AFRICA REPORT - CIRPAC · Asia meridionale. Il livello di alfabetizzazione delle fasce più giovani...

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1 AFRICA REPORT (PRIMA STESURA PER LA CONFERENZA REGIONALE SULL’AFRICA, PISA 16 GIUGNO 2006) A CURA DEL CIRPAC AUTORI: FRANCESCO N. MORO BLERINA DULI CHIARA MASSELLI SILVIA SERCHI (COORDINAMENTO MARCELLO FLORES) 11 GIUGNO 2006

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AFRICA REPORT(PRIMA STESURA PER LA CONFERENZA REGIONALE SULL’AFRICA, PISA 16 GIUGNO 2006)

A CURA DEL CIRPAC

AUTORI:FRANCESCO N. MOROBLERINA DULICHIARA MASSELLISILVIA SERCHI

(COORDINAMENTO MARCELLO FLORES)

11 GIUGNO 2006

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1. AFRICA OGGI: SVILUPPO E DEMOCRAZIA

Introduzione.Il più grande contributo degli Africani, scrive lo storico John Iliffe, è averpopolato e reso umana una regione particolarmente ostile per l’uomo. Ancoraoggi, forse più di ogni altra area del mondo (almeno, di quello abitato) l’Africasub-sahariana rappresenta una sfida per lo sviluppo umano, così come perquello delle istituzioni politiche, economoche, sociali. Ad un primo e puresuperficiale sguardo, la mancanza, talvolta apparentemente l’assenza disviluppo politico ed economico emergono come le caratteristiche più evidenti, edrammatiche, del continente. Il presente lavoro cerca di approfondire questitemi. Il proposito è quello di offrire una «mappa» dei principali temi connessialle prospettive e ai problemi dello sviluppo in Africa, con particolare attenzioneagli eventi occorsi nel nuovo millennio. Il primo gruppo di temi che siaffronteranno è direttamente legato con lo sviluppo socio-economico dell’areasub-sahariana, attraverso una analisi dei recenti progressi economici, ma anchedei perduranti problemi. In secondo luogo, vengono presi in considerazione iprincipali sviluppi politici, il complesso processo di democratizzazione, iproblemi connessi con la crisi continua delle istituzioni statuali, e i conflitti e itumulti che accompagnano questi processi.

1.1 Africa fra povertà e sviluppo

1.1.1 MappaLa povertà diffusa è l’inevitabile punto di partenza per l’osservazionedell’economia africana. Questa povertà, pure non distribuita in manieraomogenea nel continente, rimane il problema dell’Africa per eccellenza. Questaprima rappresentazione, pure parziale, tenta di mettere in luce quali siano glielementi di maggior rilievo socio-economico nel panorama africano.Nel 2001, 313 milioni di persone, quasi la metà della popolazione, vivevano conmeno di un dollaro al giorno (World Bank, World Development Indicators 2005).Le stime prevedono che questi numeri aumenteranno nei prossimi dieci anni,con un trend opposto rispetto ad altre aree del mondo, come l’Asia meridionale,che stanno pure lentamente e non omogeneamente riducendo la povertà. 35dell’Africa sub-sahariana sono considerati paesi nella più bassa fascia direddito, dove il reddito pro-capite è inferiore a 825 dollari l’anno (World Bank).Altri indicatori, che guardano anche alla dimensione «umana» dello sviluppo,mettono ugualmente in luce l’eccezionalità africana. L’aspettativa di vita è di 46anni, contro 63 dell’Asia meridionale, e gli oltre 70 dell’Europa e di entrambe leAmeriche. Nel 1960, l’aspettativa di vita era solo sei anni inferiore. A livellosanitario, il 7,2 percento delle persone fra i 15 e i 49 anni sono infette da HIV,mentre l’accesso a fonti d’acqua è ristretto al 64 percento della popolazione,con tutte le conseguenza che questo comporta in termine di igiene e

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prevenzione di malattie infettive. La mortalità infantile è elevatissima, oltre il 17percento dei bambini muore nei primi cinque anni di vita, quasi il doppio che inAsia meridionale. Il livello di alfabetizzazione delle fasce più giovani dellapopolazione, intorno all’80 percento, di poco superiore a quello dell’Asiameridionale, è in ogni caso lontano dalla piena alfabetizzazione tipica delle areepiù sviluppate del globo.Un altro modo di guardare al problema è attraverso un bilancio dei risultatiottenuti nella cornice dei Millennium Development Goals (MDG), adottati dalleNazioni Unite nel Millennium Summit del 2000. I MDG mirano ad indicare azionie soglie dello sviluppo da raggiungere, sia nella loro dimensione più«materiale» che attraverso la promozione dello sviluppo umano. I macro-obiettivi da persequire sono 8, e nel 2005 è stata effettuata una primavalutazione dei risultati raggiunti:

1. Sradicare la povertà e della fame nelle loro forme più estreme, tramite laradicale riduzione delle persone che vivono sotto la soglia di un dollaro algiorno, e la percentuale della popolazione che vive al di sotto dei requisitiminimi dietetici.

Fra il 1990 e il 2001 (ultimo dato registrato), tuttavia, la percentuale di personeche in Africa vive sotto la soglia minima di povertà è aumentata anzichédiminuire, e adesso tocca il 46 percento della popolazione del sub-continente.La percentuale di persone che vivono con nutrizione insufficiente è scesa,seppure di poco, dal 36 al 33 percento. Inoltre, il reddito medio giornaliero dellepersone più povere in Africa è di 0,60 dollari (0,62 nel 1990), contro gli 0,82dollari della stessa fascia della popolazione negli altri paesi in via di sviluppo.

2. Stabilire un sistema di educazione elementare universale al fine diaumentare l’alfabetizzazione, in particolare giovanile.

Per quanto rimanga ultima su scala globale nella percentuale di persone chefrequentano le scuole elementari, il 62 percento della popolazione in età scolareè inserita in un programma scolastico (era il 54 percento nel 1991). Laprobabilità di frequentare le scuole, tuttavia, rimane più bassa quanto più èbasso il livello di reddito delle famiglie di provenienza.

3. Promuovere l’eguaglianza di genere e l’empowerment delle donne.Un lieve miglioramento è stato registrato per quanto riguarda il numero dellealunne delle scuole elementari in proporzione agli alunni maschi (dall’83percento all’86 percento). Le disparità peraltro, aumentano a livelli educativisuperiori. Le donne, inoltre, sono poco rappresentate in lavori con redditi piùelevati, e nonostante i miglioramenti, nelle istituzioni parlamentari (lapercentuale di donne in parlamento è raddoppiata dal 7 al 14 percento fra il1990 e il 2005).

4. Ridurre la mortalità infantile.In tredici anni fra il 1990 e il 2003, la mortalità dei bambini fino a cinque anni èstata ridotta, ma soltano da 18,5 a 17,2 percento. La cause principali di questodrammatico fenomeno sono l’assenza di alcuni medicinali di base, le precariecondizioni igieniche generali, e la malnutrizione, che sono fortemente legate aibassi livelli di reddito generali.

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5. Migliorare la salute materna.La mortalità delle donne durante la gravidanza o il parto è dello 0,92 percento.I livelli di assistenza specializzata forniti alle donne sono rimastisostanzialemente invariati fra il 1990 e il 2003, prevenendo così i miglioramentiavvenuti nelle altre aree in via di sviluppo.

6. Combattere HIV/AIDS, la malaria e altre malattie.La diffusione dell’HIV e dell’AIDS in Africa sono aumentate notevolmente negliultimi anni. Le morti a causa dell’AIDS sono passate da circa mezzo milione dipersone nel 1994 a oltre due milioni per anno nel periodo 2002-2004. Con ildiffondersi dell’epidemia, la vulnerabilità di donne e ragazze di fronteall’infezione è altresì drammaticamente aumentata. Anche la malaria colpiscecon forza l’Africa, con quasi un milione di morti all’anno. La tubercolosi si èridiffusa rapidamente negli anni novanta, quasi raddoppiando la percentualedelle persone infette.

7. Assicurare uno sviluppo ambientalmente sostenibile.La scarsa attenzione al problema della sostenibilità ambientale spessocaratterizza i tentativi di sviluppo economico nelle regioni più povere, creandorilevanti problemi nel lungo periodo, anche a causa dell’eccessivo sfruttamentodelle risorse. Nel caso dell’Africa, i problemi principali sono relativi aldisboscamento, che è aumentato fra il 1990 e il 2000, e alla scarsa efficienzaenergetica (l’ammontare di energia usata per produrre una unità di Pil). Lasostenibilità ambientale ha anche una dimensione legata al miglioramento dellecondizionin igieniche di base: il problema principale per l’Africa è quello dicontinuare sulla strada del risanamento delle sorgenti idriche e nell’accessodella popolazione a queste fonti. Il miglioramento dal 1990 al 2002 hapermesso al dieci percento in più di popolazione tale accesso: tuttavia il 42percento della popolazione non dispone di acqua «sana».

8. Sviluppare una partnership globale per lo sviluppo.Il proposito è sottolineare l’importanza del ruolo della comunità internazionalenella risoluzione dei problemi sopra-elencati. (per una analisi più approfondita,si rimanda alla sezione 3).

Il quadro delineato non è certo incoraggiante. Il peggioramento in alcuni degliindicatori chiave dello sviluppo si accompagna alla constatazione chemiglioramenti hanno invece caratterizzato altre aree del mondo. Lo sviluppoeconomico dell’Africa, misurato come crescita del Pil, è stato del 5 percento nel2005, di poco inferiore al 2004, che aveva rappresentato il momento di maggiorcrescita del continente della storia recente. Le prospettive per i prossimi dueanni sono di una ulteriore crescita su livelli leggermente più elevati. Tuttavia,tale crescita non sarebbe sufficiente per il raggiungimento della gran parte deiMillennium Development Goals, e sono imparagonabili ai livelli di crescita «adue cifre» che hanno caratterizzato e tuttora caratterizzano altre aree delmondo che stanno emergendo dalla povertà (l’Asia orientale e il Sudest asiaticosono i due casi di riferimento).

1.2 Regioni, materie prime, e sviluppo

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L’Africa non è certamente omogenea dal punto di vista dello sviluppo recente edelle prospettive di tale sviluppo. Per quanto ogni divisione su base territorialeabbia elementi di arbitrarietà, è frequente distinguere nell’Africa sub-saharianaquattro macro-regioni: Africa centrale, Africa orientale, Africa occidentale eAfrica meridionale. Queste regioni hanno avuto livelli diseguali di sviluppo,corrispondenti a diverse basi di partenza e caratteristiche economico-politiche.Colpisce da questo punto di vista la profonda disparità nella crescita economicadi queste aree anche in un anno relativamente positivo come il 2004. L’Africacentrale è cresciuta di oltre il 14 percento, l’Africa orientale del 6,8 percento,l’Africa meridionale del 4 percento, l’Africa occidentale del 3,4 percento.Un altro elemento di forte distinzione è la presenza o meno di petrolio sulterritorio. Gli alti prezzi del petrolio negli ultimi anni condizionano fortemente laperformance economica di questi paesi. Questo accade in primo luogo intermini di crescita del Pil, quello dei paesi esportatori di petroli è cresciuto del5,5 percento nel 2005, contro il 4,4 percento dei paesi non produttori. Leaspettative di prezzi alti del petrolio dovrebbero rendere questo gap più ampionei prossimi anni. I bilanci dello stato, così come la bilancia commerciale versol’estero, sono anche positivamente influenzati dalla presenza di petrolio. I paesiafricani senza petrolio hanno un passivo di bilancio del 2,4 percento e unpassivo della bilancia commerciale di oltre 5 punti, mentre gli stati esportatorihanno rispettivamente un avanzo del 6,4 percento e di quasi venti punti. Questacrescita ha favorito non soltanto i tradizionali produttori, Nigeria in primis, maanche quelli più recenti, come l’Angola e in misura minore il Chad, che hannopermesso a questi paesi livelli di crescita mai registrati.La crescita dei prezzi delle materie prime, più in generale, ha beneficiato paesiesportatori di alluminio, rame, platino e ferro quali il Mozambico, lo Zambia e ilSud Africa. Tuttavia, questi segnali positivi sono talvolta oscurati dal fatto checome capita alle economie fortemente dipendenti dall’esportazione di materieprima, lo sviluppo nel lungo periodo dipende da quanto le politiche economichedei governi sappiano e possano sfruttare l’occasione di momenti di crescitadovuti a condizioni internazionali favorevoli come gli alti prezzi per creare circolivirtuosi basati fra l’altro sulla diversificazione delle esportazioni. Il dato generaleche emerge è che fra il 1996 e il 2003 la diversificazione delle esportazioni ècomplessivamente diminuita. Tuttavia, tale processo è stato messo in moto inalcuni paesi dell’Africa orientale (Kenya e Tanzania) e in Uganda e in Etiopia.

1.3 Origini e prospettive.Ci sono due dimensioni fondamentali da osservare guardando ai problemi e alleprospettive dello sviluppo economico africano: i fattori internazionali e quelliinterni.A livello internazionale, il problema cruciale è la marginalità dell’Africa nelloscacchiere economico internazionale: le economie africane rappresentano circail 2 percento del commercio globale (e lo 0,3 percento è rappresentato dal soloSud Africa). Benché i paesi africani godano complessivamente di un avanzocommerciale, i flussi di capitali verso l’estero sono elevati, così che la bilanciadei pagamenti è in passivo. Le ragioni di questo sono da rintracciarsi da un latonella diminuzione dei prezzi sui mercati internazionali dei prodotti checostituiscono la base delle esportazioni dei paesi africani, e dall’altro nel bassolivello di investimento interno. Come osservato sopra, c’è una grossa differenza,in ogni caso, a seconda dei prodotti esportati, e in particolare i paesi esportatori

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di petrolio sono in controtendenza rispetto a questo declino. Il processo diliberalizzazione portato avanti sotto l’egida dell’Organizzazione Mondiale delCommercio (WTO) ha aperto alla competizione di India, Cina e più in generaledi alcune dinamiche economie asiatiche in settori in cui alcuni accordipreferenziali (il rapporto fra Comunità Europea e alcuni paesi africani iniziatocon la Convenzione di Lomé), diminuendo così i prezzi dell’export africano (peresempio nel settore dei prodotti tessili). Allo stesso tempo, il permanere disussidi interni ai prodotti agricoli da parte di Stati Uniti ed Europa ha ridotto iprezzi dei prodotti agricoli che vengono esportati dai paesi africani.Alcuni tentativi di integrazione economica regionale sono iniziati in particolaredagli anni novanta al fine di aumentare il commercio fra paesi africani.Nell’Africa meridionale, la zona economicamente più attiva del continente laSADC (Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Meridionale) è stata formata al finedi fornire una cornice per migliorare la cooperazione economica e abbattere lebarriere alla circolazione delle merci. Questa organizzazione dovrebbe ampliarela zona di scambio che esiste fino dal 1969 tra Sud Africa, Botswana, Namibia,Lesotho e Swaziland (SACU, Unione Doganale dell’Africa Meridionale). Similiorganizzazione sono nate anche in AfricaOccidentale (ECOWAS, ComunitàEconomica degli Stati dell’Africa Occidentale), in Africa Orientale (EAC,Comunità dell’Africa Orientale). La rinnovata Unione Africana (che sostituiscel’Unione degli Stati Africani dal 2002) prevede nel suo atto costitutivo laformazione di meccanismi di coordinamento delle politiche economiche eaddirittura, nel lungo periodo, la creazione di una banca centrale comune. Per ilmomento, in ogni caso, questi tentativi rappresentano passi avanti nellacooperazione, ma il loro contributo al successo dello sviluppo economico èancora difficile da valutare.La difficoltà ad attrarre investimenti permette il collegamento alla dimensioneinterna dei problemi dello sviluppo economico africano. Per quanto complessaquesta dimensione, a fini di sintesi è possibile distinguere tre principaliquestioni. In primo luogo, il contesto politico africano ha fortemente scoraggiatolo sviluppo economico. Questo per due motivi. Il primo è l’estrema debolezzadelle istituzioni dello stato in senso stretto, l’elevato livello di violenza politica ela scarsa capacità di controllo e gestione delle risorse economiche. Il secondo èlegato alla natura neopatrimonialista dei regimi politici africani, in cui spessocorruzione e appropriazione delle risorse da parte di alcuni leader e dei lorogruppi sociali di riferimento sono venuti ben prima di politiche indirizzate versolo sviluppo complessivo del paese. La natura dei principali prodotti daesportazione africani, cioè le materie prime, ha fatto sì che in molti casi non sisviluppassero altri settori economici, mentre la gestione delle materie primeavvantaggiava solo alcuni gruppi che trovavano accordi con compagnie estereinteressate a tali beni. La lotta per le risorse (vedi anche sotto) e l’instabilitàpolitica sono fattori che influenzano notevolmente e in maniera negativa il flussodi investimenti esteri e la possibilità di sfruttare internamente i flussi di capitaleche inevitabilmente «entrano» in un paese che esporta materie prime.In secondo luogo, ci sono problemi di carattere sociale. I bassi livelli diformazione rendono difficile lo sviluppo di una «classe» imprenditoriale, e lapovertà diffusa ha effetti di «circolo vizioso» laddove non premia l’investimentoproduttivo per l’assenza di un mercato di consumatori. Le precarie condizionisanitarie della popolazione, la frequenza e la diffusione di epidemie, e la quasionnipresenza dell’HIV/AIDS in molte società dell’Africa (in particolare

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meridionale) con la conseguente disgregazione del tessuto familiare e socialeche questo comporta rendono altresì l’investimento difficile, specie nel lungoperiodo. In terzo luogo, le difficoltà sono connesse con la struttura delleeconomie africane e delle infrastrutture presenti nel continente. Le difficoltà ditrasporto, o anche semplicemente di conservazione dei prodotti alimentari, sonotipiche di tutto il continente. Il gap tecnologico, inoltre, ha mantenuto bassa laproduttività del lavoro in Africa.Alcuni recenti sviluppi permettono comunque di guardare in maniera piùpositiva alle prospettive di crescita economica. Uno di questi è la crescitaeconomica stessa registrata in particolare dal 2000. La riduzione del debitoestero dei paesi africani, decisa dai paesi del G7 nel 2005, costituisce almenoun’opportunità per l’Africa di fare «tabula rasa» per quanto riguarda una dellevoci di spesa più importanti per i governi. I programmi delle Nazioni Unite e delWTO in tema di assistenza medica ai paesi più bisognosi, con particolareriguardo ai farmaci retro-virali necessari per combattere l’HIV/AIDS, permettonoadesso e in futuro l’accesso a questi medicinali per un numero crescente dipersone. Politiche di riforma da parte degli stessi governi africani tengonosempre più in conto la necessità di agire nella direzione del controllo dellemalattie (in particolare della malaria), e con politiche di controllo delle nascite.Questo serve sia il fine «diretto» di poter garantire migliori servizi nel parto eridurre così la mortalità infantile e delle madri e di controllare la crescitaaltrimenti rapidissima della popolazione, con i suoi effetti negativi sulla crescitadella ricchezza per la popolazione. Un’altra iniziativa estremamente rilevante èil NEPAD (Nuova Partnership per lo sviluppo dell’Africa), lanciato da alcunigoverni africani e adottato nel 2001 dall’Unione degli Stati Africani. Gli obiettividella partnership sono: 1) creare pace, sicurezza e stabilità; 2) investire nellepersone; 3) promuovere l’industrializzazione; 4) aumentare gli investimenti nelletecnologie informatiche e della comunicazione; 5) sviluppare le infrastrutture. Illivello di effettiva partecipazione degli stati africani a questa impresa «comune»è molto vario. Tuttavia, questa nuova consapevolezza degli stessi governiafricani della centralità di efficaci politiche di riforma che essi stessi per primidevono mettere in atto lascia spazio, se non altro, ad un cauto ottimismo

2. Stato e democrazia.

2.1 La cornice dei processi di democratizzazione dagli anni novanta.La tabella 1 mostra la (sconfortante) situazione dei diritti politici e civili in Africaalla fine degli anni ottanta, fotografata nel 1989 dal rapporto annuale diFreedom House. La prima metà degli anni novanta si pone in discontinuità conil periodo precedente, e vede l’emergere, anche in Africa della cosiddetta «terzaondata» di democratizzazione, che ha portato all’instaurazione e allo sviluppo diistituzioni democratiche in molte aree del globo. Molto spesso, la crisi dei regimiautoritari è stata innescata dalla loro incapacità di provvedere ai bisogni minimidella popolazione, il che ha messo in discussione la loro legittimità e causatol’insorgere di diversi focolai di protesta in molti paesi, in particolare a partiredalla fine degli anni ottanta. Le risposte dei regimi a queste proteste sono statedi vario genere, anche in funzione di come le richieste stesse della protestaerano formulate. Di fronte a richieste di tipo economico, venivano fatte alcuneconcessioni, con processi di liberalizzazione, di diminuzione del controllo delregime sui cittadini. Più dure erano le risposte dei regimi di fronte a richieste di

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cambiamento politico. Talvolta, come nel caso di Cameroon, Zaire o Kenya, iregimi autoritari hanno utilizzato la forza per reprimere la protesta. In ogni caso,nei primi anni novanta, la gran parte dei regimi ha avviato alcune riforme nelladirezione della democratizzazione. La combinazione di due elementi esterni, lacaduta del Muro di Berlino, l’adozione della condizionalità democratica per laconcessione di aiuti economici, contribuisce a spiegare questo processo.Spesso vengono convocate «conferenze nazionali», in cui diversi gruppi socialie politici si confrontano per trovare soluzioni condivise nella costruzione diistituzioni democratiche. La riapertura del sistema politico si basa su treelementi fondamentali: 1) la ri-legalizzazione dei partiti politici; 2) la costruzionedi istituzioni basate sulla separazione dei tre poteri fondamentali (esecutivo,legislativo e giudiziario); 3) la fissazione di date per le elezioni libere ecompetitive.Tabella 1: diritti e libertà in Africa, 1989Paesi «non liberi» Paesi «parzialmente

liberi»Paesi «liberi»

• Angola• Benin• Burkina Faso• Burundi• Camerun• Capo Verde• Repubblica

Centrafricana• Chad• Comore• Congo (Brazzaville)• Costa d’Avorio• ( E r i t r e a , n o n

indipendente)• Etiopia• Gabon• Ghana• Gibuti• Guinea• Guinea Bissau• Guinea Equatoriale• Kenya• Lesotho• Malawi• Mali• Mauritania• Mozambico• N a m i b i a ( n o n

indipendente)• Niger• Ruanda• Sao Tomè e Principe• Seychelles

• Gambia*• Liberia• Madagascar• Nigeria• Senegal*• Sierra Leone• Sud Africa• Sudan• Swaziland• Uganda• Zambia• Zimbabwe

• Botswana*• Mauritius*

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• Somalia• Tanzania• Togo

fonte: Freedom House, 1990(*) l’asterisco indica paesi che vengono considerati “democrazie elettorali”, concompetizione elettorale multipartitica

I risultati di questi processi sono molto eterogenei. Ci sono tuttavia tre elementidi fondo, che si presentano in maniera diversa a seconda dei casi, e che vannosottolineati nel fornire un quadro generale. Il primo è che, al fine dicomprendere il successo degli esperimenti democratici in Africa, è importanteanalizzare in che maniera la nuova politica di massa è strutturata. Il puntocentrale qui è quale sia la natura e il ruolo dei partiti politici che si formano exnovo o si ricostituiscono in questo periodo. L’avvento di una nuova stagione dipluralismo politico è segnata spesso in Africa dall’assenza, o dalla debolezza,di quei soggetti capaci di aggregare le preferenze e di costituire nuove élite chesono i partiti. Questi sono spesso caratterizzati da deboli strutture organizzativee dall’incapacità di mediare fra gli interessi di gruppi sociali diversi. Quandoquesti due elementi mancano in toto, il processo democratico è difficile etortuoso, la tentazione di alcuni gruppi (i militari in primis) a prendere il controllodel potere politico diventa forte, come nel caso della Nigeria nel 1993. Laddove,al contrario, i partiti sono più strutturati, la democrazia riesce a svilupparsianche di fronte a notevoli difficoltà e contrapposizioni: l’African NationalCongress (ANC) di Mandela in Sud Africa rappresenta un esempio di successo.Il secondo punto riguarda più in generale il concetto di «stato» in Africa.L’estrema povertà, richiamata sopra, non caratterizza soltanto la società maanche lo stato. Così, qualunque sia il regime politico, un problema rilevante èquello che la leadership non è capace di offrire una serie di benefici chepossano cementificare il rapporto fra popolazione ed istituzioni statuali, fra cuialcune minime prestazione previdenziali e sanitarie. Per i regimi democraticiafricani, questa mancanza si è spesso tramutata in insoddisfazione popolare ein scarso sostegno per il regime democratico stesso, percepito come incapacedi perseguire politiche efficaci che portassero reali miglioramenti alle condizionidi vita della popolazione. Inoltre, «poco» stato ha anche significato pocacapacità di intervenire con funzione di prevenzione e mediazione dei conflittisociali, per le deboli strutture di polizia. Tale fragilità mette anche in discussionele capacità dello stato di mettere fine alla illegalità diffusa a livello socio-economico. La dimensione illecita dell’economia, che raggiunge quote talvoltasuperiori a quelle dell’economia sotto il controllo della legge, insieme alladebolezza della burocrazia innesta altresì un «circolo vizioso» in cui lo statonon riesce ad estrarre risorse dalla società in primo luogo tramite un equilibratosistema fiscale, e dunque non può adottare politiche redistributive. Laddovequesto, invece, è relativamente possibile, come in Sud Africa o in Botswana, iregimi democratici tendono ad acquisire più facilmente legittimità e stabilità.Il problema della «statualità» in Africa, in ogni caso, è più ampio. Quanto dettosopra non deve oscurare il fatto che lo stato, pure debole, rimane spesso ilpunto di riferimento e l’obiettivo del conflitto politico. Specialmente in economiebasate principalmente sullo sfruttamento di materie prime, e su economie discala che permettono allo stato di giocare un ruolo determinante nella gestionedelle (poche) risorse disponibili, il controllo dello stato è stato visto non soltanto

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come l’obiettivo del confronto politico ma anche come l’unico obiettivo su cuiconvergono i conflitti nella società. Nella logica di funzionamento dei cosiddettiregimi neopatrimonialistici che sono tipici del continente africano, lo «sconfitto»di questa lotta per il controllo dello stato subisce spesso l’esclusione sia politicache economica. Questa ultima considerazione si lega ad un terzo punto cheemerge con forza guardando alla politica africana: il ruolo giocato dalleappartenenze di clan e soprattutto di etnia. La frammentazione etnicarappresenta una delle caratteristiche più evidenti dell’Africa sub-sahariana. Èrilevante il collegamento tra frammentazione etnica, strutturazione della politicadi massa, e statualità, le due dimensioni appena richiamate.Il primo problema è che spesso il processo di democratizzazione è collegatocon la rinascita di partiti e movimenti che si identificano su base etnica. In moltipaesi, le nuove elezioni pluralistiche hanno visto prima la riorganizzazione el’affermazione elettorale di formazioni politiche in cui l’appartenenza etnicacostituisce il principale, talvolta unico, elemento comune e trasversale aimembri e agli elettori. Partiti «etnici» si sviluppano ad esempio in Kenya, e siriaprono «vecchie» fratture (e ferite) in paesi come la Nigeria, dove il conflittoetnico (e quello religioso) riemergono ciclicamente. Il Burundi rappresenta unaltro drammatico caso in cui la vittoria alle elezioni libere (1993) di un partitoche rappresenta la maggioranza etnica (Hutu) è seguita da un colpo di statomilitare da parte di forze che «rappresentano» l’altro gruppo (Tutsi), dando cosìorigine ad una sanguinosa guerra civile. Il secondo problema, strettamentecollegato, è proprio dato dal fatto che laddove il controllo dello stato è vistocome l’unico strumento per controllare quasi in toto l’allocamento delle risorseeconomiche, la politica «etnica» diventa spesso conflitto con l’esclusione deigruppi che non gestiscono il potere politico. La logica di distribuzione dellerisorse in un regime neopatrimoniale diventerebbe così strettamente legata aquella dell’appartenenza etnica. Lungi dall’essere un arbitro super partes neiconflitti sociali, lo stato ne è un attore fondamentale e l’appartenenza etnica ilfattore centrale di discriminazione ed esclusione.È in questa cornice problematica che nella prima metà degli anni Novanta lademocrazia comincia a prender forma (se non ancora corpo). A parte in queipaesi nei quali nessun processo di democratizzazione era stato avviato, qualiLiberia e Sudan, ci sono stati fondamentalmente tre tipi di esiti (vedi tabella 1).Le transizioni sono state «bloccate», quando alcune riforme miranti allaliberalizzazione del sistema politico sono state avviate, ma in realtà sono servitecome strumento dei gruppi dominanti per «prendere tempo», senza la realeintenzione di cedere il potere. In alcuni casi, come in Burundi nel 1993, ilrisultato elettorale «sgradito» è stato ribaltato con un colpo di stato. In altri casi,le transizioni sono state «imperfette», laddove le elite del regime autoritariohanno accettato riforme più ampie ed incisive, ma hanno sfruttato i vantaggidati dalla loro posizione al fine di mantenere il controllo delle istituzioni anchedopo l’avvento del nuovo regime. Fra le strategie usate più spesso dai regimi incarica ci sono state quella di utilizzare denaro dello stato per finanziare lapropria campagna elettorale, quella di «minacciare», pure velatamente, al caosche si sarebbe creato in caso di una loro sconfitta, e la manipolazione dei tempidelle elezioni in modo da impedire una efficace organizzazione e campagnaelettorale degli avversari.In altri casi, il processo elettorale effettivamente libero a portato alla vittoria diforze democratiche e al successo del processo di transizione alla democrazia.

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In questi casi, certamente, si sono registrati alcuni passi indietro: in Congo, adesempio, il presidente uscente e sconfitto nelle elezioni libere del 1992,Sassou-Nguesso, ha costituito una sua milizia e rifiutato il risultato elettorale.Dopo alcuni anni di esilio, nel 1997 ha sconfitto militarmente i suoi avversari edè stato riproclamato Presidente, carica che detiene tuttora. Tuttavia, èinnegabile che i primi anni novanta siano stati un momento di profondicambiamenti nella politica africana. Per alcuni, addirittura, il simbolo di una«seconda indipendenza»: dopo quella dalla dominazione coloniale, quella dalladominazione dei dittatori. In paesi quali il Mozambico, la transizione allademocrazia segna anche la fine di una sanguinosa guerra civile che duravadagli anni settanta. Nel 1995, la popolazione che in Africa viveva sotto regimidemocratici era il 25 percento di quella del continente.

Tabella 2: Successi e limiti della democratizzazione, 1995Transizioni «bloccate»(12)

Transizioni «imperfette»(12)

«Successi» (16)

• Angola• Burundi• Chad• Etiopia• Guinea• Nigeria• Ruanda• Sierra-Leone• Somalia• Tanzania• Uganda• Zaire

• Burkina Faso• Cameroon• Comore• Costa d’Avorio• Gabon• Ghana• Gibuti• Guinea Equatoriale• Kenya• Mauritania• Swaziland• Togo

• Benin• Capo Verde• Repubblica

Centrafricana• Congo• Guinea-Bissau• Lesotho• Madagascar• Malawi• Mali• Mozambico• Namibia• Niger• Sao Tomè e

Principe• Seychelles• Sud Africa• Zambia

fonte: Bratton & Van de Walle "Democratic Experiments in Africa"(Cambridge, 1997)

2.2 Lo sviluppo politico negli ultimi anni: una mappa per regioni.Nel 2000, alcuni altri stati avevano raggiunto dei successi, un numero minore(come il Congo-Brazzaville, appena discusso) aveva fatto passi indietro. Nel1999, la Nigeria torna ad essere un paese con elezioni multi-partitiche, dopo ilfallimento del processo di democratizzazione 1993. Un elemento rilevanteall’interno di questi cambiamenti, che apre uno spiraglio per il consolidamentodei regimi democratici in Africa, è la diminuzione della percentuale di successodei tentativi di colpi di stato in questi paesi che, secondo stime recenti, èpassato da oltre il 50 percento del ventennio 1959-78 al 26 percento fra il 1990e il 2001 (McGowan 2003). Inoltre, l’ultimo rapporto sui diritti civili e politici diFreedom House mette in luce come a fronte di un numero ancora elevato di

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paesi in cui tali diritti sono negati, è cresciuto in maniera notevole sia il numerodi paesi «parzialmente liberi» che «liberi» (tabella 3). Per quanto il camminodella liberalizzazione politica in Africa sia tuttora incerto, il quadro generale cheemerge è quello di isolati, ma importanti, miglioramenti. Si presentano diseguito alcuni casi esemplari di questi complessi processi di sviluppo politico.

