori furono arrestati e uccisi: gli esecutoria tutt’oggi non sono ancora conosciuti e sono rimasti impu-niti. Molte persone assassinate appartenevano alla mino-ranza curda, e molte erano donne. Ci sono sempre statiscontri durissimi, ma sempre circoscritti a una parte dellapopolazione. La protesta di questi giorni ha fatto sì che que-sti confini di lotta siano stati abbattuti da una collettività

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prorompente. Le strutture delle classi sociali sono statescardinate e la solidarietà più totale si è manifestata inpiazza. Nonostante il governo tenti di censurare con tutti imezzi la lotta di popolo, noi non siamo intenzionati ad ar-renderci in quanto abbiamo imparato a utilizzare la creati-vità in modo attivo e reattivo, inventando ogni volta nuovimezzi d’espressione.

«Allora potremmo dire, un po’ meno bene ma dal nostro punto divista, che l’arte è ciò che resiste; forse non è la sola cosa a resistere,ma è ciò che resiste. Di qui, il rapporto così stretto tra l’atto di resi-stenza e l’opera d’arte. Nessun atto di resistenza è un’opera d’arte,benché lo sia in un certo qual modo. Nessuna opera d’arte è un at-to di resistenza, benché in un certo qual modo lo sia» (Gilles Deleu-ze, Che cos’è l’atto di creazione). Avete appena accennato allacreatività come matrice del vostro spirito di protesta. Uno dei sim-boli della resistenza stanbuliota è stato Erdem Gunduz, il Durana-dam, lo Standingman: un giovane performer che mi ha fatto pen-sare quanto l’arte, qui e ora, possa realmente essere anche politica.Qual è il vostro pensiero al riguardo?

Una delle reazioni più sconvolgenti è stata quella del sov-vertimento dei ruoli sociali. La creatività ha spinto moltepersone a esprimere le proprie capacità artistiche el’attivismo ha portato molti artisti a rivedere le propriepratiche focalizzandosi sul movimento di protesta e svilup-pando tematiche prettamente politiche. L’episodio dello

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Standingman è stata una vera e propria chiave di volta:quel pomeriggio eravamo tutti molto tristi e depressi per-ché la protesta sembrava potesse collassare sotto le pressio-ni delle forze dell’ordine.Poi un’immagine potentissima ha caricato nuovamente tut-ti di energia. Erdem Gunduz se ne stava lì, fermo, immobilecon uno zaino sulle spalle. Alcuni poliziotti in borghesehanno cercato di bloccarlo (ma come si può bloccare unapersona che se ne sta già ferma?) e hanno perquisito la suaborsa, sperando forse di trovarci qualche ordigno. La gran-dezza di questo gesto è stata proprio quella di impedirequalsiasi tipo di reazione contraria tramite la passività. Uncreativo atto di resistenza.Questo poi ha portato tanta altra gente a imitarlo creandofolle di stanti che, fermi in diversi punti della città, hannovoluto non solo essere solidali con la protesta attuale maanche testimoniare le tante ingiustizie e i massacri irrisolti.Ad esempio, ci siamo fermati in Kazanci Yokusu per tre ore,la scorsa settimana, per ricordare il massacro che c’è statoin quella strada nel 1977: quaranta persone morirono a cau-sa del sovraffollamento e della chiusura delle vie d’uscita daparte delle forze dell’ordine.Non si ha più paura della repressione perché siamo forti delpotere della creatività. E anche il senso di autoironia e criti-ca è fondamentale, in quanto rispecchia lo spirito turco. Ba-sti pensare ai diversi slogan che sono stati inventati con laparola çapulcu (nullatenente, ladro, approfittatore) che Er-

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dogan ha affibbiato ai contestatori, o ai graffiti raffigurantipinguini stilizzati che indossano maschere antigas (il primogiorno della manifestazione i canali televisivi turchi man-davano in onda i programmi più disparati, tra cui un docu-mentario sui palmipedi delle zone antartiche).

All’università mi è capitato di confrontarmi con un’amica turcacirca l’attivismo e la discussione politica all’interno degli ambitistudenteschi. È vero che in Turchia, prima di questa grande prote-sta, la classe dei ragazzi nati alla fine degli anni Ottanta e neglianni Novanta veniva considerata apolitica? A che cosa sono dovu-ti questo improvviso risveglio e questa forte aggregazione comuni-taria?

Parlare di apoliticità è sbagliato a prescindere.I giovani hanno sempre fatto scelte politiche, che tuttaviaerano perfettamente conformi a quelle che il governo siaspettava facessero: individualismo imperante, capitalismoe consumismo erano le gabbie entro le quali i ragazzi simuovevano fino al mese scorso. Evidentemente, però, que-ste gabbie hanno iniziato a essere percepite e alla fine, inpratica, la potenza della ricerca di libertà e di pensiero criti-co è venuta alla luce spontaneamente perché semplicemen-te era giusto così: era arrivato il momento dell’esplosione.Uso questo termine forte in quanto i turchi stessi sono ri-masti scioccati dalla potenza con cui si sono manifestatecontemporaneamente queste potenzialità finora inespresse

La potenza della ricerca di libertà

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dalle generazioni più giovani. Questo risveglio ha dato an-che maggior fiducia agli adulti e ai più anziani che si sonouniti immediatamente a sostegno dei propri ragazzi.

La politica discussa negli spazi pubblici: dopo lo sgombero di GeziPark le persone stanno continuando a riunirsi in altri parchi piùpiccoli in tutta la città. Avete partecipato a questi incontri? Di checosa si discute? Si ha una vaga idea di come organizzarsi pratica-mente per avere una reale rappresentanza politica che rispecchi ilpensiero del popolo?

È veramente difficile potersi immaginare cosa accadrà nelfuturo prossimo. Non è certo una soluzione quella della ca-duta del governo Erdogan. Ora è il momento di pensare inmaniera propositiva e cercare di capire come e quale dovràessere il modo di avere un contatto più diretto e partecipa-to a livello governativo. Si stanno facendo sondaggi per ca-pire quale potrebbe essere un sincero rappresentante delmovimento e si discute di cambiare il sistema elettorale(che oggi prevede una rigida soglia di sbarramento naziona-le al 10%). Durante le riunioni nei parchi, tuttavia, si solle-vano anche questioni più pratiche circa la gestione del suo-lo pubblico e la gentrificazione di molti quartieri al centrodella città. Si parla e si cerca il dialogo con le minoranzecurda e rom. Ci si autocritica: emblematico il caso dei car-telloni con pesanti insulti contro il primo ministro e la suafamiglia, che sono stati subito censurati da un gruppo di

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femministe le quali hanno commentato il loro gesto dicen-do: «La resistenza si fa con l’insistere e il perdurare, noncon l’insultare l’oppositore».Staremo a vedere quel che questo risveglio di massa andrà acreare. Noi siamo fiduciosi e continuiamo a ripeterci che,arrivati a questo punto, non si può che continuare a saliregrazie alle nostre capacità creative improvvisamente risve-gliate.

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Remixtenza

Video virali vs censura mediatica

Sena Basoz

La sera del 2 giugno uno dei maggiori canali televisiviin Turchia (la Cnn Turk) ha mandato in onda un docu-mentario naturalistico sui pinguini mentre il piùgrande movimento di protesta civile degli ultimi

vent’anni stava affollando le strade principali della parte eu-ropea della città di Istanbul. Allo stesso modo le altre televi-sioni, come Ntv, Haber Turk e Trt hanno seguito il palinsestoprestabilito da tempo senza interrompere nessuna trasmis-sione per mandare in onda una cronaca degli eventi stanbu-lioti.I canali sopra citati hanno mantenuto lo stesso tipod’atteggiamento informativo anche la mattina del giornosuccessivo. Quando le notizie sulla protesta di piazza hanno

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iniziato a diffondersi, lo scandalo si è fatto palese: i telegior-nali turchi hanno cominciato a fornire informazioni mol-to, troppo sommarie sui fatti e a manometterle, creando unquadro poco attinente alla realtà dei fatti.Personalmente posso affermare che la censura attuata daimedia in questo contesto mi ha dato la terribile sensazionedell’impossibilità di urlare quando ci si trova in un incubodal quale è difficile svegliarsi. Una condizione schizofrenicasi è impadronita di me: essere testimone diretto degli eventie rendermi conto di quella che è la realtà dei fatti, ma anchedi come questi vengano manipolati da quelli che dovrebberoessere i canali diretti d’informazione, fa andar fuori di testa.A un certo punto, paradossalmente, i miei amici che vivonoin paesi stranieri, grazie ai social network, erano più in-formati dei miei genitori che vivono pochi chilometri fuoriIstanbul.Durante la protesta molti movimenti, solitamente frammen-tati e rivali tra loro, hanno iniziato ad agire tutti assieme perla prima volta: i nazionalisti, i kemalisti, i curdi, il movimen-to Lgbt, i musulmani anticapitalisti, le tifoserie delle mag-giori squadre di calcio... Allo stesso tempo una crepa allar-mante ha cominciato ad allargarsi tra il partito di maggio-ranza al governo, l’Akp, i suoi sostenitori e l’opposizione. Ameno che non ci si trovasse fuori, sulla strada, o tramite lepiattaforme multimediali, non si poteva avere una visioneeffettiva e reale della protesta. La mancanza diun’informazione televisiva diretta ha giocato un ruolo deci-

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sivo nel provocare un’ulteriore spaccatura nel popolo per-ché ha creato un ambiente nel quale era impossibile si for-masse un’empatia di collaborazione indiretta. Questa sortadi polarizzazione della popolazione è uno dei problemi oggipiù urgenti da risolvere in tutta la Turchia.Le persone hanno cercato di resistere alla censura dei medianazionali inscenando proteste anche davanti alle sedi delletelevisioni e mediante vignette o video di satira diffusi tra-mite i social network. Ci sono stati casi di persone che hannotentato di sabotare i programmi in diretta: una signora ospi-te del programma Doktorum (Il mio dottore) ha chiesto di far-si prescrivere una cura speciale per la sua emicrania diven-tata davvero insopportabile negli ultimi dieci giorni di occu-pazione del parco, poi la paziente occasionale ha iniziato aparlare della situazione all’interno di Gezi Park.Un’altra risposta alla censura mediatica è stata quella dei co-siddetti video remixati. Il neologismo remixaggio sta a indi-care una vera e propria tecnica di rimontaggio per cui ven-gono prese immagini di ciò che si vuole contestare e le si ri-propone con una logica narrativa diversa entro la quale so-no inseriti altri frammenti visivi. Molti video di propagandagovernativa vengono così riutilizzati e trasformati in mate-riale di resistenza.Molti remix sono video di protesta contro la disinformazio-ne che viene utilizzata e rimontata per creare invece infor-mazione. Come risposta al documentario sui pinguini man-dato in onda dalla Cnn il 2 giugno, ad esempio, un paio di

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remix video mandati in onda online riportavano filmati dipinguini con il logo della Cnn turca: le immagini però era-no supportate da un audio che riportava i suoni degli scon-tri tra i contestatori e la polizia. Così la visione di una focache attacca un pinguino è stata sincronizzata con il rumoredi una formazione di poliziotti che attacca i manifestanti.

CNN Turk’s Penguin Documentary Remixed; https://www.youtube.com/watch?v=ez8ZlSwB4N4 https://www.youtube.com/watch?v=SXJHNLEyuiI

Un altro remix è stato il video di Nefes Al intitolato Take aBreath: una combinazione di video giustapposti di quello chei media nazionali mandavano in onda o scrivevano sui gior-

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nali e quelle che erano le notizie reali diffuse tramite i socialnetwork. Quello che l’artista vuole mostrare è la profonda eincredibile discrepanza tra i mezzi d’informazione ufficiali enon.

Nefes Al, “Take a Breath” (subtitled): http://vimeo.com/69011454

Per il grosso flusso d’informazioni e il ritmo veloce con cuigli eventi si sono susseguiti nei primi giorni di giugno, questivideo sono stati creati molto velocemente. Poco dopo il di-scorso del sindaco di Istanbul, Hüseyin Avni Mutlu, mandatoin onda sui canali nazionali il 15 giugno (nel quale il primocittadino cercava di spiegare come gli interventi della po-lizia non fossero poi così pesanti come invece mostravano

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i video amatoriali sulle piattaforme social), un video viraleha iniziato a girare su Facebook: il filmato è un montaggiodell’intervento del sindaco con immagini del programmaper bambini Teletubbies dove quattro piccoli alieni multico-lorati vivono in un mondo allegro dove splende sempre unsole che ha il sorriso e la gaiezza di un bimbo di pochi mesi.

Mutluyum, “I am Happy” (subtitled): https://www.facebook.com/photo.php?v=10151624538917171&set=vb.502437170&type=2&theater

Anche il sindaco della capitale turca, Melih Gökçek, ha ten-tato di utilizzare i video virali per una propaganda pro Akppubblicando un filmato in cui condanna e minaccia i cosid-detti «stranieri», che secondo lui avrebbero fomentato i tu-

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multi in tutta la nazione, e dedica loro la canzone intitola-ta Kendim Ettim Kendim Buldum, la cui traduzione suona più omeno come: «L’ho fatto a me stesso e ora ne sto soffrendo».Ma subito il suo vano tentativo si è rivoltato contro di lui inquanto il suo video è stato trasformato e il primo cittadinodi Ankara si è visto trasformare in un dj che ogni volta chepreme il tasto del suo computer per avviare la canzone nemanda in loop tante altre, o montaggi audio che riprendonoframmenti di discorsi dei politici dell’Akp musicati grazie aprogrammi di editing. Questa semplice manipolazione sono-ra ha fatto sì che il significato iniziale fosse completamentericonvertito, per cui un video che doveva cercare di persua-dere le persone grazie a un tono forte e sicuro è diventatoun filmato virale che in mille modi ne scardina il significatoprimo e porta anzi a vedere anche l’originale secondo la lo-gica della presa in giro.

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Melih Gökçek ile Şarkı Göndermece, “Sending Songs with Melih Gokcek”:https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=phg-M3WnxCo

Everyday I’m Chapulling riprende il video del gruppo musicaleLmfao Everyday I’m Shuffling e tramite un abile fotomontag-gio sostituisce i volti dei due cantanti con quelli del primoministro Erdogan e del sindaco Mutlu. In modo autoironicosi gioca sul termine çapulcu (straccione, nullatenente, ladro)con il quale il primo ministro ha designato tutti i manife-stanti. Grazie a una riappropriazione di tale parola si sonocreati slogan, canzoni ed è stata operata una riconversionedel termine per cui i contestatori si sentono ora fieri di chia-marsi tra loro çapulcu.

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Everyday I'm Çapuling: http://www.youtube.com/watch?v=b6tny62zXv4

Tutti questi video virali sono stati prodotti per una necessitàimpellente. Ma possono definirsi opere di videoarte (comealcuni hanno cercato immediatamente di definirli)? Nel suosaggio Art and Propaganda William Pickens sostiene che lapropaganda è stata sempre terreno fertile per lo sviluppodell’arte. Pickens ritiene che l’opera d’arte abbia uno scopopropositivo, e tutti i video virali sopra menzionati soddisfa-no appieno questo criterio in quanto sono stati creati conuno scopo ben preciso. Pickens, inoltre, sottolinea la diffe-renza che intercorre tra un elemento artistico e un elemen-to di propaganda all’interno di un’opera d’arte e scrive che

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mentre il primo è destinato a perdurare nel tempo in quan-to eternamente apprezzabile perché legato a un’estetica tra-scendente, il secondo è legato molto di più all’immanenzadel fenomeno politico. Quindi potrà definirsi davvero un la-voro artistico ciò che rimarrà anche oltre il tempo della ma-nifestazione e della propaganda. Questi video verranno am-mirati anche in un prossimo futuro? Ce ne sarà almeno unodestinato a perdurare nel tempo quanto Guernica di Picasso?L’elemento propagandistico è davvero forte nei lavori sopramenzionati: l’arte viene surclassata dalla contingenzadell’evento politico. C’è da sottolineare tuttavia che la pro-duzione di filmati in questo contesto non si sta fermando, echissà a cosa potrà portare tutto ciò.Il fatto poi che questi video siano diventati veri e propri ele-menti di consumo non è da sottovalutare. Il consumo e l’usoche se ne fa, tuttavia, è estremamente collettivo e ha comepresupposto la condivisione: non esistono nomi che preten-dano un riconoscimento o loghi che sottolineino la proprie-tà intellettuale dei video o dei fotomontaggi. Si è consci delfatto che i prodotti sono di pubblico dominio e che verrannosicuramente a loro volta rimanipolati.La produzione creativa al di fuori di quello che è il mercatodell’arte ufficiale si avvicina molto a quello che è stato il mo-vimento dei graffiti ai suoi esordi: presenta anche il mede-simo rischio nel quale è incappata l’arte dei writer, ovveroquello di essere a poco a poco inglobata dalla piattaforma ar-tistica predominante (come mostra il celeberrimo docu-film

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distopico realizzato da Banksy e intitolato Exit Through theGift Shop).La XIII Biennale di Istanbul si inaugura a settembre. Il tema?L’arte nello spazio pubblico (siamo tutti molto curiosi di sa-pere come verrà trattato!). Alcuni sostengono che una simi-le Biennale sarà obsoleta dopo il movimento di resistenzacreativo che ha preso piede dall’occupazione di Gezi Park: iosono interessata a capire quanto questo sarà rappresentatoall’interno di tale evento artistico ufficiale.Il rischio di un sovraccarico di informazioni sui social mediac’è e si percepisce, soprattutto quando gli eventi si susseguo-no in modo molto rapido e ricco di fatti. Spesso si superanoquelli che sono i limiti della capacità percettiva del cervelloumano. La domanda è: in quale modo noi cogliamo i messag-gi proposti da queste migliaia di video?La condizione in cui lo spettatore «consuma» il video viralepuò essere confusa con l’atteggiamento distratto di cui parlaWalter Benjamin a proposito di ciò che succede quando su-biamo in modo passivo le immagini durante una proiezionecinematografica, per cui la nostra reazione risulta in un cer-to senso progressivamente ritardata. In realtà colui cheguarda un video virale viene a trovarsi in uno stato di con-centrazione molto intensa, dovuta alle emozioni che si pro-ducono nel breve lasso di tempo della durata del video. Inol-tre il ruolo dello spettatore risulta essere molto più attivo siaper la breve durata dei montaggi, sia per i riferimenti ad al-tri filmati virali che generalmente si trovano sulle pagine o i

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siti Internet su cui sono stati caricati i prodotti audiovisivi. Iltempo e gli spazi multimediali d’utilizzo di un singolo videopossono essere gestiti in maniera molto libera.Alzarsi la mattina e leggere le notizie sui social network, in-vece di andare a comprare e leggere i giornali, è diventatauna nuova abitudine già assai comune, soprattutto per lenuove generazioni. I video virali sono anch’essi una fonteentro questo enorme flusso di informazioni: ora più che maiquesto tipo di canale di notizie si è incorporato attivamentenelle nostre vite.

BibliografiaW. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilitàtecnica (1936), Einaudi, Torino, 1966.W. Pickens, Art and Propaganda. Extract from The Messenger(1924), cit. in S.K. Wilson, The Messenger Reader, RandomHouse, New York, 2000.

Altri percorsi di lettura:

Franco La CeclaUna protesta urbana

Turgul ArtunkalDemocrazia islamica

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POESIA

Non come vita

Gilda Policastro

Estate

Bambina ti levavodai seni gli occhiNella riproduzione delle macchiea seguirel’impietà di guardarele masse colliquate intattedall’erbitux

Inertinel dolore inconvertibileti poso addosso le ditaper la misurazione delle masse(coi tronchi meno grossi si fanno i coperchi delle casse)

Non come vita

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Filamenti d’ovatta mentre ti lavoi capelli e ben bene sotto le braccia(le masse denutrite non proliferano in meno

di sei/dodici mesi nel quaranta per cento dei casi)Godere in analettico confortoanche di cose qui per noi indifferentissime(sfilaccia, l’acqua, l’ovatta, prendimi per favore dell’altra acqua)

E poi mai più,che lavorarestanca le massee il contenimento è il vero successo,in oncologia

Questanon sei tu:– Non il bene vecchio ma il cattivo nuovo,una massima di B., diceva B.*:

*Brecht; Benjamin.

Non come vita

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Fili

a chi parlano la gente ai telefoni a chi dice, leisei come un domatore: prima la frusta e poi lo zuccherinoa quali fili sono appesi quando si muovono nella danzaquelli che aspettano treni che volano aerei lontanicom’è inspiegabile i fili che tengono insieme che ti staccanogli altricerti, vivono di comunicati arrivi e partenze e interferenzeho fatto il numero per sapere come stavi,ma ho messo giù perché se c’eri non lo davi a –quelli che non ci sono telefonano di continuoa tutte le ore hanno bisogno di direpensavo che non ce l’avresti fatta a sopravvivereti faccio le mie condoglianzeti sei rifatto una vita, meno malecoi morti per essere buonibisogna essere duri dentroal telefono le pause sono mortali quando si parla di noinon dire niente agli altri, non capirebbero

Bill Viola

Avvicinati, più lentoe dimmi cosa vedi La madre, vedo lui,non vedo nessuno,l’acqua, il fuoco, vedo chi li ricevee i morti e i vivicapovoltinel riflesso che appare

Non come vita

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Andiamo, andiamo pianopassiamo attraversoe guardiamo com’èil corpo ch’è mosso,per finta, a far fine

quando muore,lo guardano altrie da lontano tuttipiù lenti di così,molto di menoci vannoaccanto,dondolandosi piano

Prendi quei due, sembrano vivi e sononell’acqua ch’è mossa non dai fiatima da come li vedi,piano, andandoaltroveche è fine, e ricomincia, per tutti,piano

Hora

E chi si muove da terra Si sta così bene[Non si sente dolore, non si sente niente

Così vivono quegli altri, strisciando Senza illusioni[Già pronti al ritorno

È bello qui Non si deve andare da nessuna parte[Si può rimanere fermi, e aspettare

Non come vita

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Oppure anche solo rimanere fermi Stare così[Insomma, senza attività

Quale sarebbe poi l’alternativa Andare in ospedale,[oppure______a quella cena di amici

No, rimanere è senz’altro meglio Rimanere senza[aspettare, senza andare,

rimanere col dolore, e a poco a poco sperare,[sperare che vada via, ricominciare a respirare, ma senza

la pretesa di alzarsiha una sua logica, è ordinato, risponde

[a uno schema Lo schema dello stare, del rimanere Senza agitarsi, senzasmanieQuanti ora, a parte quegli altri, sono lì, in questa

[posizionea fare questa cosa che non è un’attività, è solo stareProbabilmente non tanti, ma qualcuno sì, qualcuno

[è a terra, così, stesocoi palmi delle mani che aderiscono al pavimento

Stare quiperché nessuno te lo chiede, nessuno se lo aspetta, anzi,qualcuno vuole che ti alzi, e, se stai male davvero, in ospedaleMa se non stai male, allora, c’è quella festa a cui bisogna subito andare

Cambiarsi d’abito, mettersi il trucco giusto,le scarpe abbinate, il cappotto figoAndare, andare subito,

guardare gli altri con la faccia opportuna,con le parole intonate, la rilassatezza domenicaleSorridere, sorridere

anche col dolore allo stomaco, che se era un dolore serioa quest’ora ti trovavi in ospedale, invece sei lì,e allora puoi sorridere, rilassarti, goderti il vino, che al tuo stomacoè come un colpo di frusta sulla schiena di un cavallo

Le tartine,mangia le tartine, hai ancora mal di stomaco, poi passa

Non come vita

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Ma no, sento come un tappo,una puntura, non va giù nulla,nemmeno l’acqua Mangia, guarda che poi i vestiti ti cadono di dossoe non è normale Devi mangiare, dice così,vuole che mangi, mangia E turimani sdraiato, distesocoi palmi a terra, dove non devi mangiare, non devi ridere,non devi essere alla festa, non devi Puoi rimanere così,sdraiato E chi si muove da terra

Si sta così bene:non si sente dolore, non si sente niente

Così vivono quegli altri, strisciando:senza illusioni, già pronti al ritorno È bello qui:non si deve andare da nessuna parte

Si può rimanere fermi, e aspettareoppure anche solo rimanere fermiStare così Senza illusioni Già pronti al ritornoÈ bello quiNon si deve andareda nessuna parte Si può rimanere fermi,e aspettare

Si sta così beneNon si sente dolore,non si sente niente

Gilda PolicastroNon come vitaAragno, «i domani», 2013, 98 pp., € 10,00

Non come vita

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ilRACCONTO

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Copi

Ero seccato con il mio editore perché voleva per forza farmiaggiungere un racconto alla raccolta: sette secondo me eraun numero che portava male; d’altra parte erano raccontipiuttosto «esili», come si suol dire, e non bastavano a rag-giungere un numero di pagine decente per un libro. Gli pro-posi delle poesie che avevo scritto in gioventù; le rifiutòeducatamente, adducendo la scusa che in linea di massimauna raccolta di racconti dovrebbe contenere solo racconti. Eillustrazioni? Da qualche parte, in un cassetto, avevo anco-ra alcuni miei vecchi disegni, potevamo servircene per rim-polpare la raccolta, magari ritagliando le singole vignette eingrandendole in modo da riempire con ognuna un’interapagina. Il che avrebbe ridotto notevolmente il mio lavoro.L’editore mi fece notare che quei disegni erano passati dimoda, invece si aspettava grandi cose dal mio talento lette-rario. Avevo già sbagliato diversi romanzi, insistetti, e poi

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non avevo la benché minima idea per un racconto, ecco tut-to.Riattaccammo, salutandoci da buoni amici. Era almeno daun anno e mezzo che non mi veniva un’idea per un racconto,quelli che gli avevo rifilato al momento di firmare il contrat-to li avevo ricavati da vecchi numeri di «Hara-Kiri» e non nericordavo né l’argomento né il titolo, con ogni probabilità sitrattava di quel genere di racconti che si scrivono in fretta efuria per arrivare a fine mese quando si è a corto di marijua-na.All’inizio di luglio mi imbattei nel mio editore in una disco-teca gay del nostro quartiere. Ci ritrovammo a ballare il twi-st uno di fronte all’altro. Il mio editore è più alto di me, sem-bra Sylvester Stallone.«Che ci fai qui? Ti credevo alle prese con il racconto.»«Che racconto?»«L’ultimo racconto per il tuo libro. Devo consegnarlo al tipo-grafo entro il 15, sennò poi iniziano le vacanze e non sarà piùpossibile farlo uscire a ottobre, e per l’anno prossimo non honeanche un buco!»Ce ne andammo al bar a bere una birra in lattina. Eravamovenuti a rimorchiare ognuno per conto proprio, e per en-trambi quell’incontro era una vera rottura di scatole, soprat-tutto con quella storia del racconto.«Non è che per caso hai un’idea per un racconto?» gli chiesi.

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Mi guardò perplesso. Gli passai lo spinello, che per qualchesecondo assorbì tutte le sue energie. Alla fine se ne uscì conuna vera perla di saggezza:«Qualsiasi idea è buona per un racconto.»«Vedi che mi tocca sentire da un editore!» esclamai, anchese in fondo ne ero convinto anch’io. E visto che l’idea gli erapiaciuta, insistette:«Un editore e uno scrittore che si incontrano per caso in di-scoteca: puoi iniziare così.»«E poi, che ci succede? Ce ne torniamo a casa insieme? No, ciconosciamo da troppo tempo.»«E se io ti uccidessi perché non hai scritto il racconto, nonsarebbe un buon soggetto?»«E poi chi lo scriverebbe, questo benedetto racconto?»«Io!»Non sopporto l’umorismo di Jean-Pierre. Erano le tre e mez-za del mattino e non c’era più nessuno di rimorchiabile. Era-no rimasti solo tre o quattro intellettuali che, affascinati dal-le nostre chiacchiere, non staccavano le chiappe dagli sga-belli del bar. Al piano di sotto una decina di analfabeti si sba-ciucchiavano, ciucciandosi i baffi nell’oscurità.«Questo posto fa schifo.»«Tu devi arrivare ad Anvers, no? Io a Blanche.»«Andiamo a bere un ultimo bicchiere in place Pigalle, che èa metà strada.»Scendemmo le scale per raggiungere l’uscita.

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Il guardarobiere non c’era. Gli lasciammo sul bancone i nu-meri e due monete da dieci franchi e riprendemmo dallegrucce i nostri giubbotti di pelle. Tirammo su la cerniera fi-no al mento, temendo la rugiada parigina che minaccia lagola delicata dei nottambuli. La porta d’ingresso era spran-gata.«Sarà andato a fare una marchetta.»«Non è un buon motivo per chiudere a chiave la porta.»«Ha in custodia una decina di giubbotti di pelle, un patrimo-nio.»In una tasca del mio giubbotto trovai due spinelli già rollati.Ce ne accendemmo uno a testa per coprire l’odore dei pop-per.«Guarda che dico sul serio, quel racconto mi serve. È in giocoil futuro della mia casa editrice», sparò. «Sei la mia Virgi-nia Woolf. Potresti leggermelo al telefono nel fine settima-na, oppure lasciarmelo nella segreteria telefonica.»«Ti ho già detto che non ho la minima idea per un racconto,Jean-Pierre, non insistere!»Da fuori bussavano forte alla porta.«È chiuso!» gridammo.«Ma che fine ha fatto il guardarobiere?»Risalimmo le scale della discoteca. Dietro il bancone il bar-man non c’era più. Mi girai verso una vecchia checca islan-dese che mi era stata presentata diverse volte al Flore, quan-do ancora bazzicavamo Saint-Germain-des-Prés.«La porta d’ingresso è chiusa.»

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«E allora?»«Non possiamo uscire.»«Uscire, e perché? Non vi piace qui?»Decidemmo di andare a cercare qualcuno del personale alsecondo piano, dove ci sono i bagni e la famosa cameraoscura che qui, come a New York, tutti chiamano “The dar-kroom”.Né io né lui avevamo voglia di farci palpare da persone di cuinon saremmo riusciti a distinguere nemmeno il colore dellaparrucca, tanto più che all’epoca eravamo tutti preoccupa-tissimi per le cosiddette malattie sessualmente trasmissibili,di cui si faceva un gran parlare.«Rinchiudono i clienti nella discoteca e se ne vanno al se-condo piano a farsi spompinare!»«Potrebbero almeno andarci a turno!»Salimmo al secondo piano.«Vai a dare un’occhiata nella dark», mi disse Jean-Pierre, «iovado a vedere in bagno.»All’ingresso del secondo piano ci separammo. Io mi avventu-rai nella darkroom, cercando di tenermi alla larga da quellamassa umana dalle mille mani rapaci.«Ci sono per caso il guardarobiere o il barman?» ripetei va-rie volte a voce altissima. Nessuna risposta, a parte rumoriripugnanti tipo un cigolare di catene e il cic-ciac di quelliche si inculavano. Raggiunsi Jean-Pierre in bagno. Lo trovaiin piedi, appoggiato alla parete. Aveva un coltello da cucinain mano e gli avambracci che grondavano sangue. Le ginoc-

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chia gli tremavano, stava per svenire. Senza pensarci troppogli diedi uno schiaffo. Lui si riprese così in fretta che me lorestituì subito, insudiciandomi la faccia di sangue. Il barmanera seduto sul water, con i pantaloni calati e la testa rove-sciata all’indietro. Da un’ampia ferita che gli solcava la golasgorgava una marea di sangue che ricadeva a fiotti nella taz-za tra le sue gambe. Non avrei mai creduto che un barmanpotesse contenere tanta emoglobina. Sentii la vista che mi siannebbiava; stavolta fu Jean-Pierre a soccorrermi: mi preseper le ascelle, mi trascinò fino al lavandino e mi mise la te-sta sotto il getto di acqua fredda. In quel momento entrò lachecca islandese che si mise a gridare come un’ossessa. Jean-Pierre cercò di calmarla, ma riuscì solo a macchiarle la cami-cia di sangue. Lei, in ginocchio, supplicava:«Abbiate pietà, vi prego! Sono padre di famiglia!»Attirate da quella sarabanda, vennero a unirsi alla festa an-che le checche che stavano nella darkroom. Urlavano e ina-lavano popper. La cosa che le spaventava di più non era lavista del barman trucidato, bensì noi due, perché era chiaroche ci avevano scambiato per assassini. Una di loro prese ilcoltello e lo avvolse nel suo foulard di seta per non cancella-re le impronte digitali; i masochisti misero a disposizione leloro catene per legarci, anche se nessuno aveva il coraggiodi avvicinarsi troppo a noi.«Non siamo stati noi», balbettò Jean-Pierre senza perdere lacalma. «Se ci credete colpevoli, chiudeteci nella darkroom easpettate che arrivi polizia.»

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«Non vedete l’ora di levarvi di torno, vero?» gridò qualcuno.«Anche voi, mi pare», rispose Jean-Pierre.«Tenga a freno la lingua, signore! Non dimentichi che ri-schia di finire sulla ghigliottina!»La checca islandese diede a intendere di essere stata testi-mone oculare del delitto; giurava e spergiurava di essere sta-ta minacciata da Jean-Pierre con il coltello. Ci spinsero versola darkroom con la punta delle dita. Le più cattive ci sputa-rono addosso mentre passavamo, ma ci fu anche una buonasamaritana che andò al bar a prenderci due birre prima checi rinchiudessero.Il problema era riuscire ad avvertire la polizia senza metterein allarme i vicini; i fili del telefono erano stati tagliati, laporta d’ingresso era sprangata e l’unica finestra, che si tro-vava proprio nella darkroom, era al secondo piano. Ci inti-marono di non cercare di avvertire i vicini se non volevamopeggiorare la nostra situazione. Ma noi avevamo più pau-ra dei vicini che della polizia. Pensavamo, non a torto, cheun qualsiasi ragazzino munito di Kodak avrebbe potuto fa-re fortuna immortalando quella danza macabra. Notammoche la porta della darkroom si apriva verso l’esterno e chela serratura era tenuta insieme da un’unica vite traballante.Jean-Pierre, che era abbastanza robusto, avrebbe potuto, almomento buono, farla saltare con una spallata. Aprimmo leimposte della finestra e la luce della luna inondò la stanza incui fino ad allora aveva sempre regnato il buio pesto. Era uncubo di circa cinque metri di lato. Sul pavimento luccicante

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di sborra c’erano bottiglie di birra, un dildo, un impermeabi-le.«Chissà cos’è che li fa eiaculare tanto?» si chiese Jean-Pierread alta voce.«Perché hai preso in mano il coltello?»«Non lo so, è stato un gesto istintivo. Aveva il coltello pian-tato nel petto; forse ho pensato che gli avrebbe dato sollievoo che, magari, lo avrebbe riportato in vita.»«Un istinto da intellettuale! Voglio vedere come lo spieghe-rai alla polizia!»«Secondo te, l’ha chiusa l’assassino la porta d’ingresso?»«Impossibile. Siamo stati i primi ad accorgerci che eravamoprigionieri.»«Quando abbiamo deciso di uscire, il barman era ancora die-tro al bancone?»«Certo, abbiamo pagato a lui.»«Quanto tempo siamo rimasti giù?»«Il tempo di farci uno spinello parlando di Virginia Woolf.Non meno di quattro minuti! L’assassino ha avuto tutto iltempo di commettere il delitto. Ma ha fatto un tale macelloche avrebbe dovuto essere coperto di sangue dalla testa aipiedi.»Jean-Pierre andò a prendere l’impermeabile rimasto per ter-ra e lo guardò alla luce della luna che filtrava dalla finestra.Era inzuppato di sangue. L’assassino doveva essere per forzauno di quelli che stavano nella darkroom quando abbiamoscoperto il corpo. Li passammo mentalmente in rassegna

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uno per uno. Non riuscivamo proprio a immaginare che traquegli esseri senza qualità, che avevano il coraggio di espri-mersi liberamente solo alle quattro del mattino, travestiti enell’oscurità più totale, si nascondesse un assassino.«Un assassino deve avere sangue freddo!»«E nervi d’acciaio!»«Ma perché non è scappato?»«Che domande! Ha trovato la porta chiusa.»«E allora chi ha chiuso la porta?»«Il guardarobiere. Qui dentro non c’è da nessuna parte, pro-babilmente se n’è andato prima che venisse commesso il de-litto. È molto probabile che tra i due fatti non ci sia nessunrapporto.»L’idea di un gruppo di checche chiuse a chiave in una disco-teca aveva tutta l’aria di una burla, ma il delitto era un delit-to vero, un delitto atroce.«Secondo me è stata la vecchia islandese», disse Jean-Pierrecon aria di mistero mentre si accendeva una sigaretta.«Ma è l’unica ad avere un alibi. Non dimenticare che quandosiamo rientrati nella discoteca era seduta al bancone del bar;siamo stati noi a dirle che la porta era chiusa a chiave.»«Appunto, altrimenti se ne sarebbe andata tranquillamen-te!»«E avrebbe ucciso il barman mentre noi stavamo chiacchie-rando all’ingresso?»«Il delitto è stato commesso in pochissimo tempo. La checcaislandese deve averlo seguito quando è salito al secondo pia-

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no per fare i suoi bisogni, nel preciso istante in cui noi cene siamo andati. Era seduto con i pantaloni abbassati, com-pletamente indifeso. L’islandese lo sgozza senza difficoltà epoi gli pianta il coltello nel petto. Lascia l’impermeabile nel-la dark, si lava le mani e torna al bar dove l’abbiamo trova-ta.»«Poi è risalita e ci ha trovato in bagno accanto al cadavere!»«È uno squilibrato, ma ha ideato un piano diabolico.»«Uno di quegli emarginati convinti che gli omosessuali sianol’incarnazione del demonio. Ma perché il barman? Di tuttinoi era l’unico a non avere proprio niente di diabolico, erasolo un barman. Ma forse non era un barman come gli altri.»«Lo conoscevi da molto tempo?»«Da parecchio, ma solo di vista. Se non sbaglio, vent’anni falavorava alla Pergola. Ma era una persona discreta, a stentosalutava.»«Io lo conoscevo bene», mormorò Jean-Pierre.Rimasi sorpreso dalla sua dichiarazione. Jean-Pierre era se-duto sul davanzale della finestra; teneva la sigaretta fra lelabbra ma non aspirava. Nella luce della luna il fumo sem-brava immobile. C’era una calma irreale. Forse stavo solo so-gnando.«Jean-Pierre, non è che… voglio dire, non è che per caso haiperso la testa e… e l’hai UCCISO?»«No», disse Jean-Pierre, «ma avrei dovuto. Avrei dovuto uc-ciderlo un sacco di tempo fa.»

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Il tono con cui me lo disse mi fece correre un brivido lungola schiena.«In una discoteca come questa», continuò, «tutti i clientihanno qualcosa da nascondere, basta capire cosa.»«Jean-Pierre, mi dispiace di aver pensato che… voglio dire…»«Non ti preoccupare», tagliò corto. «Io stesso, per una fra-zione di secondo, ho creduto di essere un assassino. Nonpuoi capire fino a che punto si può odiare un ricattatore.Stasera avevo appuntamento con lui, pretendeva che gliconsegnassi un somma di denaro che era decisamente al disopra delle mie possibilità, a meno di non sbarazzarmi del-la casa editrice. Gli ho chiesto una proroga di una settimana,giusto il tempo per ottenere un prestito in banca, ma lui èstato inflessibile. Domani avrebbe reso pubblici certi docu-menti che mi riguardano, documenti che mi avrebbero scre-ditato agli occhi di tutti.»Quelle parole stuzzicarono la mia curiosità.«Jean-Pierre, ti giuro che non lo dirò mai a nessuno, macos’hai da nascondere di tanto importante?»«Ho ucciso un uomo.»Azzardai: «Chi era?»«Un barman.»Mi chiesi se fosse uno scherzo.«Quanti barman hai ucciso in vita tua?»«Uno solo. Avevo quindici anni.»

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Sentii un tale turbamento nella sua voce che ebbil’impressione di aver risvegliato con le mie domande ungrande dolore sopito, così preferii non aggiungere altro.Da dietro la porta ci giunsero delle grida. Ci precipitammo aguardare, io dal buco della serratura, e Jean-Pierre, che è piùalto, dalla feritoia che si apriva nella porta.I bagni si trovavano proprio di fronte alla darkroom e dava-no sullo stesso pianerottolo in cima alle scale. Quattro chec-che a torso nudo ne trascinavano un’altra per i piedi. Quellasi dibatteva con tutte le sue forze, nonostante le catene chele tenevano stretti polsi e caviglie. Era l’islandese!«L’hanno capito da soli che era lui l’assassino…»«Dobbiamo fermarli!» esclamò Jean-Pierre.Gli impedii di buttare giù la porta.«Speriamo piuttosto che si dimentichino di noi!»L’islandese venne sgozzato in quattro e quattr’otto e gettatonel bagno accanto al barman, dove non potevamo vederlo.Mi sentii mancare, e corsi alla finestra per prendere unaboccata d’aria. Due grosse auto nere stavano parcheggiandocontemporaneamente lungo la strada. Da ognuna uscironoquattro uomini.«Jean-Pierre, è arrivata la polizia!»«Non è possibile, i poliziotti non indossano maschere!»E che maschere! Erano fatte con piume di tutti i colori.«Sembra una compagnia di musical.»«Ma chi sono?»