Africa Occidentale.Anche il quadro regionale è caratterizzato da profondi contrasti e differenze.L’esperienza del Senegal è quella di un successo del processo didemocratizzazione, e del raggiungimento nel 2000 di una democrazia «piena»,con la vittoria di Abdoulaye Wade nelle elezioni presidenziali contro il candidatodel partito socialista che rappresentava il regime autoritario a lungo al potere inSenegal. La costituzione del 2001 ha rappresentato un passo avanti in diversedirezioni: dal punto di vista istituzionale ha posto limiti più stretti ai poteri delpresidente (riducendo in primo luogo la durata del suo incarico) e dal punto divista dei diritti civili ha riconosciuto per la prima volta il diritto alla proprietà dellaterra per le donne. Nel 2001 è stato inoltre riattivato un dialogo costruttivo conle forze indipendentiste della Casamance (Movimento delle ForzeDemocratiche della Casamance, MDFC) che, pure parte dello statosenegalese, è territorialmente separata e luogo di violenza di stampo«separatista». Per quanto permangano dei focolai di protesta, alcunimiglioramenti nella sicurezza della regione sono avvenuti negli ultimi anni.Il 2000 è stato un anno fondamentale anche per il progresso democratico inGhana, dove le forze di opposizione (guidate da John Kufuor) al regime militaredurato quasi venti anni di Jerry Rawlings (e che si era sostituito ad un altroregime militare) sono riuscite ad emergere vittoriose sia nelle elezionipresidenziali che in quelle legislative. Nelle elezioni precedenti, nel 1996, pureritenute libere e corrette, Rawling era riuscito a prevalere grazie al monopoliosull’uso dei media e la maggiore disponibilità finanziaria (un esempio ditransizione democratica iniziata ma «imperfetta»). Al processo di costruzionedella democrazia si è accompagnato un progressivo miglioramento nel rispettodei diritti civili: delle commissioni di riconciliazione basate sull’esperienza delSud Africa sono state stabilite al fine di indagare sulle violenze perpetrate dairegimi autoritari fino dall’indipendenza, avvenuta nel 1957. Accanto a questo,anche attraverso la collaborazione con organizzazioni internazionali quali l’ILO(Organizzazione Internazionale del Lavoro), le autorità del Ghana stannotentando sia di migliorare lo condizioni lavorative interne che di prevenire losfruttamento del lavoro, in particolare minorile. I principali problemi chepermangono sono relativi ad una forte distinzione fra centro e periferie: nelleregioni del nord non mancano episodi di violenza etnica che lo stato non riescea contenere o mediare, e nelle campagne i diritti delle donne rimangono spessopiù formali che realmente riconosciuti.Anche in Nigeria, il paese più grande e ricco della regione, è stata avviata unatransizione alla democrazia che mostra qualche segno di successo. Dopo ilfallimento del tentativo di democratizzazione del 1993, quando i militari (chehanno a lungo governato il paese dopo l’indipendenza) hanno rifiutato l’esitodelle elezioni, nel 1999 il partito dell’ex-generale Obasanjo ha ottenuto lamaggioranza nelle elezioni legislative e nel 2003 è stato rieletto, costituendocosì il primo caso in cui un leader in Nigeria ha avuto due mandati al govenrotramite elezioni libere. Di fronte a questi importanti cambiamenti dal punto di

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vista politico-istituzionale, più incerte sono le prospettive della «rule of law» edei diritti civili. Tre fattori rendono il processo particolarmente complicato. Inprimo luogo, la violenza nella zona del delta del fiume Niger, nella quale arivendicazioni di carattere etnico si aggiungono forme di protesta di tipoeconomico. In secondo luogo, la violenza, sia di stampo etnico che religioso,nelle regioni del nord. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito ad unaintensificazione dell’attivismo da parte di gruppi fondamentalisti islamici chereclamano maggiore autonomia (e la possibilità di adottare in pieno la sharia)dal governo centrale (del «sud cristiano) nelle regioni con popolazione amaggioranza musulmana. Collegato a questi due problemi c’è quello del ruolodei militari. In una realtà profondamente frammentata ed instabile sinodall’indipendenza (poco dopo la quale è scoppiata la guerra civile per la tentatasecessione dell’area del Biafra), i militari hanno tradizionalmente avuto un ruolocentrale nella politica nigeriana, intervenendo e governando spessodirettamente. Ancora oggi, soprattutto se tendenze separatiste si dovesseromanifestare con forza nel «nord musulmano», è possibile pensare allariassunzione da parte dei militari di un ruolo centrale nel governo, rendendocosì fragile l’esperimento democratico.Più solide sono le istituzioni democratiche di Benin, Mali e Capo Verde. Inquesti paesi, le transizioni iniziate nei primi anni novanta hanno avuto un certosuccesso e, soprattutto, non ci sono state tensioni e rischi di ritorno a regimiautoritari. Capo Verde, in particolare, anche per la sua favorevole posizionegeografica, è riuscita ad avere un discreto livello di sviluppo sino dalla fine delregime autoritario che aveva governato l’isola dall’indipendenza avvenuta nel1975. Il «consolidamento» democratico dell’isola è anche testimoniato dalpacifico passaggio di consegne fra il partito MPD (Movimento per laDemocrazia) e il PAICV (Partito Africano per l’Indipendenza di Capo Verde)avvenuto nel 2001, con uno scarto alle elezioni presidenziali di soli 12 voti (ilnuovo presidente è Pedro Verona Rodrigues Pires). In Benin, le elezioni del2001 si sono concluse con il terzo mandato del presidente uscente Kerekou, econ forti proteste di frodi da parte delle opposizioni. Nonostante questi problemi,le seguenti elezioni legislative hanno confermato che il partito dominante nellepreferenze elettorali resta quello guidato dal presidente Kerekou, ancheladdove le elezioni siano relativamente libere e corrette. Accanto alla«democrazia elettorale», il rispetto dei diritti civili e delle libertà fondamentali ègeneralmente alto, anche se recentemente, questo è stato oscurato dall’arrestodi alcuni giornalisti che ha dimostrato alcuni limiti nella libertà di stampa. In Mali,nonostante il bassissimo livello di reddito e la profonda frammentazione sociale,la democrazia ha mosso importanti passi avanti dalla caduta del regime militareche aveva governato il paese dall’indipendenza in poi. Nonostante alcuneirregolarità nelle elezioni presidenziali del 2002, un popolare candidatoindipendente, l’ex-generale Toure, è risultato vittorioso sconfiggendo ilcandidato del partito principale del governo uscente. Nonostante la scarsaindipendenza del potere giudiziario da quello esecutivo, i diritti civili sonogeneralmente rispettati, con notevole omogeneità di trattamento per i numerosigruppi etnici che compongono la società del Mali.Più complessa è la vicenda di due paesi della costa occidentale, Liberia eSierra Leone. Caso unico nella storia africana di indipendenza estremamenteprecoce (1847), la Liberia sta con difficoltà cercando di emergere da un lungoperiodo di governi autoritari che si sono succeduti dagli anni quaranta. Il regime

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autoritario guidato da John Doe, dal 1980, era basato sul dominio di un gruppoetnico (i Krahn) e sulla esclusione sociale e politica degli altri gruppi. Laribellione di altri gruppi, guidati da Charles Taylor, ha precipitato il paese in unabrutale guerra civile che ha visto l’intervento di altri paesi della regione. Leelezioni presidenziale del 1997, che seguono un accordo di pace, sono vinte daTaylor. Tuttavia, l’opposizione armata contro il nuovo governo rende impossibileun vero sviluppo democratico, del resto prevenuto anche dallo stesso Taylor. Ilriacutizzarsi della rivolta, insieme alle pressioni esterne (in particolare degli StatiUniti), portano alle dimissioni di Taylor e all’avvio di una nuova transizione, sottola supervisione di forze di pace di altri paesi africani e con la consulenzatecnica di organismi internazionali quali Banca Mondiale e Fondo MonetarioInternazionale. Nell’autunno del 2005, delle elezioni generalmente ritenutelibere e corrette, ha portato al potere Ellen Johnson-Sirleaf, alla quale è affidatoil difficile compito di guidare fuori dalla transizione un paese ancora in balìa diuna profonda insicurezza e frammentazione. Anche la Sierra Leone èimpegnata nel difficile processo di ricostruzione dopo trent’anni di governoautoritario (1971-2001) e una sanguinosa guerra civile durata un decennio eterminata nel 2002. Il presidente Kabbah, eletto già nel 1996 e poi nel 2002, sitrova ad affrontare difficili sfide legate sia all’estrema povertà e allo scarsorispetto dei diritti civili, con particolare riguardo alla condizione delle donne,come la Commissione per la Verità e la Riconciliazione ha più volte fatto notare.Le elezione programmate per il 2007, inoltre, sembrano al momento essere unafonte di profonde divisione e di rischio per il pacifico proseguimento dellatransizione del paese.

Africa Centrale.Più complicato è stato lo sviluppo di istituzioni democratiche in Africa Centrale.Molte delle transizioni in questi paesi sono state altamente imperfette o«bloccate» dai regimi al potere. È il caso del Gabon, della Guinea Equatoriale.Nel caso della Repubblica Centrafricana, dopo un inizio promettente dal puntodi vista della costruzione di un sistema democratico, il colpo di stato guidato nel2003 dal generale Bozize (attualmente ancora in carica come presidente dellarepubblica), ha mostrato quanto invece fossero fragili le premesse dellademocrazia. Nel 2005, si sono tenute delle elezioni che hanno confermatoBozize alla presidenza ma che hanno anche mostrato la presenza di numeroseformazioni politiche di opposizione al regime. In alcuni casi, come in Ruanda ein Burundi, le transizioni sono state accompagnate dall’intensificazione dellaviolenza, principalmente di stampo etno-politico. Dopo quella che è stata unadelle guerre più atroci del secolo, il Ruanda è ancora caratterizzato da unregime autoritario. Nonostante l’introduzione di una nuova costituzione chericonosce il pluralismo politico, il governo dominato dal Fronte Patriottico delRuanda (RPF), uscito vincitore dal conflitto del 1994, esclude di fatto dallapartecipazione politica la maggioranza Hutu, con un livello basso di protezionedei diritti civili fondamentali. In Burundi, la situazione è almeno in parte migliore.Sebbene sporadici episodi di violenza continuino nel paese, i negoziati iniziatiad Arusha, in Tanzania, nel 1998, hanno permesso alcuni, pure incertiprogressi, anche grazie all’intervento di mediazione di Nelson Mandela. Questiprogressi hanno portato ad una nuova costituzione basata su un sistema di«power-sharing» fra i due principali gruppi etnici (Hutu e Tutsi) e ad elezionidemocratiche nel 2005, con la vittoria di Nkurunziza.

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La situazione politica di Ruanda e Burundi è strettamente connessa con quelladella Repubblica Democratica del Congo (o Congo-Kinshasa), a causa del forte«interessamento» di ciascun paese agli affari interni degli altri e della presenzadi grandi numeri di rifugiati provenienti dagli altri paesi. Gli accordi di Pretoriadel 2003, che hanno segnato la fine (almeno formalmente) delle ostilità nellaregione dei Grandi Laghi ha permesso che di avviare anche internamente allaRepubblica Democratica del Congo una fase di negoziazione fra le particoinvolte nel conflitto. Il primo passo di questa nuova fase è stata lacostituzione di un regime di transizione nel luglio 2003 in cui si sono affiancaticome vice-presidenti al presidente Joseph Kabila i leader delle principali fazioniin lotta. Dopo il referendum costituzionale del dicembre 2005, elezionipresidenziali e legislative avranno luogo il 30 luglio 2006. Queste elezionirappresentano chiaramente un momento fondamentale perchérappresenterebbero un primo passo verso la costruzione di un sistemademocratico nel paese, e verso una stabilità che di fatto è stata un raroepisodio nei 46 anni passati dall’indipendenza. Ma l’importanza del processoelettorale e della stabilità congolese basata su un effettivo accordo fra le partiprotagoniste dei passati conflitti sta anche nel fatto che questa, specie seaccompagnata dal successo della transizione in Burundi, potrebbe portare allastabilizzazione della regione dei Grandi Laghi, con possibili «ricadute» positiveanche sul Ruanda.Difficile è anche parlare di transizioni democratiche in Congo-Brazzaville e inCameroon. Nel primo caso, come notato, Sassou-Nguesso ha ripresomilitarmente il potere e prevenuto lo sviluppo di istituzioni democratiche. InCameroon, il processo di democratizzazione è rimasto anch’esso fermo sotto ilcontrollo del partito del Rassemblement démocratique du peuple camerounaisdi Paul Biya, il cui regime, pure relativamente stabile, non garantisce né libertàpolitiche né civili. In Uganda, il regime «senza partiti» guidato da venti anni daYoweri Museveni ha mantenuto alcune delle forme della democrazia (elezioniper il parlamento e la presidenza), ma ne ha proibite altre, in primo luogol’associazionismo politico e l’organizzazione di partiti. Le elezioni del 2001, chehanno portato alla riconferma di Museveni, sono state inoltre caratterizzate dairregolarità, se non nel loro svolgimento, almeno per quanto riguarda lapossibilità di accesso ai media per le opposizioni durante la campagnaelettorale.L’unico vero esempio di democrazia «compiuta» in quest’area è rappresentatadall’isola di Sao Tomè e Principe, al largo della costa del Gabon. Lademocrazia multi-partitica, creata dopo un referendum nel 1990, accompagnatada un generale rispetto per i diritti civili, ha sorpassato la «prova» della primaalternanza di partiti al potere nelle elezioni del 2001. Tuttavia, la forte instabilitàpolitica ha portato ad un tentato colpo di stato militare nel 1995 ed un altrotentativo nel 2003 che invece ha deposto, ma solo per una settimana, ilpresidente eletto de Menezes. L’intervento esterno, sotto l’egida del Portogallo,ex-potenza coloniale, e di numerosi paesi africani, ha riportato pacificamente alpotere de Menezes (le prossime elezioni presidenziali si terranno nel luglio2006). La recente scoperta del petrolio in acque territoriale è probabilmentel’evento che più condizionerà la vita economica e politica nel paese nei prossimianni.

Africa Orientale.

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Anche in Africa Orientale, la democrazia non ha fatto alcuni passi avanti ealcuni passi indietro. Il conflitto fra Eritrea ed Etiopia, la disgregazione e il«fallimento» dello stato in Somalia sono gli eventi centrali degli anni novantache contribuiscono a spiegare le ragioni di questo insuccesso almeno in questedue aree. In Etiopia le elezioni, formalmente multi-partitiche, hanno fino dal1991 consegnato il potere all’Ethiopian People's Revolutionary DemocraticFront (EPRDF), che ha controllato i risultati elettorali sia gestendo le campagneelettorali in situazione di sostanziale monopolio dell’informazione sia, secondol’opposizione, con brogli elettorali. Nel 2000, le elezioni hanno dato comunquela possibilità di espressione alle diverse parti politiche, anche se sono terminatecon la vittoria dell’EPRDF. Le continue dispute di confine con l’Eritrea, sfociatein una guerra aperta fra il 1998 e il 2000, permenttono anche all’EPRDF di«giocare» le armi del nazionalismo e dell’emergenza a proprio favore.La Somalia rappresenta invece uno degli esempi più drammatici di completadissoluzione dell’ordinamento statuale, e di completa impossibilità di trovare unaccordo fra le fazioni in lotta. La situazione di aperto confronto si apre con ladeposizione di Siad Barre nel 1991, e con diversi gruppi armati chereclamavano il potere in un paese estremamente povero (nel 2005, il redditopro-capite è stato di 120 dollari annui). Quello che segue, nonostante gliinterventi internazionali, è una lotta senza quartiere fra i vari gruppi, che si èarrestata, in parte, con degli accordi che hanno portato alla costituzione di ungoverno transitorio federale guidato da Ali Mohamed Ghedi. Negli ultimi anni,sono aumentati i sospetti che la Somalia costituisca un rifugio per alcuni gruppilegati al terrorismo internazionale, e nelle ultime settimane una milizia islamistaha conquistato Mogadiscio, testimoniando non solo la forza di formazioniestremiste ma anche l’ancora lungo percorso da fare nella ricostruzionedell’autorità statuale prima ancora che di un sistema che abbia almeno alcunirequisiti minimi di democraticità.Diverso è il discorso per i due grandi stati costieri dell’Africa Orientale, Kenya eTanzania. La transizione iniziata in Kenya nel 1992 è stata segnata dal controllodiretto esercitato da Daniel arap Moi e dalla Kenyan African National Union(KANU), il partito dominante fondata da Jomo Kenyatta, l’eroedell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Il KANU ha utilizzato sia denaro dellostato che provocato violenze in alcune aree al fine di assicurarsi la vittoriaelettorale. Simili metodi hanno caratterizzato anche le elezioni del 1997. Nel2002, tuttavia, l’opposizione al regime di Moi si è coalizzata intorno al candidatoalla presidenza Kibaki, che ha sconfitto Uhuru Kenyatta (il figlio di Jomo) nelleelezioni presidenziali. Benché l’evento sia certamente indicatore di uncambiamento epocale nella politica kenyana, e i primi passi del nuovo governoabbiano mostrato la volontà di riformare il sistema politico in primis diminuendola corruzione e il sistema economico «bloccato» ereditato da decenni digoverno a partito unico, la democrazia kenyana è tuttora fragile e lontanadall’essere consolidata. Il perdurare della pace etnica e della tolleranzareligiosa, insieme al progredire della protezione dei diritti civili sono i principaliindicatori sulla base dei quali sarà possibile valutare la consistenza e leprospettive dei recenti favorevoli sviluppi politici in Kenya.In Tanzania, i primi tentativi di democratizzazione negli anni novanta furonogestiti dal partito Chama Cha Mapinduzi (CCM), al potere finodall’indipendenza, in modo da non dover cedere il potere, ma al contrario diottenere legittimazione anche grazie al processo elettorale. Nel 2000, il CCM ha

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di nuovo vinto le elezioni presidenziali e legislativi, ritenute non correttedall’opposizione e da numerosi osservatori internazionali. I brogli nell’isola diZanzibar, che gode di uno stato di semi-autonomia, avevano causato particolarilamentele. Nel 2003, il partito di opposizione (Civic United Front, CUF) ha vintole elezioni per le assemblee locali, scalzando per la prima volta il CCM da unluogo chiave di potere. L’ultima tornata elettorale, considerata da moltiosservatori come relativamente libere e corrette, ha premiato con oltre l’80percento dei voti Jakaya Kikwete del partito dominante CCM, che haconquistato una maggioranza amplissima anche alle elezioni legislative. Ilprincipale limite allo sviluppo democratico in Tanzania sembra ad oggi essere,oltre ad un certo perfettibile rispetto dei diritti civili, l’assenza di alternativepartitiche che possano credibilmente aspirare al governo del paese.

Africa Meridionale.Molto eterogeneo è anche il panorama dell’Africa Meridionale, dove si trovanotre fra i più grandi «successi» africani, Sud Africa, Lesotho e Botswana, accantoa paesi che rimangono dominati da regimi autoritari, come Angola e Swaziland,o che addirittura hanno fatto passi indietro come lo Zimbabwe sotto RobertMugabe. A sedici anni dalla liberazione di Nelson Mandela e dell’apertura delprocesso di liberalizzazione politica iniziata con la legalizzazione dell’AfricanNational Congress (ANC), il Sud Africa rimane il caso di grande successo nelletransizioni democratiche africane. Di fronte a molti osservatori che prevedevanoil possibile esplodere di conflitti legati alla divisione razziale o alla pure profondadivisione etnica esistente fra i neri, a parte che nei primi momenti cheprecedono l’accordo che porta alla riscrittura della costituzione, i livello diviolenza politica rimangono relativamente bassi. Il nuovo assetto politico-istituzionale è stato «battezzato» dalle prime elezioni multi-partitiche nel 1994 incui ha trionfato l’ANC di Mandela, poi sostituito da Thabo Mbeki nelle elezioni(vittoriose) del 1999 e del 2004. Il «nuovo» Sud Africa, che rimane unostraordinario esempio di risoluzione di conflitti basata sull’accordo fra le elite(col governo di unità nazionale che gestisce la fase della transizione fra il 1990e il 1994) e sulla istituzione delle Commissioni di Verità e Riconciliazione comestrumento di pacificazione nazionale, deve confrontare ad oggi tre principalisfide. La prima è quella di evitare che il partito che ha condotto la parteprincipale della lotta di liberazione dall’apartheid diventi l’unico partito in gradodi aggregare le preferenze dell’elettorato, bloccando così di fatto la possibilitàdell’alternanza al governo che è garantita dalla nuova costituzione. Il secondoproblema è quello di mettere in moto un circolo vizioso di sviluppo economicoche, pure molto più elevato che nella gran parte del continente, rimaneinsufficiente a garantire ad una parte importante della popolazione nera diuscire da situazioni anche estreme di miseria. In terzo luogo, il futuro del SudAfrica si giocherà molto sulla sua capacità di combattere la diffusionedell’HIV/AIDS che colpisce in questo paese oltre cinque milioni di persone, circail 15 percento della popolazione, con cifre molto più alte in alcune aree piùpovere.Il Botswana è il sistema democratico di più lunga durata in Africa, con elezionimulti-partitiche regolari che si svolgono dal 1966, anno dell’indipendenza dallaGran Bretagna. I problemi principali che il paese deve affrontare, per quantoriguarda il rafforzamento del processo democratico sono legati ad unamaggiore possibilità di accesso ai media per i partiti di opposizione e al rispetto

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pieno dei diritti di alcune minoranze etniche. Il vero «nodo» per il successo delBotswana, tuttavia, risiede oggi e nel prossimo futuro nella capacità di affronatein maniera efficace la diffusione endemica del virus HIV, che colpisce circa unterzo della popolazione, con chiari effetti disgreganti del sistema sociale edeconomico. Anche le Mauritius, democratiche dal 1968, rappresentano un casodi successo per la convivenza pacifica in società molto frammentateetnicamente. Negli ultimi anni, il sistema politico delle isole è stato scosso daqualche caso rilevante di corruzione, il che ha portato ad un parzialerinnovamento della classe politica.Il Lesotho rappresenta una democrazia più giovane e problematica, confrequenti violenze a una generale instabilità che seguono alle elezionidemocratiche del 1993. La pacificazione di alcune aree coinvolte nella violenzaè stata ottenuta dopo il 1998 solo con l’intervento di truppe del Sud Africa e delBotswana. Il processo di democratizzazione riavviato nel 2000 ha portato adelezioni nel 2002 con la vittoria del partito LCD (Lesotho Congress forDemocracy) già al governo. Al momento i problemi principali del paese sonodovuti alla povertà e all’eccessiva dipendenza da raccolti i cui risultati sonofortemente discontinui. Un simile percorso, caratterizzato da discontinuità, ètipico anche del Madagscar: nel 1992 Albert Zafy, il leader dell’opposizione alregime autoritario precedente, è stato eletto presidente nelle prime elezionieffettivamente libere della storia del paese. Tuttavia, presto la instabilitàpartitica ha portato una difficile attuazione di alcune politiche, in particolarerelative al decentramento amministrativo. Nel dicembre 2001, il candidato allapresidenza Ravalomanana ha rifiutato l’esito elettorale che lo avrebbe costrettoal ballottaggio dichiarandosi presidente. Mentre la Corte Costituzionale haavallato le tesi di Ravalomanana, l’altro candidato Ratsiraka ha iniziato unaviolenta contestazione del risultato, durata fino al luglio 2002. In questo clima, latransizione del Madagscar è tuttora segnata da episodi di violenta protesta chemettono in dubbio, se non l’esistenza di alcuni dei requisiti formali perl’esistenza di un sistema democratico, l’effettiva possibilità per i cittadini divivere in un sistema socialmente pacifico dove tutti i principali diritti civili epolitici siano di fatto rispettati.In Angola, nonoostante sia finita la guerra civile, resta ad oggi difficileindivisuare quali passi avanti siano stati fatti verso la democrazia, in attesa delleelezioni presidenziali e legislative che si dovrebbero svolgere nel 2006. sonostati poco rilevanti. Il Mozambico, l’altro paese della regione che è stato sotto ladominazione portoghese, è altresì riuscito ad emergere da una lunga edolorosa guerra civile. In questo caso, diversamente dall’Angola, esistonoelezioni fino dal 1994. Queste elezioni finora hanno sempre confermato alpotere il FRELIMO Mozambique Liberation Front, il partito di stampo socialistaprotagonista della guerra contro il Portogallo e che ha accettato elezioni multi-partitiche dopo gli accordi di pace col movimento RENAMO (MozambiqueNational Resistance). Alla forma democratica non corrispondono tuttaviacompletamente le pratiche in materia di diritti civili, anche per il perdurare dialcuni episodi di violenza e della povertà endemica che caratterizza tutto ilpaese. Lo Zimbabwe è uno dei casi in cui si sono registrati passi indietro sottola presidenza di Robert Mugabe, che ha ulteriormente limitato le libertà civili epolitiche, dopo aver vinto nel 2002 elezioni presidenziali che sono state vistequasi unanimemente come non corrette e libere. Le seguenti elezioniparlamentari hanno avuto la stessa «cattiva sorte», con una vittoria delle forze

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dello Zimbabwe African National Union - Patriotic Front (ZANU-PF) di Mugabe eintimadazioni verso i partiti di opposizione. Le elezioni parlamentari del 2005,anch’esse ma giudicate scorrette dall’opposizione, hanno confermato a largamaggioranza il partito di Mugabe, e hanno garantito al preseidente unamaggiroranza in parlamento sufficiente per poter modificare la costituzione.

Tabella 3: diritti e libertà in Africa, 2005Paesi «non liberi» Paesi «parzialmente

liberi»Paesi «liberi»

• Mauritania (=)• Repubblica

democratica delCongo (ex-Zaire)(=)

• Angola (=)• Zimbabwe (-)• Ruanda (=)• Somalia(=)• Repubblica

Centrafricana (=)• Sudan (-)• Cameroon (=)• Guinea

Equatoriale (=)• Costa d’Avorio (=)• Guinea (=)• Chad (=)• Togo (=)• Eritrea• Swaziland (-)

• Guinea Bissau (+)• Sierra Leone (=)• Burkina Faso (+)• Niger (+)• Nigeria (=)• Gabon (+)• Congo

(Brazzaville) (+)• Uganda (=)• Burundi (+)• Tanzania (+)• Kenya (+)• Etiopia (+)• Gibuti (+)• Zambia (=)• Malawi (+)• Mozambico(+)• Comore (+)• Seychelles (+)• Madagascar (=)• Gambia (=)• Liberia (=)

• Senegal (+)• Mali (+)• Ghana (+)• Benin (+)• Sao Tomè e

Principe (+)• Namibia (+)• Lesotho (+)• Sud Africa (+)• Mauritius (=)• Botswana (=)• Capo Verde (+)• Guyana (+)

fonte: Freedom House, 2006Nota: i simboli fra parentesi (+, -, =) indicano cambiamenti e costanti rispetto alrapporto sul 1989.

Tabella 4: democrazie elettorali, 2005

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BeninBotswanaCape VerdeComoreGhanaGuyanaKenyaLesothoLiberiaMadagascarMalawi

MaliMauritiusMozambicoNamibiaNigerNigeriaSao Tome and PrincipeSenegalSierra LeoneSud AfricaTanzania

fonte: Freedom House, 2006

3.Alcune aree di conflitto: Sudan e Ciad; Costa d’Avorio; Nigeria; Burundi;Uganda; Repubblica Democratica del Congo; Angola

3.1SUDAN E CIAD:DA GUERRA CIVILE DEL DARFUR A GUERRA REGIONALE.

3.1.1Origini e stato attuale del conflitto

A quasi tre anni dallo scoppio della guerra civile nella zona del Darfur, con unbilancio di circa 70.000 morti, 200.000 profughi oltre i confini e un milione emezzo di profughi interni, la crisi del Sudan è ancora molto lontana da unasoluzione.La regione del Sudan occidentale è diventata teatro di una crisi umanitariasenza precedenti nel febbraio 2003 quando i due gruppi armati del SudaneseLiberation Army e del Justice and Equality Movement si sono ribellati al governodel presidente Omar Al-Bashir ritenuto responsabile di una politica didisinteresse e di sfruttamento di rivalità già esistenti tra popolazioni stanziali e

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nomadi, in una zona sostanzialmente desertica e poverissima, dove i contrastitra comunità autoctone erano già presenti da decenni.Il Sudan ha in effetti conosciuto ben pochi periodi di pace dalla conquistadell’indipendenza nel 1956 in poi; la prima guerra civile, iniziata nel 1955 trapopolazione musulmana e non si concluse nel 1972 con gli accordi di pace adAddis Abeba. Il secondo episodio di guerra interna ebbe invece inizio nel 1983(e conclusosi solo nel 2005 con la firma del Comprehensive Peace Treaty) conla proclamazione della legge della Shari’a nel corso della presidenza Numayri,una rigida interpretazione del Corano in una regione a maggioranza animista ecristiana, che tra l’altro includeva la proibizione per i civili dell’area del Darfur dipossedere o portare armi dietro risarcimento dello stato; un provvedimento cheportò ad interventi successivi di “pacificazione” da parte del governo in zonedove si riteneva si trovassero fazioni ribelli (musulmani non ortodossi e nonmusulmani).Sebbene oltre il 40% della popolazione darfurina sia musulmana è impossibilenegare che divisioni interne tra arabi e non arabi esistono da lungo tempo:l’appartenenza bantu-sudanese di molti gruppi della zona del sud li avvicinamaggiormente a etnie presenti in Ciad, piuttosto che al potere di Khartoum,sicuramente non fautore di una politica di unione sotto innumerevoli aspetti; laguerra degli anni ottanta ha contribuito ad esasperare gli animi delle dueprincipali etnie, i Fur e gli Zaghawa, che accusarono il governo di praticarediscriminazioni evidenti nell’occupazione delle terre e dell’immigrazione a favoredegli “arabi”. Al-Bashir, eletto presidente nel 1993, dette il via ad un’opera diridefinizione dei confini del Darfur, dando luogo a tre regioni distinte: Darfursettentrionale, occidentale e meridionale. Le rivalità già presenti si sono acuitefino alla proclamazione dello stato di emergenza risalente all’ottobre 1996;l’emergenza del 2003 e di oggi è pertanto l’appendice più recente di un conflittointerno mai sopito e risolto.La comunità internazionale, ma soprattutto l’attenzione dei media, hannospesso sorvolato sulla questione ultima che ha coinvolto e tutt’oggi riguardaquesta porzione di territorio sudanese, con un’estensione in realtà pari a quelladella Francia, contesa tra gruppi armati ribelli e forze del governo di Khartoum,responsabili di attacchi ripetuti contro la popolazione civile rifugiata oltre iconfini. Dopo una iniziale copertura mediatica abbastanza forte, tranne che inItalia, la crisi del Darfur sembra essere calata nell’ ombra, spiazzata, come moltialtri conflitti africani, da guerre e disastri naturali più “vicini” all’interesseoccidentale.La mediazione per il raggiungimento di accordi di pace stabili langue: si èdiscusso fino al gennaio 2005 sull’opportunità o meno di definire comegenocidio i massacri in corso, un termine che, se accettato, implicherebbe unintervento immediato e che ha finito per rappresentare un aspetto chiave nontrascurabile all’interno della vicenda senza peraltro essere accolto o apportarecambiamenti decisivi nella situazione. È appunto del 2005 l’ultima dichiarazionedelle Nazioni Unite che ribadiscono di non considerare un genocidio le vicende

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del Darfur, contrariamente a quanto era stato a suo tempo richiesto dal governostatunitense e dal suo ex segretario di stato Colin Powell1.Le attività di guerriglia più intense si registrano ancora oggi nella zona centro-meridionale del Darfur, presso il confine con il Ciad orientale e nel corridoio cheva da Tawila, nel nord Darfur, a Graida, nel sud; i due gruppi ribelli coinvolti(SLA e JEM) nel gennaio 2006, a seguito di un incontro nella capitale ciadianaN’Djamena, si sono uniti a formare le Allied Revolutionary Forces of WesternSudan.Per contro il governo sudanese continua ad essere responsabile di attacchi allapopolazione civile anche attraverso l’uso di bombardamenti aerei e sostenendole milizie nomadi chiamate janjaweed2, responsabili di numerose incursioni educcisioni di civili oltre confine.I cessate il fuoco sono stati ripetutamente firmati e violati da entrambe le parti,mentre la situazione ha finito per coinvolgere direttamente il confinante Ciad,dove sono numerosi i campi profughi (circa 200.000 rifugiati) e dove i gruppiarmati dal governo sudanese conducono ripetuti attacchi ai danni degli sfollati edella popolazione, in cerca di fuggiaschi ribelli e di luoghi da depredare.Siamo giunti al settimo incontro per i colloqui di pace tra le parti ad Abuja, ma irisultati raggiunti sono scarsi: il SLA e il governo del Sudan non rispettano inalcun caso l’accordo per il cessate il fuoco stabilito a N’Djamena l’8 aprile del2004 e, nonostante gli scontri diretti siano lievemente diminuiti, le recentistrategie di guerra del governo e le azioni delle bande armate ribelli alimentanoun banditismo dilagante, illegalità e disordini che comportano conseguenzedevastanti per i civili.

1 Al di là delle conseguenze che il riconoscimento di “guerra di distruzione di gruppi religiosi,

etnici o razziali” potrebbe forse apportare alla crisi sudanese, resta effettivamente difficoltoso

dichiarare che gli scontri siano condotti dall’élite araba del governo di Khartoum per lo

sterminio della popolazione nera: una tesi in parte confermata dai reportage e dalla

documentazione sulle distruzioni e messe a fuoco di interi villaggi ma smentita dalla mancanza

di una reale base ideologica pan-araba o antiafricana delle milizie mercenarie assoldate dal

governo.2 Non sono molte le informazioni a livello internazionale per quanto riguarda queste milizie

denominate “diavoli a cavallo”. Si tratta appunto di paramilitari mercenari anche se molti sono

poi in realtà integrati nei corpi formali dei servizi di sicurezza (Popular Defece Forces) o della

polizia di frontiera (Border Intelligence Unit).

International Crisis Group, Africa Report, 2006.