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«Forse è solo una comitiva che ha voglia di fare baldoria enon ha trovato altri locali aperti a quest’ora a Parigi. Ma co-me mai hanno la chiave?.»«Te l’avevo detto che non c’era nessun rapporto fra la portachiusa e l’omicidio del barman.»«Non è possibile!»«Lo scopriremo presto!»Tornammo alla porta della darkroom per vedere cosa stavasuccedendo nei bagni. Gli assassini dell’islandese si erano in-ginocchiati e pregavano.«Una setta?»In quel momento il crepitio di una mitragliatrice li fece sob-balzare. E fece sobbalzare anche noi. Ebbimo tutti la stessareazione: ci stringemmo l’uno all’altro.Due donne nude con maschere di piume sulla faccia (due in-diane?) e in pugno delle mitragliatrici leggere fecero irru-zione nei bagni.«Per la liberazione delle lesbiche cubane!» gridò una delledue mentre l’altra apriva il fuoco sulle checche inginocchia-te, che caddero le une sulle altre come tante bambole.Fortunatamente per noi le lesbiche cubane non immagina-rono che dietro la porta chiusa ci fosse una darkroom, pro-babilmente pensarono si trattasse di uno sgabuzzino. An-dammo alla finestra e le vedemmo uscire dalla discoteca conindosso gli impermeabili e le maschere di piume. Dal modoin cui aprirono e chiusero le portiere ci sembrò che avesseromovenze tipicamente femminili. Le due macchine partirono

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a tutta velocità. Nell’edificio di fronte qualche finestra si il-luminò.Jean-Pierre si gettò con tutto il suo peso contro la porta, chenon oppose alcuna resistenza, tanto che lui si ritrovò a terrasulla porta scardinata. Lanciò un grido di dolore: si era lus-sato il mignolo della mano sinistra. Scendemmo di corsa lescale. Al primo piano trovammo altri sette ex clienti della di-scoteca sparsi tra i tavoli e la pista da ballo, un altro cadave-re sbarrava le scale dell’ingresso. Lo scavalcammo. La portaera spalancata. Risalimmo rue Pigalle. Albeggiava. Nella zo-na l’unico bar aperto era La Nuit. Alcuni travestiti del terzomondo chiacchieravano con i loro magnaccia. Ci sedemmo aun tavolino in fondo alla sala e ordinammo una bottiglia diVeuve-Clicquot, come vedemmo fare dagli altri.«Donne? Lesbiche cubane!»Considerata la loro situazione, si capiva che fossero fanati-che, ma di lì a prendersela con una discoteca gay di Pigal-le… non aveva senso. Niente in tutta quella storia sembra-va rispondere a una logica. Potevi rigirarla come volevi, mail puzzle restava sempre incompleto. Durante il primo attoavevamo chiacchierato vicino al guardaroba, durante il se-condo avevamo discusso nella darkroom. In fondo, non ave-vamo la più pallida idea di cosa ci fosse sotto veramente!Jean-Pierre andò a telefonare a «France Soir» dove aveva deicontatti. Tornò al tavolo con un sorriso a trentadue denti.

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«Nessuno ci capisce niente. Attribuiscono tutti i delitti allelesbiche, anche l’omicidio del barman e quellodell’islandese.»«Ma loro chi sono?»«Quanto a questo, abbiamo veramente preso un abbaglio:sono dei travestiti!»«E perché militano nelle file delle lesbiche?»«Beh, è ovvio, se consideri la cosa dal punto di vista cubano.Vorrebbero che tutti gli omosessuali si facessero evirare.»«See, una parola! Ci vorrebbe Dio in persona!...»«In effetti. Chissà da chi sono manovrati!»«E le quattro checche che hanno ucciso l’islandese sotto inostri occhi, anche loro erano delle fanatiche?»«Una guerra tra uomini, come al solito.»«Una guerra tribale.»«E il barman? Chi ha ucciso il barman?»Jean-Pierre intinse il cornetto nella sua coppa di champa-gne, tenendo sollevato il mignolo lussato.«Ho dovuto scegliere tra lui e la casa editrice.»Accendemmo un ultimo spinello.«E l’impermeabile macchiato di sangue?»«L’avevo lasciato là all’inizio della serata.»«Quindi è un crimine premeditato! E sei stato tu a chiuderela porta d’ingresso?»«No. Deve essere stato il guardarobiere.»«Ma perché?»«Non lo so. Forse era d’accordo con le lesbiche cubane.»

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«Non credo a una sola parola della tua storia. Jean-Pierre, seisicuro di aver ucciso tu il barman?»Arrossì.«Non ti sembra una buona idea per un racconto?»«Non contare su di me! Sono tuo complice! Non voglio finirei miei giorni a Clairvaux!»«Pensa ai capolavori che potremmo scrivere in prigione!»In place Pigalle La Nuit stava chiudendo, e come sempre lavecchia zingara vendeva le sue rose. Jean-Pierre mi regalòuna rosa rossa, io gliene regalai una bianca.«C’è un’aria troppo bella per andare a dormire.»«Se ce ne andassimo a passare la mattinata alla Piscine Deli-gny?»«Si rimorchia?»«Bisogna alzarsi presto per rimorchiare i figli dei morti am-mazzati del giorno prima.»«Chi l’ha detto, Fassbinder?»«No, Khomeini.»«Sei insopportabile quando fai l’intellettuale, Jean-Pierre.»«Noleggeremo dei costumi da bagno.»Attraversammo Parigi diretti verso la Senna, lasciando stra-scicare per terra i giubbotti di pelle, ognuno con la sua rosadietro l’orecchio.

Luglio 1983

(Traduzione dal francese di Lorenza Di Lella)

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© Eredi di Copi, per gentile concessione di Raul Schenardi

L'autoreRaúl Damonte Botana, in arte Copi, nacque a Buenos Airesnel 1939 e morì nel 1987 a Parigi, dove risiedeva dal 1962, vit-tima dell’Aids. Nipote di un magnate della stampa argentinae di una eccentrica femminista, figlio di un uomo politico co-stretto all’esilio per le sue posizioni antiperoniste, trascorsegran parte dell’infanzia in Uruguay, rivelando già da adole-scente un notevole talento per il disegno e la caricatura.Stabilitosi a Parigi, cominciò a pubblicare le celebri striscedella Femme assise sul «Nouvel Observateur» (riprese in Italiada «Linus») e partecipò inizialmente alle attività del TeatroPánico di Jodorowsky, Arrabal e Topor. Il teatro – a cui si de-dicò per tutta la vita in veste sia di drammaturgo che di at-tore en travesti – e il fumetto sono forse i versanti più notiin Italia della poliedrica attività di questo artista, che scel-se la lingua francese per la maggior parte delle sue opere.Una raccolta di undici pièces è stata curata da Franco Quadri(Teatro, Ubulibri, 1988 e 2004), e anche da noi Copi è uno de-gli autori più amati dai gruppi d’avanguardia. Nel fumetto,dopo la Femme assise vennero altre raccolte, fra cui Les vieillesputes, pubblicata anche in Italia (Storie puttanesche, Monda-dori, 1979).Rimane invece pressoché sconosciuta da noi la sua operanarrativa, che consta di sei romanzi e due raccolte di rac-conti: solo L’Internationale argentine e Le bal des folles sono sta-

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ti editi alla fine degli anni Settanta, poi è sceso inspiegabil-mente il silenzio. Di recente in Spagna Anagrama li ha pub-blicati tutti riunendoli in due volumi (oltre ai due già citati,L’uruguayen, La cité de rats, La guerre des pédés e La vie est untango, e i racconti di Une langouste pour deux e Virginia Woolf aencore frappé), e in Argentina l’apprezzamento da parte dellacritica e dei lettori non fa che crescere.Il racconto che presentiamo ai lettori di «alfabeta2», pubbli-cato originariamente nel 1983, è emblematico della narra-tiva di Copi, oltre che un esempio fedele della sua poetica:l’autobiografismo esasperato, stravolto e autoironico,l’ambientazione nel mondo gay parigino, l’impronta ludicae grottesca, la vertiginosa trasformazione delle situazioni edei personaggi, «la leggerezza, la velocità e quella meravi-gliosa continuità» che per César Aira sono state «una rivela-zione e una grande influenza, forse la più grande di tutte».Spesso Copi è stato definito un autore inclassificabile: untraguardo invidiabile per un artista che metteva la libertà –anche quella creativa – al di sopra di tutto, il che lo rendeestremamente attuale e necessario al giorno d’oggi.

Raul Schenardi

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iLIBRI

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Claude SimonLe Georgichea cura di Domenico Pinto, traduzione e postfazionedi Emilia Surmonte, Lavieri «Arno», 2013, 380 pp., €25,00

Claude Simon nasceva giusto cento anni fa.Come Vittorio Sereni, e un anno dopo Gior-

gio Caproni. Per parlare brevemente della bellissima e op-portuna traduzione delle Georgiche di Claude Simon, curateda Domenico Pinto e tradotte e introdotte da Emilia Sur-monte, è forse opportuno partire da qui, cioè da un confron-to tra l’autore francese, Premio Nobel per la letteratura nel1985, che partecipò alla seconda guerra mondiale, fu fattoprigioniero dai nemici (i tedeschi, nel suo caso) e infine en-trò nella resistenza (come Samuel Beckett), chi andò in guer-ra e fu fatto prigioniero dagli alleati (Sereni) e chi, dopo una

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breve esperienza militare, prese invece la strada della colli-ne partigiane (Caproni).La ragione di questo parallelo è semplice: ricordare chel’esperienza della guerra combattuta nel proprio territorio edentro le proprie coordinate culturali (cioè: non solo vista intelevisione; non solo letta attraverso i giornali) ha costitui-to l’orizzonte permanente della letteratura europea del secon-do Novecento. Si tratta di un tema delicato e al tempo stessofondativo di quella che si ama dire la nostra identità colletti-va, che ha trovato forma e «resistenza» in particolare attra-verso la letteratura, che ha poi contaminato l’immaginariocinematografico, visivo e musicale degli ultimi decenni.In questo suo straordinario romanzo Simon sigla l’interaesperienza della modernità europea sotto il segno dellaguerra, incrociando le storie di tre personaggi: un ufficialedella rivoluzione francese che attraversa il continente du-rante le lunghe campagne napoleoniche; un anonimo ingle-se (ma si tratta di una trascrizione dell’esperienza di GeorgeOrwell) che va a combattere in Spagna durante la terribileguerra civile; un discendente dell’ufficiale francese che, ac-colta la paradossale eredità dell’avo napoleonico – eredità didistruzione familiare –, si trova a percorrere in fuga quellaStrada delle Fiandre che portò le truppe della Germania na-zista a installarsi nel cuore della Francia.Le tre storie non sono solo apparentate dal generico radica-mento bellico. Non si tratta cioè di un fatto tematico, comechi dicesse che Le Georgiche parlano della guerra. No. Le tre

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storie sono presentate come tre declinazioni di una stessastoria, che è la forma della guerra, e cioè il suo radicamentosoggettivo a partire dalla percezione, ossia dalla partecipa-zione corporea dell’individuo. Lo illustra bene una preziosanota della traduttrice, dov’è spiegato che «cifra caratteristi-ca» dello stile di questo romanzo è l’uso del «participio pre-sente» (reso in italiano con il gerundio). È un’osservazioneilluminante, innanzitutto per chi ha nelle orecchie le caden-ze della scrittura partigiana di Fenoglio (inscritto anche luinello stesso orizzonte), nella quale gli studiosi hanno sot-tolineato la probabile influenza della forma verbale in -ingdell’inglese: come nello scrittore di Alba, anche nell’autorefrancese il participio presente, cioè la forma continua e im-personale («infinita», si dice in grammatica), serve per ren-dere la processualità percettiva e fusionale dell’evento bel-lico: e cioè il fatto che la guerra non può essere raccontatacome evento terminato, ma può essere restituita solo comeevento in corso.Di questo scorrimento dell’evento Claude Simon ha fatto lasua grande ossessione, stringendo tutta la civiltà occidentalein una grande «sequenza in scorrimento permanente» (ap-punto: un orizzonte), che – per limitarci a due soli titoli – ri-sale dalla Strada delle Fiandre (con cui la seconda guerra mon-diale giunse al suo culmine nel continente europeo) alla Bat-taglia di Farsalo (con cui, di fatto, nacque l’Impero romano).Scorrimento, ho scritto. E in effetti è impressionante comela profonda cultura figurativa dell’autore (ne ha scritto da

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noi Alberto Casadei in Romanzi di Finisterre, Carocci, 2000),che qui assume un ruolo decisivo nel quadro descrittivo concui quasi enigmaticamente si apre la narrazione, non vengapiegata all’inquadramento naturalistico di uno spazio, ma alcontrario si apra, prospettando al lettore un campo di forze.Nella bellissima sequenza iniziale, infatti, le due figure ma-schili – che introducono alla questione dell’eredità, del la-scito che l’Europa giacobina ha trasmesso all’Europa del No-vecento – sono circoscritte da due muri, che si limitano aformare un angolo dentro il quale i due corpi risultano in-cassati: «come in geometria descrittiva – scrive Simon – siconviene che due rette implicano – e non rappresentano –l’esistenza di un piano», così è per i due muri, che «implica-no» un piano di coappartenenza, ma non lo rappresentano.Lì, colti nell’angolo della prospettiva, i fatti si mobilitanoin eventi: la sequenza pacificante della cronologia si muovenella partecipazione convissuta del participio presente. LeGeorgiche di Claude Simon, finalmente pubblicate in italianoun anno prima del centenario della prima guerra mondiale,ci restituiscono questo scorrimento al presente, questa at-tualità della guerra che nuovamente ogni volta riaggalla:questo orizzonte permanente che circoscrive la nostra stes-sa identità di europei.

Giancarlo Alfano

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José DonosoIl luogo senza confinia cura di Francesca Lazzarato. Sur, 2013, 149 pp., € 14,00

Secondo romanzo dello scrittore cileno José Donoso(1925-1996), Il luogo senza confini torna oggi in libreria per i ti-pi delle Edizioni Sur e le cure di Francesca Lazzarato – che haripristinato, dove manchevole, una più coerente testualitàrispetto alla precedente versione di Gianni Guadalupi e Mar-cello Ravoni (Bompiani, 1972). Sorta di aperçu tematico na-to da una costola dell’enorme mole di materiale accumulatadurante la stesura de El osceno pájaro de la noche (pubblicatosolo nel ’70), El lugar sin limites (uscito invece già nel ’66) tra-duce, in una perfetta circolarità iperreale e trasfigurata, os-sessioni e fantasmi di un’immaginazione creativa consuma-ta dal dubbio e martoriata da un’ulcera psicosomatica chesolo la pubblicazione dell’Osceno uccello avrebbe placata. Ri-spetto al romanzo principale (il più noto di Donoso – tra-dotto dalla stessa Bompiani nel ’73 – sebbene nel ’78 gli siaseguito un capolavoro come Casa di campagna, riproposto initaliano, nel 2009, da Cavallo di Ferro), Il luogo senza confiniimbriglia i demoni privati dello scrittore nell’arco temporaledi una sola giornata grazie al ricorso insistente all’allegoriadelle situazioni e, insieme, all’esplicitezza del dettato.Come in una tragedia classica, la scena principale si svolgetutta fra le strade polverose e abbandonate di uno sperdutopaesino cileno, El Olivo, feudo privato di don Alejandro e

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dei suoi quattro cani neri, che tutto sorvegliano e ogni pal-mo perlustrano, incessantemente alla ricerca delle tracce diun’apocalisse imminente che fiutano nell’aria e sui pannidegli abitanti del villaggio. E l’apocalisse ha un nome e unafisionomia ben precisi: quelli di Pancho Vega, epitomedell’uomo primordiale, un groviglio di brutalità e sensualitàche tiene in scacco il cuore di Manuela, il travestito che, in-sieme alla figlia diciottenne Giapponesina, gestisce il bordel-lo locale. Ed è proprio tratteggiando il profilo di Manuela,dando corpo di voce ai suoi sfilacciati monologhi interiori,ai suoi pensieri e ai suoi desideri, che «Pepe» Donoso af-fronta, per la prima volta in maniera esplicita, il temadell’ambiguità sessuale, della confusione dei generi, dellalotta aperta tra pulsioni inconsce e censure (come, dieci an-ni prima, il Guimarães Rosa del Grande Sertão). E lo fa calan-dosi in un’atmosfera d’inferno quotidiano perché, come re-cita l’epigrafe dal Faust marlowiano, «l’inferno non ha con-fini, né viene circoscritto / a un solo posto, perché l’inferno/ è qui dove siamo / e qui dov’è l’inferno dobbiamo rimane-re».Così, in questo aperto confronto con l’Edipo, il sadomasochi-smo e il senso di colpa che affligge l’uomo che provi un mi-sto di attrazione e repulsione per la sorte che gli è toccata,Il luogo senza confini diventa la formula algebrica in cui si ri-solve la contraddizione di un inferno imprescindibile dallanostra presenza; un inferno profondo i cui muri sono tremu-li, labili, spesso solo un riverbero dei molti specchi interio-

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ri che si frantumano, vanno in mille pezzi lasciandoci bran-colare nel vuoto, minacciati dal disordine e dalla morte. Perquesta forza e la sua violenta coerenza, a un passo dal tra-collo, il romanzo di Donoso resta fra quei libri che – come silegge in una lettera a lui indirizzata da Julio Cortázar – sonoi soli che valga la pena di leggere: «quelli che avanzano ver-so l’esterno, per così dire, iniettandoci nel sangue e nei sensiuna nuova, più ricca e a volte più orribile maniera di inten-dere l’enorme assurdità in cui ci muoviamo».

Stefano Gallerani

Édouard GlissantLa Lézardetraduzione di Geraldina Colotti e Marie-José Hoyet, introduzione diClaudio Magris, postfazione di Cristina Brambilla. Jaca Book, 2013, 250pp., € 16,00

La Lézarde, uscito in Francia nel 1958 e salutato dal successodel Premio Renaudot, è il primo romanzo di Édouard Glis-sant. Esce ora in Italia con un’introduzione di Claudio Magrise una postfazione di Cristina Brambilla, entrambe prezioseper capire, di Glissant, la coesistenza tra una lingua lettera-ria piena di diversioni, di preziosità difensive, quasi una ri-cerca barocca della totalità, con una nitidezza così aperta efranca da poter abbacinare. All’uscita del romanzo Glissant,

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nato nell’isola della Martinica nel 1928, era a Parigi da dodi-ci anni, coinvolto nella lotta intellettuale della generazionedella négritude e sulla via per superare la ricerca identitariapostcoloniale con la scoperta della «creolità»: il rumore del-le presenze, delle forze, degli odori della libertà in quel suomare caraibico che non sarebbe mai stato «nostro», né dinessuno, perché è inesplorabile e avvolgente come lo è ognialterità; un mare che sembrava fatto, insomma, per aprire,per ramificare e disseminare. E il rumore, poi, di un grandefiume, la Lézarde del titolo: il suo corso non ha ritorno, e at-traversa la storia degli uomini in anse indecise, grumi di de-triti, fabbriche di rum, morgane e foreste, fino a perdersi inun delta trascolorato.Il mare è il narrabile, il fiume è il narrato: i due tipi di in-quietudine fanno pensare – lo scrive Magris – a Faulkner; eforse, di rimando, anche alla grande perennità che Pavesesi ostinava a cercare con l’occhio fisso nelle sue colline, cal-me nell’attraversamento del dolore. Ora, il narratore di Glis-sant è un bambino che sente di crescere insieme alla propriastoria; ognuno dei suoi personaggi è per conto proprio unulisside in cammino senza bussola, senza un’idea prefigura-ta di paesaggio. C’è un tempo da cambiare, e per cambiarlo sisoffrirà. C’è un atto politico da compiere: uccidere un rinne-gato, un fantoccio del governo che spadroneggia e opprime.Ci sono tracce continue di leggenda che tuttavia non richia-mano, come si potrebbe immaginare, il passato: rispondo-no, al contrario, a una «parte inesplorata dell’avvenire», co-

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me i sogni per i surrealisti, come i paradisi perduti di Saint-John Perse o i ricordi brasiliani di Ungaretti. Sono grandi se-dimenti di immagini, che l’azione di una natura opaca, scu-rita dal ritorno della notte, rintraccia sotto le superfici lisce,a specchio. Leggende nelle quali un uomo si guarda, si cerca:nessun altro può confutarle o smentirle, perché la loro vocesi fonde, irrimediabilmente, a ogni rivendicazione di verità.Così, quando il gruppo di giovani rivoluzionari affida la mis-sione di uccidere a un compagno che nessuno conosce,Thaël – il montanaro che agisce d’istinto, chiuso nel bruli-care fantastico delle sue leggende –, nessuno può prevede-re che proprio la casa del rinnegato, dell’uomo da fare fuori,includa in sé la sorgente della Lézarde. Così l’ignoto, in quelpunto, chiama l’ignoto. Il fiume inizia la sua «canzone caoti-ca e selvaggia», che affianca e sorveglia ognuno dei destini.Ecco che cos’è dunque, per Glissant, la storia. Man mano chequel fiume e quel racconto si scavano la via, le parole van-no alla ricerca di una loro forza precisa, e di un nuovo rifles-so continuamente cangiante, per addentrarsi in ciascuno deinodi: nell’opacità che si trova ancora, per fortuna, nel fondodello specchio.

Stefano Colangelo

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John BergerContro i nuovi tirannia cura di Maria Nadotti. Neri Pozza, 2013, 249 pp., € 14,90

Quanto mai opportuna un’antologia come questa a cura diMaria Nadotti, per presentare – soprattutto ai più giovani– una figura poliedrica di scrittore e intellettuale fra le piùinteressanti del nostro tempo. Berger scrive con altrettantaacutezza di arte, politica, letteratura e attualità; e lo fa con losguardo dell’artista, la parola del narratore e l’impegno deltestimone. I materiali raccolti nel volume – soprattutto sag-gi ma anche stralci da romanzi, poesie, lettere, diari, reso-conti di inchieste, appelli militanti ecc. – coprono un arco disessant’anni, dal 1958 al 2012. Non sono presentati in ordi-ne cronologico né tematico, ma secondo un ordito che rivelavia via la straordinaria vivacità e tenuta di questo autore cheancora oggi, a quasi novant’anni, ha voglia di scrivere, viag-giare, testimoniare, inviarci i suoi messaggi dal mondo.Quando nel 1972, dopo l’assegnazione del Booker Prize al ro-manzo G., Berger decise di trasferirsi in un villaggio di conta-dini dell’Alta Savoia, dove vive tuttora, volle esprimere il ri-fiuto dell’establishment letterario inglese, nei confronti delquale era stato comunque sempre un outsider. A Quincy,Berger comincia a fare il contadino, a occuparsi di fienagio-ni, di api e vitelli, ma continuando a scrivere, a disegnare,a partecipare a suo modo alle vicende del mondo. Stanno atestimoniarlo le visite, in anni recenti, a due paesi difficili

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e quanto mai emblematici dei conflitti nel mondo contem-poraneo: nel 2003 si è recato in Palestina, a Ramallah e neiterritori occupati, dove ha tenuto – insieme ad artisti pale-stinesi – un workshop sulla narrazione; e nel 2008, a ottan-tun anni, è andato in Chiapas a incontrare il subcomandanteMarcos, il mitico rivoluzionario messicano. Il bel saggio Ap-punti su un ritratto nella selva riferisce di questo incontro, cioffre questo ritratto: «Dietro il passamontagna, sotto il gran-de naso, una bocca e una laringe che dall’abisso parlano disperanza. Ho disegnato quello che ho potuto». E così Ber-ger può anche ricostruire con rapidi tratti il contesto socia-le, culturale ed economico dello zapatismo. In un altro sag-gio, Un luogo in lacrime, si legge: «Gaza, la più grande prigionedella terra, è trasformata in mattatoio. La parola “striscia” èfradicia di sangue, come sessantacinque anni fa successe allaparola “ghetto”».Questa apertura al mondo, il coinvolgimento in prima per-sona, coerentemente con i principi e gli ideali professati,da sempre informano la scrittura di Berger. Instancabilenell’indagare e tratteggiare la nuova topografia del male,nelle sue forme occulte come nella fisionomia ingannevoledei nuovi tiranni di tutte le latitudini, in abiti impeccabili erassicuranti, impegnati a prendere decisioni pur «senza sa-pere niente di niente sull’essenza delle cose». La stessa sen-sibilità lo porta a occuparsi con grande anticipo di temi oggipervasivi come l’emigrazione, in un libro sui lavoratori mi-granti in Europa del 1975, Il settimo uomo; oppure a riflettere

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sull’uso spregiudicato da parte della stampa delle «fotogra-fie d’agonia» durante la guerra in Vietnam. Chiude il volumeil testo del discorso con cui Berger, in quel ’72 accettò sì ilBooker Prize, ma attaccando senza quartiere, nell’occasione,i Booker McConnell che potevano farsi protettori delle articoi proventi dello sfruttamento della canna da zucchero nel-la Guyana britannica. Tutto da leggere.

Paola Splendore

Teju ColeCittà apertatraduzione di Gioia Guerzoni. Einaudi, 2013, 270 pp., € 17,50

Come un sofisticato Pollicino della letteratura, Teju Cole dis-semina nel suo romanzo d’esordio Città aperta, a mo’ di luc-cicanti pietruzze bianche, diversi indizi, piccole frasi o ri-ferimenti che aiutano il lettore a orientarsi in questo testodenso e affascinante, dove racconti e citazioni, riflessioni erimandi si susseguono ininterrotti. Tanto più utile dunqueche, in una delle primissime pagine del libro, l’io narrantespieghi di avere appreso da un docente molto amato«l’abilità di costruire una storia partendo dalle omissioni».A parlare è il protagonista del romanzo, Julius, specializzan-do in psichiatria, figlio di padre nigeriano e di madre tede-sca, trapiantato da anni a New York e appassionato flâneur,

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che rievoca quello che gli è accaduto negli ultimi mesi (il li-bro è ambientato fra il 2006 e il 2007): le lunghe passeggiateper Manhattan, la ricerca quasi volutamente vana della non-na materna a Bruxelles, il ritorno a New York. Ma potrebbebenissimo essere Teju Cole, nigeriano statunitense, fotogra-fo e storico dell’arte, esperto di pittura olandese del XVI se-colo, che proprio intorno alle ellissi e alle omissioni fonda ilsuo libro.Lo stesso Julius non viene mai mostrato in piena luce, dalmomento che – sembra dire lo scrittore – a dispetto dei no-stri sforzi nessuno riesce a conoscersi per intero («a un cer-to livello ciascuno di noi […] deve immaginare che lo spa-zio della sua mente […] non può essergli interamente opaco»osserva il personaggio, sottintendendo l’illusorietà di questaidea). E sulle assenze del nostro presente, su quello che nonvediamo (taciuto o dimenticato) e che tuttavia continua aproiettare la sua ombra su di noi, punta Cole il suo radar. So-no ovviamente, nell’America degli anni Zero, gli spettri delleTwin Towers e del conflitto iracheno, lontano e già pronto aessere sostituito da nuovi scenari di guerra; ma sono anche,per l’africano Cole, le tracce di stermini antichi e recenti (ilcimitero degli schiavi i cui resti riaffiorano a pochi passi daigrattacieli di Wall Street, i ragazzi ruandesi che ballano inun locale di Bruxelles e appaiono sereni a dispetto del geno-cidio alle loro spalle), o semplicemente la scoperta tardivadella morte di una vicina, proprio al di là della parete di ca-sa.

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«Non ti accorgi mai dell’ossigeno finché non finisce», dice aJulius uno dei tanti messaggeri di vita, se non di verità, chel’uomo incontra lungo i suoi percorsi. Molti gli raccontanostorie, alcuni gli scaraventano addosso ossessioni e aggres-sività, con altri (in particolare il marocchino Farouq, dottoe disilluso impiegato di un internet café belga) intavola di-scussioni di politica e filosofia alla luce delle comuni letture,da Foucault a Serres a Chomsky. «È, questo, uno dei rari libricontemporanei, dove la teoria critica e letteraria non sia og-getto di satira o pretesto per sfoggiare la cultura dell’autore,ma faccia parte del contesto di una persona», ha scritto sul«New Yorker» James Wood, fra i più convinti sostenitori diun libro che ha avuto notevole successo negli Stati Uniti enei vari paesi in cui è stato tradotto, e che è stato paragonatocon insistenza a Austerlitz di Sebald, sicuro modello di Cole.E tuttavia l’accostamento, per quanto fondato, non mette inrisalto forse l’elemento più interessante del romanzo: la suatecnica agglutinante, che giustappone i materiali e solo po-co alla volta lascia intravedere un tessuto coerente. Autoredi tweets fulminanti e sarcastici, Cole ha dichiarato di averecostruito Open City per un lettore lento, pronto a riprenderein mano il libro appena finito, per cogliere gli indizi sfuggitinella prima lettura. Segnale, se non altro, di una sicurezza disé che pochi scrittori hanno di questi tempi.

Maria Teresa Carbone

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Jan Peter BremerL’investitore americanotraduzione di Marco Federici Solari. L’orma, 2013, 144 pp., € 15,00

Bentornato, inetto. Viene da salutarlo così, il primo libro(dei tanti) di Bremer tradotto (bene) in italiano da L’orma.Personaggio del tutto sconosciuto ai più (il mondo letterariotedesco contemporaneo presenta, per il lettore italofono,non falle, ma vere e proprie voragini), il berlinese Bremer,classe ’65 e una capigliatura afro piuttosto interessante in unbianco caucasico biondo, ha al suo attivo parecchi romanzi,per adulti e ragazzi. Se si cercano notizie su di lui, è facileche saltino fuori i nomi di Kafka e Walser. Scusate se è po-co, verrebbe da dire. Questo Investitore, smilzo al punto giu-sto, è il monologo di uno scrittore in pieno blocco creati-vo, affettivo, esistenziale, percettivo. Uso la parola «mono-logo» in senso forse improprio, perché il libro è «ufficial-mente» narrato in terza, ma l’ingombranza e la multiformitàdel personaggio-inetto occupano ogni interstizio dello spa-zio del racconto.La situazione è questa: il protagonista (scrittore, appunto,non percipiente reddito) vive con la moglie (che lo man-tiene) e due figli in un grande appartamento all’interno diun caseggiato degli anni Quaranta segnato dall’usura. Talecaseggiato viene acquistato da un grande investitore ame-ricano che vuole ristrutturarlo e renderlo più redditizio. Equi cominciano i guai. I lavori al piano di sotto mettono

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in luce danni strutturali all’edificio, il pavimentodell’appartamento si crepa e comincia lentamente a spro-fondare. La nuova amministrazione cerca di convincerli adandarsene. Point blank. Da qui sarà un crescendo assolutodi paranoia. Le crepe nei muri si rivelano ben presto abissidell’anima che generano un flusso di pedante e angosciosariflessione (o meglio logorrea) sul fallimento. Il binomio èquello classico, in fondo: non riesco più a scrivere e miamoglie non mi ama. Ma le forme dello sgorgo sono più va-riegate e maniacali che mai. Il primo bersaglio è propriol’investitore. Figura inconoscibile, eppure presentissima, cuilo scrittore vorrebbe scrivere, appunto, una lettera che nonscriverà mai. Si immagina di conoscerlo, di vederlo trasvola-re i cieli, ipotizza di guidare una rivolta di inquilini contro dilui.Dicono che questo libro sia un’ironica denuncia della specu-lazione edilizia. Certo, anche. Lo si può supporre. Ma se maidovessi descriverne il focus, direi che qui è la follia a far-la da padrone, nel privato dello scrittore e nel pubblico delmondo. L’ipertrofia del razionale che finisce per autofagoci-tarsi. La solitudine dell’uomo dietro al vetro che si incarnain continue prosopopee, scenari, masturbazioni, ipotesi perpoi scoprirsi, ogni volta di più, con gli occhi fissi al soffitto.La follia della finzione borghese che, ancora, cerca di crede-re alle proprie parole, alla propria falsità strutturale; che siautonarra, estenuata, intrecciando autisticamente masche-ra e realtà. Ma quale realtà, poi? Qui torniamo a Kafka, ap-

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punto. Allo spopolamento del mondo che, apparentementeintatto, dismette d’un tratto, in tragica epifania, la vita. Nonè dato sapere se al nostro scrittore verrà offerta una chan-ce di riscatto. Se riuscirà ancora a scrivere, a farsi in qualchemodo amare. Se dovrà davvero traslocare. Quel che è cer-to è che ha passato la frontiera. Ormai è di là. Condannato aun’irresistibile infelicità.

Fabio Donalisio

Paolo MorelliRacconto del fiume SangroQuodlibet «Compagnia Extra», 2013, 210 pp., € 14,00

Afferma di voler «descrivere prima di tutto», «magari anno-tare»: «soprattutto contemplare e descrivere il fiume, oltrenon mi era chiaro che volevo fare». Per questa sua avventu-ra umana e letteraria Paolo Morelli si affida a un movimentodall’alto verso il basso, laddove la vocazione a scendere cam-bia segno diventando risalita: di un fiume, di un pellegrinag-gio solitario che vede aprirsi a ventaglio (per chi sappia rac-coglierle) le possibilità date dalla discesa a piedi di un picco-lo corso d’acqua.Racconto del fiume Sangro comincia proprio dall’idea di cam-minare col naso all’ingiù, nel nome di un «guardare in bas-so» intrapreso per evitare troppi compiacimenti. In questa

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«impressione che nel continuo mirare e fallire stava la forzadell’esercizio» si consolida e perfeziona una declinazionedell’osservare, dell’ascoltare. Nel percorso che conduce ilfiume abruzzese fino all’Adriatico si infila Morelli, curioso dimisurarsi con la forza e la potenza concreta, immaginativa,dell’acqua. Ed è significativo che nel seguire a piedi il flussodi un fiume, nel ricercarne le sorgenti, nell’individuarne tut-ta la serie di piccole appendici (polle descritte come «spu-mose», «graziose», terreno umido e asciutto, giravolte, anse,gole, solo per rendere un poco la sostanza del libro), sia pos-sibile rintracciare un percorso, uno sguardo orientato. Utileanche per intercettare il carattere del fiume.Quando la materia sfugge, scivola via, come l’acqua stessa,più salda si fa la capacità di Morelli di trattenerla, rapirlaall’indagine, al ragionamento. Sottrarla alla divagazioneconfusa, distratta. Perciò è chiamato «racconto», quello delfiume Sangro. Perché ogni pagina procede come un raccon-to, con la descrizione di un particolare bordo del fiume, o lamodalità con la quale l’acqua fuoriesce dal sottosuolo, illu-minata dai raggi di un sole che le regala «striature mobili eirregolari, come disegni sul manto di una tigre che crollanoappena disegnati». Nel vagare dell’autore intorno a questocorso d’acqua, nella restituzione sulla pagina di dati orogra-fici mischiati a un’evidente attitudine letteraria, in questacalata un po’ folle verso il basso, quella «forza dell’esercizio»che si diceva prima diviene un gradiente della perfezione:pare impossibile, ma si individua un percorso, nel seguire i

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122 chilometri di questo fiume che nasce nel Parco Naziona-le.E alla fine è questo, un percorso, quanto di più prezioso possaessere contenuto in un libro, l’unico indice interiore da te-nere a mente per mantenere dritta la rotta. Ed è a mio pa-rere da sottolineare come questo sia avvenuto mettendo alcentro della narrazione un argomento così poco narrativo.Soprattutto giunto dopo l’ultimo lavoro pubblicato nel 2010,Il trasloco (nottetempo), in cui la divagazione non raggiun-geva questa precisione fisiologica data dalla necessità. È aquesto livello che saggezza e intuizione, cultura e ignoranzasi fondono. Nel nascere e morire di un fiume, «da tempoimmemorabile», nella fuoriuscita dell’acqua senza sforzo, ocon impeto, nella mezza delusione di chi si guarda intorno«sapendo di doversi fare bastare qualcosa», è fissato un nu-cleo di autenticità che tiene per tutte le 210 pagine, per bril-lare con grazia e semplicità quando ci si ricongiunge con ilmare.

Raffaella D’Elia

Angelo FerracutiIl costo della vitaStoria di una tragedia operaia. Einaudi, 2013, 212 pp., € 19,00

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Una delle frasi migliori con cui si potrebbe condensare ilcontenuto e il senso dell’ultimo, importante libro di AngeloFerracuti l’ha scritta un personaggio da lui distante comeOscar Wilde. L’epigrafe d’un capitolo del Costo della vita reci-ta: «Una cosa di cui non si parla non è mai esistita». Da diver-si anni, e cioè almeno dal romanzo-inchiesta Le risorse umane(Feltrinelli, 2006), Ferracuti ha scelto di dedicare la sua scrit-tura a questo compito, civile e intellettuale insieme: quello,appunto, di ricordare, di testimoniare, di strappare dal silen-zio e dall’invisibilità le storie dei più deboli (i migranti, glioperai, i lavoratori precari). Il costo della vita è dunque un re-portage o inchiesta narrativa che vuole far «esistere» la vi-cenda di tredici operai dei cantieri Mecnavi di Ravenna mor-ti asfissiati nelle stive della nave «Elisabetta Montanari» il13 marzo 1987, mentre eseguivano lavori di ripulitura. Il piùgiovane di loro, Marco Gaudenzi, aveva diciotto anni, men-tre il più anziano, Vincenzo Padua, era alle soglie della pen-sione, e di anni ne aveva sessanta. «Dovevo cercarli, trovar-li tutti. I familiari, gli avvocati, i magistrati, la gente che la-vorava al porto, i cronisti che avevano scritto e che eranolì quella mattina, i poliziotti, i carabinieri, l’armatore»: conquesto monito rivolto alla pagina e a se stesso Ferracuti in-traprende il suo viaggio e la sua ricerca, lasciando spesso laparola ai testimoni della tragedia e riuscendo a trasmettereai lettori la loro dignità e umanità, quasi che ogni gesto in-teso a ricordare delle vittime, come avvertiva Carmelo Benedalla Torre degli Asinelli di Bologna nel 1981, sia anche un

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omaggio a chi resta e ha subito una perdita irrimediabile eingiusta.Sì, perché la morte dei tredici «picchettini» della Mecnavi fututto fuorché una fatalità: Ferracuti dipinge un ritratto im-pietoso dell’armatore Enzo Arienti, fiero oppositore del sin-dacato e vertice di un sistema di sfruttamento e caporala-to che calpestava sistematicamente i diritti degli operai e lenorme più elementari di sicurezza (Paolo Volponi, uno deisicuri fari di Ferracuti, l’avrebbe forse definito una «moscadel capitale»). Facendo questo, però, Il costo della vita non ri-costruisce solo tredici vicende individuali, ma porta alla lucele fondamenta di quello che poi sarebbe diventato il «model-lo della precarietà necessaria», triste e annichilente stigmadella nostra contemporaneità.Il racconto di Ferracuti parte da Ravenna, fulcro narrativodel libro, ma tocca anche molti altri luoghi: da Termoli (doveArienti si rilanciò dopo il disastro) ad Alfonsine (paese in cuivive il figlio di Padua), dalle Marche (la Navigazione Monta-nari è di Fano) al ventre del Cairo, città di origine di Moha-med Mased, uno dei tredici picchettini morti asfissiati, di cuiFerracuti ricostruisce con attenta dedizione la fatale storiadi emigrazione in Italia. Nel suo viaggio l’autore interrogagiornalisti, sindacalisti, fotografi, vigili del fuoco, e persinoil novantasettenne cardinale Ersilio Tonini, che nel giornodel funerale scagliò una feroce omelia contro lo sfruttamen-to del lavoro e il culto del guadagno. Oltre ai sicuri model-li letterari (su tutti Volponi, Kapus´cinski, Orwell), Ferracuti

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si è scelto anche illustri compagni di viaggio: il libro è infat-ti corredato da alcuni disegni di Mauro Cicarè e soprattuttodalle foto di Mario Dondero, altro grande reporter civile, chenel marzo 1987 documentò in presa diretta i giorni successi-vi alla tragedia e i funerali.In un paese che dimentica persino il passato prossimo conuna disinvoltura agghiacciante, il racconto-inchiesta di Fer-racuti, in dialogo con altre opere simili come quelle recentidi Leogrande (Il naufragio, Feltrinelli, 2011) o di Di Stefano(La catastròfa, Sellerio, 2011), è un libro emozionante che tie-ne viva la memoria e ci racconta, con passione, una verità:due parole tabù, in questa Italia e in questo momento stori-co.

Massimo Gezzi

Luigi SocciIl rovescio del dolorecon una nota di Massimo Raffaeli. italic pequod, 2013, 143 pp., € 10,00

In copertina – così discreta da poter passare per un logoastratto – c’è un’immagine che vale invece, per il libro, comeun’impresa perfetta. Una caffettiera rossa, dipinta col sus-siego anodino di Magritte, che ha però manico e beccucciodallo stesso lato. La Caffettiera per masochisti fa parte degliOggetti introvabili dell’artista francese Jacques Carelman: og-

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getti non solo antifunzionali ma deliziosamente persecutorî(una clessidra a ciottoli che non passano per il suo collo; unmartello ricurvo su se stesso; una poltrona fatta di tubi ditermosifone; una sedia a dondolo che dondola da destra a si-nistra – eccetera). Così è la scrittura di Luigi Socci, quaran-tasettenne marchigiano: masochista perché nel rovesciare ilfiotto bruciante dell’esistere, ben lungi dal liberarsene, se loversa ogni volta addosso. La prima volta che lessi suoi ver-si (poi apparsi, nel 2004, anche sull’Ottavo quaderno di poesiacontemporanea curato da Franco Buffoni, con presentazionedi Aldo Nove) fu addirittura sedici anni fa: e che solo oravenga alla luce l’opera prima la dice lunga, circa il Socci, tan-to nell’antifunzionalità quanto nell’(auto)persecuzione.Recavano lo stesso titolo di adesso, Il rovescio del dolore, ma ilSocci non mi pareva aver ancora elaborato, allora, quel sor-riso tirato, raggelato, che fa oggi di lui (tra l’altro) uno deipiù efficaci performer in assoluto: a giorno la radice gad-diana del dolore, unico strumento di cognizione di sé e delmondo, non ancora la capacità di rovesciarlo, quel dolore, nelsuo (apparente) contrario: quel «comico assoluto» baudelai-riano che, ha ragione Massimo Raffaeli, è la sua cifra quieta-mente tragica. E che in ambito italiano non può che far pen-sare a Palazzeschi. Su «Lacerba» si leggeva: «Schivare il do-lore, fermarsi inorriditi alle sue soglie, è da vili. […] Entrarcie risolutamente andare […], è eroismo grande. Uscirne carbo-nizzato e guarito, con questo superbo fiore all’occhiello e ungarbato sorriso sulle labbra. Sublime filtro: ironia».