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3.1.2Il coinvolgimento del CIAD nella crisi sudanese

Il teatro degli scontri quindi continua ad allargarsi ulteriormente finendo pertrasformare un conflitto interno, già estremamente violento e sanguinoso, in unaguerra a carattere regionale: l’estendersi dei combattimenti nel territorioorientale del Ciad rischia di produrre un’emergenza umanitaria ancora piùampia da entrambi i lati della frontiera. Il governo sudanese sta compiendosforzi purtroppo molto deboli e insufficienti per giungere ad una stabilizzazioneo addirittura nulli se si considera che elementi militari e dei servizi di sicurezzasudanesi appoggiano apertamente i ribelli ciadiani che si contrappongono al giàdebole e decadente potere del presidente Deby (debolezza dimostrata dalfallito colpo di stato del maggio 2004, che ha messo in luce la complicatasituazione in cui versa anche il governo di N’Djamena). Mentre la situazione delDarfur va progressivamente deteriorandosi le ostilità tra il Ciad e il Sudan sonoquindi aumentate: gruppi ribelli ciadiani (Rassemblement pour la Democratie etla Liberté e Socle pour le Changement, l’Unité et la Démocratie3) hannoincrementato le proprie incursioni nella zona est del paese a partire dall’ottobre2005; l’RDL, con base nell’ovest del Darfur, ha condotto insieme allo SCUD, neldicembre dello stesso anno, attacchi alle truppe dell’esercito regolare ad Adrécon il sostegno del governo sudanese (attraverso l’intervento delle truppe“Janjaweed”); il presidente Déby ha risposto con una dichiarazione di “stato dibelligeranza” con il Sudan da una parte e cercando di rafforzare i rapporti con iribelli darfurini, sempre più spesso presenti nella capitale N’Djamena, dall’altra.Il conflitto coinvolge quindi attualmente non solo attori interni bensì due stati.Nel corso dei tre anni di guerra il Ciad ha visto rapidamente declinare la propriasituazione umanitaria, politica, economica e di sicurezza. L’evolversi della crisidel Darfur ha inevitabilmente coinvolto il paese confinante che mostra moltipunti in comune con le fratture e le disavventure politiche del Sudan; ilpresidente Deby ha a lungo intrattenuto ottime relazioni con il governo diKhartoum, almeno fino a quando la pressante presenza di cittadini ciadianiall’interno di gruppi ribelli del Darfur lo ha collocato in una posizione sempre piùscomoda e difficoltosa dovuta, d’altro canto, anche alle accuse rivoltegli dacomponenti chiave del proprio stato di non agire concretamente in favore digruppi delle SLA e dei ribelli ciadiani presenti in territorio sudanese. Il rafforzarsidei rapporti tra i gruppi armati del Darfur e il governo di N’Djamena hannoperciò portato al crollo dei rapporti attuale tra le due nazioni.La conseguenza ovvia della crisi ai confini del Darfur è stato l’afflusso in massadi centinaia di migliaia di profughi nell’area orientale del Ciad, una delle regionipiù povere dell’intero stato; sebbene molti abitanti delle zone di confineappartengano alle stesse origini etniche dei rifugiati, i contrasti sono in costanteaumento malgrado l’ UNHCR e varie Organizzazioni Non Governative abbiano

3 Entrambi i gruppi sono formati da ex militari dell’esercito ciadiano e condividono l’obiettivo

di rovesciare l’attuale presidente Idriss Déby.

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di recente promosso una politica di aiuti e di afflusso di risorse rivolta anche allapopolazione ospite.Un secondo effetto è sicuramente stato l’incremento dell’instabilità nell’est delpaese e un indebolimento delle forze armate che hanno contemporaneamenteperso sia uomini che armi nei gruppi ribelli del Darfur, il Justice and EqualityMovement in particolare ha reclutato molti soldati ciadiani agli inizi del conflitto,acquistando mercenari ed armi allo stesso tempo.Le ripercussioni si sono fatte sentire anche per quel che riguarda la politica didivisione di Deby tra gli interessi coltivati in seno alla comunità Zaghawa delDarfur e l’iniziale supporto al governo sudanese4 e il recente cambio di rotta,manifestatosi con le accuse rivolte al governo del Sudan di ospitare i gruppiribelli ciadiani, posizione che ha fatto scendere ai minimi storici la leadership diDeby. Il tentativo di colpo di stato già accennato precedentemente e avvenutonel maggio 2004 è stato provocato principalmente dalla convinzione dei verticimilitari di un mancato sostegno alle forze Zaghawa oltre confine e al governosudanese e di una condotta discontinua e ambigua del presidente non ancorapienamente risolta, soprattutto dopo la dichiarazione dello stato di belligeranza.La nuova alleanza dei gruppi armati del Ciad dimostra infatti una semprecrescente opposizione al regime attuale, già sufficientemente barcollante permolteplici cause, dalla decisione del presidente di correre per un terzomandato, favorito da un emendamento apportato alla costituzione, allacrescente crisi economica interna e al collasso dei già scarsi servizi socialiesistenti.La disposizione del regime di interrompere l’accordo per l’oleodotto con laBanca Mondiale e sostanzialmente di interrompere la fornitura di petrolio se lacomunità internazionale non fosse intervenuta, ha costituito più uno sforzodisperato per arginare i crescenti sintomi di pericolo dovuti a tendenzeautocratiche e deficienze di governo che una concreta scelta politica.

3.1.3L’intervento dell’Unione Africana

L’Unione Africana è stata il principale attore internazionale sulla scena delDarfur dall’aprile 20045 in poi, prendendo l’iniziativa per istituire negoziati politicie una forza di monitoraggio per la sospensione delle ostilità, l’AMIS. Ciò haprovocato risultati e benefici alterni: l’UA ha provveduto ad una rapida rispostainiziale alla crisi, in un momento in cui non si presentavano alternative ma had’altro canto sofferto di una mancanza di capacità, di risorse e, non ultima, divolontà politica in grado di responsabilizzare le parti in causa verso i propriimpegni o di correggere e migliorare significativamente la situazione.

4 Nell’aprile 2003 il Ciad inviò 800 truppe nella zona del Darfur a sostegno della lotta contro i

ribelli.5 L’UA è in realtà intervenuta anche nel corso del 2003, quando, con l’aggravarsi della crisi

umanitaria, ha organizzato con le Nazioni Unite la conferenza di pace del 10 dicembre tra i

ribelli della SLA e il governo sudanese ad Abéché, nel Ciad orientale.

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La missione ha raggiunto un numero di circa 7.000 membri contro un tettomassimo stabilito in 7.731 ma la situazione continua a rimanere disperata per lamaggioranza dei civili; la violenza e le violazioni ai cessate il fuoco restanoincessanti da entrambe le parti e i parametri della missione di peacekeepingsono rimasti invariati dall’inizio del mandato.Dal febbraio 2006, sotto ripetute pressioni del governo statunitense all’inizio delmese di presidenza al Consiglio di Sicurezza, l’Unione Africana ha approvato lariconversione dell’AMIS come missione delle Nazioni Unite; il follow up, accoltoall’unanimità, sarebbe dovuto avvenire formalmente nel marzo 2006 ma ilmandato precedente è stato comunque prorogato fino al 30 settembre senzarealmente stilare una concreta tabella di marcia per la transizione. Il piano perla successione prevedrebbe l’invio di ulteriori truppe, lo stanziamento di nuoviarmamenti e un mandato per la difesa dei civili.Ovviamente resta da chiedersi se l’intervento dei caschi blu possaeffettivamente modificare le sorti della guerra in Sudan e nel vicino Ciad. Il 13gennaio 2006, il senior UN official in Sudan, Jan Pronk, ha ammesso ilfallimento della strategia internazionale nel Darfur ed ha aggiunto che sarebbestato necessario un contingente di almeno 12.000/20.000 membri per unaprotezione adeguata della popolazione e per il disarmo delle miliziecombattenti.Le difficoltà restano evidenti nel trovare stati che contribuiscano con l’impiego dipropri soldati ed è facile prevedere che gli Stati Uniti, promotori della mozione,difficilmente parteciperanno in prima persona all’esito della missione; nonultima, si somma alla lista degli ostacoli l’aperta ostilità del presidente delSudan, Al-Bashir, ad un intervento di peacekeeping delle Nazioni Unite6,probabile effetto residuo delle numerose condanne dell’ONU a fronte delleripetute violazioni degli accordi di pace; il 25 maggio 2004 il Consiglio diSicurezza delle NU condannò il Sudan per i gravi abusi e le violenze contro icivili perpetrate in Darfur, intimando al governo di impedire le incursioni delletruppe janjawid; nel luglio dello stesso anno gli stessi Colin Powell e Kofi Annansi recarono in Sudan, minacciando sanzioni in caso di ulteriori infrazioni agliimpegni sottoscritti, fino ad arrivare alla risoluzione 1591 con la quale ilConsiglio di Sicurezza rafforzava l’embargo sulle armi e sulla vendita di petrolio.

3.1.4Una questione ricorrente: guerra per il controllo delle risorse o scontroetnico?

6 Il presidente sudanese ha recentemente dichiarato che Il Darfur e il Sudan “ will be a graveyard

for any foreign troops venturing to enter”. Secondo la Sudan News Agency il ministro della

giustizia ha inoltre avvertito l’inviato delle Nazioni Unite per i diritti umani che “the

international forces to Darfur would pave the way for infiltration of elements in Sudan across

the borders with neighbouring countries, a matter which will complicate the protection and

safety of the international forces”.

“UN peacekeeper could be at risk if deployed to Darfur”, Associated Press, 27 February 2006.

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Quanto la crisi interna del Sudan riflette e assomiglia ad altri scontri e conflittidell’area africana e quanto peso hanno le componenti economiche ed etnichenella nascita e nel protrarsi della guerra? Sono domande che si ripetono alpresentarsi di ogni situazione di crisi, soprattutto se si parla di stati africani e daiquali è difficile prescindere anche in questo caso. La zona teatro principaledegli scontri è una delle più ricche di petrolio dell’area, il Sudan è effettivamenteal settimo posto nella lista dei paesi produttori di petrolio del continente, il cherende difficile non introdurre la motivazione dello sfruttamento delle risorse poiallargatasi dai gruppi ribelli combattenti agli stati attualmente interessati (nonultimi l’Eritrea, accusata dall’ONU di offrire sostegno a gruppi ribelli del sudDarfur e la Libia, anche se coinvolta nelle trattative di pace come paesemediatore7).La composizione etnica della popolazione sudanese risulta essere comunqueuna realtà molto variegata, come accade per molti stati e aree africane. Vi sonoprincipalmente tre gruppi etnici che il conflitto ha portato sulla scena di guerra: isedentari Fur (da cui la regione prende il nome) e Massaleit e i nomadiZaghawa.Il governo sudanese ha cercato di sottolineare e dare forza ad una dimensionetribale del conflitto e di trasformare quelle che sono nate come insurrezionipolitiche in una guerriglia a sfondo etnico, nonostante l’insorgere di ribellioniabbia rivelato una base comune che vede l’intera popolazione darfurina aderirealle stesse rivendicazioni politiche ed economiche. L’intensa propagandagovernativa ha sostenuto che gli Zaghawa, dominanti all’interno delle strutturedi comando della SLA, stanno manipolando e usando i Fur e i Massaleit conl’obiettivo di costruire una grande stato Zaghawa in Sudan e nel Ciad. Sono delvice presidente Ali Osman Taha le parole che affermano che “il conflitto delDarfur […] è una questione tribale e non politica o di genocidio […] ci stiamoinfatti confrontando con una situazione tipica molto comune in Africa”8.Le implicazioni etniche sostenute dal Sudan si sono estese anche al Ciad,dove, sin dall’inizio del conflitto in Darfur, lo stato sudanese ha tentato dineutralizzare la collaborazione dei gruppi Zaghawa ciadiani con le truppe delSLA.Voci internazionali hanno avallato in varie occasioni la tesi di uno scontro tribaleo interetnico; ne è un esempio la dichiarazione del 9 novembre 1995 del vicesegretario di stato statunitense Robert Zoellick che affermava: “It’s a tribal war,that has been exacerbated by other conditions, and frankly, I don’t think foreignforces ought to get themselves in the middle of a tribal war of Sudanese”9.Sicuramente la componente delle diverse appartenenze della popolazionesudanese non è un elemento da trascurare ma come tralasciare il fatto che sindalla tradizionale lotta per il possesso dell’acqua (fondamentale in una zonasemidesertica) il ruolo delle risorse contese resta un elemento primario. Iridisegnamenti dei confini, (quello del capo del governo Numayri all’indomanidella scoperta e delle prime estrazioni di petrolio del 1978, oltre a quello già

7 Si è svolto a Tripoli il summit del 10 febbraio 2006 che avrebbe dovuto condurre all’arrestarsi

dei finanziamenti e del sostegno dei gruppi ribelli da parte di entrambi gli stati coinvolti.8 V. ICG, Report Africa, 2006.9 Speech at the University of Khartoum, Robert Zoellick, 9 November 2005. http://www.state.gov

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citato ad opera di Al-Bashir) hanno delineato cambiamenti giurisdizionali maanche di controllo con la conseguente esclusione dei governi locali dallagestione delle riserve petrolifere.I principali obiettivi del movimento politico armato del SPLA/M (Sudan PeopleLiberation Army/Movement, poi riconvertito in SLA nel 2003) guidato dall’excolonnello John Garang, sono stati gli impianti petroliferi delle compagniestraniere, allo scopo di combattere contro lo sfruttamento non condiviso dellerisorse delle proprie terre, monopolio esclusivo delle forze governative.

3.1.5Violazioni dei diritti umani

Nonostante la violenza persista attraverso l’intera regione, attività militari sularga scala si sono concentrate in due zone: il corridoio nel sud Darfur (che siallunga al nord fino a Tawila, ad est verso Shearia, ad ovest in direzione diNyala e al sud a Graida) e nell’area di confine con il Ciad, principalmente nellaparte ad ovest, nei pressi di Geneina e nel nord est a Kulbus.Gli attacchi alle popolazioni locali si ripetono incessantemente e sono molti irapporti dettagliati di ciò che avviene nel corso degli scontri tra le varie fazioni incampo; crimini di guerra e contro l’umanità continuano ad essere perpetrati siadalle forze governative o ad esse alleate che dai gruppi ribelli armati. I civilisono bersaglio di bombardamenti aerei che spesso precedono incursioni deimilitanti janjawid, così come nel corridoio Tawila-Graida sono le SLA acompiere attacchi ai danni dell’esercito “regolare” ma anche della popolazionepresente nella zona interessata.A seguito di una recrudescenza delle offensive del governo in gennaio, laviolenza ha subito un leggero declino fino al mese di aprile per poi aumentarenuovamente durante la fine di agosto. Le violazioni dei diritti umani controattivisti e operatori umanitari non si arrestano ma anzi hanno recentementevisto un progressivo aumento; inoltre le truppe di peacekeeping inviatedall’Unione Africana sono spesso vittime di rapimenti e uccisioni.Dall’inizio del conflitto, cominciato nel 2003, più di 200.000 civili sono statiuccisi, circa due milioni di persone sono state costrette a spostarsi e rifugiarsi incampi profughi, l’assetto della popolazione è stato profondamente danneggiatoe l’economia distrutta. Un numero altissimo di uomini, donne e bambini sonostati vittime di azioni di guerra, di crimini contro l’umanità e massacriindiscriminati.Il governo sudanese ha bloccato quasi interamente ogni tipo di interventoumanitario internazionale fino a tutto il 2004. il governo di Khartoum è da lungotempo ostile verso la presenza di organismi umanitari e i suoi continui giri di vite

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e campagne burocratiche di logoramento determinano un problema continuoper organizzazioni indipendenti, sia internazionali che sudanesi, che operanosul territorio. Blocchi di voli, rifiuti o massicci ritardi nelle procedure per ottenerepermessi d’ingresso, norme arbitrarie per l’importazione e il trasporto dimateriali di soccorso hanno contribuito, negli anni, alla morte di centinaia dimigliaia di persone per fame e malattie.Secondo la legge umanitaria internazionale, le parti coinvolte in un conflittodevono permettere un rapido e libero accesso degli aiuti alla popolazione civile;attacchi a persone o infrastrutture, deliberati impedimenti per l’accesso a cibo emedicine, parallelamente ad offensive sistematiche contro i civili, costituisconouna grave violazione della legge umanitaria e sono perseguibili in quantocrimini contro l’umanità.Al momento attuale un milione e settecentomila persone risultano ancorasfollate all’interno dei confini del Darfur, derubati e cacciati dalle proprie case eminacciati di morte dalle milizie janjawid in caso avessero tentato di ritornare;Circa 280.000 persone sono invece rifugiate in Ciad; considerando anchecoloro che, sebbene non sfollati, si sono trovati totalmente privati di ogni tipo disostentamento a causa del collasso dell’economia rurale e dalle continueviolenze nel territorio, un totale di ben tre milioni e mezzo (più della metà dellapopolazione) si trova in condizioni di estremo bisogno di aiuti umanitaridall’inizio del 2006.Il periodo della semina tra il 2004 e il 2005 è stato completamentecompromesso e così è accaduto per il maggio 2006; solo una percentuale del4% è in grado, nel Darfur, di provvedere autonomamente al propriosostentamento; i gruppi nomadi hanno in molte aree distrutto deliberatamente iraccolti senza trovare nessuna opposizione da parte delle forze dell’ordine; dalcanto loro, i ribelli, come rappresaglia verso le tribù sospettate di collaborarecon l’esercito governativo e con le milizie janjawid, hanno bloccato le grandidirettrici di migrazione, impedendo gli spostamenti.Il lavoro delle organizzazioni e degli operatori umanitari si fa sempre piùdifficoltoso anche a causa della crescente insicurezza. Periodicamente, nelcorso delle trattative di pace sotto la condotta dell’Unione Africana iniziate adAbuja, in Nigeria, nel 2004 sia il governo che i ribelli hanno rotto le trattative contentativi di avanzare militarmente sul territorio; le forze armate governative e lemilizie janjawid hanno ripetutamente risposto agli attacchi dei gruppi ribelli conbombardamenti e rappresaglie sulla popolazione civile, gli scontri sonoprogressivamente aumentati e i convogli di soccorso sono divenuti regolarepreda e oggetto di saccheggi da parte delle fazioni armate. Nel gennaio 2006 lamancanza di sicurezza e provvedimenti presi dal governo locale hannofortemente limitato le operazioni di assistenza nella zona di Fashir, capitale delnord Darfur; un ulteriore peggioramento si è inoltre manifestato nel sud, dove,secondo dati delle Nazioni Unite, già meno di due terzi della popolazione afflittadalla guerra era raggiungibile dalle agenzie umanitarie10.Alcuni dei combattimenti più intensi si registrano tuttavia nell’area ovest delDarfur, dove la situazione si è deteriorata in maniera gravissima: il WFP (WorldFood Programme delle Nazioni Unite) è stato costretto a lanci aerei di aiuti,

10 United Nations Security Council, “Monthly Report of the Secretary-General on Darfur,”

October 14, 2005.

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peraltro inefficienti e insufficienti, nella regione di Jebel Marra, mentre all’iniziodel 2006 le Nazioni Unite hanno imposto la fase IV del livello di sicurezza inmolte zone a nord e a sud di Geneina, una restrizione molto vicina ad una quasitotale evacuazione11; perfino la Croce Rossa Internazionale (ICRC),un’organizzazione che negozia molto spesso con le parti in causa e che riescea giungere per la sua stessa natura in luoghi dove altre agenzie non possono,ha temporaneamente sospeso alcune delle sue attività nella stessa area nelfebbraio 2006, per mancanza di sufficienti garanzie di sicurezza per gliinterventi sul campo.L’OCHA ha riportato il precipitare degli interventi umanitari alla popolazione dell’ovest Darfur: dal 100% di accessibilità dell’aprile 2005 a meno del 50% alla finedell’anno; dal gennaio 2006 meno del 40% della popolazione veniva raggiuntada aiuti.In alcuni casi i profughi hanno rifiutato di accettare aiuti per timore di subireassalti dalle truppe filo-governative; la maggior parte dei profughi vive infatti inaccampamenti spontanei, non organizzati, alle porte dei centri più popolati o deivillaggi più grandi dove continuano ad essere vittime di incursioni violente,uccisioni sommarie e stupri.

La situazione femminile risulta particolarmente grave nei campi: le donne sonola maggioranza della popolazione adulta rifugiata e la violenza di genere èricorrente in un contesto di sistematiche violazioni dei diritti umani: in molti casile violenze sessuali avvengono in pubblico, in presenza dei familiari o deimembri delle comunità, allo scopo di umiliare non solo la donna come individuoma l’intero corpo sociale cui essa appartiene.La paura dell’ostracismo familiare e sociale induce molte donne a non parlaredelle violenze subite anche in casi in cui siano presenti organizzazioni cheprestano soccorso o denunciano la situazione alla comunità internazionale.Molte delle donne e degli uomini intervistati da Amnesty International inrapporto sulla violenza di genere in Sudan12 hanno affermato che le vittime distupri spesso non osano tornare e ciò spiega il motivo per cui tante di lorohanno poi cercato accoglienza presso campi profughi lontani dalla propriacomunità di origine.Donne incinte non vengono per questo risparmiate dagli attacchi essendospesso vittime proprio a causa del loro stato. Sono numerosi anche i casi dirapimento e di riduzione in schiavitù: durante gli assalti ai villaggi o ai campiprofughi molte ragazze vengono catturate e costrette a seguire le truppe,frequentemente torturate per impedirne la fuga.L’estrema vulnerabilità delle donne è dovuta anche al loro ruolo di principalicustodi della famiglia e dei figli; impossibilitate ad abbandonare i villaggi o adallontanarsi dai luoghi bersagli degli scontri armati, sono maggiormente espostealle violenze sommarie dei guerriglieri.L’eventuale gravidanza derivante da una violenza sessuale espone le donne adulteriori discriminazioni: oltre al trauma della violenza si aggiungono le difficoltà 11 United Nations Joint Logistics Center, “Bulletin 72-January 2006”.

http://www.unjlc.org/14717/18256/bulletin72.12 Amnesty International, “ Darfur: Rape as a weapon of war: sexual violence and its

consequences”, 2005.

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derivanti dall’essere incinte di un bambino frutto di una “vergogna”, odall’essere “colpevoli” di portare in grembo il “figlio del nemico”; la conseguenzapiù frequente è quella del ripudio da parte del marito per le donne sposate odell’abbandono del neonato e di un futuro di emarginazione per le ragazzeormai segnate dallo stigma collettivo e quindi incapaci di provvedere alsostentamento proprio e del figlio in una società dove è l’apporto economico ela “protezione” dell’uomo ad essere considerata fondamentale per la famiglia.

Nell’ovest del Sudan le mutilazioni genitali femminili sono largamente praticate:la maggioranza delle donne è circoncisa o infibulata. Una condizione che incideulteriormente sul rischio di riportare, a seguito delle violenze, gravi ferite einfezioni e sull’aumento delle probabilità di contrarre il virus HIV/AIDS. Leconseguenze della pressoché totale mancanza di supporto medico per levittime di stupro sono, come è facile intuire, disastrose.

La situazione femminile riflette oltretutto quella dei minori; i bambini sonogeneralmente affidati alle cure esclusive delle madri e le violenze sui minoriaccrescono il trauma delle donne che si trovano a dover proteggere e curare ifigli in solitudine totale.Secondo stime dell’UNICEF nel sud del paese la mortalità infantile sotto icinque anni si attesta attorno al 150 per mille, mentre l’indice di bambini chesoffrono di grave malnutrizione è approssimativamente del 21%.

Si stima inoltre che almeno 17.000 minori siano stati arruolati come soldati dallefazioni in lotta per azioni di guerriglia o per ripulire i campi minati; Questibambini soldato vengono spesso rapiti dalle milizie avversarie o cadono vittimedi abusi sessuali.

3.2NIGERIA

3.2.1 Introduzione

Analizzare la realtà nigeriana presuppone la presa di coscienza di ununiverso politico e culturale estremamente variegato che sfugge alle regole conle quali, frequentemente, si osserva un teatro di guerra. Per avere una vagaidea di tale complessità è sufficiente pensare che la popolazione di questostato, costituita da 130 milioni di persone, si suddivide in almeno 250 etnie

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molte delle quali, prima della colonizzazione inglese, non intrattenevano tra loroalcuna relazione. Tale coesistenza non è mai divenuta una coesistenzapacifica, né con il conseguimento dell’indipendenza dall’egemonia britannica,né con la caduta del regime militare nel 199913.

Nonostante l’avviarsi del processo di democratizzazione, la Nigeria è tutt’oraun paese estremamente fragile, nel quale le pesanti eredità dell’epoca colonialefanno da sfondo ad esperimenti istituzionali, interessi internazionali e tensionietnico-religiose.

Questo stato è ancora oggi lo scenario di almeno tre conflitti.Ognuno dei quali segue la sua storia con le sue dinamiche.Ognuno dei quali si nutre degli altri, li richiama, li amplifica e li risveglia.

3.2.2 IL CONFLITTO

3.2.2.1 Indigeneity e conflitto etnico

È facile quanto limitativo guardare ai conflitti africani ricorrendo allacategoria etnica come chiave di lettura. Parlare di guerre fratricide ha infatti ungrosso limite. Questa categoria analitica tende ad esaurirsi: essa si basta e sigiustifica come un dogma, un dato di fatto nei confronti del quale non èpossibile né intervenire né sentirsi responsabili. Ma, da qualunque prospettivasi voglia vedere, in Nigeria esiste una questione etnica ed identitaria intorno allaquale ruotano le relazioni tra i gruppi nazionali. Ed è la frammentazionescaturita dalla percezione di questa dimensione sociale una delle minacce piùevidenti alla pace e al rispetto dei diritti umani in questo stato.

Ovviamente, come ogni conflitto – svincolato dalle etichette dell’occorrenza -, la tensione che si registra tra i gruppi etnici nigeriani nasconde qualcos’altro.

13 A seguito della morte di Abacham l’8 giugno 1998, il generale Abubakar si impegnò a realizzare latransizione verso un regime democratico. L’ombra della dittatura militare fu definitivamente cancellatadalle elezioni locali che si tennero l’8 febbraio dell’anno successivo.

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Qualcosa che, in realtà, non è molto diverso dalle tante guerre del continente:la povertà. Come ha messo in luce il segretario generale del SegretariatoCattolico della Nigeria, George Ehusani, “in Nigeria, la povertà ha assunto ilcarattere morale della guerra, e questo è quello che si vede riflesso nellaviolenza etnica in questo paese” [Human Rights Watch 1006, 2].

I cittadini sono riconosciuti “uguali” solo formalmente. Sostanzialmente, essiappartengono a due macro-insiemi separati da una linea di demarcazionenetta, che non permette intersezioni. A seconda del gruppo etnico al qualeappartiene, un individuo si vede attribuito lo status di indigeno o non indigeno. Èuna condizione definita fin dalla nascita, è immutabile e da essa scaturisconomeccanicamente le prospettive di vita futura di ogni nigeriano.

Furono i coloni inglesi a formalizzare la distinzione tra indigeni e nonindigeni ma questa operazione non fu percepita dalla società locale comeun’imposizione o un artificio. Di fatto, essa aveva esplicitato una separazionegià ampiamente diffusa nelle comunità della regione. Il concetto di “indigeneity”era uno modo attraverso il quale tutelare l’identità dei gruppi, visto che laforzata coesistenza di 250 aggregazioni portava con sé la minaccia delladistruzione, della cancellazione o dell’alterazione della cultura di cui ogni etniaera garante.

Nel corso dei decenni la distinzione tra indigeni e non indigeni si è peròcaricata di significati che hanno contribuito a creare un assetto sociale cheancora oggi limita i diritti e le possibilità di accesso alle risorse di molti cittadini.

Most concretely, many Nigerian communities use the distinctionbetween indigenes and non-indigenes as a way of demarcating theboundaries between people who are eligible to hold chieftaincy titlesin a particular place, and participate in traditional institutions ofgovernance more generally, and those who are not. Indigeneity alsoserves as a way for communities to keep land within the hands oftheir own group—a goal that is controversial but important to manyNigerians whose ethnic identity is tied to a small geographic area[Human Rights Watch 2006, 10].

In questo clima è stato facile per i leader dei diversi gruppi farcire dipropaganda i propri discorsi che, supportati da vecchi miti ed atavichetradizioni, sono divenuti messaggi inneggianti il rifiuto – o il mantenimento –dello status quo. Attraverso la “riscoperta” delle origini dell’etnia, delladiscendenza da un luogo e della presenza degli antenati in una regione, si èdiffuso nelle comunità un sentimento di odio verso i “nuovi oppressori”, colpevolidi essersi appropriati di privilegi illegittimi.

D’altra parte, questi stessi miti – contestualizzati nella storia e nella culturadell’etnia “dominante” – sono stati utilizzati per giustificare il mantenimento e ilconsolidamento del potere da parte dei cittadini indigeni.

L’acquisizione di una sicurezza economica, seppur limitata, che vienericonosciuta ai nativi e praticamente preclusa agli altri, è uno dei principali fattoridai quali scaturiscono le lotte interetniche della Nigeria. Negli ultimi anni esse sisono fatte più frequenti e violente, sia per le scelte politiche adottate dai governifederali (che hanno privilegiato la dimensione locale a quella nazionale), sia perla crescente povertà che affligge il paese.

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Strumentalizzata da leader e politici, la divisione tra i popoli assumecaratteristiche specifiche a seconda delle aree geografiche verso le quali vienedirottata l’attenzione. La questione etnica si declina in espressioni diintolleranza che possono risolversi nei conflitti tra nomadi e stanziali(particolarmente forti nel Nord del paese), nei conflitti religiosi tra musulmani ecristiani, nelle tensioni interetniche nella regione del Delta del Niger.

3.2.2.2 Il conflitto religioso tra musulmani e cristiani: Plateau State

Stretta tra gli stati settentrionali musulmani e quelli cattolici dell’Africacentrale, la Nigeria porta con sé la difficile coesistenza dei due principali gruppireligiosi del continente. Sebbene essi siano suddivisi in modo abbastanza nettonelle aree geografiche settentrionali e meridionali, è nei centri urbani che essi siincontrano e coesistono. E sono i centri urbani che racchiudono nel loromicrocosmo storie di vita e di disperazione che rendono difficile la tolleranzadell’altro. È dall’intreccio forzato di diverse culture che nascono motivi di scontroche, fomentati da stereotipi e pregiudizi, possono trasformarsi in conflitti capacidi infiammare intere regioni.

Di questa tendenza è divenuto protagonista il Plateau State. Questa regioneè stata lo scenario principale nel quale hanno preso piede scontri sanguinosiche hanno seguito l’iter della ritorsione e della vendetta. Secondo l’analisicondotta da Human Rights Watch [2005], tra il 2001 e la prima metà del 2004,le vittime delle violenze interetniche e interreligiose registrate in quest’area sonostimabili tra le 2000 e le 3000 persone.

Plateau State rappresenta una delle aree più instabili di tutta la Nigeria, unaregione dove la coesistenza di gruppi indigeni con gruppi allogeni èquotidianamente messa a rischio dalla perpetua lotta per l’acquisizione diprivilegi terrieri, politici ed economici.

Nel corso del tempo la contrapposizione tra le due comunità ha iniziato adassumere una connotazione religiosa. Questa sovrapposizione ha generatoun’escalation di violenza che è esplosa nel settembre del 2001 quando, in soli 6giorni, furono uccise più di 1.000 persone nella capitale Jos14.

Negli anni seguenti il conflitto ha definitivamente fuso la componente etnicacon quella religiosa. Dalla capitale si è mosso verso le zone circostanti ed haassunto caratteristiche diverse, sebbene i protagonisti siano rimasti gli stessi. Diquesta guerra sono protagonisti assoluti i signori “nessuno”. Sono “nessuno” gliuomini, le donne o i bambini riversi a terra, uccisi per una colpa che è unaconfessione religiosa diversa da quella dei loro carnefici. Sono tutt’oggi“nessuno” gli artefici dei massacri perché, sebbene i gruppi etnici e religiosisiano facilmente individuabili, in questi anni non è stato possibile indicare conprecisione i nomi di coloro che hanno inneggiato o compiuto gli atti di violenzache hanno avuto luogo in questo stato.

L’incapacità di individuare i colpevoli ha permesso ad entrambe le comunitàdi continuare a riconoscersi come vittime, attribuendo ai nemici il ruolo dicarnefici. L’annullamento delle responsabilità oggettive della propria comunitànon ha solo delle implicazioni giuridiche. Questo meccanismo di difesapsicosociale genera delle conseguenze ben più problematiche perchè 14 Si ritiene che tutti gli episodi di violenza che hanno avuto luogo in Plateau State successivamente sianoriconducibili, in un modo o nell’altro, agli scontri di quel settembre.

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determina una polarizzazione dove la percezione del nemico è difficilmentemodificabile nel breve periodo. E queste conseguenze sono ancora più evidentise non vengono intraprese delle azioni politiche volte a risanare la frattura. Se iconflitti interreligiosi non sono che una delle più truci ed evidenti manifestazionidella limitata disponibilità delle risorse che garantiscono una minima sicurezzaper la vita di molti nigeriani, allora è chiaro che la tutela di un sistema cheprivilegia alcune etnie rispetto ad altre non possa che portare con sé laframmentazione di una società già difficilmente aggregabile. Non è, perciò, solonella gestione diretta delle azioni di ripristino della sicurezza e della legalità chevanno rintracciate le responsabilità del governo federale e nazionale ma anchenelle politiche di medio e lungo periodo che, sino a questo momento, nonhanno saputo avviare un processo di pacificazione tra i diversi gruppi etnicidella Nigeria.