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Oggi quell’ironia, riposata nelle sezioni del libro come su ta-vole d’obitorio, fa l’effetto di una «bic […] lamarasoio» chesquarcia ogni luogo comune sentimentale: al padre morto,topico oggi quanto mai, ci si rivolge così: «Non ho il tuo nasoe te ne sono grato». Una scrittura insieme tutta nervi («Sal-di, i nervi, di fine stagione») e minuziosamente esatta («Perscriverci in corsivo / finita la matita / la morte entra nel vi-vo / si tempera le dita»), fin quasi al minimalismo termina-le della mirlitonnade beckettiana («Chiuso nel mio cunicolo.// Munito di binocolo. // Non cerco l’ironia, trovo il ridico-lo»). Ricorrono come controfigure – più dei clown della to-pica starobinskiana – i maghi da strapazzo, i prestidigitato-ri da tre carte o quelle figure incongruamente patetiche chesono i loro assistenti pescati dal pubblico («Ti ho amato dauna sedia / in bilico, precario su uno zampo, / risveglian-domi al tre / io non in me»). Una poesia del tutto soggetti-va ma, insieme, perfettamente impersonale; una poesia che«non odora di chiuso / e poi / non si fa i fatti miei»: una poe-sia, dunque, squisitamente teatrale. Che parla «in masche-ra» e, conia anzi il Socci, quel che ha da dire lo «vice dice».Si ride a denti stretti, come di una freddura: ma questo gelo,il freddo da palco che intitola una sezione, viene da una scenacrudele dove le cose tremende che appaiono, in effetti, siproducono davvero («è un tipo di teatro / che va oltre il suoorario»): come l’«effetto speciale reale» della morte dellaterrorista cecena, gasata al Teatro na Dubrovka dalle forzed’assalto di Putin ma che in una foto famosa pare solo ad-

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dormentata al suo «posto 12 fila C»: «il teatro russo degli an-ni zero / è vero». Perché poi dietro alla maschera della vitail dolore che si finge, come sapeva Pessoa, è quello che dav-vero si sente. O, come sigla il Socci: «Carne professionale /siamo del carnevale / del finto farsi male la ferita / che ma-schera la piaga». Applausi.

Andrea Cortellessa

Mario MorettiProcesso di Giordano Brunopremessa di Michele Ciliberto. Edizioni della Normale, 2013, 96 pp., €10,00

«Nell’impostazione generale del lavoro, ho anche cercato diresistere alla tentazione brechtiana, soprattutto per evitarele secche di una “maniera” cui, in definitiva, mi sento ab-bastanza estraneo. Una seconda tentazione – forse inevita-bile per chi opera su materiale storico, sia esso preesistentenella sua integrità o tale da aver bisogno di essere distribui-to nel “tempo” teatrale – non ha avuto nessuna incidenzanel mio lavoro: la tentazione dell’attualizzazione non mi hainfatti neppure sfiorato, trovandomi ad operare con mate-riale riguardante un’opera ed una figura straordinariamentecontemporanee, che ogni forzatura avrebbe “steccato” nella

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compatta ed armoniosa modulazione del Bruno personaggioe pensatore.»Chi così scrive è Mario Moretti, autore di un Processo di Gior-dano Bruno, pensato e composto per il teatro nel 1969 («unmomento esplosivo per la vita della Chiesa di Roma») e oraripubblicato dalle Edizioni delle Normale in una collananuova di zecca di piccoli classici della quale si dirà tra breve.Non sempre, anzi di rado, un autore è così buon recensore dise stesso. Non casualmente, considerata la maniacale atten-zione con cui questo «teatrante organico» – da mezzo secoloinstancabile ambasciatore della drammaturgia italiana con-temporanea, oltre che scrittore di teatro lui stesso, e registae direttore artistico – guarda alle cose e alla vita del teatro,sino a confondersi con esse.In tutto il Processo, plastica rappresentazione delle inquisi-zioni di Venezia e Roma, sino al rogo di Campo de’ Fiori ad-dì 17 febbraio 1600, è evidente lo sforzo di tenersi a distanzadalle «tentazioni» del fantastico, del romanzesco e del mito-logico, così frequenti quando sono a tema la vicenda e la fi-gura del martire per eccellenza del «libero pensiero». Il dif-ficile sta, però, nel non cadere nell’estremo opposto, nel di-dascalismo proprio del «teatro-documento», e nel preserva-re, come osserva Michele Ciliberto, «freschezza e autentici-tà». Questo equilibrio è, ci pare, la cifra stessa dell’opera mo-rettiana: ciò che – in una miscela sapiente di verità storica ed’intenti paradigmatici – ne fa già un piccolo classico.

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E così veniamo alla collezione – una raccolta, appunto, di«piccoli classici» – che ospita questa nuova edizione. Daqualche anno tornata sul mercato editoriale con una produ-zione assai vivace (www.sns.it/scuola/edizioni), la Normaledi Pisa vara ora la collana «Variazioni» con l’intento di riuni-re lavori di non vasta mole afferenti a generi letterari diversi(saggi, interviste, testi teatrali, recensioni) ma legati tra lo-ro dalla convergenza di antico e moderno, propria del clas-sico. Oltre al Processo di Moretti hanno sin qui visto la luce(tutti nel 2013) il Ritratto di Tocqueville di Sainte-Beuve, a cu-ra di Giulia Oskian; la Vita di Pascal scritta dalla sorella Fra-nçoise Gilberte Périer, a cura di Domenico Bosco; il classi-co Leon Battista Alberti di Eugenio Garin, con un’introduzionedi Ciliberto; il saggio di Roberto Gronda Filosofie della praxis,su Giulio Preti e John Dewey; il Trattato sul governo di Firenzedel Savonarola, con una premessa del medievalista Gian Car-lo Garfagnini. Titoli che parlano da sé. E che – ci pare – te-stimoniano di una coraggiosa impresa in controtendenza, inquesti tempi di vita agra per l’editoria italiana di cultura.

Alberto Burgio

Francesco M. CataluccioLa memoria degli UffiziSellerio, 2013, 184 pp., € 14,00

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Tutto nasce da un rito laico, nella Memoria degli Uffizi.Un’educazione sentimentale che diviene passo dopo passol’educazione al bello: ogni domenica, insieme al fratello,l’autore si reca a vedere una sala sempre diversa della Galle-ria degli Uffizi, guidato dal padre e ispirato dalla struggentepassione per l’arte della madre.Cosa vede lo scrittore-bambino nella Wunderkammer a duepassi da casa? Moltissimi dettagli. Lettere di un alfabeto del-lo sguardo, «aneddoti narrati dalle immagini», suggeriscel’autore, citando Gombrich, che lasciano sospesa la nostraincredulità: l’ombelico del Crocifisso (Croce 432) di un anoni-mo pittore fiorentino, «una sorta di leggera spirale che ruo-ta in senso antiorario», che gli ricorda l’omphalos – la pietrasimile a «un uovo o a un fallo» – visto nel santuario di Del-fi molti anni dopo, il fascino emanano dai colori: la regalitàdell’oro, la nobiltà trascendente del blu o l’intensità del ros-so, il colore dell’amore. E la prima donna senza veli tutta persé: la Venere di Botticelli. Enorme, bellissima, si dirige ver-so l’autore volando su una conchiglia: la versione al femmi-nile della sensualità di Cristo che cammina leggero sulle ac-que. Un archetipo vivo – come tutte le splendide Madonnedescritte con spontanea ammirazione – che si insinua nellosguardo e nei pensieri dell’autore spinto a cercare la propriaSimonetta Cattaneo Vespucci, la modella del quadro morta aventitré anni, rimpianta da poeti e pittori e celebrata da Lo-renzo il Magnifico e Agnolo Poliziano.

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E poi c’è il Cataluccio adolescente-adulto, che convive armo-niosamente con le proprie memorie infantili e racconta unaserie di episodi sorprendenti: l’entusiasmo di Bill Viola dopouna visita agli Uffizi, lo stupore di Andrej Tarkovskij rapitodalla maestosità delle «stanze metafisiche» con le tre Mae-stà di Cimabue, Duccio di Buoninsegna e Giotto e l’ingressonel «Terzo Corridoio», il luogo delle scoperte, che coinci-de con l’ingresso nel mondo adulto: i segreti del Tondo Do-ni di Michelangelo, rivelati dalla lettura di Freud e la psicolo-gia dell’arte di Ernst Gombrich, la passione per «il malinco-nico Pontormo» e per le opere del Sodoma. Accanto a que-sti istanti di felicità intellettuale e umana, vi sono le sue al-trettanto sorprendenti letture – diramazioni nervose di unatraccia bibliografica innestata nel corpo del testo – che gliconsentono di descrivere le stanze degli Uffizi con l’abilitàdi un critico d’arte.Gli Uffizi divengono così un’architettura linguistica dove lamemoria si trasmuta in narrazione e il ricordo si imprimesulla pagina. Cataluccio scrive come se stesse passando lapunta di una matita lungo le figure dei quadri, nel medesimomodo di un bambino che inizia a scrivere: dapprima ogni let-tera ha una forma bizzarra e poi giunge lentamente a pren-dere contorni regolari. La pulsione descrittiva, velata di no-stalgia, induce il lettore a lasciarsi cullare fra le stanze diquesto museo-palinsesto in equilibrio tra vita, narrazione,candore dello sguardo, allo stesso modo dell’autore del libro:un «piccolo testamento» colmo di dettagli intimi e salvifici.

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Poiché la bellezza, davvero, può salvare dalla morte. Lo sug-gerisce la vicenda di una ragazza con cui Cataluccio conclu-de il suo viaggio: «Vanessa Capodieci, sedici anni, che restòferita nell’attentato di Brindisi in cui morì la sua compagnadi scuola Melissa Basso, ha subìto cinque trapianti di pelle.È uscita ieri dal Centro Ustioni dell’Ospedale Cisanello di Pi-sa e ha chiesto al padre di visitare gli Uffizi». Da qui inizia lavera lettura, da qui tutto può rinascere, da qui ogni lettorepuò scrivere la storia del suo sguardo.

Silvia Mazzucchelli

Brunella AntomariniLa preistoria acustica della poesiaAragno, 2013, 105 pp., € 10,00

Impegnata nell’ambito della filosofia e come traduttrice,Brunella Antomarini sintetizza i suoi interessi ampliandonelo spettro all’antropologia e ci consegna un’opera che po-tremmo considerare «di attraversamento».La preistoria acustica della poesia è trattato e tracciato a untempo, studio e campagna di carotaggi nell’era primaria del-la poesia. Ne emergono campioni di conoscenza inediti: ap-prendiamo che l’origine melodica della comunicazione ri-fugge da dinamiche mimetiche, prescindendo, quindi, daqualsiasi componente metaforica (la fase mimetica viene

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presa in considerazione dall’autrice, che tuttavia – con Dar-win – intende per mimesi la funzione che consente lo svi-luppo da trasmissione emotiva a comunicazione simbolica;per mimesi si intende non già la riproposizione di una realtà,bensì la ri-creazione di condizioni di coinvolgimento emo-tivo che facilitino la comunicazione stessa, come l’uso dellametrica o la recitazione). Allo stesso modo l’origine dellapoesia come formula rituale esclude l’elemento rappresen-tativo, perseguendo invece una ricorsività basata su un rit-mo binario (dentro/fuori, giorno/notte, inspirazione/espi-razione ecc.) che ci riporta alla frequenzadell’avvicendamento in natura. Quando poi le immagini fan-no ingresso nella pratica rituale, la loro oscurità sarebbe daricondurre a un accostamento prettamente analogico.Da questi primi rilievi si può fornire una prima giustifica-zione della definizione di apertura: opera di attraversamen-to ovviamente in senso temporale ma anche, sia pure nonespressamente, di codici culturali. Quella sulla crisi dellametafora è infatti riflessione quanto mai attuale nella rifles-sione letteraria ed estetica, mentre la ripetizione seriale diformule è alla base di alcune delle riflessioni ed esperienzemusicali più interessanti del Novecento (dalla musica serialealla trance-music), e l’accostamento analogico di immagini èall’origine di alcune delle ricerche cinematografiche più ap-parentemente visionarie (un esempio per tutti, Inland Empiredi David Lynch).

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Con l’avvento del sistema culturale e nel dialogo con altriambiti di conoscenza, e soprattutto con l’affermazione dellascrittura, l’aspetto prettamente acustico/ritmico vienecomplicato e depotenziato.

L’autrice problematizza la questione, offrendo esempi discrittura che invece riconoscono la propria scaturigine an-che nella componente ritmica (vengono riportati brani diAmelia Rosselli), e in virtù di tale legame divengono comun-que leggibili, al di là della lingua di appartenenza.

Allo stesso modo si riconduce al ritmo la traducibilità (ointraducibilità, laddove di una traduzione si riconosca lanon necessarietà) di qualsiasi prodotto di scrittura. In talsenso il fine ultimo della funzione ritmica è il ricongiun-gimento a una percezione condivisa e quasi fisiologica cherende quasi ininfluente il referente culturale.Di attraversamento può infine parlarsi considerando lastruttura stessa del libro, che si presenta come diario diun’esplorazione condotta a partire dall’origine del linguag-gio poetico e che viene poi acquisendo i tratti di una rifles-sione a carte scoperte sul significato ultimo (e primo) del fa-re linguaggio (fare con il linguaggio).Assumendo la sopravvivenza della partecipazione sensoria-le come forma cognitiva, e quindi l’importanza di mantene-re in vita la radice arcaica delle forme rituali, Antomarinichiude la sua esplorazione interrogandosi sulla possibilepermanenza di tale radice in un’era in cui domina la tec-

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nologia e le scritture, non solo poetiche, vanno ridefinendocontinuamente campi e orizzonti.

Giulio Marzaioli

Laura MulveyCinema e piacere visivoa cura di Veronica Pravadelli. Bulzoni, 2013, 256 pp., € 25,00

Nel 1975 Laura Mulvey ha avviato il dibattito della FeministFilm Theory con un saggio fondamentale, Piacere visivo e cine-ma narrativo. La sua prospettiva era fondata sulla nozione disguardo, cioè la discriminante attraverso cui il cinema in-scrive le differenze di gender della società patriarcale domi-nante, e garantisce il piacere visivo al solo spettatore ma-schile. Questa svolta teorica trova un’eco sorprendente nellesuccessive elaborazioni sul desiderio femminile nell’ambitodella teoria femminista, ma influenza anche gli studi sullamascolinità e quelli sull’identità razziale e culturale. Mulveystessa, nel corso degli anni, rivedrà le posizioni assunte inquel suo saggio fondativo, fino a declinare il «piacere visi-vo» del cinema classico hollywoodiano nelle più recenti in-tuizioni sullo «spettatore possessivo» della più avanzata eratecnologica. È proprio a partire dall’articolo del 1975 che Ci-nema e piacere visivo, curato e introdotto da Veronica Prava-delli, propone un percorso che attraversa il corpus teorico

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dell’autrice, ne segue la progressione metodologica e con-cettuale, e ne individua le principali aree di indagine e i piùinteressanti sviluppi di ricerca nel quadro della Feminist FilmTheory.Le tre sezioni in cui è suddiviso il libro (Teoria, Cinema ame-ricano classico e Cinema moderno) si intersecano, come in unaspirale, creando un movimento vorticoso che coinvolgel’analisi degli aspetti stilistici e narrativi dei film,l’articolazione dell’esperienza spettatoriale e lo sviluppo dinuclei tematici ricorrenti. L’organizzazione dei saggi, inol-tre, lascia emergere il diverso modo in cui la nostra autriceha declinato concetti psicoanalitici quali voyeurismo, feti-cismo e perturbante, facendone gli elementi-fulcro di unametodologia di analisi dei film e del cinema tout court. Ilperturbante è, in particolare, sia l’elemento di raccordo trail cinema classico e il cinema moderno, sia il concetto chestruttura la dialettica tra inafferrabilità e afferrabilitàdell’immagine cinematografica nel passaggio dalle «vec-chie» alle nuove tecnologie, in cui si modifica l’esperienzaspettatoriale e si riconfigurano i rapporti di gender.Proprio il riferimento al perturbante garantisce continuitàe coerenza teorico-analitica al percorso di Mulvey, la qualelo utilizza sia nell’accezione di «ritorno del familiare rimos-so» (emblematiche le analisi di Velluto blu di David Lynch edi Quarto potere di Orson Welles), sia nell’accezione di «fusio-ne tra vita e morte, organico e inorganico» (Psycho di AlfredHitchcock). Una prima classe di perturbante, che potrem-

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mo definire «performativa», inscrive il movimento rallenta-to dell’attore nell’inafferrabilità del flusso narrativo del film(cfr. il discorso sulla posa di Marilyn) e anticipa al contem-po la seconda, che «ri-esibisce l’esibizione in forma amplifi-cata» attraverso la feticistica messa in pausa dell’immaginevideo. Questa possibilità di manipolare il flusso della visioneaccresce nello spettatore l’illusione di possederel’immagine, sospendendo la sua natura inafferrabile. E altempo stesso riconfigura le relazioni di gender: in quantonon è più solo l’immagine spettacolare della donna ad arre-stare la narrazione ma, in modo meno manifesto, anche laposa del personaggio maschile. Cogliendo la sfida della nuo-va estetica dell’immobilità, Laura Mulvey ripensa al cinema e atutte le sue implicazioni teoriche fino all’interpretazione del«ritardo» come elemento estetico nel cinema di Abbas Kia-rostami, capace di evocare «l’immagine-tempo» di memoriadeleuziana. La specificità del medium cinematografico inte-gra l’immobilità della singola immagine nell’inafferrabilitàdel flusso narrativo e nasconde il perturbante. Diversamen-te, il medium elettronico lo esibisce nell’arresto del foto-gramma, configurando nuove esperienze di visione e di go-dimento del corpo filmico.

Rossana Domizi

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Franco VoltaggioAntigone tradita. Una contraddizione della moderni-tà: libertà e stato nazionaleEditori Internazionali Riuniti, 2013, 368 pp., € 25,00

Di recente Alain Badiou, filosofo la cui ricerca è fortementeimprontata alla politica, ha sorprendentemente scritto unlibro sull’amore. Anche questo alla fine si è rivelato essereun libro politico dove l’amore, nelle forme che ricordanola radicalità ideale platonica, svolge un ruolo attivo e pro-positivo che per certi versi può essere definito utopico. Senon utopica, certamente inattuale è la forma rivoluzionariadella vita di coppia, dell’amore stabile in cui Badiou vedel’esercizio per una politica del cambiamento radicale. Nellaricostruzione che Franco Voltaggio fa del pensiero di Hegelsi assiste a un percorso diverso rispetto a quello di Badiounel metodo, ma simile nel merito, che prende spunto ugual-mente dall’amore.Il giovane Hegel, amico e sodale di Hölderlin, come lui nonsolo filosofo ma anche poeta, si innamora del personaggiosofocleo di Antigone. Successivamente l’innamoramento el’amore e con essi la poesia vengono abbandonati perchétroppo ideali e astratti, lontani da quello che sta succedendoin Europa con le guerre napoleoniche. L’eroina Antigone ela sua femminilità radicale, agli occhi di Hegel non sembra-no più avere mordente politico, non sembrano più rappre-sentare quello che accade, darne una comprensione. (Non a

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caso conoscere per comprendere e giustificare masticandoamaro, ancorché conoscere per cambiare, è uno dei leitmo-tiv che Voltaggio indica nella svolta del filosofo.) Hegel a uncerto punto la abbandona come figura di riferimento e pas-sa alla fase matura del suo percorso filosofico disincantato,concreto, realistico, improntato a una necessaria «coscienzainfelice». Ad Antigone succede un altro punto di riferimen-to: Napoleone – un eroe in luogo di un’eroina. In tal sensola dichiarazione di Hegel di aver finito il suo libro più im-portante, La fenomenologia dello spirito, lo stesso giorno in cuile truppe napoleoniche sconfiggono quelle prussiane è perVoltaggio rivelatrice. Il termine del progetto della Fenomeno-logia scandito dal riferimento napoleonico è il primo e fon-damentale passo che porta Hegel a completare con la Scien-za della logica e i Lineamenti della filosofia del diritto un proget-to teorico e politico ormai distante dagli ideali giovanili edai primi compagni del suo viaggio intellettuale, Hölderline Schelling, a loro volta innamorati di Antigone ma, a diffe-renza di Hegel, rimastile fedeli.Ma, si sa, il primo amore non si scorda mai. Anche dopo ilsuo abbandono, nell’opera di Hegel, Antigone si rifà viva co-me una sorta di «ritorno del rimosso» che aiuta a capire, se-condo la lettura di Voltaggio, i nuovi obiettivi della sua ri-cerca e la sua principale eredità teorica e politica. SecondoVoltaggio quest’eredità consiste in una potente teorizzazio-ne dello Stato nazionale e territoriale: un tradimento del di-ritto e della libertà che fa il paio col tradimento nei confron-

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ti di Antigone. Così che questo di Voltaggio finisce per es-sere un contributo importante alla riflessione sulle contrad-dizioni dello Stato-nazione: aporie rese sempre più evidentidal manifestarsi del paradigma bio-politico su cui, in ultimaanalisi, lo stesso Stato-nazione riposa.