Nel 2004, i combattimenti più sanguinosi hanno avuto luogo a Yelwa (trafebbraio e marzo), nel Plateau State, e si sono protratti nel Nord (Kano State)fino alla metà di marzo.

Sono stati scontri che le forze governative non hanno saputo arginare – aYelwa sono state uccise più di 700 persone prima che la polizia intervenisse; aKano si sono registrate più di 200 vittime prima che le rivolte fossero sedate –ma che, piuttosto, hanno contribuito, in modo più o meno diretto, ad alimentare.L’epilogo di quella ondata di violenza è stato raggiunto a maggio quando, suglialtopiani di Plateau, le milizie cristiane Tarok sono state artefici del massacro dicentinaia di Fulani, un popolo nomade di origine islamica, protagonistadell’eterno scontro tra nomadi e stanziali.

Alla relativa calma dei mesi successivi ha fatto seguito una nuova ondata diviolenza che, nei primi mesi del 2006, ha nuovamente visto contrapporsimusulmani e cristiani15. Sebbene gli ultimi scontri non siano stati caratterizzatidall’efferatezza dei precedenti, essi testimoniano che la questione religiosa,unita a quella etnica, è ancora uno dei nodi insoluti della società nigeriana.

3.2.2.3 Il Delta del Niger

I recenti fatti di cronaca hanno restituito visibilità alla regione più ricca,sfruttata e instabile di tutta la Nigeria.

Il Delta del Niger delinea un’area geografica in cui sono presenti numerosigiacimenti petroliferi che hanno indotto le multinazionali del settore a creareimpianti per l’estrazione e la lavorazione del greggio16. Dei proventi ricavatidalla vendita del combustibile solo una minima parte viene acquisita dallecomunità locali le quali, da più di un decennio, lottano sia per la salvaguardiadell’ambiente - drammaticamente danneggiato dalle attività estrattive - sia perun’equa ripartizione delle risorse17.

15 Gli scontri sono nati a seguito delle manifestazioni di protesta contro la pubblicazione delle vignetteraffiguranti il profeta Maometto. Nella settimana in cui le ostilità sono state più volente (18-24 febbraio) si èstimata la morte di almeno 85 persone.16 In questa regione sono attive Shell, Chevron, Agip, Exxon Mobil, Total e Cnooc.17 “[…] tra le mangrovie, le palme e i giganteschi alberi di iroko, ci sono gli impianti petroliferi e gli oleodottiche dal 1958, anno della scoperta dei giacimenti, hanno estratto nella zona novecento milioni di barili digreggio. […] La Nigeria, da sola, è responsabile del 28 per cento del totale di gas bruciato in torcia nelmondo, equivalente a 259mila barili di greggio al giorno” [Wiwa 2006: trad. it. 2006, 37].

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Le tensioni della metà degli anni ’90 non hanno alterato in alcun modo irapporti di forza nel Delta del Niger. Certo, hanno contribuito a sensibilizzarel’opinione pubblica locale ed internazionale ma, di fatto, non sono riuscite agenerare un cambiamento significativo per le condizioni di vita delle comunitàautoctone. La mancata soluzione delle questioni che esse avevano sollevato hainvece riavviato l’attività di gruppi armati che combattono in nome degli interessidelle minoranze locali. All’NDPFV (Niger Delta People’s Volunteer Force), cheresta il principale fautore delle azioni di guerriglia per la tutela dei diritti delleetnie dell’area, si sono affiancate due nuove formazioni: il MEND (Movement forthe Emancipation of Niger Delta) e la Martyrs Brigade.

Il conflitto nell’area del delta del Niger sta assumendo aspetti sempre piùcomplessi e problematici. Sebbene gli attacchi di cui si ha notizia sianoprincipalmente rivolti contro le compagnie petrolifere straniere, esiste tutta unaserie di intrecci dai risvolti destinati ad ancorarsi drammaticamente alle relazionitra le diverse componenti della società nigeriana.

Di questa crisi è ancora una volta corresponsabile il governo centrale,dimostratosi incapace di essere garante dei diritti delle minoranza locali e digestire in modo efficiente i benefici economici che le risorse petroliferedovrebbero assicurare.

La cattiva gestione degli introiti provenienti dall’attività estrattiva ha creatoun’inusuale compattezza tra gruppi etnici e religiosi diversi. Una compattezzatanto inusuale quanto labile, ed impensabile nel lungo periodo, il cui collante èl’antagonismo verso la presenza dei colossi stranieri e l’operato del presidentenigeriano Olusegun Obasaanjio18. È lui – ed un possibile rinnovo del suomandato – ad essere al centro di una polemica sostenuta sia dalle comunità delDelta, sia da quelle del Nord del paese, che si ritengono escluse nellaripartizione delle ricchezze nazionali.

Le azioni intraprese da Obasaanjio per mettere a margine l’opposizionesono la cartina tornasole di iniziative politiche miopi, incapaci di risolvere iproblemi della Nigeria attraverso un dialogo tra le sue comunità. Nel 2005,l’arresto di Mujahideen Dokubu Asari - capo carismatico dell’NDPFV, accusatodi tradimento e assembramento illegale - e quello di Diepreye Alamieyeseigha -ex governatore dello Stato del Bayelsa, una delle regioni dell’area del Delta,accusato di cospirazione dell’etnia Ijaw (etnia alla quale è collegato il MEND) -hanno tagliato fuori dall’arena politica, privandole dei loro leader, le comunitàlocali. Non riconoscendosi nei poteri centrali, i membri di tali comunità hannoguardato con sempre maggiore simpatia ed ammirazione ai miliziani ribelli che,anche a causa dell’estrema povertà dei popoli dell’area, diventano portatori diuna promessa di riscatto e di sicurezza economica.

La trasversalità del conflitto – che smuove gli interessi delle etnie locali e diquelle nazionali, del governo centrale e di quelli federali, delle multinazionali,dei miliziani e dei delinquenti comuni – ha creato nel Delta del Niger unasituazione particolarmente complessa. Da un lato, la presenza di così tantisoggetti rende difficoltosa la scelta di un interlocutore autorevole che siariconosciuto come tale sia dalla controparte sia dai gruppi – eterogenei – di cuisi fa portavoce. Dall’altro, essa genera iniziative o misure di intervento tutt’altroche sinergiche ma, spesso, dicotomiche ed inutili.

18 Secondo gli analisti, una sua eventuale rielezione potrebbe generare nel paese un’assoluta situazionedi caos e riproporrebbe la minaccia di una nuova guerra civile.

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La manifestazione dell’eterogeneità degli approcci e delle visioni èfacilmente riscontrabile nelle diverse azioni intraprese dalle comunità locali. Alledimostrazioni pacifiche, si sono affiancati attacchi diretti agli impianti petroliferi,rapimenti di dipendenti e minacce per la sicurezza delle loro famiglie. Ma laserie di iniziative attuate dai ribelli a partire dal gennaio del 2006 ha lasciatoirrisolta la questione dell’accesso alle risorse. Il principale effetto di tali episodi èstato piuttosto il consolidamento della presenza delle forze di polizia e delletruppe militari nell’area del Delta che, alla fine del mese di febbraio, si sono reseprotagoniste di un massacro costato la vita ad almeno 30 civili.

3.2.3. LO STATO DEI DIRITTI

Insieme al Sudafrica, alla Nigeria viene internazionalmente attribuito il ruolodi potenza continentale africana. Con la caduta del regime militare nel 1999, sisono aperte anche per questo stato le porte per il processo didemocratizzazione che, sino ad oggi, ha incontrato – e continua ad incontrare –numerose difficoltà. La proposta di una modifica costituzionale che avrebbelegittimato il terzo mandato del presidente Obasaanjio (iniziativa respinta dalSenato il 16 maggio 2006) è la dimostrazione dei limiti dell’attuale governo difar propri i principi fondanti il concetto di democrazia, come quellodell’alternanza. Ma ciò che limita il conseguimento di un vero assettodemocratico è legato alla permanenza di gravi violazioni dei diritti umani su tuttoil territorio. Come testimoniano i rapporti dell’Ecosoc [2006], di Human RightsWatch [2006] e di Amnesty International [2005], le questioni più drammatiche,emerse dalla sistematicità con cui si compiono tali abusi, restano tutt’orairrisolte.

La lotta alla corruzione, divenuta la bandiera del governo di Obasaanjio,sebbene abbia avviato un insieme di iniziative politiche volte a limitarel’incidenza di questa consuetudine, non ha ancora raggiunto risultati concretinel migliorare le condizioni di vita della popolazione. Così, mentre la corruzioneresta un elemento che genera una diretta violazione dei diritti sociali edeconomici - creando un ulteriore elemento di tensione nei rapporti interetnici -,più del 60% dei nigeriani continua a vivere sotto la soglia di povertà19.

3.2.3.1 Le violenze tra le comunità

Alla mancata incidenza delle politiche economiche e finanziarie, si aggiungel’assoluta incapacità da parte della classe dirigente di mettere fine – o quantomeno tentare di mettere fine – alle violenze che caratterizzano i rapporti tra igruppi etnici e i gruppi religiosi presenti nel territorio. Sebbene sia impossibilepensare ad una pacificazione sociale realizzabile nel tempo di una legislatura, ècomunque vero che sembra difficile avviarsi verso un qualunque obiettivo dilungo periodo se, sia i governi federali che quello centrale, si dimostranoincapaci di prevenire gli scontri e di arginare le mistificazioni politiche, dirispondere adeguatamente alle manifestazioni di violenza, di individuare epunire i responsabili dei crimini più efferati.

19 Percentuale stimata relativa al 2000 [Fonte: CIA, The World Factbook].

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3.2.3.2 Abusi delle forze armate

L’implicazione degli uomini delle forze armate in episodi di grave violazionedei diritti umani genera ulteriore malcontento e nuove tensioni delle comunitàlocali nei confronti dei rappresentati del potere politico e governativo20.

Come testimonia il rapporto di Human Rights Watch, anche nel 2005,“torture, trattamenti degradanti, uccisioni extra giudiziarie, arresti e detenzioniarbitrai e estorsioni ad opera della polizia, spesso compiuti da o con laconoscenza dei superiori, sono una routine diffusa su larga scala” [HumanRights Watch 2006, 86].

Inoltre, l’impunità riservata ai colpevoli – siano essi civili che agenti di polizia– rischia di legittimare il ricorso all’uso della forza e alle violazioni dei dirittiumani. I procedimenti che dovrebbero essere stati avviati per punire gli agenticoinvolti nelle stragi di Odi, nel Bayelsa State del 1999, e nello Stato del Benuenel 2001, sono in un’assoluta fase di stallo, così come la maggior parte deiprocedimenti che, anche se legati a fatti meno eclatanti, dovrebbero portare albanco degli imputati individui che ricorrono sistematicamente a torture,trattamenti degradanti e stupri durante interrogatori o detenzioni.

3.2.3.3 Le donne

Non è solo nelle carceri che le donne sono oggetto di violenza. Comeavviene in ogni parte del mondo, è tra le mura di casa che si consumano lamaggior parte di questi abusi. E, come avviene nella maggior parte del mondo,di queste violenze si ha una conoscenza limitata. Per la stigmatizzazioneriservata alle donne che ne sono vittime, per la mancanza di un adeguatosupporto legale, per l’esistenza di un sistema legislativo fortementediscriminatorio (le pene previste per una fattispecie criminosa sono diverse sechi le ha subite è un uomo o una donna). E l’introduzione della Sharia in 12delle 36 regioni nigeriane non ha fatto che marginalizzare ulteriormente ladonna limitandone i diritti21.

Oltre alle violenze in famiglia e agli abusi sessuali, i report sulla condizionedelle donne in Nigeria documentano la permanenza delle pratiche connessealle mutilazioni genitali e ai matrimoni forzati.

3.2.3.4 I bambini

20 Per un’analisi dettagliata degli abusi delle forze armate si veda Human Rights Watch [2005].21 Introdotta nel 2001, l’applicazione della legge islamica ha manifestato un approccio discriminatorioparticolarmente evidente nei casi di adulterio dove, il sesso degli accusati, determina sentenze nettamentesproporzionate.

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L’assoluta povertà nella quale vive la maggior parte della popolazione èl’eredità che, sin dalla nascita, sembra abbracciare ogni bambino.

La Nigeria è uno dei paesi con il più elevato tasso di mortalità infantile. Nelsolo 2004, l’Unicef [2006] stima che siano stati 1.049.000 i bambini morti primadi aver compiuto il quinto anno di età.

Anche nella crudezza dei dati e dei numeri, diventa inimmaginabile riuscire apensare al futuro di un bambino nato in questo stato. La diffusione dellemalattie, la mancanza di igiene e quella di un adeguato sistema sanitariorendono difficile il superamento dei primi anni di età.

La povertà fa tutto il resto.È ovviamente questo il motore primario che fomenta il traffico di piccoli

schiavi. La Naptip (Agenzia Nazionale per il Divieto del Traffico di EsseriUmani) ha denunciato l’esistenza di 15 milioni di minori costretti a lavorare e,spesso, tenuti in condizioni di schiavitù. Si tratta di figli “venduti” dalle propriefamiglie per saldare un debito o, più semplicemente, “venduti” con l’illusione distrapparli all’assoluta mancanza di prospettive.

Di queste condizioni di vita sono vittime anche i 6.000 minori rinchiusi nellecarceri o nei centri di detenzione minorile. Si tratta di bambini senza volto,abbandonati dalle proprie famiglie per volontà o per impossibilità, incapaci difornire loro un’adeguata assistenza legale.

Il 70% dei detenuti viene condannato per piccoli furti, per vagabondaggio oper aver chiesto elemosine. Le sentenze, spesso da Tribunali Ordinari e nonminorili, che prevedono pene particolarmente severe, strappano per anni ibambini dalle loro famiglie. Queste condizioni, unite al rifiuto sociale, finisconoper rendere impossibile il reintegro di questi minori nella loro comunità una voltascontata la condanna.

3.2.3.5 La libertà di espressione e la società civile

La limitazione della libertà di espressione è una delle violazioni dei dirittiumani più diffusa e radicata in Nigeria. Essendo meno eclatante di altri abusi,essa finisce per restare al lato dei dibattiti della società civile, sia nazionale cheinternazionale.

La violazione di questo ed altri diritti civili non è che uno degli aspetticonseguenti al mancato radicamento di una cultura democratica nell’attualegoverno. Sono infatti i giornalisti critici nei confronti della classe dirigentenigeriana e i più attivi membri della società civile22 a subire vessazioniattraverso arresti, interrogatori e intimidazioni.

3.3COSTA D’AVORIO

3.3.1Introduzione

22 Nel 2005 ci sono stati numerosi arresti sia tra gli attivisti dell’area del Delta del Niger sia tra i membri delMASSOB, un gruppo per l’autodeterminazione del popolo Igbo.

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Dopo la caduta di Bédié, il colpo di stato di Gueï e le elezioni presidenzialiche avevano sancito il trionfo di Gbagbo, l’Autre Afrique scriveva: “La storia diquesti uomini coincide con il dramma ivoriano. In appena due anni questi politicisono riusciti a distruggere le fondamenta dello Stato edificato con cura e rigoreda Félix Houphouët-Boigny. La Costa d’Avorio era per vocazione il paesecapace di trainare l’Africa occidentale verso l’alto. Oggi deve preoccuparsi dellasua sopravvivenza politica ed economica. Le ambizioni personali hanno avutoragione degli ideali” [Autre Afrique 2001; trad. it. 2001, 55].

Era il 2001. Era prima dell’alleanza tra i partiti di Ouattara e Gbagboattraverso la quale fu avviato un processo di democratizzazione e furonorinnovati impegni per la ricostruzione del paese, la pacificazione e la ripresaeconomica. Era prima della cancellazione del debito decisa dalla UE e dal Clubdi Parigi.

Ma le promesse del frattempo sono state spazzate via con la ripresa di unanuova guerra civile che ha riportato la Costa d’Avorio alla stessa instabilitàpolitica ed economica profetizzata dall’Autre Afrique.

Quello che resta è qualche frattura in più, molte lacerazioni, una serratamilitarizzazione e l’allestimento di uno scenario nel quale, per la prima volta inquattro anni, sembra esservi una ripresa del processo di pace avviato a Pretorianel marzo del 2005 [International Crisis Group 2006].

3.3.2 IL CONFLITTO

3.3.2.1 Nord vs. Sud

Una buona parte del tutto ha avuto inizio con la morte di Félix Houphouët-Boigny. Il governo, di cui aveva preso le redini dalla fine dell’era coloniale,aveva fatto della Costa d’Avorio uno degli stati “eccezione” dell’Africa. Leriforme e le iniziative politiche adottate avevano permesso agli ivoriani di potersperare in qualcosa di diverso dagli omogenei trend con i quali si parlava dellealtre nazioni del continente.

Sono bastati pochi anni per bloccare questa tendenza. Anni nei quali si sonosusseguiti i poteri di tre presidenti che hanno annientato il progetto di uno stato,

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lasciando posto ad una spaccatura nella quale il paese sembra essersicongelato.

Dopo il colpo di stato pianificato dalle forze militari sotto la guida di Gueï, lastoria della Costa d’Avorio ha subito una nuova e brusca inversione di marcianel settembre 2002. Le elezioni presidenziali dell’anno precedente avevanoportato al potere Gbagbo e, con lui, le promesse per un ritorno alla stabilità.Qualche mese dopo, invece, il paese si è trovato stretto in una guerra civile cheha generato migliaia di vittime e ancor più profughi e rifugiati.

Il 19 settembre del 2002 i ribelli dell’MPCI diedero vita ad un attacco che sidispiegò simultaneamente a Abidjaw, Bouake e Korhogo. Le milizie, costituiteprincipalmente da “Dioula” e Malinké (un’etnia del Nord), si proponevano dirovesciare il governo del presidente Gbagbo – ritenuto illegittimo – e bloccare lariforma dell’esercito che aveva avviato. In questa occasione, e in molte dellesuccessive, l’MPCI aveva trovato il supporto delle popolazioni del Nord – chenutrivano un sentimento di malcontento nato dalla convinzione di non essereadeguatamente rappresentate e tutelate dallo stato centrale - e dei gruppicostituiti con le pressioni di combattenti liberiani e sierraleonesi. L’MJP,l’MPIGO e lo stesso MPCI strinsero un’alleanza che, ancora oggi, li vede unitisotto il nome di Force Nouvelles (FN).

Il mancato colpo di stato provocò una durissima reazione da parte delpresidente Gbagbo e dei suoi uomini. In pochi giorni venne definito un piano diintervento a Abidjan per sequestrare le armi ed arrestare i ribelli. Ed in pochigiorni, a causa di operazioni nelle quali furono distrutte e bruciate centinaia diabitazioni, rimasero senza casa 18.000 ivoriani.

Oltre alle vittime, ai dispersi, alle violenze e agli abusi, quello che la guerracivile – conclusasi ufficialmente nel gennaio del 2003 – ha lasciato è stato unpaese letteralmente diviso. Il Nord nelle mani dei ribelli, il Sud nelle mani diGbagbo, del suo esercito e delle sue milizie. E questo resta, insieme allacrescente militarizzazione dello Stato, l’aspetto più drammatico della realtàpolitica e sociale della Costa d’Avorio.

L’accordo di Marcoussis, sottoscritto da entrambe le parti nel gennaio del2003, prevedeva la formazione di un governo di riconciliazione nazionale cheavrebbe dovuto occuparsi delle questioni che, secondo gli esperti, erano allabase dello scoppio della guerra civile: la definizione dell’identità nazionale, lasoluzione della questione terriera e la determinazione dei parametri perl’eleggibilità dei cittadini.

Grazie all’intervento di intermediari internazionali quali l’Onu, l’UnioneAfricana e l’Ecowas (Economic Community of West African States), i propositidi Linas-Marcoussis furono ribaditi nel luglio del 2004 durante l’incontro diAccra, in Ghana. La necessità di un monitoraggio esterno per valutare il rispettodel trattato di pace aveva indotto il Consiglio di Sicurezza a dare il via libera allatrasformazione del MINUCI23 in una forza di peace-keeping composta sia dacaschi blu che da militari dell’esercito francese. Ma la presenza di questamissione non si dimostrò sufficiente a garantire il proseguimento del processodi riconciliazione.

Dopo diciotto mesi di cessate il fuoco, l’esercito ivoriano organizzò le suetruppe per eseguire una serie di bombardamenti nelle regioni del Nord. Lo 23 Con la risoluzione 1528 del 2004, si sostituì il MINUCI con la missione di peacekeeping conosciutacome UNOCI.

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stallo, seguito alla firma degli accordi di Linas-Marcoussis, si trasformò in unanuova ondata di violenza, nella quale furono coinvolti anche gli uomini dellamissione UNOCI. L’uccisione di nove militari scatenò la reazione delle truppe diParigi, che distrussero l’esercito ivoriano e uccisero un numero imprecisato dicivili in una delle tante manifestazioni antifrancesi.

Questa nuova esplosione di tensione non vide contrapporsi solo l’esercitoivoriano e le truppe internazionali. Piuttosto, essa riportò al punto di partenza letrattative tra i ribelli e lo stato centrale e, con esse, le aspettative di tutto ilpaese. Fu solo nell’aprile del 2005, grazie all’azione di mediazione delpresidente sudafricano Mbeki, che le due parti concordarono il cessate il fuocoe le elezioni presidenziali entro l’anno24. Gli accordi di Pretoria si sonotrasformati, ben presto, in un strumento di rivendicazione anziché dipacificazione. Accuse reciproche si sono susseguite per un anno e, per unanno, ogni nuova tensione sembrava minacciare i labili equilibri ivoriani.

La proposta dell'Onu di sciogliere il Parlamento, avanzata agennaio 2006, ha scatenato tre giorni di violenze in tutta la zonameridionale del paese orchestrata dai sostenitori del Fpi (FrontPopulaire Ivorien), il partito del presidente Gbagbo, che avrebbe cosìperso la propria maggioranza. Le basi dell'Onuci sono state presed'assalto dai manifestanti, e gli scontri con i caschi blu hanno portatoalla morte di almeno 4 persone. Dopo tre giorni di alta tensione, lasituazione si è normalizzata, ma nel Paese al momento regna unacalma solo apparente [Peacereporter 2006].

Quasi un anno è stato necessario prima che i ribelli dichiarassero l’iniziodelle azioni di disarmo. Questa operazione, insieme all’attribuzione dellanazionalità ai cittadini ivoriani, è uno dei passi necessari per creare lecondizioni in cui potrà avviarsi un processo di pace che vede nelle elezioni delprossimo ottobre una tappa fondamentale.

E quello che, in tutti questi anni, non è riuscita a raggiungere la diplomaziasembra sia stato in grado di conseguirlo lo sport. In vista dell’esordio dellanazionale ai prossimi mondiali di calcio, è stata siglata quella che è già statadefinita come la “Pax calcistica” [Ansaldo 2006]. Con la tregua concordata dalpresidente Gbagbo e dai leder delle FN il 30 maggio, e con la nomina del capodei ribelli, Guillaume Soro, alla guida del ministero della Ricostruzione, si sonoposte nuove basi per il conseguimento di una pacificazione interna. Unapacificazione ancora lontana e per niente scontata ma che, per la prima voltadallo scoppio della guerra civile, è capace di presentarsi come una concretasperanza per il nuovo futuro della Costa d’Avorio.

3.3.2.2 L’EREDITÀ DELLA GUERRA CIVILE

Con lo scoppio della guerra civile ivoriana, gli analisti, come spesso accade,cercarono di individuare i parallelismi che accomunavano le nuove ostilità aquelle che avevano precedentemente infiammato l’Africa. Le motivazioni e lelogiche strettamente connesse alla gestione delle risorse naturali

24 A causa dell’instabilità interna, le elezioni presidenziali sono poi state posticipate all’ottobre del 2006.

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assomigliavano a quelle che avevano animato il conflitto liberiano; lapropaganda e la diffusione dell’intolleranza etnica a quelle che precedettero ilconflitto rwandese. Ma queste ipotesi, nel corso degli anni, non hanno trovatoriscontro negli sviluppi bellici in Costa d’Avorio, che hanno altre seguito altrestrade e, in queste strade, si sono presto arenati.

Sebbene la strategia delle similitudini permetta di comprendere rapidamentele problematiche e, quindi, una loro eventuale soluzione, essa limitanotevolmente la presa di coscienza delle peculiarità che ogni guerra porta consé. Per questo motivo è indispensabile individuare le parti che il conflitto inCosta d’Avorio chiama in causa, nelle similitudini e nella unicità, nelleconnessioni con altre guerre civili e nelle esclusive relazioni delineate dallecomunità.

3.3.2.3 La questione identitaria

La crisi ivoriana – che continua a prendere respiro in modo discontinuo macostante – ha fatto emergere una serie di questioni che, fino a qualche anno fa,sarebbero state inimmaginabili. Oggi la Costa d’Avorio è, come è stato detto, unpaese diviso in due. Non si tratta di un eufemismo ma di un’impressione netta,restituita dalla visione di una qualunque mappa del paese nella quale figurino leposizioni occupate dall’esercito ivoriano, dagli uomini delle FN, dalle forzearmate francesi e dai caschi blu. Sono queste ultime che, dislocandosi in unazona cuscinetto che attraversa orizzontalmente tutto il paese, delineano unasorta di frontiera interna tra il Nord e il Sud del paese. La spaccatura dellaCosta d’Avorio, e la conseguente perdita di identità ivoriana, è uno deglielementi più spinosi con i quali la classe dirigente nazionale si dovrà raffrontarenel prossimo futuro.

Ma, come se fosse poco, non è il solo.La questione identitaria non spacca il paese solo in due parti. Piuttosto lo

frammenta e lo riversa in un caos nel quale hanno facile presa i discorsipropagandistici imbevuti di nazionalismo – o ultranazionalismo -, odio exenofobia. Questa tendenza è particolarmente evidente nel Sud del paese,quello che, rimasto sotto il controllo diretto di Gbagbo, ha finito per essere unaspugna intrisa di messaggi nei quali l’altro – chiunque fosse – diventa unnemico.

Questa strategia - supportata dal presidente, dall’FPI e dai loro simpatizzanti- aveva come obiettivo iniziale la costruzione e il rafforzamento di unimmaginario dentro il quale avrebbe trovato tutela e difesa il potere acquisitodalla classe dirigente. Con la demonizzazione dell’altro infatti, ogni azionepolitica e militare può autogiustificarsi senza perdere il supporto che ènecessario per intraprendere nuove iniziative. La propaganda, elementocostante di qualunque conflitto, ha quindi rivestito anche in Costa d’Avorio il suoruolo abituale: la creazione della coesione sociale.

E così è stato, almeno sino a quando Gbagbo e i suoi uomini sono stati ingrado di individuare un solo nemico comune.

Con la firma dei trattati di pace del 2003 e la stagnazione economica,politica e sociale, il sentimento di odio che si era creato è stato dirottato verso

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tutte le presenze “ingiustificate”. Le truppe ONU, quelle francesi, i gruppi di nonnativi ed allogeni sono diventati l’oggetto della fase successiva dellapropaganda degli uomini del presidente. Sono così emersi rituali didegradazione che hanno riattivato il ricorso alla violenza che ha visto nuovevittime, altri attacchi e ulteriori tensioni. La questione del complôt permanent èstata svecchiata dei suoi anni e riproposta in nuove e più appetibili vesti; l’unitàdelle comunità rintracciata nella proclamazione di una seconda guerra diindipendenza [International Crisis Group 2004].

La strumentalizzazione politica di storie, simboli ed identità è culminata nella“caccia al bianco” che ha indotto migliaia di francesi – ed altri “stranieri” – alasciare la Costa d’Avorio25. Questa improvvisa migrazione non ha avutosoltanto ripercussioni nella composizione dello strato sociale delle comunità maanche nell’assetto economico e finanziario del paese. Sebbene la Francia restiancora il primo investitore occidentale, a seguito delle tensioni del 2004, sonostate ingenti le somme di capitale che le aziende hanno sottratto al mercato,lasciando così prevedere tempi di ripresa per l’economia della Costa d’Avorioancora più lunghi.

3.3.2.4 La militarizzazione

Come l’uso della propaganda si è dimostrato essere un’arma a doppio taglionelle mani di Gbagbo, il processo di militarizzazione della società da lui avviatoha seguito la stessa sorte, con conseguenze ancora più minacciose per il futurodel paese.

All’indomani dell’insorgenza dei ribelli dell’FN, il presidente e il suoentourage divennero consapevoli che l’esercito nazionale non avrebbe potutofronteggiare gli attacchi dispiegati né tanto meno assicurare una riconquista deiterritori settentrionali. La migliore soluzione a questo problema fu individuatanella creazione di nuovi gruppi armati che, organizzati e finanziati dai vertici,avrebbero potuto agire con il supporto delle comunità locali.

Questo processo, pianificato da Gbagbo e dai suoi uomini, ha dato vita adun fenomeno che, nel tempo, si è rivelato non essere più governabile dai suoiideatori. Lo spazio lasciato alle milizie è stato lo spazio nel quale i leader diqueste formazioni hanno creato uno stato ombra parallelo a quello istituzionale.Questi due universi non sono però scissi; essi si intrecciano, si sfumano e sipresentano più come un continuum che come una coppia dicotomica. Perquesto è difficile riuscire a fare ordine tra i soggetti che operano nello statoombra, ad individuare il modo in cui agiscono e il ruolo che ricoprono nellerelazioni con le comunità locali e con i poteri centrali.

Ci sono almeno sei gruppi di miliziani in Costa d’Avorio, ognuno dei quali hai suoi leader, le sue strategie, i suoi obiettivi e le sue zone di influenza.

Nelle aree rurali, le milizie sono principalmente strutturate su base etnica. Lapiù importante formazione, la FLGO (Fronte di liberazione per il Grande Ovest),si appella alle tradizioni e alla storia dei We. La Lima Suppletive è costituita da

25 Secondo le stime fornite da Human Rights Watch [2005], furono 8.000 i cittadini stranieri, la maggiorparte dei quali francesi, che lasciarono la Costa d’Avorio nel novembre del 2004.

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miliziani liberiani dell’etnia Krahn, mentre la FSCO (Forze di sicurezza delcentro-ovest) da giovani betè.

A differenza delle milizie che gestiscono la vita urbana, i gruppi occidentaliassumo una struttura più organizzata e prettamente paramilitare. Questacaratteristica scaturisce dal ruolo strategico che questi soggetti ricoprono nelloscenario ivoriano. Le regioni dell’ovest sono le aree più ricche di risorse naturalidell’intero stato (oro, gomma e legname) ed è evidente che, con lo scoppiodella guerra civile, fosse indispensabile per il governo di mantenere sotto lapropria egemonia i territori che potevano assicurare un costante afflusso dicapitale.

Le zone urbane, in particolar modo Abidjan, sono controllate dai GiovaniPatrioti (COJEP), dal Gruppo Patriottico per la Pace (GPP) e dall’Unione per laLiberazione Totale della Costa d’Avorio (UPLTCI). Contare di quanti uomini siavvalgano questi movimenti è praticamente impossibile. Le stime effettuate daileader delle milizie e quelle fornite dalla National Commission sono cosìdiscrepanti, da non permettere di fornire dei numeri attendibili [Human RightsWatch 2005].

Quello che è certo, invece, è lo sfaldamento inarrestabile di questi gruppiche, se da un lato indebolisce l’azione corale dei giovani patriottici, dall’altropermette loro di inserirsi in ogni spazio politico e sociale di Abidjan. Leconnessioni dei vertici con la classe dirigente e quelle della base con glisquadroni della morte hanno reso queste milizie protagoniste della vita urbanae, attraverso il costante ricorso a violenze, esecuzioni ed intimidazioni, hannoannullato qualunque forma di opposizione all’FPI.

L’acquisizione di forza ed autorità da parte di questi gruppi ha scavato unmargine di illegalità e impunità che, se inizialmente assicurava a Gbagbo la“fedeltà” delle zone urbane, è poi diventato uno dei problemi più evidenti allastabilità del suo potere. I miliziani stanno diventando sempre più insofferenti nelveder accumulare ricchezza al vertice della piramide e trovarsi confinatiall’assoluta povertà. Questa percezione, unita alla netta consapevolezza diessere uno strumento necessario alla classe politica per tutelare i propriinteressi, li pone in una condizione di potenziali antagonisti al presidente eall’FPI.

3.3.3 LO STATO DEI DIRITTI

3.3.3.1 L’impunità

Le più gravi violazioni di diritti umani registrate in Costa d’Avorio sonoprincipalmente connesse ai retaggi della guerra civile del 2002. L’incertezza ela frammentazione sociale, enfatizzate da un’accurata opera di propaganda,hanno lasciato aperto un ampio margine entro il quale, sia nel Sud che nel Norddel paese, vengono perpetrati crimini contro coloro che sono ritenuti membridell’opposizione o al presidente Gbagbo o ai ribelli.

La situazione di stallo che ha accompagnato tutto il 2005 è coincisa con unasituazione di stallo della giustizia. Anzi, visto che il silenzio dell’opposizione è

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stato caldeggiato sia dall’FPI che dall’FN, l’impunità è stata la strategia cheambo le parti hanno abbracciato.

L’assoluta mancanza di regole e di ripristino della legalità – testimoniatadall’incapacità della classe politica ivoriana di avviare un’azione giudiziaria cheindividui e processi i colpevoli delle violenze protrattesi dalle elezioni del 2000in poi – continua a legittimare le azioni delle milizie che, ormai prive di controllo,agiscono nello stato parallelo costruito con le loro regole.

La stabilità di questo scenario rende improbabile la cessazione degli abusi eil rispetto dei diritti umani. Gli organismi internazionali, visti trasversalmentecome una minaccia dello status quo (le violazioni costituiscono uno strumentocon il quale raccogliere ed obbligare al consenso i civili), hanno incontrato seriedifficoltà ad indirizzare le loro azioni di advocacy dal momento che, in Costad’Avorio, non sono individuabili delle figure chiave riconosciute leader da tuttele componenti sociali del paese [Human Rights Watch 2006].

3.3.3.2 Abusi dell’esercito, dei miliziani e dei ribelli

La polizia e l’esercito, che fanno capo al presidente Gbagbo, sono statiprotagonisti di ripetute esecuzioni sommarie – giustificate come azioni contro ilcrimine “comune” – di cittadini ivoriani del Nord, immigrati dagli stati occidentalie simpatizzanti dei ribelli dell’FN. A questi crimini, si aggiungono le intimidazionia scopo di estorsione e il reclutamento, specie nelle aree occidentali, di bambinisoldato. In stretto contatto con le forze armate, hanno poi agito i gruppiparamilitari e le milizie dei giovani patrioti. La loro presenza capillare nel Suddella Costa d’Avorio ha determinato un’incessante serie di abusi nei confronti ditutti coloro che, per un motivo o per un altro, venivano percepiti come “nemici”.Uomini dell’opposizione, peacekeepers, giornalisti, studenti e civili hannocatalizzato l’attenzione delle milizie, diventando obiettivi di azioni intimidatorie odi abusi più gravi, come la tortura e lo stupro.

Anche nelle regioni del Nord vige un sistema giudiziario sommario edarbitrario. I crimini commessi dai ribelli – dall’estorsione di beni e proprietàall’uso di tecniche di tortura, dagli stupri e alle esecuzioni – cadono nel buio delbeneplacito dei leader delle FN mentre i crimini comuni, come i semplicitaccheggi, sono puniti con anni di reclusione.

3.3.3.3 I diritti dei bambini

La situazione di conflitto e la crescente militarizzazione hanno determinatolo sfaldamento di uno degli apparati statali più efficienti dell’Africa Occidentale.Il sistema scolastico e quello sanitario si sono pian piano smantellati, lasciandosullo sfondo centinaia di migliaia di minori.

Le regioni occidentali e quelle settentrionali sono le aree che hannoregistrato il maggior numero di bambini privati dell’istruzione primaria. E, (quasi)conseguentemente, il maggior numero di bambini reclutati dalle milizie di ambole parti.

La riduzione dei servizi sanitari ha causato l’incremento della media dellamortalità infantile nel primo anno di vita (da 103 a 117), la riduzione

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dell’aspettativa di vita alla nascita e la morte di 128.000 bambini sotto i cinqueanni nel solo 2005.

Inoltre, le precarie condizioni sanitarie e igieniche sono divenute lo scenario“perfetto” di diffusione del virus dell’HIV26. L’Unaids [2006] stima che 74.000bambini sotto i quattordici anni siano sieropositivi, mentre 450.000 sianodiventati orfani a causa dell’Aids.

Sebbene non si disponga di cifre attendibili degli ultimi anni, la Costad’Avorio è uno degli stati che più fa ricorso al lavoro minorile. Si tratta di un veroe proprio mercato che si muove in mercati non meno reali (per esempio aAbidjan) dove i bambini possono essere “direttamente acquistati”. Si stima chela maggior parte di loro (centinaia di migliaia) sia impiegata nelle piantagioni dicacao.

3.4BURUNDI

3.4.1PREFAZIONE STORICAIl primo conflitto mondiale viene portato nella regione dei Grandi Laghi dallabelligerante Germania, che aveva il possesso delle colonie nel Ruanda-Urundi( g l i a t t u a l i R u a n d a e B u r u n d i ) .I Tedeschi attaccano nel 1914 le città del Congo Belga sul Lago Tanganicascatenando la reazione del Belgio, alleato della Gran Bretagna che eraattestata in Uganda. Tra il 1915 ed il 1916, sia il Ruanda che il futuro Burundicadono nelle mani degli Anglo-Belgi, in netta superiorità numerica. Nel 1918 laSocietà delle Nazioni, con il trattato di Versailles, assegnerà il protettorato delRuanda-Urundi al Belgio e quello del Lago Tanganica alla Gran Bretagna. IBatutsi e Bahutu, così si chiamano la maggioranza degli abitanti della regione,cambiano padrone.Fin dal 1925 grazie ad una legge del Parlamento belga, il Ruanda-Urundi godedi un trattamento particolare: viene annesso amministrativamente al Congobelga e viene smantellata l'organizzazione amministrativa precedente istituitadai tedeschi, che si affidavano ad una sorta di autogestione del potere da partedei capi locali (in maggioranza Batutsi), da loro controllata.L'occupazione belga durerà fino all'inizio degli anni '60, dopo che nel 1946 altermine della seconda guerra mondiale, la neonata Organizzazione delleNazioni Unite conferma l'assegnazione del protettorato sulla regione al Belgio,assegnando però alla potenza coloniale il compito di "favorire il progressoeconomico, politico e sociale delle popolazioni, lo sviluppo della loro istruzioneed inoltre favorire il progresso verso la loro capacità di amministrarsi da soli".In seguito alle pressioni dell'ONU, che organizza visite di controllo per accertareche la risoluzione del 1946 venga rispettata, il potere coloniale nel 1952 emana 26 Su una popolazione stimata di 18.154.000 persone, si ritiene siano 750.000 gli uomini e le donne chehanno contratto il virus dell’HIV [Unaids 2006].

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un serie di ordinanze che ristrutturano l'organizzazione amministrativa,riassegnando la gran parte della gestione territoriale agli autoctoni. IlGovernatore belga si limitava a nominare un vice-Governatore che presiedeva ilConsiglio Superiore del Paese formato dalla locale aristocrazia, formata inmaggioranza sempre Batutsi (o Tutsi).L'occupazione coloniale porta nella regione la religione cattolica, soppiantandoradicalmente la religione tradizionale, basata sul culto animista di Kiranga. Chinon si convertiva godeva di meno diritti sociali. Così, tra il 1919 ed il 1937, unagrande campagna missionaria di evangelizzazione converte la quasi totalitàdegli abitanti della regione dei Grandi Laghi. In particolare la Chiesa privilegial'evangelizzazione dei Tutsi, in accordo con il potere coloniale, allo scopo diformare una classe dirigente locale affidabile e fedele; le Missioni hanno ancheil compito di fornire istruzione ed educazione politica. Gli Hutu sono quasicompletamente esclusi dall'accesso all'istruzione ed oggetto di discriminazioni.Una statistica stilata nel 1963 indicava come il 60% della popolazione dellaregione fosse di religione cattolica, mentre i musulmani erano praticamenteassenti.

Decolonializzazione e nascita dello stato del Burundi

Negli anni '60 esplodono in Africa le lotte dei movimenti indipendentisti cheporteranno alla cacciata degli occupanti europei ed alla nascita delle Nazioniafricane. In quello che diventerà il Burundi già dalla fine degli anni '50 lapopolazione chiedeva di poter costituire partiti politici e nel 1960 se necontavano 23. Reclamavano tutti l'indipendenza del Paese, anche se secondomodalità diverse che andavano dalla più radicale richiesta di immediatapartenza dei Belgi a quella di una fase di transizione assistita che avrebbe,comunque, dovuto portare alla costituzione di uno Stato sovrano.I movimenti per l'indipendenza avevano come organizzatori soprattutto i Tutsiche detenevano molti ruoli chiave del potere amministrativo. A questo punto laChiesa cattolica ed il Protettorato belga si rendono conto dell'errore commesso:di aver, cioè, privilegiato e formato una parte della società indigena che ora glista rivoltando contro e cercano di porre rimedio costituendo una lobby Hutu infunzione anti-Tutsi e quindi, si spera, anti-indipendentista; gli Hutu, da sempretenuti lontano dalle leve del potere, hanno sviluppato astio e rancore verso iloro privilegiati conterranei.Il clima di odio nella regione porta nel 1959, in Ruanda, al primo massacro diTutsi da parte di una fazione Hutu che aveva tentato di mettere in atto unarivoluzione, sostenuti ed organizzati anche dalla Chiesa cattolica.A fine 1959 il Governo belga cede alle pressioni internazionali ed annuncia unpiano per dare l'autonomia alla regione; crea due sotto-governatorati, uno per ilRuanda e l'altro per l'Urundi, separandone l'amministrazione da quella delCongo.Il Burundi diventa, così, una monarchia costituzionale con un re Tutsi, ispirata aquella belga; il Belgio dovrà rispettare una risoluzione ONU che lo invita alasciare completamente il Paese entro il 1 agosto del 1962. Ma nel 1961avviene un colpo di stato, sostenuto dal Belgio, che instaura nel Paese ungoverno repubblicano Hutu. Ma poco dopo il primo ministro Hutu vieneassassinato ed il suo posto è preso da un Tutsi, che si ritrova però a capo di unGoverno molto debole.

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Gli odi tra le due componenti, Tutsi ed Hutu, ricevono nuovo combustibilequando nel 1965 viene di nuovo assassinato il primo ministro Hutu, PierreNgendandumwe ad opera di un espremista Tutsi; una enorme provocazioneche rinfocola la rabbia.Poco dopo un gruppo di Hutu tenta un colpo di stato ed in tutto il Paeseavvengono delle rappresaglie contro i Tutsi, per il solo fatto che appartengono aquesto gruppo sociale. Ma il colpo di stato fallisce, per la grande inferiorità dirisorse militari ed economiche di cui gli Hutu dispongono e viene repressobrutalmente dai Tutsi che riprendono il potere compiendo a loro volta massacrie dure repressioni: i morti sono migliaia.Anche i grandi eccidi avvenuti nel 1972, nel 1988 e nel 1991-1993 non sarannoaltro che riedizioni della stessa storia; solo nel 1972 gli scontri etnici lascianosul terreno circa 150.000 Hutu morti (i Tutsi compongono il 15% dellapopolazione del Burundi, il restante 85% sono Hutu).

G l i a n n i ' 9 0 e l ' a t t u a l e c o n f l i t t o

"Queste storie tra Hutu e Tutsi sono folcloristiche. La simbiosi tra le comunità èpiù forte delle dissonanze e nessuno può cancellare il loro retaggio comune".Questa è la dichiarazione del Presidente Tutsi del Burundi, Bagaza, in unaintervista del 1987 all'agenzia ANSA. Ma i fatti gli hanno dato tragicamentetorto: dopo 15 anni di instabilità politica, con l'alternarsi di colpi di stato eGoverni di breve durata, nello stesso anno il suo Governo viene rovesciatodall'ennesimo colpo di stato militare, sempre Tutsi, ed alla guida del Paese salei l m a g g i o r e P i e r r e B u y o y a .E, seguendo un triste copione, nel 1988 l'esercito Tutsti impone una violentarepressione massacrando migliaia di Hutu, almeno 50.000, sempre con lascusa di voler reprimere preventivamente eventuali ribellioni.Ma, grazie a Buyoya, la situazione sembra prendere una svolta nuova ediversa: agli inizi degli anni '90, resosi conto che la guerra etnica non sarebbepotuta andare avanti per sempre, il maggiore golpista tenta di avviare unprocesso di democratizzazione del Paese che culmina con la stesura di unaCarta costituzionale, la costituzione di più partiti e lo svolgimento di liberee l e z i o n i n e l l ' a p r i l e d e l 1 9 9 3 .Le elezioni, caso incredibile per un Paese africano, si svolgono senza brogli edeterminano la vittoria del FRODEBU (Fronte Democratico del Burundi, ilprincipale partito Hutu), per cui gli Hutu guidati da Melchior Ndadaye divenutoPresidente si ritrovano al potere. Ed anche la composizione del Governorispecchia il clima di distensione che sembra regnare in Burundi: i vincitorivogliono come Capo dell'esecutivo una donna Tutsi, l'economista Sylvie Kinigi.Il sogno di democrazia dura, purtroppo, pochi mesi: nell'autunno del 1993 imilitari dell'esercito rimasto a maggioranza Tutsi compiono un colpo di stato edil Presidente Ndadaye viene ucciso. Anche se il colpo di stato, di fatto, noncambia la composizione del Governo (Sylvie Kinigi resta in carica) la reazionedegli Hutu è tremenda: centinaia di Tutsi vengono massacrati nelle campagneb u r u n d e s i p e r r a p p r e s a g l i a .E la reazione dell'esercito è ancora peggiore: solo nell'ultimo decennio sicalcola che la violenza intra-etnica abbia provocato 300.000 di morti. Gli sfollatinei Paesi vicini, soprattutto la Tanzania, sono centinaia di migliaia.Il Burundi nel 1993 aveva richiesto l'intervento di una forza di interposizione di

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pace dell'ONU, ma questo viene rifiutato dall'allora segretario Boutros Ghali.Ad aggravare la situazione interviene un altro fatto: nell'ennesimo tentativo diplacare gli odi nel gennaio 1994 era stato eletto Presidente Cyprien Ntaryamira,un altro Hutu, che però viene ucciso tre mesi dopo sull'aereo presidenzialeruandese insieme al suo omologo Juvenal Habyarimana, Presidente delRuanda ed Hutu anch'egli. I due stavano per atterrare all'aeroporto di Kigali,c a p i t a l e d e l R u a n d a .L'attentato, condotto sembra da una fazione di Hutu ruandesi che poi hannotentato di gettare la colpa sui Tutsi del Fronte Patriottico ruandese, accrescel'instabilità nell'intera regione, aggravando lo scontro in Burundi e provocandoquel gigantesco massacro di Tutsi ed Hutu moderati, compiuto dagli Hutu, cheviene perpetrato in Ruanda: quasi un mil ione di mort i .A fine 1994 viene eletto Presidente un altro Hutu, Ntibantunganya, ma lasituazione nel Paese rimane altamente instabile a causa delle centinaia dimigliaia di profughi provenienti dal Ruanda che alimentano ulteriormentedisperazione, odi e contrasti tra le etnie che si fronteggiano.la guerra civile continua, quindi, fino al 1996 quando, con un colpo di stato, saleal potere nuovamente Pierre Buyoya che nell'agosto '96 costituisce un Governodi unità nazionale nel tentativo di porre fine alla guerra civile, come al solitoinvano.Un primo spiraglio di pace si apre nell'agosto del 2000 con gli accordi di Arusha(città della Tanzania sede, tra l'altro, di un Tribunale penale internazionale)quando viene siglato un accordo di cessate il fuoco tra Governo e forze ribelligrazie alla prestigiosa mediazione del Presidente del Sudafrica NelsonMandela.Due forze ribelli Hutu si rifiutano di firmare, però: sono le CNDD-FDD (ConsiglioNazionale per la Difesa della Democrazia - Forze per la Difesa dellaDemocrazia) di Pierre Nkurunziza e le FNL (Forze di liberazione nazionale) diAgathon Rwasa, che restano ancora i principali antagonisti del Governo dic o a l i z i o n e n a z i o n a l e .Ad Arusha si decide, oltre al cessate il fuoco, anche che il Paese sarebbe statogovernato per i primi diciotto mesi dal Tutsi Pierre Buyoya a capo di un Governodi transizione misto e come vice Presidente Domitien Ndayizeye, Hutuappartenente al partito moderato FRODEBU. Alla fine dei 18 mesi sarà previstoun avvicendamento al potere con la nomina a Presidente proprio di Ndayizeye.La volontà di deporre le armi viene ribadita a dicembre 2002 con un'altroaccordo al quale questa volta partecipano le CNDD-FDD, sempre ad Arusha,ma anche questa volta gli odi hanno la meglio sulla volontà di pace: continuanol e r a z z i e e g l i s c o n t r i .Gli sfollati per quasi dieci anni di combattimenti sono quasi un milione: laTanzania ne ospita circa 350.000, rifugiati nei campi dell'UNHCR, ma si stimache ve ne siano almeno altri 300.000 dispersi per il Paese. Almeno 280.000vagano, invece, per il Burundi alla ricerca di cibo ed un riparo.A Buyoya succede, come previsto, la scorsa primavera l'attuale PresidenteNdayizeye, anch'egli alla guida di un Governo di unità nazionale che dovrebbetraghettare il Paese verso la concordia etnica e le libere elezioni.Al processo di pace messo in atto con le CNDD-FDD non hanno maipartecipato le FNL. Questi ribelli hanno sempre rifiutato ogni ipotesi di dialogocon il Governo, accusato di essere succube delle forze armate, guidate per oradai Tutsi, secondo loro i veri detentori del potere in Burundi. Hanno chiesto,

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quindi, di poter condurre delle trattative direttamente con i generali Tutsi, cosac h e è s e m p r e s t a t a l o r o r i f i u t a t a .Il 20 luglio 2003, dopo una sanguinosa settimana di assalto alla capitaleBujumbura condotta dalle FNL che ha provocato più di trecento morti, CNDD-FDD e Governo siglano l'ennesimo impegno per una tregua. Questo accordo hascatenato le ire degli uomini di Rwasa che accusano le CNDD_FDD di essersialleate con il Governo per eliminarli. A settembre sono scoppiati violenti scontritra le due forze ribelli nella provincia di Bujumbura ed in quella settentrionale diBubanza, scontri che continuano sporadicamente anche ora.Le trattative sono andate avanti: dopo altri incontri dall'esito negativo, l'8 ottobre2003 è stato firmato un accordo definito "storico" tra Governo e CNDD-FDD,grazie alla la mediazione del Presidente del Sudafrica Thabo Mbeki e delPresidente del Parlamento sudafricano Jacob Zuma, mediatore-capo per ilp r o c e s s o d i p a c e i n B u r u n d i .Nell'accordo è stato deciso il futuro assetto che dovranno avere Governo eParlamento, ma soprattutto la ripartizione del controllo sulle forze armate. LeFDD occuperanno il 40% dei posti-chiave dell'esercito ed il 35% delle forze dipolizia.Sul piano politico le FDD hanno ottenuto quattro Ministeri e la vicepresidenza,nonchè 15 seggi in Parlamento.

3.4.2SITUAZIONE ATTUALE

La firma degli accordi di pace dell'agosto del 2000, confermati poi a Dar esSalaam nell'aprile 2003, ha sancito la fine della lotta armata per le Fdd. Gli exribelli sono entrati a far parte del governo di transizione, nel febbraio del 2005 èstata approvata tramite referendum la nuova Costituzione e nei mesi successivisi sono tenute le elezioni per il rinnovo del Parlamento e delle amministrazionilocali, da cui sono usciti vincitori i partiti Hutu. Nell'agosto del 2005 il leaderdelle Fdd Pierre Nkurunziza è stato eletto presidente, sancendo così il ritornoalla presidenza di un Hutu dopo ben 12 anni. Secondo gli accordi di pace lacomposizione del Senato e delle Forze Armate burundesi sarà divisa al 50percento tra Hutu e Tutsi, mentre per quanto riguarda i seggi alla Camera e ilnumero dei ministri gli Hutu avranno diritto al 60% dei posti. Le Fnl capeggiateda Pasteur Habimana continuano invece a rifiutare di trattare con il governo,che secondo i ribelli sarebbe solamente un prodotto delle pressioniinternazionali e quindi non legittimo. Le Fnl sono attive nel distretto diBujumbura Rural, alle porte della capitale.Essendo il conflitto limitato prevalentemente alle zone intorno alla capitale, ilresto del Paese ha goduto di una relativa calma. Gravi violazioni dei dirittiumani come uccisioni illegali, torture, tra cui stupri e altre forme di violenzasessuale, rapimenti e arresti illegali sono state compiute da tutte le parti incausa. I detenuti che non avevano avuto un regolare processo erano circa4.788. A fine anno, gli sfollati erano almeno 95.000. Si calcola che almeno90.000 profughi abbiano fatto ritorno in patria, in Tanzania, sebbene moltagente abbia continuato a fuggire dal Burundi. Oltre 150 rifugiati congolesi sonostati uccisi durante un attacco a un centro di transito nei pressi di Bujumbura.Sono state comminate almeno 44 condanne a morte.

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La crisi economica in Burundi non è diminuita e il Paese ha continuato adipendere dall’assistenza e dagli aiuti di Paesi esteri, anche se gli impegnieconomici da parte dei donatori spesso non si sono concretizzati, oppure sonorisultati insufficienti rispetto alle effettive necessità. Il crimine armato èaumentato. L’accesso al sistema sanitario nazionale è rimasto estremamented i f f i c i l e p e r l a m a g g i o r a n z a d e l l a p o p o l a z i o n e .

3.4.2.1Violazioni dei diritti umani nelle zone di conflitto

Nel Bujumbura rurale le forze armate governative si sono rese responsabili digravi violazioni dei diritti umani nei confronti della popolazione civile, tra cuiripetuti saccheggi, distruzioni di proprietà, stupri ed esecuzioni extragiudiziali. Icivili si sono spesso trovati nel mezzo di scontri a fuoco e, talvolta, sono statideliberatamente attaccati. I combattenti del CNDD-FDD (Nkurunziza), le cuibasi militari autonome nel Bujumbura rurale hanno condotto operazioni gestitein modo ambiguo, sono stati ripetutamente accusati di stupri, pestaggi,saccheggi e ucc is ion i d i c iv i l i res ident i ne l la zona.Nel 2005 la situazione dei diritti umani si è deteriorata notevolmente nelleprovince occidentali, come risultato della campagna militare intensificata daparte del Governo contro l’FNL.Un numero imprecisato di presunti simpatizzanti dell’FNL sono stati uccisi dalleforze governative e da membri del CNDD-FDD (Nkurunziza), specialmente nelcorso di attacchi arbitrari e di rappresaglie che hanno accompagnato o seguitol e o p e r a z i o n i m i l i t a r i .Nel Bujumbura rurale, l’FNL ha ucciso ufficiali governativi di basso rango ealcuni civili sospettati di collaborare con il CNDD-FDD (Nkurunziza). Anchel’FNL ha continuato a reclutare bambini-soldato e ad amministrare un sistema digiustizia parallelo, ovvero con punizioni che non hanno escluso pestaggi euccisioni.Centinaia di presunti guerrieri o sostenitori dell’FNL rimango detenuti, inclusodegli sostenitori ufficiali amministrativi di FRODEBU. Dei testimoni credibili dainumerosi detenuti tenuti dal servizio intelligente, indicano di essere stati torturatidurante l’interrogatorio, prima di essere trasferiti nelle celle di polizia. Leorganizzazioni dei diritti umani e ONUB hanno espresso la loro seriaindignazione per quanto riguarda l’esposizione pubblica delle centinaia dipersone arrestate per vari motivi, inclusi presunti collaboratori dell’FNL, nel 15dicembre 2005 e 2 febbraio 2006. L’atto era una violazione seria dei diritti diqueste persone, nessuno dei quali era accusato formalmente, e alcuni di lorosono stati rilasciati giorni dopo.

3.4.2.2Arresti e rapimenti da parte del CNDD-FDD (Nkurunziza)Per tutto l’anno, il CNDD-FDD (Nkurunziza) ha assunto il ruolo di forza di“polizia” parallela, capace di emettere veri e propri mandati di comparizione,effettuare perquisizioni e trattenere in stato di fermo decine di persone. Lamaggior parte dei detenuti sarebbe stata accusata dai comandanti locali delCNDD-FDD (Nkurunziza) di aver partecipato a rapine a mano armata oppure diaver avuto contatti con l’FNL. Alcuni sono stati costretti a pagare una “multa”prima di essere rilasciati. Altri hanno subito pestaggi e hanno visto le proprie

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proprietà saccheggiate. Tutti sono stati detenuti arbitrariamente e senza alcunatutela legale. Molti dei sospettati sono stati picchiati, spesso duramente, altririsultano deceduti o “scomparsi”.Centinaia di presunti guerrieri o sostenitori dell’FNL rimango detenuti, inclusodegli sostenitori ufficiali amministrativi di FRODEBU. Dei testimoni credibili dainumerosi detenuti fermati dal servizio intelligente, segnalano di essere statitorturati durante l’interrogatorio, prima di essere trasferiti nelle celle di polizia.Le organizzazioni dei diritti umani e ONUB hanno espresso la loro seriaindignazione per quanto riguarda l’esposizione pubblica delle centinaia dipersone arrestate per vari motivi, inclusi presunti collaboratori dell’FNL, nel 15dicembre 2005 e 2 febbraio 2006. L’atto era una violazione seria dei diritti diqueste persone, nessuno dei quali era accusato formalmente, e alcuni di lorosono stati rilasciati giorni dopo.

3.4.2.3Bambini-soldato

Nel 2004 è stato lanciato un programma di smobilitazione, disarmo e reintegro(SDR) per i bambini-soldato arruolati nelle forze governative e in due gruppiarmati minori. A novembre erano già stati smobilitati oltre 2.300 bambini-soldato, alcuni di appena 11 anni. Il dato provvisorio fornito da diversi gruppiarmati in merito al numero di bambini-soldato da far rientrare nel programmagenerale di SDR, che era iniziato a dicembre, era di 500 bambini, cifra moltoinferiore alle aspettative. Il ministero dei Diritti Umani ha ammesso la probabilecontinua presenza di bambini-soldato nelle fila delle truppe governative.

3.4.2.4Stupri e altre forme di violenza sessuale

Nonostante l’accresciuta consapevolezza riguardo al problema e l’unanimecondanna degli stupri, sia in ambito domestico che di guerra, sono statiregistrati numerosi casi di stupro e violenza sessuale. Tra le vittime figuranobambine in tenera età, uomini e ragazzini. Alcune donne sono state stuprateall’interno di accampamenti militari, dove erano state trascinate con la forza;altre hanno subito violenza mentre tentavano di sfuggire agli attacchi, mentreraccoglievano legna da ardere oppure mentre erano al lavoro nei campi.Grazie soprattutto alla collaborazione tra associazioni nazionali per i dirittiumani, organizzazioni non governative internazionali (ONG) e la magistratura,sono aumentati sia il numero di vittime che ha potuto beneficiare dell’assistenzamedica sia i casi approdati in tribunale.

3.4.2.5Amministrazione della giustizia

Il sistema giudiziario ha continuato a operare con difficoltà a causa di risorseinadeguate, scarsa formazione, corruzione, mancanza di fiducia nello Stato didiritto e di volontà da parte della classe politica di porre fine all’impunità. Sisono registrati diversi casi di linciaggio e maltrattamenti. Circa 4.788 personesono rimaste in carcere senza processo. Sono invece proseguite le udienzeche riguardano le persone coinvolte negli atti di violenza che avevano fatto

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seguito all’omicidio dell’ex presidente Melchior Ndadaye nel 1993. Ad aprile, 36persone, di cui due civili, sono state condannate per aver partecipato aduntentativo di colpo di Stato nel giugno 2001. Altre 64 persone sono state assolte.Almeno 2.202 detenuti da lungo tempo senza processo oppure trattenuti perreati connessi al conflitto, sono stati rilasciati. Tra questi figurano 6 prigionieridel CNDD-FDD (Nkurunziza) che erano stati condannati a morte.Il Senato ha approvato la riforma della Corte Suprema, concedendole il diritto diriesaminare sentenze precedenti. Potrebbero essere così riviste le sentenzeemesse da giurisdizioni nazionali o internazionali, il cui processo originalesarebbe risultato viziato. A fine anno il presidente non aveva ancora firmato lalegge. Questa riforma potrebbe potenzialmente aiutare centinaia di imputatiprocessati da Corti d’Appello tra il 1996 e il settembre 2003, spesso medianteprocessi ingiusti oppure senza assistenza legale. In passato il soloprocedimento d’appello disponibile era il ricorso, basato su elementi tecnici, dapresentare alla Camera di Cassazione della Corte Suprema. Se il ricorso venivaapprovato, il caso veniva ridiscusso. Tuttavia, dal momento che molti imputatinon erano assistiti legalmente, era praticamente impensabile che riuscissero ap r e s e n t a r e r i c o r s o .

3.4.2.6Pena di morte

Sono state emesse almeno 44 condanne a morte. Nel 2005 erano in attesa diesecuzione 533 persone. Non vi sono state esecuzioni. Tuttavia, nel mese difebbraio, durante il processo a quattro imputati accusati di rapina in una bancadi Bujumbura, il presidente Ndayizeye ha fatto temere una ripresa delleesecuzioni. Gli uomini sono stati in seguito condannati a morte e la loroc o n d a n n a c o n f e r m a t a i n a p p e l l o .Il presidente ha ordinato la stesura di nuove leggi, nel tentativo di contrastare icrescenti livelli di crimini violenti, tra cui rapine a mano armata e stupri. Ilpresidente non ha nascosto di auspicare una più ampia applicazione della penadi morte. Sempre a novembre è stata presentata in parlamento una nuovalegge finalizzata a ridurre drasticamente i tempi necessari per perseguirepenalmente soggetti colti in flagranza di reato. Queste nuove procedure nonrispettano gli standard internazionali in materia di equo processo. In particolarefissano a 40 il numero massimo di giorni che possono intercorrere tra ilmomento dell’arresto e l’esecuzione o la grazia, compresi quelli eventualmentenecessari per un nuovo processo.

3.4.2.7Giustizia internazionale e di transizione

Nel 2005 il Burundi ha ratificato lo Statuto di Roma della Corte penaleinternazionale. L’Assemblea Nazionale e il Senato hanno inoltre approvato unalegge che istituisce una Commissione verità e riconciliazione (NTRC). Leassociazioni burundesi per i diritti umani hanno tuttavia espresso il timore chetale legge non sia in grado di garantire l’indipendenza dei membri dellacommissione, e che la mancanza di chiarezza circa le competenze della NTRCe della commissione internazionale d’inchiesta prevista dall’Accordo di Pacepossa met tere a repentag l io i l lavoro d i ent rambe.

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3.4.2.8Rifugiati e sfollati

Le autorità della Tanzania e il governo del Burundi hanno aumentato le loropressioni per indurre i rifugiati a far ritorno in patria. Nel corso dell’anno più di90.000 rifugiati sono ritornati dalla Tanzania. Sebbene alcuni rifugiati sianorientrati spontaneamente, altri hanno fatto ritorno a causa dell’inasprimentodelle condizioni di vita nei campi profughi e per paura di essere rimpatriati conla forza dalle autorità della Tanzania. Molti temevano addirittura di perdere lapropria terra in Burundi in caso di permanenza all’estero. A parecchi deirimpatriati erano state fornite informazioni sbagliate circa l’effettiva situazione inBurundi, ad altri erano state date false speranze dai funzionari governativi delBurundi in visita nei campi profughi. Le controversie in materia di proprietàterriera sono diventate più frequenti. Gli enti governativi preposti al reintegro deirifugiati e alla risoluzione di tali controversie si sono dimostrati inadeguati einefficienti.A fine anno gli sfollati erano almeno 95.00, alcuni sin dal 1993, sebbene nelcorso dell’anno fossero circa 160.000 coloro che erano rientrati nelle loro zonedi origine. La popolazione del Bujumbura rurale ha continuato a essere sfollataper brevi periodi a causa dei continui conflitti che avevano reso la vitaimpossibile. In diverse zone del Paese la gente, compresi i rimpatriati, era cosìspaventata da non voler trascorrere la notte nella propria abitazione.L’uccisione in agosto dell’anno scorso di oltre 150 profughi nel centro di transitodi Gatumba ha evidenziato l’incapacità del governo di proteggere i rifugiati.Soltanto dopo il massacro il governo ha finalmente accettato di far allontanare iprofughi dal confine con la Repubblica Democratica del Congo (RDC).L’esercito del Burundi, che peraltro possiede diverse basi militari vicine alcentro di transito, non è intervenuto per proteggere i profughi.

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3.5UGANDA

Il conflitto nell’Uganda del nord continua a causare vittime tutte i giorni e più di1.5 milioni di persone continuano a soffrire nei campi di profughi, vulnerabilidagli abusi brutali del LRA (Armata di Resistenza del Signore) e da unindisciplinato esercito governativo (La forza popolare per la difesa dell’Uganda).Nel Nord dell'Uganda, dal 1986 c'è un conflitto armato che strazia le popolazioniAcholi, Lango e Teso: ha causato 100.000 vittime, oltre un milione e mezzo disfollati che cercano di sopravvivere nei campi profughi in condizioni disumane,interi villaggi distrutti, violazioni dei diritti civili e tanta miseria.Più di 20.000 bambini sono stati rapiti e costretti a diventare soldati e schiavedei ribelli; chi non è morto ed è riuscito a fuggire, ora è profondamente segnatonel corpo e nella psiche. 20.000 bambini sono stati sequestrati e costretti adiventare soldati e schiave dei ribelli; chi non è morto ed è riuscito a fuggire, oraè profondamente segnato nel corpo e nella psiche.L'Uganda era chiamata "perla dell'Africa" e dal punto di vista ambientale lo èancora, ma, per le popolazioni del nord, la vita è carica di sofferenze e paura, acausa della guerra e delle malattie.Jan Egeland, vicesegretario generale dell'Onu e responsabile delle questioniumanitarie, dopo una visita nell'autunno scorso nel nord Uganda, hariconosciuto: “Quello del nord Uganda è uno dei peggiori disastri umanitari delmondo e noi, come Nazioni Unite, abbiamo fatto troppo poco".Negli ultimi mesi, dopo un periodo di terrore, si comincia a parlare di tregue e diavvii di colloqui tra le parti in conflitto, ma questi segnali di pace potrebberoun'altra volta svanire.La buona notizia verrà quando la comunità internazionale, l'Onu, l'UnioneEuropea e l'Unione Africana si decideranno a intervenire veramente, coniniziative e con forze di pace.Per ora arrivano ancora notizie di incursioni degli olum (i ribelli del LordResisters Army) nei villaggi e di scontri armati con l'esercito, che a sua voltanon lascia tranquilla la gente, che si ritrova tra l'incudine e il martello.