Marco Pacioni

Paolo B. VernaglioneFilosofia del comunemanifestolibri, 2013, 186 pp., € 25,00

«Hopefulmonsters ci parla subito di una rottura irrimediabilecon il passato, che coinvolge tutti, e di una lotta feroce per lasopravvivenza, che la abita: non è un termine gentile, ma èpieno di fascino, e tratta proprio delle cose di cui è questio-ne, cioè di un mutamento genetico.» Così Lucio Castellano su«Metropoli» nel 1981. Hopefulmonster è quindi la filosofia delcomune, ovvero un mostro pieno di speranza, e il mutamen-to genetico è quello del passaggio dalla sussunzione forma-le alla sussunzione reale, quell’antropomorfosi del capitaleo bio-capitalismo che comporta la messa al lavoro integraledi corpi, cervelli ed emozioni. Harvey e Jameson hanno chia-mato questo mutamento «condizione postmoderna», e perloro le teorie postmoderniste sarebbero le «sentinelle» chesegnalano il passaggio in corso. È bene allora chiedersi come

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abbia operato esattamente quel postmodernismo all’italianasintetizzato dal pensiero debole e dalla transavanguardia.Queste teorie fanno proprio l’esaurimento del progresso e lacrisi del futuro come orizzonte aperto da colonizzare, met-tono in crisi la retorica del superamento e costruiscono unaretorica della fine del progresso. Il pensiero debole è Verwin-dung ovvero torsione della metafisica moderna (che non sipuò superare e alla quale rimettersi) e la transavanguardiaè Verwindung in quanto torsione della logica delle avanguar-die moderne. In questo senso sono la stessa cosa: il tempodel progresso ripiegato su se stesso, torsione del moderno.Eppure la critica alla retorica della crisi del progresso era giàtutta dentro una magnifica intuizione di Valéry quando scri-veva: «All’idolo del progresso rispose l’idolo della maledizio-ne del progresso; il che creò due luoghi comuni».In Italia il luogo comune del postmodernismo è diventatoun apparato di cattura, un dispositivo neutralizzante che hafrenato quella liberazione che in potenza era stata portatain superficie dalla Great Transformation degli anni Settanta eche il movimento del ’77 aveva intuito. E questo, si badi be-ne, non perché ha rifiutato o disconosciuto la liberazionepossibile, ma perché l’ha fatta propria neutralizzandolaall’interno della retorica della fine della storia. Ideologia raf-finata, dunque, tanto che si potrebbe dire che gli anni Ottan-ta sono stati un ’77 rovesciato anche dal punto di vista cul-turale. Ma la critica si può estendere al postmodernismo ingenerale, per cui la Underground Railroad non può consiste-

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re né nel recupero del progetto incompiuto del moderno, nénelle fantasmagorie del postmodernismo che rimane in ra-dice la logica culturale del tardo capitalismo. Si tratterebbepiuttosto di congedarsi da entrambi, dal moderno e dal post-moderno.Ed è quello che ci si propone qui, ovvero costruire – oltre ilmoderno – una filosofia materialista del comune. Senza peròdisfarsi sbrigativamente del moderno: ché anzi nella sua ge-nealogia del comune Vernaglione rivendica, per esempio, larivolta degli anabattisti in Germania, l’esperienza della Co-mune di Parigi e quella dei giacobini neri con la rivoluzionedi Santo Domingo. Restituendo così la profondità di campodella modernità che non è una sola, quella bianca e quelladel progresso, ma è di fatto un’idra dalle molte teste. La fi-losofia del comune non va neanche confusa, è bene sottoli-nearlo, con i beni comuni: «Mentre i secondi sono l’insiemedella ricchezza sociale valorizzata dal capitalismo, il comuneè la condizione di possibilità in cui i beni diventano riappro-priabili, qualora siano sottratti sia al potere pubblico che aquello privato». Nulla a che vedere neanche con infausti co-munitarismi né con comunità impolitiche di batalliana me-moria. Il comune è invece ciò che si costruisce insieme dise-gnando quella rete ingioiellata di Indra che ci avvolge. Infi-ne, nell’epoca della crisi della sovranità statuale e della leggedel valore-lavoro, se non costruiamo un pensiero del comune,il nemico non avrà smesso di vincere. Perché solo organiz-

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zare il comune è la grande bellezza che soppianta il postmo-derno.

Nicolas Martino

Gabriele TuriLa cultura delle destre Alla ricerca dell’egemonia cul-turale in ItaliaBollati Boringhieri, 2013, 175 pp., € 14,00

A chi provi ancora indignazione trovando il nome di BenitoMussolini nell’elenco dei cittadini onorari di una città dellaprovincia italiana, e stupore nell’ascoltare ragazzini di unadecina d’anni difendere tale scelta sulla base di esempi trattida documentari televisivi e da visite guidate per la tuteladel patrimonio, si può oggi suggerire la lettura della Culturadelle destre. Il saggio intende leggere il berlusconismo comeuna strategia culturale che aspira a un’egemonia in grado di«forgiare la fisionomia di una società» attraverso non solo lasedimentazione di «comportamenti e mentalità», ma anchela diffusione di «conoscenze e consapevolezze». E consentedi riflettere sull’orizzonte culturale che dalla metà degli an-ni Novanta va definendosi nel nostro paese.Il «comune denominatore della cultura delle destre di go-verno» passa, secondo Gabriele Turi, in primo luogo per«l’interpretazione della storia italiana» e per il «senso di ap-

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partenenza religiosa». Se i due temi caratterizzano da sem-pre la «formazione e l’identità profonda delle classi dirigentidel paese», da storico Turi tiene in particolare a concentrar-si sul primo. Il revisionismo diventa così il fulcro del libro, eviene indagato quale strumento per modellare la sensibilitàcollettiva e produrre consenso.L’evanescenza dei confini tra conservatori ed estrema de-stra, che caratterizza l’esperienza berlusconiana, ha inne-scato un «edulcoramento storiografico della dittatura diMussolini» che non alimenta una vera e propria nostalgiaper il fascismo ma porta a cancellare la rotturadell’esperienza resistenziale. La continuità del percorso ita-liano è privilegiata a discapito delle differenze tra vinti evincitori; mentre il processo di «pacificazione della memo-ria» procede attraverso un annullamento della complessitàdel passato. Il discorso revisionista tende a un’idea di culturapriva di ogni dimensione dialettica, di ogni voce dissonante.L’attacco a una lettura comunista e marxista del passato,conseguenza della presunta occupazione delle istituzioniculturali da parte della sinistra, anziché rifiutare davveroun discorso retorico e ideologico si rivela il presupposto perla creazione di una «cultura nazionale» assai ben caratte-rizzata, se i suoi cardini ripropongono Dio-Patria-Famiglia:un’«ideologia che si richiama a valori semplici come la “cul-tura italiana” e la “tradizione cristiana”».In questa prospettiva Turi analizza la politica della destrasulla scuola, in cui si inseriscono tanto la battaglia per la re-

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visione dei manuali di storia quanto la difesa del crocifissonelle aule, ma soprattutto mette in luce la riscoperta della«funzione connettiva» del ceto intellettuale: che si traducein una rete di think tank e in un network di riviste e isti-tuzioni in cui l’elaborazione di un discorso revisionista è lapiattaforma di una rilettura del passato a uso della politica.Pur nella consapevolezza dell’eterogeneità di tali soggetti, edella differenza dei loro pubblici, la panoramica di Turi met-te a fuoco, «attraverso l’intreccio di collaboratori, editori ecentri di ricerca pubblici e privati, un progetto del centro-destra di espansione e occupazione di spazi culturali e po-litici». Ci ritroviamo di fronte alla consueta battaglia delladestra contro l’egemonia della sinistra comunista e marxi-sta: storicamente anacronistica dopo l’89, certo, ma che quitocchiamo nel suo potere di penetrazione in larghi stratidell’opinione pubblica quale forza culturale in grado di can-cellare la dimensione antifascista dall’orizzonte mentale de-gli italiani.

Elisabetta Ruffini

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LA MUSICA

Un territorio aperto

Quattro vite jazz

Mario Gamba

Che cos’è il jazz. Dopo la letteratura e la filosofia, tocca aquesto filone della produzione artistica trovare i suoi Sartree i suoi Deleuze. Un genere? Ormai la parola è impronun-ciabile: si dà per scontato che i generi nella musica si sonomiscelati fino a scomparire, il contemporaneo colto post-se-riale lo trovi nell’art-rock e l’elettronica d’uso si confonde,alimentandola magari, con quella che ha avuto come alfieriVarèse, Stockhausen, Berio e Nono. Eppure un loro caratterelo mantengono, eccome se lo mantengono, gli integralistidel mélange dovrebbero accorgersene. Da Sanremo a BruceSpringsteen, da Darmstadt ai cantautori.Anche il jazz? Perché no. In tipi di musica diversissimi traloro ci trovi il jazz. Un tocco, una inflessione. Una pronun-

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cia, soprattutto: degli strumenti e delle voci. Bix Beiderbec-ke, Booker Little o Bill Dixon non assomiglieranno mai, nonsolo per gli spunti melodici e armonici e per il senso del-la costruzione di un brano, ma proprio per la pronuncia, alBerio della Sequenza X per tromba (con pianoforte di riso-nanza). Così come Billie Holiday o Jeanne Lee risultano co-munque «un’altra cosa» rispetto, mettiamo, alla Cathy Ber-berian di Visage di Berio o di Stripsody della stessa Berberian.Questione di pronuncia. Di un’anima inimitabile, con quellacomponente, lo swing, che nessuno è mai riuscito a dire checos’è, eppure esiste e si rintraccia nel dondolio e nello scattodell’orchestra di Benny Goodman come nell’assenza di pul-sazione del duetto Rebecca di Lee Konitz e Billy Bauer, bra-no che passava il confine della «contemporanea classica» giànel 1950, molto prima che fosse inventato il free.Il jazz è un territorio? Chiuso? Macché. La sua serialità da su-permercato, se vogliamo (e se qualcuno si scandalizza, con-sulti i saggi di Massimo Ilardi sul valore sovversivo del con-sumo), da Lionel Hampton a Gerry Mulligan, da Count Basieagli hard-boppers della Blue Note, sprigiona malìa languoriossessioni perversioni, apre i confini, chiama allo zig-zag suipunti dove sono stati segnati i limiti. Dal free in poi e poi conl’improvvisazione totale, il tragitto creativo tra deterritoria-lizzazione e riterritorializzazione è garantito. E pure con lemille forme del jazz ultimo, ma lì la molteplicità, bisognadirlo, sfuma pericolosamente nell’eclettismo e nei flirt stan-chi col popular, la mescolanza nella povertà ideativa, vedi la

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musica inerte di due celebrati campioni da referendum co-me Rob Mazurek e Vijay Iyer.Il jazz un genere. Uhm, brutta parola, al di là dei decreti diespulsione dal vocabolario critico aggiornato. Evoca una fis-sità. Non è il caso nostro. Il jazz è un capitolo aperto dellastoria della musica. Se si preferisce dribblare il concetto distoria della musica (quando un susseguirsi di esperienze ar-tistiche o di rivolte sociali diventa «storia di», il museo èpronto e la cosa dispiace): è un torrente di suoni scaturi-to all’inizio del ventesimo secolo negli Stati uniti e da allo-ra serpeggiante in tutto il mondo. Come succede nelle arti,ci sono nel jazz gruppi di suoni inattuali/contemporanei egruppi di suoni cronologici, cioè poco interessanti per la vi-ta d’oggi.Eppure. La distanza «di genere» (musicale) tra la Jeanne Leedi Jamaica (dall’album straordinario intitolato Conspiracy) ela Joan La Barbara di Tapesong è minima. Stessa apparte-nenza a un «genere» più ampio, seppure effimero, designa-to con un’altra parola divenuta proibita, avanguardia. Eppu-re. Il primo caso ha a che fare col jazz, il secondo no. Per-ché? La pronuncia, la presenza «convenzionale» di contrab-basso e batteria, un soffio di esistenza che con la scuola,l’accademia, il registro non ha legami, per quanto siano tuttecose lasciate indietro, dimenticate, rovesciate da La Barbara.C’è chi osserva che il jazz è ormai musica da camera. Vero.Musica da camera totalmente indisciplinare, furiosamente,estaticamente insensibile alle regole come The Topography of

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the Lungs di Evan Parker-Derek Bailey-Han Bennink? Buonesempio. Ma anche lì non si riesce a non sentire l’approcciojazzistico, una pratica di vita molto speciale che è stata in-troiettata e messa in gioco con la massima libertà. Messa ingioco fino alla dissoluzione, sia chiaro. Una sintonia possibi-le si può trovare con i lavori migliori, Es War Einmal (1968),per esempio, del mirabilissimo Gruppo di ImprovvisazioneNuova Consonanza.Aspettando i trattati di indagine teorica, anzi filosofica, sitrovano scampoli utili in un libro del 1966 uscito solo orain edizione italiana per minimum fax, Quattro vite jazz di Al-fred B. Spellman (non si è riusciti in nessun modo a scoprirequale nome si celi dietro l’iniziale B.). Si tratta delle vite dif-ficili di Cecil Taylor, Ornette Coleman, Herbie Nichols, Jac-kie McLean. Due innovatori riconosciuti (tardi, almeno ne-gli Usa) come capiscuola, Taylor e Coleman. Un solitario ri-cercatore, Nichols, morto a 44 anni nell’oblio di tutti e nellaquasi totale assenza di documenti del suo genio gentile ispi-rato da Tatum e Monk. Un graffiante/meditativo altosasso-fonista, McLean, seguace di Charlie «Bird» Parker e di Le-ster Young, sollecitato a un certo punto, nei primi anni Ses-santa, dalla New Thing dei rivoluzionari afro-americani, unpo’ clandestino, spesso privato della tessera per suonare neiclub, la famosa cabaret card, per via della sua dipendenzadalle droghe.Usa terreno fertile per il jazz, da sempre il più fertile. In-dustria americana del jazz – quella «minore» ma pressoché

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unica, almeno fino a trent’anni fa, dei locali notturni – sorda,spietata, oltraggiosa verso gli innovatori, verso i musicistinon conformisti e visionari che non si adeguano alle regole,presunte auree, dell’entertainment. Ecco il panorama nelquale Spellman inserisce il racconto di queste quattro vite,facendo molto parlare i protagonisti che ha scelto. Oggi, vadetto, le cose vanno molto diversamente per i tre grandi au-tori viventi: Taylor e Coleman ricevono commissioni pubbli-che e private, McLean dirige scuole di musica. Probabile chenon siano rose e fiori nemmeno oggi per chi sperimenta lin-guaggi nuovi, ma si sa che le università e le associazioni au-tonome (esemplare la celebre e illuminata Aacm di Chicago)offrono opportunità a molti talenti.Cecil Taylor è nel libro l’interlocutore più interessante. Co-me musicista ha messo in campo l’idioma più azzardato,più vicino all’«informale», indifferente alla tonalità e a ognitipo di armonia prestabilita, torrenziale, frenetico, «finoall’ultimo respiro» ma con squarci di lirismo solenne, piani-sta percussivo, campione di una «danza sulle dita e anchecon tutto il corpo» che inebria ed elettrizza, a patto di nonessere tra coloro che dall’arte si aspettano conciliazione. Trai jazzmen di gran nome è il più facilmente accostabile (maassimilabile davvero no) alle esperienze delle avanguardie eneoavanguardie musicali europee. Chi non ha pensato alme-no una volta a Stockhausen, magari quello degli ultimi Kla-vierstücke, ascoltando Cecil Taylor? Eppure lui rivendica la

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specificità del jazz. Ne illustra la grandiosità, il respiro, la vi-talità. Forse il primato.Leggerlo nella trasposizione di Spellman è un piacere. Piut-tosto incalzante anche come parlatore. Un tipo che non siconcede tanto facilmente ai critici e ai cronisti, specie sebianchi (Spellman è nero), e quindi l’occasione è preziosa,visto che non c’è gran mole di sue dichiarazioni articolatenegli archivi: «Sento dire che io guarderei all’Europa, ma chivede al di là del suo naso sa benissimo che sono gli europeia guardare verso il jazz. Le forme estese hanno esaurito leloro potenzialità. Nessuno le usa più, scrivendo. Roba da Ot-tocento. La sonata è vecchia, fuori moda. Ed ecco da doveesce fuori Webern. Insomma, stanno cercando di raggiunge-re il nocciolo, l’enunciazione musicale breve, essenziale. Cisaranno quando arriveranno al punto in cui succede tutto:lo sviluppo, il climax».

Alfred B. SpellmanQuattro vite jazz. Cecil Taylor, Ornette Coleman, Her-bie Nichols, Jackie McLeantraduzione di Marco Bertoli. minimum fax, 2013, 267 pp., € 16,00

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L’ARTE

Geologico e domestico

Bill Viola a Londra

Flora Pitrolo

In una recente intervista con Yvette Greslé, a proposito dellamostra in corso a Londra all’elegante galleria Blain Sou-thern, Bill Viola afferma che «spesso ciò che manca è il mi-stero – non si vede più nel mondo dell’arte. Gli artisti non neparlano. E io penso che il mistero è forse l’aspetto più impor-tante del mio lavoro. Il mistero è quando apri la porta, te lachiudi dietro, e non sai dove stai andando. Sei perduto. Que-sto essere perduti è una delle cose più importanti».Perdere – e perdersi – è sempre stato molto più interessanteper Viola piuttosto che trovare, o trovarsi – e questo è chiaroanche questa volta, che in mostra ci sono nove nuovi lavoriche non si risolvono, che sembra abbiano come obiettivouna non-risoluzione. Il titolo della mostra, Frustrated Actions

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and Futile Gestures, sembra puntare proprio a questo non-ri-solversi di tutti i lavori presenti alla Blain Southern, un non-risolversi che non è una questione di fallimento (si parlamolto, troppo, di failure di questi tempi – forse perché si hapaura di parlare di mistero?), o una mossa narrativa ben in-gegnata per «lasciare aperta» una fine. Questo non-risolver-si appartiene piuttosto a un ordine temporale. Il tempo diBill Viola, qui, è trasparente: non soltanto in loop, ma senzadensità. Un tempo allo stesso tempo geologico e domestico,che cambia continuamente peso e misura, impossibile da ac-chiappare. Squisitamente narrativo eppure senza vettoriali-tà: l’impressione è sempre quella di aver dimenticato la fine,come in certi grandi film o in certi grandi romanzi.La mostra prende il nome da uno dei lavori-cardine in espo-sizione, Chapel of Frustrated Actions and Futile Gestures, noveschermi orizzontali che mostrano un uomo e una donna chesi guardano nel silenzio, rotto a tratti da uno schiaffo o unabbraccio; un uomo in esterno notte che scava e riempieun buco nella terra; una donna che sistema con cura delleporcellane in una valigia, che poi svuota per ricominciaretutto da capo. Ma l’attenzione è catturata soprattutto dalloschermo in alto a destra: c’è un uomo che traina un carrosu per una collina – giunto alla vetta ecco che il carro ridi-scende, silenzioso, a velocità regolare. L’uomo lo osserva unattimo prima di tornare a riprenderselo, e ricominciare nelsuo ciclo inutile. L’allusione al Mito di Sisifo di Camus ripor-ta le azioni domestiche a un piano più cosmico, e il termine

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Chapel nel titolo assume una sua significativa religiosità: alleazioni frustrate e ai gesti futili si sommano i vizi assurdi.Oltre alla Chapel, la prima sala della Blain Southern – che,occorre dirlo perché si sposa bene col lavoro di Viola, è ungigantesco spazio bianco, impeccabilmente rifinito, che ri-corda certe ville Californiane – contiene tre pezzi del cicloMirage. Si tratta di opere girate a El Mirage, nel desertodel Mojave, che ritraggono lunghe camminate dall’orizzonteverso lo spettatore, in cui i personaggi attraversano variefasi di visibilità e invisibilità nel loro procedere lenti trasoffi di sabbia, di umidità, di foschie desertiche. L’atmosferaè mitica, addirittura biblica: sono figure che alla fine delpercorso hanno «attraversato qualcosa», e alla nitidezzadell’immagine corrisponde in qualche modo una nitidezzainteriore, riflessa nei loro visi distesi, sereni, neutrali.Si parla molto – nel catalogo della mostra, nelle recensioni,nelle discussioni fra i visitatori – di passaggi interiori edesteriori, attraversamenti geografici, mentali, spirituali. Maciò che rende strano, ed estraneo, tutto questo è la perfor-matività quasi naïve dei personaggi di Viola, questo loro fa-re mimetico, gesti quasi didattici, stati d’animo ben disegna-ti sui visi eppure sospesi in una neutralità-serenità talmenteinnocente da rendere tutto abbastanza misterioso. Nelle mes-sinscene di Viola c’è una specie di dramma di superficie, unanarratività di situazione, che sembra non avere mai degli ef-fetti «veri» sui protagonisti. Puntano a un’eventualità o aun’altra, illustrano scene quasi fossero parabole, ma tornano

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sempre al neutrale. Come se le opere fossero degli esempi,e i personaggi esemplari. Si vede bene nel terzo lavoro dellaprima sala, Man with His Soul, e il primo della seconda, Angelat the Door. Il primo è un piccolo dittico raffigurante un uo-mo e la sua anima su due sedie, l’uomo è a colori e l’animain bianco e nero. L’uomo legge una lettera e la ripone in ta-sca, l’aria preoccupata e seria; l’anima legge la stessa letterae scoppia in lacrime. Aspettano qualcosa, non sapremo maicosa. In Angel at the Door un uomo legge un libro ma vienecontinuamente interrotto da un bussare alla porta violen-to, minaccioso: quando finalmente avrà il coraggio di apri-re non troverà nessuno. Poi l’uomo scompare, non sapremomai dove o perché.L’impossibilità di leggere queste immagini in modo pura-mente narrativo viene non solo dalla neutralità serena degliattori, ma da quella degli interni minimali, perfettamentemisurati; e dall’altissima definizione del video, da una messaa fuoco che sembra più reale del reale, dalla sua pulizia e di-sarmante limpidezza. Eppure l’elemento narrativo è moltopiù presente in Bill Viola che in altri video-artisti: come sequesta limpidezza tecnica dovesse essere abitata da una lim-pidezza di esempio, come se il medium creasse il messaggiodi sé stesso, qualcosa che, come il medium, è perfettamente«in chiaro» eppure stranamente oscuro.Altri due passaggi portano al piano inferiore. Man Searchingfor Immortality / Woman Searching for Eternity, proiettato sudue grandi lastre di granito nero, mostra due attori anziani,

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nudi, che ispezionano con piccole torce i segni del proprioinvecchiamento, comparendo e scomparendo quasi imper-cettibilmente nel nero della pietra. Inner Passage è un’altracamminata nel Mojave interrotta, questa volta, da un lungomontaggio caotico di suono, luci, colori, esplosioni, incendi,automobili in corsa, cani inferociti. Di nuovo il momentodrammatico non è affidato all’attore ma all’immagine stessa,l’immagine da sola. Quando l’uomo torna sullo schermo,camminando a passi regolari, abbiamo l’impressione diaverlo seguito in un incubo – il suo o il nostro poco importa,un incubo universale. E sembra anche che abbia bruciato lasua immagine sul video, e che le immagini di prima conti-nuino a vivere nelle immagini di adesso, come se anche que-sto HD smagliante fosse, in fondo, composto come un anticopalinsesto, in cui le tracce si confondono a ogni nuova lenta,silenziosa, lunghissima attraversata di El Mirage.L’opera in mostra nel sotterraneo della galleria è forse la piùchiacchierata tra le nove, The Dreamers. Qui, Bill Viola tor-na all’acqua, elemento chiave della sua ricerca ed elemen-to sia allegoricamente che fotograficamente denso, signifi-cativo. Sette schermi rivestono le pareti della saletta scura, esu ogni schermo c’è un «sognatore»: personaggi sott’acqua,con gli occhi chiusi, che – lentissimamente – respirano. Unodei dreamers – l’immagine usata per la promozione della mo-stra – è una bambina dalle lunghe trecce bionde con un ve-stitino rosso a balze che, vista da sola, fa pensare all’Ophe-lia di Millais. Vista insieme alle altre, invece, l’immagine non

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ha nulla di tragico: si ha la sensazione di essere in pausa, co-me se tutti dormissero. Suoni acquatici si diffondono per lastanza, le bocche e i nasi dei sognatori producono minuscolebollicine, i loro visi vengono deformati dolcemente dal mo-vimento dell’acqua. Vediamo l’uomo d’affari, la signora an-ziana ed elegante, la bambina in rosso, e più che sentirci im-mersi nell’opera è come se ci riconoscessimo, tanto i sogna-tori si attengono alla preferenza stilistica di Bill Viola per lagente «qualunque». È come se la società stessa, quelle chedeambula tranquilla un piano più in su, per le strade di Lon-dra, fosse d’un tratto sott’acqua: il mondo è sommerso. Ci silascerebbe prendere da preoccupazioni fantascientifiche senon fosse per l’atmosfera, che è così lenta, rassicurante, cal-da.

Bill Viola, Frustrated Actions and Futile Gestures. Londra,Blain Southern, 5 giugno - 27 luglio 2013

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IL CINEMA

Il noi e l’io

Alcuni film recenti su New York

Valerio Coladonato

Che tipo di immaginario ha costruito il cinema recente suNew York? Vengono in mente due versioni distinte e incon-ciliabili: c’è la città dei blockbuster, teatro di eventi collettivie disastri su vasta scala; e c’è quella vissuta in modo intimoe solipsistico, habitat del soggetto alienato da ogni contat-to umano. Ma negli ultimi due anni una serie di nuovi filmrestituiscono una versione della vita nella Grande mela chesfugge a questa dicotomia. L’anello che mancava è proprio ilnesso tra individuo e contesto urbano. Emerge quindi il mo-do in cui l’io è sempre costituito e preso nella rete sociale, amaggior ragione in un luogo come New York, in cui gli scam-bi e gli scontri sono di frequenza e intensità eccezionali. So-no film di varia provenienza, accomunati da una produzione

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indipendente e dal passaggio in festival come Tribeca e Sun-dance (e in qualche caso, Cannes e Toronto). Ma le strettoiedella distribuzione, non solo italiana, hanno impedito loro lavisibilità che avrebbero meritato.Gimme the Loot, esordio di Adam Leon, segue lo scapestratotentativo di due adolescenti del Bronx, Sophia e Malcolm, diguadagnarsi il loro quarto d’ora di celebrità. I due sono writ-ers, ovvero marchiano di graffiti i muri della città, e proget-tano di firmare la mela gigante nello stadio dei New YorkMets. A caccia della «grana» (loot) per compiere l’impresa,prendono di mira l’appartamento di una facoltosa ragazza«da scuola privata» (Ginnie). È questo l’incontro più riuscitodel film, carico di allusioni alle differenze sociali di cui i per-sonaggi manifestano acuta consapevolezza. Ma il segmentopiù rocambolesco è quello in cui, per dar tempo a Malcolmdi svaligiarne l’appartamento, Sophia insegue Ginnie nel suojogging cittadino – quasi una parodia dell’angosciante se-quenza che ritrae la stessa azione in Shame di Steve Mc-Queen. Nel ritmo di Gimme the Loot si fondono l’energia delleculture giovanili urbane e i tempi serrati del cinema ameri-cano attuale.Anche Frances Ha si presenta, a tratti, come una commediaslapstick. La protagonista del film di Noah Baumbach èun’improbabile ballerina che approda a Brooklyn per coro-nare le sue ambizioni, e si trova invece a fare i conti con l’etàadulta. È il più classico dei canovacci newyorkesi, il raccon-to di formazione di un aspirante artista. Frances Ha è confe-

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zionato in modo nostalgico: girato in bianco e nero, il filmomaggia le colonne sonore di Georges Delerue ed è stato av-vicinato da molti a un Woody Allen d’annata. Ma Baumbachintercetta anche un’altra tendenza nell’indagare il desideriodi affermazione femminile nelle sue frustrazioni e nei suoifallimenti, oltre che nella versione più patinata (si pensi allaserie tv Girls, con la quale condivide l’attore Adam Driver).L’influenza dei migliori serial statunitensi è evidente anchein Gun Hill Road, diretto da Rashaad Ernesto Green. Il filmprende il titolo da una delle principali arterie del Bronx, incui si sviluppa un tormentoso conflitto all’interno di una fa-miglia portoricana. L’ex detenuto Enrique vuole riafferma-re il ruolo paterno, ma il figlio adolescente Michael lo rifiu-ta: impegnato in una transizione dal gender maschile a quel-lo femminile, modifica il proprio aspetto e il proprio abbi-gliamento. Gun Hill Road restituisce la tragica forza degli ste-reotipi e dei tentativi di normalizzazione coatta dell’identitàsessuale, in un contesto ancorato a modelli tradizionali. Ilregista presenta la duplice prospettiva del conflitto:l’angoscia di Enrique che sente minacciata la sua virilità, e lacoraggiosa autoaffermazione di Michael. Tale scontro si av-vale inoltre di due ottime prove attoriali, rispettivamente diEsai Morales e dell’esordiente Harmony Santana.Anche Keep the Lights On (diretto da Ira Sachs) ruota attornoalla sessualità dei protagonisti: Erik è un cineasta danese checerca di farsi strada a New York, e affianca alla frenesia dellavoro una serie di fugaci incontri carnali. Quando incontra

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Paul, un avvocato impegnato in una relazione eterosessuale,l’attrazione li fa precipitare in un rapporto passionale quan-to dannoso. L’intimità tra i due uomini è sviscerata attra-verso una narrazione episodica, drammaticamente depoten-ziata. Le strade affollate di Manhattan costituiscono un ri-fugio e un momento di quiete interiore per il protagonista.Ma l’insistenza sulla claustrofobia della coppia va a discapitodell’esplorazione del mondo che la circonda, e la dimensioneforzatamente contemplativa del film finisce per indebolirlo.Altri titoli, come Restless City di Andrew Dosunmu, minanoalla base la possibilità di tracciare un dentro e un fuori dellacittà, di isolare uno «specifico» newyorkese. La vicenda nar-rata rivisita un topos di lunga data: Djibril è un giovane sene-galese che sogna il successo nell’industria discografica; ar-rivato a New York s’invaghisce di una prostituta, tenta difarle cambiar vita, e rimane invischiato in affari più grandidi lui. Il film mostra le interazioni tra la recente immigra-zione africana e la comunità di Harlem: sul «New York Ti-mes» George Nelson lo ha inserito in una nuova linea del ci-nema nero, che problematizza l’esperienza afroamericana.Restless City è poi interessante per alcune scelte di messa inscena: l’isolamento di Djibril è tradotto attraverso angola-zioni e movimenti anomali delle inquadrature, associate asuoni ovattati o distorti. Ma la solitudine del protagonistanon è una condizione intrinseca. Al contrario, le pur labiliconnessioni che egli riesce a stabilire testimoniano una ri-cerca e un’apertura esistenziale forte.

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Con l’efficace titolo The We and the I (Il noi e l’io), l’ultimolavoro di Michel Gondry esemplifica meglio di ogni altro latendenza che abbiamo provato a descrivere. Il film è quasiun trattato sulla negoziazione tra le aspirazioni individualie l’ambiente sociale, e sulla costante ridefinizione del sé nelconflitto con gli altri. Ma non è un film a tema: al contrarioha una struttura narrativa agile e frammentaria, che lasciairrisolte molte delle vicende evocate. Anche The We and theI è ambientato nel Bronx. Un gruppo di liceali sale a bordodi un autobus dopo l’ultimo giorno di scuola, e nell’affollatotragitto condivide conversazioni, insulti, scherni, tentatividi approccio e conoscenza reciproca. Le interazionidell’insieme multietnico di studenti, scandite a ritmo di hip-hop, avvengono sia dal vivo che in modo virtuale. Ad esem-pio, l’accesso via cellulare al video di un compagno di scuoladetermina l’inclusione o l’esclusione dal gruppo dominante.Condensando una serie di temi «metropolitani» come il di-namismo, la volontà di autoaffermazione, l’esplorazionedella sessualità, il confronto con l’Altro e il passaggio all’etàadulta, il film li restituisce in forma fresca e contemporanea.Gli adolescenti di Gondry danno così un’efficace misura del-la vita di una città conflittuale e vitale come New York.

Adam Leon, Gimme the Loot (Usa 2012)Noah Baumbach, Frances Ha (Usa 2012)Rashaad Ernesto Green, Gun Hill Road (Usa 2011)Ira Sachs, Keep the Lights On (Usa 2012)

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Andrew Dosunmu, Restless City (Usa 2011)Michel Gondry, The We and the I (Usa 2012)

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Il noi e l’io

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Sommario

EDITORIALI

Maurizio FerrarisPer una sinistra cosmopolita

Franco Berardi BifoLa rivolta che non crede nel futuro

Augusto IlluminatiDistrazioni di massa

Michele EmmerSi investe nella scienza, in Trentino

Ornella TajaniSul rischio manicheo di certe Ztl

Sommario

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ILVA, L’ACCIAIO CHE UCCIDE

Ilva, l’acciaio che uccide

Conversazione di Christian CaliandroParlano gli operai

Alessandro LeograndeIl groviglio, le scelte

Leonardo PalmisanoDal tramonto all’alba

CristòIl sapore dell’acciaio sporco

EDITORIA INDYEUROPEA

Editoria Indyeuropea

Ilaria BussoniLibri a qualunque costo

Sommario

Page 511: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Collettivo 451La querelle dei moderni e dei moderni

Alfonso SerranoPer farla finita con le briciole

SCUOLA DIGITALE

Giuseppe Dino BaldiIl tempo delle scelte

EDUCAZIONE AMERICANA

Educazione americana

Eric MartinOltre gli scioperi studenteschi

Bruno CavaIl colore della quota

Sommario

Page 512: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Roberto VargasUniversità autonoma e lotte sociali

Intervista a Natalia Polti di Claudia Bernardi e AliosciaCastronovoBachilleratos populares

PERSONAGGI D’ECCEZIONE

Personaggi d’eccezione

Pierluigi Basso FossaliEffetti di carisma

Giacomo FestiEccezion fatta, eccezion ficta

Valentina CarrubbaLo specchio di Calibano

MAURO STACCIOLI

Sommario

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Simona SantiniMauro Staccioli

Alberto FizLa geometria deviata del grande costruttore

RI-SITUAZIONISMO

Ri-Situazionismo

Mario PerniolaCiò che è vivo e ciò che è morto

Anselm JappeLotta nelle strade contro lo spettacolo?

Carsten JuhlDalla critica allo spettacolo al corpo critico

Laura RascaroliAncora alla deriva?

Sommario

Page 514: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Amalia VerzolaCome ripensare la contestazione

GRECIA

Dimitri DeliolanesLa guerra dell’informazione

Vassilis VassilikosNo signal

GRUPPO 63

Cinquant’anni dopo

Umberto EcoMa ti paiono questi i tempi per scrivere un romanzo?

Giorgio ManganelliSgomberare le macerie

Sommario

Page 515: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Elio PagliaraniUna mappa di terremoti

Enrico FilippiniSegni divergenti che non convergevano mai

Giulia NiccolaiNella vasta mattina di luce implacabile

Carla VasioSì, sono suoni, ma difficili da sentire

50 anni del Gruppo 63

PAOLO ROSA 1949-2013

Manuela GandiniLe armi dell’arte e della gentilezza

Paolo FabbriArtista plurale

Sommario

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GLI ARTISTI DI ALFABETA2

Giovanna GiustiRoberto Barni Passi d’oro

Andrea FioreEmilio Isgrò Modello Italia (2013-1964)

SEMAFORO & LESSICO

Maurizio LazzaratoLessico dell’uomo indebitato

Maria Teresa CarboneSemaforo

ALFATURK UNA RIVOLTA TRASVERSALE

Franco La CeclaUna protesta urbana

Sommario

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Turgul ArtunkalDemocrazia islamica

Alberto Fabio AmbrosioLa Turchia come simbolo

Eleonora CastagnaUn coro di voci meraviglioso

Conversazione di Eleonora Castagna con Melis İnan eSinem ÖzerLa potenza della ricerca di libertà

Sena BasozRemixtenza

POESIA

Poesia

Andrea InglesePer una poesia irriconoscibile

Sommario

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Andrea CortellessaPer riconoscerla: tre connotati

Esempi da Poesia 13

Cetta Petrollo PagliaraniTre giorni a Rieti

Marco GiovenaleSpettri che parlano

Massimiliano ManganelliEX.IT: contesti aperti

Frammenti da EX.IT

Gilda PolicastroNon come vita

ilRACCONTO

Sommario

Page 519: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

CopiVirginia Woolf ha colpito ancora

iLIBRI

iLibri

LA MUSICA

Mario GambaUn territorio aperto

L’ARTE

Flora PitroloGeologico e domestico

IL CINEMA

Valerio ColadonatoIl noi e l’io

Sommario

Page 520: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

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Sommario

Page 521: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Autori

Esempi da Poesia 13

Ilva, l’acciaio che uccide

Editoria Indyeuropea

Educazione americana

Personaggi d’eccezione

Poesia

Frammenti da EX.IT

Ri-Situazionismo

Autori

Page 522: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Cinquant’anni dopo

50 anni del Gruppo 63

iLibri

Collettivo 451La querelle dei moderni e dei moderni

Alberto Fabio AmbrosioLa Turchia come simbolo

Turgul ArtunkalDemocrazia islamica

Giuseppe Dino BaldiIl tempo delle scelte

Sena BasozRemixtenza

Autori

Page 523: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Franco Berardi BifoLa rivolta che non crede nel futuro

Ilaria BussoniLibri a qualunque costo

Conversazione di Christian CaliandroParlano gli operai

Maria Teresa CarboneSemaforo

Valentina CarrubbaLo specchio di Calibano

Eleonora CastagnaUn coro di voci meraviglioso

Intervista a Natalia Polti di Claudia Bernardi e AliosciaCastronovoBachilleratos populares

Autori

Page 524: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Bruno CavaIl colore della quota

Franco La CeclaUna protesta urbana

Valerio ColadonatoIl noi e l’io

CopiVirginia Woolf ha colpito ancora

Andrea CortellessaPer riconoscerla: tre connotati

CristòIl sapore dell’acciaio sporco

Dimitri DeliolanesLa guerra dell’informazione

Autori

Page 525: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Umberto EcoMa ti paiono questi i tempi per scrivere un romanzo?

Michele EmmerSi investe nella scienza, in Trentino

Paolo FabbriArtista plurale

Maurizio FerrarisPer una sinistra cosmopolita

Giacomo FestiEccezion fatta, eccezion ficta

Enrico FilippiniSegni divergenti che non convergevano mai

Andrea FioreEmilio Isgrò Modello Italia (2013-1964)

Autori

Page 526: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Alberto FizLa geometria deviata del grande costruttore

Pierluigi Basso FossaliEffetti di carisma

Mario GambaUn territorio aperto

Manuela GandiniLe armi dell’arte e della gentilezza

Marco GiovenaleSpettri che parlano

Giovanna GiustiRoberto Barni Passi d’oro

Augusto IlluminatiDistrazioni di massa

Autori

Page 527: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Andrea InglesePer una poesia irriconoscibile

Anselm JappeLotta nelle strade contro lo spettacolo?

Carsten JuhlDalla critica allo spettacolo al corpo critico

Maurizio LazzaratoLessico dell’uomo indebitato

Alessandro LeograndeIl groviglio, le scelte

Massimiliano ManganelliEX.IT: contesti aperti

Giorgio ManganelliSgomberare le macerie

Autori

Page 528: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Eric MartinOltre gli scioperi studenteschi

Giulia NiccolaiNella vasta mattina di luce implacabile

Cetta Petrollo PagliaraniTre giorni a Rieti

Elio PagliaraniUna mappa di terremoti

Leonardo PalmisanoDal tramonto all’alba

Mario PerniolaCiò che è vivo e ciò che è morto

Flora PitroloGeologico e domestico

Autori

Page 529: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Gilda PolicastroNon come vita

Laura RascaroliAncora alla deriva?

Simona SantiniMauro Staccioli

Alfonso SerranoPer farla finita con le briciole

Ornella TajaniSul rischio manicheo di certe Ztl

Roberto VargasUniversità autonoma e lotte sociali

Carla VasioSì, sono suoni, ma difficili da sentire

Autori

Page 530: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Vassilis VassilikosNo signal

Amalia VerzolaCome ripensare la contestazione

Conversazione di Eleonora Castagna con Melis İnan eSinem ÖzerLa potenza della ricerca di libertà

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Autori

Page 531: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Argomenti

EditorialiIlva, Taranto & culturaEditoria indyeuropea

Scuola digitaleEducazione americanaPersonaggi d’eccezione

Mauro StaccioliPoesia

Ri-SituazionismoGrecia

Gruppo 63Paolo Rosa 1949-2013Gli artisti di Alfabeta2

Semaforo & LessicoAlfaturk

Il RaccontoiLibri

Argomenti

Page 532: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

La MusicaL’arte

Il CinemaTorna al menù

Argomenti

Page 533: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Editoriali

Maurizio FerrarisPer una sinistra cosmopolita

Franco Berardi BifoLa rivolta che non crede nel futuro

Augusto IlluminatiDistrazioni di massa

Michele EmmerSi investe nella scienza, in Trentino

Ornella TajaniSul rischio manicheo di certe Ztl

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Editoriali

Page 534: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Ilva, Taranto & cultura

Ilva, l’acciaio che uccide

Conversazione di Christian CaliandroParlano gli operai

Alessandro LeograndeIl groviglio, le scelte

Leonardo PalmisanoDal tramonto all’alba

CristòIl sapore dell’acciaio sporco

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Ilva, Taranto & cultura

Page 535: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Editoria indyeuropea

Editoria Indyeuropea

Ilaria BussoniLibri a qualunque costo

Collettivo 451La querelle dei moderni e dei moderni

Alfonso SerranoPer farla finita con le briciole

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Editoria indyeuropea

Page 536: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Scuola digitale

Giuseppe Dino BaldiIl tempo delle scelte

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Scuola digitale

Page 537: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Educazione americana

Educazione americana

Eric MartinOltre gli scioperi studenteschi

Bruno CavaIl colore della quota

Roberto VargasUniversità autonoma e lotte sociali

Intervista a Natalia Polti di Claudia Bernardi e AliosciaCastronovoBachilleratos populares

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Educazione americana

Page 538: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Personaggi d’eccezione

Personaggi d’eccezione

Pierluigi Basso FossaliEffetti di carisma

Giacomo FestiEccezion fatta, eccezion ficta

Valentina CarrubbaLo specchio di Calibano

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Personaggi d’eccezione

Page 539: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Mauro Staccioli

Simona SantiniMauro Staccioli

Alberto FizLa geometria deviata del grande costruttore

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Mauro Staccioli

Page 540: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Poesia

Poesia

Andrea InglesePer una poesia irriconoscibile

Andrea CortellessaPer riconoscerla: tre connotati

Esempi da Poesia 13

Cetta Petrollo PagliaraniTre giorni a Rieti

Marco GiovenaleSpettri che parlano

Poesia

Page 541: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Massimiliano ManganelliEX.IT: contesti aperti

Frammenti da EX.IT

Gilda PolicastroNon come vita

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Poesia

Page 542: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Ri-Situazionismo

Ri-Situazionismo

Mario PerniolaCiò che è vivo e ciò che è morto

Anselm JappeLotta nelle strade contro lo spettacolo?