3.5.1La guerra in Nord Uganda

Venti anni dopo il conflitto nel nord Uganda continua a vittimizzare lapopolazione dei tre distretti di Acholi, più dei 90 % dei quali vivono nei campicostruiti per i sfollati e non sonno liberi a ritornare a casa. I ribelli del LRAcontinuano ad ammazzare persone civili, a sottoporli a torture, mutilazioni eabusi sessuali, dove s’include anche i “matrimoni” forzati di ragazze concomandanti di ribelli, e rapite migliaia di bambini i quali gli forzano a diventarebambini soldato. Se il governo assicura ripetutamente che ha vinto la guerracontro o ribelli, la LRA continua di rilanciare attacchi brutali, come forma dirisposta alle assicurazioni governative. Negoziati per la pace tra il governo del Uganda e la LRA, mediati dal BettyBigombe, ex ministro del governo ma originario dal nord, si sonno interrotti alinizio del 2005, e i combattimenti hanno ripreso. La violenza si è intensificatadopo che il negoziatore principale del LRA, Brigadier Sam Kolo, è passatodalla parte governativa nel Febbraio 2005.

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La LRA continua a lanciare attacchi all’Uganda del Nord dalle loro basi in SudSudan, e dall’altra parte aumentano anche gli attacchi contro i sudanesi inSudan. In Settembre 2005, si contano quattro cento ribelli della LRA che hannopassato il confine e hanno attaccato villaggi sudanesi. La missione del ONU inRD di Congo gli ha intervistati. Il governo dell’Uganda ha rinnovato le minacceche entreranno in RDC e di confrontare li la LRA, ma la condannainternazionale su ogni azione aggressiva avrebbe destabilizzato il nordest delRDC. Sembra che la LRA si e ritirata da RDC nelle sue basi in sud Sudan.

3.5.2LRA

L'LRA (Armata di resistenza del signore) è la forza ribelle che terrorizza leprovince del nord dell'Uganda fin dal 1987, abitate dagli Acholi, ai confini con ilSudan. Ed è proprio in Sudan che gli Olum ("erba" così vengono chiamati inlingua Acholi) hanno le loro basi e da lì partono molti dei loro attacchi.Si calcola che fin'ora razzie e scontri abbiano causato 100.000 vittime ed1.200.000 sfollati, senza contare il dramma dei bambini rapiti: i maschi vengonoaddestrati come piccoli soldati mentre le femmine divengono schiave sessualidei ribelli.La LRA è stata fondata dall'oggi quarantenne Joseph Kony di etnia Acholi,regione nel nord dell'Uganda ai confini con il Sudan, alla fine degli anni '80. Eglidichiara di essere il successore spirituale di una sua zia, Alice Lakwenapretessa vudù di grande carisma ("lakwena" significa messaggero in Acholi)che aveva condotto gli Acholi in guerra contro la giunta militare del PresidenteMuseveni durante le rivolte tribali avvenute tra il 1987 ed il 1988.L'"Armata del santo Spirito" così era chiamato l'esercito composto da guerrieriAcholi che arrivarono fino a Kampala, la capitale, armati di lance e pietre.Morirono a migliaia sotto il fuoco dell'artiglieria dei militari.Joseph Kony radunò i resti della Armata e con essi fondò l'Armata di resistenzadel Signore con l'obbiettivo di vendicare i torti e le atrocità subite dagli Acholi daparte dell'esercito. L'armata iniziò le proprie operazioni di guerriglia nel 1989.Ma ben presto da oppressi gli Olum si trasformarono in oppressori iniziando aduccidere e depredare la popolazione ed a rapirne i bambini per addestrarlicome piccoli soldati. Consuetudine già praticata dall'Armata del santo spirito dizia Lakwena. L'UNICEF calcola che siano più di ventimila i bambini rapiti dallafine degli anni '80 ad oggi.Gli obbiettivi dichiarati della LRA sono quelli di instaurare in Uganda un regimebasato sull'applicazione letterale dei dieci comandamenti biblici. Kony stessoafferma di essere un profeta e di essere posseduto da uno spirito-guida divino. Ibambini rapiti vengono indottrinati alle visioni di Kony: egli crede nell'avvento diun giorno in cui tutte le armi da fuoco del mondo smetterano di funzionare (ilgiorno del "mondo silenzioso" ) e solo coloro in grado di usare le armi bianchepotranno sconfiggere i nemici e prendere il potere.La religione di Kony, un misto di concetti cristiani, animismo e magia africani, harecentemente aggiunto un undicesimo comandamento ai dieci della Bibbia:"non dovrai mai guidare una bicicletta"; i soldati della LRA puniscono i contadinitrovati a bordo di un biciclo mutilando loro le natiche con il machete. In uncrescendo di follia, recentemente è stata lanciata una campagna contro iproprietari di polli bianchi e i maiali che vengono uccisi in tutto l'Acholi, quando

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scoperti. I motivi? Questi sono i comandamenti che Kony riceve dal suo spirito edagli angeli, che consigliano anche i metodi di addestramento e guidano i ribelliin battaglia.I metodi di addestramento sono brutali: i bambini, spesso drogati, sono costrettia mutilare ed uccidere con il machete, per non incorrere i punizioni gravissime oaddirittura essere uccisi a loro volta. In battaglia portano una pietra in tasca chedovrebbe, in caso di pericolo, innalzare una montagna di fronte a loro comeprotezione dal nemico ed una bottiglia d'acqua con un bastoncino che, versata,dovrebbe creare un fiume che disperda le pallottole degli avversari. Mai ritirarsidi fronte alla battaglia dice la dottrina di Kony che, comunque, rimane ben alriparo nelle retrovie a compiere le sue divinazioni.Le principali basi della LRA sono nel sud del Sudan che per anni ha fornito airibelli armi e supporto logistico, nonostante il differente credo religioso: il Sudanè governato da un regime musulmani. Le motivazioni risiedono nei contrasti traSudan e Uganda, che a sua volta ha sempre finanziato i ribelli dello SPLA(Sudan People's Liberation Army) che da vent'anni lotta per il potere nel sud delSudan.Nel gennaio 2002 la guerra per procura sembrava essere finita, dopo la stipuladi un accordo tra i due paesi e l'impegno reciproco a non finanziare più i gruppiribelli, ma gli scambi di accuse tra i due Paesi sono proseguite; nuova speranzapotrebbe derivare dalle trattative in corso tra Khartoum e ribelli dello SPLA chepotrebbero portare la pace nel sud del Sudan e di conseguenza disinnescarel'intervento ed il sostegno dell'Uganda a questa forza ribelle.Dall'indipendenza ad oggi una terribile storia di dittatureL'Uganda conquista la sua indipendenza dagli Inglesi nel 1962 e Primo Ministroviene eletto Milton Obote che poco dopo abolisce Costituzione e diritti egovernerà con un duro regime dittatoriale per una decina d'anni, sostenutoinizialmente dagli Acholi e dai Langi dei distretti del nord.Ad inizio 1971 il potere viene conquistato, con un colpo di stato, da un suo ex-fedele generale: Idi Amin. Obote che è costretto a fuggire all'estero.Il regime di Amin è caratterizzato da spaventosi massacri di oppositori politici edella popolazione Acholi e Langi, accusata di aver appoggiato il regimeprecedente: in otto anni si calcola che Amin abbia mandato a morte almeno300.000 persone. La politica estera di Amin, inoltre, precipita il Paese in unaspaventosa crisi economica.La sua dittatura termina nel 1979 quando, dopo aver ingaggiato una guerra conla Tanzania accusata di sostenere ed ospitare gli oppositori del suo regime, ècostretto dai suoi oppositori interni e dall'esercito tanzaniano che invadeKampala a fuggire in aereo prima in Libia e quindi in Arabia Saudita dovemorirà tra lussi ed agi nell'estate del 2003.Al regime del poco rimpianto Amin succedono altri 5 anni sanguinosi: fuggito ilnemico, Milton Obote può nuovamente rientrare in Uganda ed impadronirsi delpotere, dopo un breve periodo nel quale viene tentata una transizionedemocratica. Ma Obote trova subito una forte opposizione da parte della NRA(Armata di resistenza nazionale) guidata da Roweri Museveni; ne segue unasanguinosa guerra civile che durerà fino al 1985.Nel 1985 il generale Basilio Olara-Okello, a capo di un'armata compostaprincipalmente di Acholi, sconfigge Obote che fugge in Zambia e si insedia alpotere. Vengono aperti dei negoziati con la NRA di Museveni, nel tentativo difermare i due decenni di spaventosi massacri e sistematiche violazioni dei diritti

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umani e dare un po' di pace al prostrato Paese, ma nelle campagne intorno aKampala si continua a combattere e a morire.A dispetto dei negoziati in atto infine la NRA riesce a conquistare Kampala,Okello fugge in Sudan e Museveni si insedia come Presidente.

3.5.3Violenza sulle donne

Le notizie di stupro, anche di ragazzine, sono state frequenti e sono apparse increscita. Secondo quanto riferito, nel Kabarole, nell’ovest del Paese, nel primoquadrimestre dell’anno sono state stuprate 54 bambine. Nel Gulu, la cifra ècresciuta da 55 ad agosto a 65 nel mese di settembre. Tra gennaio e giugno,sono stati registrati 320 casi di stupro di minorenni nella zona meridionale deidistretti di Rakai, Kalangala, Masaka e Sembalule, e 682 a Kampala, rispetto ai437 registrati nello stesso arco di tempo nel 2003. Quasi la metà di coloro chesostenevano imputazioni capitali erano accusati di aver stuprato minorenni.I servizi di assistenza sono rimasti inadeguati, e in assenza di appropriate curemediche, la popolazione, in special modo donne e bambini, è rimasta altamenteesposta a infezioni a trasmissione sessuale, comprese da HIV/AIDS.

3.5.4Tortura

Sono continuate a pervenire segnalazioni di tortura da parte di agenti delleforze dell’ordine e dell’esercito. La tortura continua a essere utilizzata perestorcere confessioni e come metodo punitivo.Ad aprile del 2005, un sopravvissuto alla tortura da parte di agenti dellasicurezza del Capitanato dell’intelligence militare ha ottenuto un indennizzoeconomico dalla Commissione dei diritti umani dell’Uganda. La Commissioneha ritenuto il governo responsabile di aver violato i diritti del sopravvissuto allalibertà e alla protezione dalla tortura e dai maltrattamenti. A fine anno il governonon aveva ancora disposto il pagamento dell’indennizzo.

3.5.5Libertà di espressione

La libertà di espressione dei media ha continuato a essere fortementeattaccata.A giugno del 2005, sei giornalisti sono stati arrestati per ordine del presidentedella Corte marziale generale militare. Il giorno stesso dell’arresto, i sei sonostati accusati di oltraggio alla corte. Assieme a un avvocato della difesa, sonostati accusati di aver pubblicato articoli riguardanti il processo di un ex capo diStato maggiore dell’esercito, che la corte militare aveva ordinato di tenere aporte chiuse. Gli accusati sono stati multati e diffidati.A febbraio, con una sentenza storica, la Corte Suprema ha sentenziato che ilreato di “pubblicazione di notizie false” era nullo e incostituzionale e hariaffermato che la libertà di espressione è un diritto umano fondamentale. LaCorte Suprema ha inoltre deciso che la terminologia del codice penale chedefiniva il reato era troppo vaga.

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3.5.6Libertà di associazione e di riunione

In diverse occasioni, la polizia ha ostacolato il diritto costituzionalmentegarantito alla libertà di associazione, disperdendo dimostrazioni pacifiche,raduni e comizi di partiti e gruppi di opposizione.La sentenza della Corte costituzionale del 17 novembre che annulla alcuniarticoli della PPOA del 2002 ha rimosso le restrizioni del diritto dei partiti politicidi tenere pubblici raduni in qualsiasi parte del Paese. La Corte ha inoltreannullato l’art.13(b), che impediva ai cittadini ugandesi residenti all’estero dapiù di tre anni di guidare un partito politico o di ricoprire cariche politiche.

3.5.7Persecuzione di minoranze sessuali

Il clima di ostilità contro lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) non ècessato e la legislazione discriminatoria nei confronti delle minoranze sessuali èrimasta in vigore. Agenti della sicurezza hanno continuato a sottoporre avessazioni membri della comunità LGBT, fino al punto di far temere perl’incolumità personale di alcuni attivisti per i diritti gay.A ottobre 2005, una stazione radiofonica è stata costretta a pagare una multaper aver ospitato un talk show cui avevano preso parte attivisti per i dirittisessuali. Il Consiglio delle trasmissioni ha imposto un’ammenda a FM RadioSimba, sostenendo che il programma era “contrario alla moralità pubblica” eaveva infranto le leggi vigenti.

3.5.8Pena di morte

Sono continuate le condanne a morte. Alla data di dicembre i prigionieri delbraccio della morte erano almeno 525. Nessun civile è stato messo a morte dalmaggio 1999, quando 28 prigionieri del braccio della morte furono impiccatinella prigione di Luzira. Tre soldati furono fucilati nel marzo 2003. Alti funzionaridelle carceri hanno ripetutamente chiesto che le esecuzioni venissero effettuateda boia privati e non da dipendenti del Dipartimento delle carceri, nel caso incui il governo intendesse mantenere la pena di morte.

3.5.9Liberta politica

Nonostante le richieste di abolizione, la Commissione per le riformecostituzionali ha raccomandato il mantenimento della pena capitale e la suaapplicazione per reati quali omicidio, rapina a mano armata, rapimentofinalizzato all’omicidio e stupro di minorenni al di sotto dei 15 anni. A settembreil governo ha dato accettazione delle raccomandazioni, osservando che l’altotradimento non era stato inserito tra i reati passibili di pena di morte.Il governo ha organizzato un referendum il 28 luglio 2005 chiedendo agli elettorise volevano lasciare spazio politico ai partiti di contendersi per potere nelleelezioni programmate per il marzo 2006, cercando di far crescere la pressioneinternazionale per la democratizzazione dell’Uganda e far cambiare il sistema

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del Movimento politico “senza-partiti”. Le coalizioni principali dell’opposizionehanno boicottato il referendum, accusando che la decisione presa dalPresidente Youweri Museveni – il quale è stato presidente dal 1986 –comprometteva tutti gli sforzi fatti per una riforma democratica. Il Presidentepressava verso un emendamento costituzionale a giugno, il quale eliminava ilimiti della durata presidenziale, permettendo cosi a lui di candidarsi per unterzo termine.

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3.6REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

3.6.1La StoriaLa storia di questo paese, grande come un quarto dell'Europa, è segnata danumerosi conflitti finalizzati spesso al controllo delle immense risorse naturali dicui dispone: oro, diamanti, uranio, cobalto, rame e coltan (columbite-tantalite,metallo utilizzato nella telefonia cellulare e per le componenti informatiche),legno pregiato e gomma arabica. Sfruttato prima dalla colonizzazione belga, poi dalla trentennale dittatura diSese Seko Mobutu (1965-1997) quindi, a partire dagli anni '90, invaso daglieserciti dei paesi vicini e da bande mercenarie che hanno sostenuto ealimentato la guerra civile e gli scontri tra le componenti etniche delle provincefrontaliere.Il conflitto in corso nella Repubblica Democratica del Congo è il più sanguinosodai tempi della Seconda guerra mondiale e, anche a causa del gran numero dieserciti dei paesi limitrofi che ha coinvolto, è stato definito "Guerra mondialeafricana". Nonostante i primi accordi di pace firmati nel 1999, i conflitti hannoavuto il loro apice tra il 1998 e il 2002, causando oltre 3,3 milioni di morti e circa3 milioni di sfollati.La maggior parte delle vittime sono civili, di esse i bambini, che costituisconooltre il 50% della popolazione congolese, sono l'assoluta maggioranza.Molti di loro sono morti a causa dei combattimenti, ma un numero certamentemaggiore è deceduto per fame, malattie, mancanza d'acqua e d'ogni tipod'assistenza medica e sociale: cause che sarebbero facilmente evitabili insituazioni di pace e di stabilità economica.Nell'aprile 2002, è stata raggiunta un'intesa con il Ruanda e l'Uganda, cui sonoseguiti gli accordi di pace firmati a Sun City l'anno successivo che hannoliberato il paese dagli eserciti limitrofi.Contestualmente, un accordo di pace interno ha posto fine alla guerra civile nelpaese e insediato un governo di transizione che ha realizzato un nuovo testocostituzionale approvato per via referendaria nel dicembre 2005.Questo ha posto le premesse per la realizzazione di elezioni democratiche.Se dal 2003 nelle regioni centro-occidentali della Repubblica Democratica delCongo si è raggiunta una relativa stabilità, nelle zone frontaliere nord-orientali esettentrionali, invece, permane una forte insicurezza che continua adegenerare, a fasi alterne, in una vera e propria guerra aperta con gravissimeviolazioni dei diritti umani e violenze efferate a danno dei civili, tra cui le piùsoggette sono le donne.Come risposta all'emergenza, il 30 maggio 2003 il Consiglio di Sicurezzadell'ONU ha autorizzato l'intervento di una forza multinazionale di pace a Bunia,nel Nord-Est e, dal 1° settembre 2003, l'invio di 10.800 caschi blu Missionedell'ONU per il Congo (MONUC) dispiegati in Ituri, nel nord Kivu e nel Sud Kivu.La presenza dei caschi blu ha reso le condizioni di sicurezza relativamentestabili fino al dicembre 2004, quando la situazione in quelle regioni ènuovamente precipitata. Da allora continuano a svilupparsi gravi focolai ditensione a fasi alterne, ancora non definitivamente controllabili.

3.6.2

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Situazione attualeDopo l'assassinio di Laurent Kabila nel 2001, il figlio Joseph ha avviato nel2002 il processo di pace (dialogo intercongolese, tenutosi in Sudafrica) che haportato al ritiro degli eserciti stranieri alleati del governo (Angola, Namibia eZimbabwe) e di quelli che sostenevano i ribelli (Ruanda e Uganda). Nonostantequesto la presenza di milizie nelle regioni orientali del Paese restaconsiderevole, e nel Kivu si registrano sporadici scontri tra gli uomini del Rcd-Goma e le milizie Mayi-Mayi, che operano anche nel Katanga con attacchifrequenti alle truppe regolari congolesi.La presenza dei ribelli Hutu delle Fdlr (Forze Democratiche di Liberazione delRuanda), sostenute durante la guerra dal governo congolese, è un ulteriorefattore di instabilità per la regione. Dalla primavera del 2005 le Fdlr hannorinunciato ufficialmente alla lotta armata, ma il programma di disarmo erimpatrio non è ancora cominciato.In Kivu si registrano periodicamente movimenti di truppe a cui non sarebberoestranei contingenti militari del Ruanda, più volte accusato di destabilizzare laregione. Le truppe del Rcd-Goma, che in seguito all'accordo di pace sonoentrate a far parte dell'esercito nazionale, sono sospettate di avere ancoralegami molto stretti con le autorità ruandesi, tanto che dal 2003 vi sono statinumerosi casi di ammutinamento tra i contingenti militari appartenenti all'ex-gruppo ribelle. Il più famoso tra questi gruppi di dissidenti è quello capeggiatodal generale Laurent Nkunda, che nel 2004 è riuscito a occupare per diversigiorni la città di Bukavu impegnando severamente l’esercito e i caschi blu dellaMonuc, la missione Onu nel Paese. I dissidenti di Nkunda sono poi tornati acolpire nel gennaio 2006, quando per alcuni giorni hanno occupato la città diRushturu e altri centri abitati minori nelle circostanze. La Monuc tenta conscarso successo di stabilizzare la situazione, anche perché i dissidentisconfinano spesso in Ruanda per sfuggire alla cattura.Nella primavera del 2005 c'è stata una recrudescenza del conflitto in Ituri,regione che negli anni precedenti non era stata toccata dal programma didisarmo. I frequenti scontri tra le milizie che si contendono il territorio hannocausato centinaia di vittime e hanno provocato la fuga di milioni di persone. LaMonuc ha conseguentemente avviato un programma di smantellamento forzatodelle circa sette milizie che si fronteggiavano nella regione. L'operazione èsostanzialmente riuscita, visto che la maggior parte dei capi miliziani è stataarrestata e imprigionata, ma gli scontri nella regione continuano anche se conminore intensità.Un ulteriore fattore di destabilizzazione è costituito dai ribelli ugandesi del Lra(Lord’s Resistance Army) che dalle loro basi nel sud del Sudan sconfinanospesso nel Congo settentrionale, attaccando la popolazione in cerca di soldi eviveri. A inizio 2006 la Monuc si è scontrata più volte con i ribelli.

3.6.2.1Il Governo TransitorioIl governo transitorio di coalizione non ha compiuto grandi progressinell’avanzamento di leggi e riforme essenziali per la sicurezza e il rispetto deidiritti umani. L’autorità del governo è rimasta debole o inesistente in diversezone orientali della Repubblica Democratica del Congo (RDC) che si sono difatto trovate sotto il controllo di gruppi armati. Sono continuate le tensioni inter-etniche, l’insicurezza e le violazioni dei diritti umani, comprese uccisioni illegali,

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stupri diffusi, torture, reclutamento e impiego di bambini soldato. Il governo e lacomunità internazionale hanno compiuto ben pochi sforzi comuni per dare unarisposta alle immense necessità di una popolazione civile segnata dalla guerra.Secondo il Comitato Internazionale di Soccorso, a causa del conflitto sonomorte circa 31.000 persone ogni mese. I sopravvissuti a violazioni dei dirittiumani hanno avuto scarso, se non nullo, accesso alle cure mediche.Il governo di transizione, costituitosi nel luglio 2003 e composto darappresentati di tutti i gruppi belligeranti firmatari dell’Accordo di pace del 2002,è stato tormentato da conflitti interni e da una serie di crisi politiche e militari. Ilgoverno ha compiuto solo progressi limitati nel miglioramento della sicurezza edel rispetto per i diritti umani e non è riuscito a estendere la propria autorità amolte zone orientali della RDC, dove permangono situazioni di instabilità eviolenza localizzata, che minacciano di sfociare nuovamente in conflitto aperto.Sono stati compiuti alcuni progressi, benché lenti, nell’approvazione di riformeessenziali per migliorare la sicurezza e l’unificazione nazionale. Sono statiprogrammati piani per l’integrazione degli ex combattenti in un esercitonazionale unificato, e per il disarmo, la smobilitazione e il reinserimento nellavita civile di circa 200.000 altri combattenti, ma a fine anno pochi di questiprogrammi, che avrebbero dovuto beneficiare di finanziamenti e assistenzatecnica internazionale, erano stati avviati. Solo il capo di Stato maggioredell’esercito e altri ufficiali di alto rango, e una sola brigata dell’esercito eranostati integrati nel corso dell’anno. A maggio le cariche di governatore provincialesono state suddivise tra i partiti. A settembre è stato lanciato nel distrettodell’Ituri un programma pilota di disarmo, smobilitazione e reinserimento.Tuttavia, a fine anno soltanto un numero esiguo dei circa 15.000 combattentidel distretto erano stati smobilitati. Si ritiene che i capi dei gruppi armati abbianosottoposto a intimidazioni i combattenti per impedire loro di partecipare alprocesso di disarmo, smobilitazione e reinserimento nell’Ituri.

Alcune leggi chiave riguardanti la nuova Costituzione e l’organizzazione delleelezioni nazionali sono state rinviate e a fine anno non erano ancora stateapprovate dal parlamento. Una legge che definisce la nazionalità congolese èstata promulgata in dicembre.Si è avuta notizia di tentativi di colpo di Stato a Kinshasa nei mesi di marzo egiugno, sebbene permangano dubbi circa l’attendibilità della notizia. Il primotentativo è stato attributo a ufficiali mobutisti delle ex Forze armate dello Zaire(Forces armées zairoises – FAZ), che erano fuggiti nel Congo-Brazzaville nel1997. Il secondo tentativo sarebbe stato opera di un ufficiale della Guardiaspeciale di sicurezza presidenziale (GSSP).Il protrarsi della crisi militare e politica, con epicentro nelle strategiche provincedel Kivu ai confini col Rwanda, ha rischiato di far fallire il processo ditransizione. A febbraio, nel Kivu del sud, soldati del Raggruppamentocongolese per la democrazia-Goma (Rassemblement congolais pour ladémocratie-Goma – RCD-Goma) si sono opposti con la forza all’autorità delcomandante regionale nominato dal governo. Lo stallo che ne è risultato èculminato in giugno in uno scontro militare tra le forze filogovernative ribellidell’RCD-Goma per il controllo di Bukavu, capitale della provincia. I civili sonostati presi di mira da entrambe le fazioni. Violente dimostrazioni in tutta lanazione, dirette soprattutto contro le forze di peacekeeping delle Nazioni Unitee gli avamposti governativi, hanno seguito la presa di Bukavu da parte delle

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forze ribelli dell’RCD-Goma. Le tensioni etniche fra i vari gruppi presenti nellaregione, deliberatamente manipolate da alcuni capi-fazione, hanno subito unarapida escalation. Ad agosto più di 150 rifugiati tutsi, per lo più congolesi, sonostati massacrati a Gatumba, nel Burundi (vedi Burundi). Sempre ad agosto,l’RCD-Goma ha sospeso temporaneamente la propria partecipazione algoverno. La maggior parte delle forze ribelli dell’RCD-Goma si sonosuccessivamente riorganizzate nel Kivu settentrionale, dove hanno continuatoad agire in aperta sfida all’autorità centrale. A fine anno la crisi non era ancorastata risolta quando nuovi combattimenti si sono verificati a Kanyabayionga(Kivu settentrionale) fra soldati filo RCD-Goma e l’esercito nazionale.A ottobre la RDC, il Rwanda e l’Uganda, i principali protagonisti del conflittonella RDC, hanno firmato un accordo di sicurezza tripartito e hanno istituito unacommissione per affrontare i problemi relativi alla sicurezza comune. La sfiduciafra questi Stati è tuttavia rimasta la dinamica regionale prevalente. Il Rwanda haminacciato tre volte di rinnovare le proprie operazioni militari nella parteorientale della RDC, citando (in giugno) la necessità di proteggere i tutsicongolesi dalla violenza etnica e (in aprile e novembre) la necessità dicontrobattere la minaccia esercitata verso il Rwanda da forze ribelli rwandesibasate nella RDC orientale. Secondo fonti attendibili, unità dell’esercitorwandese sono entrate nella RDC in ciascuna di queste tre occasioni, sebbeneil governo rwandese abbia negato che ciò sia mai avvenuto. Il Rwanda avrebbeinoltre esercitato un certo controllo sulle forze armate dell’RCD-Goma nel Kivusettentrionale e meridionale.Le forze di peacekeeping delle Nazioni Unite (MONUC) hanno continuato acercare di contenere la violenza e a proteggere i civili nella parte orientale dellaRDC. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato a ottobre unaumento del dispiegamento da 10.700 a 16.600 unità, ma diverse zone orientalidel Paese sono rimaste al di fuori della capacità operativa della MONUC. Unembargo sulla vendita di armi imposto dalle Nazioni Unite nel luglio 2003 emonitorato dalla MONUC è stato di efficacia solo limitata. A luglio il Gruppo ditecnici esperti sulla RDC nominato dalle Nazioni Unite ha riferito che i gruppiarmati che operavano nella parte orientale della RDC ricevevano assistenzadiretta e indiretta, compresa la fornitura di armi e munizioni in violazionedell’embargo, sia da Paesi confinanti che dall’interno della RDC.A fine anno, secondo fonti della MONUC, il programma di rimpatrio volontario dicombattenti (soprattutto ribelli rwandesi), sotto la supervisione dalla MONUC,aveva rimpatriato circa 11.000 combattenti e i loro familiari verso il Rwanda, ilBurundi e l’Uganda. Tuttavia, molte migliaia di ribelli rwandesi e un numeroinferiore di burundesi e ugandesi sono rimasti nella RDC orientale, dove hannocontinuato a commettere abusi.Sono state riferite violazioni dei diritti umani in tutto il Paese. La situazione nellaparte orientale della RDC ha continuato ad essere particolarmente allarmante,in quanto sia i gruppi armati che le milizie hanno perpetrato gravi violazioni deidiritti umani contro i civili nelle province del Kivu settentrionale, Kivumeridionale, Maniema, Orientale (sopratutto nel distretto di Ituri ), KasaiOrientale e Katanga.

3.6.2.2Bambini soldato

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Decine di migliaia di bambini permangono nei ranghi dei gruppi armati e dellemilizie, che continuano a reclutare nuovi bambini soldato. In alcuni casi, exbambini soldato in corso di riabilitazione da parte di organizzazioni nongovernative locali nella RDC orientale sono stati reintegrati nei ranghi con laforza. Altri bambini hanno tentato di ritornare volontariamente a far parte digruppi armati nella prospettiva di ricevere pagamenti da parte del governo dellaRDC destinati a tutte le forze combattenti e di essere integrati nell’esercitonazionale.

3.6.2.3Violenza sulle donneNel corso del conflitto nella RDC, decine di migliaia di donne e ragazze sonostate vittime di stupro sistematico da parte delle forze combattenti. Durante tuttol’anno donne e ragazze venivano continuamente aggredite nelle proprieabitazioni, nei campi o durante lo svolgimento delle normali attività quotidiane.Molte hanno subito stupri di gruppo o sono state ridotte in stato di schiavitùsessuale dai combattenti. Sono stati anche segnalati stupri di uomini e ragazzi.Lo stupro veniva spesso preceduto o seguito dal ferimento deliberato, dallatortura o dall’uccisione della vittima. Alcuni stupri sono stati commessi inpubblico o di fronte a familiari della vittima, bambini compresi. Alcuni membridella MONUC, fra cui personale militare e di polizia, oltre che civili, si sono resiresponsabili di stupri o di sfruttamento sessuale di donne e ragazze.I diritti delle vittime sopravvissute allo stupro venivano ulteriormente violati,aggravando in tal modo la loro sofferenza. Le donne che avevano riportatoferite o contratto malattie a seguito dello stupro, in alcuni casi tali da metterne inpericolo la vita, si sono viste negare l’assistenza medica. Il sistema sanitariodella RDC, che in molte zone è completamente devastato, non è stato in gradodi offrire neppure le cure più elementari. A causa dei pregiudizi, molte donnesono state abbandonate dai mariti ed escluse dalla loro comunità, finendo colcondannarle assieme ai loro figli a condizioni di povertà estrema. A causa dellatotale inefficienza del sistema giudiziario esse non hanno potuto beneficiaredella giustizia né di risarcimenti per i crimini di cui erano state vittime.

3.6.2.4Tortura e detenzione illegaleArresti arbitrari e detenzioni illegali hanno continuato a essere frequenti in tuttala RDC. Molte persone hanno trascorso lunghi periodi in detenzione senzaaccuse né processo. Secondo quanto riferito, diversi hanno subito torture omaltrattamenti. Difensori dei diritti umani e giornalisti impegnati in legittimeinchieste e critiche sono anch’essi stati minacciati e detenuti illegalmente.

3.6.2.5Pena di morteFonti riferiscono che sarebbero circa 200 le persone nel braccio della morte.Sono state comminate almeno 27 nuove condanne. Non sono state riferiteesecuzioni.

3.6.2.6Giustizia internazionale e transizionale

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Ad ottobre la Corte penale internazionale (ICC) e il governo della RDC hannofirmato un accordo di cooperazione che permette all’ICC di iniziare le indaginisui crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi nel Paese.Investigatori dell’ICC hanno visitato l’Ituri, dove si sono concentrate le indaginiiniziali dell’ICC.L’impunità per i responsabili di violazioni dei diritti umani, e la mancanza dirisarcimento per le vittime, sono rimaste pressoché assolute. L’efficacia delsistema giudiziario congolese continua a essere inficiata dalla mancanza dirisorse umane e materiali, di adeguati meccanismi di tutela per le vittime e itestimoni, e dalla devastazione delle infrastrutture. L’unico caso di condanna èstato quello del comandante di un gruppo armato dell’Ituri, Rafiki Saba Aimable,a venti anni di detenzione per tortura da un tribunale di Bunia.

3.6.2.7Rifugiati e sfollatiA fine anno erano circa 2,3 milioni i civili che vivevano lontano dalle loro case,soprattutto nella parte orientale della RDC. Molti non hanno avuto accesso adalcun tipo di aiuto umanitario. In alcune zone i gruppi armati hanno impeditol’accesso ai volontari delle organizzazioni di soccorso, hanno attaccato iconvogli di aiuti, saccheggiato le derrate alimentari, o sequestrato i veicoli delleagenzie di soccorso.Le autorità congolesi non hanno adottato misure per assicurare l’incolumità e ladignità delle persone che rientravano nella RDC, rifugiati compresi.Fra il dicembre 2003 e il mese di aprile, decine di migliaia di congolesi sonostati espulsi con la forza dall’Angola verso la RDC. Molti erano estremamentedeboli a causa della disidratazione, della fame e delle lunghe marce affrontate.Gli espulsi hanno riferito di violazioni dei diritti umani verificatesi in entrambi iPaesi, e di essere stati oggetto di detenzioni e maltrattamenti da parte delleforze di sicurezza della RDC. A fine anno si trovavano nella RDC circa 40.000profughi.Tra settembre e ottobre rifugiati tutsi congolesi, tra cui donne e bambini, chefacevano ritorno dal Burundi nella provincia del Kivu meridionale, sono statiattaccati a colpi di pietra dalla locale popolazione non tutsi.

3.7ANGOLA

3.7.1SITUAZIONE ATTUALEPaese ricchissimo di diamanti e di petrolio al quale la comunità internazionalechiude un occhio sulla questione della povertà. Un Paese potenzialmentebenestante, che ha deciso di vendere il suo petrolio alla Cina perchédiversamente dalla comunità internazionale questa non ficca il naso sul livello didemocrazia e di rispetto di libertà civili e diritti umani. Quaranta anni di guerracivile alle spalle, l'intero territorio minato, la savana disabitata e ripopolata in unmodo fallito con le donazioni del Sudafrica, Luanda che da 500.000 cittadini sene ritrova 5 milioni.

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Il cessare del fuoco tra i ribelli dell’Unita e il governo nell’aprile 2002 (dopol'uccisione del leader dell'Unita, Jonas Savimbi) è rispettato ovunque enonostante qualche sporadico scontro la guerra si può dire conclusa. Negli anni2002-2003 in Cabinda si sono intensificati i combattimenti tra i separatisti delFlec e l'esercito governativo (che alla fine nel 2002 ha lanciato una massicciaoffensiva in seguito al disimpegno contro l'Unita). Le Forze Armate angolanesono accusate di condurre una sorta di guerra sporca in Cabinda, consistematiche torture contro i ribelli catturati e i civili sospettati dicollaborazionismo. Quella condotta in Cabinda è comunque una guerra a bassaintensità visto che gli scontri sono piuttosto sporadici, anche a causa dellascarsa capacità operativa dei ribelli.I rifugiati hanno continuato a far ritorno dai Paesi vicini. Il funzionamento, tra glialtri, dei servizi sociali, della giustizia nelle zone rurali distrutte dalla guerra sonorimasti inadeguati. Si sono registrate violenze a sfondo politico e repressione didimostrazioni non violente. Le violazioni dei diritti umani da parte dei soldati edella polizia nella regione di Cabinda e nelle zone di estrazione dei diamantisono continuate. Sono stati inoltre segnalati molti casi di violazioni dei dirittiumani compiute dalla polizia in altre parti del Paese. Almeno 500 famiglie sonostate sfrattate con la forza dalle proprie abitazioni.

3.7.1.1ContestoIl governo di unità nazionale, tra cui rappresentanti dell’ex opposizione armataUnione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (União nacional para aindependência total de Angola – UNITA), ha progredito nei suoi sforzi perridurre l’inflazione e si è proposto di combattere la povertà. Più di un milione dipersone hanno continuato a dipendere dagli aiuti umanitari per gliapprovvigionamenti alimentari.Il governo, in cooperazione con le Nazioni Unite, ha cominciato a gennaio asviluppare un piano nazionale d’azione per i diritti umani, il cui il lavoro eraancora in corso alla fine dell’anno. A Luanda è rifiorita una stampaindipendente, ma l’accesso all’informazione fuori della capitale è avvenutoprincipalmente attraverso la radio controllata dallo Stato. La Rappresentantespeciale delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani, Hina Dilani, ha visitatol’Angola ad agosto. La Rappresentante ha riconosciuto un accresciuto rispettoper i diritti umani, ma ha esortato il governo a ricostruire il sistema giudiziario ead essere più aperto verso la società civile.

3.7.1.2Rientro dei rifugiati

Il 25% della popolazione, in grande maggioranza donne e bambini, è rimastosfollato a causa del conflitto; il sistema dei servizi pubblici è ridotto in uno statodi grave decadimento; il massiccio esodo verso i centri urbani, conseguenzadello sfollamento delle popolazioni, ha contribuito a sottoporre i servizi sociali dibase a una pressione insostenibile, limitandone fortemente le possibilità diaccesso, a scapito, in primo luogo, delle fasce più povere e vulnerabili dellapopolazione. Su oltre 13 milioni di abitanti, il 60% risulta oggi concentrato nellearee urbane, con le popolazioni sfollate spesso ammassate in baraccopolifatiscenti, che crescono in modo incontrollato alle periferie dei grandi centri

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urbani; la situazione è addirittura peggiore nelle zone rurali, dove i servizi dibase sono stati distrutti durante la guerra e risultano oggi virtualmenteinesistenti; le vie di comunicazione sono in pessimo stato, a partire dai ponticrollati sino ai tanti territori densamente minati (terzo paese per presenza dimine antiuomo); oltre 3 milioni gli sfollati che stanno facendo progressivamenteritorno alle rispettive comunità di origine; l'Angola figura ancora agli ultimi postidella graduatoria ONU sullo sviluppo umano.Più di 90.000 rifugiati sono stati rimpatriati o sono tornati spontaneamente daiPaesi vicini. Strutture di governo deboli nelle zone di ricezione, mancanza discuole e cliniche e insufficienti fondi per approvvigionamenti alimentari, sementie attrezzi, hanno reso difficile il reinsediamento. L’inadeguatezza del sistemaper il rilascio di documenti di identità ha lasciato molti dei reinsediati senzaaccesso ai servizi sociali ed esposti a estorsioni e maltrattamenti da parte dipoliziotti e soldati preposti ai controlli sull’identità.

3.7.1.3Violenza politica

L’UNITA ha lamentato il fatto che membri del Movimento popolare per laliberazione dell’Angola (Movimento popular de libertação de Angola – MPLA),al governo, avevano attaccato i propri appartenenti e uffici in diverse zone.A luglio, dopo che l’UNITA aveva cercato di stabilire sedi di partito a Cazombo,nella provincia di Moxico, una folla in tumulto ha bruciato o saccheggiatoun’ottantina di case appartenenti a sostenitori dell’UNITA e ad altri che nonparlavano la lingua locale. La folla, secondo quanto riferito, incoraggiata dalleautorità municipali, avrebbe anche ferito una decina di persone. Sarebbero statischierati poliziotti non armati, ma questi non hanno poi fatto nulla per fermare laviolenza.

3.7.1.4Cabinda

La regione della Cabinda è ricca di petrolio (la quasi totalità dei giacimentiangolani è in Cabinda) e diamanti. Il governo ha dichiarato la fine deicombattimenti in questo posto, un’enclave dell’Angola situata tra la RepubblicaDemocratica del Congo (RDC) e la Repubblica del Congo. Tuttavia, circa30.000 soldati governativi avrebbero mantenuto una presenza repressiva,detenendo e assalendo persone sospettate di sostenere il Fronte per laliberazione dell’enclave di Cabinda (Frente de libertação do enclave deCabinda – FLEC), saccheggiando beni e raccolti e costringendo gli abitanti afuggire in altre zone.Operatori dei diritti umani hanno riferito che i soldati di stanza a Nkuto, nellamunicipalità di Buco-Zau, detenevano persone sospettate di sostenere il FLEC.Più di 60 donne sarebbero state detenute brevemente a gennaio e accusate difornire approvvigionamenti alimentari al FLEC. Alcune sono state picchiate.Mateus Bulo, di 66 anni, e sua figlia erano nel gruppo di persone arrestate amaggio. Mateus Bulo è stato oggetto di una finta esecuzione, per poi esserepicchiato assieme alla figlia con dei bastoni. Entrambi sono stati infine lasciatitornare ai loro campi.

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Membri di un’organizzazione della società civile Mpalabanda hanno presentatouna petizione per la pace, con migliaia di firme, alle autorità della città diCabinda a luglio. Ad agosto le due fazioni armate del FLEC, il FLEC Rinnovato(FLEC Renovada) e FLEC-Esercito di Cabinda (FLEC-Forças armadas deCabinda – FLEC-FAC), hanno annunciato che si erano unite sotto il nome diFLEC ed erano pronte per i colloqui di pace con il governo.

3.7.1.5Polizia

Sforzi per migliorare i rapporti tra polizia e comunità e programmi diaddestramento erano parte del Piano di modernizzazione e sviluppo2003/2007. Tuttavia, sono state segnalate frequenti violazioni dei diritti umaniperpetrate da poliziotti. Ufficiali d’alto rango hanno ammesso che eranoavvenuti eccessi, ma in molti dei casi in questione non sarebbe stata intrapresaalcuna azione disciplinare o penale.Tre uomini, Manuel do Rosario, Laurindo de Oliveira e Antonio Francisco,sarebbero “scomparsi” ad aprile dopo che erano stati arrestati a Luanda, colti inpossesso di un’auto rubata. I familiari, alla ricerca dei loro congiunti, hanno vistol’auto in questione parcheggiata alla stazione di polizia. A maggio i corpi dei treuomini sono stati rinvenuti in un cimitero non ufficiale nel sobborgo di Cazenga.La polizia ha esumato i corpi e ha avviato un’inchiesta, ma a fine anno nessunrisultato era stato ancora reso noto.Stando alle fonti, la polizia è ricorsa a un uso eccessivo della forza percontrollare dimostrazioni sia violente che pacifiche.A febbraio, una violenta protesta riguardante la fornitura di elettricità a Cafunfo,una città vicina alle miniere di diamanti nel nord dell’Angola, secondo fontiufficiali avrebbe causato almeno 3 morti. Fonti non ufficiali hanno invece riferitoche la polizia aveva sparato indiscriminatamente, uccidendo più di 10 persone,compresi due adolescenti e il dodicenne David Alexandre Carlos, e ferendonecirca altre 20. Diciassette manifestanti sarebbero stati poi tratti in arresto eaccusati di disobbedienza alle autorità, un reato punibile fino a 7 mesi dicarcere. Le richieste di cauzione non sono state garantite. Il processo è iniziatoa luglio, ma è stato sospeso e a fine anno non si era ancora concluso. Unodegli imputati, un quindicenne, è stato detenuto assieme ad adulti per diversimesi, prima che gli venisse data una sistemazione separata. Non sarebbe stataavviata alcuna inchiesta sulle denunce secondo cui la polizia sarebbe ricorsa aun uso eccessivo della forza.Le autorità di polizia hanno espresso preoccupazione per la mancanza dirispetto dei diritti umani, in particolare dopo che cinque persone erano mortesoffocate in una sovraffollata cella della polizia nella municipalità di Capendo-Camulemba nel nord dell’Angola, a dicembre. La polizia ha ucciso a colpid’arma da fuoco due persone di una folla di manifestanti che si erano radunatifuori dalla stazione di polizia. Sul caso la polizia ha aperto un’inchiesta.Ad ottobre, la polizia paramilitare ha disperso una dimostrazione pacifica controla corruzione, organizzata dal Partito per il sostegno democratico e il progressodell’Angola (Partido do apoio democrático e progresso de Angola – PADEPA),che chiedeva la pubblicazione dei rendiconti sul petrolio. A novembre la poliziaha disperso un altro raduno pacifico e ha arrestato per un breve periodo decinedi dimostranti. Sette sono stati portati in celle della polizia e hanno denunciato

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di essere stati picchiati per essersi rifiutati di firmare delle confessioni. Sonostati accusati di resistenza alle autorità, processati e assolti.Secondo quanto riferito, centinaia di persone sono state maltrattate dalla poliziaparamilitare e dai soldati tra il dicembre 2003 e il mese di gennaio, durante laprima fase di un’operazione per espellere gli stranieri che erano entrati neicampi di diamanti dell’Angola dopo la fine della guerra. Le vittime hanno riferitodi essere state tenute in dure condizioni fino a 3 mesi. Molti hanno denunciatodi essere stati picchiati, umiliati e di aver subito perquisizioni corporali nelle partiintime e di essere stati derubati. Alcune donne sarebbero state stuprate. Afebbraio il ministro dell’Interno ha ammesso che vi erano stati degli abusi. Lapolizia ha dichiarato che alla data di settembre erano stati espulsi più di300.000 stranieri.La polizia ha dichiarato che l’Organizzazione di difesa civile (Organização dadefesa civil – ODC), istituita durante la guerra, era stata abolita. Tuttavia,rapporti dettagliati hanno indicato come cellule dell’ODC fossero ancoraoperative, a volte affiancate dalla polizia e che gli abusi fossero da attribuirsi amembri del personale.

3.7.1.6Disponibilità di armi

Il tasso di criminalità è rimasto alto, alimentato dalla diffusa disoccupazione edalla disponibilità di armi. Circa un milione di persone sono in possesso di armiillegali. A luglio è stata istituita una commissione nazionale per evitare il trafficodi armi leggere e di piccolo calibro. Le organizzazioni non governative (ONG) ele chiese hanno incoraggiato la gente a consegnare le armi e la polizia el’esercito ne hanno sequestrate migliaia.

3.7.1.7Diritti economici, sociali e culturali

I piani del governo provinciale di Luanda di chiudere i mercati abusivi eclandestini vicini al centro della città e di sostituirli con altri, soprattutto neisobborghi di periferia, ha messo a repentaglio la sussistenza di molte persone. Icommercianti hanno protestato dopo che il mercato di Estalagem era statochiuso a marzo, a quanto pare senza preavviso e prima che venissepredisposto uno spazio alternativo. Alcuni dimostranti hanno usato violenza e lapolizia ha reagito con modalità che avrebbero implicato un uso eccessivo dellaforza, uccidendo tre persone.L’Assemblea Nazionale ha approvato leggi sullo sviluppo urbano e territorialerispettivamente a marzo e ad agosto. Le ONG avevano presentatoraccomandazioni dettagliate durante la stesura della bozza e avevano espressopreoccupazioni riguardo al fatto che le nuove leggi non sarebbero state in gradodi fornire un’adeguata garanzia di occupazione per i gruppi svantaggiati, chevivono in insediamenti urbani abusivi e in zone comunali tradizionali.Almeno 500 famiglie residenti a Luanda, in zone destinate allo sviluppo, sonostate sfrattate senza un adeguato preavviso o risarcimento. Centinaia di altresono state minacciate di sfratto. Molte sono stati rialloggiate in zone remoteprive di comodità, scuole o cliniche. Alcune famiglie hanno dovuto condividerele case e alcune hanno perso i loro orti. Le ultime di circa 4.000 famiglie

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alloggiate in tende dal loro sfratto da Boavista nel 2001, sono state fattespostare in nuove case a Viana.A settembre, più di 1.100 persone sono state sfrattate da 340 case aCambamba e Banga Ué, a Luanda Sud, senza preavviso. Una ditta dicostruzioni civili e una squadra militare di costruzione hanno demolito le case,sotto la scorta di 50 poliziotti armati pesantemente. La maggior parte deglisfrattati sono rimasti nella zona senza riparo.Sempre a settembre, la mancanza di terra e la siccità nel sud-est dell’Angolahanno portato a un conflitto tra due gruppi di allevatori nomadi, conflitto in cuiavrebbero perso la vita quattro persone. La chiusura di vasti appezzamenti diterra per le coltivazioni commerciali aveva fatto accrescere la tensione riguardoalla terra restante e alle risorse idriche.

3.7.1.8Donne e bambini

Il rapporto del governo sui diritti delle donne, presentato a giugno al Comitatodelle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione contro le donne, hariconosciuto che la protezione legale per le vittime della violenza domestica erastata inadeguata e che la polizia si era dimostrata insensibile al problema.La condizione dell'infanzia è uno dei fattori più preoccupanti dell'attuale stato disalute dell'Angola: su una popolazione di 13.184.000 abitanti, oltre 7 milionihanno meno di 18 anni, 2.609.000 meno di 5 anni. L"Angola è il terzo paese almondo per mortalità infantile, con 260 bambini che, ogni 1.000 nati vivi, nonraggiungono il quinto anno di vita; sotto l'anno di età siamo su una statistica di154 bambini morti ogni 1.000 nati vivi. 1.800 donne, ogni 100.000 parti,muoiano per complicazioni legate alla gravidanza o al parto stesso. La malariaè responsabile del 76% della mortalità infantile, mentre la seconda minaccia èl'AIDS. Altro grave problema legato all'infanzia tocca il settore dell'istruzione,con oltre un milione di bambini che non frequentano la scuola. Tanti tra i piùpiccoli infine sono orfani o hanno subito la separazione forzata dalla guerra daipropri genitori. La speranza di vita media è di appena 40 anni, il reddito annuopro capite di soli 660 dollariA settembre 2005 il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia haesaminato il rapporto iniziale dell’Angola sui diritti dei minorenni. Il Comitato haapprezzato i progressi ottenuti in alcune aree, ma ha auspicato, tra le altrecose, una maggiore protezione legale dei minorenni e l’istituzione di unorganismo nazionale sui diritti umani indipendente.

La questione del Saharawi

Prefazione storica

Il Sahara Occidentale, ex Sahara spagnolo, è il territorio situato nel Nord Ovest delcontinente africano, con una superficie di 266.000 kmq, confina a Nord con il Marocco,a Nord Est con l'Algeria, a Sud e Sud Est con la Mauritania e a Ovest con l'OceanoAtlantico, anche se risulta difficoltoso stabilire esattamente l'estensione del SaharaOccidentale a causa dell'imprecisione della sue frontiere. Lo stesso Governo spagnolo

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non conosceva con esattezza il suo territorio coloniale, e la prova è data dallediscrepanze dei dati forniti da alcuni dei suoi organi ufficiali: il Ministero di Informazionee Turismo stimava che la superficie fosse di 278.000 kmq.; per il Ministero di AffariEsteri per di 280.000 kmq… Certamente la differenza non è molta, ma questaimprecisione generale caratterizzerà sempre le conoscenze che abbiamo del SaharaOccidentale e del suo popolo. Per molto tempo le popolazioni nomadi nel territorioignorarono questi confini artificiali ma, a partire dagli inizi di questo secolo, sonodiventati oggetto di un'attenta sorveglianza da parte della polizia coloniale. Le frontieredivennero allora ben reali per quelle popolazioni ma ancora oggi, sono oggetto dicontenzioso, per le particolare vicende legate alla decolonizzazione della regione. Lapopolazione appartiene al complesso delle tribù Saharawi. Organizzate da secoli inmodo autonomo, con forme proprie di lingua, cultura e organizzazione sociale, nomadifino a tempi recenti. Prima dell'arrivo degli spagnoli le tribù erano numerose, 40secondo la tradizione riunite in una confederazione.

Il Sahara Occidentale ha una storia lunga e difficile, ma senza di essanon si riuscirebbe a capire perché oggi esso è l’ultimo paese africano ad nonaver ancora ottenuto l’indipendenza formale e sostanziale, una questione chetutt’oggi blocca il processo di integrazione dell’area maghrebina. Il SaharaOccidentale è il cuore delle comunicazione tra Marocco, Algeria e Mauritania, e,quindi, la stabilità e la convivenza pacifica tra i popoli di questa zona è unapriorità assoluta sia nei rapporti interni all’Africa settentrionale, chenell’instaurazione dei rapporti euromediterranei. Il Sahara Occidentale è vittimadi gravissime violazioni dei diritti umani , al tal punto da essere oggetto dicontinui pareri e risoluzioni dell’ONU da determinare la mediandone dell’OUA,ecc. La storia del Sahara Occidentale è davvero particolare e si considerassevera l’affermazione di Rajab Ali, cioè, che “L’ ex Sahara Spagnolo è la regionepiù triste, la più desolata, la meno abitata e la più arida di queste terresahariane” non ci riusciremmo mai a spiegare perché dal 1884 ad oggi laquestione del Sahara Occidentale non è ancora risolta, perché essa hacoinvolto l’interesse di paesi occidentali, quali Spagna, Francia e indirettamenteStati Uniti e paesi africani quali Algeria, Marocco, Mauritania, Libia, Tunisia. Ilmotivo è chiaro il Sahara Occidentale è un importante nodo strategico nelmediterraneo ed è anche, a differenza di quello che può sembrare, una terraricca di risorse.

Cosa è successo nel Sahara Occidentale, chi è il popolo saharawi?Abitato dai berberi divisi in due gruppi rivali, i Sanhaja e i Veneti, fu invaso dagliarabi per tutto il periodo che va dal VII al XII secolo, tale evento determinòl’adozione della lingua araba. All’inizio del XII secolo la popolazione saharawisubì l’invasione marocchina, ma l’evento che ha segnato la vita dei saharawi èla colonizzazione spagnola iniziata nel 1884-1885, anno della conferenza diBerlino in cui gli stati europei si spartirono a tavolino il continente africano,disegnando pertanto lo stato con i confini più artificiali del continente africano, ilSahara Spagnolo. La presenza spagnola, durata meno di un secolo, ha avutoun’importante influenza sia nella costituzione del popolo saharawi sia nelladefinizione delle frontiere del Sahara Occidentale. Esse vennero confermate edefinite a Parigi nel 1900 e nel 1904 e poi a Madrid nel 1912 . Pertanto, la partenord fino al parallelo 27°40’ andava sotto il protettorato marocchino, mentrel’altra parte più a sud, che comprendeva la Suguia el Hamra e il Rio de Oro,formava il Sahara Spagnolo ed aveva lo statuto di colonia della Spagna . Fu

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solo verso la fine degli anni cinquanta, quando furono scoperti i giacimenti difosfato nella città di Bu Craa, che la Spagna si interessa al Sahara Occidentaleinsieme all’Algeria, alla Mauritania e agli Stati Uniti e soprattutto al Marocco, ilquale una volta raggiunta l’indipendenza nel 1956, punta alla realizzazione delprogetto espansionistico definito del “Grande Marocco”, nel quale rientrano ilSahara Occidentale, le Canarie e anche porzioni di stati già indipendenti comeil Mali, l’Algeria, il Senegal e la Mauritania: A differenza delle altre, lerivendicazioni sul Sahara Occidentale si protrarranno fino ai giorni nostri,nonostante la spagnolizzazione del Sahara Occidentale continuasse in modosempre più costante. Fondamentale in questo periodo è la prima risoluzione afavore dell’indipendenza del popolo saharawi, emanata dall’AssembleaGenerale delle Nazioni Unite nel 1963, sulla scia della risoluzione 1514 del1960, che chiedeva alla Spagna di liberare il Sahara Occidentale per lasciareche il popolo saharawi potesse decidere liberamente del proprio destinoattraverso lo strumento del referendum. Nel frattempo, infatti, la popolazionesaharawi si era organizzata. Il primo nucleo indipendentista è quello di Ma’ elAinin e dei suoi figli che, contrari al colonialismo europeo, decisero di stabilirenel lontano 1885 un polo di potere nazionalista nella città di Smara. In seguitonasce nel 1968 intorno a Mohammed Sidi Ibrahim Basiri, un giovane giornalistasaharawi, un Movimento di Liberazione del Sahara (MLS), che però a causadella morte del suo stesso capo durante una repressione spagnola, si scioglienel 1970. Un altro gruppo si forma in Marocco tra studenti saharawi, dove agliinizi degli anni settanta, si forma un nucleo intorno a El Ouali Mustafa Sayyed,che insieme a Mohammed Ould Ziou matura la decisione di fondare unmovimento armato di liberazione del Sahara Occidentale. Ed è così che il 10maggio del 1973 si costituisce il Fronte Polisario (Fonte Popolare di Liberazionedel Saggia el Hamra e Rio de Oro) che lotterà contro il colonialismo e che dal1974 si prefiggerà come obiettivo principale l’indipendenza dalla colonizzazionespagnola. Nel frattempo la visione del Grande Marocco si era di gran lungaridimensionata, anche se con scontri violenti. A differenza di tutte lerivendicazioni marocchine, quella sul Sahara Occidentale non verrà maiabbandonata ed, in particolare in concomitanza con un periodo di crisi interna,re Hassan decide, anche per restaurare il prestigio del suo Regno, di invadere ilSahara Occidentale, operazione considerata non di conquista di un territorio(operazione prettamente coloniale contro cui il Marocco aveva lottato) ma direcupero di un territorio, naturale prolungamento geografico, culturale, politico,storico del Regno del Marocco. Ovviamente ciò scatenò le reazioni dei paesilimitrofi. L’Algeria considera quest’espansione marocchina un attentato alla suasicurezza, e a differenza della Mauritania, non rivendica il territorio del SaharaOccidentale, ma sostiene da allora il principio all’autodeterminazione del popolosaharawi. Ma l’evento chiave che determinerà un cambiamento nel SaharaOccidentale e nella vita dei saharawi, sarà l’accordo di Madrid del 14 novembredel 1975, che sancirà: il disimpegno della Spagna, la spartizione del SaharaOccidentale, (la parte meridionale andava al Marocco e la parte settentrionalealla Mauritania), l’inizio dell’esodo del popolo saharawi, con la reazioneimmediata del Fonte Polisario. Esso di fronte la notizia di spartizione del SaharaOccidentale, il 28 febbraio1976 proclama, infatti, insieme al Consiglio nazionalesahariano la nascita della RASD (Repubblica Araba Saharawi Democratica).

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Il popolo saharawi per sfuggire al genocidio, da allora, si rifugerà neldeserto algerino in prossimità di Tindouf, dove ancora oggi vive buona parte delpopolo saharawi. L’occupazione marocchina verrà camuffata dalla “marciaverde”, che vedrà il trasferimento di un ampia fetta della popolazionemarocchina. Questo momento rappresenterà secondo Barbier Maurice “unafrattura brutale e profonda” nella storia del popolo saharawi. Da questomomento in poi, infatti, non solo le condizioni umane di vita saranno a dir poco,ma il lavoro, l’opera di diffusione, di radicamento del senso di appartenenzaculturale, di comunanza socio-politica che si costruisce naturalmente all’internodi una nazione con una base territoriale compatta, diventerà difficile,spezzettata, faticosa, e spingerà la comunità saharawi a cominciare a sognare,ad immaginare di essere una nazione compatta, nell’attesa di potersi costituiresu un unico territorio come tale. Ma spesso la forza dell’immaginazione, come ciinsegna Anderson, può essere fondamentale nel processo di costruzione diidentità. Ora, infatti, il popolo saharawi si trovava diviso in tre: una parte vivevanel territorio occupato dai marocchini (ad ovest del muro), una parte nelterritorio liberato dal Fronte Polisario (ad est del muro) l’altra in esilio,soprattutto nei campi profughi algerini. La RASD fu immediatamentericonosciuta da una serie di paesi, ad oggi 74, tra i quali l’Algeria, il cui supportosarà fondamentale non solo dal punto di vista logistico, vista la presenza disaharawi a Tindouf, ma anche dal punto di vista militare. Nel frattempo laMauritania, a causa dell’onere economico dell’occupazione, della costanteguerriglia portata avanti dal Fronte Polisario, dell’assenza di una realecontropartita e di fronte, anche, ad un colpo di stato che depone il presidenteOuld Daddach, all’assunzione del potere da parte del colonnello Mustafa OuldMohammed Salek, procedeva il 25 agosto del 1979 ad un accordo di pace conil Fonte Polisario firmato ad Algeri, in base al quale la Mauritania si ritirava dallezone occupate. E’ di fronte a questa scelta che il Marocco decideva diestendere ancor di più il controllo sul Sahara Occidentale, attraverso “lastrategia dei muri”, lunghi 2500 km che racchiudono 200.000 kmq di territorio.

Ad accelerare il processo di riconoscimento internazionale della RASD edell’autodeterminazione del popolo saharawi sarà l’OUA, che nel 1979,attraverso l’istituzione del “comitato dei sette” o dei saggi, decide di elaborareun piano di pace che sancisce il diritto all’indipendenza eall’autodeterminazione del popolo saharawi ed impernia la sua decisionesull’istituzione di un referendum, garantito da una forza di pace dell’ONU, cherecepisce questo input considerando il Fronte Polisario “ il rappresentante delpopolo saharawi” . E’ poi nel febbraio del 1982 che la RASD è ammessa come51° membro dell’OUA, nonostante il boicottaggio della decisone da parte delMarocco e di altre diciotto delegazioni. Ma l’OUA seguì il suo principio chiave,cioè quello dell’intangibilità delle frontiere coloniali, frontiere che il Maroccoaveva violato, ciò provocherà l’uscita del Marocco dall’OUA. Sarà la comunitàinternazionale che tra il 1990 e il 1991, ribadendo il principio diautodeterminazione del popolo saharawi in diverse sedi porteràall’approvazione, nel 18 maggio del 1991 con una risoluzione 690/91 de lConsiglio di Sicurezza, del primo piano di pace che oltre ad una serie diclausole prevedrà la formazione della MINURSO (Missione Internazionale delleNazione Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale). L’attuazione delreferendum era prevista per il 26 gennaio del 1992 e la missione aveva il

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compito di garantire il cessate il fuoco e, tra le varie clausole, la determinazionedel corpo elettorale saharawi. Sarà questa un’opera difficilissima a causadell’ostruzionismo del Marocco, per la difficoltà di identificazione delle personeche alla fine del periodo coloniale vivevano nel Sahara Spagnolo, anche acausa della seconda marcia verde organizzata dal Marocco, alla qualeprendevano parte tra 150.000 e 200.000 coloni marocchini portando a 1 a 7 ilrapporto marocchini/saharawi. Quello che è avvenuto è stata unasottovalutazione del problema, si pensava di identificare il corpo elettorale in 20settimane e ma ancora nel 1996 non solo non si è ancora riusciti ad identificarei saharawi, ma nel 1996 si ha il blocco completo del piano di pace. Di fronte aquesta situazione di stallo il Segretario Generale Kofi Annan, nomina un inviatopersonale per il Sahara Occidentale, James Baker, ex Segretario di Statoamericano, che nel 1997 porta avanti le negoziazioni tra Marocco e Polisario,processo che sfocerà nell’Accordo di Huston, accordo che sposterà la data delreferendum al 7 dicembre 1998.

Il problema dell’identificazione è difficile da risolvere, esistono, infatti,tribù contestate che corrispondono a circa 65.000 persone, che non sonosaharawi, ma il Marocco vuole che vengano inserite nelle liste perché stanziatisisul territorio del Sahara Occidentale successivamente all’epoca coloniale. Nelgennaio del 2000 i votanti individuati erano 85.000, ma il Marocco hapresentato 150.000 ricorsi rendendo così di nuovo impossibile il referendum. Ilproblema è che oggi il Marocco non è più intenzionato a concederel’indipendenza e ha proposto la cosiddetta "terza via”, cioè fare del SaharaOccidentale una regione autonoma all’interno del Marocco. Ciò vieneistituzionalizzato attraverso il Piano Baker I del 2001, nel quale si propone alleparti l’accettazione di un Sahara Occidentale autonomo all’interno del territoriomarocchino. Tale decisone oltre ad essere rifiutata dal Fronte Polisario,determina anche una risoluzione S/RES/1359/2001 del Consiglio di Sicurezza,nel quale le Nazioni Unite, per il rispetto della norma di autodeterminazione deipopoli, sostanzialmente rigettano “la terza via”.

Baker ripresenta un nuovo piano, il piano Baker II, accettando almeno inparte le critiche del Polisario e dell’Algeria, garantendo ai Saharawi un’effettivaautonomia nel Sahara Occidentale nei cinque anni precedenti il referendum,con maggiori/migliori garanzie internazionali contro le interferenze del Marocco.Solo i Saharawi voterebbero per l’autorità ad interim (per 5 anni), anche se poitutti i residenti voterebbero nel referendum finale. Il Piano viene rifiutato dalMarocco e accettato dal Polisario Pertanto il mandato della MINURSO è statoprolungato fino a gennaio 2003. Il 23 Aprile 2004 il segretario generaledell'ONU, Kofi Annan, chiede al Consiglio di Sicurezza di prorogare il mandatodella missione nel Sahara Occidentale (MINURSO) di dieci mesi per cercare direalizzare un accordo con le parti che rallenta seriamente il processo. Ilprolungamento del mandato della MINURSO, è stato accettato fino al 28 difebbraio del 2005, ed è molto più lunga di quelle adottate nell'ultimo anno dalConsiglio di Sicurezza, normalmente di due o tre mesi .

Il problema è capire perché dopo 25 anni di lotte il Sahara Occidentale non siaancora indipendente. Una prima risposta va ricercata nelle risorse. Infatti, stantel’analisi di Alberto Castagnola, il Sahara occidentale sarebbe una delle coste

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più pescose dell’atlantico, sarebbe il quarto paese più ricco di fosfati al mondo,fosfati che in passato venivano trasportarti su un nastro mobile in territoriomarocchino (il quale era allora detentore dei 2/3 di produzione mondiale difosfati), sarebbe una meta ottimale per il turismo per la presenza di più di 100km di coste, per le risorse artistiche, al tal punto da far concorrenza alle isoleCanarie. Le ricerche continue della Spagna avevano, inoltre, portato allascoperta di idrocarburi, minerali tra i quali l’uranio. E’inoltre accertata lapresenza del ferro e del petrolio, d’oro, urano e cobalto. E’ anche accertata unavasta falda acquifera sotterranea. Insomma il Sahara Occidentale non solo nonè una terra povera e desolata e senza speranze, ma potrebbe addiritturaessere un importante nodo geostrategico all’interno dell’area maghrebina,tendenzialmente scarsa di alcune risorse come l’acqua.