Carsten JuhlDalla critica allo spettacolo al corpo critico

Laura RascaroliAncora alla deriva?

Amalia VerzolaCome ripensare la contestazione

Ri-Situazionismo

Page 543: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

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Ri-Situazionismo

Page 544: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Grecia

Dimitri DeliolanesLa guerra dell’informazione

Vassilis VassilikosNo signal

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Grecia

Page 545: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Gruppo 63

Cinquant’anni dopo

Umberto EcoMa ti paiono questi i tempi per scrivere un romanzo?

Giorgio ManganelliSgomberare le macerie

Elio PagliaraniUna mappa di terremoti

Enrico FilippiniSegni divergenti che non convergevano mai

Giulia NiccolaiNella vasta mattina di luce implacabile

Gruppo 63

Page 546: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Carla VasioSì, sono suoni, ma difficili da sentire

50 anni del Gruppo 63

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Gruppo 63

Page 547: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Paolo Rosa 1949-2013

Manuela GandiniLe armi dell’arte e della gentilezza

Paolo FabbriArtista plurale

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Paolo Rosa 1949-2013

Page 548: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Gli artisti di Alfabeta2

Giovanna GiustiRoberto Barni Passi d’oro

Andrea FioreEmilio Isgrò Modello Italia (2013-1964)

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Gli artisti di Alfabeta2

Page 549: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Semaforo & Lessico

Maurizio LazzaratoLessico dell’uomo indebitato

Maria Teresa CarboneSemaforo

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Semaforo & Lessico

Page 550: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Alfaturk

Franco La CeclaUna protesta urbana

Turgul ArtunkalDemocrazia islamica

Alberto Fabio AmbrosioLa Turchia come simbolo

Eleonora CastagnaUn coro di voci meraviglioso

Conversazione di Eleonora Castagna con Melis İnan eSinem ÖzerLa potenza della ricerca di libertà

Sena BasozRemixtenza

Alfaturk

Page 551: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

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Alfaturk

Page 552: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Il Racconto

CopiVirginia Woolf ha colpito ancora

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Il Racconto

Page 553: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

iLibri

iLibri

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iLibri

Page 554: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

La Musica

Mario GambaUn territorio aperto

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La Musica

Page 555: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

L’Arte

Flora PitroloGeologico e domestico

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L’Arte

Page 556: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Il Cinema

Valerio ColadonatoIl noi e l’io

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Il Cinema

Page 557: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Indice delle cose citate

(Timequakes), in Esempi da Poesia 13.44, in Per riconoscerla: tre connotati.Abecedario, in Per riconoscerla: tre connotati.Ai bordi del politico, in Spettri che parlano.Almanacco Bompiani, in Ma ti paiono questi i tempi per scrivere un ro-manzo?.Ambiente spaziale a luce nera, in La geometria deviata del grande co-struttore.Angel at the Door, in Geologico e domestico.Angelus Novus, in Per riconoscerla: tre connotati.Angelus Novus. Saggi e frammenti, in Per riconoscerla: tre connotati.Apocalittici e integrati, in Eccezion fatta, eccezion ficta.Appello dei 451, in La querelle dei moderni e dei moderni.Appunti su un ritratto nella selva, in iLibri.Armamentari d’arte e comunicazione, in Le armi dell’arte e della gentilez-za.Art and Propaganda, in Remixtenza.Art and Propaganda. Extract from The Messenger, in Remixtenza.

Indice delle cose citate

Page 558: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Arte abitabile, in La geometria deviata del grande costruttore.Arte povera +Azioni povere, in La geometria deviata del grande costrut-tore.Articolazione totale, in La geometria deviata del grande costruttore.Austerlitz, in iLibri.Autocarri, in La geometria deviata del grande costruttore.Bagnanti, in Esempi da Poesia 13.Ballata di Rudi, in Cinquant’anni dopo.Barriere, in La geometria deviata del grande costruttore.Barthes di Roland Barthes, in Per riconoscerla: tre connotati.Battaglia di Farsalo, in iLibri.Bella addormentata nel bosco, in Cinquant’anni dopo.Biblia pauperum, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Boardwalk Empire, in Eccezion fatta, eccezion ficta.Bones, in Eccezion fatta, eccezion ficta.Breaking Bad, in Effetti di carisma.Breaking Bad, in Eccezion fatta, eccezion ficta.Breaking Bad, in Lo specchio di Calibano.Caffettiera per masochisti, in iLibri.Cancellazione del debito pubblico, in Emilio Isgrò Modello Italia(2013-1964).Caro diario, in Ancora alla deriva?.

Indice delle cose citate

Page 559: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Casa di campagna, in iLibri.Casta diva, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Chapel of Frustrated Actions and Futile Gestures, in Geologico e domestico.Che cos’è il contemporaneo?, in Per riconoscerla: tre connotati.Che cos’è l’atto di creazione, in La potenza della ricerca di libertà.Cinema americano classico, in iLibri.Cinema e piacere visivo, in iLibri.Cinema moderno, in iLibri.Città aperta, in iLibri.Codici ottomani, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Come difendersi dall’arte e dalla pioggia, in Emilio Isgrò Modello Italia(2013-1964).Conspiracy, in Un territorio aperto.Contro il colonialismo digitale, in Il tempo delle scelte.Costituzione cancellata, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Costo della vita, in iLibri.Creazione, in Le armi dell’arte e della gentilezza.Croce 432, in iLibri.Csi, in Eccezion fatta, eccezion ficta.Cultura delle destre, in iLibri.Cycling the Frame, in Ancora alla deriva?.Dexter, in Effetti di carisma.

Indice delle cose citate

Page 560: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Dexter, in Eccezion fatta, eccezion ficta.Dexter, in Lo specchio di Calibano.Di alcuni motivi in Baudelaire, in Per riconoscerla: tre connotati.Diagonale rossa, in Mauro Staccioli.Dichiaro di essere Emilio Isgrò, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Dichiaro di non essere Emilio Isgrò, in Emilio Isgrò Modello Italia(2013-1964).Disobbedisco, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Divergent Metropolis, in Ancora alla deriva?.Documenta 8, in Artista plurale.Doktorum, in Remixtenza.Dubliners, in Ma ti paiono questi i tempi per scrivere un romanzo?.Décade, in Ciò che è vivo e ciò che è morto.EX.IT - Materiali fuori contesto, in Frammenti da EX.IT.El lugar sin limites, in iLibri.El osceno pájaro de la noche, in iLibri.El sheita elli fat, in La rivolta che non crede nel futuro.Enciclopedia italiana Treccani, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Erfahrung, in Per riconoscerla: tre connotati.Eroe dei due mondi, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Eroe della cancellatura, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Es War Einmal, in Un territorio aperto.

Indice delle cose citate

Page 561: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Everyday I’m Chapulling, in Remixtenza.Everyday I’m Shuffling, in Remixtenza.Exit Through the Gift Shop, in Remixtenza.Extended Self in a Digital World, in Semaforo.Fare gli italiani. 150 anni di storia italiana, in Artista plurale.Faust, in iLibri.Feminist Film Theory, in iLibri.Femme assise, in Virginia Woolf ha colpito ancora.Fenomenologia, in iLibri.Filosofie della praxis, in iLibri.Finnegans Wake, in Ma ti paiono questi i tempi per scrivere un roman-zo?.Fosso, in Mauro Staccioli.Frances Ha, in Il noi e l’io.Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Per riconoscerla:tre connotati.Freud e la psicologia dell’arte, in iLibri.From One Second to the Next, in Semaforo.Frustrated Actions and Futile Gestures, in Geologico e domestico.G., in iLibri.Genesi, in Le armi dell’arte e della gentilezza.Georgiche, in iLibri.

Indice delle cose citate

Page 562: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Gimme the Loot, in Il noi e l’io.Girls, in Il noi e l’io.Governo dell’uomo indebitato. Tecnologie delle politica neoliberista, in Lessi-co dell’uomo indebitato.Grande Sertão, in iLibri.Great Transformation, in iLibri.Gruppo 63. La nuova letteratura, in Cinquant’anni dopo.Guernica, in Remixtenza.Gun Hill Road, in Il noi e l’io.Herzog on Tackling Texting and Driving in New Film, in Semaforo.High Wycombe, in Ancora alla deriva?.High Wycombe: Psychogeographic Nodules of Energy Walk, in Ancora alladeriva?.History Will Pardon Manning, Even if Obama Doesn’t, in Semaforo.Home, in Esempi da Poesia 13.Hopefulmonsters, in iLibri.House M.D., in Effetti di carisma.House M.D., in Eccezion fatta, eccezion ficta.House M.D., in Lo specchio di Calibano.How Grindr Has Transformed Users’ Experience of Intimacy, in Semaforo.Hugh Selwyn Mauberley, in Per riconoscerla: tre connotati.I situazionisti, in Ciò che è vivo e ciò che è morto.

Indice delle cose citate

Page 563: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Il costo della vita, in iLibri.Il giardino delle cose, in Artista plurale.Il grande angolo, in Cinquant’anni dopo.Il luogo senza confini, in iLibri.Il naufragio, in iLibri.Il nuotatore, in Artista plurale.Il romanzo sperimentale, in Cinquant’anni dopo.Il rovescio del dolore, in iLibri.Il settimo uomo, in iLibri.Il trasloco, in iLibri.In negativo, in Cinquant’anni dopo.In principio (e poi), in Le armi dell’arte e della gentilezza.Inattuali, in Per riconoscerla: tre connotati.Indignados, in Lotta nelle strade contro lo spettacolo?.Inland Empire, in iLibri.Inner Passage, in Geologico e domestico.Intervento, in Per riconoscerla: tre connotati.Jacqueline, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Jamaica, in Un territorio aperto.Jours critiques, in Come ripensare la contestazione.Keep the Lights On, in Il noi e l’io.Kendim Ettim Kendim Buldum, in Remixtenza.

Indice delle cose citate

Page 564: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

La Lézarde, in iLibri.La camera astratta, in Artista plurale.La camera rovesciata, in Esempi da Poesia 13.La catastròfa, in iLibri.La cité de rats, in Virginia Woolf ha colpito ancora.La guerre des pédés, in Virginia Woolf ha colpito ancora.La letteratura dell’esaurimento, in Ma ti paiono questi i tempi per scrive-re un romanzo?.La metropoli e la vita dello spirito, in Per una poesia irriconoscibile.La planète malade, in Ciò che è vivo e ciò che è morto.La poésie comme expérience, in Per riconoscerla: tre connotati.La preistoria acustica della poesia, in iLibri.La psychanalyse face à l’Islam, in La rivolta che non crede nel futuro.La querelle des modernes et des modernes, in La querelle dei moderni e deimoderni.La rivolta, in Sul rischio manicheo di certe Ztl.La società dello spettacolo, in Lotta nelle strade contro lo spettacolo?.La vie est un tango, in Virginia Woolf ha colpito ancora.Le Georgiche, in iLibri.Le bal des folles, in Virginia Woolf ha colpito ancora.Le città invisibili, in Sul rischio manicheo di certe Ztl.Le poesie e prose scelte, in Per riconoscerla: tre connotati.

Indice delle cose citate

Page 565: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Le relazioni, in Esempi da Poesia 13.Le risorse umane, in iLibri.Le vacanze intelligenti, in La geometria deviata del grande costruttore.Leon Battista Alberti, in iLibri.Les demoiselles d’Avignon, in Ma ti paiono questi i tempi per scrivere unromanzo?.Les vieilles putes, in Virginia Woolf ha colpito ancora.Lezione di fisica, in Tre giorni a Rieti.Lie to Me, in Effetti di carisma.Lie to Me, in Eccezion fatta, eccezion ficta.Lineamenti della filosofia del diritto, in iLibri.London, in Ancora alla deriva?.London Orbital, in Ancora alla deriva?.Lost, in Eccezion fatta, eccezion ficta.Luoghi d’esperienza, in Mauro Staccioli.L’Internationale argentine, in Virginia Woolf ha colpito ancora.L’Italia che dorme, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, in Le armidell’arte e della gentilezza.L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, in Artista plurale.L’infinito intrattenimento. Scritti sull’insensato gioco di scrivere, in Per rico-noscerla: tre connotati.L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in Remixtenza.

Indice delle cose citate

Page 566: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

L’ora italiana, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).L’ultimo viaggio, in Cinquant’anni dopo.L’uruguayen, in Virginia Woolf ha colpito ancora.Mad Man, in Eccezion fatta, eccezion ficta.Maestà, in iLibri.Man Searching for Immortality / Woman Searching for Eternity, in Geologi-co e domestico.Man with His Soul, in Geologico e domestico.Manifesto contra-sessuale, in Dalla critica allo spettacolo al corpo critico.Memoria degli Uffizi, in iLibri.Milano-poesia, in Le armi dell’arte e della gentilezza.Mirage, in Geologico e domestico.Mito di Sisifo, in Geologico e domestico.Modello Italia, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Modello Italia (2013-1964), in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Mousse, in Frammenti da EX.IT.Muro, in Mauro Staccioli.Muro, in La geometria deviata del grande costruttore.New Thing, in Un territorio aperto.Nurse Jackie, in Effetti di carisma.Nuts and Bolts: «Thought» Verbs, in Semaforo.Occupy Wall Street, in Lotta nelle strade contro lo spettacolo?.

Indice delle cose citate

Page 567: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Oggetti introvabili, in iLibri.Oltre i titoli di coda, in Per riconoscerla: tre connotati.Open City, in iLibri.Opere scelte, in Per riconoscerla: tre connotati.Ophelia, in Geologico e domestico.Ora italiana, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Osceno uccello, in iLibri.Ottavo quaderno di poesia contemporanea, in iLibri.Out of the Closet and into the Gym, in Semaforo.Passi d’oro, in Roberto Barni Passi d’oro.Percorsi narrativi e affreschi multimediali, in Artista plurale.Piacere visivo e cinema narrativo, in iLibri.Piramide 38° Parallelo, in Mauro Staccioli.Poesia 13, in Per riconoscerla: tre connotati.Politique de la littérature, in Per una poesia irriconoscibile.Portrait, in Ma ti paiono questi i tempi per scrivere un romanzo?.Problem based learning, in Il tempo delle scelte.Processo, in iLibri.Processo di Giordano Bruno,, in iLibri.Protocolli, in Frammenti da EX.IT.Psycho, in iLibri.Quando arrivarono gli alieni, in Frammenti da EX.IT.

Indice delle cose citate

Page 568: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Quarto potere, in iLibri.Quattro vite jazz, in Un territorio aperto.Racconto del fiume Sangro, in iLibri.Rebecca, in Un territorio aperto.Restless City, in Il noi e l’io.Ritratto di Tocqueville, in iLibri.Robinson in Ruins, in Ancora alla deriva?.Robinson in Space, in Ancora alla deriva?.Romanzi di Finisterre, in iLibri.Rosa dell’animale, in Esempi da Poesia 13.Saturazioni, in Frammenti da EX.IT.Sbarco a Marsala, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Scartabello, in Per riconoscerla: tre connotati.Scienza della logica, in iLibri.Segnalibro. Poesie 1951-1981, in Per riconoscerla: tre connotati.Sequenza X, in Un territorio aperto.Serie Ospedaliera, in Sì, sono suoni, ma difficili da sentire.Shame, in Il noi e l’io.Sherlock, in Effetti di carisma.Sherlock, in Lo specchio di Calibano.Shibboleth, in La geometria deviata del grande costruttore.Sinopia, in Frammenti da EX.IT.

Indice delle cose citate

Page 569: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Sotto peggiori paragrafi, in Frammenti da EX.IT.Spazio elastico, in La geometria deviata del grande costruttore.Spazio mitico, estetico e teorico, in Dalla critica allo spettacolo al corpocritico.Storie puttanesche, in Virginia Woolf ha colpito ancora.Strada delle Fiandre, in iLibri.Stripsody, in Un territorio aperto.Superman, in Eccezion fatta, eccezion ficta.Take a Breath, in Remixtenza.Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…, in Per riconoscerla: tre connotati.Tapesong, in Un territorio aperto.Taranto, in Dal tramonto all’alba.Tavoli. Perché queste mani mi toccano?, in Artista plurale.Teatro, in Virginia Woolf ha colpito ancora.Teletubbies, in Remixtenza.Teoria, in iLibri.Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, in Per ricono-scerla: tre connotati.The $4 Million Teacher, in Semaforo.The Dreamers, in Geologico e domestico.The Invisible Frame, in Ancora alla deriva?.The Messenger Reader, in Remixtenza.

Indice delle cose citate

Page 570: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

The Naked City, in Ancora alla deriva?.The Real Reason Why So Many People Overshare on Facebook, in Semaforo.The Topography of the Lungs, in Un territorio aperto.The Tyranny of Buffness, in Semaforo.The We and the I, in Il noi e l’io.Tondo Doni, in iLibri.Tractatus, in Per una poesia irriconoscibile.Trattato sul governo di Firenze, in iLibri.Traverse Me, in Ancora alla deriva?.Trenitalia, in Esempi da Poesia 13.Tutto il teatro, in Cinquant’anni dopo.Twin Peaks, in Effetti di carisma.Ulysses, in Ma ti paiono questi i tempi per scrivere un romanzo?.Un luogo in lacrime, in iLibri.Underground Railroad, in iLibri.Une langouste pour deux, in Virginia Woolf ha colpito ancora.Université Inc., in Oltre gli scioperi studenteschi.Vaga lingua strana. Dai versi tradotti, in Per riconoscerla: tre connotati.Var ve yok, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Varietà, in Per riconoscerla: tre connotati.Vedute. Quel tale non sta mai fermo, in Artista plurale.Velluto blu, in iLibri.

Indice delle cose citate

Page 571: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

Venere, in iLibri.Verifica incerta, in Ma ti paiono questi i tempi per scrivere un roman-zo?.Videoambienti e ambienti sensibili, in Artista plurale.Virginia Woolf a encore frappé, in Virginia Woolf ha colpito ancora.Visage, in Un territorio aperto.Vita di Pascal, in iLibri.Vita privata di una cultura, in Cinquant’anni dopo.Voce!, in Tre giorni a Rieti.Volkswagen, in Emilio Isgrò Modello Italia (2013-1964).Winter of Discontent, in La rivolta che non crede nel futuro.«Internationale situationniste» 1957-1969, in Ciò che è vivo e ciò che èmorto.Œuvres, in Ciò che è vivo e ciò che è morto.

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Indice delle cose citate

Page 572: Alfabeta2!32!2013 Settembre Ottobre

alfabeta2Comitato storico: Omar Calabrese, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, CarloFormenti, Pier Aldo RovattiRedazione: Nanni Balestrini, Ilaria Bussoni, Andrea Cortellessa, Andrea In-gleseSegreteria: Erica LeseCoordinamento editoriale: Sergio BianchiProgetto grafico: Fayçal ZaoualiIndirizzo redazione: piazza Regina Margherita 27 2013 00198 Roma - [email protected]: Alfabeta Edizioni, sede legale via Tamagno 3 20124 MilanoDistribuzione: Messaggerie Periodici s.p.a. Via Giulio Carcano 32, 20141MilanoTipografia: Grafiche Aurora s.r.l. Via della Scienza 21, 37139 VeronaDirettore responsabile: Gino Di MaggioAutorizzazione del Tribunale di Milano n. 446 del 21 settembre 2010

Coordinamento: Jan ReisterProgetto e realizzazione: Quintadicopertinahttp://www.quintadicopertina.comISSN: 2038-663X

Redazione: Andrea IngleseSegreteria: Stella SucciProgetto web: Jan [email protected]

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