Il problema del popolo saharawi non è solo quello di affermare la propriaesistenza, ma anche quello di non essere cancellato, non solo dagli atlanti,come si è detto all’inizio, ma anche fisicamente. Purtroppo una delle più grandiviolazioni che avvengono nel Sahara Occidentale è, infatti, la scomparsa, ilrapimento di saharawi in generale, tristemente famosi sono, infatti, idesaparecidos. Oggi si contano ancora 800 civili saharawi scomparsi. Di frontealla ricerca dei desaparecidos, Amnesty International è stata espulsa dalMarocco e la Croce Rossa Civile non ha accesso alle carceri. Le testimonianzedelle torture, delle umiliazioni nelle carceri segrete in Marocco sono tante edocumentate. La violazione dei diritti umani non avviene solo per idesaparecidos, ma anche per coloro che vivono all’interno dei muri (berm orabotu) dai quali non solo non possono uscire ma, ai quali, non possononeanche avvicinarsi, a causa della trincea che li circonda e a causa delle mineantiuomo, anticarro posizionate nei dintorni. Le fortificazioni sono dotate, inoltre,di radar e di postazioni militari ogni 4 km lungo il muro. A ciò si aggiunge anchela vita difficile nei campi, dovuta alla salinità, alla durezza del suolo, allasedentarizzazione forzata, che rappresenta un’esperienza di uno “Stato inesilio”, organizzato in quattro tendopoli che riprendono i nomi delle cittàsaharawi prima dell’invasione marocchina, una marocchinizzazione del Saharanon solo a livello militare ma anche e soprattutto a livello politico attuando oltread investimenti in alloggi, strade, edifici, un regime di repressione sullapopolazione civile. Le wilaya sono El Ayoun (che comprende le daira diHagunia, Tcera, Amgala, Dora, Guelfa e Bou Craa), Ausseer (con Bir Genduz,Zug, Myek, Tichla, Aguenit e La Guera), Smara (con Mahbes, Farsia, Tifariti, BirLehlu, Gderia, Hausa) e Dakhla (con Argub, Bir Enzaran, Ain Beda, Glabat alFula, Oumdreiga, Boujdour e Zarefia). Ogni comune, diviso in quattro quartieri,conta circa ottomila abitanti in gran parte donne, anziani e bambini. Oggi isaharawi lottano nel tentativo di ricostruire altrove uno Stato sahariano in nomedi un popolo.

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Sahara Occidentale: relazioni e interessi dei paesi esteri

L'inizio del conflitto nel Sahara Occidentale nel 1975 avvenne in unperiodo in cui la Guerra Fredda si combatteva ancora a pieno, su tutti i fronti e iconflitti internazionali erano giudicati e trattati non in concordanza con il dirittointernazionale, ma in funzione degli interessi delle due superpotenze (USA,URSS) e dei loro alleati.

Gli Stati Uniti e la Francia furono entrambi gli artefici principalidell'accordo tripartito del 14 novembre 1975 fra Spagna, Marocco e Mauritania.Valery Giscard d'Estaing, il Presidente francese, e Kissinger, Segretario degliAffari Esteri americano, con il re del Marocco Hassan II, riuscirono a convincereArias Navarro, Primo Ministro spagnolo, ad abbandonare l'idea avanzata dallaSpagna nel 1974, di organizzare un referendum per l'autodeterminazione delpopolo Sahrawi, e a dividere invece il territorio fra Marocco e Mauritania. Inquesto modo la Spagna avrebbe continuato a godere degli interessi economicinel Sahara (un terzo dei suoi giacimenti di fosfato ed accordi privilegiati per lapesca).

Gli americani, in quel momento, temevano uno Stato indipendente nelSahara Occidentale, perché avrebbe potuto costituire una minaccia per laNATO offrendo basi militari allo schieramento socialista; e inoltre volevanoallargare, attraverso le loro relazioni con il Marocco, il controllo sul mercatointernazionale del fosfato di cui il territorio è molto ricco.

Per quanto riguarda invece la Francia, interessi particolari la spingevanoa partecipare accanto agli USA alla ricostruzione dell'assetto dell'Africa nord -occidentale, dopo la decisione della Spagna di abbandonare il Sahara: laFrancia voleva coinvolgere la Mauritania nella questione del Sahara perassicurare il riconoscimento dell'indipendenza di questo paese da parte del redel Marocco, Hassan II, (che tempo prima l'aveva rivendicato), e propriol'accordo del 14 novembre 1975 rappresentò l'occasione per il manifestarsi diquesto riconoscimento dato che il Marocco in quel momento trattò la Mauritaniacome pari.

La Francia temeva sempre l'ambizione del re del Marocco nei confrontidella Mauritania, che costituiva (e costituisce ancora) una riserva importante diferro necessario all'industria francese. È noto che dopo tre anni la guerra avevamesso questo paese in ginocchio, costringendolo a rivolgersi ai suoi alleatichiedendo loro protezione; così la Francia mandò i suoi aerei sofisticati di allora(Jaguar), stanziati in Senegal, per combattere le Unità militari del Polisario(Tmemichat, dicembre 1977), mentre il Marocco mandò nel 1977-78, circa 8000soldati per proteggere le città del Nord della Mauritania, contro gli attacchi delPolisario, soldati che sono stati ritirati su richiesta della Mauritania nel Marzo1979.

La presenza delle truppe marocchine sul territorio mauritano erapreoccupante per la Francia, perché temeva che diventasse un ombrello perqualsiasi tentativo da parte del Marocco di rovesciare il regime della Mauritania,appena installato dopo un colpo di Stato (il 10 luglio 1978), e che il Marocco

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potesse sostituirlo con un governo fantoccio. Uno scenario che, se si fosserealizzato, avrebbe portato alla fusione della Mauritania con il Regno delMarocco, progetto ispirato dalle idee d'Alal Alfasi. Per la Francia avrebbesignificato la messa in pericolo dei suoi interessi in Mauritania e anche nei paesivicini: entrambi, infatti, il Marocco e la Mauritania, erano stati domini francesi,ma la Francia avrebbe preferito comunque continuare a gestire il suo rapportocon questi paesi in modo separato, e non sarebbe stata tanto meno disposta avedere un Marocco esteso dal mare Mediterraneo fino al confine del Senegal,soprattutto dopo che i vari tentativi, negli anni '70, di colpo di Stato da partedell'esercito marocchino contro il re, Hassan II, avevano dimostrato che ilregime del Marocco avrebbe potuto essere rovesciato da un momento all'altro.Quindi davanti all'incertezza del futuro politico di questo paese, una Mauritaniaindipendente rappresentava l'ideale per gli interessi della Francia; e dato che laMauritania non poteva continuare la guerra, la soluzione adeguata alleesigenze francesi comprendeva la fuoriuscita della Mauritania dal conflitto, e ilritiro delle truppe marocchine. Così andarono le cose, la Francia evitò i rischitemuti, e garantì alle sue industrie il flusso del ferro dai giacimenti dellaMauritania.

Per quanto riguarda la posizione della Francia circa le pretese delMarocco sul Sahara Occidentale, la sua strategia d'appoggio al Marocco sibasava su: l'esclusione della presenza di uno Stato di lingua spagnolo pergarantire la continuità fisica del dominio francofono; garantire gli interessi deifrancesi residenti nel Marocco che gestivano una quota considerevoledell'economia di questo paese; mantenere il ruolo che il Marocco svolgeva nelleoperazioni militari francesi in Africa (molteplici erano stati gli interventi nelloZaire, Benin e Guinea Equatoriale); continuare a considerare il Marocco qualeponte assolutamente necessario per qualsiasi integrazione fra Europa e NordAfrica.

Per l'Occidente, il Regno del Marocco era un paese molto importantenella strategia della NATO: la sua posizione geografica aveva all'epoca delbipolarismo un'importanza particolare perché insieme alla Spagna e alle sueisole Canarie, costituiva il "triangolo della Sicurezza" all'entrata delMediterraneo dove operava, e opera, la Sesta Flotta.

Altri elementi a vantaggio del Marocco furono:

- la presenza delle basi aeree americane, vitale per qualsiasieventuale intervento del Rapid Deployment Force nel MedioOriente.

- la sua apertura verso Israele- la sua posizione nell'era della Guerra Fredda come barriera

contro l'espansione del comunismo.

Queste furono le ragioni per le quali la stabilità del Regno era una prioritànelle strategie degli importanti paesi occidentali; così quando il Marocconon riuscì a resistere agli attacchi durissimi del Polisario nei primi annidella guerra, Peter Duignan, esperto dell'Africa nell'influente Hoover

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Institution, chiese al governo americano di aiutare il Maroccosostenendo: " Gli Stati Uniti dovranno provvedere con soldi, armi ealimentari per aiutare il Marocco nella sua lotta contro il Polisario.Mantenere il Marocco ben vigilato e stabile comporta questo prezzo".

Durante la guerra contro il Polisario, il Marocco ricevette armi da USA,Francia, Belgio, Regno Unito, Spagna, Italia ed Egitto, e aiuti finanziari edenergetici dai paesi arabi quali Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait e Iraq.

Per quanto riguarda l'Unione Sovietica, la sua posizione nella regioneera piuttosto debole: forniva le armi all'Algeria, e collaborava nel campo dellaformazione militare di questo paese, mentre le sue relazioni economiche eranoper il resto poco rilevanti, in quanto gli impianti industriali algerini erano staticostruiti grazie alla collaborazione di RFT, Giappone e Stati Uniti.

Il Fronte Polisario, a differenza dagli altri movimenti di liberazione, nonha avuto legami stretti con l'URSS, nonostante la provenienza sovietica di granparte delle armi usate dai suoi soldati, che furono ottenute indirettamentetramite altri paesi come la Libia (fino al 1984), l'Algeria e l'ex Yugoslavia (fino1989). L'Unione Sovietica, dal lato suo invece, faceva grandi sforzi perinstaurare le sue relazioni economiche e politiche con il Marocco, relazioni cheriuscì a intensificare dopo il 1974, concludendo accordi di cooperazioneparticolari nel campo dell'importazione del fosfato, tantochè, nel 1978, ilMarocco era diventato il suo primo partner in Africa .

Si può affermare che il Marocco, al momento dell'occupazione delSahara Occidentale, nel novembre 1975, non temeva nessuna reazione daparte del Consiglio di Sicurezza, perché contava sull'appoggio delle potenzeoccidentali (Francia, USA, Regno Unito) che preferivano un Sahara controllatoda un paese amico dell'Occidente, sapeva che l'URSS era interessatamaggiormente ai rapporti economici con lui piuttosto che alla nuova situazionenella regione nord - africana, e che la Cina, appena insediatasi nel seggiopermanente, al Consiglio di Sicurezza, sarebbe stata molto cauta non essendopronta ad intromettersi in conflitti regionali tanto lontani dai suoi impegni geo-strategici.

Le Nazioni Unite si trovavano sotto l'influenza dell'era bipolare e questospiega perché la Quarta Commissione delle Nazioni Unite approvò il 4dicembre 1975, due proposte di risoluzione, una favorevole al Marocco e allaMauritania, l'altra all'autodeterminazione per il popolo Sahrawi, l'adozione dellequali aveva raccomandato all'Assemblea Generale. La prima proposta da AfricaCentrale, Gabon, Gambia, Giordania, Oman, Senegal, Togo e Tunisia, dava ilbenvenuto all'accordo di Madrid, e invitava al rispetto del principiodell'autodeterminazione usando però il termine della "popolazione" includendocioè anche i partecipanti alla "Marcia Verde". La seconda risoluzione che invecefu presentata da 27 paesi, richiedeva il rispetto del diritto inalienabiledell'autodeterminazione del popolo Sahrawi, riaffermava la responsabilità dellaSpagna come ex- amministratrice del territorio e la invitava a prendere tutte lemisure necessarie che permettessero al popolo del territorio di decidere il suofuturo tramite un referendum sotto la vigilanza delle Nazioni Unite.

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Il Consiglio di Sicurezza si limitò a invitare il Marocco a ritirare dalterritorio del Sahara Occidentale tutti i partecipanti alla "Marcia Verde".

Durante l'era del bipolarismo, il conflitto del Sahara Occidentale quindirestava nell'agenda secondaria delle Grandi Potenze, e perciò non fu regolatononostante la sua presenza nell'agenda delle Nazioni Unite fin dagli anni '60.

Dopo il crollo del sistema sovietico e la caduta del muro di Berlino (1989-1991), gli Stati Uniti adottarono una nuova politica che mirava al controllo di tuttigli spazi strategici possibili nel mondo. Nella prima metà degli anni '90 gli StatiUniti erano impegnati nelle zone di tensione più importanti in base alla lorostrategia: il Golfo con la questione dell'Iraq-Kuwait, i Balcani, il Corno d'Africa(guerra di Somalia) e il Medio Oriente. Ma questo non ha escluso l'estensionedi nuovi piani strategici ad altre zone che non erano al centro della loro politicaestera nel passato, e per la precisione in quell'Africa tradizionalmente divisa neidue domini, britannico e francese.

La Francia, dopo la fine del sistema bipolare, fu uno dei promotoriprincipali della spinta verso l'accelerazione del processo di costruzionedell'Europa unita, allo scopo di farne un attore di primo piano nella scenainternazionale, capace di contribuire alla pace e alla stabilità nel mondo, cioèun'Europa non intesa soltanto come zona di libero scambio.

In questo senso si possono leggere l'attuazione del partnershipeuromediterraneo, lanciato a Barcellona nel 1995, e l'intenzione di crearerapporti di fiducia e di buon vicinato, di incoraggiare lo sviluppo in tutto ilMediterraneo, nonché il sostegno alle iniziative dell'Unione Europea a favoredell'integrazione regionale (ad esempio tra i paesi del Maghreb).

Semplicemente la Francia non ha gradito la gestione quasi unilateraledelle questioni mondiali da parte degli Stati Uniti, e per questo sta seguendo,con la Germania, una politica che, secondo le sue dichiarazioni, mira adinstaurare un ordine mondiale più equo, caratterizzato dalla presenza di unsistema multipolare fondato sulla diplomazia preventiva e sulla regolazionepacifica dei contenziosi .

Nel contesto della nuova politica americana, la Francia sentì la necessitàdi cambiare la sua politica applicata nel Continente africano: il Primo MinistroLionel Jospin, durante una visita in Mali il 22 dicembre 1997, dichiarò che " laFrancia ha l'intenzione di abbandonare il suo ruolo paternalista in Africaassunto durante gli ultimi trent'anni". Questo nuovo orientamento della politicafrancese divenne particolarmente urgente con l'aumento dell'attenzioneamericana verso l'Africa. La visita del Presidente americano, Bill Clinton, adalcuni paesi africani (Botswana, Ghana, Ruanda, Senegal, Sud Africa eUganda) nel marzo 1998, ha suscitato la cautela della Francia sulle nuovemosse degli Stati Uniti. Subito dopo anche il Presidente francese JacquesChirac si è recato nel continente nero per consolidare le relazioni francoafricanee avviare la nuova politica annunciata dal Primo Ministro, Lionel Jospin, l'annoprima. Questa politica prevedeva la riduzione delle truppe francesi in Africa a5000 soldati, la revisione della politica degli aiuti destinati ai paesi africani, e la

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stipulazione di contratti che riorganizzavano il flusso degli immigrati e il controllodella immigrazione illegale.

Il Nord Africa era uno dei luoghi nevralgici che gli Stati Uniti nonavrebbero omesso dai loro piani di influenza per l'importanza, sia strategica cheeconomica; il loro comportamento però, prima della caduta del sistemabipolare, fu un po' condizionato dai legami storici della Francia con i paesi dellazona, volevano infatti evitare qualsiasi rottura nel rapporto fra i membri dellaNATO, che avrebbe potuto indebolirla innanzi al blocco comunista.

Quando era stato eletto Ronald Reagan alla presidenza americana, lerelazioni fra Marocco e Stati Uniti si erano intensificate molto soprattutto con lacreazione del Rapid Deployment Force, necessaria per la politica americana nelMedio Oriente. Così le due parti il 27 maggio 1982 conclusero un accordo dimutua difesa. Il rapporto tra Marocco e Francia aveva già conosciuto undeterioramento a causa della campagna della sinistra francese contro larepressione, condotta dalla monarchia, delle manifestazioni popolari diCasablanca nel giugno 1981. Ma la scelta del Marocco di aderire all'accordocon gli USA arrivò soprattutto come reazione alla politica di F. Mitterrand che ilMarocco accusava di intromettersi nei suoi affari interni in seguito alladichiarazione fatta il 29 gennaio 1982, nella quale il presidente Mitterrand avevaaffermato il suo appoggio a un negoziato diretto fra Marocco e Polisario.

La Francia però non poté rinunciare così facilmente ai suoi interessi inMarocco, quindi l'anno dopo il presidente Mitterrand vi si recò in una visita incui, mettendo fine alle divergenze, reinstaurò i rapporti in modo solido econtinuo, facendo della Francia il primo difensore della politica del Marocco nelSahara Occidentale.

Gli USA, oltre alla collaborazione nel campo militare e della sicurezzaper la lotta contro il terrorismo, dopo l'11 settembre 2001, soprattutto conAlgeria e Marocco, nei ultimi anni hanno lanciato una politica che miraall'apertura dei mercati del Maghreb ai prodotti americani, all'aumento delvolume degli investimenti delle imprese petrolifere americane in Algeria e Libia(recentemente), e addirittura alla ricerca del petrolio nel territorio conteso fraMarocco e Fronte Polisario. Due imprese petrolifere infatti, TotalFinalElf(Francia) e Keer-McGee (USA) hanno cominciato la ricerca del petrolio nelterritorio del Sahara Occidentale occupato dal Marocco. Le Nazione Unitehanno sollevato la questione al Sottosegretario Generale per le questioni legali,Hans Corell, che ha risposto in una lettera al Consiglio di Sicurezza il 5 febbraio2002, affermando l'illegalità di questa esplorazione in un territorio contestatosenza il consenso della popolazione locale, e negando al Marocco la possibilitàdi concedere licenze per l'estrazione del petrolio. Era ovvio che il Maroccocercava di complicare la soluzione del conflitto coinvolgendo sia gli USA che laFrancia nello sfruttamento della ricchezza del Sahara .

" Non c'è amico né nemico per sempre ", sembrerebbe che questa siauna delle regole che hanno dominato le relazioni internazionali dopo il crollo delsistema bipolare. Nessuno avrebbe potuto immaginare che il Vietnam e gli StatiUniti avrebbero instaurato rapporti diplomatici normali, dopo quella lunga ostilità

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dovuta alla guerra tremenda negli anni '70, come nessuno avrebbe pensato divedere gli USA rimuovere con la forza il regime di Saddam Hussen, l'amico diuna volta, e la stessa cosa vale per il modificarsi dei rapporti fra Libia e paesidell'Occidente.

Il Governo francese, vedendo i suoi interessi minacciati nelle zone cheaveva sempre considerato dominio riservato (perché ex colonie), ha espresso ilsuo dissenso in modo chiaro in occasione della conclusione dell'accordocommerciale, nel gennaio 2003, fra Stati Uniti e Marocco, quando il ministrodelegato per il commercio estero, Francois Loos, ha avvertito che questoaccordo sarebbe stato incompatibile con i legami economici tra Regno delMarocco e UE .

Bernard Ravenel, esperto nelle questioni mediterranee, scrive: "Questaconcorrenza fra Francia e Stati Uniti per il Marocco non presenta che unaspetto di una competizione più generale che si estende a tutta l'Africa. IlMarocco tende a diventare con la Costa d'Avorio e il Camerun una delle zonepiù calde del confronto severo tra la Francia e gli Stati Uniti per il controllo deimercati africani ".

Perciò si può dire che la Francia, e quindi anche l'Europa, si sono messein una posizione che potrebbe condurle allo scontro, non necessariamentebellico, con gli Stati Uniti .

A questo punto, gli Stati Uniti hanno fatto i loro conti riguardo la regionedel Nord Africa e hanno dedotto che la modalità di risoluzione del conflitto nelSahara Occidentale potrebbe essere decisiva per i loro interessi futuri.

Gli Stati Uniti, che nel 1975 furono tra i principali alleati di Re Hassan II ei promotori insieme alla Francia dell'occupazione del Sahara Occidentale daparte del Marocco, senza però riconoscergli la sovranità sul territorio (comenessun altro Stato, del resto gliela riconosce), ora, coerentemente con i lorointeressi, per risolvere il conflitto sostengono la necessità di applicare lerisoluzioni delle Nazioni Unite, di rispettare il diritto di autodeterminazione deipopoli, sancito nella risoluzione storica 1514 (XV) del 1960, e di organizzare unreferendum in concordanza con le risoluzioni dell'ONU .

La possibilità per il popolo sahrawi di decidere in modo democratico etrasparente il suo futuro in armonia con le regole internazionali, rappresenta lasoluzione meno imbarazzante per gli USA nei confronti del loro amico storico, ilMarocco, in quanto si limitano a chiedere solo il rispetto delle risoluzioni delleNazioni Unite.

In realtà gli USA non vogliono abbandonare il Marocco, ma stannocercando una soluzione che possa conciliare i loro interessi con tutte le particoinvolte in modo diretto o indiretto nel conflitto, specialmente con l'Algeria,principale sostenitore del Polisario, con la quale il volume degli scambicommerciali è aumentato più che con qualsiasi altro paese del Maghreb. Inoltregli USA stanno anche valutando eventuali possibili vantaggi di uno Statoindipendente nel Sahara Occidentale, senza per questo perdere quelli esistenti

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con il Marocco. Quest'ultimo rimane sempre importante per loro perché èconsiderato il promotore del dialogo fra i paesi arabi e Israele, e perché lapresenza di una minoranza ebraica, tollerata in Marocco, ha valore per la lobbyebraica degli Stati Uniti.

La nomina dell'ex Segretario degli Affari Esteri americano James BakerIII nel 1997, come Inviato Personale del Segretario Generale delle NazioniUnite per la questione del Sahara Occidentale, dimostrò l'importanza che gliamericani attribuiscono alla regione del Nord Africa.

La Francia invece vede in una soluzione del genere una minaccia ai suoiinteressi: un referendum libero e trasparente per il popolo sahrawi porteràsicuramente alla creazione di uno Stato indipendente nel Sahara, con l'uso diuna lingua diversa da quella francese (lo spagnolo), a fianco di un'Algeriaconsiderata sempre un paese ribelle nei riguardi della politica francese e chepotrebbe essere più forte se il nuovo stato gli concedesse la possibilitàd'accesso all'Oceano Atlantico. Al contrario, se il Marocco riuscisse a integrareil territorio, questo garantirebbe alla Francia una continuità del "dominiofrancofono", chiuderebbe il cerchio intorno all'Algeria e condizionerebbe ilrapporto di quest'ultima con l'estero.

La politica della Francia nei confronti all'Algeria negli anni passati,provocò alla prima perdite enormi: davanti all'intransigenza della politicafrancese, l'Algeria si è rivolta agli Stati Uniti come essenziale partnereconomico, e siccome la Francia aveva perso le sue quote di petrolio chegestiva in Iraq prima dell'ultimo intervento americano, ha cercato di riprendere isuoi rapporti con l'Algeria che si è trovata nella condizione favorevole dinegoziare da una posizione forte.

La Spagna, ex amministratrice del territorio, è in una situazione scomodacon il Marocco riguardo la questione del Sahara: da una parte il Marocco fapressione sulla Spagna strumentalizzando la questione di Ceata e Melilla, latendenza separatista delle Isole delle Canarie (la Spagna teme un sostegnomarocchino ai separatisti), e il peso che riveste nell'economia spagnola lapesca sulle coste marocchine; mentre dall'altra parte, il Governo sta sotto lapressione dell'opinione pubblica spagnola favorevole alla causa del popolosaharawi, e questo giustifica la sua posizione ambigua che oscilla fra ilsostegno al Marocco e l'affermazione di essere favorevole a una soluzione cherispetti le risoluzione delle Nazioni Unite.

Accanto all'attuale potenza dominante, gli USA, due nuove forzeeconomiche gigantesche stanno conquistando quote enormi nei mercatimondiali e con il passare del tempo, grazie al loro peso economico, avrannoanche sicuramente un ruolo nella politica mondiale. Si tratta di Cina e India.Davanti ad uno scenario del genere l'Europa, che ora ha la sensazione diessere esclusa da qualsiasi ruolo importante nella politica mondiale, sarebbedel tutto emarginata in futuro se rimanesse chiusa in se stessa.

La necessità e l'emergenza potrebbero spingere l'Europa a cercare nuovialleati che, insieme, potrebbero giocare un ruolo importante nell'equilibrio

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mondiale, e per ragioni varie (geografiche, storiche, culturali, strategiche) ilfuturo la obbligherebbe ad avvicinarsi ai paesi arabi, musulmani e africani, perpoter affrontare le sfide che verranno.

L'iniziativa presentata da Zapatero, Primo Ministro Spagnolo, allariunione della Lega Araba ad Algeri, fra il 22 e il 23 marzo 2005, che porta ilnome di "Dialogo fra le Civiltà", non è altro che un invito mascherato rivoltoproprio a questi paesi dalla Comunità Europea.

I paesi del Nord Africa sono molto importanti per l'Europa, sia da unpunto di vista economico che per ragioni di sicurezza, quindi la stabilità diquesta zona costituisce un elemento vitale per il presente e il futuro dell'Europa.Però i piani della futura strategia americana, per garantire il flusso di petrolio,prevedono l'installazione di basi militari anche in questi paesi: un elenco didodici paesi che hanno il petrolio o sono situati a ridosso di grandi oleodotti olungo le rotte dei rifornimenti e che sono nel mirino della strategia americana.Fra questi figurano i seguenti Stati africani: Algeria, Camerun, Gabon, Sao Tomie Principe e Tunisia .

Le previsioni del dipartimento americano dell'energia indicano che entroil 2025 le zone di Golfo, Africa, e America Latina produrranno circa il 61% delprodotto mondiale, quindi saranno sicuramente oggetto della strategiaamericana che è sempre disposta a far di tutto pur di garantire il flusso dell'oronero .

La questione del Sahara Occidentale rimane uno degli principali elementiche destabilizzano la zona del Maghreb e impediscono l'integrazione regionalefra i suoi paesi.

La Comunità Europea è sempre (eccetto la Francia) a favore di unasoluzione accettata dalle due parti che rispetti il principio di autodeterminazionedel popolo sahrawi. L'Europa però non è mai arrivata al punto di prendereiniziative che potessero obbligare le parti a trovare una soluzione al conflitto, e imotivi sono tanti:

- l'esistenza di legami economici e turistici consistenti col Marocco.

- per alcuni paesi europei come Gran Bretagna, Francia e Spagna,ragioni di politica interna hanno impedito loro di tenere una posizione ferma afavore dell'autodeterminazione del popolo sahrawi. Quindi, per evitarequalsiasi incentivo ai movimenti che chiedono l'indipendenza in Irlanda delNord, Costarica, Paesi Baschi, questi Stati hanno preferito mantenere lasituazione del Sahara occidentale come è, oppure adottare una posizionepiuttosto ambigua e comunque favorevole al Marocco.

Ultimamente Francia e Spagna, i paesi dell'Europa più interessati allaquestione, hanno preso un'iniziativa finalizzata alla ricerca di una soluzione delconflitto e hanno invitato a partecipare anche l'Algeria e il Marocco (Incontro deiQuattro). Tale tentativo è fallito a causa del rifiuto dell'Algeria a partecipare,motivato dal fatto che i promotori avessero escluso una dalle parti direttamente

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implicate nel conflitto, cioè il Polisario, a cui le Nazioni Unite hanno sempre fattoriferimento come portavoce del popolo Sahrawi. Un'iniziativa miopecondizionata dall'egoismo dei suoi sponsor.

I paesi del Nord Africa sono molto importanti per l'Europa per la fornituradel petrolio e del gas che provengono da Algeria e Libia, anche per l'offerta dimano d'opera, e perché nello stesso tempo costituiscono una frontiera disicurezza. Quindi la stabilità della zona dovrebbe essere una priorità perl'Europa.

Davanti alla concorrenza mondiale, l'Europa dovrebbe capire che questipaesi sono nella condizione di valutare le offerte migliori che i colossi inconcorrenza sono disposti a concedere, e per questo dovrebbe fare sforzi versoquesti paesi:

- dare un contributo enorme per la stabilità politica della regione,tramite:

1. L'incoraggiamento di un processo vero per la democratizzazione ditutti i paesi componenti la zona, evitando l'esportazione forzata dei modelli chenon combaciano con i loro valori culturali e religiosi, affinchè non si dial'impressione che si tratti solo di un'invasione culturale;

2. L'incoraggiamento del processo di integrazione regionale delMaghreb, che richiede inevitabilmente la soluzione del problema del SaharaOccidentale, una soluzione che dovrebbe essere definitiva e giusta, secondo lenorme del diritto internazionale, e nel rispetto delle risoluzioni delle NazioniUnite.

- Contribuire allo sviluppo economico di questi paesi, e facilitare lorol'accesso alla tecnologia, che potrebbe anche risolvere il problemadell'immigrazione illegale verso l'Europa.

- Cercare di creare un rapporto volto alla mutua cooperazione,eliminando l'idea che questi paesi siano solo come fonti di materie prime.

- Questi paesi a loro volta devono:

- Accelerare il processo di democratizzazione, creando le condizionimigliori per garantire la libertà d'espressione e il rispetto dei diritti umani. Inoltreadeguare le leggi interne in modo che garantiscano la possibilità e la sicurezzaper le imprese e le persone straniere che vogliono investire nei loro paesi.

Collaborare con l'Europa nel campo della sicurezza (lotta contro ilterrorismo, traffico della droga, immigrazione illegale..).

LO STATO DEI DIRITTI

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Con l’avvio del conflitto, il Sahara occidentale è divenuto teatro direpressioni e violenze attuate dallo stato marocchino nei confronti dellepopolazioni saharawi.

Le violazioni dei diritti umani che sono oggi perpetrate in questi territoritrovano la loro genesi nell’invasione pianificata - e realizzata - dal Marocco nel1975. Da quel momento questo stato è divenuto il principale, forse unico,protagonista delle azioni che hanno scalfito la tutela e il rispetto dei dirittidell’uomo e delle sue libertà fondamentali in questa regione africana. Delleviolazioni, degli abusi e delle vessazioni sono state fornite numerose – einconfutabili – prove.

“Si tratta di arresti e processi arbitrari di uomini saharawi accusati difavoreggiare il Fronte Polisario, di torture e trattamenti inumani nei carceri diRabat, di assassini politici avvenuti soprattutto nelle zone occupate. Ogniattività associativa o politica è vietata ai pochi saharawi rimasti nei territorioccupati che sono, inoltre, assolutamente vietati alla stampa straniera. Moltisono i saharawi scomparsi durante gli anni di lotta armata di cui non si hannonotizie ma si pensa che alcuni siano ancora prigionieri del governo reale e altrisiano morti nelle fosse comuni ritrovate a Lamsayad e a Jdeyria o siano statilanciati da elicotteri in volo dall'esercito reale” [Lanfredi 2004]”.

Se il mancato rispetto delle risoluzioni Onu, delle convenzioni e delledichiarazioni sembra non alterare la volontà di Rabat di imporre il proprio“governo”, esso finisce per rendere più drammatica la condizione dellepopolazioni locali e, quindi, per rendere più coeso l’impegno della società civileinternazionale. Un impegno determinante e necessario che, però, non è ancorain grado di arginare l’asprezza con la quale vengono compiuti gli interventidell’esercito maghrebino.

Come documenta Amensty International (2006), tra il maggio e ildicembre del 2005, le dimostrazioni popolari a favore dell’indipendenza delpopolo saharawi sono state tutte sistematicamente sedate con la violenza. Unviolenza che, come dichiarato dai testimoni, è stata spesso gratuita edeccessiva. In queste occasioni sono state catturate centinaia di persone;mentre due sono morte, quando erano già sotto la custodia delle autorità. Ilricorso alla tortura e ai trattamenti degradanti nei confronti dei sostenitoridell’indipendenza del Sahara occidentale sembra essere ormai divenuta laprassi ben tollerata dai poteri di Rabat.

Se il caldo e la siccità sono le principali caratteristiche di una regionedove le aree arabili sono limitate, non si può non constatare che esiste ancheun contributo dato dal Marocco nel rendere questo ambiente ancora più ostileper i suoi popoli. Il patrimonio naturale del Sahara Occidentale è statoparzialmente distrutto dalle truppe marocchine - che per nutrirsi hanno cacciatodiverse specie di animali e abbattuto gran parte dei pochi alberi esistenti -; leForze Armate hanno avvelenato e distrutto diversi pozzi d'acqua nelle zone

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rurali del Sahara Occidentale - per obbligare così la popolazione a trasferirsinelle città, dove sarebbe stata più controllabile dall'esercito -.

Il Marocco ha poi esteso il suo controllo sulle “vecchie” (i fosfati e leriserve di pese) e le “nuove” (i giacimenti petroliferi) risorse naturali dellaregione.

Diritti delle donne

Lo stato dei diritti delle donne saharawi è molto diverso a seconda dellaprospettiva che si adotta per analizzarlo. Nei territori occupati, infatti, essecontinuano ad essere l’oggetto degli abusi e delle violenze da parte delle forzedi polizia e dai membri delle comunità di coloni marocchini.

Ben diverso è invece lo status che esse ricoprono all’interno della lorosocietà. Il ruolo che viene infatti attribuito ad una donna saharawi èdecisamente distante dal modello che ci si potrebbe aspettare di trovare in unacomunità islamica. Alle funzioni più tradizionali – legate all’istruzione e allatutela della cultura del suo popolo -, le sono attribuiti compiti rilevanti nelleattività produttive e nella vita civile.

Sul cambiamento del ruolo della donna ha avuto un effetto diretto lacondizione dell’esilio . Visto che la maggior parte degli uomini era impegnatanell’esercito del Fronte Polisario, le donne hanno finito per avere laresponsabilità primaria nell’organizzare e amministrare le “città” dei profughi.

Diritti dei bambini

Nei campi profughi saharawi, collocati nella regione desertica delTindouf, vivono più di 200.000 persone. Queste hanno cercato di restituire unadimensione “umana” ai luoghi nei quali sono costretti a vivere, strutturando icampi come fossero le città nelle quali avevano vissuto prima dell’invasionemarocchina del 1975.

Nonostante l’efficienza organizzativa – riscontrabile sia nei servizisanitari sia in quelli scolastici –, la vita dei profughi resta interamente dipendetedagli aiuti internazionali (recentemente ridotti). Così il 35% dei bambini soffre dimalnutrizione cronica, e il 13% di malnutrizione acuta. Sono inoltre aumentati ibambini in cui si registrano ritardi nella crescita.

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